artigianato

September 24, 2017 | Author: Marco Sironi | Category: Sardinia, Middle Ages, Rome
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La grafica e l’impaginazione sono state curate da Italo Curzio, Roma

Le foto dal n. l al n. 10 sono state eseguite da Fausto Cintura, quelle dal n. 11 al n. 150 sono state eseguite da Giulio Romano Pirozzi.

© Copyright 1983 by Carlo Delfino Editore – P.za d’Italia 11, Sassari.

Prefazione

Ho avuto modo di interessarmi e di scrivere sovente dell’artigianato e del folklore figurato della Sardegna, alla luce soprattutto dell’ambiente architettonico, costituito da case e da chiese, poichè anche il grosso dell’attività costruttiva nell’Isola, è essenzialmente arte popolare, non dovuta cioè a singole personalità, ma prodotto di un vasto e lento processo corale. Nel 1935, venne pubblicato il bel volume “Arte sarda” di G.V. Arata e G. Biasi, riccamente illustrato, un’esauriente rassegna, in tempo di piena euforia folkloristica, che stava, tra l’altro, equivocando sugli autentici valori delle arti popolari. Il libro portò una notevole schiarita nella confusione, grazie al notevole, selezionato materiale raccolto e all’autorità degli autori. E trascorso da allora quasi mezzo secolo, il libro, che era diventato una rarità bibliografica, è stato di recente ristampato. Ho pensato di riunire le mie annotazioni sparse in libri e riviste in un volume organico che, partendo da quest’opera che ritengo fondamentale e facendo tesoro delle conoscenze ed esperienze dell’ultimo quarantennio, offrise un quadro completo dell’artigianato di qualità fino ad oggi. Non soltanto storia, dunque, se storia si può chiamare la ricucitura delle incerte vicende che si perdono in un grandissimo arco di tempo, ma anche la registrazione di quanto si è dimostrato ancora valido. Se nel passato non ci furono vere scuole, ma si verificarono periodiche spinte da parte di persone colte, nobildonne e prelati, oggi esistono scuole, enti e provvidenze in favore dell’artigianato, che senza dubbio hanno proclastinato il suo declino, non solo, ma almeno in determinati campi, come quello dei tessuti, l’hanno vivificato con un notevole, sensibile apporto di modernità. Numerosi sono gli artisti che oggi affiancano gli artigiani veri e propri, ma è doveroso ricordarne due, di indiscussa competenza, Eugenio Tavolara, che non è più, ed Ubaldo Badas, i quali sollecitarono anche la creazione dell’ISOLA, il benemerito Ente regionale preposto all’artigianato. Partendo dall’architettura rustica, “tutta fatta a mano”, si contribuisce a chiarir meglio il rapporto tra architettura e artigianato, sia come svolgimento storico, sia come validità di quest’ultimo nell’arredo domestico. 7

I Sardi, non soltanto quelli dei centri minori, ma anche quelli di città, hanno conservato una mentalità artigiana: vogliono ancora la casa individuale, tutta per sè, esprimono desideri, sostanzialmente improntati a ricordi artigianeschi, al campomastro, che mantiene un prestigio di sapienza artigiana, col quale collaborano scalpellini, falegnami, fabbri, decoratori, ossia quei “maestri” che riteniamo i veri artigiani. Tutti costoro, con alla testa il capomastro –nonostante l’introduzione di tecniche e di materiali nuovi – sono ancora più vicini all’artigianato che all’industria: per la stragrande maggioranza dei casi, le case sarde sono, come si diceva, “fatte a mano”, poggiando su una esperienza artigiana. Nell’architettura della casa – così varia da contrada a contrada dell’Isola –la fantasia gioca entro schemi planimetrici e misurati spazi tradizionali e, s’intende, entro limiti, piuttosto angusti, di economia. Quando pensiamo alla casa, pensiamo a noi stessi dentro ad essa, assieme a quei determinati arredi, a quegli oggetti che sono ormai nel sangue. La tradizione è in sostanza la nostra inerzia, la quale – si sa, – tende alla conservazione delle forme, anche quando è scomparso il bisogno che l’aveva determinato. Basti pensare alla persistenza delle lo/le campidanesi, ambienti di filtro, disimpegno e soggiorno che caratterizzano quelle dimore, nate come tettoie per la protezione del bestiame addossate alla casa, e alla sopravvivenza del tipico cassone, di cui ogni sardo è ancor oggi geloso, anche se le destinazioni che ad esso attribuisce non sono proprio più quelle originarie, ed al “tappeto”, che nel passato non è stato mai tappeto, ma coperta da letto o copricassa. La sopravvivenza delle forme è più forte delle primarie ragioni pratiche: fenomeno questo comune a molti popoli, ma più spiccatamente accentuato in Sardegna; e pertanto, noi, anche quando possediamo una casa veramente moderna, non possiamo fare a meno di decorarla con manufatti del nostro artigianato: tappeti, arazzi, ceramiche, canestri ...... Un manufatto di artigianato non si può intendere in assoluto, facendo astrazione dell’ambiente che dovrà ospitano: così lo concepisce sempre l’artefice e lo sente sostanzialmente l’amatore, che trova subito una sua collocazione, anche se talvolta non è proprio quella per cui venne creato. La casa sarda è un meraviglioso prodotto di artigianato, che costituisce un tutt’uno con le cose che contiene, integrate, in un passato ancora recente, dai costumi degli abitatori. Basterà osservare che gli umili materiali sono identici: l’argilla del muratore, per i mattoni crudi, e quella del figulo, che forniva doccioni, acroteri, brocche ed orci; il ginepro e il castagno erano le essenze comuni per orditura di tetti, assiti, scale e mobili. Gli intagli delle 8

piantane, delle colonne e dei capitelli delle logge campidanesi e delle colonnine delle balconate montanare erano simili, perchè scalpellini ed intagliatori appartengono alla stessa famigla: gli uni e gli altri hanno ripreso, elaborandoli, motivi di architetture antiche chiesastiche. Certe forme sono state industrializzate: le tegole di Sill e di Segariu rivelano il timbro della mano, ma le brocche di Oristano, Assémini e Dorgali, che ricalcano antichissimi modelli, sembrano viceversa fatte a stampo. Si usavano gli stessi tipi di porta e di finestra nelle singole contrade, e gli striscioni di legno intagliato o graffito venivano venduti a metraggio, con motivi senza principio e senza fine. I muratori ricorrono ancora ad accorgimenti spesso geniali ed hanno il gusto del particolare (basta pensare ai fantasiosi comignoli, che hanno il valore di trofei per solennizzare la ultimazione della fabbrica), propri dell’artigiano. Quel senso di gaiezza che si avverte nelle case campidanesi, non appena varcato la soglia del portale che immette nel giardino fiorito, si avverte all’interno della dimora per l’originalità dell’arredamento. Dopo la casa, in Sardegna, viene per importanza, la chiesa: per essa l’artigiano ha compiuto lavori in collaborazione, spesso, con artefici forestieri. Ha prestato la sua opera all’erezione di magnifici altari lignei intagliati e dorati, soprattutto nel Settecento; ha creato sedie e panche priorali, mobili per cori e sagrestie, crocifissi e simulacri di legno. E meravigliosa è stata anche per le chiese l’opera degli argentari e delle donne, che ricamarono paramenti sacri e tovaglie d’altare. L’artigianato in Sardegna era occupazione di tutti, un’autentica passione, non sempre dettata da necessità. Non si spiegherebbe altrimenti il notevole apporto della donna che certamente non tesseva a scopo di lucro. Si pensi alla sua intelligente operosità: alla cestineria, alle trifle e alle tele ricamate, alla cura amorevole del cortile–giardino, articolato con ordine e gusto tutto artigianesco, alla confezione del pane e dei dolci fatta con religiosità, adoperando stampi mirabilmente intagliari e una raffinata coltelleria, si pensi alla fantasiosa modellazione della palma che dovrà per un anno decorare la spalliera del letto, accanto al crocifisso severo, e ravvolta di nodosi rosari. Ma il capolavoro della donna sarda è costituito da tappeto: esso è la più bella decorazione della casa, ed è singolare il fatto che i motivi prevalentemente geometrici si riscontrino nei paesi di montagna, dove la casa è d’una geometria meno rigorosa, mentre quelli di colore smagliante, di minuto e prezioso disegno, sono nati entro i grigii murati delle pianure meridionali, là dove le case sono di composizione più larga e cadenzata. 9

Negli ultimi decenni molti modi artigianali sono ormai scomparsi del tutto; dagli anni Trenta, allorchè il Biasi e l’Arata coglievano gli ultimi sprazzi di una vita serena ma cristallizzata, il progresso nell’Isola ha fatto passi veramente da gigante. La fatica dei due autori ha soprattutto un pregevole valore documentario. Le raccolte etnografiche erano allora, si pùò dire, in embrione. Oggi esistono varie raccolte pubbliche, donate da collezionisti privati: la sezione etnografica del Museo nazionale di Sassari (collezioni Castoldi – Bertolio e Clemente), il Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde di Nuoro ed il Museo delle Arti e tradizioni popolari di Roma. Tutti ben lungi dal rappresentare l’imponente attività artigiana dell’Isola. Si attendono ancora le sistemazioni di altre eccellenti collezioni, quali la Manconi–Passino e quelle di Amilcare Dallay (solo parzialmente esposta nel Museo di Sassari) e di Luigi Cocco.

Nel periodo compreso tra la fine della Grande Guerra e gli inizi degli anni Trenta, periodo contrassegnato da esaltazione delle qualità tradizionali dell’Isola, si verificarono certe deviazioni del gusto. Basti dire che si confuse il risultato dell’esposizione al fumo del cassone tenuto a lungo in cucina (“sa domo de su fumu”, la stanza del fumo), con il colore di esso che nero non era mai stato. Anzichè sangue d’agnello e succhi vegetali, impiegarono vernici gli inventori e i seguaci del cosidetto “stile sardo”, nero e lugubre. I motivi d’intaglio, ch’erano stati sempre ben dosati, dilagarono nella casa, soprattutto quello della gallinella e dell’uccello, ripetuti monotonamente fino all’ossessione: nei tavoli, nelle sedie, nei letti, negli armadi, nella suppellettile e persino nelle cornici di quadri che i Sardi non ebbero mai. Nato come filiazione del liberty, lo “stile sardo” ebbe successo per l’applicazione sterotipata di elementi floreali, d’intaglio, più o meno stilizzati. E dalla casa passò agli ambienti di rappresentanza dei palazzi pubblici, incoraggiato da burocrati forestieri, che della Sardegna tutto ignoravano. Oggi si lamentano le aberrazioni, forse maggiori, che popolano i numerosi empori di souvenirs, le quali non hanno niente a che fare con l’autentico artigianato sardo. Il vero stile sardo è quello della casa del villaggio; l’interpretazione e la trasposizione di elementi rustici nel mobilio della casa cittadina fu ed è un grosso equivoco, determinante un inquinamento del gusto. Il cassone nuziale, l’unico mobile veramente sardo, quello autentico, di belle proporzioni, di buona partitura e decorazione appropriata, come tutti gli oggetti di autentica arte, sta bene dovunque. Così, nella casa moderna, stanno bene le forme pure, genuine, di terracotta, ceramica, paglia e giunco: sia 10

quelle che conservano la primaria distinazione, sia quelle essenzialmente decorative, ricche di colore, come i tappeti e gli arazzi. La casa sarda dimostra chiaramente che la sua bellezza scaturisce da una necessità realizzata col minimo dispendio di energia: lo dimostrano i dosati ambienti ed i mobili; è il taglio solenne di questi e allo stesso tempo la loro semplicità ed essenzialità che li rende attuali. La severità non va confusa colla tetraggine: chè il nero è impiegato solo come necessario contrappunto, distribuito sempre nella giusta misura sia nei tappeti (i quali non si può dire che non siano piuttosto vivaci), sia nei cestini. Con la riproduzione fedele di antichi modelli e con la creazione di nuovi dovuti alla interpretazione di artisti d’oggi, la cui attività è volta all’arredo della casa e che dai primi si diparte, fino ad affrontare una scala inusitata (grandi tappeti di Sarule e di Nule, che ben possono inserirsi in altri temi moderni di architettura, oltre la casa), e con moduli affatto nuovi (cestineria, anzitutto, terracotta, ceramica, legni intagliati), si può dar luogo a un arredo di classe. Allorchè la nota folkloristica sisappia mantenere in sordina, le forme pure ed essenziali si inseriscono felicemente in qualunque ambiente moderno. Necessariamente, questo rinnovamento del gusto che si avverte in una dignità generale, impone un adeguato aggiornamento in estensione per i nuovi compiti che l’artigianato deve assolvere (e i già ricordati empori di souvenirs ne sono la riprova). Dopo le esperienze invero non felici, degli anni in cui imperversava il folklore, svolte su temi scaturiti al primo ingresso nell’Isola di involuzioni stilistiche, più che con la presenza di forme architettoniche, per l’influenza di certo gusto letterario, oggi, come si diceva, per merito degli artisti, come ebbe a verificarsi certamente nel passato, anche se non sono tramandati nomi di artefici di spiccata personalità, l’artigianato sardo ed il gusto generale rinnovato sono preparati per l’inserimento di valide forme di arredo e decorazione in un moderna architettura, non più essa artigianesca.

Fra le arti popolari europee, le produzioni di artigianato sardo si sono forse conservate le più pure: esse presentano, tutte, il timbro peculiare e inconfondibile della regione, suscitando sensazioni particolari, sia dal punto di vista visivo che tattile. L’arte popolare isolana, di cui si scorge un fondo lontano nelle manifestazioni della civiltà nuragica, ha beneficiato di flussi dei periodi succedutisi, in particolare quelli bizantino, romanico, rinascimentale e neo–classico, nonchè di periodi più recenti. 11

Le espressioni di pittura popolare sono, si può dire, pressocchè inesistenti, perchè non poterono avere riferimenti alla quasi assente pittura colta; a ciò aggiungasi la congeniale preferenza del disegno al colore, nonchè per le immagini aniconiche. La plastica ebbe invece esempi con continuità, a partire dai bronzetti nuragici, fino alle sculture puniche e romane, agli ornati bizantini e romanici; gli scalpellini catalani costituirono un’autentica scuola, sia per gli scalpellini che per gli intagliatori. Ha avuto un notevole sviluppo la plastica figulina e la plastica effimera (pani di festa, dolci, ex–voto di cera, ecc.). Il colore, tuttavia, non è stato assente: si pensi ai costumi e ai tappeti, i quali sono di tipo orientale sia per la tecnica che per la lavorazione, ma genuinamente sardi. I tappeti delle collezioni risalgono al più al sec. XVIII; essi ripetono motivi più antichi, che venivano tramandati da madre in figlia, i quali sono comuni anche ad altri popoli, motivi geometrici, rabeschi (mutuati forse tramite la Spagna) e motivi derivati dall’arte antica delle colture succedutesi. L’arte popolare come produzione autonoma non esiste; l’artigianato di qualità, anche se sembra un’attivitàschiettamente individuale, è frutto di collaborazione. Il fatto più evidente oggi è dato da quei grandi tappeti che escono da un unico telaio, ove lavorano contemporaneamente fino a sei tessitrici, battendo lo stesso ritmo. Il lavoro delle artigiane (una volta erano tutte, indistintamente, le donne sarde), emana un soffio di personalità, contro l’apparente uniformità determinata dal rispetto assoluto del ritmo: si pensi alla varietà dei tappeti, delle trifle e delle tele ricamate, delle infinite sfumature della cestineria. E in virtù della rigida osservanza dell’utilità funzionale posta a costume, che quando l’artigiano–artista ha avuto a portata di mano un gagliardo pezzo di legno di pero, o una zucca singolare o un bel corno, ha creato ancora cose egregie e valide, pur concedendo libertà alla propria fantasia, quasi come un divertimento, per fare un dono prezioso all’amico o agli sposi (una fiaschetta, una tabacchiera, un corno da caccia, un vassoio). I vasellai che fabbricavano i manufatti come fatti a stampo, si compiacevano la domenica o negli altri giorni non lavorativi, di imprimere un diverso ritmo alla ruota figulina, sfornando quelle anfora fantasiose che non ci stanchiamo di ammirare. Come nei secoli andati ci sono state le presenze vivificatrici, così gli artisti o gli artigiani, essi stessi artisti, continuano nel processo degli aggiornamenti. Il problema non è quello di ripetere all’infinito gli antichi modelli, ma occorre conservare o ritrovare l’antico linguaggio, per non ricadere nell’equivoco folkloristico di cui si è discorso. Sarebbe un vero peccato che il patrimonio d’un magistero sensibile andasse perduto, che l’artigianato si 12

ritrovasse costretto alla ripetizione di forme, per sopravvivere esso, essendo ormai da qualche tempo scomparsi i bisogni che quelle forme determinarono e che integre sopravvissero per singolari vicende storiche in cui l’Isola venne a trovarsi. Le illustrazioni del volume sono in gran parte immagini di manufatti recenti di un artigianato selezionato, mentre si rimanda al citato volume dell’Arata e del Biasi per le illustrazioni di manufatti più antichi, strettamente tradizionali. Si è preferito qui offrire un panorama della “nuova tradizione”, utilizzando l’archivio fotografico dell’I.S.O.L.A., a cui si deve la pubblicazione del volume, ricorrendo il venticinquesimo anno dalla sua istituzione. Vico Mossa

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ARCHITETTURA RUSTICA

La casa sarda del contado, l’ambiente confortevole della famiglia, era, fino a non molto tempo addietro, il contenitore delle cose necessarie alla vita quotidiana, cioè delle produzioni artigianali di cui ci occuperemo. Per questo, soprattutto, e perchè essa stessa produzione di artigianato, iniziamo con l’analizzare l’architettura domestica come andò lentamente sviluppandosi fino alla prima metà del presente secolo, allorchè si è verificato un diffuso processo accelerato di aggiornamento. Dato che da quella svolta non è trascorso molto tempo e che un buon numero di esemplari di casa tradizionali forma i centri abitati, appare legittimo usare ancora l’indicativo presente. In Sardegna, le vicende dell’architettura domestica del contado si indentificano con le vicende dell’architettura rustica, costituendo essa il grosso dell’attività edificatoria; le città, d’altra parte, sono poche ed anch’esse, in parte, di origine contadina. Lo sfondo è quello di una economica agricola e pastorale, singolare e statica, in cui si crogiuola il villaggio, anch’esso di struttura singolare, in forme sempre più eccentrate. Con lo spopolamento delle coste, iniziato alla caduta dell’Impero romano e proseguito sempre più intensamente nei secoli successivi, si spensero gradatamente le attività marinare e commerciali; salvo la parentesi genovesepisana e sporadiche attività estrattive in aree circoscritte, dall’Alto Medioevo e per lunghi secoli, si può parlare soltanto di una economia agricolo-pastorale e di attività artigianali ad essa connesse. L’impianto fenicio–punico delle città nelle coste sud–occidentali non aveva influito sull’insediamento disperso e sull’architettura delle popolazioni nuragiche. Un arabesco continuo di muri curvilinei e di costruzioni a pianta circolare più o meno poderose caratterizzava, infatti, in modo curioso il territorio dell’Isola avanti la penetrazione romana: le popolazioni nuragiche erano giudicate dagli scrittori greci incapaci a edificare città. La vita, comunque, si svolgeva in prevalenza all’aperto; il nuraghe e la capanna nuragica servivano come difesa e riparo all’uomo, per proteggere i suoi animali e le sue cose. Con la dominazione romana, l’arabesco finì per dissolversi lentamente nell’intrico dei boschi e delle macchie cespugliose. 17

I Romani incoraggiarono la formazione e l’incremento di villae, vici e pagi nelle zone più fertili, ma per la scarsa entità di organici scavi archeologici attinenti quel periodo, non ci è dato apprezzare il grado di evoluzione di quelle costruzioni dell’interno (mentre gli scavi che si stanno effettuando nelle aree delle antiche città costiere ci attestano di evolute ed opulente dimore), nè sappiamo, per le stesse ragioni, molto di più circa le forme architettoniche dei complessi edilizi che sorsero nelle donnicalie medioevali, di cui ai documenti scritti del tempo, e che reale diffusione e distribuzione abbiano avuto nel territorio isolano. Poichè non appare verosimile una degradazione nei secoli che seguirono, se non altro dal punto di vista della distribuzione degli ambienti, dobbiamo immaginarci quelle costruzioni del contado elementari, formate da pochi vani gravitanti attorno ad uno più vasto, la cosidetta “cucina”, quel nucleo cioè della casa monocellulare che si è andato trascinando in alcune zone più depresse, si può dire, fino ai nostri giorni. Un’evoluzione più avanzata dovette certamente verificarsi nelle pianure meridionali molto prima rispetto alle zone interne dell’Isola, in quanto le prime ebbero più frequenti e stabili contatti sin dall’età preromana. Ciò è dovuto anche al fatto che lo sviluppo della casa del contado è legato all’ambiente pedologico, che nel Campidano è assai più favorevole che altrove. E qui che troviamo infatti la più compiuta espressione architettonica, giunta fino a noi attraverso una lenta, ma progressiva evoluzione. Le popolazioni dell’interno, degli altipiani e delle montagne, abbandonarono molto tardi la dimora circolare e sentirono assai più a lungo delle altre, per fenomeno atavico, la spazialità, interna ed esterna, dei villaggi nuragici. Il pastore barbaricino si può dire che la senta ancora, giacchè la pin netta, la dimora temporanea e qualche volta stabile, ricalca la forma delle capanne circolari che formavano il villaggio attorno alla mole nuragica. E caratteristica questa proiezione lontana nelle campagne, del villaggio montanaro: e se da un lato la capanna favorisce l’isolamento individuale, che al Sardo è congeniale, dall’altro la dobbiamo considerare come un’autentica appendice del centro abitato, perchè a esso legata socialmente ed economicamente. Spesso questa dimora “temporanea” la troviamo in prossimità del villaggio, dove si istituisce l’ovile, cioè il posto di lavoro; il decentramento, più o meno lontano, è determinato da uno stato di necessità (transumanza): decentramento che invece non riscontriamo mai nelle borgate ad economia agricola, dove troviamo addensati i recinti, che riuniscono assieme uomini, animali e attrezzi da lavoro, qualsiasi risulti la distanza dai campi da coltivare. La tendenza ad allontanare i rustici dalla dimora vera e propria, sempre 18

però nell’ambito del recinto, l’avvertiamo chiaramente nell’evolversi della casa di pianura; alla promiscuità subentra man mano la distinzione tra dimora umana e ambienti, tettoie e steccati per il riparo del bestiame e degli attrezzi da lavoro, dilatando sempre più il recinto, senza però accennare a romperlo. Nell’Ottocento si giunge a una purezza della casa, il cui elemento caratteristico è – come vedremo – la lolla, il portico antistante, che ha avuto origine dalla tettoia–riparo addossata ad essa per la protezione del bestiame bovino, ed il cortile, diventato parte inscindibile, architettonicamente, si trasforma poco per volta in giardino. La tipologia della casa del contado è in Sardegna oltremodo varia, sì che resta difficile fare una rigorosa e allo stesso tempo chiara classifica. Ci limitiamo a ricordare soltanto i tipi fondamentali, rimandando a più ampie trattazioni attinenti l’aspetto geografico–insediativo e soffermandoci invece là dove scorgiamo uno sforzo di quasi–arte. Di arte vera e propria non possiamo mai parlare, in quanto in Sardegna mancano esempi in cui si senta la presenza di personalità, a differenza di quanto è avvenuto in altre regioni italiane anche per l’architettura del contado. Occorre aggiungere che il termine col quale spesso si classificano queste espressioni popolari, “architetture spontanee”, è improprio, perchè tutta l’arte è spontanea. Esempi di architettura rurale o rustica in cui si possa avvertire la presenza dell’architetto, nel passato non se ne sono avuti o non sono giunti fino a noi; occorre arrivare al presente secolo. E lecito, però, pensare a uno “spirito ordinatore”, che in vari periodi del passato, facendo tesoro di pallidi riflessi culturali, abbia contribuito ad elaborare modelli: ripetuti e interpretati dall’estro di “maestri di muro”, essi possono legittimamente inserirsi in quel corpus di espressioni popolari, fresche e genuine, denominate architetture mediterranee. La dimora sarda entra degnamente nel fenomeno costruttivo della casa mediterranea, anche se per vicende storiche, come già le espressioni architettoniche dell’antica civiltà nuragica, ha avuto uno sviluppo autonomo, anche se la si giudica inattuale, per non assolvere più la precisa funzione di casa rurale, giusta l’accezione del termine. Ma essa risulta estremamente interessante se consederata nel suo ruolo storico, come cellula in evoluzione nel tessuto urbanistico conservatosi medioevale, il villaggio, improntato ad una economia chiusa, di autosufficienza e di difesa assieme, determinato da dolorose vicende secolari. Il più delle volte la casa viene innalzata al posto di un’altra vetusta “stanca di vivere”: e questa insistenza su lotti di antica formazione che contribuisce a rendere stagnante la trama urbanistica. E mentre il villaggio di pianura, pur ricco e vario all’interno dei recinti che lo formano, appare come di 19

aspetto stagnante, piuttosto monotono, quelli di collina e di montagna acquistano di vivacità man mano che si elevano di quota, per la disposizione a quinte, sul terreno accidentato, delle case che si proiettano sulle strade e sulle piazzette con le aperture, gli sporti, le ampie balconate pensili, i rampanti delle scale esterne. Essi riflettono anche una vita comunitaria diversa, più chiusa il primo, più aperta gli altri. Caratteristica comune alla casa di pianura e a quella di montagna è che esse sono organismi che di rado nascono in una sola volta, ma si sviluppano con le esigenze, con la crescita delle unità familiari, in dipendenza di una buona annata. Pertanto, i volumi e le forme acquistano varietà e la costruzione non risulta mai un’entità geometrica, conclusa. E sorprendente lo spazio interno, sia per la misurata articolazione, sia per la sapiente utilizzazione: specie le dimore più modeste colpiscono per l’organizzazione di tutto quanto è necessario, che si traduce in un armonico risultato fra esterno e interno. Foma e funzione si identificano: è questa qualità architettonica fondamentale che rende le dimore sarde ancor piacevoli. Importanza hanno avuto, necessariamente, i materiali a disposizione: il mattone crudo, impiegato nelle pianure, povere di materiale litico, ha condizionato le costruzioni in altezza; la varietà delle pietre (tufi calcarei e vulcanici, basalti, graniti, trachiti, scisti) nelle altre zone ha favorito, oltre le case in altezza, una varietà di espressione esterna: talvolta, il diverso materiale e 1’ opus bastano a differenziare dimore aventi schemi distributivi pressochè identici.

