Arte E Cervello 246 Pp

September 24, 2017 | Author: Puccillo | Category: Perception, Science, Knowledge, Memory, Image
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ARTE E CERVELLO

LAMBERTO MAFFEI, ADRIANA FIORENTINI

ZANICHELLI EDITORE

Domandarsi quali proprietà e caratteristiche del cervello rientrino nelle valutazioni di un'opera d'arte e nel piacere che essa dà è una curiosità che affascina. Perché certi stimoli visivi sembrano essere più interessanti di altri per il sistema nervoso? Perché questi segni e figure hanno valore emozionale, cioè sono così efficaci nello stimolare i centri dell'emozione? Le nostre conoscenze sul cervello, e in particolare quelle di neurofisiologia e di psicologia, possono essere di aiuto per comprendere certi aspetti formali delle opere pittoriche. Questo libro si propone di guidare il lettore alla conoscenza dei meccanismi che sottostanno alla percezione visiva e di svelare gli aspetti più propriamente psicologici della visione, cioè di quella "psicologia del vedere" che il pittore applica, sia inconsciamente sia volutamente, nella realizzazione della sua opera. Tale conoscenza favorisce nell'osservatore una più consapevole e approfondita comprensione dell'opera d'arte.

Lamberto Maffei è professore di neurobiologia alla Scuola Normale di Pisa e membro dell'Accademia dei Lincei e dell'Accademia Europea. Ha ricevuto diversi premi tra cui il premio Feltrinelli per la medicina. I suoi studi, molti dei quali in collaborazione con Adriana Fiorentini, riguardano la neurofisiologia e la psicologia della visione. Ha pubblicato per Mondadori, in collaborazione con Luciano Mecacci, il volume La visione, dalla neurofisiologia alla psicologia, Adriana Fiorentini, laureata in Fisica all'Università di Firenze, si è dedicata a ricerche di ottica e di psicofisica della visione presso l'Istituto Nazionale di Ottica di Arcetri e successivamente ha svolto attività di ricerca nel campo della psicologia della visione nell'uomo e in quello del comportamento visivo degli animali presso l'Istituto di Neurofisiologia del C.N.R. di Pisa.

NCS20"MAFFEI*ARTE E CERVELLO ISBN 8 8 - 0 8 - 0 9 7 5 2 - 8

7 8 9 0 12 3 4 (36A)

Al pubblico L. 39 000"*

© 1995 Zanichelli Editore S.p.A., via Irnerio 34, 40126 Bologna [9752] I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. Redazione di Giuliana Gambari Impaginazione e copertina di Roberto Marchetti In copertina: Diego Velàzquez, La toilette di Venere (1648-49). Londra, National Gallery Prima edizione: ottobre 1995 Ristampa:

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Referenze iconografiche © 1995 M.C. Escher/Cordon Art - Baarn - Holland. pagg. 1, 11, 69 © 1995 SIAE pagg. 2 (a), 124, 135, 140, 141, 184, 194, 198, 219 (b), 220 © 1995 Demart Pro Arte B.V. pagg. 8, 43 (b) © 1989 American Psychological Association. pag. 31 Archivio Iconografico dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana pag. 24 (a) Alinari pag. 66 (a) A. Dagli Orti pag. 17 H. Daucher pag. 70 (a) J. Hart and Creators Syndicate, Inc. pag. 207 A. Hinz pag. 46 F. Lovera pag. 50 (a) V. Lufinpag. 178 Marka Milano pag. 101 Scala Firenze pagg. 81 (a), 89, 90, 92, 176 (b)

Stampa: Litobook s.r.l. via dell'Industria 42, 40064 Ozzano Emilia (Bologna) per conto di Zanichelli Editore S.p.A. via Irnerio 34, 40126 Bologna

INTRODUZIONE

Visualizzazione di aree cerebrali attivate durante diverse attività del soggetto, realizzata con la tecnica della tomografia a emissione di positroni (PET), sovrapposta ad un'immagine dell'anatomia del cervello ottenuta con la tecnica della risonanza magnetica. Le aree illuminate indicano tre regioni dell'emisfero sinistro del cervello attive durante un compito linguistico. La regione posteriore si illumina quando il soggetto legge, l'area nel centro, quando parla, e la regione anteriore quando il soggetto pensa al significato di una parola, (da Kandel, Schwartz e Jessel, 1991).

Domandarsi quali proprietà o caratteristiche del cervello rientrino nella valutazione di un'opera d'arte e nel piacere che essa dà è una Curiosità che affascina. Il rapporto del cervello col mondo esterno è certamente un rapporto biunivoco. Il cervello riceve informazioni dall'esterno trapiite i sensi, ma allo stesso tempo offre interpretazioni sul mondo esterno basate sulle informazioni già presenti in memoria e sulle caratteristiche delle sue stesse proprietà strutturali. L'esperienza visiva è lettura cosciente e inconscia dei ricordi delle immagini che si formano nell'occhio, ma è anche una lettura che queste immagini rievocano nel nostro cervello. L'informazione che ci proviene dall'esterno è anche culturale ed è in stretta dipendenza dalla storia di ognuno di noi. La sensazione non fa, in gran parte, che aprire la pagina di un libro già scritto. Anche guardare un quadro è inserire l'esperienza visiva in un contesto cerebrale. Vedere è essenzialmente riconoscere perché consiste almeno in parte, nel risvegliare o rintracciare nel nostro cervello conoscenze già presenti. Così l'osservazione di un quadro può indurre nello studioso della percezione visiva riflessioni e osservazioni che sono legate ai suoi interessi scientifici e alle sue conoscenze e che riguardano il contenuto visivo dell'opera d'arte. Perché certi stimoli visivi sembrano essere più interessanti ed eccitanti di altri per il sistema nervoso? Perché questi segni e figure hanno valore emozionale, cioè sono così efficaci nello stimolare i centri dell'emozione? Che fine conoscitore del funzionamento della mente deve essere il vero artista se riesce a trovare dei paradigmi di forme e colori così universalmente efficaci da coinvolgere l'osservatore! È ovvio che i tentativi di risposta sono nella maggior parte dei casi del

tutto speculativi. Le ricerche della neurofisiologia e della neuropsicologia non offrono soluzioni, ma pongono le basi per avanzare ipotesi e fare congetture per colmare il fossato tra conoscenze scientifiche e arti visive. Tentare di comprendere i legami che uniscono percezione visiva e arte è un'esperienza di grande interesse, perché alla persuasione di poter penetrare il senso profondo dell'opera d'arte unisce la possibilità di apprendere qualche cosa di nuovo sul funzionamento del sistema nervoso. La persona che si occupa di scienza è imbarazzata e intimidita a parlare di arte, anche nel più ristretto campo della percezione visiva delle immagini pittoriche, perché lo scienziato è legato a deduzioni ben precise, che si basano su osservazioni sperimentali ripetute e rigorose: è solo attraverso queste che si possono aumentare le cognizioni sul funzionamento del sistema nervoso; ipotesi e teorie sono valide solo quando rimandano a una verifica, quando possono costituire la base di una nuova ricerca. Ciò non vuole assolutamente dire, però, che il ricercatore più accurato non si lasci andare anche a ipotesi e congetture. È una proprietà irrefrenabile del cervello quella di saltare dalla domanda alla risposta definitiva e alla soluzione più completa del problema. D'altra parte anche l'arte ha le sue sperimentazioni e l'opera finale è sempre frutto di cambiamenti, di prove e riprove. E anche l'arte ha le sue verifiche, i suoi meccanismi correttivi. Esse nel corso degli anni la consacreranno all'immortalità o la condanneranno ad essere dimenticata. Vi sono d'altra parte alcuni artisti, da quelli rinascimentali a quelli moderni, che hanno sentito il fascino della scienza in maniera particolare ed hanno cercato di ispirarsi ad essa per alcuni aspetti delle loro opere. "La pittura è una scienza e dovrebbe essere come un'indagine condotta sulle leggi della natura. Perché allora non considerare la pittura di paesaggio come un ramo della filosofia naturale di cui i quadri sarebbero gli esperimenti?" Così scriveva Constable per una sua lezione alla Royal Institution nel 1836. Il biologo e in particolare il neurobiologo si trovano in una posizone di privilegio per tentare un colloquio con l'immagine pittorica, con l'opera d'arte, perché la biologia è una scienza dove la vita domina con le sue contraddizioni e le sue difficoltà. Scriveva un famoso biologo, Francois Jacob: "La scienza in biologia non si propone di spiegare l'ignoto con ciò che è noto, come in certe dimostrazioni matematiche. Essa mira a giustificare ciò che si osserva con le proprietà di ciò che si immagina, a spiegare il visibile con l'invisibile, ed evolve con l'evoluzione dell'invisibile, con il ricorso a nuove strutture nascoste, a nuove proprietà ipotetiche." Questa attitudine mentale è probabilmente rintracciabile in colui che cerca di capire un'opera d'arte. Capire il visibile con l'invisibile. Dice Roland Barthes in ha chambre claìre che per guardare una fotografia, [ma si potrebbe dire per guardare ogni immagine], bisogna unire due voci,

la voce della banalità {ciò che uno vede e sa] e la voce della singolarità [riempire la banalità con l'élan della emozione che appartiene solo a me stesso]. O, come direbbe Nelson Goodman, occorre superare la nostra resistenza a ridare spazio all'emozione come parte dei processi cognitivi ("the obstacle is our reluctance to reinstate emotion as a part of cognition"). Tutti i tramonti sono belli, ma alcuni lo sono di più. E così per le opere d'arte. Tutte le manifestazioni delle attività umane, per esempio quelle che portano poi a percezioni visive, sono interessanti, ma alcune lo sono molto di più di altre. I ponti tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, sono oggi, forse più che ai tempi in cui lo Snow scriveva il suo libro Le due culture, utili ed auspicabili. Da un lato abbiamo una ricerca scientifica estremamente specialistica e tecnicizzata che richiede un faticoso e continuo aggiornamento. Poco spazio e interessi sono rivolti ad una visione più ampia della stessa ricerca scientifica, e ai suoi risvolti sociali, formativi del pensiero. Dall'altro lato abbiamo la ricerca umanistica, spesso priva di una metodologia rigorosa, e inconsapevole del progresso scientifico e tecnologico che, lo si voglia o meno, cambia rapidamente la nostra maniera di vivere e quindi anche la nostra maniera di pensare. La scienza ricerca gli invarianti in determinati fenomeni fisici o biologici mentre l'arte sembra essere il regno dell'individualità dove non ha senso ricercare regole o leggi perché queste di per sé non fanno parte dell'espressione artistica. Asserto questo non del tutto convincente in quanto è possibile rintracciare invarianti anche nell'espressione artistica. Probabilmente non si \ tratterà di regole o invarianti universali presenti in tutti i tempi e in tutti i ; luoghi, ma piuttosto di invarianti limitate a scuole o all'opera di un singolo artista. La collezione di quadri o una mostra organizzate secondo criteri particolari costituiscono già un approccio scientifico allo studio dell'opera d'arte. Il primo scalino della ricerca scientifica è appunto la raccolta dei dati e la loro organizzazione secondo determinati criteri. Sia la ricerca umanistica che quella scientifica hanno la loro estetica. L'estetica della scienza sta nell'eleganza, nella chiarezza con cui l'idea scientifica viene proposta e poi verificata. La percezione di questa chiarezza e semplicità nel pensiero scientifico spesso suscita emozioni del tutto simili a quelle prodotte da un'opera d'arte. Si tratta, in entrambi i casi, del piacere che nasce dalla scoperta dell'abilità e della bellezza del pensiero dell'uomo. Ma che cosa può differenziare il cervello dello scienziato da quello dell'artista? Per l'anatomico o per il fisiologo gli uomini sono in prima approssimazione tutti uguali. I cervelli dal punto di vista macroscopico ed anche microscopico sono molto simili tra loro. Le proprietà cerebrali che sono proprie degli artisti o degli scienziati non sono verosimilmente da riferirsi a funzioni presenti in un insieme di indivi-

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dui e assenti nell'altro insieme. Si tratta della modulazione in più o in meno delle stesse proprietà, probabilmente determinate su base genetica e affinate e messe in evidenza da esperienze diverse. Il caso, il rumore nelle combinazioni geniche e la variabilità delle esperienze nel corso della vita sono probabilmente importanti nel modellare la struttura e il funzionamento del cervello dell'artista, dello scienziato e anche del genio. Tutti siamo un po' artisti e tutti un po' scienziati e ci differenziamo solo per quel piccolissimo ambito di caratteristiche che circostanze casuali hanno determinato, orientando la nostra interpretazione del mondo e la nostra maniera di vivere. Ma le nostre conoscenze sul cervello e in particolare quelle di neurofisiologia e psicologia della visione, possono essere d'aiuto a comprendere certi aspetti formali delle opere pittoriche? Nel campo degli studiosi dell'arte, la relazione tra percezione visiva e arte figurativa non ha un'interpretazione univoca. Per alcuni è un legame utile e necessario, per altri invece una sovrastruttura quasi artificiale e di scarso interesse. Di fatto anche nei corsi universitari di storia dell'arte, lezioni sulla percezione visiva sono assai rare, anche perché il più delle volte mancano le competenze adeguate. E indubbio però che con l'avanzamento della comprensione dei processi di percezione e di apprendimento, alcune concezioni sulla comunicazione pittorica sono state modificate ed è altrettanto vero che alcune pitture moderne o certi disegni incoerenti di Escher e di Albers hanno avuto implicazioni per ricerche sulla percezione visiva. Vedremo nei capitoli che seguiranno che certe proprietà del cervello da cui dipendono la visione dei contorni, delle forme e dei colori possono essere rilevanti nella comprensione dell'immagine pittorica. La neurofisiologia moderna ha studiato e in parte capito alcune proprietà basilari della visione che indicano che certe informazioni visive sono più importanti di certe altre e subiscono una elaborazione particolare, direi privilegiata nel cervello. Il risultato più attraente nel contesto del nostro discorso è l'esistenza di un cervello visivo, localizzato nel lobo cerebrale destro e quasi contrapposto a quella parte del cervello che presiede al linguaggio e che ha sede nel lobo sinistro. Forse è per questo che è così difficile parlare di arte; perché le attività di un lobo, quello del linguaggio, vogliono interessarsi alle attività di un altro lobo, il destro, il lobo più visivo, che tratta l'informazione in maniera diversa meno analitica, più globale, gestaltica ed anche più emotiva. Forse per capire l'arte bisognerebbe cercare di usare quelle stesse proprietà visive del cervello con le quali l'opera è stata in gran parte creata. La realtà cambia il nostro cervello, che a sua volta cambia la realtà: un cervello diverso deve per forza avere un rapporto diverso con la realtà. In arte ciò può portare alla creazione di nuove realtà percettive che solo in parte dipendono dall'informazione proveniente dai nostri sensi. Forse è per questo che nel corso della storia dell'arte si vedono sorgere continuamente nuovi