Come si è accennato, non conosciamo con esattezza come fossero strutturati e articolati i centri agricoli nel periodo giudicale, succeduto alla dominazione romana e all’amministrazione bizantina. Dalla presenza di ruderi di scarsa entità e dalla documentazione dei condaghes, possiamo solo farci l’idea della distribuzione planimetrica dei complessi edilizi delle donnicalie, edificati in vicinanza di chiese, costituiti dalla domus, l’abitazione vera e propria del maggiorente, da magazzini e dalle pertinenze per la servitù e per gli addetti ai lavori agricoli, all’allevamento del bestiame e alla lavorazione del latte, del lino e della lana. Le donnicalie sono espressione del latifondo che si estrinseca in forme di tipo curtense, dominate spesso dalla presenza d’uno o più nuraghi adibiti a deposito di derrate, alla guisa di moderni silos. Dobbiamo immaginare dei corpi di fabbrica semplici, ma non abbiamo – almeno fin ora – elementi onde poter giudicare circa le qualità architettoniche di essi, che per altro non dovevano essere dissimili dai nuclei degli odierni 20

villaggi. I nomi di Donigala Fenughedu, Donigala Siurgus e della Donigala ogliastrina denunciano l’origine di detti villaggi da altrettante donnicalie, in forme di agglomerato andato sempre più addensandosi. Forse, maggior interesse architettonico presentavano le costruzioni rustiche annesse ai complessi abbaziali, innalzati dagli ordini monastici che promossero le prime opere di bonifica, come fecero i Camaldolesi a Plaiano (Sassari) e poi a Saccárgia (Codrongianus) ed i Vallombrosani a Salvenero (Ploaghe). Anche in queste località, i ruderi sono di modesta entità ed il ricordo è costituito, si può dire, soltanto dalle magnifiche chiese sopravvissute. Dobbiamo, pertanto, documentarci su quanto offrono i villaggi attuali ed una ricostruzione del processo evolutivo resta ancora agevole farsi attraverso numerosi esempi cristallizzatisi negli stadi intermedi. Si individuano nell’Isola, fra numerose forme, cinque tipi fondamentali di casa, di contadini e di pastori: elementare, con cortile chiuso, con cortile retrostante, in profondità e in altezza con balconate lignee. Il primo tipo si trova nelle zone periferiche (Gallura, Anglona, Nurra e regione sassarese, Sulcis, Sàrrabus), nonchè negli a1tipiani centrali. La casa con cortile chiuso è tipica del Campidano, con varianti locali nella Trexenta, nella Marmilla, nei villaggi alla foce del Flumendosa e nell’arco costiero del golfo di Cagliari, fino a Teulada. Ai confini settentrionali del Campidano si è localizzata la casa in profondità. In più vasta area, la casa in altezza, caratterizzata da balconate lignee, è tipica delle borgate montanare (Sardegna centro–orientale, con incuneamenti nel Montiferro, nel Goceano e in Gallura). Lungo la valle del Tirso confluiscono tutti e cinque tipi, oltre ad altri interessanti tipi intermedi di saldatura, elaborati soprattutto nella decorazione, per la presenza ivi di ottime pietre e di buoni lapicidi. Nelle zone periferiche, ad insediamento disperso, la casa elementare è di estrazione relativamente recente, perchè riferibile a un fenomeno spontaneo sei–settecentesco (stazzi, cui/i, furriadroxius, baccilÒ. una casa elementare, ma diversa da quella che dette origini ai diversi tipi, la domus, in quanto caratterizzata da una pura linearità e per l’isolamento dalle pertinenze rustiche, disposte attorno, che sono oltremodo singolari nelle diverse zone. La Nurra e la Gallura in particolare sono ricche di costruzioni accessorie, nelle quali prevale l’andamento curvilineo, in contrasto col lindo corpo di fabbrica racchiudente una o più dimore affiancate. E una forma elementare pura, con strutture murarie semplicissime, dalla quale sporge solo il forno col fumaiolo, in comunicazione all’interno con la casa manna, la camera grande, ossia la “cucina”. Gli altri ambienti, giustapposti da un lato, sono camere o magazzini. 21

La forma elementare antica, che riscontriamo un pò dappertutto e che ha dato luogo alle forme complesse in tempi e zone diversi, era ed è rimasta ancora contaminata dai locali per la stabulazione e per il riparo degli attrezzi agricoli–pastorali. In alcune zone marginali è dato ancora osservare – per un fenomeno di cristallizzazione – gli stadi che hanno portato alla formazione della casa isolana. La dimora e i rustici sono disarticolati, il forno a palla o dal profilo parabolico è isolato, e così il pozzo, attorno all’aia antistante, recinta da basse muricce a secco; la tettoia–riparo per il bestiame addossata alla dimora, unicellulare o formata dalla “cucina” e da pochi altri ambienti. Gradatamente e lentamente, il complesso si è andato organizzando, in modo da isolarsi completamente dalla strada e dai vicini con muri alti e ciechi, in lotti quadrangolari tendenti sempre più a dilatarsi e a regolarizzarsi in forme rettangolari, in guisa che la dimora risultasse a cavallo dei due spazi liberi, quello retrostante in genere destinato ad orto e quello antistante, più vasto, a cortile, disponendo i rustici (tettoie) lungo il lato di questo su strada ed anche sugli altri due lati. Il recinto è in comunicazione con la strada per mezzo di un unico ingresso carraio, protetto da tettoia all’interno, quasi sempre centinato e di norma a tutto sesto, di misura tale da potervi transitatre il carro col tettuccio a botte, fatto da canna spaccata e tessuta (Ióscia). L’originaria tettoia, sorretta da piantane di ginepro, addossata alla dimora, per la protezione del bestiame bovino, si trasformò gradatamente nella caratteristica loggia (Io/la), l’ambiente che caratterizza la casa. Il forno venne sempre più attratto da questa, fino a diventare un’appendice della “cucina”, che occupa di regola un’estremità del corpo di fabbrica che diaframma i cortili. Altrettanto avvenne per il pozzo, non più scavato in un punto a caso, ma in prossimità dell’ingresso alla loggia o, molto spesso, in comunione col vicino (funtana a mIgias, corruzione dello spagnolo a mIdyas, a metà). Ciò che sorprende, negli esemplari più progrediti, è il rapporto, voluto o casuale, col quale il corpo di fabbrica divide il lotto e la correlazione, pressochè costante, tra ampiezza della casa e profondità del cortile anteriore, che consente sempre a chi varca la soglia del portale, di godere una riposante prospettiva della casa affacciantesi sul cortile ingentilito da aiuole, linda, serena e civettuola. Contrasta il muro esterno del recinto, alto, cieco e grigio, per l’impiego del mattone crudo senza intonaco, col prospetto “interno” della casa, bianca di calce o arricchita da decorazioni cromatiche, con la zona basamentale chiaroscurata dalla loggia variamente modulata da spartiti architettonici architravati o arcuati. Attraverso esemplari superstiti, soprattutto nelle borgate attorno a Cagliari, si può osservare lo sviluppo degli elementi 22

architettonici: dalle semplici piantane, si è passati ai pilastri lignei intagliati e decorati con figure di animali e geometriche, dipinti anche a vivaci colori, poggianti su bassi muretti e sormontati da capitelli a stampella, reggenti le travi, pur esse decorate, e l’incannucciato fresco del tetto; indi a pilastri in muratura, prima massicci, poi eleganti, collegati ancora da travature lignee, ed infine, a spartiti arcuati, a tutto sesto, ribassati, ellitici. La loggia, che si estende di norma per tutta la lunghezza del corpo di fabbrica, diaframma la luce intensa che illumina gli ambienti retrostanti a pianterreno, costituisce il disimpegno, l’ambiente principale della casa: in essa, arredata da numerose sedie basse e anticamente da panche, s’incontrano mezzadri e amici; le donne tessono e ricamano, i bimbi fanno i primi giochi; si purgano il grano e i cereali, si ripongono gli incannucciati per il dissecamento dei pomodori, delle mandorle e delle noci, si appendono rosari di uvapassa, trofei di zucche. Qualche volta, in un angolo è allogato il torchio o si allineano cilindri di canna tessuta, per il deposito dei cereali, quando la casa non ha un ambiente apposito od il piano superiore a ciò riservato (sobáriu). E soprattutto il ritmo achitettonico della loggia, con le innumerevoli modulazioni del tema, a generare il timbro fondamentale che differenzia la dimora campidanese da tutte le altre. Altro elemento caratteristico è il forno a palla, a vista o riparato da tettoria, ubicato nel cortile anteriore o in quello posteriore. La “cucina” è un ambiente caldo per l’arredo che impegna tutte le pareti; sussidiaria è la stanza destinata esclusivamente agli utensili di fieno, corbe e canestri, di varie forme e dimensioni. Sparito del tutto è l’ambiente della mola, attorno a cui il somarello girava tutto il giorno, battendo il monotono ritmo domestico. Le camere da letto, da scarse che erano, sono andate sempre più aumentando di numero, e una di esse è riservata sempre all’ospite: distribuite, prima, solo a pianterreno, poi, in epoca a noi vicina, anche nel piano superiore, un tempo adibito esclusivamente a deposito di derrate. Nel secolo XVIII, come risulta da un documento del 1758, la casa della pianura campidanese aveva raggiunto la sua compiutezza, conservando un elemento caratteristico, il pendenti i, un corridoio coperto retrostante alla cucina, che la diaframma dall’orto, ricordo del primo espandersi della domus, della dimora monocellulare. Nell’Ottocento e nei primi decenni del presente secolo, la casa ha continuato a darsi un ordine sempre maggiore, con una migliore organizzazione dei rustici, guadagnando terreno a favore del giardino, denso e compatto, nella parte anteriore. La casa, sia la minima del bracciante che quella del ricco possidente, accentua sempre più il carattere di gaiezza e di signorilità; 23

il giardino viene curato con amore e, attraverso gli spiragli del portale, l’esplosione dei fiori a primavera fa dimenticare il grigiore dei murati esterni. Si riteneva che la casa a recinto chiuso del Campidano fosse derivata dal cavaedium etrusco o dalla casa pompeiana, od anche dal patio spagnolo, ipotesi quest’ultima che sembrava più verosimile, in quanto la maggior elaborazione avvenne in tempi di dominazione aragonese e spagnola: studi recenti hanno però dimostrato che essa si è formata autonomamente, senza sensibili apporti esterni, per gradi, affinando sempre più lo schema. Per la individuazione dei successivi stadi che, nella lenta evoluzione, hanno portato alle soluzioni architettoniche giunte fino a noi, sono di buon ausilio la nomenclatura popolare, la terminologia e l’etimologia in lingua sarda; fra le voci che ricorrono più di frequente, ricordo domus, che al singolare indica la casa monocellulare, mentre is domus, al plurale (camp.), indica la casa formata da due o più ambienti; la voce stáulu (portico) indica il riparo addossato alla dimora per la stabulazione e ricorda l’origine della lo/la (dall’italiano “loggia”); il pandenti (dal latino pandò, ere) ricorda l’embrionale espansione della dimora monocellulare collegata al cortile. La voce patiu, il cui uso è ristretto all’area del sassarese, ha indotto qualche studioso a credere di origine spagnola il cortile con la loggia, mentre in Campidano essa voce è sconosciuta. Il villaggio di pianura è pertanto formato da vasti isolati composti da lotti per la maggior parte quadrangolari profondi, molto ampi, con orientamento in prevalenza sud–sudest. Il tessuto stradale però non è affatto regolare ed è facile imbattersi in strade cosidette “saracene”, vicoli ciechi residenziali conformati a denti di sega. Eccezione costituivano le botteghe artigiane, complementari all’attività agricola: le botteghe del carpentiere, del fabbro, del bottaro, del sellaio, ecc. prospettavano direttamente su strada, dando vita ad essa, aventi però sempre il cortile a fianco o retrostante, nel quale era ubicata l’abitazione dell’artigiano. Quando il cortile non era sufficientemente grande, in apposito spazio esterno, in prossimità della bottega del fabbro era il monumentale castello per ferrare ibuoi eicavalli. Gli isolati ruotavano attorno alla chiesa parrocchiale, nel cui piazzale si svolgeva la vita comunitaria, collettiva, mentre il “vicinato” rompeva l’isolamento, molte volte apparente, nei recinti chiusi. E se pensiamo all’organizzazione agricola, quale giunse fino al periodo dell’amministrazione piemontese, scorgiamo un’intesa comunitaria che sorprende, in quanto il villaggio era organizzato, come si è accennato, in forma autarchica, di autosufficienza 24

e di difesa assieme, attraverso l’istituzione del vidazzone e del paberi/e. Si ha anche notizia di una collaborazione edilizia, di mutua assistenza e collaborazione nell’innalzare le case. Nella Marmilla la casa si eleva, in quanto lo consente il suolo di sedime ed il materiale da costruzione (da rocce calcaree, marnose e basaltiche). Come nel limitrofo Campidano, è frequente la soluzione con dopppia fila di stanze, mentre i diversi moduli della lo/la conferiscono alla casa un clima particolare. Nel Seicento fu influenzata da un’architettura colta, elaborata nella spaziatura e nella decorazione. Nella vicina Trexenta, invece, si perdono i valori ritmici del Campidano e della Marmilla, e la costruzione si fa meno caratterizzata. Nei villaggi del Sárrabus alla foce del Flumendosa (Muravera, San Vito e Villaputzu) il loggiato è talvolta doppio, servendo quello superiore come disimpegno per la conservazione dei prodotti agricoli. ATeulada, i lotti hanno il lato più lungo parallelo alla strada, con l’ingresso carraio che immette nel cortile rustico distinto dal portaletto che immette nel piccolo giardino antistante la casa, che si svolge spesso con pianta ad L; il forno, il pozzo e l’abbeveratorio sono di norma nel cortile rustico, che è separato dal giardino da un incannucciato o da un basso muretto. La casa di Cabras e dei villaggi dell’alto Oristanese si differenzia notevolmente rispetto a quella del limitrofo Campidano: ha il prospetto su una strada e cortile retrostante, con passo carraio a un lato. Nel cortile sono tettoie rustiche per gli animali e gli attrezzi da lavoro, il pozzo e il forno, appendice della cucina. L’ingresso alla casa denuncia un asse di simmetria, rispettato solo al pianterreno. L’ambiente caratteristico è la “sala”, vasta, centrale, acciottolata nel mezzo, comunicante col cortile per mezzo d’un piccolo vano, detto picca. Da una parte è la stanza per ricevere e la cucina, dall’altra due camere o due alcove. Le costruzioni son anche qui in mattoni crudi, a solo pianterreno o parzialmente sopraelevate in corrispondenza d’una delle ali che fiancheggiano la sala. Il gioco volumetrico, frequente, caratterizza la strada. I prospetti sono semplici, ma ben proporzionati e le piccole aperture sono contornate da mostre in arenaria del Sinis, finemente chiaroscurate e decorate. Una singolare appendice di Cabras è costituita dall’agglomerato attorno alla chiesa ipogeica di San Salvatore, formato da casupole che vengono abitate nei periodi dei lavori agricoli. Le casette, articolate in profondità, sono dotate anche di cortiletto. E un villaggio temporaneo fra i più estesi, di origine religiosa (le cumbessIas o muristenes sono tipiche dell’Isola): lo ricordiamo perchè è dei più antichi, ma l’usanza di soggiornare durante i lavori agricoli in campagna è estesa a diverse località dell’Isola, dotate di piccole case di cam25

pagna, che servono anche per un soggiorno estivo–autunnale: come avviene nell’agro sassarese, nel Bosano e nelle isole di San Pietro e di Sant’Antioco. La casa in profondità del Montiferro non presenta spiccate qualità architettoniche, all’infuori della caratteristica planimetria degli ambienti distribuiti in un lotto stretto e profondo, con cortile retrostante senza comunicazione diretta con la strada: attraverso l’ingresso e la vasta cucina, su una guida di pietre, passavano il cavallo e l’asino che stabulavano nel cortile. Le pecore stanno negli ovili (incomincia a far capolino qui la pinnetta del pastore) ed i buoi si tengono in recinti periferici all’abitato. Il pergolato d’uva è un elemento comune a molte località dell’Isola, sia esso su strada o dalle parte del cortile. E esterno, frequentissimo, nei villaggi del Montiferro e della Planárgia ed ombreggia, in prossimità del portaletto d’ingresso, i montatoi, che servono anche per la siesta. Dopo la casa campidanese, per carattere e per la vastità dell’area in cui si è sviluppata, segue in ordine d’interesse la casa montanara sviluppata in altezza, dotata di ampi loggiati lignei. L’ascendenza di queste strutture è da ascrivere ai secoli XIV–XV; l’uso dei ballatoi fu introdotto nell’Isola nelle città di Cagliari e Sassari, dai Pisani. I villaggi montanari hanno un’economia essenzialmente pastorale e, a causa del nomadismo dei pastori, per buona parte dell’anno sono popolati da donne, vecchi e bambini. Il villaggio è formato da strade anguste e tortuose in pendenza, andato addensandosi per la saldatura di originari piccoli nuclei staccati, detti “rioni”. La casa si proietta sulla strada, in cerca di sole e di luce; attraverso le aperture e gli ampi ballatoi filtra la vita della comunità pastorale. Il fenomeno della transumanza, attestato sin dal Quattrocento da documenti, determinò una specie di matriarcato, una comunità composta prevalentemente da donne, che trovano nella strada e nelle logge, più che nella casa chiusa, compagnia reciproca, aiuto e difesa. La presenza della balconata non esclude tuttavia il cortile, pur minimo, per la catasta della legna, la stalla, gli alveari. A pianterreno era un portico, detto Iósgia, per il riparo delle capre e dei buoi, elemento che si è trasformato successivamente in un ambiente chiuso; adiacente sta il fándagu, ambiente adibito a magazzino, stalla per il maiale, ecc. Mentre nelle zone collinari, la scala è esterna e conferisce sapore alla dimora, in montagna è interna. Al piano superiore le camere si aprono nei ballatoi: stanze sono adibite alla conservazione dei formaggi e dei latticini, disposti su larghe tavole; la cucina, che è spesso al piano superiore (in comunicazione con la Iósgia mediante scale), oltre al foghile, il focolare tradizionale, ha il camino, con sedili ai lati. 26

Sopra il focolare è sospeso un graticcio di legno, ad altezza d’uomo, per affumicare il formaggio. Alle pareti sono in mostra padelle di rame, graticole, spiedi, paioli, tripodi, canestri e corbe di giunco e di asfodelo, recipienti ed oggetti di sughero e di cuoio, bisacce e fucili. In alcuni villaggi, come ad esempio ad Aritzo, il forno aggetta sulla balconata e ha la bocca nella stessa cucina, che talvolta (nel Nuorese) è enorme, poichè in essa si riceve, si pranza e vi dormono i servi. Però è diffusa anche la sala, ove campeggia un grande canterano con in alto lo specchio, e molte sedie attorno. Le case dei nobili e dei maggiorenti hanno portoncino ad arco, logge in muratura, finestra a mezzaluna. Che i ballatoi lignei abbiano avuto origine colta, cittadina, è comprovato dal modulo dei montanti, dalla finezza d’intaglio e di tornio della colonnine. Come la loggia campidanese caratterizza architettonicamente la dimora, così le balconate lignee, ad uno o più piani, caratterizzano la casa montanara. Le ombre violente sulla massiccia zona basamentale e i chiaroscuri delle logge modulano le facciate disposte a quinte e, pertanto, il villaggio si presenta gaio e vario. Note di colore costituiscono le mostre vivaci dipinte attorno alle aperture (bianco, celestino) ed i vasi di fiori sui ballatoi. I ballatoi sono quasi scomparsi in questi ultimi anni. Ai tipi fondamentali esaminati convergono sottotipi e s’intrecciano schemi e modi con una varietà che veramente sorprende: ogni subregione storicogeografica si può dire che abbia adottato un particolare tipo di dimora. Accenniamo brevemente alle soluzioni più salienti. La casa ogliastrina, di derivazione montanara, è sviluppata in altezza, improntata a grande semplicità, perchè priva di sporti e di balconate. Nel Nuorese e nelle Baronie, in aree circoscritte, rimangono ancora esemplari di corti collettive. I quartieri bassi della vecchia Sassari, che erano abitati da contadini, erano strutturati in corti o campi all’uso toscano: nell’intricata maglia urbanistica, si leggono ancor oggi quegli spazi comuni. Nella Planárgia, la tettatura delle case si distingue da tutte le altre zone dell’interno: i tetti affiancati costituiscono un’eccezione per le case rustiche, qui evidentemente influenzate dal linguaggio marinaro della vicina Bosa. La forma del palattu, di origine cittadina, tipica del Meilogu e del Sassarese, si incontra un pò in tutta l’Isola, perchè nei secoli a noi vicini si è andata generalizzando: è la casa del contadino abbiente, che vuole abbinare le comodità “cittadine” con le necessità della casa del contado; essa è sempre dotata di corte retrostante piuttosto vasta. Consta di due ambienti a pianterreno e di due ambienti al piano superiore, con scala laterale interna, ma è 27

molto frequente anche la composizione simmetrica, con scala centrale nell’ingresso, e due ambienti per lato in entrambi i piani. Da modello han servito le case dei nobili e, salvo per il vasto ambiente d’ingresso, ove si svolge spesso la scala a tenaglia, per la decorazione attorno alle aperture e la presenza di qualche balcone, non presenta qualità architettoniche di rilievo. Di queste case esistono nel settentrione dell’Isola esemplari del XVIII secolo, e pertanto, l’introduzione non è così recente come potrebbe sembrare. La strada principale dei villaggi, nell’Ottocento, si andò contornando di case a due piani, anche nel Campidano, ove per l’attrazione esercitata dall’edilizia della città di Cagliari, si sostituiscono ai lati dello “stradone” i recinti chiusi. Come si è accennato, nella valle del Tirso convergono i vari tipi e troviamo un’elaborazione più raffinata nei loggiati (a filo strada) e attorno alle aperture, dovuta alla presenza di buoni lapicidi, che si trasmettevano il mestiere da padre in figlio. Il più felice incontro fra la casa di pianura e quella di montagna avviene in Samugheo, ove troviamo aggraziati portali che immettono nelle corti antistanti, e la dimora, interna, distribuita su due piani, si arricchisce di balconi e di gentili loggette in muratura, dai quali lo sguardo raggiunge la strada. Col muratore collaborano sempre il falegname e il fabbro. Si conservano ancora graziosi portaletti e finestre; dappertutto, ogni villaggio vanta tipi particolari di maniglie, di picchiotti, di serrature, di reggipertiche, recanti simboli religiosi e magici: assieme alla croce compaiono il cuore e l’uccello, battuti sempre con tecnica eccellente.

Abbiamo accennato ai centri temporanei attorno ai celebri santuari, dove si svolgeva più intensamente per pochi giorni all’anno la vita comunitaria, quando la popolazione del villaggio si recava alle sagre. Accanto allo sviluppo dello casa rustica occorre considerare anche molte chiese sorte, architetture senza architetti, in tutto il territorio isolano, dovute all’estro di campimastri. Case e chiese costituiscono gli unici temi architettonici sviluppati nell’Isola, si può dire, fino ai nostri giorni: sia in forma colta che rustica. Oltre certi oratori nei centri abitati, che più o meno mutuano schemi e motivi dalle chiese maggiori, interessano le piccole chiese sparse nelle campagne. Senza un preciso disegno, esse sono nate per virtù di ricordi, di interpretazioni a distanza e, molte volte, con purità di stile. Le forme icnografiche sono assai semplici: lo schema più frequente è quello a una sola navata, dotata o no di abside quadrata o raramente semicir28

colare. La copertura è in genere risolta a tetto, con travatura a vista e tegole a coppo; più comunemente, gli arcarecci poggiano su diaframmi arcuati, altre volte su capriate. Nei rifacimenti e nelle costruzioni sei-settecentesche, è più usata la volta, a botte o a crociera all’uso aragonese, con manto esterno in cocciopisto; i coppi, quando vi sono, ricalcano la curva estradossale. La volta è denunciata a distanza da contrafforti massicci, dai più svariati profili. La zona presbiteriale è, a seconda dei casi, più alta o più bassa della navata: l’architettura talvolta è costituita dal, gioco di questi semplici volumi. Non è rara la cupola ethisferica o a padiglione, di fogge singolari, col manto di coppi. Nei santuari e nelle chiesette presso cui si svolgono le sagre, specie in quelle delle solatie pianure, è presente un portichetto anteriore. Il loggiato può essere ricavato su un lato o sui due fianchi, o anche tutt’attorno. I pilastri che sorreggono le travi di legno e i piedritti degli archi sono quasi sempre massicci, ma disposti con bei ritmi. Il fascino esteriore deriva loro in primo luogo dall’aderenza al paesaggio; la limpidezza del cielo e l’incidenza dei raggi solari accentuano la bellezza agreste, che è data soprattutto dalla essenzialità delle strutture, dalla purezza dei volumi e dei particolari, delle decorazioni ingenue. Le loro forme acerbe hanno un sapore arcaico e allo stesso tempo moderno. Sia all’interno che all’esterno, i muri sono spesso irrorati di latte di calce. Durante i giorni di sagra, si appendevano alle pareti, in bell’ordine, gli stendardi, che i cavalieri recavano in processione dai villaggi. \1î si intrecciano ancora festoni di mirto e si cospargono di menta e d’altre erbe aromatiche. Caratteristiche erano le croci nelle piazzette dei villaggi (specie dell’Oristanese) e nei sagrati delle chiese. Quel contrasto di rude e di gentile che si avverte in ogni dimora sarda, si ritrova, con accenti più spiccati, in queste chiese rustiche: quanto di meglio l’anima pura dei maestri campagnoli ha saputo esprimere, utilizzando pochi suggerimenti di provenienza colta.

FIGURE 1–10

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1. Assémini, portale d’ingresso a un cortile

2. Assémini, cortile fiorito

3. Assémini, cavallucci di terracotta sul crinale d’un tetto

4. Villasor, pozzo davanti a un loggiato

5. Villasor, cortile fiorito

6. samassi, casa con loggiato

7. Samassi, interno di una “lolla”

8. Abbasanta, antica casa con loggiato su strada

9. Ingresso a una casa montanara

10. Serramanna, chiesa campestre

IL LEGNO E L’INTAGLIO

Un cofanetto in bronzo di età nuragica, rinvenuto presso il nuraghe Lunghenia di Oschiri ed ora al Museo Archeologico di Cagliari, dotato di manico e poggiante in modo curioso su due coppie di ruote, riveste particolare interesse, perchè quasi certamente riproduce, in piccola scala, l’arca di legno tradizionale. Da questo bronzetto si può dedurre, appunto, che il prototipo di essa risale all’età nuragica. Apribile dall’alto, le quattro facce del cofanetto sono scompartite da risalti orizzontali, che ricordano la struttura lignea della cassa. L’elaborato ed elegante oggetto, d’altra parte, attesta il grado raggiunto dall’artigianato, per cui non ci dobbiamo meravigliare affatto che in quei lontani tempi fosse stato già creato il mobile domestico ancora ricercato. Sono stati fatti accostamenti con lo stile bizantino provinciale ed in particolare col sarcofago di Teodosia a Pavia (C. Albizzati). Già nel sec. XV si distingueva la cassa. sardesca dalle altre; in documenti si parla di cassa piana, cioè liscia, il che implica che ce ne fossero intagliate. Questa sua antichità è convalidata inoltre dal fatto che tutti i Sardi l’amano più d’ogni altro mobile di un amore che si potrebbe definire di natura atavica. In ogni casa, infatti, c’era e c’è ancora almeno un esemplare di cassa nuziale o di piccola cassa da viaggio. Data la grande richiesta, col tempo si giunse ad una sorta di industrializzazione delle fasce decorative: i mercanti che percorrevano coi loro nervosi cavallini tutta l’Isola, vendevano a palmi, della lunghezza richiesta, le strisce di castagno intagliato dagli artigiani di montagna, strisce che ripetevano motivi geometrici, e che i falegnami applicavano poi ai paliotti dei cassoni. Il motivo decorativo, senza principio e senza fine, in opera non risultava mai ben inserito, sia in senso orizzontale che in senso verticale: gli attacchi ortogonali delle strisce che girano attorno al campo centrale risultano infatti quasi sempre imperfetti. Ed anche ciò contribuisce a conferire carattere arcaico alla cassa. L’arca, sempre apribile dall’alto, sollevata dal suolo a mezzo d’una coppia di supporti, col paliotto decorato e le altre facce lisce, serviva per riporvi un pò di tutto: biancheria, indumenti, coperte ed anche oggetti preziosi. 43

Costruita quasi sempre con legno di castagno (Santulussùrgiu, Aritzo, Désulo, ecc.) oppure in noce ed anche in rovere, era il mobile tipico della casa ed anche da viaggio (quando si andava alla sagra). Racchiudeva tutta la ricchezza della famiglia, pronta anche per spostamenti. Alta, di tipo barbaricino o piuttosto bassa e lunga, del tipo di Santulussùrgiu, le due forme però coesistono nelle stesse aree. Il legno era tenuto al naturale o veniva dipinto in rosso col sangue d’agnello, salvo il campo centrale, dipinto in color verdolino o turchino con succhi vegetali. Con lo stare molto tempo in cucina, nella “stanza del fumo”, essa si anneriva. Nacque così, in tempi moderni, l’uso di dipingerla di nero. Sobria, essenziale, è la ferramenta impiegata. In origine, il paliotto doveva essere certamente liscio, come le altre facce, poi venne densamente decorato da intagli, incavi verticali e semicerchi includenti palmette, anche su due file, ad elementi sfalsati. Nel campo centrale sono incisi simboli, in genere il sole, contornato da clessidre, uccelli e motivi floreali. Quando è intesamente decorata la fascia attorno ai bordi, lo specchio centrale è tenuto liscio o viene diviso in due campi. Nel tipo cosidetto di Santulussùrgiu, gli appoggi sono a foggia di zampa di leone, le modanature di base sono grosse e alle due estremità sono mensole di forte rilievo e intaglio. Di dimensioni diverse, i cassoni possono essere alti e stretti, adatti soprattutto per contenere indumenti, o di forma bassa e allungata. Piccole casse sono decorate con lievi tocchi d’intaglio. Il cassone nuziale è l’unico mobile che abbia avuto diffusione in tutta l’area isolana e, come si è detto, è ancora ricercato sia di nuova fattura che come pezzo di antiquariato. Può ingannare il modo con cui è fatto l’intaglio, nel senso che il cassone ritenuto più antico, invece non lo sia: l’artefice ha continuato con modi medievali, anche quando dall’esterno provenivano soffi di cultura rinascimentale e barocca. Nell’Isola non ci sono state scuole e per il fatto di essere stati gli artefici isolati, lontani dai grandi centri di produzione, i modi decorativi sono rimasti bizantineggianti, della tipica scultura a nastro, e il trattamento a punta di coltello, dell’arabesco. I monaci, che pur stavano in numerosi monasteri, non dovettero dare alcun contributo, occupati com’erano in altre attività, soprattutto nell’agricoltura. I Sardi non videro mai le realizzazioni rinascimentali e barocche sia dell’architettura che della ebanisteria e le sculture conosciute erano solo quelle minuscole dei capitelli e delle decorazioni nelle chiese romaniche. Sono sempre spartiti e decorazioni elementari, ingenue, che accentuano il carattere di arcaicità. Nè seguirono i suggerimenti gotici che invece si leggono nella ebanisteria delle altre regioni, anche perchè quello isolano è un goticoaragonese tutto particolare. 44

Pur con influenze di modi esterni italiani e spagnoli, il cassone cosidetto di Santulussùrgiu mantiene nell’intaglio i caratteri regionali. Anche in questo mobile, l’area barbaricina si è mantenuta incontaminata, ovverosia medievale: per i motivi tradizionali e per i simboli, per i partiti decorativi e la forma dell’intaglio. Anche in esemplari recenti, privi di modanature aggettanti, la decorazione si mantiene planare, prevalentemente floreale, con simboli e uccelli stilizzati. Modi settecenteschi sono talmente fusi con motivi isolani, che difficilmente si avvertono. L’originalità della cassa si completa col tessuto vivace che ricopre il coperchio: l’intagliatore e la tessitrice ricorrono agli stessi simboli, ma il colore denso del copricassa smorza la severità dell’arca. Questo mobile, comune a molte culture, in Sardegna mantiene carattere di severa originalità: è il mobile autenticamente sardo, e forse anche l’unico. In alcuni centri (Pattada, Buddusò, ecc.) si trovano, inoltre, esemplari di casse barocche di derivazione spagnola; recano il paliotto liscio e quattro colonnine tornite ricoprono gli spigoli.

Altro supporto del cosidetto “tappeto” era il letto, di legno, ma le cui strutture quasi non si vedevano, celate da coperte, trifle, merletti (tutt’attorno correva il “giraletto”), velari. Era originale quello del Capo di Sopra, che per ragioni igieniche, veniva sollevato molto da terra, tanto che talvolta era necessario ricorrere alla scaletta. La maggior parte degli uomini (giovani e servitù) dormivano però su stuoie di sala, disposti a raggera con i piedi volti al foghile, il focolare; dopo il sonno, le stuoie venivano arrotolate, per guadagnar spazio. Nell’Ottocento si andarono sempre più diffondendo i letti di ferro, aventi le testate riccamente docorate con volute dipinte: a una o a due piazze, era frequente anche quello cosidetto “francese”, a una piazza e mezza. Dalle città andarono diffondendosi nei centri dell’interno. Accanto alletto, si trovava la piccola culla, intagliata. L’arredo della casa era sobrio per ogni strato sociale: si trattava di possedere un maggior o minor numero di cassoni, diletti, di sedie, di tavoli e di canterani; di avere batterie più o meno numerose di cucina: pentole, tegami, graticole, taglieri, schidioni, e la stanza del fieno più o meno fornita di cestini e di corbe. Sedie e panche svolgono quasi gli stessi motivi del cassone, ed altrettanto dicasi dei rari esemplari di tavoli elaborati. Il tavolo, per la lavorazione del pane e per desinare, era in genere privo di decorazione d’intaglio; un tavolo 45

piccolo e basso serviva per il governo della cucina e per pranzare, chiamato in Campidano alla spagnola mesi/la. Il tavolo aveva il piano con sporgenza pronunciata; quello intagliato, di derivazione colta, aveva mensole e decorazioni di origine chiesastica. Lo accompagnavano sedie dallo schienale scolpito, di color rosso lacca o blu o verde, e con dorature, di introduzione spagnola. La sedia che accompagna la mesi/la, che si fabbrica ancora, bassa, è di legno bianco (una volta era di legno di fico), decorato col for del melograno, e impagliata (fattura di Assémini). Negli altipiani centrali e nel Sassarese, si fanno ancora sgabelli assai molleggiati e caratteristici, con tronchi di ferula disposti alternativamente per lato. Molto diffuse erano le sedie del tipo cappuccinesco, di origine cittadina.

Altre sedie, di derivazione toscana, si trovano soprattutto nelle chiese della Barbágia. Ma poco resta della suppellettile presbiteriale, già povera all’origine. Nelle chiese di città, domina un eccletismo d’importazione. qualche reminiscenza classica assieme ad elementi barocchi di derivazione spagnola. Sedie e panche possono avere il fondo in legno (più frequentemente) oppure impagliato, le spalliere formate da elementi torniti e, ai fianchi, i poggia–cuscini. Gli stalli corali attingono all’arte colta, raramente a quella popolare: sono i prelati che danno i suggerimenti e forse disegni ad ebanisti ed intagliatori; qualche volta, assieme al monogramma di Cristo, ricompaiono i simboli tradizionali, i soliti rosoni e le solite palmette. I begli stalli corali d’impronta artigianesca che esistevano nella chiesa di San Domenico di Cagliari sono andati distrutti durante i bombardamenti del 1943. Ne possiede ancora qualche centro, come Désulo, Osilo, Ploaghe e qualche santuario di campagna, come quello di Bonu Ighinu, presso Mara. Bellissimo è il pulpito intagliato riccamente della chiesa parrocchiale di Désulo. L’attività degli intagliatori fu notevole ed eccellente nel Seicento e nel Settecento, a giudicare dai bellissimi altari lignei intagliati e dorati, specie del Cagliaritano e del Sassarese, e dai pulpiti, anch’essi intagliati e dorati. Gli intagliatori accudivano anche alla fattura dei portali e dei portaletti delle case e delle chiese; alle colonnine sia delle balaustrate dei presbiteri che dei ballatoi delle case. Si ribadisce, però, che manufatti barbaricini risalenti al più alla metà del 46

secolo XVIII possono apparire di fattura molto più antica, per via della conservazione del modo di scolpire e incidere tutto medievale. La modestia dei Sardi era un modo costante di vita, chiaramente rispecchiato dalla sobrietà dell’arredo domestico e chiesastico.

Tornando all’arredamento della casa, non si può tacere di accennare a un frequentissimo mobile pensile, importato, su parastággiu (campidanese, dal catalano parastatge, scaffale), decorato, come i ripiani del camino e degli armadietti a muro, – numerosi nelle case sarde – con carta colorata e ritagliata a disegni fantasiosi, che serve da mostra di piatti dipinti. Funzione parimenti decorativa più che pratica ha l’immancabile specchio, collocato molto in alto, inclinato (in montagna, su in alto al gran “canterano di Aritzo”); accanto ad esso, una volta pendevano un candido lino e un pittoresco bacile. In casa non mancavano inai alcune macchine, quasi immobili per destinazione: in un angolo del cortile o sul tratto di strada antistante, il carro a buoi, erede dell’antico plaustro; sotto la loggia, il monumentale torchio per la pigiatura dell’uva; la mola, azionata dal somarello nella, cucina o in un ambiente particolare a questa attiguo, ed infine il telaio o i telai per la tessitura nella stanza che fungeva da soggiorno o sotto la loggia. Veniva trasportato trionfalmente nella casa degli sposi. Il carro richiedeva l’opera di un artigiano specialista, il carpentiere: essenzialmente strutturale, senza alcuna decorazione, solenne come un monumento. Parimenti molto antica, risalente al mondo greco–romano, era la mola, che non mancava mai. E scomparsa definitivamente, allorchè la legge impose, nel 1948, di non macinare in casa. Il telaio poteva avere le piantane e le congiunture orizzontali intagliate: le prime terminanti di solito con un simbolo, in genere l’uccello del buon augurio. Gli intagli lo alleggerivano notevolmente. Complementari al telaio erano i naspi, le rocche, le spole. Nella loro lavorazione l’artigiano metteva tutto il suo impegno e la sua abilità per offrire alle gentili tessitrici strumenti personali. Si trovano nelle collezioni e ancora in molte case, mille motivi di conocchie, di naspi, di fusi e di spole. Assieme a questi oggetti, si creavano portafusi pensili e supporti per spolette, portaferri da calza, porta–rocche. Infine, altri manufatti di legno intagliato sono taglieri, vassoi, mestoli, forchette e cucchiai, bicchieri, reggisettaccio, graziosissimi stampi da pane in 47

gran varietà, e sigilli. Recano motivi floreali e vari, come il sole, le stelle, la croce, colombe e cavalieri.

Il pastore, nella solitudine e nelle lunghe ore di attesa, diventa un eccellente intagliatore: tronchi di rovere, di pero e di altre essenze vengono aggrediti con l’affilatissimo coltello. Una materia preferita dopo il legno è il corno: sono nate così le tabacchiere, le fiaschette, i porta-polvere da sparo, i bicchieri, le pipe, gli uncinetti per lavori donneschi. La decorazione del corno si scosta sensibilmente dai motivi fin ora ricordati degli altri manufatti; intanto appare, con notevole frequenza, la figura umana assieme a figure di animali: molto spesso motivi di derivazione chiesastica. Sovente sono firmati e recano la data. Bellissimi manici di coltello sono ancora fatti di corno di montone (Pattada, Santulussùrgiu, Désulo, Dorgali, ecc.). Una ricca collezione di corni lavorati trovasi nella Sezione etnografica del Museo Nazionale di Sassari. Naturalmente, non mancano i soliti motivi floreali, però qui sono più sciolti, meno stilizzati, meno geometrici. Frequente il crocifisso, ben inquadrato, contornato dal sole e dalla luna. Altre volte, la materia impiegata è l’avorio (tabacchiere), con trionfo dei santi più popolari, come San Gavino. La decorazione è sempre densa, di carattere nastriforme; qualche volta, le raffigurazioni dei santi sono inquadrate in uno spartito architettonico. Fra i doni nuziali ricorre il motivo decorativo della coppia (gli sposi). Sono frequenti figure di vescovi, di angeli e demoni, nonchè la Madonna dei Sette Dolori, traffitta dalle spade.

Dai tempi nuragici, i Sardi si può dire che non abbiano più scolpito a tutto tondo, anche se hanno sempre intagliato, graffito, inciso. Alcuni si sono dedicati a scolpire simulacri per le chiese e i lari domestici, ed in Barbagia (Nuoro, Ottana, Mamoiada), maschere carnevalesche. I simulacri di legno di pero ritraggono con ingenuità le sembianze tradizionali dei santi. Nel Settecento è stato famoso un artista–artigiano nativo di Senorbì, Giovanni Antonio Lonis, che ha riempito le chiese della Trexenta di simulacri e di crocifissi. Qualche pastore-artigiano sembra attingere da sogni ancestrali forme fantastiche, che non trovano applicazione nella decorazione di oggetti utili, ai 48

quali si dedicano invece altri (vassoi, saliere, taglieri, ecc.). Essi riallacciano allo spirito dei creatori delle antiche maschere barbaricine, che si producono ancor oggi, in color legno naturale o dipinte di nero o, parzialmente, di rosso e di turchino e che sembrano. ricordare una piccola scultura sotto un archetto pensile della chiesa di San Lorenzo di Silanus, del XII secolo. I lavori di intaglio in legno e in corno sono tuttora coltivati egregiamente dagli artigiani.

FIGURE 11–30

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11. Cassone nuziale, particolare

12. Cassone nuziale, particolare

13. Cassone nuziale

14. Cassone nuziale, particolare

15. Sedia impagliata

16. Mostra di piatti

17. sedie di Assémini

18. Mastello in ginepro

18. Cucchiaio e forchetta in legno

20. Tagliere intagliato

21. Maschera

22. Corno intagliato

23. Scatole in corno con coperchio

24. Bicchiere in corno intagliato

25. Bicchiere in corno

26. Fiaschetta per polvere da sparo, in corno

27. Zucca intagliata

28. Zucca intagliata

29. Fermacarte in steatite

30. Fermacarte in steatite

I METALLI

Il fabbro ferraio non mancava, fino a tempi vicinissimi, in nessun villaggio: sua mansione principale era quella del maniscalco, di ferrare, cioè, cavalli, asini e buoi, tenuti stretti in monumentali, caratteristici castelli. Alcuni centri erano e sono tuttora famosi per i morsi di bardatura di cavallo e per gli speroni (Abbasanta, Santulussùrgiu, Gavoi). Ma, oltre a queste fatiche, il fabbro era un collaboratore domestico di prima grandezza, alla pari del muratore e del falegname. Fabbricava catenacci, fantasiose copriserrature a forma di mostricciatoli, di animali, di cuore con la croce, maniglie con la placca traforata, battenti di porta a forma di animali e simboli vari. In ogni cucina facevano mostra di sè, a guisa di trofei, numerosi schidioni di ogni grandezza, ben allineati, appesi a parete o disposti in caratteristici portaschidioni. Dove si estrinsecava più la fantasia dell’artefice erano gli alari per il caminetto, i girarrosti, nonchè le branchie e le lucerne, spesso di lamiera traforata col simbolo della croce. Altro allineamento era costituito dai treppiedi, di diversa grandezza. Poi, c’erano le graticole girevoli, le pinze, le padelle per le caldarroste e piccoli oggetti, come le rotelline dentate, per la confezione del pane e dei dolci. Dall’Ottocento, il fabbro prese a fabbricare letti, con le testate elaborate, ricche di volute. Le due città di Cagliari e di Sassari, soprattutto la prima, sono stati i centri principali del ferrobattuto. Restano ancora numerose ringhiere di balconi barocchi e di scale, arreccias, grate di finestre (Campidano), roste, cancelli, supporti per carrucola soprastanti i pozzi. Si ricordano i preziosi ferrobattuti della chiesa di San Michele in Cagliari, la cancellata della chiesa di S. Giorgio di Suelli e una preziosa lampada a forma di cavalletta, nella stessa. Fra i migliori fabbri sassaresi del Settecento è ricordato il maestro Antonio Castiglia, che trasmise ai suoi discendenti, fino ai nostri giorni, l’arte del battiferro. Il fabbro era spesso anche armaiolo. I coltelli a serramanico richiedono particolare attenzione, sia per la tempera delle lame che per la preparazione 73

del manico, fatto di corna di montone, dopo averlo scelto accuratamente (ricercato è il corno completamente nero, senza venature). Alcuni centri sono rimasti famosi: Pattada (si chiamano infatti, genericamente, “coltelli di Pattada”), Santulussùrgiu, Dorgali, Désulo, Gùspini), dove si fabbricano anche lucenti forbici d’acciaio per la tosatura delle pecore. Nei coltelli a serramanico, il manico può essere liscio o lavorato minutamente. Ogni casa, nell’Isola, vantava e andava gelosa delle armi da caccia, lavorate con finissimo gusto decorativo. Il calcio, se rivestito in avorio, veniva scolpito; se invece era ricoperto di lama di acciaio o d’argento, veniva cesellato. Preziosi erano i complicati meccanismi. Fra fucili, sciabole, pugnali, coltelli e relativo armamentario, che costituiscono numerose collezioni private, è difficile poter stabilire quali siano di genuina importanza regionale. Sono conservati antichi archibugi dei calci arabescati con una decorazione densa (intagli in legno, ottone e argento), minuta. Se non originali essi stessi, sono certamente copie di modelli africani o moreschi, introdotti durante la dominazione spagnola. Le armi sarde erano caratterizzate dalla leggerezza. Gli archibugieri richiedevano le parti grezze dalle fabbriche continentali della Val Trompia, le montavano e le incidevano. Centri rinomati di produzione di archibugi erano Tempio e Dorgali; il primo anche di armi bianche.

Accanto agli oggetti in ferro battuto, nella cucina della casa tradizionale c’era la mostra del rame sbalzato. Incontrastati maestri specialisti nella lavorazione del rame erano e sono ancora i calderai di Isili, per tradizione che si perde nei secoli (e una volta, anche Gavoi). Non a caso, questi centri operosi sono prossimi alla miniera di rame di Funtana Raminosa, conosciuta sin dalla più remota antichità. Gli isilesi trasportano tuttora i loro manufatti in ogni angolo dell’Isola. La tradizione dei ramai pare ascenda a fonti zigane. A Sassari, c’e’ ancora la via Ramai, dove anticamente avevano bottega questi artigiani. I ramai di Isili fabbricano caldaie di ogni dimensione e un tipo standard di braciere con la bordatura e la paletta di ottone, che è una lega inossidabile di rame e di zinco. Il colore dalla tonalità calda del rame battuto, unito alle forme semplicissime, conferisce pregio a questi manufatti, ancora molto richiesti. Ma dove i ramai eccellevano era nella costruzione di forme per la 74

confezione degli sformati e dei gatò, di disegni fantasiosi, sfaccettati come cristalli.

L’arte del lattoniere, con l’avanzare del progresso, è stata fra le prime ad essere sacrificata. Fino a qualche decennio addietro, in ogni paese c’era almeno un artigiano della latta, oggi il lattoniere è quasi scomparso, con l’immissione nel mercato dei recipienti e altri oggetti di materie plastiche, di alluminio e altri metalli. Tutto il giorno la caffettiera giaceva presso il focolare, per trovarsi a portata di mano e poter così offrire la bevanda calda a chiunque entrasse in casa. La caffettiera poteva essere anche di terracotta, ma in genere, le caffettiere, con o senza filtro, erano di competenza del lattoniere, d’antica data (perchè il caffè venne introdotto presto in Sardegna), il quale ne fabbricava di forme bellissime. Altrettanto varie e sithpatiche erano le forme dei bidoni, degli oleatori, degli innaffiatori, delle padelle, dei tegami, delle lucerne e delle lanterne ad olio che venivano appese sotto ai carri. L’artefice rendeva il suo lavoro sempre più vario, apportando agli oggetti continue varianti, soprattutto agli oggetti più piccoli.