INTRODUZIONE

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stili per rappresentare gli stessi oggetti. Cervelli storicamente diversi richiedono rappresentazioni diverse. In questo senso l'arte è una forma di estensione della realtà, una via intellettuale ad aprire nuove esperienze. A parziale correzione di quanto affermavano gli empiristi : "Nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu", si può affermare che il cervello non ha bisogno del continuo flusso di informazione dai sensi per avere una rappresentazione del reale. Ne danno testimonianza i sogni, le immagini mentali dei nostri ricordi o addirittura le immagini create dalla nostra mente. Non necessariamente l'artista dipinge ciò che vede, spesso dipinge ciò che ricorda o ciò che immagina. "La bellezza nelle cose esiste nella mente di colui che la contempla" dice il filosofo David Hume nel suo lavoro sulla tragedia. Gli stimoli visivi, reali o evocati dalla memoria, che eccitarono il sistema nervoso dell'artista al momento della creazione dell'opera d'arte, trasformati dalla sua mano in colori e forme, ridiventano efficaci per la stimolazione del sistema nervoso dell'osservatore. In una certa misura l'opera d'arte deve riuscire a suscitare nel cervello dell'osservatore sensazioni ed emozioni che furono presenti nel cervello dell'artista. Questo libro si propone di guidare il lettore alla conoscenza di alcuni aspetti delle funzioni del cervello, e in particolare del sistema visivo, che possono aiutare a meglio comprendere le opere d'arte figurative. Come le notizie biografiche sulle vicende della vita di un artista e la conoscenza della cultura del suo tempo possono favorire la comprensione e l'apprezzamento delle sue opere, così noi riteniamo che anche la conoscenza dei meccanismi cerebrali alla base della percezione visiva aiuti ad accostarsi all'opera d'arte. Il libro tratta di alcuni aspetti della psicologia del "vedere" che sono importanti sia per l'artista, sia per chi guarda l'opera d'arte, per esempio le funzioni visive che riguardano i contorni e la forma degli oggetti, il colore, la profondità dello spazio, e così via. Ogni capitolo contiene degli elementi di scienza del cervello, circa i meccanismi che sottostanno alla percezione e circa gli aspetti più propriamente psicologici. Inoltre mostra come queste proprietà percettive sono applicate dal pittore, sia inconsciamente, sia volutamente, nella realizzazione della sua opera. E infine come la conoscenza di queste proprietà percettive favorisca nell'osservatore una più approfondita comprensione dell'opera d'arte. Il libro fa seguito a corsi di lezioni tenute da uno di noi a studenti di storia dell'arte della Scuola Normale Superiore di Pisa, e ad analoghe lezioni tenute a studenti di biologia e informatica presso l'Ecole Normale Superi eure di Parigi. Riteniamo che questo libro possa essere apprezzato da coloro che amano superare le barriere tra cultura umanistica e cultura scientifica ed essere utile da un lato agli studenti delle scuole d'arte e dei corsi universitari di storia dell'arte, e dall'altro agli studenti di psicologia.

M.C. Escher, Sistema transizionale a due figure. (Collezione M. Sachs).

CAPITOLO 1 IL MIRACOLO DEL VEDERE II signor Palomar pensa al mondo senza di lui: quello sterminato di prima della sua nascita e quello ben più oscuro dopo la sua morte; cerca d'immaginare il mondo prima degli occhi, prima dì qualsiasi occhio. Italo Calvino, Palomar. L'oggetto esiste qualora se ne abbia un'immagine. Italo Calvino, Le Cosmicomiche.

I

l mondo che ci circonda è per noi il mondo che vediamo. Ci appare così reale che non ci vien fatto di pensare che esso risulti da un processo cerebrale di grande complessità. Un processo tanto complesso e misterioso da apparire anche allo studioso moderno un vero miracolo. E vero che il vedere inizia nell'occhio, sul fondo del quale si formano delle immagini piccole e rovesciate, come avviene in una macchina fotografica; ma questo non è che l'inizio di una catena di eventi che coinvolgono gran parte del nostro cervello per arrivare misteriosamente alle immagini che percepiamo. Già Plinio nella sua Naturalis Historia aveva affermato che l'organo della vista non è l'occhio, ma la mente. Vedere è il risultato di una trasformazione del mondo esterno, fisicamente esistente, in un nostro mondo percettivo, in cui giocano un ruolo importante la nostra precedente conoscenza, la nostra cultura e persino il nostro stato d'animo. D'altra parte, se è vero che al processo del vedere contribuisce l'informazione già depositata nella nostra memoria, è pure vero che vedere è un mezzo per conoscere, per arricchire il nostro pensiero. Non è un caso forse che in greco óida, che è il perfetto del verbo eidéin {vedere), significa "io so", perché ho visto, e che la parola idea {èidos) ha la radice id del verbo eidéin {vedere). Il mondo dell'uomo è principalmente visivo. Questo non è vero per tutti gli animali; anzi, se si escludono i primati, altri sensi e in particolare l'odorato hanno per molti mammiferi un'importanza predominante. Si pensi, ad esempio, al cane, il cui mondo è principalmente olfattivo e uditivo. Come mezzo per comunicare molti animali si servono di segnali acustici, e anche l'uomo ha sviluppato uno strumento di comunicazione acustico altamente specializzato che è il linguaggio. L'uomo ha però creato anche un sistema artificiale di comunicazione basato sulla visione, in cui rientrano la scrittura e la rappresentazione grafica. Si pensa

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Figura 1.1 Saul Steinberg, Bingo in Vertice, California (1953).

comunemente che il linguaggio caratterizzi l'uomo. Ciò è senz'altro in parte vero, ma forse il mezzo di comunicazione più originale (e più nuovo anche nella filogenesi) che l'uomo abbia creato è quello della comunicazione grafica: un linguaggio che non soltanto permette di comunicare in tempo reale, cioè nell'istante in cui il segnale viene generato, ma che supera i limiti temporali per diventare "estensione della memoria e dell'immaginazione", come dice Borges a proposito del libro. Nato dalla collaborazione tra occhio e mano, questo mezzo di comunicazione implica il pensiero, e ne estende le possibilità di espressione fino a divenire strumento per la rappresentazione estetica. Oltre a permettere di superare i limiti del tempo, il linguaggio grafico è superiore al linguaggio verbale anche per la capacità di sintesi, cioè per la possibilità di esprimere, con un piccolo numero di simboli, messaggi di grande complessità come quelli dei sentimenti e delle emozioni. Nel divertente disegno di Bingo in Venice di Steinberg vediamo come pochi tratti suggeriscono non solo i lineamenti di un volto, ma addirittura un'espressione (figura 1.1).

Dalla luce alle, immagini visive

Figura 1.2 Leonardo da Vinci. Schema della formazione delle immagini nell'occhio. Cod. Atlan., fol. 337. Milano, Biblioteca ambrosiana.

La catena degli eventi che portano alla visione comincia dall'energia luminosa che proviene dagli oggetti esterni e dalle immagini, rimpicciolite e rovesciate, che questa forma sul fondo dell'occhio attraversandone le lenti. È questa energia che stimola le cellule della retina sensibili alla luce, i fotorecettori, producendo un segnale elettrico. Questo

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Figura 1.3 Cartesio. Schema dell'esperienza di padre Scheiner e formazione delle immagini nell'occhio. Burndy Library.

segnale ne genera altri nelle cellule nervose che si succedono lungo le vie neurali dall'occhio al cervello, dando luogo a una cascata di eventi che si conclude nella corteccia cerebrale generando l'immagine visiva. Che questa sia la catena degli eventi della visione è conoscenza relativamente recente. Ad esempio presso gli antichi Greci (scuola pitagorica) si riteneva che lo stimolo per la visione non procedesse dagli oggetti verso l'occhio, ma viceversa che l'occhio emanasse raggi che come sottili tentacoli procedevano verso gli oggetti, tastandone la forma. Una teoria alternativa (Leucippo di Mileto) supponeva che dagli oggetti si staccassero delle sottili scorze (éidola) che si dirigevano verso l'occhio, conservando la forma dell'oggetto, ma rimpicciolendosi progressivamente così da poter penetrare nell'occhio attraverso il piccolo foro della pupilla. A lungo incerto e dibattuto è stato anche quale fosse la parte anatomica dell'occhio capace di rispondere alla luce. Per lungo tempo si è creduto che la parte sensibile fosse la lente dell'occhio (cristallino); fu Andrea Vesalio che nel 1543 riconobbe che questa funzione è svolta dalla retina. Anche quando, per paragone con la camera oscura, cominciò ad essere chiaro che le immagini formate sul fondo dell'occhio sono capovolte rispetto agli oggetti, restò difficile spiegare come mai noi vediamo gli oggetti diritti. Molti si proposero di trovare la soluzione teorica di questo problema; Leonardo, ad esempio, pensò che l'immagine fosse invertita due volte all'interno dell'occhio e che la parte sensibile fosse la superficie posteriore della lente (figura 1.2). Per avere una spiegazione corretta di come si formano le immagini nell'occhio bisognerà attendere Keplero, anche se in realtà la sua teoria aveva avuto un notevole precursore in padre Maurolico da Messina (Ronchi, 1983). La conferma sperimentale della teoria di Keplero e della formazione di immagini rovesciate sulla retina fu data da padre Scheiner nel 1625. Egli osservò le immagini formate da un oggetto luminoso sul fondo di un occhio di bue. Per far questo aveva tolto una piccola porzione della parte posteriore dell'occhio, sostituendola con un pezzetto di carta; su questo vide proiettate le immagini capovolte degli oggetti della sua stanza. La figura 1.3 mostra la formazione delle immagini secondo la teoria di Keplero e l'esperimento di padre Scheiner, così come l'ha illustrata Cartesio nella Diottrica. Cartesio, dunque, sostenendo la teoria di Keplero ebbe una concezione corretta della formazione delle immagini nell'occhio, ma ritenne erroneamente che le informazioni sensoriali venissero analizzate dalla ghiandola pineale, anziché dalla corteccia cerebrale. Oggi sappiamo molto sul modo in cui gli stimoli luminosi generano segnali nervosi nella retina e su come questi segnali vengono trasmessi nelle vie ottiche ed elaborati nelle varie stazioni visive fino alla corteccia. Di questo parleremo più a fondo nei prossimi capitoli. Inve-

ce le fasi successive e terminali del processo che si conclude con il miracolo del vedere sono tuttora largamente sconosciute. Esse sono aperte a varie ipotesi e interpretazioni che si basano sull'osservazione di proprietà della visione e che possono essere raggruppate in alcune teorie della percezione, di cui le più note e importanti sono la teoria del costruttivismo e quella della Gestalt. Secondo la prima teoria, l'immagine visiva viene costruita di volta in volta, mentre secondo la teoria della Gestalt esistono schemi innati di organizzazione della percezione.

Le immagini costruite Uno dei modi in cui le immagini visive possono essere costruite è quello suggerito dai filosofi dell'empirismo, secondo i quali la percezione viene costruita da sensazioni elementari mediante un processo di associazione. La teoria empirista è stata ripresa nell'Ottocento da Helmholtz e ai giorni nostri da Gregory. Questi autori hanno precisato che la percezione visiva (costruzione dell'immagine) avviene per confronto dinamico fra l'informazione sensoriale fornita dall'occhio e le immagini precedentemente percepite e conservate in memoria. Secondo questa teoria, quindi, per «vedere» è necessario aver imparato a vedere. Quando si guarda un oggetto, viene formulata un'ipotesi sulla sua natura in base all'informazione in memoria, e questa ipotesi viene sottoposta a verifica confrontandola con l'entrata sensoriale. Quando l'ipotesi è verificata, la percezione conduce al riconoscimento dell'oggetto. Un processo quindi per prove ed errori mediante il quale l'osservatore dà significato alla realtà anche in presenza di una stimolazione ottica non strutturata, come la distribuzione di macchie bianche e nere della figura 1.4. In altre parole, il percetto sarebbe una congettura che aspetta conferma dai sensi, l'informazione dei quali non può che dare origine a un'altra congettura. Una teoria cognitivista, dunque, secondo la quale la responsabilità del percetto è lasciata completamente all'osservatore. Guardiamo ad esempio la figura 1.5a. Per molti osservatori l'ipotesi più probabile è che si tratti di un albero e come tale viene percepito. Appena però si modifica il disegno con l'aggiunta di un piccolo particolare (1.5b), l'ipotesi dell'albero non è più soddisfacente ed essa viene sostituita con un'ipotesi diversa, quella cioè che si tratti di una faccia. Uno stesso oggetto può dare immagini di forma molto diversa sulla retina, a seconda del punto di vista da cui viene osservato. Ad esempio, un cerchio può dare nell'occhio immagini di ellissi più o meno allungate se visto obliquamente. Un'ellisse, vista in un campo non strutturato (figura 1.6a), può venire interpretata sia come un'ellisse che come un cerchio. Secondo la teoria del costruttivismo, l'esperienza preceden-

Figura 1.5 (a) Un albero. (b) Un viso.

te e il contesto in cui l'oggetto si presenta sono essenziali per formulare la congettura sulla forma reale dell'oggetto e sulla sua posizione nello spazio. Così nella figura 1.6b la presenza di un contesto fa scartare l'ipotesi dell'ellisse in favore di quella del cerchio. Anche in un quadro un oggetto di forma circolare può essere rappresentato con una forma ellittica. Se però l'oggetto è riconoscibile, es-

Figura 1.6 La forma che vediamo in (a) è un'ellisse oppure un cerchio? Solo sapendo di che oggetto si tratta possiamo riconoscere un cerchio visto obliquamente (b). (da Gregory, 1966).

Figura 1.7 Camera di Ames. (a) In questa strana stanza l'uomo sembra enormemenre più grande della donna. La singolarità della stanza consiste nel fatto che, contrariamente all'apparenza, le sue pareti non sono rettangolari, ma trapezoidali. Esiste tuttavia un particolare punto di osservazione, e precisamente quello da cui è stata scattata la fotografia, per il quale le immagini , retiniche delle pareti sono identiche a quelle che sarebbero prodotte da una camera a pareti rettangolari. L'illusione consiste nel fatto che la camera ci appare rettangolare, e quindi la grandezza delle persone risulta distorta. (b) Schema della camera di Ames. Le linee più spesse indicano il reale profilo delle pareti. Se la camera viene vista attraverso il foro praticato nella prima parete a sinistra della figura, le pareti ci appaiono come indicato dalle linee sottili tratteggiate.

Figura 1.8 Figura di Rubin. L'immagine del vaso si alterna con quella di due volti.

so viene interpretato correttamente come un cerchio e l'ellitticità del suo contorno dà l'informazione aggiuntiva circa la sua posizione obliqua nello spazio rappresentato nel quadro. Questa informazione può essere utile per rivelare la posizione del pittore rispetto agli oggetti e di conseguenza indicare all'osservatore una posizione corretta per l'osservazione del quadro stesso. In qualche caso la forma dell'immagine retinica di un oggetto può corrispondere a una congettura così convincente da generare una percezione fallace. Un esempio famoso è la camera di Ames, costruita con pareti, pavimento e soffitto trapezoidali, ma tali da produrre nell'occhio la stessa immagine prodotta da una stanza rettangolare (figura 1.7). La stanza viene vista come se fosse rettangolare e questa percezione fallace è così forte da creare una distorsione dello spazio interno che genera un'errata percezione delle persone che si vi trovano.

Figura 1.9 L'immagine di una donna allo specchio si alterna con quella di un teschio.

Figura 1.10 Figure «impossibili», (da Shepard, 1990).