FIGURE 31–36

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31. Cavallino poggia spiedo, graticola, spiedo, muflone

32. Bue in ferro

33. Muflone in ferro

34. Capra in ferro

35. Cavallino in ferro

36. Isili, rami

LA CESTINERIA

Visitando il Museo del Cairo o rovistando fra collezioni di reperti delle civiltà precolombiane, sorprende il constatare che le forme di antichissimi cestini sono identiche, anche per dimensioni, a quelle che si confezionano ancora a Ollolai, in Barbágia, e a San Vero Milis, nel Campidano Maggiore. Allorchè il norvegese Thor Heyerdahl studiava le antiche imbarcazioni di vimini per tentare l’attraversamento dell’Atlantico (avvenuto nel 1970), si recò allo stagno di Cabras, nell’Oristanese, per osservare isfassonis, le imbarcazioni fatte di piante palustri, che si spingono con una pertica, simili a quelle che solcavano le acque del Nilo, nell’antico Egitto, ancora usate dai pescatori dello “stagno”. Sia che trattasi di scambi avvenuti nella più remota antichità, nel bacino del Mediterraneo e attraverso l’Atlantico, o dovute a fenomeni di convergenza, le forme della cestineria tradizionale isolana ripetono quelle di antichissimi modelli. Un bronzetto nuragico, rinvenuto nel territorio di Villasor e ora al Museo Archeologico di Cagliari, raffigura chiaramente una donna che reca sul capo una cesta, sintetizzata da un cordone svolto a spirale, svasata. Altri bronzetti riproducono forme di corbe e di pissidi, ispirati all’artigianato vimineo; la decorazione dei vasi è infatti a cordoni concentrici sovrapposti, simulanti cioè la tessitura del giunco e dell’asfodelo; uno in modo particolare ha una forma interessante di cestino, munito anche di coperchio. Non vale la pena di indagare a lungo se sia nato prima il cestino di vimini o il vaso di argilla. Certo, si è portati a credere che sia nato prima il cestino, visto che la sua confezione risulta più semplice di quella del vaso, e che la spirale è uno dei motivi che ha colpito per primo l’uomo. Il fatto che non siano giunti fino a noi frammenti di cestini appartenenti ad antiche culture, mentre i musei di tutto il mondo sono colmi di cocci, non implica affatto attribuire la priorità all’attività figulina; se mai, riscontriamo impressi nell’argilla dei vasi motivi propri della cestineria, la spirale appunto, poichè il vaso veniva sagomato su un canestro di vimini, come un rudimentale tornio (altre volte veniva adoperato un pannello di canna tessuta, come si usa fare ancor oggi). 85

Canestri e vasi, nelle loro molteplici forme per i diversi usi domestici, man mano che crescevano le esigenze – pratiche ed estetiche – hanno costituito assieme il primo arredo domestico. Non si può fare una distinzione fra forme semplicemente funzionali e forme decorate, rispondendo esse sempre in primo luogo all’uso pratico, ma contemporaneamente pensando alla loro grazia: sono forme perfezionate nel tempo, lentamente, e poi cristallizzatesi. Se ancor oggi ci piacciono i cestini di Ollolai, privi assolutamente di decorazione, è che rispondono al nostro gusto di perfezione essenziale; la modernità, cioè, è da intendersi un’astrazione fuori del tempo, è quasi sinonimo di universalità. Se nei musei sardi troviamo forme assai varie di manufatti ceramici, con o senza decorazione, possiamo immaginare che altrettanto sia accaduto per la cestineria. Le forme elaborate della ceramica inducono a pensare che sin dalla più remota antichità anche la cestineria fosse dotata d’un particolare repertorio decorativo.

Quali sono state, dunque, le esigenze e quali le forme che esse hanno determinato e che sono giunte fino a noi? In primo luogo, i recipienti per differenti contenuti, servivano per il grano e le sue trasformazioni, la farina, la pasta, il pane. Dalla Ióscia od órriu, il grande recipiente cilindrico per la conservazione del grano (e di cereali in genere), si passa al piccolo canestro, piatto (pobIna, camp.) per purgano, al canestro più ampio e al crivello per vagliare la farina e al canestro ancor più grande per le forme di pane, anch’esse più o meno elaborate. Poi, cestini per la frutta, fresca e secca, e per la biancheria, per il ricamo. Le forme sono in funzione anche della materia, sempre umile, a disposizione. Riscontriamo forme simili in centri di area diversa che impiegano lo stesso materiale. Forme più propriamente regionali sono quelle del centro dell’Isola: l’asfodelo è impiegato, infatti, a Ollolai e Olzai (Barbagia di Ollolai) e a Montresta, FlussIo e Tinnura (Planàrgia), mentre il giunco e la paglia di grano sono impiegati a San Vero Milis (Campidano Maggiore) e a Sinnai (Campidano di Cagliari), e la palma nana è impiegata a Castelsardo e Tergu (Ampurias), a Sorso e Sénnori (Romangia). I cestini di vimini (in genere, salice od olivastro) e canna spaccata sono invece comuni a moltissimi centri dell’Isola e le forme non si scostano molto l’una dall’altra. Questi, a differenza degli altri cestini confezionati da donne per essere usati da donne, vengono di norma confezionati da uomini, conta86

dini o pastori e adoperati, appunto, per usi agricoli e pastorali. Fra le materie, l’asfodelo richiede fatiche maggiori; il taglio a strisce si effettua a giugno; le quali strisce si stendono ad essicare al sole, in strada, nello spazio fronteggiante le case (quasi tutte le case di Tinnura e di Flussio). Dopo dissecate, vengono selezionate a seconda della tonalità, che varia dal giallo al bruno, pronte per essere intrecciate secondo la spirale delle forme ed il repertorio decorativo. Anche la palma nana (Chamaerops humilis) viene tagliata ed essicata. Il giunco e la paglia richiedono anch’essi l’essicazione, ma sono d’impiego più immediato. Le manifatture di San Vero Milis includono anche i crivelli per la farina, raffinatissimi. Per coprire l’occhiello della spirale dei cestini si dispone un dischetto di stoffa sgargiante o di broccato (San Vero Milis e Sinnai). Per la decorazione, si usano strisce di tonalità diversa: di tonalità bruna nei cestini di asfodelo; nera o colorata in quelli di San Vero Mills e di Caste!sardo, mentre a Sinnai si impiega largamente il cotone di color rosso e qualche volta anche nero. In quest’ultimo centro esistono case arredate all’antica, con la “stanza del fieno” originaria, zeppa di corbe e canestri. Parte essenziale dell’arredo muliebre era l’arredo della “stanza del fieno”: spesso corbe e canestri avevano prima percorso, portati sul capo da fanciulle in costume, le vie del paese, colmi di doni nuziali. Di queste ceste, tonde e piatte, molte non venivano mai adoperate; contribuivano solo alla disposizione ritmica nella “stanza del fieno” o nella cucina. Esse conferivano colore e calore all’ambiente, il più caratteristico della casa tradizionale. La decorazione è ottenuta con elementi che contrastano con la tonalità giallognola della paglia o della palma nana, elementi ottenuti non con tinte naturali. Forse, questo modo di decorare non risale a tempi molto antichi ed è stato mutuato da altre aree d’oltremare: come anche l’impiego del disco di stoffa sgargiante nel fondo e dei fiocchetti distribuiti con civetteria nel labbro terminale del manufatto. Il repertorio decorativo è costituito da motivi geometrici stellari intrecciati, da stilizzazioni floreali e faunistici (l’uccello, il capriolo, il cervetto, il gatto). Nel primo quarto del presente secolo, un artista francese fece introdurre altri motivi nei cestini di Castelsardo, neri e colorati, che accompagnano il motivo tradizionale del mostro alato, di tonalità bruna. La cestineria di asfodelo, che basava la decorazione sul motivo dei “rami di pero”, nel Settecento introdusse il fregio a greca, un suggerimento certa87

mente della popolazione immigrata a Montresta a metà del secolo, proveniente dalla regione di Mayna, la più meridionale del Peloponneso. Si presta bene, il motivo, per i piccoli manufatti a forma di ciottole e di cofanetti. In Castelsardo sono dette póntine grandi ceste con coperchio, di forma cilindrica o panciute come giare, che servivano per la conservazione dei ficchi secchi ed anche della biancheria. Era bellissimo, fino a non molti anni addietro, vedere, sulle soglie o disposte sulle rampe gradonate nell’antico nucleo di Castelsado, le donne di tutte le età, intente a intrecciare i cestini, ormai conosciuti in tutto il mondo. Purtroppo, la grande domanda e la scomparsa dalla campagna castellanese della palma nana, han portato ad imbastardire il prodotto, giacchè alla palma dalla tonalità calda e vibrante è stata sostituita la sorda refe e, recentemente, anche i fili di plastica colorata. Qualche donna anziana lavora ancora secondo i modi tradizionali nella vicina Tergu, dove la palma nana non è del tutto scomparsa. La refe si adopera anche in altre località, come Montresta ed Ittiri. In quest’ultimo centro, oltre a piccoli cestini d’uso corrente, è stato fatto anche un ottimo tentativo di confezionare cofanetti e scatole, che ha avuto successo qualche lustro addietro. Nei cestini di Sinnai prevalgono i motivi geometrici e floreali ottenuti – come si è detto – con il cotone in rilievo. Si usano molto i cofanetti da lavoro, decorati in rosso, oppure in nero, quando la proprietaria è in lutto. Negli ultimi anni, gli artisti hanno introdotto nuovi modelli, che riscuotono successo, perchè dilatano le applicazioni pratiche alle esigenze moderne (portariviste, porta–gomitoli, ecc.). Anche a San Vero Milis, le artigiane lamentano che il nuovo sistema di mietere con le mototrebbie non consente più l’utilizzo dei lunghi steli e della paglia lunga di grano: incentivo, questo, a un inquinamento della produzione, con l’impiego più facile della refe e dei fili di plastica. Oltre alla forma (che viene comunque rispettata), le materie tradizionali presentano migliori qualità tattiche e visive, che contribuiscono ad arricchire e a dare sapore al manufatto. Alle tecniche e allo spirito dei cestini, si riallacciano quei modi di rivestire, finemente, i recipienti di vetro, come si fa ancora a San Vero Milis.

I cestini di salice e canna, più generalizzati, presentano varianti interessanti in località diverse: la valle del Tirso (ZerfalIu, Zuri, Baroneddu), il 88

Bosano, il Sassarese, la bassa Gallura. Il modo di scegliere i rami di vimini e di tagliare le strisce di canna influisce sul risultato. Cestini di differente grandezza, piccoli per la merenda dei ragazzi e per la raccolta delle uova, medii per contenere i panni e la frutta, con o senza manico, fino alle grosse ceste per deporre i cereali, la lana e la profenda degli animali domestici. I cestini normali, col manico, sono prodotti dappertutto, ma la forma varia nel rapporto cesto–manico, nella sagoma del cesto, cilindrico o troncoconico o panciuto, ed anche nel rapporto tra salice e canna. Di salice normalmente, si fa il fondo, il labbro terminale e il manico, ma viene anche interrotta la superficie verticale di canna con fasce più o meno ampie di salice. Quelli più antichi, pressochè in tutta l’area isolana, avevano la sagoma dell’ogiva. A Sassari si fanno ottime ceste di forma rettangolare, per frutta, biancheria, ecc. Si confezionano anche cestini per bambini, ed altri in scala da bomboniera, tagliando fette sottilissime di canna e intrecciandole con grande pazienza e gusto. A San Vero Milis si confezionano bellissime misure cilindriche fatte di solo giunco, strettamenti funzionali, di ottimi rapporti.

FIGURE 37–56

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37. Castelsardo, cesto in rafia

38. Castelsardo, cesto in rafia

39. Flussio, corbula in asfodelo

40. Flussio, canestro in asfodelo

41. Flussio, cesto in asfodelo

42. Montresta, cesto in asfodelo

43. Montresta, cestone con coperchio

44. Sinnai, canestro in giunco

45. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco

46. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco

47. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco

48. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco

49. Sinnai, cesto con coperchio, in giunco

50. Sinnai, canestro in giunco

51. Ollolai, cestino in asfodelo

52. Ollolai, cesto con coperchio in asfodelo

53. S. Vero Milis, fuscella in “zinniga”

54. S. Vero Milis, vetri impagliati

55. Tinnura, cesto in asfodelo

56. Urzulei, cesto in asfodelo

LA CERAMICA

Abbiamo ricordato che è difficile poter stabilire se è nato prima il cesto di vimini o il vaso di terracotta e che, comunque, entrambi risalgono alla più remota antichità. Le forme ceramiche tramandate non sono molte, considerando la varietà, veramente sorprendente, che ci offrono le colture nuragica e prenuragiche, come è facile riscontrare osservando i reperti conservati nei musei archeologici di Cagliari e di Sassari. La produzione è andata via via restringendosi ai modelli essenziali d’uso ancora corrente, tliventando un’industria vera e propria. Le forme pervenute non sono originarie delle culture della Sardegna preromana; alcuni modelli risalgono ai tempi della Magna Grecia e di Roma. Si sono fatti convincenti raffronti tra le elaborate brocche oristanesi e quelli di Canosa, che si trovano al Louvre: è facile pensare a scambi, essendo Oristano l’erede diretta di Tharros, la fiorente città costiera che aveva un porto molto attivo. Mentre nelle regioni del continente italiano quest’arte, al pari delle altre, nel Medioevo decadeva, in Sardegna si conservò integra. I centri attuali di Teulada e Florinas ricorderebbero nel toponimo romano, Tegula e Figulinas, antichi centri della terracotta. E accertato che si lavorava la terracotta nella città di Turns. Ad Olbia era un’attiva officina ceramica che possedeva la liberta Acte, la celebre concubina di Nerone. Ma, forse, sia a Tegula che ad Olbia si fabbricavano solo manufatti impiegati in edilizia. Oltre al nome, Figulinas –che fa pensare alla specifica attività artigianale dei terracottai – si ricorda che a Bánari, un piccolo paese vicinissimo a Florinas, fino a non molti anni addietro si fabbricavano fornelli di terracotta. Non si hanno notizie di botteghe o scuole d’arte ceramica in tempi lontani, nè di immigrazione di artisti continentali. Nel periodo romanico è stata accertata la presenza di maestranze arabe fra quelle che innalzarono le chiese, ma le scodelle maiolicate impiegate nella decorazione delle facciate erano importate. Del 1692 è uno statuto della corporazione oristanese degli alforeros, i fabbricanti di brocche: era fatto divieto agli appartenenti alla confraternita di 113

fabbricare manufatti di terracotta che non fossero brocche, pentole e mastelli. Da testimonianze del secolo scorso, si sa che solo un figulo godeva del privilegio esclusivo di poter fabbricare mattonelle e tubi di terracotta. A Cagliari, nei primi anni del Settecento, era fiorente un’officina ceramica: da essa uscirono le graziose mattonelle raffiguranti l’aquila bicipite, che decorano il presbiterio della chiesa di San Lucifero. Ma, le numerose formelle figurate impiegate nella pavimentazione e per rivestimento delle scale della città, soprattutto di Cagliari e di Alghero, nei secoli XVIII e XIX, erano produzioni d’importazione. Si continuò, però, nella tradizione dei figuli, fino ai nostri giorni, nei centri di Oristano, Pabillonis, Decimomannu, Assémini, Villaputzu, Dorgáli e Siniscola, quasi tutti ancora vivi. Il centro principale è Oristano, che gode d’un antico prestigio: nel secolo scorso era senz’altro l’industria cittadina principale, esercitata dai cosidetti con giolargius (stovigliai), che occupavano un quartiere dei borghi, e lavoravano la creta con metodi primordiali (ruota figulina), riproducendo forme greche e romane, in virtù dello statuto della confraternita sopra ricordato. I manufatti constano di recipienti per acqua, vino od olio: orci con o senza coperchio, brocche e brocchette, a forma di anfora, di gallinella e di anello, fiaschette, barilotti, boccali, bicchieri; stoviglie: piatti, tegami, pentole, cassemole, mastelli, mestoli, caffettiere; orci caratteristici per olive sott’olio e pomodori secchi; conche di varie dimensioni; recipienti per acquavite; contenitori scalda–grembo e scalda–letto a forma di frate e di suora, sempre in coppia, con un foro nella testa attraverso cui si versava l’acqua calda; scaldini e fornelli; cavallucci decorativi da disporre sul crinale dei tetti; doccioni a forma di leone, tubi pluviali, tazze speciali (tuvus), per le none degli orti. Una distinzione fra centro e cento, si ha soprattutto nei manufatti decorati: le brocchette basse, a forma di gallinelle, sono tipiche fatture di Dorgali e di Villaputzu; le piccole anfore decorate da fiorellini sono tipiche di Assémini, come pure i cavallini da disporre sui tetti; gli scalda–grembo e soprattutto le grandi anfore figurate sono dei figuli oristanesi; a Siniscola si fabbricano le anforette sovrapposte, aventi le anse sfalsate. Una differenza sensibile tra centro e centro si ha per la varietà dell’argilla impiegata e, di conseguenza, anche per la cottura, impiegando la vernice di verde ramina. Sono tutte varianti, però, di un unico modo di fare, intendendo spirito e tecnica. Al pari della varietà degli oggetti, ricchezza maggiore di forme decorative troviamo nella manifattura oristanese. Una reminiscenza forse romana 114

costituiscono i doccioni figurati che ornavano le parti terminali delle gronde delle case baronali e dei maggiorenti ed una reminiscenza forse ancora più antica, l’uso di decorare con cavallucci i tetti, a guisa di acroteri. Le anfore anulari sono forse di derivazione pugliese, un pò lontane dal gusto locale. Sono invece originalissimi quei barilotti usati in campagna dai contadini campidanesi, per contenere acqua o vinello, molto pratici e di forma caratteristica. Le grandi anfore che ricordano quelle venute alla luce negli scavi delle città della Magna Grecia, rielaborate dai figuli oristanesi, recano figurette di angeli e di santi con cartigli, ritmi di rosari e, nel coperchio, altri santini o la giudicessa Eleonora d’Arborea o anche teste di gallo. L’euritmia risulta sempre ben pensata e distribuita. Dalle antichissime figurazioni geometriche, astratte, graffite con rotelle dentate o con un pettinino, si è passati a modifiche naturalistiche, a tutto tondo, mutuando i simboli dal cristianesimo. Le decorazioni sono improntate a ingenuità e la forma del manufatto, che risponde a praticità, è sobria e armonica. Oltre che per l’arredo e la suppellettile domestica, si fabbricavano statuine di terracotta per le chiese. Il Santuario di Sant’Antonio Abate di Orosei – per esempio – era ricco di figurine disposte, assai graziose, sul crinale del tetto (provenienti, con tutta probabilità, dalla vicina Dorgali).

Alberto della Marmora, a metà del secolo scorso, aveva spedito al direttore delle manifatture, di Sévres, che le aveva richieste, terraglie sarde: ciò dimostra l’interesse per queste forme tradizionali, che vennero disposte nel celebre museo che raccoglie ceramiche di tutto il mondo. Il La Marmora ricorda inoltre nell’Itinéraire di aver concesso a un figulo oristanese il permesso di fabbricare ceramiche diverse da quelle usuali, in delega allo statuto dei fabbricanti di brocche, “non senza pensare tuttavia che sarebbe stato difficile che le terraglie uscite dalle sue mani, potessero eguagliare in grazia ed eleganza, quelle che una tradizione costante o meglio l’abitudine, ha conservato identiche alle brocche del bel tempo di Roma”. Il La Marmora, se da un lato contribuì a conservare in un museo di fama internazionale, le forme tradizionali, con quest’atto aministrativo diede l’avvio ufficiale alla creazione di nuove forme. Le quali, tuttavia, non furono per la verità molte, continuandosi invece a fabbricare forme collaudate da secoli: forme che hanno continuato a farsi fino ad oggi, mentre l’unico figulo privilegiato che poteva fabbricare mattonelle e tubi di terracotta fu a un 115

certo punto disturbato dalla concorrenza continentale, indubbiamente più aggiornata. “Al divieto delle innovazioni – commentava il La Marmora – si deve certamente la conservazione delle belle forme delle brocche antiche, greche e romane, che escono ancor oggi dalle vecchie fabbriche”. La clausola statutaria deve essere stata ispirata con tutta probabilità da ragioni di semplice concorrenza, poichè stentatamente si riesce a credere ch’essa abbia influito sulla conservazione delle forme, che per altro non si discostano molto da quelle degli altri centri figulini, dove gli artigiani non erano vincolati da statuti corporativi. Se le forme si sono conservate integre fino a noi è, dunque, un fenomeno di persistenza, tipica di ogni forma artigianale dell’Isola, dovuto a modelli che per la loro essenzialità e praticità si sono dimostrati perfetti. Per mancanza di concorrenza continentale – a causa dell’isolamento – l’arte degli stovigliai era diventata un’industria vera e propria: allineate ad essicare, le brocche, tutte eguali, sembrano fatte a stampo. La ruota figulina, con la sua rudimentale millenaria semplicità, incanta ancor oggi come un meccanismo magico: una manciata di pasta di argilla, in virtù del tocco agile della mano e della dosata velocità impressa al tornio dal piede scalzo, asseconda le più sbrigliate fantasie dell’artefice. La riproduzione in serie come questa delle stoviglie implica di contro rinuncie all’estro e un disciplinato controllo; richiede attenzione e perizia non comuni, poichè i manufatti sono talmente identici uno all’altro, che sembrano, appunto, eseguiti meccanicamente in serie. E se talvolta ci sorprende il riscontro con forme di oggetti conservati nei musei, è solo ossequio a ciò che è consacrato dall’uso quotidiano. La loro purezza soddisfa il nostro gusto moderno unitamente al culto dell’antico, che non è affatto di natura arcaica e nemmeno del tutto popolaresca, ma come abbiamo visto, colta per non dire addirittura classica.

I mori di Spagna applicarono la ceramica all’architettura; i Pisani introdussero forse prima in Sardegna che nel continente italiano quei “bacini” ceramici o scodelle iridescenti per decorare le chiese romaniche, provenienti molto probabilmente dal traffico mediterraneo arabo–ispano o arabo–siculo. Dall’esiguo numero di esemplari superstiti, nonchè per mancanza di fonti, non si può affermare che i Sardi abbiano appreso dai mori di Spagna e dagli Spagnoli o da altri artigiani continentali, l’arte raffinata della maiolica, che, d’altra parte, sarebbe rimasta relegata solo a questo genere decorativo. I man116

ufatti isolani, prevalentemente brocche e orci, sono verniciati esteriormente solo in prossimità dell’orlo del collo e all’interno di questo, e soltanto in anfore particolari la verniciatura è estesa alle altre parti. Essi conservano quel carattere artigianesco sommario, ben lungi dalla perfezione tecnica delle scodelle maiolicate; la tonalità dello smalto è quasi sempre tipicamente giallo–verdognola. Più varia si presenta la produzione oristanese, abbiamo visto, e più ricca di forme decorative. Gli altri centri figulini hanno prodotto sempre brocche e mastelli. Per varietà e per tecnica, dopo Oristano, interessa Dorgali, dalle cui officine sono uscite graziose brocchette a foggia di galline accocolate e belle anforette con le anse a treccia. E specialmente nella decorazione (in parte eseguita a rilievo e in parte a stecca), che scorgiamo una differenziazione. Mentre i modelli oristanesi sono essenzialmente plastici, nella produzione dorgalese è palese l’influenza delle incisioni dei manufatti delle culture preromane. Isolati o disposti a gruppi, i manufatti ceramici sardi costituiscono, unitamente ai cestini, l’arredo più originale della casa, ornano ancora “la stanza buona”, la sala da ricevere.

All’infuori del ricordato statuto degli stovigliai oristanesi e di un accenno alle “fabbriche della Sardegna” nell’opera Les Merveilles de la céramique del Jacquemart, il primo studio devesi all’Arata. Una scuola d’arte decorativa, volta soprattutto alla ceramica, istituita negli anni Venti dal Comune di Oristano ed affidato allo scultore Francesco Ciusa, ebbe breve e travagliata esistenza. Più fortuna ebbe la Bottega d’arte ceramica in Cagliari l’organizzazione creata dal ceramista Federico Melis, che aveva impiantato ad Assémini un’attiva fornace. Allontanatosi il Melis, cessò di esistere. Essa sviluppò quasi esclusivamente motivi di folklore ed i prodotti ebbero una tipica fisionomia, dovute anche alla varietà d’argille plastiche locali. Nel 1949, l’Istituto statale d’arte di Sassari, per interessamento del direttore, pittore Filippo Figari, venne dotato di un moderno laboratorio di ceramica. Nel 1951, venne creato ad Oristano l’Istituto statale d’arte, volto soprattutto all’insegnamento della ceramica. In virtù delle predette scuole, oggi, gli artisti che si dedicano alla ceramica sono diventati numerosi. La novità più saliente, rispetto a quella del passato, è costituita dal fatto che l’artigiano–artista indirizza la sua attività alla 117

decorazione architettonica, pur non trascurando la creazione di oggetti d’arredo. Un sensibile interprete moderno è stato il dorgalese Salvatore Fancello. Dalla terracotta in forma industrializzata, si è passati alla ceramica vera e propria, come tecnica non solo, ma come espressione, che è arte necessariamente individuale e, allo stesso tempo, squisitamente artigiana. Anche negli artisti più spregiudicati è evidente, però, il peso della tradizione, che è un’eredità di purezza di forme. E da lamentare, d’altra parte, l’invasione nel mercato di souvenirs (poichè la ceramica si presta più degli altri manufatti), la cui produzione, anche nei centri antichi figulini, s’inserisce tra la produzione tradizionale e quella moderna, senza peraltro saper attingere allo spirito che anima entrambe.

FIGURE 57–70

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57. Oristano, anfore anulari

58. Oristano, conche

59. Assèmini, theiera

60. Oristano, galletto

61. Oristano, brocchetta

62. gorgali, gallina

63. Oristano, boccale

64. Assémini, oliera

65. Sassari, donna a cavallo

66. Cagliari, gallina e candeliere

67. Oristano, servizio da caffè

68. Cagliari, portafiori

69. Sassari, anfora

70. Sassari, rosario

I TESSUTI E I RICAMI

Al Museo Archeologico di Sassari è annessa una sezione etnografica, a termine dell` itinerario” che ha inizio coll’eneolitico. Il visitatore è tentato di collegare i contrappesi di telaio, venuti alla luce nello scavo della cosidetta ziqqurath di Monte d’Accoddi, risalente all’età del rame, con il normale telaio ancora in uso in quasi tutta l’area isolana. Certamente, però, il telaio con i contrappesi del “luogo alto” era di tipo verticale, giacchè il telaio verticale, meno complesso, è nato prima di quello orizzontale. Il visitatore è tentato di collegare altresì i resti di quell’antichissimo telaio con le produzioni artigianali che fanno nelle sale bella mostra di sè. In genere, quando si pensa alla Sardegna, si pensa a questi suoi prestigiosi manufatti, detti impropriamente “tappeti”. Senza volerci spingere tanto indietro nel tempo, la donna sarda non dovette tardare a tessere qualcosa che non riguardasse esclusivamente gli indumenti familiari. Il cosidetto “tappeto” non era altro, all’origine, che un copricassa o un coperta da letto. E poichè i letti, fino al secolo scorso, erano piuttosto rari, è da pensare che il tema principale fosse la decorazione da disporre sulla severa arca tradizionale, il cassone nuziale, che custodiva il piccolo tesoro domestico. Poi c’era la bisaccia, portata da tutti gli uomini, sulla spalla o a cavallo, e quei ricchi collari per la bardatura a festa dei cavalli e dei buoi. (Già qualche bronzetto nuragico raffigura il bue o il toro con il grande collare, forse per il suo carrattere sacrale). Proporci di svelare le origini di questi manufatti sarebbe certamente una fatica vana. Si possono intessere raffronti, come è già stato tentato, con analoghe produzioni umbre, abruzzesi e di altre regioni, nelle quali compaiono analoghi motivi decorativi e certi accostamenti di colori, per altro senza giungere a nulla concludere. È difficile, perfino, il raffronto tra le produzioni delle varie subregioni, perchè i motivi si intrecciano. Cercheremo di individuare quali sono i centri di produzione più caratterizzati, ricordando che quest’arte era un tempo non lontano diffusa in tutta l’area isolana. Su tutti spiccano, per la fantasia compositiva e la vivacità del colore, due 135

centri della Marmilla. L’esuberante produzione di Mógoro e di Morgongiori da una lezione di struttura e compostezza rinascimentali, del tempo delle grandi ancone che inondano di luce le chiese. Se il loro denso, sfavillante cromatismo è di gusto che si potrebbe definire postrinascimentale, non di meno le composizioni non possono dirsi di derivazione barocca, per via, appunto, del rigore geometrico e della compostezza dell’impianto. L’Arata, che ha studiato con serietà l’arte popolare della Sardegna, ha saputo leggere bene in questi manufatti: “I tappeti di Morgongiori sono a cromatismi bassi: il rosso bruno con sfumature di turchino si frammischia col nero e con i gialli, qualche tocco d’oro e d’argento ben distribuito fra i meandri, cosparge di un luccicante tremolio tutta la composizione decorativa. Gli sprazzi vivissimi e di gustoso effetto si alternano con tonalità scure, come se il colore passasse dalla gioia alla tristezza”. Nei manufatti della vicina Mógoro si avverte un crescendo di gaiezza, un trionfo di colori che ricordano per pastosità le colline infiorite a primavera (rossi, gialli, turchini, verdi, viola) ei cortili–giardino delle dimore, giardinetti densi, dove si trovano accostati rose, gerani, violaciocche, dalie, zinie, garofani, gelsomini, gladioli. I manufatti di Mógoro e di Morgongiori (e, una volta, di altri centri non da questi distanti, come Santa Giusta e Siamanna, ma in minor misura) sono i più ricchi di armonie cromatiche e compositive, i più festosi dell’Isola: probabilmente, perchè la geometria non è così rigida come può riscontrarsi in altre produzioni, sia di centri vicini, come Isili e Senis, o nei tipi “a fiamma” della lontana Nule. Sembra spontaneo il modo di disporre nelle evanescenti forme geometriche, coppie speculari di uccelli, di animali, di fiori stilizzati. La tecnica “ad ago” impegna l’artigiana al telaio orizzontale uniposto, favorendo le qualità individuali. La riproduzione di antichi modelli, trasmessi da madre in figlia, è la classica perfezione alla maniera greca, perfezionando insensibilmente con successivi apporti, un modello accettato per valido, dominato da ritmi semplici, come nella musica e nelle danze popolari.

Non basta affermare, come si è soliti, che l’origine dei “tappeti” sardi è orientale, anche perchè diversa è sempre stata in passato, come si è osservato, la destinazione: erano dei copricassa o – come questi della zona di Monte Arci, in tempi più vicini a noi – delle tele da muro. Se è vero che i modelli giunsero dalla Persia in Europa dopo il Mille, nell’Isola non si ebbero contributi successivi da parte di altri popoli come 136

accadde in altre regioni italiane, per esempio in Sicilia, ove sostarono Arabi, Normanni, Svevi. A partire dal XIV secolo, in Sardegna si ebbero influenze artistiche da una sola parte, la Spagna, che per altro non sembra aver sostanzialmente contribuito all’attività tessile come influì invece in altri campi, specie in quello affine del formarsi di costumi. Comunque, non si ritengono determinanti per il risultato successivamente raggiunto, nei secoli XVIII e XIX in modo particolare. La produzione isolana si differenzia nettamente dalle altre produzioni regionali, sia italiane che spagnole. Vano è stato, dunque, fino ad oggi, scoprirne le matrici, a differenza di altre categorie di manufatti di artigianato usuale e artistico. Se negli esemplari di Morgongiori il fondo è in genere grigio, nei copricassa, nelle tovaglie e tovagliette, sia di Mógoro che di Santa Giusta, il fondo è chiaro, bianco sporco o caldocrema. La simmetria adottata è sempre secondo due assi, longitudinale e trasversale: schema che si. direbbe derivato dalle bisacce, che erano di uso comune, perchè tutti una volta erano usi cavalcare. I fiori fantasiosamente stilizzati costituiscono una composizione quasi sempre densa, come la gioiosa esplosione di fiori nella brevissima primavera, e formano – dolcemente figure concluse con l’esagono e l’ottagono, ma mai schematicamente rigide. Sono i motivi floreali stessi che concorrono a formare le figure che racchiudono il fiore prescelto per campeggiare trionfalmente al centro della composizione. Da una patera o vaso vengono fuori in genere sette rami, con fiori e boccioli, in forma geometrica. Il tema della vite è forse quello trattato più realisticamente, nonostante la difficoltà di esprimere la flessibilità dei tralci. Gli agnelli e i cervi (che erano un tempo anch’essi molto comuni), ripetuti all’infinito, accompagnano gli altri motivi, comuni a tutta l’area isolana, soprattutto nelle fasce terminali dei copricassa e degli arazzi. Il cavallo e il cavaliere con la spada, gli sposi a cavallo sono figurazioni comuni, ma prevale qui una figura singolare di donzella con simboli, i putti e i geni alati (i cosidetti “vescovi”). Compaiono simboli attinenti alla tradizione cristiana, quali la colomba, la spiga, l’uva, il vaso fiorito, la fonte; oppure quelli di tradizione bizantina, come il pavone (se non addirittura egiziana, mediata da Tharros e dalle altre città finicio–puniche); così le aquile–bicipiti quasi sempre per ragioni di simmetria – le torri, i castelli, i leoni e i grifoni, di derivazione araldica; e non mancano i cosidetti simboli magici, quali i ricordati geni, il sole, la luna, le stelle, la clessidra, ecc. Questo è il repertorio decorativo, comune ad aree diverse. Ma a Mógoro 137

e a Morgongiori hanno prevalenza i fiori, che si prestano meglio al gusto del tutto ornato, perchè più proprio dell’arazzo, della tela da muro. Rose e roselline e altri piccoli fiori geometrici accompagnano spesso la figura della donzella e dei “vescovi”, che fanno ala, quasi levitanti, al motivo principale, quale il monogramma di Cristo inscritto in losanghe. Ciò è ancor più evidente nella produzione di Santa Giusta, dove il disegno appare più minuto, filiforme, con accentuazione verticale, longilinea, dei singoli elementi, trattati ancor più astrattamente. Si comprende la frequenza dei motivi dei fantastici castelli e delle torri (era, la Marmilla, una zona di castelli e di torri nuragiche), delle chiese, dei cervi, dei cavallini rossi e neri come quelli della vicina Giara di Gesturi, e del ballo tondo; la frequenza del motivo del ramo di corallo, un pò, perchè anticamente rappresentava un vistoso monile, raro in quei centri e pertanto prezioso; si comprende meno il motivo dell’aquila e non si comprende affatto il motivo del pino, che i paesi del Monte Arci non conobbero fino a quando apparve, nel secolo scorso, ai lati della strada di Carlo Felice e di scorta alla linea ferroviaria, tra Uras e Oristano. Ma tra le mustras, ossia i campionari di motivi, ispirati sempre a simboli religiosi, è interessante e famosa nell’Isola quella peculiare di questa zona, sa mustra de su Carmine, la corona del Carmelo, che è venerata a Mógoro, nella bella chiesa omonima del XIV secolo. L’ambiente storicamente colto dà una ulteriore conferma della localizzazione e della tradizione di questi capolavori casalinghi festosi, nati tra il severo Monte Arci e le “giare”.

Sia in Marmilla che nel Sassarese è comune il motivo centrale a candelabra, mutuato dalla flora e dalla fauna, con un intreccio ed una libera interpretazione tali che non si capisce più lo spunto d’origine, chiamato kataluJ’a. E un nome di derivazione spagnola–catalana, che a sua volta – secondo Max Leopold Wagner – potrebbe derivare dall’italiano antico cataluffa, “certo drappo che si faceva a Venezia”. Un damasco di cotone e lana, Katalufa è passato ad indicare non il genere del tessuto, ma il motivo decorativo principale che domina la composizione della fànuga (coperta) e del “tappeto”. Le tessitrici di Villanova Monteleone, che confezionano ancora il grande tappeto in nero e grigio su fondo chiaro, dalle dimensioni di circa due metri per tre, assicurano che il motivo è la fedele riproduzione di un antico modello di coperta settecentesca, trasmesso da madre in figlia. E questo fuori di dubbio, ma occorre aggiungere che è anche uno dei motivi più eleganti che si conoscano, 138

sembra disegnato addirittura oggi, dato il timbro di sorprendente modernità. Sempre a Villanova Monteleone e in altri centri del Sassarese, del Montiferro (Santulussùrgiu), ecc. ha avuto largo impiego il motivo dell’ùpupa, la quale – come è noto – reca una cresta sulla testa. Viene denominato bizzarramente saluda lu re, per via di quella coroncina sulla testa, ma forse anche per evitare quel brutto suo nome, pubùsa, che, oltretutto, in certi paesi è ritenuto un uccello del malaugurio. Il copricassa e la coperta sono i manufatti artigianali che sono stati prodotti con ininterrotta continuità; folti gruppi di artigiane sono tuttora operose in una cinquantina di centri, alcuni dei quali molto attivi. E un pò arduo, si è detto, distinguere i manufatti provenienti dalla diverse aree geografiche per la materia, i motivi decorativi e la gamma cromatica, anche perchè in molti centri non si è continuato a fare ciò che si faceva una volta. Le antiche collezioni non ci offrono, neanch’esse, possibilità di individuazioni sicure. Si fa qui un modesto tentativo, in base soprattutto a quanto si opera in centri ancora vivi, con rielaborazione di motivi tradizionali “locali”, e che, pertanto, si prestano a un’analisi comparativa. I centri di montagna presentano di preferenza motivi orizzontali monocromatici o con l’impiego di pochi colori. In Gallura, dove l’unico centro ancora vivo è Aggius, i piccoli copricassa e tappetini sono formati da strisce trasversali di diversa ampiezza, impiegando varietà di grigi. Ma si confezionano anche, come anticamente, grandi tappeti dai colori vivaci e ben accostati. Villanova Monteleone sviluppa in prevalenza strisce con motivi geometrici minuti (fressada, tessuto a licei). Più delicati sono quelli della vicina Ittiri, sia quando si usano motivi geometrici e arabeschi a rilievo (stilizzazione dell’aquila araldica), bianco su grigio, sia altri motivi, come gallinelle, cervetti, e geometrici. Fattura che si ritrova con poche varianti anche a Òsilo e Chiaramonti. A Bonorva e a Ploaghe si fanno ottime stoffe per arredamento, in pezze. Tradizionali sono le decorazioni da parete, a strisce orizzontali e verticali, larghe, con fondo bianco o colorato, con motivi di cavalieri, di animali e di fiori a colori vivaci e anche con l’impiego di fili d’oro e d’argento. Pure motivi orizzontali, di preferenza monocromatici, sono nei manufatti di Santulussùrgiu, di tonalità azzurra o verde o marron. Sono frequenti i motivi del pavone e della candelabra; frequenti anche i motivi ripetuti a tutto campo. A Bolótana, le strisce recano motivi geometrici densi, usando colori forti, ma delicati. 139

Nule, in Goceano, è ancora uno dei centri più attivi. Vi si confezionano i tappeti di grandi dimensioni: al telaio verticale lavorano contemporaneamente fino a sei tessitrici. Si fanno tappeti con svariati motivi: geometrici, floreali, e pavoni, spighe, cavallini, uccelli, palma di corallo, balletti, preferendo disporre la decorazione densa, calda, al centro del manufatto o a tutto campo. Vi si continuano a fare ancora tappeti vivacissimi, composti di disegni cosidetti “a fiamma” e di motivi geometrici intensamente colorati, che ricordano i tessuti arabi. Anche nella vicina Osidda, le strisce sono dense di motivi geometrici. Come a Nule, a Sarule si lavora il grande tappeto col telaio verticale. Vasto è il repertorio decorativo distribuito preferibilmente in bande orizzontali o verticali: la clessidra, il sole, le stelle e altri simboli, i leoni, la colomba. I centri attorno al Gennargentu sono caratterizzati da un timbro generale più omogeneo: Tonara, Gadoni, Busachi, Meana Sardo, Atzara, Samugheo, Isili. Le produzioni di quest’ultimo centro sono forse le più originali, i tappeti restano in genere nei toni dei suoi manufatti di rame. Le larghe fasce sono dense di motivi: cavalieri, castelli, grifi, pavoni, balletti, monocromatici, appunto color rame, o a più colori. A Tonara sono frequenti i campi uniti dai motivi molto minuti a strisce orizzontali con tonalità forti, piuttosto uniformi. I tappeti di Samugheo si presentano di tonalità calda, con prevalenza dei gialli. Più lontano, ad Orune, i manufatti sono simili a quelli tipici di Tonara, e a Sédilo, i motivi semplici sono in tinta quasi monocromatica, con prevalenza di rossi e marron. Il tessuto di Sédilo ricorda la fressada di Villanova Monteleone. In Ogliastra, i centri di Barisardo, Ulássai e Villagrande hanno solo di recente ripreso un’attività che si era spenta, con manufati non particolarmente caratterizzati. Nel Sárrabus, a San Vito e a Muravera, si ha una ripetizione serrata di motivi geometrici, e i manufatti ricordano per vivacità gli arazzi di MOgoro e di Morgongiori. Le coperte da letto sono finemente lavorate, a motivi floreali. Nell’Oristanese, fra i cui centri eccellevano Santa Giusta, Cabras, Siamanna e la stessa Oristano, si confezionavano ottime copricasse e tovagliette con la distribuzione di ben dosate strisce decorative, dov’erano raffigurati “vescovi” e cavalieri. Nei copricassa del Capo di Sotto (Campidano, Trexenta, Gerrei, Siurgus, ecc.) prevale la ripetizione compatta, densa, a tutto campo, di piccoli motivi geometrici e floreali, riservando figure di animali alle larghe bande terminali. Nel Sulcis (Sant’Antioco, San Giovanni Suérgiu, Giba) si ripetono in 140

tappeti a strisce motivi di cervi, uomini e uccelli. Sant’Antioco era una volta specializzato in arazzi e bisacce. Una tecnica particolare, cosidetta a pibionis (acini d’uva), è applicata spesso alla coperta da letto: le decorazioni compatte sono a rilievo, e molto spesso vi appare il nome della tessitrice, il luogo e la data. Centri ancora vivi sono Busachi, Paulilátino, Ittiri e Pozzomaggiore. Salvo in quest’ultimo centro, dove si impiegavano anche i colori, le coperte si distinguevano per i motivi floreali minuti, in campo bianco. Non si riscontrano differenze sensibili da un centro all’altro, salvo Busachi, che propone anche motivi centrali, come ad esempio sa mustra de su soli (la mostra del sole).

L’arte del ricamo è anch’essa antichissima e ha origini nell’Oriente lontano. In Sardegna è presente sia in casa che in chiesa: in casa, si hanno tovaglie, tovagliette, asciugamani, “giralettus ‘ e velari negli alti, monumentali letti di una volta, e camicie spesso bellissime; in chiesa, tovaglie d’altare e pizzi di paramenti sacri. Le tecniche vanno dal merletto (bianco su fondo colorato, in genere rosso ruggine) al filet (a nodi, pizzo di Bosa), al buratto. Le tele bianche sono ricamate con lane o con sete policrome, in genere a due tinte, indaco e rosso ruggine o giallo e marrone, che erano un tempo ottenute da succhi vegetali. Il ricamo delle tovaglie o è esteso all’intero campo o limitato alle bordure, con fondo ruggine, od anche il ricamo color ruggine viene ottenuto su fondo grigio. I motivi decorativi non si scostano molto da quelli visti nei tappetti e negli arazzi, forse sono più numerosi: si trovano spesso donzelle che si tengono per mano o il ballo tondo, con l’uomo che si alterna alla donna; ancora dame dal lungo strascico, castellane, cavalieri, cervi. Frequentissimi sono il tralcio della vite e il cancorrente, colombelle, simboli araldici, pavoni. Negli esemplari più antichi, ricorrono assieme il leone, il liocorno e il grifo. Tele ricamate e ricami a punto croce recano motivi tolti da antiche monete correnti in Sardegna (sa mustra de sjsinu, la mostra del sisino, moneta del periodo aragonese), putti che reggono cartigli col nome della ricamatrice. La collezione Dallay, nella sezione etnografica del Museo Nazionale di Sassari, consta di moltissimi pezzi, non tutti esposti per mancanza di spazio, che sorprendono per la varietà dei motivi. Gli elementi decorativi religiosi sono passati con disinvoltura nel repertorio domestico, come il monogramma di Cristo e teorie di angeli. 141

Motivi floreali assai vivaci, con fili d’oro e d’argento, vengono ricamati sugli scialli neri, in particolare quelli confezionati e indossati dalle olianesi. Non è semplice stabilire quando furono introdotti in Sardegna i ricami di cui si gloriano molte scuole d’arte italiane; ma è innegabile la caratterizzazione dei merletti sardi, in particolare il filet di Bosa, rispetto alle produzioni continentali. Anche se elementi decorativi sono stati importati, come il leone, il grifo e il liocorno, il timbro è peculiare; esso si avverte agevolmente nel repertorio dei motivi semplici tolti dalla fauna e dalla flora locali, come abbiamo visto per il sisino e per il corallo. Forse le donne si compiacevano allorchè potevano acquisire motivi nuovi, mode nuove, mentre a noi oggi essi appaiono come inquinamenti stilistici. Il centro principale, incontrastato, del filet è stato sempre la cittadina di Bosa: forse perchè le sue produzioni, obbedienti a una rigida impronta locale, ebbero fortuna anche fuori dell’ambito isolano. Tuttavia, nel presente secolo si sono verificate delle infiltrazioni che hanno alterato sensibilmente il carattere del filet bosano, rendendo il manufatto spesso banale, se non di cattivo gusto. Certo, pur lavorandosi ancora il filet, non si vedono più le strade della cittadina della Planárgia pbpolate di donne, sul limitare delle case, intente alla lavorazione del filet, come si potevano vedere fino al primo quarto del presente secolo. Un altro centro famoso per i tovagliati delicatissimi è Teulada, dove anche il fine ricamo faceva parte del costume maschile. Aghi e fuselli compiono la magia: i motivi vegetali si confondono con la fauna, diventata anch’essa vegetazione, e s’intrecciano con meandri e arabeschi; modi umbri, siciliani e abruzzesi si mescolano con modi locali: la dama dal lungo strascico non è un motivo solo sardo, così le castellane nel castello turrito o l’aquila araldica. Ma qui hanno un sapore compositivo diverso. Contro il verismo di gusto classico, per esempio, della tradizione umbra, le figure che si tengono per mano, qui hanno un ritmo grave, inconfondibile, del ballo tondo. L’arte del merletto è quasi del tutto scomparsa: un’ampia esposizione etnografica degli antichi modelli dovrebbe incentivare il ritorno a questi preziosi manufatti, che ornano ancora molte case sarde.

FIGURE 71–116

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71. Aggius, tappeto “uccelli in grigio”

72. Atzara, particolare di coperta

73. Bolótana, tappeto

74. bonorva, arazzo “broccato e ghirlande”

75. Busachi, bisaccia

76. Gadoni, particolare di tappeto

77. Giba, tappeto “vasi, fiori e tacchini”

78. Isili, arazzo

79. Isili, arazzo

80. Ittiri, tappeto “rombi e fiori”

81. Meana Sardo, particolare di coperta in rosso

82. Mógoro, arazzo

83. Mógoro, particolare di arazzo

84. Mógoro, arazzo

85. Mógoro, arazzo

86. Morgongiori, arazzo

87. Morgongiori, arazzo

88. Morgongiori, arazzo

89. Nule, tappeto “aquile e cervi”

90. Nule, tappeto “balletto” in fondo nero

91. Nule, tappeto tradizionale “a fiamma”

92. Orune, tappeto

93. Osidda, tappeto

94. Ósilo, tappeto

95. Ploaghe, tappeto

96. Pozzomaggiore, coperta

97. Samuhjeo, tappeto

98. Sant’Antioco, bisaccia

99. Santulussurgiu, tappeto

100. San Vito, tappeto

101. Sarule, tappeto “cavalcata in campagna”

102. sarule, particolare di tappeto “uccelli e cervi”

103. Scano Montiferro, stoffa per arredamento

104. Sédilo, particolare di tappetino

105. tonara, particolare di tappeto

106. Villanova Monteleone, tappeto

107. Zeddiani, tappeto “papaveri”

108. Oliena, scialle

109. Oliena, scialle, particolare

110. Oliena, scialle

111. Oliena, scialle

112. Ósilo, scialle

113. Villanova Monteleone, tovagliati

114. Villanova Monteleone, tovagliati

115. Tovagliati ricamati con applicazioni in filet

116. Collare per cavalli

I GIOIELLI

Dai bracciali di pietra e dalle collane di conchiglie della preistoria, all’oreficeria del mercato fenicio–punico (documentati largamente nei musei archeologici dell’Isola) fino ai gioielli distribuiti con dovizia sui costumi, resta ad abundantiam dimostrata la vanità dei Sardi, sia della donna che dell’uomo. Assieme alla raffinatezza, talvolta sorprende anche il lusso, come il complemento di gioielli ai costumi di Quartu Sant’Elena e di SInnai. Al gusto diffuso del monile ha fatto, sin dall’antichità, riscontro l’attività di un artigianato locale attento. Oltre all’interesse per la lavorazione dei metalli preziosi (fenomeno comune, si può dire, a tutti i popoli), in Sardegna la presenza di miniere argentifere ha stimolato una folta schiera di artigiani, come attestano i documenti degli antichi argentieri, che già dal XIV secolo avevano botteghe fiorenti in Cagliari, Sassari, Oristano, Iglésias. La zecca di quest’ultima cittadina ha avuto anche un ruolo complementare, in quanto le monete bellissime ivi coniate sono state largamente adoperate come elementi decorativi dei costumi, in luogo di bottoni e piastre. Il grande centro di produzione di gioielli e di vasellame era Cagliari. L’attuale via Mazzini era detta via Argentari, i quali prima erano riuniti in Castello, nel Carrer de los Plateros. L’attività si espanse in seguito anche ai villaggi attorno a Cagliari: Quartu Sant’Elena, Quartucciu, Selárgius, SInnai. A Sassari, in gran numero sin dal Trecento, avevano le loro botteghe nell’attuale via al Rosello, che conservò fino al 148 il nome di via Argenteria. Nei documenti antichi si fa sovente cenno ad essi ed al loro glorioso “gremio”. Ma anche nelle cittadine di Alghero e Bosa e nei centri barbaricini si andò sviluppando la loro arte: centri che nella maggior parte dei casi sono ancora attivi: Nuoro, Oliena, Dorgali, Gavoi. Nel 1386, si sa che l’orafo cagliaritano Giovanni di Cione eseguisce una bellissima croce astile per la Cattedrale di Salemi, in Sicilia: ciò dimostra come sin da allora fossero famose le botteghe cagliaritane. Le vicende dell’oreficeria, forse l’attività artigiana preminente nell’Isola, non sono dissimili dalle altre attività artigiane, ma desta sorpresa il fatto di 189

trovare presenti in Roma – in pieno dominio spagnolo – parecchi orafi sardi, come sorprende anche nel Tesoro della Cattedrale di Cagliari siano conservati oggetti di orificeria cinquecentesca, di carattere decisamente italiano (Leggi facevano allora divieto d’importazione nell’Isola di oggetti d’argenteria che non fossero di provenienza spagnola). I gremi degli argentieri son fra i più antichi: le corporazioni di mestiere tutelano il lavoro fecondo di questi artigiani, che popolano le chiese di croci astili, calici, custodie, reliquari. Della seconda metà del Cinquecento e dei primi anni del Seicento, si conoscono i nomi di vari artisti, fra i quale eccelle Giovanni Mameli, “maggiorale” del gremio degli argentieri di Cagliari. Noti erano anche Giovanni Antonio Piccioni, che aveva bottega nel quartiere cagliaritano di Villanova (è rimasto il nome alla strada), Matteo Manca e Sisinnio Barrai. Ignazio Serra è autore delle belle cartaglorie custodite nella chiesa di San Giacomo. Il capolavoro dell’orificeria sarda è costituito dal crocione processionale del Duomo di Cagliari, del Quattrocento. E firmato con la sigla N. D., per cui non si può stabilife se l’artigiano fosse sardo o immigrato. Per le botteghe cagliaritane fu un periodo di stasi il Seicento, anche perchè la peste del 1652 decimò le maestranze orafe di quella città. Già nel 1610, però, maestri di Palermo avevano eseguito il grande tabernacolo del Duomo di Cagliari e maestri spagnoli nel 1635 avevano eseguito il magnifico paliotto dell’altare maggiore. Se abbiamo accennato all’attività” aulica” degli artentieri, è per sottolineare il grande mestiere da essi acquisito durante i secoli; ma la loro attività ci interessa, soprattutto, per la produzione dei gioielli e degli amuleti, per la produzione di carattere popolaresco, che è stata particolarmente notevole. Al metallo prezioso si aggiunge il disegno prezioso: una volta acquisite le tecniche, l’argentiere e l’orafo si può dire che non abbiano limiti alla loro creazione. I gioielli, ornamento complementare sempre presente nei costumi, comprendono orecchini, bottoni, anelli, braccialetti, gancere, collane, pendagli, ciondoli, amuleti, orologi, catene, fibbie. Dopo il bottone di filigrana, la collana è il gioiello più diffuso, d’oro e d’argento, talvolta lunghissima, di varia foggia: o formata da elementi diversi uno dall’altro, o con la ripetizione di uno solo, al massimo di due elementi (per esempio, rosette con pietre o perle incastonate e coppie d’aquile araldiche); il crocifisso reca ai bracci pendagli e al centro un santino inciso a tutto tondo. E sorprendente con quanta fantasia sia stato trattato il simbolo della croce. 190

Le catene, soprattutto quelle provenienti da area barbaricina, decorate con misurato gusto da figure di cavalieri, cuori e uccelli, sono forse i gioielli che più rispecchiano la sardità di queste produzioni. Orecchini e anelli di semplice, elegante fattura, raggiungono spesso anche elaborazioni interessanti, con incastonature di perle e di pietre. I pendenti di collana recano spesso medaglie con il santo inciso o a tutto tondo, ed i rosari in filigrana, decorati da rosoni di varia geometria e dal crocifisso elaboratissimo, sono talvolta di grande dimensioni, da appendere a capo del letto. Portaprofumi, campanellini e amuleti contro il malocchio completano il corredo dei gioielli personali; fra gli oggetti di toeletta, si distinguono gli spuligadentes, decorati con perline, mostricciatoli, cavalieri, cuori con putti o con aquile.