In altri casi invece una stessa immagine visiva può dar luogo a due possibili congetture entrambe ugualmente valide, ma che si escludono a vicenda. Avviene allora un'alternanza dei due possibili percetti (figure 1.8 e 1.9). Nella figura 1.8 è possibile vedere il profilo bianco di due volti, oppure un calice nero (vaso di Rubin); nella figura 1.9 l'immagine di una donna allo specchio si alterna con quella di un teschio. È possibile anche costruire delle figure che non corrispondono ad alcun oggetto reale in maniera stabile. Queste figure «impossibili» suggeriscono una congettura per la loro somiglianza con oggetti reali. Tuttavia questa congettura non viene confermata e non dà quindi luogo a un percetto stabile. Nelle immagini della figura 1.10, le gambe dell'elefante e le colonne del tempio greco lasciano l'osservatore perplesso.

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Figura 1.11 Salvador Dall', Mercato di schiave con l'apparizione del busto invisibile di Voltaire, particolare (1940). Cleveland, Fondazione Reynolds-Morse.

Anche la visione di un'opera d'arte può suscitare nell'osservatore congetture che influiscono sul modo in cui l'opera viene percepita, tanto da rendere possibili, in diversi osservatori, reazioni estetiche diverse. Questo grado di indeterminazione nella percezione di un dipinto può derivare sia da una certa indeterminazione nel linguaggio espressivo dell'artista, sia da una diversa predisposizione culturale del cervello dell'osservatore. Molti pittori lasciano volutamente una certa ambiguità nelle loro rappresentazioni, cosicché l'osservatore deve completare le figure seguendo sue proprie congetture. Ciò vale in particolare per i pittori moderni, tra cui gli impressionisti, i surrealisti, i cubisti. In altri casi i gradi di libertà lasciati dall'artista sono minori, ma congetture diverse possono nascere per la diversità del cervello di chi guarda, e ciò sia per un diverso grado di competenza specifica, sia per l'appartenenza a un periodo storico diverso. Un esperto cririco d'arte «percepisce» un dipinro in maniera diversa da un osservatore digiuno di pittura. Un cittadino della Siena del Trecento guardava i quadri di Duccio con «occhi» diversi da quelli con cui li guardiamo noi ora. Vi sono infine casi estremi in cui l'artista crea volutamente figure percettivamente instabili che danno luogo a due interpretazioni alternative, oppure che generano percetti impossibili (figura 1.11). Nel campo delle arti figurative, molti storici dell'arte si rifanno alla teoria del costruttivismo nell'interpretazione delle immagini pittoriche. Anche Gombrich si avvicina a questo modo di pensare. L'esperienza predisporrebbe i canali per l'analisi e l'interpretazione dell'informazione visiva. Questa verrebbe elaborata secondo schemi acquisiti, basati su esperienze precedenti, creando ordine nel caos dell'entrata visiva. La storia dell'arte è, per Gombrich, lo studio dello sviluppo degli schemi di rappresentazione usati dagli artisti. Nel raffigurare la realtà il pirtore si avvale di modelli secondo schemi socialmente condivisi e che si modificano con i tempi. Cimabue, ad esempio, nella rappresentazione delle sue Madonne segue uno schema che si rirrova sistematicamente nei suoi dipinti. Questo modello fu superato quando Giotto ne trovò uno più realistico per rappresentare la figura della Madonna: "Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura" (Dante, Purgatorio, xi, 94-96).

Principi innati di organizzazione delle immagini: la Gestalt Secondo la teoria della Gestalt, come descritta originariamente nelle opere fondamentali di Koffka, Wertheimer e Kohler, si percepisce attraverso schemi innati di cui è possibile studiare le proprietà e le leggi

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Figura 1.12 (a) Punti che si organizzano in righe verticali (a sinistra) o orizzontali (a destra) seguendo il principio della prossimità. (b) I cerchietti bianchi e neri si organizzano percettivamente in righe verticali per il principio della somiglianza, nonostante che la distanza tra i cerchietti sia minore lungo la direzione orizzontale, (e) Per il principio della continuazione si vedono due linee che si incrociano. (d) Ciascuna di queste forme è vista come un quadrato.



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di organizzazione. I seguaci della Gestalt rifiutano l'idea che il percetto sia costruito dalle sensazioni e che possa essere suddiviso nelle sue parti costituenti. L'intero è maggiore della somma delle parti, dicono i gestaltisti. La percezione risulta dalla organizzazione delle sensazioni più che dalla loro associazione. Gli psicologi della Gestalt hanno postulato l'esistenza di principi di organizzazione percettiva per rendere ragione del perché certe percezioni sono più probabili di altre. Alcuni di questi principi riguardano il modo in cui si raggruppano gli elementi delle figure, altri la separazione della figura dallo sfondo. Esempi di figure che illustrano i principi della Gestalt sono riportati nella figura 1.12. I puntini neri nella parte sinistra della figura 1.12a si organizzano percettivamente in righe verticali seguendo il principio di prossimità: infatti essi sono più vicini tra loro lungo la verticale che lungo una direzione orizzontale; viceversa, i puntini neri della parte destra formano righe orizzontali per la maggiore prossimità lungo una direzione orizzontale. Nella figura 1.12b, però, i pallini neri e quelli bianchi formano colonne verticali, benché la prossimità tra i punti sia maggiore lungo l'orizzontale; vale qui il principio di somiglianza che prevale su quello della prossimità. Nella figura 1.12c è illustra-

CAPITOLO 1

to il principio di continuazione secondo il quale la continuità delle linee viene preferita ai cambiamenti bruschi; si vedono infatti due linee continue che si incrociano, piuttosto che due forme a v che si toccano nel punto di incontro. Nella figura 1.12d gli elementi simili si raggruppano a formare quadrati e non, ad esempio, croci o altri raggruppamenti possibili; ciò obbedisce al principio di chiusura, secondo cui le forme chiuse sono preferite a quelle aperte. Per i seguaci della Gestalt questo esempio contraddice un'interpretazione costruttivista, poiché in tutte e tre le figure si percepisce un quadrato, nonostante che gli stimoli elementari che le costituiscono siano totalmente diversi. Altri principi della Gestalt riguardano la separazione di una figura dallo sfondo. A parità di altre condizioni verrà percepita come figura una forma simmetrica rispetto agli assi orizzontali e verticali, verrà vista preferenzialmente come figura una superficie più piccola e come sfondo la superficie più grande ecc. Tutto ciò è riassunto dalla cosiddetta legge della pregnanza, secondo la quale tra le varie organizzazioni geometricamente possibili prevale quella che possiede la forma "migliore, più semplice e più stabile". Talvolta si possono tuttavia costruire delle immagini in cui non vi è una chiara prevalenza figura-sfondo. In questi casi si alternano due percetti a seconda che l'una o l'altra porzione venga percepita come figura e la sua complementare come sfondo. Così viene interpretata dalla Gestalt la figura di Rubin (figura 1.8) nella quale il vaso e i due volti si scambiano i ruoli di figura e di sfondo. Così pure la figura di Escher (figura 1.13), dove gli angeli si alternano con i diavoli. La teoria della Gestalt è di particolare valore nelle arti visive, in quanto stabilisce che la verità visiva non è da confondere con la verità fotografica o con la fedeltà all'immagine retinica. In questa luce la prospettiva viene considerata puramente un mezzo tecnico, come altri, per contribuire a dare l'illusione della realtà. La percezione consiste nell'afferrare certe caratteristiche salienti dell'oggetto che contengono l'informazione sulla sua struttura globale, piuttosto che sulla sua completezza o esattezza. La percezione non è un'inferenza probabilistica, un'ipotesi, come asseriscono i costruttivisti, perché si basa su leggi predeterminate mediante le quali è organizzata l'informazione sensoriale. A livello della rappresentazione pittorica questa teoria ha il suo alfiere più noto in Arnheim, il quale pensa che gli stessi schemi percettivi gestaltici si applichino sia alla percezione sia alla rappresentazione pittorica. Per Arnheim l'atto della percezione e l'atto della rappresentazione artistica sono simili, perché entrambi si servono degli stessi principi organizzativi cerebrali. Esistono anche teorie «antropologiche» della percezione, in base alle quali si sostiene che l'immagine è un mezzo espresso da una certa comu-

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Figura 1.13 M.C. Escher, Cerchio limite quarto.

nità per esprimere la realtà. Di per sé l'immagine della realtà, nel senso della sua riproduzione grafica, è un'immagine senza storia e senza significato se non alla luce dei costumi di un determinato popolo e delle tecniche a sua disposizione per costruire quell'immagine. Nessuna immagine è quindi universale sia per le diversità culturali che per la diversità delle tecniche. Questa concezione antropologica e sociologica dell'immagine porta a una relativizzazione dell'interpretazione della natura.

La teoria ecologica di Gibson Una teoria più recente della percezione è quella proposta da J.J. Gibson, secondo il quale la percezione degli oggetti non dovrebbe mai essere considerata separatamente dalla struttura dello sfondo su cui essi si proiettano. Gibson osserva che uno sfondo strutturato, come ad esempio un terreno o un prato, genera un gradiente di densità degli elementi che lo compongono (dimensione dei ciottoli di un selciato, grana di fili d'erba ecc.): gli elementi più vicini sono più distanziati di quelli via via più lontani. È questo gradiente di densità che dà luogo alla percezione di una superficie inclinata che recede dall'osservatore. Un oggetto che si stagli contro uno sfondo come questo non viene per-

v-^-t Figura 1.14 Flusso ottico dell'immagine visiva per: (a) un pilota che atterra con il suo aeroplano, (b) una persona seduta sul tetto di un treno che guarda il binario che recede, (da Bruce e Green, 1985).

cepito isolatamente, come se fosse sospeso nell'aria. Anzi, è proprio la parte di sfondo che l'oggetto nasconde che dà luogo al percetto nella sua complessità, dà informazioni sulle dimensioni dell'oggetto, sulla sua posizione ecc. Ad esempio, un albero verticale in un prato è visto come tale perché nasconde una parte del gradiente di densità del fondo, mentre la microstruttura dell'albero stesso (foglie, grana della corteccia dei rami ecc.) è costante. Si osservi che gli aspetti della scena visiva su cui Gibson concentra la sua attenzione sono quelli che si mantengono invariati con il cambiare del punto di osservazione, come la presenza di un gradiente di densità nello sfondo, la verticalità dell'albero ecc. Per la teoria di Gibson è quindi cruciale considerare come si modifica la scena visiva durante il movimento dell'osservatore, e quali proprietà di questa scena rimarrebbero invariate. Nella rappresentazione pittorica, per l'artista è importante individuare quali siano le proprietà invarianti della scena. Un quadro che invii ai nostri occhi un insieme di raggi luminosi uguale a quello generato dalla scena reale, con i suoi invarianti, dà luogo alla stessa percezione prodotta dalla scena reale. Le modificazioni complessive dell'intera scena visiva durante il movimento dell'osservatore consentono di ricavare, oltre agli invarianti, le informazioni che definiscono la direzione del movimento dell'osserva-

tore. Ad esempio (figura 1.14a), per un pilota che atterra con il suo aeroplano, fissando la pista di atterraggio davanri a sé, la scena visiva si modifica con un movimento radiale di allontanamento di tutti i punti della scena visti lateralmente. Invece, per un osservatore che si trovi sul tetto di un treno e guardi il binario che recede, si ha un movimento radiale dei punti laterali della scena verso il punto fissato (figura l.l4b). Queste osservazioni sono rilevanti per la simulazione del movimento dell'osservatore nel cinematografo e nella televisione.

Vedere e pensare Le due grandi teorie della percezione, quella del cognitivismo in cui rientra il costruttivismo, e quella della Gestalt, assumono due schemi in un certo senso opposti per la comprensione del «vedere» e, per estensione, del «pensare». Mentre nella prima i dati sensoriali sono sottoposti a interpretazione da parte del pensiero, nella seconda la percezione avviene per l'organizzazione dei dati sensoriali secondo schemi innati. I gestaltisti hanno sostenuto che le leggi di organizzazione valide nella percezione agiscono anche nel pensiero.

Figura 1.15 Fenomeno di completamento percettivo: lo scooter allungato, (da Kanizsa, 1991)-

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morfiche ebbero per molti secoli un significato magico o di intrattenimento. Assunsero però un valore diverso e furono meglio comprese con lo sviluppo della prospettiva nel Cinquecento. Leonardo fu il primo a rendersi conto delle difficoltà che sorgono nella prospettiva a grande angolo, quando cioè si debba rappresentare una figura destinata ad essere vista di scorcio su una porzione di superficie piana fortemente inclinata rispetto alla direzione di osservazione. Ci rimangono un testo e due disegni a conferma di questa sua attenzione al problema (figura 5.18). Leonardo descrive il meccanismo degli scorci progressivi che si hanno via via che la visione diventa più obliqua: per rendere apparentemente uguali degli intervalli di distanza, occorre disegnarli progressivamente più lunghi. Naturalmente queste immagini appaiono deformate quando non siano viste di scorcio, o quando l'osservatore sia libero di muoversi davanti alla parete del dipinto. Infatti Leonardo nota: "E se dipingerai ciò su un muro davanti al quale potrai spostarti liberamente, ti sembrerebbe sproporzionato". I due disegni allungati di un viso di un bambino e di un occhio conservati nel Codice Atlantico di Leonardo, con i segni appena percettibili delle linee di proiezione gradualmente distanziate, se osservati obliquamente dalla destra, appaiono nelle normali proporzioni, come il lettore potrà constatare osservando così la figura 5.18. È questa la più antica rappresentazione anamorfica che ci sia pervenuta. Nel sedicesimo e diciassettesimo secolo cominciano ad apparire dei trattati di tecnica delle anamorfosi. In particolare Jean Francois Niceron nel suo Thaumaturgus Opticus (1646) dà un'ampia trattazione delle immagini anamorfiche e dei metodi per ottenerle mediante una griglia prospettivamente distorta. È probabilmente questo il metodo seguito per ottenere la più famosa immagine anamorfica del Cinquecento, quella dipinta da Hans Holbein nel 1533, negli Ambasciatori (figura 5.19). Ai piedi dei due notabili francesi si osserva una figura che è incomprensibile se

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Figura 5.19 Hans Holbein, Gli Ambasciatori (1533)- Londra, National Gallery. Per vedere il teschio anamorfico occorre guardare il quadro di scorcio da sinistra sotto forte angolo.

il quadro è visto di fronte, ma che si rivela essere un teschio guardando il dipinto di scorcio dalla parte sinistra. Probabilmente questa immagine anamorfica è carica di un significato simbolico come lo erano quelle dei secoli precedenti. L'immagine così mimetizzata del teschio potrebbe fare da contrappunto al piccolo crocifisso seminascosto dalla tenda lungo il margine sinistro del quadro. Le due immagini starebbero a richiamare Luna la morte: memento mori, e l'altra la salvezza nella vita futura. Altri esempi molto noti di dipinti anamorfici sono ritratti di sovrani: il ritratto di Carlo V (1533) conservato a New York e il ritratto di Edoardo VI (1546), alla National Portrait Gallery di Londra. Dal diciassettesimo al diciannovesimo secolo si sono moltiplicati gli esempi di immagini anamorfiche, particolarmente quelle destinate ad essere osservate per riflessione su specchi cilindrici o conici.