L’attività principale degli argentieri e degli orafi era volta agli oggetti di abbigliamento, sia femminile che maschile; poi seguiva il vasellame domestico e la suppellettile chiesastica (cartegloria, candelabri, pissidi, calici, ostensori, reliquari, croci astili, corone, medaglie, crocifissi). Non è da trascurare neanche il complesso, veramente notevole, degli ex–voto che tappezzano i celebri santuari: cuori, occhi, arti e putti in lamina d’Argento. Le Madonne sono cariche di gioielli e di ex–voto, tra cui antichi rosari molto belli e amuleti legati in argento. Sorprende, di alcuni tipi, trovare molti esemplari identici: specie gli spuligadentes e le gancere venivano fatti in serie, per fusione. La matrice veniva eseguita a mano, adoperando il martello e il cesello. Per la riproduzione, si adoperava l’osso di seppia: dopo averlo asciugato, squadrato e appiattito, veniva premuto dal modello, che lasciava l’impronta, costituendo il negativo. Indi, si effettuava la colata sull’osso di seppia e poi si riprendeva la forma col cesello e la lima. Fra i metodi di lavorazione del metallo, era praticata la fusione, nel modo anzidetto, lo sbalzo e l’incisione, ma la più diffusa di tutte era la tecnica della filigrana. Con accorgimenti, si arrivò alla saldatura perfetta della filigrana. Si esaltava la brillantezza degli oggetti in oro, immergendoli in una soluzione di allume di rocca, sale da cucina e salnitro, in una terrina. E raro trovare incastonature di pietre preziose. Nella sezione etnografica del Museo Nazionale di Sassari si trovano smalti, smeraldi e rubini sapientemente incastonati. In genere, le pietre sono di scarso valore, perchè si cerca191

vano solo effetti di colore. L’unica pietra da incastro era il granato. Si usava il vetro colorato e, spesso, la carta stagnola sotto il vetro trasparente. Le collane si facevano anche col corallo – conosciuto da molto tempo –con i granatini e con le perle. Dal Settecento si adoperano diffusamente le perline di mare. Il corallo fu introdotto nelle gancere da portare attorno al collo, eliminando lastrine fatte a stampo, di cui un tempo erano interamente composte (usate, per esempio, nel costume di Busachi), poi sostituite del tutto, nel Settecento, dalla filigrana. Oltre gli effetti di colore, interessavano spesso gli effetti magici, ricorrendo contro il malocchio all”occhio di Santa Lucia”, che è un opercolo di murice, una conchiglia di mare; contro la iettatura in genere, si usava la pietra nera, un vetro detto sa sabeccia (campidanese).

È da lamentare che per ricavare monili, siano stati impiegati – specie ai primi del Novecento – gli “scudi” d’argento: assieme a quelli dei Savoia e del Regno d’Italia, gli argentari fusero i preziosi “scudi” e le monete d’argento di epoca spagnola. Si fece, cioè, il contrario di quanto si usava nel Medioevo, quando le guerre facevano rastrellare i monili, e si coniava rifondendo i metalli: e la scarsezza degli esemplari pervenutici dell’alto Medioevo è una delle cause, infatti, che non consente lo studio comparato dell’orificeria presso i vari popoli. Dalla caduta dell’Impero romano, si può dire, fino al XII secolo, si nota in tutto l’Occidente una decadenza in conseguenza dell’impoverimento generale: corrispondono in Sardegna ai secoli del periodo bizantino e del primo periodo giudicale. Non sappiamo se i monasteri, anche nell’Isola, ebbero un ruolo nella formazione degli artigiani. Le correnti di rapporti tra regioni e paesi continentali, avvenute dopo l’XI secolo, in Sardegna non giunsero affatto o giunsero molto attutite, per via dell’isolamento e della depressione cui essa venne a trovarsi; l’arte rimase di tono modesto, ma arrivò ad assumere un carattere decisamente sardo. Gli scambi che vedremo a proposito dei costumi, con la repubblica di Pisa devono aver influito anche per la formazione artigiana dei gioiellieri. Nel secolo XIV, erano attivi in Cagliari due argentieri immigrati pisani, Puccio e Vanni di Guido. Ma, se il gusto del monile prezioso andò di pari passo con quello dei costumi, dobbiamo ritenere che il passo maggiore nella diffusione in tutta l’Isola si ebbe dalla seconda metà del Seicento in poi. 192

La donna sarda, parca in tutto, tiene però alla proprietà dei gioielli, che trasmette ai propri figli. I gioielli completano decorativamente i costumi: talvolta, questi sembrano la struttura portante d’una mostra di gioielli. Sono essi che distinguono i costumi l’uno dall’altro nello stesso paese, la nota di individualità di cui ogni donna si sente gelosa. Se è difficile cercare di stabilire quali modi appartengano a un determinato popolo sotto il profilo dell’originalità, è arduo indagano per la Sardegna. La riproduzione degli stessi motivi decorativi non sempre si può spiegare come fenomeno di convergenza: come ad esempio, spirali e meandri distribuiti a formare un identico disegno, pur nelle infinite combinazioni possibili. Per quanto riguarda l’Isola, si può dire che si notano le imitazioni delle forme importate, italiane e spagnole, che molto spesso inquinano le linee altamente espressive della produzione locale, di sapore ancora di purezza arcaica, sobria e raffinata a un tempo. I classici bottqni gemini in filigrana, da collo e da polso, che si dice rappresenti il simbolo del seno di Tanit, lo si trovano anche presso altri popoli, ma in Sardegna ha conservato un timbro particolare. E vano tentare un riallaccio molto antico, a gioielli orientali pervenuti attraverso il mercato fenicio–punico: traffico che era stato fiorente, come attestano le necropoli di Tharros e degli altri centri semitici costieri. E più verosimile che la tecnica della filigrana sia stata introdotta dal mercato arabo–ispano, anche se non è improbabile, come si è accennato, che l’abbiano importata i Pisani durante il loro periodo egemonico. Risalgono però al Settecento gli esemplari che ci dicono quale raffinatezza la filigrana sarda avesse raggiunta. E parimenti al Sei–Settecento risalgono alcuni motivi frequenti, quali i leoni coronati e le aquile araldiche. Gli amorini e le perle raggruppate – caratteristici dell’orificeria campidanese – sono di gusto francese. Fra le attività artigianali, quella degli orafi e degli argentieri è forse la più stimolante il senso d’arte, non avendo si può dire, l’artigiano limitazioni di ordine tecnico: la sua fantasia interpreta e soddisfa la domanda; il limite, è costituito dal metallo prezioso e dal piccolo formato, non da come l’oggetto viene confezionato. Gli artigiani sardi acquisirono le tecniche, che andarono sempre più affinando; nella lavorazione del “filo” d’argento diventarono addirittura virtuosi, la loro arte raggiunge un timbro schiettamente locale, regionale, sia per la tecnica acquisita che per il ritmo compositivo, anche se non sempre di carattere unitario. Se troviamo miscuglio di elementi, accostamenti di epoche diverse, gusto e tecniche diversi, si devono alle influenze negative esercitate dall’Italia e dalla Spagna a discapito dell’unità stilistica che si stava deline193

ando in campo regionale. Quanto esiste nelle raccolte pubbliche e private, non è stato fin ora classificato con criteri scientifici. Come si vedrà per i costumi, anche per i gioielli è difficile l’attribuzione per regioni. Si riscontra un gusto eccletico, che accomuna motivi religiosi e profani: accanto al santino e al crocifisso, troviamo il grifo, il putto, l’aquila araldica; è assai ricorrente la forma del cuore. Si può dire che il fondo indigeno si andò via via arricchendo di motivi, con apporti delle diverse culture: bizantina, romanica, forse araba, rinascimentale, barocca, neo–classica. Gusto arcaico presentano i piccoli portaprofumi, anche se di produzione relativamente recente. Gli spuligadentes, che fanno parte degli oggetti di toeletta e che si trovano appesi alle cinture, sono per lo più di derivazione spagnolesca. Anche quei tipi di orecchini che simulano grappoletti d’uva, con l’accostamento di piccole perle, ritenuti comunemente locali, sono comuni ad altre regioni, così come abbiamo notato che i bottoni d’oro e d’argento hanno forme che appartengono a un’area europea molto vasta. In Sardegna, nonostante la religione diffusamente praticata, radicata è la credenza nella iettatura e nel malocchio; per cui, sono stati adottati numerosi antidoti: simboli magici, talismani, amuleti e feticci (fenomeno anche questo comune a tutti i popoli). Qui in Sardegna interessa in modo particolare, perchè ha data adito alla creazione di oggetti preziosi che vengono appesi al collo, soprattutto dei bambini. Essi vengono a formare un unico corpus con gli altri gioielli. Concludendo, si può affermare che pur non essendo agevole ricostruire la storia dei gioielli e degli amuleti, essi si impongono per una impronta fortemente caratterizzata, che si può senz’altro definire sarda.

FIGURE 117–130

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117. Spilla in oro, perle e giada africana

118. Spille in oro e perle

119. Spille in oro e perle

120. Spillo con pendente

121. Rosario e collana

122. Cammei, corallo e madreperla con spilla in oro

123. Rosario d’argento e madreperla con medaglione

124. Spillo con pendenti

125. Spille con pendente

126. Spillo con pendente formato da bottoni

127. Spillo con pendente

128. Bottoni in oro

129. Spillo con pendente

130. Spillo con pendente

PRODUZIONI EFFIMERE

Si può dire che in Sardegna sia mancata la grande scultura. Anche considerando le figure al naturale di età nuragica, venute alla luce recentemente nel Sinis e che i Sardi, ai cui lontani progenitori si devono i prestigiosi bronzetti, hanno sempre scalfito, intagliato, inciso, resta quasi un mistero. Nè si possono considerare vere sculture quelle rare figure di uomini e di animali espresse dai terracottai. I rari scultori sono tutti del nostro tempo. Non si può, però negare che i Sardi non abbiano il gusto della plastica, anche se spesso di natura effimera per la materia adoperata: creta, pasta di pane, di dolci, di formaggi, palma e cera. Quando in Campidano si escavano i pozzi per ripulirli e fuoriesce l’argilla rossiccia, umida e compatta, i terrazzieri si compiacciono comporre plasticamente figurette nella scala degli antichi bronzetti, per far sorridere i bimbi: capita di vederne di eccellente fattura. Queste esercitazioni, che non durano neanche lo spazio di un giorno, sono da considerare veramente un’arte effimera, durano infatti appena il tempo per poterle fotografare. Ci sono, tuttavia, altre espressioni più durature, cui si dedicano ancora le donne, come i pani di festa e certi dolci, nonchè gustosi formaggi. Il pane, sia esso di festa o quotidiano, rappresenta sempre una fatica accompagnata con amore. Basta osservare, infatti, con quale delicatezza la massaia esplora la cottura, spingendo delicatamente di quando in quando la pala dentro il forno, onde non risulti compromesso il coronamento d’una somma di fatiche: oltre quello dello sposo, le proprie: la battitura, la setacciatura, la formatura. Ha accompagnato ogni atto col canto – il battito del setaccio richiede un ritmo particolare – ma ora tace, per l’attesa e la commozione. Come il terracottaio, durante l’infornata. La lavorazione della pasta è un ritmo collettivo, le donne cantano soprattutto perchè trovano in questo atto un pretesto di gioia, dando forma, con amore, alla propria fatica. Essa emula qui l’artigiano, adoperando la materia plastica che le è consentito governare, la pasta di grano. E si compiace del vasto e vario corredo dei canestri, per poter disporre delicatamente queste sue 211

effimere creature. Dalla lievitazione alla cottura e alla disposizione ordinata delle forme dorate nei canestri, è come assolvere a un servizio religioso. Anche la veglia ha un sapore rituale, e la mondatura del forno con scope formate di particolari erbe aromatiche di campo, colte la sera precedente, è svolta con la stessa accuratezza che ha presieduto alla formatura del pane. E pur nella ricca gamma di forme del pane quotidiano, siano esse focacce o fogli croccanti, eccellono le varie forme del bianchissimo pan ‘e sim buia (pan di semola), confezionato sia per consumo pur esso quotidiano che per particolari ricorrenze e circostanze. Si fanno forme particolari per le cerimonie: battesimi, cresime, sponsali, celebrazioni di prime messe, e in particolare ricorrenze dell’anno, come il capo d’anno, l’Epifania, la Domenica delle Palme, la Pasqua. E comune pressocchè a tutta l’area isolana il pane pasquale con l’uovo, cesellato e “verniciato” con spennellature d’acqua tiepida, durante la cottura; è in genere a forma di coroncina, tutto seghettato di creste dette, in campidanese, pizzicorrus, per mezzo di speciali coltellini. Può anche essere a forma di pupazzo o di navicella, a intagli di fiorami e persino di idoli. Per i bambini, a capodanno, si fanno i bastoncelli di Dio, cioè pani a forme di bastone episcopale, di un bastone animato di bracce e di piedi, seghettato nella parte esterna della spirale come la cresta del gallo. In alcuni centri del Logudoro, si confeziona per l’Epifania una schiacciata, detta sa giuada, adorna di bassorilievi con scene a arnesi agricoli. Il pane a tondelli intrecciati, come si usa fare con le foglie di palma, è detto per questo “pane di palma”: il traliccio viene costellato di foglie, roselline, uccellini. Per la domenica della palme, si prepara anche una specie di trofeo con gli strumenti della “Passione”: a forma di croce, di scalette, di tenaglie, ecc. Per le nozze è frequente, oltre la forma della colomba, quelle di cuore, di mezzaluna, di uccelli. In Logudoro, il pane degli sposi novelli dura a lungo: su rosoncini si praticano graziosi intagli di forma triangolare, circolare ed ovoidale. Per le decorazioni, si adoperano piccole pinze dentellate con le quali si tracciano dei rialzi (pintabai = decora pane), o le forbici. Specie nei villaggi di montagna, è ancora in uso lo stampo di legno: i dischetti di pasta ripetono le decorazioni tratte dal cassone nuziale, a guisa di una piccola opera d’incisione e di intaglio. Ogni villaggio adopera un tipo di stampo: c’è la ripetizione, in questi casi, quasi meccanica, dei motivi, che sono geometrici, floreali e simbolici, come il cuore e le fedi intrecciate. Il pane, a forma circolare, stellare, di croce greca, di quadrifoglio e di 212

varia, polilobata geometria, viene premuto coi timbri di legno, tutto traforato e trapunto con gusto, con impeccabile simmetria. Poi c’è il pane decorato con fantasia, a tutto tondo: pesci dalle strane forme, cagnolini, caprioli, uccelli fantastici, pupazzi, o forme decisamente astratte, o anche gruppi modellati con somma pazienza e perizia, densi densi, raffiguranti il gregge, scene dell’aia, ecc. Anche il “pane benedetto”, che si distribuisce ai poveri in certe ricorrenze festive, ha spesso forme fantasiose, onde appaia più gentile il dono (una rozza cornacchia è detta sa carro ghedda). Come presso i ceramisti l’anfora composita, così ha avuto fortuna in Barbágia, un trofeo di abilità, che assomiglia a un vaso di fiori fatto di pasta e che è stato forse suggerito dal nénniri, l’erba sacra del venerdì santo. E un motivo importante di folklore figurato, come certe forme strane di uccelli, di simboli sacri di fecondità, di lune con croci e candelabri. Oltre i “decora–pane”, per la modellazione dei pani cerimoniali, le forbici e i timbri, si adoperano anche le rotelle dentate e i bottoni di filigrana delle camicie. Il bambino si accontenta di roari di dadetti croccanti; per la prima comunione riceverà ostie a forma di calice e di croce, con fiocchi rossi intrecciati tra le trine di pasta; gli sposi e i sacerdoti conservano per lunghi anni alcuni esemplari di pane fra i più belli ricevuti nel giorno delle nozze o per la prima messa, assieme agli altri doni.

Il pane di Natale – la festa più bella dell’anno, che vede la famiglia, anche quella del pastore nomade, tutta raccolta attorno al focolare – è decorato con noci, noccioline, mandorle. E attorno all’uovo di Pasqua, si svolgono ghirigori fantasiosi: pane lucido, dorato, tutto seghettato e a guglie. A guisa di fantastici cavallucci marini, quelle forme, disposte nei cestini di asfodelo, di palma o di paglia, sembrano delle nature morte. Qui troviamo la fantasia individuale, completamente libera da schemi o da ricordi, veri pezzi di artigianato. E le forme di pane biscottato, che è quasi un dolce? Non si sa, infatti, molto spesso, dove finisca il pane e dove inizi il dolce. La sapa, la ricotta, l’uva passa sono i termini di passaggio: col pan di sapa, le “formagelle”, le párdulas, le tiriccas. Ad un dolce, is pistoccheddus de Serrenti (i biscottini di Serrenti) si dà molto spesso la forma di uccello, il comune motivo della decorazione del cassone nuziale e dei tappeti, ma a differenza di questo, stilizzato e severo, è di 213

forme spigliate, con la cappa bianca cosparsa di confetti variopinti (trageda). Il fatto che si sia ricorso all’uccello è spiegabile con la resa efficace del semplice ritaglio: sia per quelli di grandezza d’una diecina di centimetri che si confezionavano una volta, sia per quelli di formato minuto che sfornano oggi. Ma dove veniva prestata la maggior attenzione era il monumentale gatò di mandorle, il cosidetto (camp.) su cambali, che la priorissa portava con sussiego in processione per la festa della Candelora e ne faceva poi omaggio al parroco. Era quasi sempre un’architettura composita (la torre, il castello, il nuraghe o anche un santo annicchiato) di mandorle tostate e di zucchero, dove c’era abbondanza di zucchero, o di mandorle tostate e miele, dove si produceva il miele. L’abilità della mano asseconda la fantasia anche nella confezione dei cavallucci, uccelletti e trecce di cacio. Queste forme che si rinnovano ogni volta, con fresca fantasia, sono assieme al gustoso contenuto, prodotto di autentico artigianato artistico.

Per il periodo della Pasqua, l’artigianato casalingo non si limitava alla religiosa preparazione dell’erba sacra e alla confezione del lucente pane di festa con l’uovo, ma si estendeva anche alla lavorazione della palma, che in certi paesi era riservata a dei veri specialisti. Le palme meglio operate erano destinate al parroco, ai priori delle confraternite religiose, ai maggiorenti. La palma operata – anch’essa una fatica effimera – durava tutt’al più un anno – sembrava una fantasia borrominiana, fatta di intrecci, “cuori” e infiocchettamenti. Decorata con pezzetti di stagnola o d’oro in foglia, vi si aggiungeva qualche ciuffo di violaciocche e qualche ramoscello d’olivo. E si portava, con grande emulazione e orgoglio, in chiesa a benedire per riportarla poi a casa e appenderla in capo al letto. La passione per la plastica, assai diffusa, come è facilmente constatabile nella lavorazione del pane, si rivelava anche nella scelta degli ex–voto che, fino a poco tempo fa, si facevano preferibilmente di cera pecie le figure di bambini, derivati dai putti attraverso il barocco dell’Italia meridionale, sono frequenti forme che i cerai sardi ripetevano e portavano in copia nelle sagre religiose. Sono un capitolo notevole della plastica votiva che si estrinsecava anche con manufatti di altre materie, in primo luogo il legno, l’argilla, il bronzo e l’argento.

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MANUFATTI DI MATERIE VARIE

Fra le umili essenze usate dall’artigianato, non potevano mancare le piante palustri che, anch’esse abbondanti, allignano sull’orlo degli “stagni”, specie di quelli numerosi dell’Oristanese. In primo luogo, il biodo, detto alla latina buda (Typha Angust(folia) e l’erba salla (Rumex Acetosella), con cui si confezionano ancora le stuoie: un tempo impiegate per riposare, oggi per pannellature varie e per riporre frutta ad essicare. Il fogliame giallastro, tenuto da tre legature di cordicelle nel senso longitudinale, con i bordi liberi, dà un senso di freschezza. La stuoia presenta anche il vantaggio che, dopo l’uso, si può arrotolare, occupando poco spazio. Si confeziona ancora a Zeddiani, Milis, San Vero Milis e Santa Giusta, nella misura ormai standard, di m. 1,70x0,90. Con un’altra pianta palustre, detta cruccuris (Ampeloderma Mauritanica), i pescatori di San Giovanni di Sinis e di Mistras confezionano vaste, magnifiche capanne rettangolari, con la sola apertura d’ingresso, interessanti per come sono strutturate, ma soprattutto per la decorazione di entrambe le testate. La forma di esse è antichissima, come parimenti ilfassoni di cui si è già parlato, l’imbarcazione di vimini ancora in uso nello “stagno” di Cabras. I pescatori di Cabras confezionano queste imbarcazioni anche in piccola scala per i loro bambini e da un pò di tempo sono apprezzati souvenirs. Si ricollegano a detti manufatti le chiuse di canne palustri e le capannucce dei guardiani delle peschiere di Mar’e Pontis, nel Sinis, le quali sono anch’esse opera di eccellente artigianato. Nella stessa area dell’Oristanese, a Milis, si lavora un’altra essenza, che ivi cresce gagliarda, la canna, per confezionare ancora stuoie. Un tipo è ottenuto con la stessa tecnica della stuoia di biodo, fatto di canne tagliate della larghezza voluta, un altro tipo è ottenuta con la canna spaccata e tessuta. La prima si usa per creare zone d’ombra e per deporvi ad essicare pomodori, mandorle e noci. Della seconda attualmente si confezionano pannelli che di norma hanno le dimensioni di m. 2,50x1,50 e dim. 1,70x0,90. Questi ultimi, 217

usati per deporvi le arance (Milis produce molti agrumi), sono i più antichi, come le misure denunciano: la lunghezza, infatti, è la traduzione metrica della bracciata (passa), mentre i primi servono per la costruzione dei tetti, come protezione (recente) dei ponti di servizio, ecc. Una volta, coi pannelli si faceva il tettuccio del carro, per far ombra e riparare dalle intemperie (quando si andava alle sagre, si stendeva sopra una coperta da letto, altrimenti detta “tappeto”). Si facevano i cilindri–silos per la conservazione del grano e dei cereali, detti orrios (dal latino horrea). I milesi, in particolare, se ne servivano per il trasporto degli agrumi sul carro a buoi. Disposto il cilindro in posizione orizzontale, dentro si ammucchiavano le arance e vi si sistemava anche il venditore, come è ricordato da un noto acquarello della Raccolta Luzzietti. I tessitori di canna (che operavano in vari centri) sono di un’abilità straordinaria: praticano alla canna due nervosi tagli alle estremità, indi con la punta affilatissima d’un falcetto praticano un taglio longitudinale assai rapido, l’appoggiano su una pietra levigata murata a pavimento e la battono con una mazza di legno (il manico è ricavato dallo stesso pezzo), la aprono e la sbucciano. Questa operazione la eseguono per ultimo (al contrario di quanto può sembrare ai non esperti), perchè risulta assai più rapida di quando la canna è intera: il falcetto scorre su una superficie piana anzichè su una superficie di un cilindro di piccolo diametro. Una volta preparate le strisce, si dispongono a compenso ed infine si tessono a spina di pesce: ed è sorprendente la rapidità con cui nasce il pannello, che viene bordato tutt’attorno, ripiegando le stesse strisce, affinchè non si sbocconcelli. Poi, i pannelli si distendono nel cortile o sulla strada, al sole, per ingiallire, e vengono accatasti, come si usa fare per i fogli di compensato. Che la tradizione dei tessitori di canna sia antichissima, lo dimostrano alcuni manufatti ceramici del periodo nuragico, che si trovano – come si è già accennato – nei nostri musei: precisamente, quei vasi denominati dagli archeologi “a stuoia”, perchè si ottenevano facendo ruotare una piccola stuoia tessuta che serviva da appoggio alla creta, per ottenere la forma voluta: funzione che più tardi è stata meglio disimpegnata dalla ruota figulina. Sul fondo gli antichi cocci recano ancora l’impronta dell’ordito.