La prospettiva e le leggi della visione Dopo aver parlato della rappresentazione prospettica e della sua possibile efficacia nel simulare la distanza, conviene ribadire e chiarire le sue ambiguirà e contraddizioni rispetto alla percezione visiva di scene reali. Innanzittuto ricordiamo che entro distanze moderate come quel-

U l f l J . N V j H K . E LS\ Ul^> 1 /VINIZL^rL

7 J

le di un ambiente interno la grandezza apparente degli oggetti è indipendente dalla distanza. Quindi la prospettiva centrale non è applicabile in questo ambito di distanze, perché darebbe risultati paradossali. È probabimente per questa ragione che già i pittori del Rinascimento hanno corretto o attenuato l'applicazione delle regole prospettiche nel dipingere personaggi o oggetti in primo piano. Ancora: è vero che per la visione da lontano vale la legge della costanza dell'angolo, che corrisponde alle leggi della rappresentazione prospettica. Tuttavia è pure vero che talvolta anche per queste distanze la grandezza apparente può risultare variabile a parità di angolo visivo, in relazione ad altri indizi percettivi presenti, come avviene per l'ingrandimento apparente degli astri all'orizzonte. Un altro caso in cui le leggi della prospettiva non sono in accordo con la percezione è quello della prospettiva invertita. Si parla di prospettiva invertita quando per rappresentare la profondità si usa la divergenza, anziché la convergenza delle linee parallele, come in alcune pitture medioevali e in particolare nei mosaici bizantini. Un famoso esempio è quello della storia della Ospitalità di Abramo in San Vitale a Ravenna dove il tavolo al centro è rappresentato con il lato più vicino più corto del lato più lontano (figura 5.20). Ci si è domandati se la prospettiva invertita avesse un'origine percettiva o se fosse puramente un' invenzione pittorica. I risultati di esperimenti condotti per verificare questo punto, hanno mostrato che nella visione dall'alto di certi solidi con facce rettangolari, simili a quello rappresentato nella figura, vi è una distorsione percettiva nel senso della prospettiva invertita. Se il lato più vicino e quello più lontano sono di uguale lunghezza, il lato più lontano sembra un pochino più lungo. Gli autori di questi esperimenti concludono che la prospettiva a linee divergenti è percettivamente legittima come lo è quella a linee convergenti. È probabile che questo fatto percettivo abbia originato in certe epoche una convenzione di rappresentazione pittorica che veniva poi applicata passivamente anche in casi in cui non era del tutto appropriata. Un'altra considerazione che ha fatto ritenere la prospettiva lineare in disaccordo con la percezione visiva è il fatto che le immagini visive vengono proiettate su una superficie curva, quella della retina, e non una superficie piana. È bene però chiarire che la curvatura delle immagini retiniche non ha una conseguenza diretta sulle relazioni tra immagini prospettiche e visione. Ricordiamo infatti che la proiezione prospettica è la sezione della piramide visiva con una data superficie. Quando si guarda la proiezione prospettica dal vertice della piramide visiva, l'immagine prodotta sulla retina da questa proiezione, coincide punto per punto con l'immagine retinica dell'oggetto. Se quindi l'immagine retinica è la stessa per l'oggetto reale e per la sua proiezione prospettica, la

CAPITOLO 5

curvatura della retina non giustifica una differenza tra le due, cioè tra il vedere l'oggetto e il vedere la sua immagine prospettica. Alcuni storici dell'arte hanno suggerito dei sistemi di prospettiva curvilinea ritenendo così di correggere gli effetti della proiezione sulla superficie curva della retina. Questo suggerimento non appare giustificato. Nella visione naturale gli indizi pittorici monoculari e quelli binoculari insieme alla parallasse da movimento, collaborano alla percezione della profondità. Nella visione di un dipinto, invece, gli effetti di profondità indotti dalla prospettiva e dagli altri indizi pittorici (sovrapposizione, luci e ombre etc.) sono in parte contraddetti dagli indizi binoculari e dalla parallasse da movimento che indicano che il quadro è una superficie e che quindi la terza dimensione è illusoria. È solo in quei casi eccezionali, in cui è stata presa ogni precauzione per rendere impossibile la consapevolezza della superficie dipinta, che il dipinto assume una vera e propria apparenza tridimensionale. Ciò accade quando si guarda un dipinto con un occhio solo attraverso uno schermo che ne limiti la porzione di superficie visibile, escludendo la cornice. O anche quando si guarda un dipinto da una distanza così grande da rendere inefficace gli indizi di profondità binoculari, come avviene per gli affreschi del Pozzo in S. Ignazio. E infine, quando si guarda un quadro non direttamente, ma per riflessione su uno specchio piano in maniera da ridurre i riferimenti non prospettici. Nel Museo del Prado a Madrid era un tempo predisposto questo tipo di osservazione per il famoso quadro di Velàzquez, Las Meninas. Il quadro rappresenta l'infanta Margarita, circondata dai personaggi di corte, e inoltre l'autoritratto del pittore e il ritratto del re e della regina riflessi in uno specchio sul fondo di una stanza. L'opera è concepita secondo le regole prospettiche e suscita già di per sé un notevole senso di profondità; lo specchio tuttavia, rendendo meno evidenti la cornice e la superficie del quadro (indizi binoculari), aumenta grandemente questa sensazione. Se è vero dunque che gli indizi binoculari possono essere un inconveniente in quanto ci fanno percepire la superficie del quadro come tale, contrapponendosi così alla simulazione prospettica della distanza, sono proprio gli indizi binoculari che, consentendoci di vedere la superficie, permettono di evitare certe distorsioni percettive che ci potremmo attendere quando si osserva l'immagine da una posizione non frontale. Infatti guardando da una direzione obliqua una figura disegnata su un piano, l'immagine ne dovrebbe risultare deformata (il cerchio ad esempio diventa un'ellisse). In molti casi però questo percettivamente non avviene o quantomeno le distorsioni sono scarsamente avvertite. Ciò è dovuto senza dubbio ad una compensazione percettiva, cioè ad una compensazione cerebrale, che tende a mantenere costante la forma desìi oeeetti visti sotto ansoli diversi. È lo stesso meccani-

LA FINESTRA SUL M O N D O E IL L I N G U A G G I O DEL SEGNO

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\ Figura 3.14 Le cellule della corteccia visiva primaria dei mammiferi rispondono in modo preferenziale a stimoli visivi costituiti da una linea o da un contorno di un opportuno orientamento, presentati in quella piccola area del campo visivo che è il «campo recettivo» della cellula. A sinistra: stimoli costituiti da una sbarretta con vari orientamenti. A destra: risposte di una cellula della corteccia visiva del garto alla presentazione dello stimolo luminoso nel campo recettivo. Le lineette verticali rappresentano i singoli impulsi nervosi generati dalla cellula prima (off), durante {ori) e dopo (off) la presentazione dello stimolo. Si osservi che la cellula risponde con il massimo numero di impulsi nervosi a una barretta che e leggermente inclinata rispetto all'orientamento verticale (seconda dall'alto) e non risponde a barrette con orientamento notevolmente diverso da quello preferenziale, (da Hubel, 1988).

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di un animale? L'immagine di un animale è ben diversa dal profilo più o meno accurato che si può tracciare di esso. Le cellule della retina che vengono attivate dalle immagini dell'animale e da quella del disegno sono diverse e certamente i corrispondenti insiemi di impulsi nervosi generati nelle vie visive sono del tutto differenti. Evidentemente messaggi molto diversi nelle vie sensoriali rievocano la stessa immagine dal magazzino della memoria; e possiamo pensare che il cacciatore avrebbe potuto richiamarla alla mente dei suoi compagni anche imitando rumori e suoni emessi dal bisonte o emulando la sua forma o la sua corsa con movimenti delle mani e del corpo. Noi dopo l'avvento del linguaggio o della scrittura avremmo detto o scritto una semplice parola, «bisonte», e ancora una volta l'immagine sarebbe venuta alla nostra memoria, e a quella dei nostri interlocutori, nella sua complessità. Il segno, e quindi il contorno, è un segnale particolarmente efficace per il cervello. Sarebbe del tutto assurdo pensare che le immagini degli oggetti del mondo esterno vengano ridisegnate e dipinte nella nostra corteccia con le loro forme e colori. Esse vengono ridotte a invarianti, a concetti visivi, e simbolizzate nell'attività di certi neuroni. La dimostrazione scientifica che i neuroni della corteccia visiva rispondono principalmente al contorno degli oggetti del mondo esterno viene dal lavoro di due neurofisiologi della Harvard Medicai School, David Hubel e Torsten Wiesel, che per queste ricerche hanno ricevuto nel 1981 il premio Nobel. Essi hanno registrato le risposte delle cellule della corteccia visiva del gatto e della scimmia e hanno dimostrato che queste cellule rispondono solo a stimoli visivi rappresentati da linee o bordi di particolare orientamento e dimensioni. E così vi sono cellule che rispondono ad esempio solo a linee e bordi posti orizzontalmente davanti all'occhio dell'animale, altre solo a quelli disposti verticalmente, altre ancora a stimoli obliqui (figura 3.14). Tutti gli orientamenti sono rappresentati. Vi sono cellule che rispondono a stimoli di una certa lunghezza e non ad altri. Sembra proprio che a livello della corteccia di questi mammiferi (ed è stato dimostrato anche per la corteccia visiva dell'uomo) le immagini presenti sul fondo dell'occhio siano ridotte ai loro contorni o a segmenti di essi, e verosimilmente ricostruite da una rielaborazione di questa informazione. Nel passare dalla retina alla corteccia è cambiato il linguaggio dei neuroni. Nella retina i neuroni «vedevano» l'immagine punto per punto in termini di chiaro e scuro (oltre che di colore). Nella corteccia i neuroni «vedono» i contorni dell'immagine, che vengono espressi mediante un numero finito di orientamenti. Le risposte della corteccia visiva ai contorni degli oggetti, più che ad altre caratteristiche o attributi di essi, sono attualmente l'esempio

DIPINGERE LA DISTANZA

Figura 5.21 Deformazione di una fotografia in una fotografia. La figura nello sfondo appare deformata perché è la fotografia, presa da un angolo errato, di un'altra fotografia. Si noti invece che il viso del giovane non appare modificato anche quando si guarda da una posizione spostata rispetto al centro della figura, (da Pirenne, 1970).

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smo di compensazione per cui noi continuiamo a vedere un cerchio anche quando lo guardiamo obliquamente così che la sua immagine retinica è un'ellisse più o meno allungata (figura 1.6). Quanto in realtà siano deformate le immagini in proiezione obliqua è illustrato nella figura 5.21 che mostra la deformazione di una persona nella fotografia di una fotografia. Che le immagini percepite a differenza da quelle fotografiche, siano corrette da un processo cerebrale di compensazione, è assai utile nella vita quotidiana: le fotografie dei documenti di riconoscimento sarebbero di limitata utilità, se la somiglianza col soggetto valesse solo per un determinato angolo di osservazione della fotografia. Possiamo concludere queste considerazioni osservando che la prospettiva ha avuto un ruolo principe nella rappresentazione pittorica dello spazio, ma che questo ruolo non è completamente sostenuto dalle leggi della visione. Il fatto che le immagini prospettiche si modifichino al crescere della distanza in accordo con le variazioni di dimensioni dell'immagine retinica non è sufficiente ad attribuire alla prospettiva la valenza di visione naturale dello spazio. Quello che vediamo è largamente il risultato di una rielaborazione cerebrale delle informazioni provenienti dalla retina a cui contribuiscono molte informazioni aggiuntive, da quelle provenienti da altre modalità sensoriali a quelle depositate nella memoria. Questo confluire delle informazioni tende, a livello cerebrale, a concettualizzare le immagini e a renderle quindi indipendenti dalle variazioni del punto di vista e della distanza, del colore e del livello di illuminazione. Lo spazio cerebrale non è, o non è soltanto, la codificazione di uno spazio a tre dimensioni, ma anche uno spazio affettivo, che acquista determinati valori in determinati contesti e che fino ad un certo limite almeno, è anche spazio, o interpretrazione dello spazio, con caratteristiche individuali. Nei tempi moderni la fotografia, che della scena dà automaticamente una riproduzione in prospettiva centrale, ha tolto molta dell'importanza alle tecniche prospettiche nella rappresentazione mimetica del mondo reale e l'artista è stato invitato o costretto dalle innovazioni tecnologiche a scoprire nuovi spazi, meno ottici, ma altrettanto capaci di veicolare il messaggio artistico proveniente dalla realtà che ci circonda. Le mele di Cézanne, e le chitarre o le bottiglie dei quadri cubisti di Braque e di Picasso, non sono meno reali dei personaggi o degli oggetti dei quadri rinascimentali. Il loro spazio, anche se rifugge di proposito dalla rappresentazione della terza dimensione, è uno spazio altrettanto reale. La realtà è quella della nostra mente, dove anche lo spazio è pensiero: l'artista ne presenta all'osservatore il messaggio e questi lo interpreta, secondo la propria realtà e cultura e cioè secondo il proprio cervello.

CAPITOLO 6 IL COLORE NELL'OCCHIO E NEL CERVELLO La couleur contrìbue à exprimer la lumière, non pus le phénomène physique, mais la lumière qui existe en faìt, celle du cerveau de Partiste. Henri Matisse, scritti sull'arte.

Il colore: qualità della sensazione visiva

I

Triangolo dei colori. Questo modello rappresenta tutta la gamma dei colori delle luci. I colori saturi sono distribuiti lungo i lati del triangolo: due lati per i colori spettrali dal rosso al verde e da questo al violetto, e un lato per i porpora. All'interno del triangolo si posizionano i colori non saturi, con saturazioni tanto minori quanto più ci si avvicina al centro, dove è il bianco.

l colore è uno degli aspetti più attraenti di ciò che vediamo, e anche uno dei più importanti. I fiori, i frutti, gli alberi, le luci del cielo e così molti prodotti dell'uomo tra cui la pittura, ci apparirebbero assai più poveri, meno eccitanti se privati del colore (figura 6.1). Un quadro non solo sarebbe meno piacevole a vedersi, ma taluni dei suoi particolari risulterebbero meno facilmente individuabili. Colorate ci possono apparire le luci delle sorgenti luminose, come ad esempio quella del sole all'alba o al tramonto, e colorati possono apparirci oggetti o corpi illuminati. Il colore di una luce o di un corpo non è una proprietà intrinseca di quella luce o di quel corpo, ma è un aspetto che il nostro sistema visivo attribuisce loro: un fuoco non è rosso, l'erba non è verde, ma noi «vediamo» rosso il fuoco e verde l'erba. Il colore è il risultato di processi che avvengono nel nostro occhio e nel nostro cervello, è una qualità della nostra sensazione, anche se esso dipende da proprietà fisiche della sorgente che illumina e dei corpi che vengono illuminati. Questa affermazione è confermata dal fatto che, per vedere i colori, occorre un livello di illuminazione abbastanza alto. In una stanza in penombra, anche se riusciamo ancora a vedere intorno a noi, i colori però risultano attenuati o del tutto assenti; come dice il proverbio, "Di notte tutti i gatti sono grigi". Basta però aprire la finestra o accendere la luce, aumentando così il livello di illuminazione, perché i colori ci riappaiano nella loro evidenza. La nostra capacità di vedere i colori è affidata a una delle due popolazioni di fotorecettori presenti nella retina del nostro occhio: i coni. Questi recettori, per essere stimolati, richiedono un livello di illuminazione abbastanza alto. Se il livello di illuminazione si abbassa e di-

Figura 6.1 importanza e co ore.

viene insufficiente ad eccitare i coni, entrano in azione i bastoncelli; questi hanno complessivamente una maggiore sensibilità e permettono di vedere anche in ambienti scarsamente illuminati, ma non hanno le proprietà necessarie per la visione dei colori.