Con le canne, si fabbricavano alcuni giocattoli per i bambini. Equitare in arundine, cavalcare su cavallucci di canna è una tradizione molto antica. Qui li ricordiamo per la varietà e la grazia con cui venivano confezionati: o for218

mati da due pezzi di canna e da una cordicella (le briglie) oppure da tre pezzi di canna, di cui il maggiore da cavalcare, e due più piccoli per simulare la testa, con le orecchiette ben puntute e il taglio della bocca, e allo stesso tempo le briglie. Il rapporto delle tre aste raggiungeva spesso una rappresentazione astratta di grande efficacia. Veniva sovente infiocchettato, come si bardavano i cavalli veri per le processioni. Un altro giocattolo, fatto essenzialmente di canna, con la sola rotellina dentata di legno che batteva contro la linguetta petulante, era la “raganella”. Non era propriamente un giocattolo, ma i ragazzi si divertivano un mondo, durante la settimana santa, per cacciar via il demonio. Sempre con le canne, si confezionano ancora gli strumenti musicali a fiato: i pifferi, gli zuffoli e il tipico strumento isolano, le launeddas, a tre canne. I ragazzi si divertivano con lo zuffolo ad incantar le lucertole, ma si divertivano anche e forse più con lo schioppo (scupeta), consistente in un pezzo di canna della lunghezza di circa cinquanta centimetri, solidale con una fetta sottile, pur essa di canna, tesa ad arco, la quale nella parte libera scorreva in un foro dalla banda opposta; mediante una leggera pressione dell’indice, essa spingeva il proiettile, un tubetto di canna, di diametro inferiore di quello della canna dello schioppo. Nella sintesi costruttiva, il grilletto è tutt’uno con la cinghia per portare lo schioppo ad armacollo, sicchè la geniale semplicità del giocattolo è veramente ammirevole. Le bambine si accontentavano di recare “in processione” lo “stendardo”, costituito da un’asta lunga, su la cui estremità superiore si disponevano due stecchi ad X e due altri orizzontali, tenuti reciprocamente per contrasto. Nel Capo di Sopra, dove abbondano la ferula e l’asfodelo, si facevano i cavallucci con due tronchi di feruda, e sediette per bambole, adoperando gli steli di asfodelo, tenuti ad incastro.

Il sughero non ha sollecitato molto la creazione di forme, forse perchè la materia resta un pò sorda. Solo di recente, assieme a brutti oggetti, su disegni di artisti sono stati eseguiti anche ottimi modelli, previo trattamento del sughero. In Gallura, dove se ne produce e se ne lavora in maggior quantità, si trova un maggior numero di tipi di manufatti. Naturalmente, alludiamo alle forme tradizionali, non alle aberrazioni–souvenirs degli ultimi anni, intarsiando il sughero grezzo con quello rifinito. Del sughero si scelgono le forme naturali più adatte per servire da vassoio per gli arrosti; ugualmente si ricavano recipienti cilindrici per vasi da fiori, 219

per contenere latte e liquidi in genere, fra i quali molto diffuso l’uppu, col lungo manico di legno. Belle le antiche misure, anche per le soluzioni degli incastri, delle giunture e del bordo. Dai nodi di sughero si fanno rustici bicchieri per le cantine, soprattutto per bere acquavite.

E curioso che alla pari del sughero, anche un’altra materia di pregio e abbondante, il cuoio, non abbia suggerito molte applicazioni. Notevoli concerie erano quelle di Bosa e di Sassari, ricercate per la qualità del cuoio. Ma si conciava in tutte le case dei pastori ed anche dei contadini. L’applicazione che ebbe larga diffusione fu la creazione dei finimenti per cavallo, sia per uso quotidiano che per la bardatura a festa (Serramanna, Santulussùrgiu) e per alcuni indumenti. Cinghie larghe e istoriate, fatte a stampo e a colori facevano parte dell’abbigliamento maschile; se ne fabbricano ancora, unitamente a portafogli e portamonete, a Dorgali. Si può dire chç quasi tutte le pelletterie si confezionano ancora in quest’ultimo centro. La produzione, però, è volta a modelli aggiornati di borse (Pattada, Bosa, Santulussùrgiu, Monserrato).

Le zucche sono state da tempo graffite, onde ottenere borracce per contenere vino o acquavite o per usarle come fiaschette per la polvere da caccia. Delle svariate forme cucurbitacee, non sono mai state scelte quelle di forme bizzarre – come si fa oggi, pirografandole malamente – ma quelle di forma più comune, di sfera schiacciata. Si agganciava una cordicella o una strisciolina di cuoio, per portarla a tracolla. La lavorazone è in genere come quella dei corni incisi: scene religiose, con figure di santi, scene di caccia ed elementi floreali e geometrici. Il pastore graffiva con grande pazienza, nelle lunghe ore di sosta.

FIGURE 131–140

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131. Recipiente in sughero e cucchiaio con forchetta in legno

132. Scatola in sugherone

133. Recipiente in sughero

134. Bamboline

135. Donna di Ollolai e uomo di Núoro

136. Girotondo e bambino

137. “Launeddas”

138. Zuffoli

139. Raganelle

140. Báttola

I COSTUMI

Oggi, chi desidera vedere raggruppati i celebri costumi, in numero davvero imponente, non ha che assistere alle sfilate, da molti anni ormai in calendario, che si tengono per la sagra di Sant’Efisio a Cagliari, per la “Cavalcata” di maggio a Sassari e per la festa del Redentore a Nuoro. Queste sfilate costituiscono un museo vivo, che si rinnova ogni anno al sole dell’Isola; ma chi desidera fare un ponderato esame di essi, c’è a Nuoro, sebbene ancora incompleto, il Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde. E difficile trovare ormai i costumi nel loro ambiente naturale, anche nei paesini più sperduti dell’interno. In qualche centro barbaricino ci si può ancora imbattere, nei giorni feriali, in persone anziane che non hanno mai abbandonato il costume di foggia tradizionale e, nei di festivi, in qualche giovane donna in costume, a Désulo. Certo, poterli vedere in gran numero nell’ambiente del villaggio o nelle sagre campestri, come avveniva fono al primo quarto del presente secolo, era ben altra emozione. “Ma il nostro timore – scrivevano negli anni Trenta l’Arata e il Biasi –è che la vita moderna, col suo travolgente impeto che sposta e sgretola valori con rapidità vertiginosa, faccia sparire anche questa espressione etnografica, nonostrante lo spirito tradizionale della razza tenti di ritardare quello sviluppo graduale che trascina uomini e cose in una evoluzione costante e precisa che, spesso, nessun urto può far, deviare o arrestare. E ciò sarà un grave danno per l’integrità della nostra Isola e per le caratteristiche fisionomiche della nostra razza”. I Sardi sembrano però aver preso coscienza di ciò, se in ogni cassone tradizionale tengono riposto un costume di gala preziosissimo, da indossare per le grandi sfilate. Rispetto a mezzo secolo addietro, anzi, il patrimonio in costumi è oggi forse superiore, se si pensi che alcuni centri, dove se l’erano scordato, se lo sono ricostruito attraverso le documentazioni grafiche e letterarie dell’Ottocento. Indossati una volta sia dal modesto lavoratore che dal benestante 233

maggiorente in tutti i giorni dell’anno, si può dire che i costumi abbiano durato a lungo, incalzati dal progresso travolgente. Fino alle soglie del nostro secolo, tutti i centri sardi dovevano apparire gai, come parati a festa: costumi contro i ferrigni murati montanari e contro il gialliccio dei mattoni crudi, nei centri di pianura. Da un centro all’altro era una sorpresa: resta infatti da indagare il perchè della differenza dei costumi sgargianti al di qua di un modesto rilievo e altri invece più austeri una volta superato il colle, o il perchè delle diverse fogge di copricapo – che costituisce forse l’aspetto più saliente – come per esempio, tra la cuffietta di Désulo col copricapo muliebre della vicina Tonara, del severo fazzolettone giallo delle orgolesi col composto fazzoletto delle donne di Nuoro.

Non solo non è semplice, ma è addiritura arduo indagare a quando i costumi risalgono. Dalle collezioni di stampe ottocentesche e dalle descrizioni entusiastiche degli scrittori che visitarono l’Isola nel secolo XIX, è quasi impossibile poter risalire alle origini. Si pensi che oggi li vediamo già diversi da come appaiono nelle rappresentazioni figurative di allora, tempere, acquarelli e litografie, quasi tutti ottocenteschi: sono stati, cioè, soggetti a una continua evoluzione, seppur talvolta lenta; il fatto che gli indumenti muliebri non siano rimasti cristallizzati, è un fatto squisitamente femminile, come dimostra anche il raffronto con il costume maschile, che non ha subito sensibili modifiche. Credo che l’autentica storia, scientificamente credibile, del costume sardo resti nei desideri di chi si proponga di affrontarlo: esso sembra sfuggire, infatti, a qualsiasi analisi comparativa, come giustamente fece osservare Francesco Alziator. Uno studio responsabile implica una documentazione museografica di tutta l’area nazionale non solo, ma anche delle regioni alle estremità del Mediterraneo, chè soprattutto dalla Spagna diversi costumi devono essere pervenuti. Si trovano, infatti, qua e là, assieme ad elementi che possiamo ritenere indigeni, elementi comuni ad altre culture. Questo, per quanto concerne le origini, che si vorrebbero molto antiche. Ma già nel Medioevo erano in atto influenze esterne. Si sa che sotto la repubblica, a Sassari si lavorava panno lombardiscu; antiche carte parlano di tela finissima, di fustagni rigati, oltre che di orbace. I Barbaricini barattavano i loro prodotti dell’agricoltura e della pastorizia, stoffe, tra cui il costoso broccato, con i Pisani e con i Genovesi, i quali li acquistavano dai paesi del Mediterraneo orientale. Nel Cinquecento erano fiorenti alcune fabbriche di stoffa, dato l’ac234

cresciuto numero dei filatoi. G. Cossu riferisce che nel Settecento era lodata la tela di lino tessuta a Sassari, “la più compatta e fina di quante altre tele si hanno nel regno”. Il Comune di Sassari, con l’intento di formare allievi, nel 1834 incoraggiò e finanziò una fabbrica di “tela a scacchi”, ma l’industria non diede i risultati sperati e durò poco. L’arte del conciatore è anch’essa antichissima, e in alcuni centri dell’Isola la trasformarono in industria fiorente: e anche quest’attività ebbe influenza sullo sviluppo di alcuni indumenti maschili. Come è accaduto per altre produzioni artigianali (tele da muro e “tappeti”), già dal punto di vista coloristico e decorativo, è facile il riscontro della differenza sensibile tra costumi antichi e quelli fino a noi pervenuti. L’orbace – che resta il tessuto fondamentale per l’abbigliamento – si tingeva con tinte vegetali, che assumevano tonalità meno vivaci; con l’introduzione di coloranti forniti dall’industria, si ebbe una brillantezza maggiore. Fra le tinte, ha predominato sempre il rosso scarlatto: risalendo nel tempo, il rosso ricordava il sangue e il fuoco. Le dominazioni che si sono succedute hanno dato apporti, e poichè gli Spagnoli sono stati nell’Isola in unarco di ben quattrocento anni, possiamo immaginare che buona parte sia stata assoggettata ad influenza spagnola. Mode e gusti continentali non è possibile non abbiano inciso sul costume femminile; nobildonne e mogli di funzionari spagnoli devono essere stati i veicoli di novità della moda, dal Trecento al Settecento. Già dalla metà del secolo scorso si notava l’imbastardimento dei costumi in prossimità della costa, nel Campidano, nelle due città principali e nella zona mineraria dell’Iglesiente, poichè si sono verificati ivi più frequenti contatti esterni. Meno contaminati risultavano, ancora nel primo quarto del presente secolo, i costumi dei centri ricadenti nella fascia orientale dell’Isola (dalle coste poco accessibili) e della zona centrale. Già una differenza esisteva tra il costume di tutti i giorni e quello di gala, più rappresentativo e, pertanto, conservandosi meglio, restava più fedele agli antichi modelli, meno influenzato da mode esterne.

Diamo inizio ad esaminare il costume maschile, che quasi certamente è il più antico ed il più stabile e quasi sempre unitario. Si presenta, intanto, con un’unica fisionomia in tutta l’area regionale, con qualche variante locale. E il costume che il tempo ha selezionato, soprattutto per la praticità, in rapporto al clima; esso non presenta niente di superfluo e di arbitrario. Il berretto fri235

gio è il primo elemento saliente, anche se comune a molti popoli del Mediterraneo: era portato con disinvoltura in diversi modi, a cecciu o ripiegato sul davanti, nelle Barbágie, o con la punta sul petto, in Gallura e nel Sassarese, o buttato sulle spalle, nell’Ozierese; ed anche di colore diverso dal nero. La berritta, che in origine era corta, andò allungandosi considerevolmente negli ultimi tempi. In Campidano, attorno alla berritta veniva annodato sul davanti un fazzoletto rosso. Altri elementi originali erano costituiti dalle ragas (dal greco rhacos), una sorta di corto gonnellino di orbace quasi sempre nero, bordato, con ampia pieghettatura. Sotto, le larghe braghe di tela bianca, libere al ginocchio o rientrate nei borzacchini, del tipo a uosa, in genere con abbottonatura laterale, e anch’essi di orbace nero, come le scarpe un tempo lunghe e appuntite. Sulla camicia bianca, un corpetto nero o scarlatto o d’altro colore (corittu o corpettu), adorno di doppi bottoni d’argento, stretto al busto con larga cintura di cuoio e una sorta di giacca corta o gabanella (gabbanu), munito di cappuccio. Sopra il corittu, poteva esserci il collettu, in genere di cuoio conciato e trapunto di ricami, terminante in gonnellino e stretto alla vita da una larga fascia. Una variante semplificativa era costituita da pantaloni lunghi di orbace o di velluto (Santulussùrgiu, Paulilátino, ecc.). I pescatori avevano le braghe libere ed erano scalzi (Cabras). A Cagliari, la guardia d’onore a cavallo, i cosidetti “miliziani di Sant’Efisio” indossavano il giustacuore scarlatto, con maniche lunghe e bordato da due strisce nere; berretto rosso, tronco conico, derivato dal fez. Una giacca corta, senza maniche, più o meno trapunta di ricami, era di pelle di agnello e poteva essere indossata in luogo della gabanella, sopra il corittu. Elemento dei più antichi era la mastrucca, di pelle villosa, comune a molti popoli del Mediterraneo. Cicerone la chiama “sarda”, per la sua diffusione: indumento pratico e igienico a un tempo, senza maniche, arrivava al ginocchio, ma spesso scendeva fino ai piedi. Invece della mast rucca, poteva essere indossato il gabbano di orbace nero, bordato, lungo anch’esso fino ai piedi; forse, era di derivazione latina. Nel Campidano veniva indossato il cappottu serenicu (cappotto della sera), una sopraveste con cappuccio, col rovescio di color scarlatto. Erano varianti del saccu de coberri, pluriuso, per coperta e giaciglio. A questo schema fa eccezione il costume maschile di Teulada, nel Sulcis, centro vivace che era, fino a qualche decennio addietro, uno dei più caratte236

rizzati dell’Isola: privo di ragas, i calzoni molto lunghi sotto al ginocchio, del tipo valenzano–murciano. L’elemento saliente era costituito anche qui dal copricapo che, invece del berretto frigio usato negli altri centi del Sulcis–Iglesiente, era costituito da un cappello grigio chiaro a larghe tese, per il riparo dal sole, certamente anch’esso di origine spagnolesca (sumbreri). Dalle braghe a campana, con spacco, di orbace o di velluto nero, fuoruscivano i borzacchini. La camicia ad ampie maniche aveva un altissimo colletto inamidato, aperto sul davanti, finemente ricamato. I giustacuore erano bordati di verde e avevano doppia bottoniera, con monete d’argento. Il pettorale ricamato è comune a molti popoli. A parte questa variante di Teulada e altre meno importanti di Carloforte e di La Maddalena, decisamente di tipo genovese, gli indumenti maschili possono ritenersi autenticamente indigeni; ma è un pò arduo poter individuare le diverse componenti storiche, senza dubbio molto lontane nel tempo. Completamento dell’abbigliamento maschile era l’acconciatura dei capelli: i pastori si lasciavano crescere la barba, i contadini usavano di preferenza la treccia. Sono anche interessanti, oltre i gioielli, i tipi di cintura e l’arma da taglio col manico riccamente lavorato, che veniva infilato nella cintura. Con l’avvento delle armi da fuoco, alla cintura si sovrappose la cartuccera (carrighera). Non si può tralasciare di accennare ai costumi delle corporazioni di mestiere, i gremidi Sassari, di derivazione interamente spagnola. E caratteristico il grande cappello nero di feltro a larghe tese montate sui fianchi; una secentesca cappa nera scende fino ai piedi e una zimarra piuttosto lunga sta sopra la giacca a falde corte, nera, e neri sono i calzoni corti, le calze e le scarpe, con fibbia. Invece della zimarra, altri indossano il cogliettu, di cuoio giallo. I maggiorali indossano una casacca nera a falde corte, bordata di bianco, come bianco è l’ampio colletto rigido; la camicia, ricamata, è a collo alto. Differenti costumi indossavano a Cagliari il rigattiere, il pescatore, il macellaio, il maiolu (lo studente inurbato, a servizio d’una famiglia). L’uomo a cavallo col fucile era un figura frequentissima in tutta l’Isola, come un quadro ottocentesco comune era costituito dalla coppia a cavallo, uno dei motivi ricorrenti nella decorazione dei tessuti. Oggi, il costume maschile di montagna si è modernizzato in un tipico indumento detto, appunto, alla montagnina: giacca di velluto o di fustagno, berretto alla ciclista e pantaloni alla cavallerizza tenuti da gambali neri. E quanto resiste di una lunga tradizione, segno della praticità per i lavori agricoli e pastorali. 237

Non è da escludere che certe affinità esteriori possano essere state semplicemente casuali. Sono stati fatti accostamenti, soprattutto per gli indumenti femminili, con costumi magiari, dalmati e dei Balcani, che a loro volta trovano radici nel Mediterraneo orientale (si è pensato anche a Creta). I costumi della Barbágia ricordano quelli di Corfù e della Macedonia, ornati di gioielli alla filigrana. Le sottane a fittissime pieghe e i corsetti con maniche a sbruffi si incontrano anche presso altri popoli. Anche nel costume femminile è soprattutto il copricapo a costituire l’elemento distintivo. Può essere la pezzuola bianca di lino di derivazione medioevale, o colorata, o il cappuccio o la cuffietta, o il fazzolettone a manto ricandente o annodato a cercina o composito, o il velo ricamato a mantiglia. La bianca camicia ricamata, il corsetto, il giubbotto (gippone), la gonna ed il grembiule sono le costanti che col mutar di forma e di colore, raggiungono una varietà veramente sorprendente. Improntati a sobrietà, austerità o a ricca fantasia, sono sempre mirabili per l’eleganza, gli accordi cromatici, l’euritmia. I costumi non sono fissi (i più stabili` sono quelli di area barbaricina). Variano poco strutturalmente, mutano invece le qualità delle stoffe, i colori, le decorazioni. L’uso di capovolgere il lembo della gonna sul capo è comune a molti centri dal costume differenziato, dai paesi dell’Oristanese, a quelli della Gallura e del Sassarese. La camicia, più o meno scollata, più o meno ricamata, valorizza sempre il petto, con la collaborazione dell’attillato corsetto, i cui modelli possono essere stati tanto italiani che spagnoli. Il corsetto varia notevolmente di forma: dai centri del Goceano a quelli del Gennargentu, a quelli del Campidano Maggiore. In questi ultimi costumi, dai colori tendenti al giallo e all’avana, di tonalità raffinate, un fazzoletto quadrato o una pezzuola di stoffa bianca e fermato dal corsetto, ha contribuito ad attenuare la scollatura della camicia (la quale, tra corsetto e gonna forma un perfetto toro, tutt’attorno). Furono i padri gesuiti, tra la fine del Settecento ed il principio dell’Ottocento, a suggerire questo accorgimento per smorzare l’effetto del petto esuberante, e l’uso si diffuse in altre subregioni. Il corsetto è di velluto nero (Goceano) o di broccato a fiorami d’oro e di forme diverse, terminante anche a punte, con ampia apertura sul davanti; il gippone gioca sulle maniche ornate di bottoni a filigrana, dalle cui aperture escono gli sbuffi di diversa foggia della camicia. La lunga gonna è più o meno scampanata e pieghettata; la reggono più sottogonne e sul davanti è coperta dal grembiule, che è in genere il capo che caratterizza maggiormente il costume. Fra i più notevoli, sono quelli delle donne di 238

Orgósolo, con ornamentazioni stilizzate. Per le grandi solennità, usano esporli come un gran pavese, traversalmente alla strada principale del paese, su fili tesi in alto fra le case, conferendo all’ambiente una vivacità straordinaria e mostrando altrettanto straordinaria varietà di motivi. Il grembiule è la parte forse più originale del costume di Nuoro: di panno scuro, leggermente più corto all’estremità superiore che in quella inferiore, sui quali spicca una fascia larga, dove piccoli motivi si rincorrono. Gli altri due lati, verticali, sono bordati di colori vivaci. Al di sopra dell’ampia fascia, sono disposti, con visibile contrasto, delle piccole palmette stilizzate. Nei giorni di festa venivano indossati unitamente a un giubotto scarlatto tutto sciolto con spacchetti sulla gonna di lana nera a crespe che, stringendo i fianchi, scendeva fino alla caviglia. Oltre al grembiule, l’altro elemento che dà tono al costume di Orgósolo è la benda gialla che avvolge il capo e il mento. In Ogliastra, il costume è contrassegnato da una cappottina sulla testa, tenuta ferma da una catenella d’argento passante sotto il mento. A Ploaghe, l’elemento distintivo è ancora il copricapo: le donne indossano una pezza rettangolare di panno color arancione; quattro pezzuole di raso azzurro sovrapposte ad essa, delimitano al centro una croce. Questa mantiglietta è chiamata su manteddu, e compone bene col resto, fatto di raccordi di rosso, nero e azzurro e pezze scarlatte sul nero della gonna, detta sa tùniga, con alta banda azzurra. Le donne di \lìllanova Monteleone, di Ittiri, di Thiesi, di Bonorva e di altri centri del Logudoro si distinguono per la mantiglia: un grande velo bianco ricamato compone col grembiule trasparente sulla gonna. Le sennoresi indossano sul capo una pezzuola bianca caratteristica, che spicca sul corsetto dorato e l’ampia gonna pieghettata. Le osilesi indossano sopra il soggolo monacale, una cappetta monocolore orlata, la cappitta (il costume è cambiato notevolmente dalla fine dell’Ottocento ad oggi: prima era monacale, la gonna veniva rovesciata sul capo, si vedevano soltanto gli occhi). E ancora la pezzuola candida sul capo che distingue il bel costume di Atzara, in cui spicca il gippone riccamente decorato. Il costume delle desulesi è caratterizzato dal cappuccio e dalla cuffietta. In alcuni centri, come Nule, Bitti e Oliena, il copricapo è costituito da un grande sciallo nero o viola a fiorami; in altri, come ad Anela, il fazzoletto è piegato sotto mento. Ma, non rientra nel nostfo assunto fare la descrizione dei numerosi costumi femminili. Basterà ancora dire che come i tessuti, i costumi mostrano un 239

diffuso, innato gusto del colore e dell’euritmia. Sono accordati oppure a contrasto, mai stonati. Nello stesso villaggio sussistono diversi modi di vestire: per nubile, per coniugata, per vedova, e per avvenimenti lieti o tristi. Anzichè sgargianti, le tinte si trasformano in spente, o viceversa. I contrasti cromatici sono sempre vigorosi, brillanti. C’è inoltre da segnalare un diffuso gusto del particolare.

Facciamo qualche considerazione sulla formazione degli indumenti, senza per altro avere la pretesa di affrontare un profilo stronco che – come si è osservato – è tutt’altro che agevole e ancora prematuro, fino a che non verrà affrontato lo studio etnografico su più vaste aree mediterranee. Un prezioso contributo ha fornito Francesco Alziator con la presentazione della raccolta Cominotti e della collezione Luzzietti, indicando quale è la giusta via da seguire per uno studio scientifico definitivo. I costumi sardi per gran parte andarono profilandosi nelle sub–regioni storico–geografiche dell’Isola (Logudoro, Gallura, Goceano, Barbágia, Ogliastra, Campidano, Sulcis) e attorno alle due città di Cagliari e di Sassari, oltre ai centri settecenteschi di Carloforte e di La Maddalena. Centri di diffusione della moda dovettero essere alcune residenze di feudatari, soprattutto tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento: i soffi di mode nuove continentali trovarono nell’Isola terreno fertile ed i modelli aulici dovettero suscitare una certa suggestione sui popolani: il semplice, austero vestiario tradizionale si andò sostituendo con fogge di influenza aulica, aristocratica, tra le quali la più notevole quella di ascendenza spagnola. Dal Settecento in poi subentrano, con i Savoia, le mode francesi. Vediamo, ora, tuttavia, di esaminare quei capi di vestiario che sembrano, invece, denunciare una ascendenza molto più lontana. I bronzetti ci forniscono una testimonianza molto sommaria della foggia degli indumenti di età nuragica, i quali si possono interpretare piuttosto poveri. Sembra, tuttavia, di scorgere il prototipo di uno dei capi più originali del costume maschile, le ragas, in qualcuna di esse figurette. Alcuni altri autori sostengono invece che derivano dall’indumento portato dai soldati romani sotto la lorica. In altri bronzetti si può, forse, scorgere la prima forma del collettu, se questo indumento è da individuarsi – come dissertava Francesco Cetti, nel Cinquecento – nella mastrucca degli antichi, che non coinciderebbe con la mastrucca che intendiamo oggi, altrimenti detta besti ‘e peddi, la pelliccia. I calzoni di lino bianco risalirebbero invece a epoca bizantina. 240

La camicia, tenuta sempre larga, abbondante, sia quella del costume maschile che quella del costume femminile, è certamente derivata dalla tunica. Oggi, come ci è stato tramandato, i bambini siamo abituati a pensarli sempre vestiti come gli adulti, ma dalla documentazione iconografica ottocentesca, la veste quotidiana del bambino era costituita in genere da una camicia a tunica di lino bianco, stretta sui fianchi. Nel commento alla famosa terzina di Dante riguardante le donne di Barbágia, Benvenuto da Imola così si esprimeva: “Nam pro calore et prava consuetudine (mulieres) vadunt indutae panno lineo albo, excollatae ita ut ostendant pectus et ubera “. Cioè, egli ha dato un accenno all’indumento particolare. Qualcuno ha ricollegato questa foggia a quelle raffigurate nelle maioliche micenaiche provenienti dal Cnosso, rappresentanti la cosidetta dea dei serpenti, dal petto scoperto, tenuto da un corsetto molto stretto alla vita e recante un breve grembiule sulla lunga gonna a campana. Nella Cronica di Giovanni Villani (VI, 80), là dove parla dei costumi di Firenze, Francesco Alziator crede di aver trovato gli elementi di fondo del costume femminile: “Par di leggere un brano scritto apposta per la Sardegna: i grossi drappi non possono che essere tessuti di lana, simili all’orbace isolano. Le pelli senza fodera, le barrette, la gonna scarlatta stretta, la grossa veste del cambraggio sono elementi ancora vivi nella tradizione popolare sarda” (“La collezione Luzzietti”, pag. 15). La materia usata può certamente farsi risalire al Medioevo e così alcuni capi di abbigliamento, non certo nella foggia come sono giunti fino a noi. Nel Cinquecento e nel Seicento, le fonti letterarie dicono che i Sardi vestivano “vilmente”, di “vilissimo panno” (Sigismondo Asquer), ma parte della popolazione – come abbiamo già ricordato – usava dal tempo dei Pisani e dei Genovesi i broccati e le stoffe preziose. Nei documenti settecenteschi si parla più esplicitamente degli indumenti indossati dai popolani, facendo distinzione fra costoro e quelli di città, che – come scriveva Francesco Cetti – “vestono stoffe e forme francesi”. Il collettu, che può essere derivato dallo spagnolo coleto, a sua volta dal toscano colletto, può anche avere derivato il nome direttamente, al tempo dei Pisani, quando – come abbiamo detto – doveva essere da tempo in uso. Le opere di pittura non sono molte nell’Isola, ma è davvero significativo se non singolare il fatto che non abbiano stimolato la fantasia dei pittori. Si conosce solo un quadro, risalente probabilmente al Seicento inoltrato, conservato nella chiesa di San Lussorio di Bórore, il quale contiene figure di popolani in costume. Esso ed alcuni ritratti settecenteschi raffiguranti personaggi in costume non sono certo sufficienti a dare un panorama, come quello che tra la 241

fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento ci offrono le documentazioni grafiche. Diremo che le prime appaiono come costumi ancora non ben consolidati e, soprattutto quelli femminili, non così brillanti come si presentano i costumi fino a noi pervenuti. D’altra parte, certi particolari si sono cristallizzati, come le ragas nere e la berritta, parimenti nera, e lunga. A volte le ragas potevano essere, infatti, di diverso colore e così il berretto frigio. In una, forse la più antica, raffigurazione del “ballo tondo”, in un bassorilievo della chiesa di San Pietro di Zuri, dovuta ad Anselmo da Como, appare per la prima volta la berritta sul capo delle cinque figurine che si tengono per mano. Fenici e Cartaginesi sono stati, verosimilmente, i primi che introdussero elementi di costumi, modificati durante il lungo periodo romano e, successivamente, arricchiti da apporti continentali, genovesi, pisani, catalani, spagnoli, piemontesi. Ma, come si è detto, l’indagine stilistica e i possibili raffronti sfuggono a qualsiasi analisi nel vasto campo degli indumenti femminili. Si può solo dire che molti di essi presentano sicure influenze sei–settecentesche, non sono, cioè, di ascendenza molto antica, come generalmente si crede. Per esempio, uno dei più famosi, quello di Osilo, ha di antico solo il modo di inquadrare il viso in una candida benda, mentre tutto il resto ha caratteri settecenteschi. Il fatto che il vestiario femminile sia sempre composto di due parti (corsetto e gonna), non può essere molto antico. La nomenclatura dei capi è quasi tutta di derivazione spagnola: mantiglia, cossu, giponi, sumbreri, ecc. (Sciallu deriva invece dal francese châle). Abbiamo accennato che già gli scrittori dell’Ottocento lamentavano le infiltrazioni di mode forestiere e la sparizione, fin da allora, addiruttura di indumenti che si usavano nel Settecento. Il La Marmora fu indotto, nelle edizioni del suo Atlas di costumi (disegnati dal Cominotti) ad apportare modifiche, perchè a breve distanza di tempo alcuni centri avevano già mutato indumenti, soprattutto la foggia del copricapo ed il rapporto cromatico. Confrontando le varie tavole tra la fine del Settecento e quelle che seguirono nell’Ottocento, notiamo la sensibile evoluzione e, ciò che desta maggior meraviglia, che gli ultimi non sono ancora quelli che sono giunti sino a noi. Una buona documentazione, fedele, del primo quarto del presente secolo, è dato dalle tele di Filippo Figari, soprattutto quelle del Palazzo Civico di Cagliari, e dalle numerose opere sparse di Giuseppe Biasi: i due illustri pittori fecero in tempo a cogliere e a ritrarre gli ultimi bagliori di una Sardegna ancora incantata. FIGURE 141–150

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141. Costumi di Sénnori

142. Costume di Ósilo

143. Costumi di Ploaghe

144. Costume di Cabras

145. Costume di Santa Giusta

146. Costume di Sinnai

146. Costume di Quartu S. Elena

144. Costume di Tonara

149. Costume di Désulo

150. Costume di Núoro

NOTA BIBLIOGRAFICA

Molte pagine sono state dedicate, dall’Ottocento ad oggi, al folklore figurato della Sardegna, specie all’architettura rustica, ai costumi e ai tappeti; per la maggior parte, però, trattasi di scritti di impressione. La prima trattazione organica, sotto il profilo storico–artistico, è stata affrontata egregiamente da G.V. Arata e G. Biasi, nel volume Arte Sarda, publicato a Milano nel 1935. Per la bibliografia sull’architettura rustica, si rimanda al volume dell’autore Architettura domestica in Sardegna, edito a Cagliari nel 1957. Gli scritti posteriori a questa data sono stati qui di seguito registrati, seguendo l’ordine alfabetico per autore di tutta la materia trattata:

ALBIZZATI C., Tapinu de mortu, in “Mediterranea”, 1(1927), fase. 9, pag. 14 e segg. Due archibugi sardi in un museo di Milano, in “Mediterranea”, 11(1928), n. 2, pag. 7 e segg. Arche di Sardegna, in “Mediterranea”, 111 (1929), fase. 9, pag. 12 e segg. ALZIATOR F., Decorazione delle casse sarde, in “Mediterranea”, IV(1930), fase. 10, pag. 29 e segg. Fonti letterarie ed iconografiche del costume sardo, Gubbio, 1954. Costume sardo ecostume miceneo, in “N.B.B.S.”, I, 1955,1V, pag. 1. A Creta i primi modelli dei costumi sardi, in “L’Unione Sarda”, LXVIII, 1956, n. 202. Fonti su antichi indumenti sardi, in “N.B.B.S. “, II, n. 9, pag. 10. Il folklore sardo, Cagliari, 1957. La raccolta Cominotti, Roma, 1963. La collezione Luzzietti, Roma, 1963. ANGIONI A., Tappeti sardi e moderni, in “Cagliari Economica”, 1958, n. 3. ARATA G.V., Arte rustica sarda: I: Gioielli e utensili intagliati, in “Dedalo”, 1(1920), fase. 10, pag. 698 e segg. II: Ricami e tappeti, ib., 1(1920), 12, pag. 777 e segg. III: Mobili e arredi domestici, ib., 11(1921), fase. 2, pag. 130 e segg. ARATA G.V., BIASI G., Arte sarda, Milano, 1935. ARU C., Un’arte che muore ed un museo che nasce, in “Lares”, 1933, nn. 1–2. Argentari cagliaritani del Rinascimento, in “Pinacoteca”, 1928–29, II, pag. 197 e segg. ATZORI M., Il linguaggio degli oggetti in Sardegna, in” La Nuova Sardegna”, 15 maggio 1979, pag. 3. Attrezzi agricoli a Guasila, in” BRADS”, 1968–197 1. Note sull’artigianato di Bosa, in “Il Convegno”, 111–1V, 1977. Artigianato tradizionale della Sardegna. L’intreccio. Co rbuleecanestri diSinnai, Sassari 1980. AUTORI VARI, Plastica effimera in Sardegna, Cagliari, s.d. (a cura della Regione Autonoma della Sardegna, Assessorato all’Industria).

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ni di salice e canna” – “Il motivo della greca nella cestineria” – “Il gatò della Candelora e il miele di Aristeo” – Il Katalufa” – “Erba sacra e palme operate” – “I coltelli di Pattada e la magia dell’integlio” – “A forma di uccello” – “La zucca graffita”). Architettura epaesaggio in Sardegna, Sassari, 1981; schede nn. 92–93–94– 95–96–97–98–99–100. PAOLI G.P., Metodologia di una ricerca sull’intreccio. Nota preliminare, in “BRADS”, VI, 1975. PILONI L., Memorie sulla terra sarda – Tempere di Philippine de La Marmora (1854–1866), Cagliari, 1964. PILONI L., PUTZULU E., Fascino di Sardegna, acquarelli di Simone Manca di Mores (1878–1880), Roma, 1976. PINNA M., Letteratura di costumi, in “Bollettino Bibliografico Sardo”, 1(1901), pag. 69 e segg. PIREDDA PILIU M., Attrezzi agricoli del Logudoro, in “BRADS”, III, 1968–1971. PITFALUGA A., Tavole di costumi sardi, Parigi, s. d. Royaume de Sardaigne – Costumes dessinés sur les lieux, Paris, chez Marino. PUTZULU E., Antichi costumi sardi, in “Cagliari Economica”, X, 1956, n. 4, pag. 17; n. 10, pagg. 11–12 e XI, 1957, n. 1, pagg. 5–7. SAMUGHEO C., Costumi di Sardegna, Firenze, 1981. SAUTIER A., Tappeti rustici italiani, Milano, 1922. SCANO D., La bottega d’arte ceramica in Cagliari, in “Mediterranea”, I, nn. 11–12, Cagliari, 1927, pagg. 66–72. SERRA M., Mal di Sardegna, Cagliari, 1955. TARAMELLI A., La collezione di merletti e tappeti sardi di A. Dallay, in “Bollettino d’arte del Ministero della P.1., VII (1927), fasc. 4, pag. 193.Nel Museo del costume antico sardo (per le nozze di S.A.R. il Principe di Piemonte), in “Mediterranea”, IV (1930), fasc. I, pag. 40 e segg. TAVOLARA E., Arte popolare e artigianato ne “Il Ponte” (Sardegna), VII, fin. 9–10, Firenze, 1951, pagg. 1239–1249. Considerazioni per un bilancio, in “Ichnusa”, XV, (1956). Artigianato sardo, in “Maggio sassarese”, Sassari, 1968. Arte antica e moderna, in” Sardegna”, II vol., Milano, 1963 (“Le arti popolari e l’artigianato % pagg. 74–84). TERROSU ASOLE A., Note sulla dimora rurale in Sardegna, in “Fra il passato e l’avvenire” cit, pagg. 195–228. TOSCHI P., Saggi sull’arte popolare, Roma, 1945. Significato e valore delle tradizioni popolari della Sardegna, in “Il Mezzogiorno”, lI, 1953. T.C.I., Sardegna (Guida d’Italia), Milano, 1967. Sardegna (Collana delle regioni d’Italia); Milano, 1954. VINELLI M., Abbigliamenti maschili efemminili in Sardegna, in “Le Vie d’Italia”, XXXIV (1927), n. 5, pag. 19 e segg. Desulo e Fonni, rocche del costume sardo, in “Le Vie d’Italia”, XXXIV (1927), n. 9.

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CENTRI NOTI NELL’ISOLA PER PARTICOLARI ATTIVITÀ ARTIGIANALI IN PASSATO E OGGI

Le attività scomparse sono in tondo, quelle ancora attuali in corsivo. ABBASANTA AGGIUS ALGHERO ARITZO ASSEMINI ATZARA BANARI BARISARDO BITTI BOLOTANA BONORVA BORONEDDU BORORE BOSA BUDDUSÒ BUDONI BUSACHI CABRAS CAGLIARI CALANGIANUS CARBONIA CASTELSARDO

Morsi per bardatura di cavallo. Tessitura (tappeti e stoffe). Lavorazione del corallo, oreficeria. Cassoni nuziali, canterani e utensili di castagno. Sedie, brocche e stoviglie di terracotta, lavorazione legni (mobili), pipe di terracotta. Tessitura (tappeti). Fornelli di terracotta. Tessitura (tappeti). Tessitura (tappeti). Tessitura (tappeti). Tessitura (arazzi e tappeti). Oggetti di férula, di salice e canna (cestini). Tessitura (coperte e tappeti). Oreficeria, lavorazione del legno, filet, nasse, cestineria di salice e canna, lavorazione pelli. Cassoni e mobili intagliati. Lavorazione ferro. Tessitura (tappeti). Imbarcazioni di stagno (“fassonis “), capanne di “cruccuris ‘ ceramica. Lavorazione legni, ferro; ceramica, bronzo, argenteria e oreficeria, archibugi, ricami. Sugheri lavorati. Lavorazione ferro. Cestineria di palma nana. 259

CHIARAMONTI CUGLIERI DECIMOMANNU DESULO DORGALI

FLUSSIO GADONI GALTELLI GAVOI GIBA GONNOSNÒ IGLESIAS ISILI ITTIRI LURAS MACOMER MAMOIADA MEANA SARDO MILlS MOGORO MONSERRATO MONTRESTA MORGONGIORI MURAVERA NULE NUORO OLBIA OLIENA OLLOLAI OLZAI 260

Tessitura (tappeti). Trine, tele ricamate, lavorazione legni, oggetti di canna. Stoviglie e pitali di terracotta. Tessitura (orbace), utensili di castagno. Tessitura (tappeti e arazzi), zucche lavorate, ceramiche, cuoi lavorati, lavorazione legni, coltelli, oreficeria, archibugi. Cestineria di asfodelo. Tessitura (orbace). Oggetti di ferula. Speroni e morsi da cavallo, orbace a più colori, argenteria (rosari), lavorazione sugheri. Tessitura (tappeti). Tessitura (strisce). Argenteria Tessitura (tappeti), oggeti di cuoio, rami, graticole, cassoni. Tessitura (tappeti e coperte), trifle e tele ricamate, legni intagliati, cestineria di refe. Lavorazione sughero. Tessitura (orbace), lavorazione legno (cassoni). Legni intagliati, maschere carnevalesche, armi intagliate. Tessitura (arazzi). Canna tessuta, oggetti di canna. Tessitura (tappeti, arazzi). Lavorazione pelli. Cestineria di asfodelo. Tessitura (tappeti, arazzi). Tessitura (tappeti, bisacce), launeddas. Tessitura (tappeti giganti, arazzi), ricami. Oreficeria, argenteria, legni lavorati, maschere carnevalesche, zucche lavorate. Ceramica Ricami. Cestineria di asfodelo. Cestineria di asfodelo.

ORANI ORISTANO OROSEI ORUNE OSIDDA OSILO OTTANA PABILLONIS PATI’ADA PAULILATINO PLOAGHE POZZOMAGGIORE QUARTU SANT’ELENA SAMUGHEO SANT’ANTIOCO SANTA GIUSTA SAN VERO MILlS SAN VITO SANTULUSSURGIU

SARDARA SARULE SASSARI

SCANO MONTIFERRO SELARGIUS SEDILO SENEGHE SENNORI SERRAMANNA SESTU SIAMANNA SETTIMO S. PIETRO

Brocche e brocchette di rame. Lavorazione legno. Stoviglie di terracotta, ceramica, trifle e tele ricamate. Pipe, lavorazione legno (mobili). Tessitura (orbace). Tessitura (tappetini di lana). Tessitura (orbace, tappeti, bisacce), tovagliati. Legni intagliati, maschere carnevalesche. Stoviglie di terracotta. Coltelli a serramanico, tosatrici, lavorazione del legno e del cuoio. Tessitura (coperte di lino con tecnica “apibionis”). Tessitura (coperte, arazzi), lavorazione legno. Tessitura (tappeti, coperte di lino bianco e di lana colorata). Oreficeria, dolci di pasta di mandorle. Tessuti (tappeti). Tessitura (tappeti), filet, lavorazione bisso. Tessitura (coperte, tappeti), tovagliati, palma lavorata. Cestineria di giunco (“zinniga “) e paglia. Tessitura (tappeti e bisacce). Casse nuziali intagliate, tessitura (tappeti e coperte), cuoi lavorati, finimenti di cavallo, coltelli e tosatrici, morsi per bardatura di cavallo. Tessitura. Tessitura (tappeti e tappeti giganti). Ceramica, argenteria, oreficeria, lavorazione del legno, corni intagliati, pupazzi, cestini di vimini e canna, zucche lavorate. Tessitura (coperte tipo Pozzomaggiore, tovagliati). Cera, ceramica, lavorazione legni. Tessitura (coperte e tappeti). Cassapanche intagliate, tovagliati. Cestineria di palma nana, ceramica. Finimenti per cavalli. Lavorazione legno. Tessitura (tappeti). Tessitura (tappeti). 261

SINISCOLA SORGONO SORSO TADASUNI TEMPIO PAUSANIA TEULADA TINNURA TONARA TRAMATZA TRINITA D’AGULTU ULASSAI VILLAGRANDE VILLANOVA MONTELEONE ZEDDIANI

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Lavorazione legno, ceramica (terracotta). Lavorazione del legno. Cestineria di palma nana. Lavorazione sugheri. Archibugi, armi bianche, oggetti in pelle e in sughero. Pipe, tovagliati e ricami. Cestineria di asfodelo. Campanacci, tessitura (coperte e tappeti), lavorazione legno, barilotti e fiaschette, cassoni. Zucche lavorate. Cestini di vimini e canna. Tessitura (tappeti e tende). Tessitura (bisacce e asciugamani). Tessitura (coperte e tappeti). Tessitura (coperte di lino), stuoie di biodo, cestineria.

Indice delle illustrazioni

1. Assémini, portale d’ingresso a un cortile 2. Assémini, cortile fiorito 3. Assémini, cavallucci di terracotta sul crinale d’un tetto 4. Villasor, pozzo davanti a un loggiato 5. Villasor, cortile fiorito 6. Samassi, casa con loggiato 7. Samassi, interno di una “lolla” 8. Abbasanta, antica casa con loggiato su strada 9. Ingresso a una casa montanara 10. Serramanna, chiesa campestre 11. Cassone nuziale, particolare 12. Cassone nuziale, particolare 13. Cassone nuziale 14. Cassone nuziale, particolare 15. Sedia impagliata 16. Mostra di piatti 17. Sedie di Assémini 18. Mastello in ginepro 19. Tagliere intagliato 20. Cucchiaio e forchetta in legno 21. Maschera 22. Corno intagliato 23. Scatole in corno con coperchio 24. Bicchiere in corno intagliato 25. Bicchiere in corno 26. Fiaschetta per polvere da sparo, in corno 27. Zucca intagliata 28. Zucca intagliata 29. Fermacarte in steatite 30. Fermacarte in steatite 31. Cavallino poggia spiedo, graticola, spiedo, muflone 32. Bueinferro 33. Muflone in ferro 34. Capra in ferro 35. Cavallino in ferro 36. Isili, rami 37. Castelsardo, cesto in rafia

38. Castelsardo, cesto in rafia 39. FlussIo, corbula in asfodelo 40. FlussIo, canestro in asfodelo 41. Flussio, cesto in asfodelo 42. Montresta, cesto in asfodelo 43. Montresta, cestone con coperchio 44. Sínnai, canestro in giunco 45. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco 46. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco 47. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco 48. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco 49. Sínnai, cesto con coperchio, in giunco 50. Sínnai, canestro in giunco 51. Ollolai, cestino in asfodelo 52. Ollolai, cesto con coperchio, in asfodelo 53. S. Vero Milis, fuscella in “zinniga” 54. S. Vero Milis, vetri impagliati 55. Tinnura, cesto in asfodelo 56. Urzulei, cesto in asfodelo 57. Oristano, anfore anulari 58. Oristano, conche 59. Assémini, theiera 60. Oristano, galletto 61. Oristano, brocchetta 62. Dorgali, gallina 63. Oristano, boccale 64. Assémini, oliera 65. Sassari, donna a cavallo 66. Cagliari, galline e candeliere 67. Oristano, servizio da caffè 68. Cagliari, portafiori 69. Sassari, anfora 70. Sassari, rosario 71. Aggius, tappeto “uccelli in grigio” 72. Atzara, particolare di coperta 73. Bolótana, tappeto 74. Bonorva, arazzo “broccato e ghirlande” 75. Busachi, bisaccia 76. Gadoni, particolare di tappeto 77. Giba, tappeto “vasi, fiori e tacchini” 78. Isili, arazzo

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79. Isili, arazzo 80. Ittiri, tappeto “rombi e fiori” 81. Meana Sardo, particolare di coperta in rosso 82. Mógoro, arazzo 83. MOgoro, particolare di arazzo 84. Mógoro, arazzo 85. Mógoro, arazzo 86. Morgongiori, arazzo 87. Morgongiori, arazzo 88. Morgongiori, arazzo 89. Nule, tappeto:: “aquile e cervi” 90. Nule, tappeto balletto” in fondo nero 91. Nule, tappeto tradizionale “a fiamma” 92. Orune,tappeto 93. Qsidda, tappetino 94. Osilo, tappeto 95. Ploaghe, arazzo 96. Pozzomaggiore, coperta 97. Samugheo, tappeto 98. Sant’Antloco, bisaccia 99. Santulussùrgiu, tappeto 100. San Vito, tappeto 101. Sarule, tappeto “cavalcata in campagna” 102. Sarule, particolare del tappeto “uccelli e cervi” 103. Scano Montiferro, stoffa per arredamento 104. Sédilo, particolare di tappetino 105. Tonara, particolare di tappeto 106. Villanova Monteleone, tappeto 107. Zeddiani, tappeto “papaveri” 108. Ohena, scialle 109. Oliena, scialle, particolare 110. Oliena, scialle 111. Qliena, scialle 112. Osilo, scialle 113. Villanova Monteleone, tovagliati 114. Villanova Monteleone, tovagliati

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115. Tovagliati ricamati con applicazioni in filet 116. Collare per cavalli 117. Spilla in oro, perle e giada africana 118. Spille in oro e perle 119. Spille in oro e perle 120. Spillo con pendente 121. Rosario e collana 122. Cammei, corallo e madreperla con spilla in oro 123. Rosario d’argento e madreperla con medaglione 124. Spillo con pendenti 125. Spillo con pendente 126. Spillo con pendente formato da bottoni 127. Spillo con pendente 128. Bottoni in oro 129. Spillo con pendente 130. Spillo con pendente 131. Recipiente in sughero e cucchiaio con forchetta in legno 132. Scatola in sugherone 133. Recipiente di sughero 134. Bamboline 135. Donna di Ollolai e uomo di Nuoro 136. Girotondo e bambino 137. “Launeddas” 138. Zuffoli 139. Raganelle 140. Báttola 141. Costumi di Sénnori 142. Costume di Osilo 143. Costumi di Ploaghe 144. Costume di Cabras 145. Costume di Santa Giusta 146. Costume di Sinnai 147. Costume di Quartu S. Elena 148. Costume di Tonara 149. Costume di Désulo 150. Costume di Nuoro

Finito di stampare nel mese di settembre 1983 dalla tipo–offset “AD” Roma

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