I colori delle luci Per comprendere quale sia la caratteristica dei coni responsabile della visione dei colori, descriviamo alcune proprietà fondamentali di questa visione nell'uomo. Supponiamo che al nostro occhio arrivi direttamente la radiazione emessa da una sorgente, ad esempio da una lampada. La luce, cioè la sensazione luminosa prodotta da questa radiazione, ha due qualità: l'intensità e il colore. L'intensità - che dipende, come vedremo più avanti, da molti fattori — significa «più o meno luminoso». II colore dipende invece dalla lunghezza d'onda delle radiazioni emesse dalla sorgente. La radiazione del Sole ci appare bianca. Se però facciamo passare un sottile fascio di radiazione solare attraverso un prisma, questo, all'uscita, si disperde nelle sue componenti, dando luogo a uno spettro in cui sisuccedono luci di colore diverso (figura 6.2). Newton fu il primo a compiere questo esperimento con la radiazione del Sole; egli osservò che lo spettro è continuo e che il colore passa dal rosso al violetto, attraverso gradazioni intermedie di arancione, giallo, verde e blu. Osservò anche che se si isola con una sottile fenditura una piccola porzione dello spettro, e si fa passare questo sottile fa-

IL COLORE NELL'OCCHIO E NEL CERVELLO

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Figura 6.2 Un fascio di radiazione solare, artraversando un prisma di vetro, viene separato nelle sue componenti monocromatiche formando così uno spettro.

scio attraverso un altro prisma, questo non si disperde ulteriormente e mantiene invariato il colore. Se si cambia la posizione della fessura lungo lo spettro, la radiazione così isolata ha colore diverso. Oggi sappiamo che le radiazioni contenute nella radiazione del Sole sono onde elettromagnetiche che differiscono tra loro per la lunghezza d'onda, e che i vari colori delle radiazioni che compongono lo spettro corrispondono alla diversa lunghezza d'onda delle radiazioni semplici nelle quali viene dispersa dal prisma la radiazione del Sole. Tra le radiazioni elettromagnetiche contenute nella radiazione del Sole, quelle che danno luogo a questo spettro hanno lunghezza d'onda compresa tra 400 e 700 manometri (un nanometro, nm, equivale a un miliardesimo di metro) e sono le sole visibili. Ci possiamo domandare quanti colori diversi si possono distinguere nelle luci dello spettro al variare della lunghezza d'onda. Newton identificò sette colori principali (rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto) e dedusse che il bianco è il colore risultante dalla combinazione di questi sette colori. Il rosso corrisponde alle lunghezze d'onda più lunghe (650-700 nm), il violetto a quelle più corte (450400 nm). Tuttavia ciascuna di queste sette regioni dello spettro contiene a sua volta molte gradazioni di colore diverse, distinguibili dall'occhio, per esempio molte diverse tonalità di verde, di giallo ecc. I colori dello spettro, cioè i colori delle radiazioni semplici (monocromatiche) di una specifica lunghezza d'onda, si dicono saturi, per_indicare che essi hanno il massimo contenuto cromatico, cioè la massima purezza. La qualità che li distingue tra loro, in dipendenza alla lunghezza d'onda, è la tinta (o tonalità).

CAPITOLO 6

Nella radiazione solare, così come ci giunge sulla Terra, le radiazioni dello spettro visibile hanno tutte all'inarca la stessa intensità dal punto di vista fisico. Al nostro occhio tuttavia esse non appaiono ugualmente luminose: le radiazioni centrali dello spettro visibile (550 nm) sono quelle per le quali il nostro occhio ha la massima sensibilità e quindi ci appaiono più luminose (figura 6.3). Le radiazioni di lunghezza d'onda decrescente da 550 a 400 nm (a cui corrispondono luci di colore variabile dal verde al blu e al violetto) o crescente da 550 a 700 nm (a cui corrispondono luci di colore variabile dal verde al giallo, all'arancione e al rosso) sono gradualmente meno efficaci per il nostro occhio e quindi ci appaiono progressivamente meno luminose anche quando la loro intensità è uguale dal punto di vista fisico. I colori delle luci spettrali non esauriscono tutta la gamma dei colori saturi. Newton aveva già osservato che, se si isolano due radiazioni estreme dello spettro (colore rosso e violetto) e poi si ricombinano in modo da sovrapporle, si ottiene un colore «nuovo», rosso violaceo (detto porpora o magenta), che non appartiene ad alcuna delle radiazioni dello spettro. Variando l'intensità relativa della componente rossa e di quella viola nella combinazione delle due radiazioni, si ottiene tutta una gamma di porpora cha va dal rosso al violetto attraverso una serie di tonalità di rossi più o meno violacei. Si può pensare di rappresentare l'insieme dei colori saturi su un cerchio, dove si succedono i colori spettrali dal rosso al violetto e da questo si ritorna al rosso attraverso la serie dei porpora (figura 6.4). Abbiamo visto che la luce del Sole, che risulta dalla sovrapposizione di tutte le radiazioni monocromatiche dello spettro visibile, è bianca. Tra un colore saturo e il bianco esiste tutta una gradazione di colori via via meno saturi, che si possono ottenere miscelando una radiazione spettrale (di colore saturo) con una certa quantità di radiazione solare (bianco). La tinta è quella della radiazione spettrale (per esempio, azzurro); la maggiore o minore saturazione dipende dalla maggiore o minore percentuale di colore saturo contenuto nella miscela rispetto alla percentuale di bianco. Ad esempio, il colore celeste del cielo diurno e un azzurro non saturo; il rosa di una nuvola al tramonto è un rosso non saturo. Anche sovrapponendo due radiazioni variamente scelte nello spettro si ottiene in generale un colore non saturo, cioè un colore uguale a quello che si otterrebbe dalla miscela di un colore spettrale con una certa quantità di bianco. Se le due radiazioni sono vicine tra loro nello spettro (per esempio, entrambe nella regione del verde) il colore risultante dalla loro combinazione è ancora abbastanza saturo. Se invece si aumenta la loro separazione nello spettro, il colore risultante diviene

Figura 6.4 Cerchio dei colori spettrali e dei porpora. Ogni campione rappresenta una tinta. Muovendosi in senso antiorario, si passa dal rosso al giallo, al verde, al blu e al violetto e si torna al rosso attraverso alcuni campioni di porpora.

via via meno saturo, ed è addirittura possibile ottenere con due sole radiazioni, opportunamente scelte come lunghezze d'onda e come intensità relative, la sensazione di bianco. I colori di queste radiazioni si dicono complementari. Esistono in teoria infinite coppie di colori complementari: per ogni radiazione monocromatica o porpora, ne esiste un'altra il cui colore è complementare. Nel disco dei colori rappresentato in figura 6.4, coppie di colori diametralmente opposti sono complementari: ad esempio un giallo e un viola, un verde e un porpora, un arancione e un blu. È possibile rappresentare l'intera gamma di colori delle luci con i punti di un cerchio o di un'altra figura piana (per esempio un triangolo): sul perimetro sono rappresentati i colori dello spettro e i porpora; al centro è rappresentato il bianco; i punti a varia distanza dal centro rappresentano colori non saturi (figura di apertura del capitolo).

Concludendo, la nostra sensazione di luce, cioè quella che si ha quando si guarda direttamente una sorgente luminosa, oltre alla qualità di maggiore o minore intensità, ha due qualità cromatiche: la tinta e la saturazione. Complessivamente essa è dunque caratterizzata da tre variabili.

La visione tricromatica: tre meccanismi per vedere i colori La possibilità di descrivere qualunque sensazione luminosa mediante tre sole variabili — intensità, tinta e saturazione — ha fatto intuire già nel XVIII secolo che nel nostro occhio devono essere presenti tre tipi di recettori diversi: la nostra è una visione tricromatica. Questa ipotesi fu formulata all'inizio dell'Ottocento da Young; egli affermò che per spiegare la capacità dell'occhio di percepire e discriminare i colori delle varie regioni dello spettro era sufficiente supporre tre sole sensazioni distinte, risultanti dalla stimolazione prodotta in ciascun punto della retina dai raggi corrispondenti a tre colori puri (rosso, verde e violetto) e che i raggi che occupano nello spettro le regioni intermedie tra questi tre sarebbero capaci di produrre sensazioni intermedie (il giallo, tra il rosso e il verde; e il blu, tra il verde e il violetto). L'ipotesi di Young, che riduceva a tre i meccanismi richiesti per spiegare tutta la varia gamma di colori delle radiazioni spettrali, fu ripresa qualche decennio più tardi da Helmholtz. Egli descrisse le proprietà di questi meccanismi, e cioè la loro sensibilità per le varie radiazioni dello spettro visibile. Secondo Helmholtz, ognuno dei tre meccanismi doveva essere sensibile a tutte le radiazioni dello spettro, ma in modo differenziato: uno doveva avere massima sensibilità nella regione delle lunghezze d'onda più lunghe, il secondo alle lunghezze d'onda intermedie, e il terzo a quelle più corte. I tre meccanismi, che si potrebbero indicare come fotorecettori sensibili al rosso, al verde e al blu, sarebbero così responsabili di queste tre sensazioni primarie; ma essendo ciascuno di essi eccitabile da tutte le radiazioni dello spettro, in proporzioni diverse, proprio la loro eccitazione differenziata darebbe luogo alle sensazioni di colore intermedie fra le tre primarie: secondo la teoria di Helmholtz, poi, tutte le sensazioni di colore prodotte sia da una qualunque radiazione spettrale, sia da radiazioni complesse, risulterebbero dalla somma delle eccitazioni prodotte dalla radiazione, in proporzioni diverse, nei tre tipi di fotorecettori. In particolare, il giallo sarebbe associato alla somma delle j eccitazioni, circa della stessa intensità, dei fotorecettori «rossi» e «verdi» e il bianco alla stimolazione equilibrata dei tre tipi di fotorecettori. L'ipotesi di Young-Helmholtz dell'esistenza di tre tipi di recettori ha trovato la sua conferma sperimentale in questo secolo, all'inizio degli anni Sessanta, quando si è dimostrato che nella retina esistono tre

Figura 6.5 Spettro di assorbimento (curve in bianco) dei tre tipi di coni: L (rossi), M (verdi) e S (blu). La curva nera rappresenta Io spettro di assorbimento dei bastoncelli.

tipi di coni che contengono sostanze fotosensibili (pigmenti) diverse. I tre pigmenti dei coni assorbono in percentuali diverse le diverse radiazioni dello spettro, dando luogo nei rispettivi coni a una sensibilità che si estende in una regione abbastanza ampia dello spettro ed è massima in una particolare regione spettrale (figura 6.5). Il primo tipo di coni, i coni L (dall'inglese long), ha una gamma di sensibilità nelle lunghezze d'onda più lunghe, con un massimo di sensibilità a 564 nm. Il secondo tipo di coni, i coni M (dall'inglese medium), ha una gamma di sensibilità più spostata nella regione intermedia dello spettro, con il massimo a 530 nm. Infine, il terzo tipo di coni, i coni S (dall'inglese short), è sensibile alla regione di lunghezze d'onda tra 400 e 500 nm, con sensibilità massima a 437 nm. I coni L, M e S vengono anche chiamati impropriamente coni «rossi» (L), coni «verdi» (M) e coni «blu» (S). Quando una radiazione monocromatica incide sulla retina, essa viene^ assorbita in percentuali diverse dai tre tipi di coni, e quindi li stimola in modo diverso. Per esempio una radiazione di lunghezza d'onda vicina a 700 nm stimola quasi esclusivamente i coni L, una di lunghezza d'onda di 530 nm stimola i coni M più di quelli L e S, ecc. Una radiazione complessa stimola i tre tipi di coni in varie percentuali, a seconda delle sue componenti monocromatiche. I colori delle luci che noi vediamo sono associati alle diverse percentuali di stimolazione dei tre tipi di coni. Ciò spiega come con tre soli tipi di recettori si possa ottenere un grandissimo numero di differenti sfumature di colore. È da notare però che i tre tipi di coni non contribuiscono ugualmente alla sensazione di intensità luminosa. A questa contribuiscono quasi

CAPITOLO 3

più chiaro di come il cervello possa simbolizzare l'informazione proveniente dai sensi. Sembra quindi che i segni siano un linguaggio primitivo proprio del nostro sistema nervoso, una caratteristica che origina dalle proprietà della macchina cervello, dalle sue connessioni, dalle sue intrinseche caratteristiche anatomiche e funzionali. Molte di queste proprietà sono già presenti alla nascita, ma esse possono essere soggette a modifica o perfezionamento con l'esperienza della vita. Queste proprietà sono uguali o simili in tutti gli uomini, e costituiscono quindi come le parole della lingua di un popolo, una base per comunicare. E per questo che, quando l'uomo tracciò il contorno del bisonte sulla parete della caverna, gli astanti riconobbero in quei segni un linguaggio familiare, e l'insieme dei segni richiamò l'immagine dell'animale al quale il loro compagno voleva riferirsi. I segni tracciati dal primo disegnatore esprimevano il vocabolario grafico del cervello e per gli altri fu facile leggere. Le immagini mentali nella loro memoria erano state acquisite e tradotte con lo stesso linguaggio, con gli stessi simboli, ridotte cioè principalmente a contorni. Quando la memoria riportava questi ricordi alla percezione, essi apparivano analoghi a quelli percepiti con l'esperienza sensoriale e il gioco del riconoscimento aveva luogo facilmente. Queste proprietà della corteccia cerebrale di codificare essenzialmente i contorni delle immagini retiniche potrebbero essere chiamati segni murali e sono corredo del cervello di tutti gli uomini. Se questo corredo fosse stato diverso, il nostro linguaggio grafico sarebbe stato molto probabilmente diverso. Forse il linguaggio del segno è vecchio quanto quello dei rumori e dei suoni emessi dall'uomo, che poi si sono evoluti nel linguaggio della parola. Secondo molti linguisti, e principalmente Noam Chomsky, la struttura profonda del linguaggio ha i suoi riferimenti nella struttura del cervello dell'uomo, ipotesi suggestiva e ricca di implicazioni culturali. Egli sostiene che solo in parte il linguaggio va appreso con l'esperienza. Infatti, secondo Chomsky, tutte le lingue hanno una "struttura profonda" comune che è propria del cervello dell'uomo e che viene ereditata. Alcune delle argomentazioni che Chomsky porta a sostegno della sua teoria sono convincenti. Egli fa notare che noi possia' mo capire frasi che non avevamo mai sentito prima o che si riferiscon a eventi a noi completamente estranei. La sola necessità è che la tras obbedisca a una determinata struttura grammaticale che lega tra l° r nomi, aggettivi e verbi. Questa struttura è quella che costruisce un frase indipendentemente dal suo significato. Il famoso esempio cn Chomsky riporta è una frase senza senso che suona così: "colouue green ideas sleep furiously". Questa è una frase assurda, eppure è uP

CAPITOLO 6

(a)

esclusivamente i coni L e i coni M. Infatti il massimo di sensibilità luminosa nello spettro è a circa 550 nm (figura 6.3), intermedio tra il massimo della sensibilità di questi due tipi di coni. La stimolazione dei coni S ha invece un ruolo importante nel determinare la tinta e la saturazione, cioè le due qualità propriamente cromatiche. Basta un pizzico di azzurro per togliere ogni contenuto di giallo da un «bianco sporco» e trasformarne la tinta in un bianco veramente neutro, senza peraltro alterare sensibilmente la luminosità. Notiamo infine che la ragione per cui la visione notturna nor^consente la percezione dei colori risiede nel fatto che i bastoncelli, a differenza dei coni, contengono tutti uno stesso tipo di pigmento. Le proprietà dei coni e delle sostanze fotosensibili in essi contenute hanno confermato le ipotesi di Young e Helmholtz sulla presenza nella retina di tre tipi di recettori.

Combinazione additiva e sottrattiva dei colori

(b) Figura 6.6 (a) I tre cerchi rappresentano tre fasci di luce di colore rosso, verde e blu (radiazioni) proiettati su uno schermo da tre proiettori, che danno luogo, dove si sovrappongono, alla combinazione additiva dei colori. Rosso più verde dà giallo, rosso più blu dà porpora, blu più verde dà turchese (blu-verde), rosso più verde più blu dà bianco. (b) I tre cerchi rappresentano tre vetri attraverso i quali filtra la radiazione solare. Il vetro giallo lascia passare le radiazioni della regione verde e rossa dello spertro, il vetro porpora quelle delle regioni rossa e blu, il vetro blu-verde quelle delle regioni verde e blu. Dove i vetri si sovrappongono ha luogo una combinazione sottrattiva delle primarie giallo, bluverde e porpora.

La presenza dei tre tipi di coni è il substrato della tricromaticità della visione diurna ed è alla base della possibilità di riprodurre una gamma estesa di colori mediante la sintesi di tre radiazioni primarie, scelte a piacere in tre regioni dello spettro, ad esempio nella regione del rosso, del verde e del blu. È questa la combinazione additiva dei colori: una volta scelte le tre primarie, il colore di una qualunque radiazione complessa può venire uguagliato dalla sintesi delle tre primarie regolando opportunamente le loro intensità relative. Per esempio, dalla sintesi di due radiazioni primarie di colore rosso e verde è possibile ottenere una luce di colore giallo o arancio, dalle due primarie rosso e blu una luce di colore porpora, dalla sintesi delle primarie blu e verde un colore verde-azzurro (turchese). Il bianco si ottiene dalla combinazione di tutte tre le primarie (figura 6.6a). I colori delle primarie vengono anche detti colorì fondamentali. Si noti che la combinazione additiva si riferisce sia a una sovrapposizione fisica di due radiazioni (come, ad esempio, quando due riflettori proiettano due fasci di colori diversi su una stessa area di un palcoscenico o su uno stesso schermo) sia a una sovrapposizione nel nostro occhio, come accade quando due piccole zone di colore diverso, una accanto all'altra, sono così minuscole e vicine che non le vediamo separate. In quest'ultimo caso la sintesi che conduce al colore risultante avviene direttamente nel nostro occhio. Un diverso processo è quello della combinazione sottrattiva dei colori. Per quanto riguarda i colori delle luci, essa si realizza filtrando una radiazione complessa attraverso dei vetri o altri filtri trasparenti che la-

Schermo

Figura 6.7 Schema della combinazione additiva che ha luogo nella televisione a colori. I tre dischetti colorati rappresentano le macchioline dei tre fosfori, che divengono luminosi sotto l'azione dei tre pennelli di raggi elettronici. Questi spazzano velocemente lo schermo televisivo, ma in ogni punto ognuno di essi può illuminare solo il fosforo del colore che gli corrisponde e non gli altri due, per effetto della maschera forata che sta davanti allo schermo e indirizza ogni fascetto sul fosforo appropriato. I puntini luminosi di ogni triade rosso, verde, blu, con le loro intensità relative, fondendosi nell'occhio determinano il colore di quella piccola area dello schermo, (da Ratliff, 1992)

/

Rosso

Cannone elettrico

sciano passare le radiazioni solo di una parte dello spettro. Filtrando la radiazione del Sole attraverso questi filtri, si vedono luci di colore diverso: ad esempio giallo (se il filtro lascia passare le radiazioni delle zone verde e rossa dello spettro), turchese (se lascia passare le radiazioni delle zone blu e verde), porpora (se lascia passare le radiazioni delle zone blu e rossa) (figura 6.6b). Dove due filtri sono sovrapposti essi lasciano passare un solo colore (rosso, verde o blu); dove tutti e tre sono sovrapposti, nessuna radiazione viene trasmessa (buio). I tre colori fondamentali di questa sintesi sottrattiva sono il porpora, il giallo e il turchese. (Si noti che la parola «sottrattiva» non va intesa nel suo senso aritmetico, ma sta solo a significare che il secondo filtro attenua ulteriormente o elimina delle radiazioni che erano state lasciate passare dal primo filtro. Il colore risultante da una sintesi sottrattiva obbedisce a leggi più complesse, riconducibili al prodotto delle trasparenze spettrali dei due filtri, e non a una sottrazione). I processi di sintesi tricromatica sono alla base di tutte le tecniche di riproduzione dei colori. Ad esempio, la televisione a colori si serve di un processo di combinazione additiva. Infatti sullo schermo del televisore a colori sono distribuite piccole aree di fosfori di tre colori diversi (rosso, verde e blu) che si alternano ordinatamente e che vengono illuminate separatamente e con intensità variabili da tre fascetti elettronici. Questi portano informazioni sul contenuto dell'immagine ripresa dalla telecamera in tre bande dello spettro, corrispondenti rispettivamente al rosso, al verde e al blu; se la telecamera riprende per esempio un oggetto rosso, i puntini dei fosfori verde e blu in quella zona dello schermo non si accendono. Alla distanza da cui si guarda normalmente un televisore, i puntini luminosi rosso, verde e blu prodotti dai tre fosfori si fondono tra loro, dando luogo nell'occhio a una sintesi additiva dei rispettivi colori (figura 6.7).

Figura 6.8 Esempio di sintesi additiva {al centro) e di sintesi sottrattiva (a sinistra) dei colori (blu e giallo). Osservare la figura da una distanza di un paio di metri. Il quadrato centrale apparirà di un colore azzurro non saturo, mentre quello di sinistra appare giallo-verdastro, (da Ratliff, 1992)

Esempi di sintesi sottrattiva sono invece quelli che si ottengono mescolando inchiostri o pigmenti di colore diverso, come avviene sulla tavolozza del pittore (i pigmenti infatti si comportano praticamente come filtri). Si noti che per i pittori il giallo è un colore fondamentale, mentre il verde si ottiene mescolando giallo e blu. Nella combinazione additiva invece, si usa in genere come fondamentale un verde, e il giallo risulta dalla sintesi del rosso e del verde. Anche nella stampa a colori la miscela degli inchiostri dà luogo a una sintesi sottrattiva; ad esempio, la miscela di un inchiostro blu con uno giallo produce un verde (figura 6.8). Però con gli inchiostri o i pigmenti si può simulare anche una sintesi additiva, se gli inchiostri delle primarie si distribuiscono in piccole aree vicine, senza sovrapporli, in modo che la loro fusione avvenga nell'occhio (figura 6.8). Le stampe a colori ottenute con tre primarie si chiamano tricromie. Poiché però gli inchiostri che si utilizzano come primari nella stampa non hanno colori molto puri, la gamma di colori viene migliorata utilizzando in quantità più modeste un quarto colore: il nero, ottenendo così una stampa in

Difetti della visione dei colori Alcune persone, dette comunemente daltoniche, hanno una visione difettosa dei colori, poiché nella loro retina vi sono due soli tipi di pig-

I L l^V_J.L^iVn I M i L L W^^JTL±V_» r , I N I i L l_£,K.V £ L L U

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menti dei coni anziché tre. Essi non sono quindi tricromati, ma dicromati. I due tipi di dicromati più comuni hanno i coni «blu», ma mancano o dei coni «rossi» (e si dicono protanopi) oppure dei coni «verdi» (e si dicono deuteranopi). Entrambi questi difetti sono ereditari e colpiscono più frequentemente gli uomini che le donne. I due tipi di dicromati presentano limitazioni visive in parte simili, che li portano a confondere tinte che sono assai diverse per un soggetto normale: ad esempio, la regione dello spettro che contiene la gamma di colori verde, giallo, arancione e rosso appare loro come una tinta uniforme, variabile solo in saturazione e intensità. Si può supporre che questa tinta corrisponda a un giallo. Perciò può accadere che un dicromate chiami «rosso» un oggetto che agli altri appare verde, o viceversa. Vi è poi una regione intermedia dello spettro che a un dicromate appare completamente desaturata, cioè bianca, mentre nella regione delle corte lunghezze d'onda la tinta è di nuovo uniforme e probabilmente corrisponde al blu dei soggetti normali. Tutta la gamma dei colori visibili si riduce quindi a due sole tinte (probabilmente corrispondenti a un giallo e un blu, per quanto riguarda i tipi più comuni di dicromati) e alle loro varie gradazioni di saturazione fino al bianco. Anche l'intensità relativa delle varie radiazioni monocromatiche è diversa per un dicromate; in particolare, è più bassa del normale nella regione rossa dello spettro per i dicromati privi di coni «rossi». Esiste anche un altro tipo di dicromati, detti tritanopi, privi di coni «blu». Questo difetto tuttavia è molto raro. Di un altro tipo di anomalia nella percezione del colore, di origine cerebrale e non retinica, parleremo più avanti.

Colori degli oggetti Quando un insieme di oggetti è illuminato dal Sole, gli oggetti ci appaiono dei più svariati colori. Ciò dipende dal fatto che ciascun oggetto riflette in diversa percentuale le radiazioni monocromatiche di diversa lunghezza d'onda di cui è composta la radiazione solare. Al nostro occhio giungono infatti solo le radiazioni riflesse dalla superficie di un corpo, oppure, se questo è trasparente, le radiazioni trasmesse, cioè quelle che hanno attraversato il corpo. Certi oggetti riflettono tutte le radiazioni dello spettro nella stessa percentuale. Se sono illuminati dal Sole, essi rinviano al nostro occhio una radiazione che ha ancora la stessa composizione spettrale di quella del Sole ed è soltanto più o meno attenuata. Questi oggetti non ci appaiono colorati. Se la loro superficie non è lucida (come invece lo è in

v^rvri L^JL.KJ o

I I I II I II I I I I I I I

400

500 600 X/nm

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(a)

(b)

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700

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(d)

Figura 6.9 Il colore degli oggetti (rappresentato nei cerchi), come risulta dal loro spettro di riflettanza (percentuale di radiazione riflessa). (a) Un oggetto ci appare bianco quando riflette tutte le radiazioni dello spettro in alta percentuale. (b) Un oggetto che riflette prevalentemente le radiazioni della zona rossa dello spettro ci appare rosso. (e) Un oggetto che rifletee le radiazioni della regione blu e viola dello spettro ci appare blu. (d) Un oggetto che riflette le radiazioni delle regioni verde, gialla e rossa dello spettro ci appare giallo.

uno specchio) ma diffondente come quella della maggioranza degli oggetti (carta, tela, materiali edilizi, ecc.), essi ci appaiono bianchi o grigi, più o meno scuri, o neri, a seconda che la percentuale di radiazione riflessa, cioè la loro riflettanza, sia alta (bianchi), media (grigi) o molto bassa (neri). Questi oggetti differiscono quindi per la loro luminosità, che è massima per i bianchi e minima per i neri, ma non hanno alcuna tinta. Diciamo che sono neutri. Invece gli oggetti che assorbono in percentuale diversa le diverse radiazioni dello spettro ci appaiono, in genere, colorati; il loro colore è caratterizzato da una tinta che è determinata dalla combinazione delle radiazioni da essi prevalentemente riflesse, da una saturazione che dipende dalla minore o maggiore larghezza della banda spettrale riflessa e da una luminosità che è maggiore o minore a seconda della percentuale totale delle radiazioni riflesse (figura 6.9). Le sensazioni di bianco, grigio e nero, proprie di oggetti illuminati, sono evocate solo in un ambiente visivo complesso, in cui sono presen-

ti simultaneamente oggetti con riflettanza diversa. Un oggetto illuminato isolatamente in un ambiente tutto buio non ci appare mai né grigio né nero, ma solo più o meno luminoso. In altre parole, il grigio e il nero (per i quali non esiste un equivalente per le luci) risultano per effetto di contrasto, dal confronto con altri oggetti neutri più riflettenti. Analogamente, in un ambiente complesso, oggetti colorati possono evocare sensazioni cromatiche di una gamma di chiari e scuri che danno luogo, per contrasto, a colori «nuovi» per i quali non esiste un equivalente colore delle luci, come il marrone, il verde oliva, il blu carta-da-zucchero. Si tratta in questo caso di oggetti che riflettono selettivamente una banda spettrale ma hanno riflettanza totale bassa, così che risultano scuriti per contrasto. Per esempio, il marrone è il colore di oggetti che riflettono principalmente nella banda rosso-arancione oppure nel giallo, ma con bassa riflettanza. Il colore verde oliva risulta da una bassa riflettanza nella banda del verde; il colore carta-da-zucchero nella banda del blu. Sono questi i colori che i pittori ottengono miscelando un colore chiaro con il nero. Considerazioni analoghe si possono fare per gli oggetti trasparenti, come i vetri. Un vetro ci appare colorato se trasmette solo una banda di radiazioni spettrali; ci appare invece neutro (del tutto trasparente come i vetri delle finestre, oppure più o meno scuro come gli occhiali da sole) se trasmette le radiazioni spettrali in modo non selettivo.

Costanza del colore Se la sorgente con cui si illuminano gli oggetti è diversa dal Sole, per esempio è una lampada o una fiamma, in generale anche la radiazione riflessa dagli oggetti è diversa da quella che essi riflettono in luce solare. Infatti le lampade emettono una radiazione di composizione spettrale anche notevolmente diversa da quella del Sole. Ad esempio, le lampade a incandescenza hanno una radiazione più ricca di lunghezze d'onda lunghe che non il Sole; le lampade a fluorescenza, invece, hanno una radiazione relativamente povera di queste lunghezze d'onda. Ci si può attendere perciò che il colore dei vari oggetti presenti in un ambiente si modifichi quando si passa dalla luce solare a quella di una lampada a incandescenza, o da questa a una lampada fluorescente. Ciò è senz'altro vero in una certa misura. Sappiamo che certi cibi, per esempio le carni, ci appaiono di un colore bruno-violaceo in una bottega illuminata con tubi fluorescenti, e di un rosso più vivo se illuminate dal sole o da una lampada a incandescenza. Tuttavia questi sono effetti piccoli rispetto a quelli che potremmo attenderci per le variazioni delle proprietà fisiche delle sorgenti.

Per convincerci pensiamo a un ambiente a noi familiare, come una stanza della nostra casa, e a come esso ci appare quando è illuminato dalla luce del giorno o invece da una luce artificiale. Un foglio di carta ci appare bianco in tutti e due i casi e solo se ne illuminiamo una parte con radiazione solare e una parte con quella di una lampada notiamo la differenza. Di fatto i colori degli oggetti tendono a mantenersi relativamente invariati anche per variazioni notevoli della radiazione illuminante. Questo fenomeno percettivo è chiamato costanza del colore. È come se il nostro sistema visivo fosse in grado di valutare le proprietà spettrali della radiazione illuminante così da poterne compensare gli effetti sull'apparenza degli oggetti quando l'illuminante cambia. Sono state formulate varie teorie per spiegare la costanza dei colori, di cui la più nota è la teoria di Land (1986). Secondo questa teoria il colore di un oggetto non risulterebbe semplicemente dalla radiazione riflessa da quell'oggetto e dall'eccitazione che questa produce nei tre tipi di coni. Invece l'eccitazione prodotta dall'oggetto verrebbe considerata in rapporto a tutto quello che gli sta intorno (e che si suppone illuminato dalla stessa sorgente) o, meglio, in rapporto con l'eccitazione media che l'ambiente produce rispettivamente nei tre tipi di coni. Questo confronto permetterebbe di scartare gli effetti che la sorgente illuminante ha tanto su quell'oggetto come su tutto l'ambiente, e farebbe dipendere il colore di ogni oggetto solo dalle sue proprietà di riflettanza. In questo modo verrebbe realizzata la costanza di colore, cioè l'indipendenza del colore di ogni oggetto dalla qualità della sorgente illuminante. Ciò presuppone la capacità del sistema nervoso di eseguire questa valutazione per ogni tipo di coni. La costanza del colore non può essere spiegata in modo soddisfacente in base solo a meccanismi retinici. Essa implica certamente fenomeni che avvengono a livello cerebrale.

I colori opponenti Abbiamo visto che, secondo la teoria di Helmholtz, ogni tipo di cono segnala al cervello una tinta, rispettivamente rosso, verde e blu; nel cervello i segnali provenienti dai tre tipi di coni si sommerebbero per dar luogo alle varie tinte, così come si sommano le tre primarie nella combinazione additiva dei colori. Questa teoria spiega bene i fenomeni di combinazione additiva e in particolare la possibilità di riprodurre i colori delle luci mediante la sintesi di tre primarie, ma non rende ragione dei colori prodotti da effetti di contrasto.

La teoria di Helmholtz trovò un oppositore in Hering, che innanzi tutto riteneva inaccettabile che la sensazione di giallo risultasse percettivamente da una somma di rosso e di verde. Secondo Hering, la sensazione di giallo è una sensazione elementare nella quale non si possono riconoscere due tinte componenti, come avviene invece per altri colori, quali, ad esempio, l'arancione che percettivamente è una miscela di rosso e di giallo, o il turchese in cui si possono riconoscere le due componenti verde e blu. Hering afferma che, dal punto di vista percettivo, esistono quattro tinte elementari, non scomponibili: rosso, giallo, verde e blu. E ci sono quattro radiazioni nello spettro che corrispondono a queste quattro tinte elementari o uniche (circa 470 nm, blu; 520 nm, verde; 570 nm, giallo; 670 nm, rosso). Tutte le altre radiazioni spettrali danno luogo a sensazioni in cui si possono riconoscere due componenti. Inoltre, la teoria di Hering postula che le nostre sensazioni cromatiche risultano dall'azione di meccanismi a due a due opponenti. Si osserva infatti che il verde e il rosso non solo non sono percettivamente presenti nel giallo, ma sono sensazioni che addirittura si cancellano l'una con l'altra. Ad esempio, la componente di rosso contenuta percettivamente in un arancione (per esempio l'arancione della radiazione spettrale di 600 nm) si può «cancellare» aggiungendo del verde (ad esempio la radiazione di 520 nm). Il verde e il rosso si comportano dunque come colori opponenti. Analogamente sono opponenti il blu e il giallo. L'ipotesi di meccanismi opponenti si prestava a spiegare i fenomeni di contrasto cromatico, di cui parleremo tra poco. Per giustificare poi le sensazioni risultanti dal contrasto di chiaro-scuro, Hering ammetteva un terzo meccanismo opponente: bianco-nero. Le sensazioni di bianco e nero venivano considerate fondamentali, come il blu, il verde, il giallo e il rosso. In questo modo Hering dava ragione non solo delle sensazioni neutre di contrasto (i grigi come miscela dei due fondamentali bianco e nero) ma anche dei colori che nascono per contrasto di chiaro-scuro, poiché la sensazione di nero poteva mescolarsi al rosso per dare un marrone, al verde per dare un verde scuro, ecc. Infine, i colori non saturi e chiari, come il rosa o il celeste, venivano considerati come risultanti di miscele con il bianco. Questa teoria dunque, con i suoi tre canali opponenti, rispetta la proprietà fondamentale della visione dei colori, cioè la trivarianza. Benché apparentemente più complicata di quella di Helmholtz, essa rende ragione in modo soddisfacente di molti fenomeni percettivi, e forse può aiutare anche a meglio comprendere certi usi dei colori familiari ai pittori, di cui parleremo in seguito. Essa ha inoltre una solida base fisiologica, pur non contraddicendo l'esistenza dei tre tipi di coni che è alla base della teoria tricromatica.

Il contrasto cromatico Come già aveva osservato Leonardo, il colore di un oggetto si può modificare a seconda che esso sia visto su uno sfondo neutro (bianco, grigio o nero) oppure su uno sfondo colorato. Il colore dello sfondo tende a far virare il colore dell'oggetto verso il colore complementare dello - :: sfondo (figura 6.10). Per esempio, un giallo su uno sfondo verde tende ad apparire più arancione, cioè vira verso il rosso (complementare del verde), mentre se visto su uno sfondo rosso tende ad apparire più verdastro. Anche la semplice contiguità di due oggetti può dare effetti di contrasto cromatico; questo si traduce sia in una variazione reciproca di tinta tra oggetti colorati, sia nell'assunzione di una leggera tonalità cromatica da parte di oggetti neutri. Ad esempio, un pezzetto di carta bianco può apparire lievemente giallino accanto a un blu o a un viola intenso e invece può apparire azzurrino per contrasto con un giallo vivo. In generale quindi il colore di un oggetto vira verso il complementare del colore dell'oggetto vicino, da cui è influenzato.

Figura 6.10 Esempio di contrasto cromatico. I due quadratini gialli sono fisicamente uguali, e tali infatti appaiono su uno stesso sfondo neutro. Appaiono invece diversi se circondati da uno sfondo diverso: il giallo appare più verdastro quando è circondato dal rosso, e più arancione se circondato dal verde.

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frase. Dando alle stesse parole un altro ordine, come ad esempio "furiously sleep ideas green colourless", si ottiene una successione che non solo è priva di senso, ma che non è accettata come frase nel linguaggio. Le parole sono collegate non a caso, ma secondo una regola che è comune a tutte le lingue e che quindi, secondo Chomsky, è da attribuire a proprietà della struttura cerebrale. Mentre nel caso del linguaggio parlato questa proprietà è finora puramente ipotetica, nel caso della visione abbiamo evidenza sperimentale in favore di un linguaggio visivo neurale. La preferenza dei neuroni della corteccia visiva per certe forme piuttosto che per altre potrebbe costituire l'equivalente della struttura profonda postulata da Chomsky per il linguaggio. Questo richiederebbe però che tali proprietà corticali fossero innate. Di fatto sembra che nei mammiferi superiori esse siano presenti già alla nascita, sia pure in forma rudimentale, e che si affinino poi rapidamente con l'esperienza.

Il linguaggio del segno nella storia dell'arte Uno sguardo alla storia della pittura nel suo insieme rivela che in certi periodi la rappresentazione pittorica è dominata dal segno, e in altri periodi non altrettanto. Molte delle espressioni figurative in cui i contorni sono il mezzo espressivo dominante corrispondono soprattutto all'esigenza di trasmettere un messaggio sia per uno scopo puramente narrativo, sia per un'astrazione concettuale. Invece le rappresentazioni pittoriche in cui il contorno diviene meno rilevante e prevale il tentativo di riprodurre il mondo esterno con il chiaro-scuro, il colore e la profondità tendono a suscitare in modo più immediato sensazioni estetiche ed emotive. Le espressioni pittoriche del primo tipo intendono per lo più portare sulla tela o sulla parete una storia, un pensiero, una preghiera o un concetto filosofico. Si potrebbero dire forse più «intellettuali» delle seconde. Le altre intendono riprodurre ciò che si vede, il mondo sensoriale dell'artista, e sono più propriamente visive delle prime. Nel periodo iniziale della storia dell'uomo, sia come individuo che come specie, prevale l'espressione pittorica simbolica basata largamente sulla rappresentazione dei contorni schematici delle figure. Le rappresentazioni figurative agli albori della civiltà (figura 3.13) richiamano quelle dei primi anni del bambino. Entrambe usano un vocabolario ridotto ai segni essenziali, destinati a trasmettere un concetto globale come quello trasmesso da una parola. Questo tipo di espressioni figurative essenziali, dove domina il segno, si ritrova successivamente sia nella vita dell'individuo sia nello

Figura 6.11 Esempio di assimilazione cromatica. Si noti che le righe rosse appaiono più gialle dove sono sovrapposte al verde, e più azzurrine dove sono sovrapposte al blu.

Vi è però un'eccezione a questa regola, che si verifica quando una trama fitta e sottile di un dato colore si alterna con una trama di un altro colore. In questo caso si ha assimilazione del colore, cioè il colore di una trama vira verso quello dell'altra, anziché verso il suo complementare. Nella figura 6.11, ad esempio, le righe della trama rossa appaiono più arancioni là dove sono sovrapposte al verde, e più azzurrine dove sono sovrapposte al blu. I fenomeni della costanza del colore e del contrasto cromatico indicano in quale larga misura la percezione del colore si discosti da ciò che si potrebbe prevedere solo in base alla natura fisica degli stimoli, per cui non solo stimoli diversi possono dare sensazioni del tutto uguali, ma stimoli uguali sensazioni notevolmente diverse. A questi fenomeni si può aggiungere quello del contrasto cromatico successivo, per cui l'osservazione prolungata di un oggetto di un dato colore può modificare la sensazione di colore di oggetti visti successi-

Figura 6.12 Effetto di contrasto successivo. Fissando per circa un minuto la crocetta nella parte sinistra della figura, si sposti poi lo sguardo sulla crocetta della parte destra. Si noterà che i settori sul fondo grigio appaiono ora leggermente colorati, ciascuno del colore complementare a quello precedentemente guardato: dove c'era il blu appare ora il giallo, dove c'era il verde appare il rosso violaceo, e viceversa.

vamente. Si osservi la figura 6.12, fissando per circa un minuto la crocetta nella parte sinistra della figura; si sposti poi lo sguardo sulla crocetta della parte destra. Si noterà che i settori sul fondo grigio appaiono ora leggermente colorati, ciascuno del colore complementare a quello precedentemente guardato: dove c'era il blu appare ora il giallo, dove c'era il verde appare il rosso violaceo, e viceversa.

L'acuità per il colore Abbiamo visto che il nostro sistema visivo ha dei limiti nella sua capacità di vedere distinti i particolari fini degli oggetti. Per dei particolari di alto contrasto, in bianco e nero, arriviamo a distinguere dettagli corrispondenti a un angolo visivo di poco inferiore a un minuto primo. Ci possiamo domandare qual è la nostra capacità di distinguere dettagli fini, quando questi sono diversi tra loro non per chiaro-scuro, bensì per colore. In questo caso la nostra acuità visiva è senz'altro inferiore: ad esempio, per oggetti rossi su fondo verde, di eguale luminosità, o verdi su fondo rosso, la nostra capacità di vedere distinti i piccoli particolari è circa tre volte inferiore a quella relativa a oggetti bianchi su fondo nero. In altre parole, per vedere separati due piccoli dettagli rossi su fondo verde di uguale luminosità, occorre che essi siano distanziati di una quantità corrispondente a un angolo visivo di almeno 3 minuti primi. Quando però dei dettagli di colore diverso sono così piccoli da essere vicini al limite della nostra capacità di vederli separati, anche se riusciamo ancora a distinguerli non ne vediamo separatamente i colori. Come abbiamo detto precedentemente, si ha in questo caso una integrazione dei colori dei diversi particolari, che tendono a fondersi in un'unica tinta. Per esempio, per dei particolari rossi su fondo verde di

uguale luminosità, quando questi si fanno così piccoli da avvicinarsi al limite di separazione, si tende a vedere giallo, come se il verde e il rosso si integrassero in una combinazione additiva. L'integrazione di colore può avvenire anche in presenza di un contrasto di chiaro-scuro, per esempio quando si osserva una scacchiera formata da quadretti di colore giallo e blu complementari. Se si guarda la scacchiera da vicino, si distinguono chiaramente le tinte gialla e blu dei singoli quadretti. Allontanandosi un poco dalla scacchiera, a un tratto si perde la percezione del colore e i quadretti appaiono bianchi e neri: il giallo e il blu, complementari, si sono integrati dando luogo al colore neutro. Vedremo come fenomeni di integrazione cromatica siano alla base della tecnica pittorica del pointillisme.

Il colore nel cervello L'esistenza dei tre pigmenti dei coni non è da sola sufficiente a spiegare tutti gli aspetti della visione dei colori. Infatti, l'informazione proveniente dai tre tipi di coni non si mantiene separata lungo le vie neurali che collegano la retina con il cervello, come aveva supposto Helmholtz; già nella retina e poi nelle successive stazioni del sistema visivo i segnali provenienti da due (o più) coni confluiscono su singole cellule nervose, o integrandosi, cioè sommando i loro effetti, oppure producendo effetti di segno opposto, l'uno eccitando e l'altro inibendo la stessa cellula. Le cellule gangliari della retina si suddividono in due popolazioni che differiscono sia per la loro forma sia per le loro funzioni. Le cellule di una di queste popolazioni ricevono segnali dello stesso segno dai coni dei due tipi «rossi» e «verdi», per cui queste cellule sono capaci di elaborare e trasmettere informazione relativa all'intensità luminosa dello stimolo visivo (chiaro-scuro), ma non l'informazione sulle sue proprietà cromatiche. L'elaborazione di questa informazione è affidata all'altra popolazione, che costituisce la grande maggioranza delle cellule gangliari e che è suddivisa a sua volta in due classi: le cellule della prima classe vengono eccitate dai coni «rossi» e inibite dai coni «verdi» (o viceversa), quelle della seconda classe vengono eccitate dai coni «blu» e inibite sia dai coni «rossi» sia dai coni «verdi» (figura 6.13)Le cellule della prima classe si dicono opponenti per il rosso-verde; quelle della seconda classe, opponenti per il blu-giallo. Si ritrova quindi a livello delle cellule gangliari la presenza di tre tipi di neuroni capaci di elaborare e trasmettere indipendentemente informazioni su tre qualità dello stimolo, rispettando così la trivarianza della visione cromatica. Si tratta di tre meccanismi opponenti: chiaro-scuro, rosso-verde, blu-gial-

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lo, come era stato ipotizzato da Hering. Queste tre classi di cellule gangliari danno origine a tre vie neurali che si mantengono separate dalla retina, attraverso le stazioni intermedie, fino alla corteccia visiva. Nella corteccia cerebrale visiva, oltre a cellule con proprietà simili a quelle delle tre classi di cellule gangliari, e cioè opponenti per il chiaro-scuro, per il rosso-verde e per il blu-giallo, si incontra un ulteriore tipo di cellule cromatiche, dette doppie opponenti. Il loro campo recettivo è diviso in due zone: un disco centrale e un anello che lo circonda, entrambi opponenti per il colore ma di segno invertito. Per esempio, il centro è eccitato dal rosso e inibito dal verde, mentre l'anello circostante è eccitato dal verde e inibito dal rosso. Per una cellula di questo tipo lo stimolo ottimale è un disco rosso su fondo verde. Alle cellule non cromatiche è affidata l'elaborazione delle informazioni circa la forma e il movimento degli stimoli visivi. Anche successivamente alla corteccia visiva primaria, cioè nelle aree corticali in cui avvengono le ulteriori elaborazioni, le informazioni circa il colore e quelle relative alla forma e al movimento si mantengono relativamente separate. Nella corteccia cerebrale esiste un'area specializzata per l'elaborazione dell'informazione sul colore. Lesioni di quest'area per ragioni patologiche causano una cecità al colore detta acromatopsia corticale. Talvolta la lesione è limitata a uno solo dei due emisferi cerebrali; in questi casi solo una metà del campo visivo è priva di sensazioni di colore (figura 6.14). Questa forma di patologia della visione dei colori non è da confondere con i difetti della visione dei colori dovuti alla mancanza di un tipo di coni (daltonismo), i quali causano una riduzione della gamma di colori visibili. I pazienti affetti da acromatopsia corticale vedono il mondo in toni di grigio, privo di colori. Cosa ancora più sorprendente, perdono la capacità di immaginare il colore. Quando queste persone pensano a scene del mondo esterno, come un prato, ne vedono con la

Figura 6.14 Un paziente con lesione dell'area corticale del colore nell'emisfero cerebrale sinistro perde la sensazione dei colori nel semicampo visivo destro. Nell'altra metà del campo visivo, che dipende dall'emisfero destro, la visione dei colori è normale, (da Zeki, 1993).

mente la grana e la forma, ma non il colore. In qualche senso quindi, i concetti di colore dipendono da questa particolare area della corteccia cerebrale. Invece la percezione della forma che non viene sostanzialmente alterata in pazienti con lesioni limitate all'area del colore è ovviamente affidata in larga parte ad altre parti della corteccia cerebrale. Lesioni di certe limitate regioni del lobo sinistro del cervello possono causare invece un'incapacità a chiamare correttamente i colori con il loro nome, senza tuttavia alterare la capacità di vedere il colore. Vi sono casi, per esempio, di pazienti che non sanno pronunciare correttamente il nome di un colore. E altri che invece scambiano i nomi dei colori, e chiamano per esempio "rosso" il blu, e "giallo" il verde. La presenza di due vie neurali con proprietà opponenti per il rossoverde e il blu-giallo conferma le ipotesi di Hering e fa comprendere l'esistenza nello spettro di quattro colori elementari: un rosso, un giallo, un verde e un blu. Anche l'esistenza di colori complementari, per esempio rosso e verde, blu e giallo, può forse essere meglio compresa tenendo conto di queste vie neurali con proprietà opponenti, e così pure i fenomeni di contrasto simultaneo che fanno virare la tinta di uno stimolo neutro verso il colore complementare dello sfondo. Mentre, a livello dei fotorecettori, la presenza di tre tipi di coni con tre diversi pigmenti rende ragione alla teoria di Helmholtz, dalle cellule degli strati successivi della retina in poi l'organizzazione a colori opponenti è in accordo con la teoria di Hering.

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CAPITOLO 7 IL COLORE NEL QUADRO Agli uomini il colore dona in genere grande diletto. L'uomo ne ha bisogno come ha bisogno della luce. Wolfgang Goethe, La teoria dei colori.

Psicologia del colore

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Jan van Eyck, (a) Ritratto dei coniugi Arnolfini. Londra, National Gallery. (b) particolare, (e), (d) fotografie del particolare da cui è stato eliminato rispettivamente il contrasto di chiaro-scuro e conservato solo quello di colore ed eliminato il colore e conservato solo '1 contrasto di chiaro-scuro.

n colore che sia predominante in un ambiente può evocare stati d'animo diversi. Ad esempio, il verde evoca quiete, il giallo gioia, il rosso eccitazione. Ai colori si possono associare anche sensazioni di modalità sensoriali non visive. Ad esempio, come scrive Kandinskij, "È caldo o freddo il colore che tende al giallo o al blu". Infatti le tinte della gamma giallo-arancione-rosso vengono considerate «tinte calde» perché sembrano essere associate a una sensazione di calore, mentre le tinte della gamma verde-blu-viola sono considerate «tinte fredde». Questa suddivisione dello spettro in tinte calde e tinte fredde potrebbe essere associata a uno dei meccanismi fisiologici implicati nella percezione del colore, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente. Si tratta del meccanismo di opponenza cromatica blu-giallo, descritto a proposito delle cellule gangliari della retina. Probabilmente, dei due meccanismi di opponenza cromatica (blu-giallo e rosso-verde), il più antico dal punto di vista dell'evoluzione delle specie è il primo. Possiamo pensare al colore astraendolo dalla forma e dalla corporeità degli oggetti, e renderlo, in tal modo, puro concetto. Nelle varie culture i colori possono assumere un significato simbolico e una valenza religiosa. Nel periodo classico precristiano prevalevano, nell'area mediterranea, i colori giallo e rosso, insieme al bianco e al nero; con il cristianesimo assumono significato simbolico i «nuovi» colori verde, azzurro e viola, ciò che suggerirà a Nietzsche di chiamare colori «politeistici» i primi e «monoteistici» i secondi. Nella Roma imperiale i colori prevalenti erano quelli del cotto per le case e del marmo per i monumenti; il porpora era il simbolo dell'autorità imperiale. Nel cristianesimo degli inizi il verde è il simbolo della nuova vita che risorge dallo stato di temporanea morte, in attesa

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della penitenza liberatrice simboleggiata dal viola, mentre l'azzurro richiama la trascendenza del paradiso. Il simbolismo dei colori si estende e si perpetua nella liturgia, dove il colore delle pianete dei sacerdoti e dei paramenti dà significato alla celebrazione: il bianco per Cristo, il rosso per i martiri, il viola per la penitenza e il lutto. Inoltre il colore contraddistingue le vesti delle massime autorità della Chiesa: il bianco per il papa, il rosso per i cardinali. I colori celeste e verde si ritrovano poi nella figurazione dei mosaici bizantini e romanici, dove, sullo sfondo lucente di riflessi di metalli preziosi, risaltano le tinte luminose che simboleggiano le verità di fede. Il porpora è esclusivamente attribuito al Cristo glorioso Pantocrator. Il colore cristiano è carico di simbolo, ma quasi astratto dalla forma e pura proprietà della luce. Il significato simbolico dei colori e il loro appartenere alla luce più che alla forma si ritrova ancora più evidente nelle vetrate gotiche. I colori cristiani dell'azzurro e dell'oro verranno poi a simboleggiare la nobiltà cavalleresca e ne decoreranno le insegne e gli stendardi. II simbolismo dei colori rinasce con altri significati nell'Ottocento, dopo l'avvento delle tinture artificiali, nella società industriale. Nasce il mito del bianco come simbolo della pulizia, mentre il nero indica riservatezza e lutto. Nelle bandiere e nelle uniformi militari i colori assurgono invece a simbolo della patria e dell'unità nazionale.

L'albero dei colori La gamma dei colori visibili e riproducibili nella pittura può essere rappresentata da un campionario in cui i singoli campioni di colore sono ordinati secondo le tre variabili: luminosità (chiaro-scuro), tinta o tonalità e saturazione o purezza. Si può costruire, ad esempio, un «albero dei colori» (figura 7.1) il cui asse centrale è formato da campioni neutri, cioè non cromatici, ordinati dal basso verso l'alto secondo una scala che va dal nero al bianco lungo gradazioni di grigio via via più chiare. Da questo asse si staccano dei fogli ciascuno dei quali contiene campioni della stessa tinta, per esempio un rosso, un verde, ecc. In ognuno di questi fogli i campioni di colore sono ordinati dall'asse dell'albero verso l'esterno in una scala di saturazione, con le tinte più sature più lontane dall'asse. Inoltre, dall'alto al basso i colori sono ordinati da una scala che va dal chiaro allo scuro. Fin dai secoli scorsi psicologi o pittori hanno proposto vari tipi di alberi o solidi dei colori in forma di sfera o di doppio cono, di doppia piramide ecc., oppure in forma di atlante, di cui il più noto è quello ideato dal pittore Albert Munsell nel 1915, che è in largo uso tutt'og-

Figura 7.1 Albero dei colori.

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gi. Questi alberi dei colori, oltre a fornire una descrizione cromatica ordinata ed estesa per applicazioni scientifiche e tecniche, sono stati sviluppati anche per rispondere all'esigenza di comprendere quali siano i colori che si possono accostare con effetti più gradevoli. Ad esempio, secondo Ostwald, sono gradevoli, tra l'altro, accostamenti di colori uguali tra loro per luminosità o per saturazione. Parlare di «accostamenti gradevoli» può far pensare a criteri soggettivi di gusto personale, ..Sono stati fatti dei tentativi per dare una base sistematica all'«armonia dei coIofÌ^>pcioè per jtrovare regole di accostamento dei colori simili a quelle degli accordi armonici della musica. La regola più generalmente accettata è che due o più colori # sono armonici se la loro combinazione dà un grigio neutro, cioè se i colori sono complementari. Naturalmente, per ottenere dei colori complementari occorre non solo scegliere tinte opportune, ma anche pesare le componenti in opportuni rapporti di chiaro e scuro e di sa- a turazione.

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Figura 7.2 (sopra) Colori scelti come armonici dalla studentessa rappresentata nella foto e loro scomposizione spaziale in quadrati, (da Itten, 1961). Figura 7.3 (sotto) Colori scelti come armonici dalla studentessa rappresentata nella foto e loro scomposizione spaziale in quadrati, (da Itten, ri/.).

Definire armonici dei colori complementari può indicare che a^questa regola sottostà una proprietà fisiologica della visione dei colori comune alla maggior parte degli osservatori. Tuttavia ciò non esclude che tra le numerose combinazioni armoniche, teoricamente infinite, alcune non possano essere soggettivamente preferite ad altre. Ad esempio, i due tipi di accostamenti riportati nelle figure 7.2 e 7.3 sono stati scelti da due studentesse della scuola di pittura di Itten come esempi di accordi armonici e gradevoli. La scelta dei colori che costituiscono degli accordi armonici ha indubbiamente una valenza soggettiva, legata in parte al temperamento della persona e anche alle sue caratteristiche somatiche. Come ha fatto notare Itten, la studentessa bionda ha scelto dei colori più tenui e meno saturi di quelli scelti dalla studentessa bruna. Per comprendere meglio l'accoppiamento dei colori armonici, nonché gli effetti di contrasto usati nella pittura, è utile considerare, anziché il completo albero dei colori, una collezione di campioni di colore

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Figura 3.15 Pittura parietale della sala del sarcofago di Thutmosi III nella Valle dei Re (XVIII dinastia, 1550-1293 a.C). Particolare della figurazione del Libro dell'Amduat in cui si narrano le vicende del dio Sole.

Figura 3.16 Fanciulla che raccoglie fiori. Pittura murale da Stabi; (i sec. d.C). Napoli, Museo Nazionale.

sviluppo della civiltà tutte le volte che si voglia narrare un succedersi di avvenimenti. Questo è vero ad esempio della pittura degli Egiziani, dove si narrano le storie degli dei o del faraone: questi uomini disegnavano «quel che sapevano» e non «quello che vedevano» (figura 3.15)Ed è vero anche per gli odierni disegni a fumetti che narrano vicende di personaggi veri o immaginari. Non è un caso che questo mezzo espressivo sia tale da essere compreso già dai primi anni di vita. Nell'epoca greca e romana la pittura diventa più mimetica, più simile alle immagini realmente percepite, più ricca di dettagli, di chiaro-scuri, di superfici variamente colorate (figura 3.16). Nelle epoche successive si alterneranno periodi in cui i contorni tornano a dominare e altri in cui prevalgono le rappresentazioni più continue, senza la frattura di una demarcazione netta. I primi saranno per lo più quelli in cui l'interesse si concentra sulla narrazione di avvenimenti o sull'espressione concettuale o spirituale. I secondi sono i periodi in cui, per lo spiccato interesse per l'uomo, acquista maggior rilievo l'espressione sensoriale della realtà.

Figura 7.4 Disco dei colori secondo Itten. Al centro, i tre colori fondamentali rosso, giallo e blu, circondati dai coioti secondati viola, blu-verde e arancione. Nel disco estetno sono raffigurati questi sei colori con altri sei intermedi.

più semplice, dove i colori sono diversi tra loro solo per tinta. I colori si possono organizzare in diverse forme geometriche, per esempio in un triangolo, come fece già nel secolo scorso Maxwell, oppure in un cerchio. Citiamo qui un esempio particolarmente importante in riferimento alla pittura: il cerchio cromatico, nella versione di Itten (figura 7.4). Al centro del cerchio vi è un triangolo equilatero formato dai tre colori fondamentali primari: rosso, giallo e blu. Attorno a questo, altri tre triangoli rispettivamente di colore verde, arancione e viola, cioè dei tre colori secondari che si possono pensare ottenuti per sintesi dei primari, a due a due (il verde dal giallo e dal blu; l'arancione dal rosso e dal giallo; il viola dal blu e dal rosso). L'esagono così formato è circondato da un cerchio che contiene i sei colori primari e secondari e sei colori intermedi tra quelli. I colori diametralmente opposti nel disco sono colori complementari: così, ad esempio, il rosso e il verde, il blu e l'arancione, il viola e il giallo.

I colori nel q u a d r o Nel realizzare la sua opera, il pittore impiega più o meno consapevolmente il colore nel tentativo di creare l'equilibrio del quadro e per dare evidenza a questa o a quella parte della scena, per creare effetti di profondità, ecc. In tutto questo giocano un ruolo importante vari effetti di contrasto che contrappongono zone vicine del quadro, così che si esaltino a vicenda. Si tratta non solo di effetti di contrasto che nascono nel nostro occhio, come il contrasto simultaneo di cui abbiamo già parlato, bensì di contrasti creati dal pittore contrapponendo colori diversi o per tinta, o per saturazione, o per estensione spaziale, o per tonalità fredde o calde. Cominciamo a parlare del contrasto tra colori complementari. Nella pittura, il contrasto simultaneo viene spesso rafforzato dall'accostamento di colori tra loro complementari. Secondo Itten, "Ogni coppia di complementari possiede però suoi caratteri specifici. Così la giustapposizione di giallo e viola dà luogo anche a un forte contrasto chiaro-scurale. La coppia arancione - bluverde rappresenta nello stesso tempo il punto estremo della polarità freddo-caldo. I complementari rosso-verde posseggono un eguale grado di luminosità e di lucentezza". Dunque al contrasto cromatico si aggiunge in alcuni casi un contrasto di luminosità: si ricordi che il nostro occhio è assai più sensibile alle radiazioni centrali dello spettro visibile (regione del verde e del giallo) e assai meno a quelle della regione viola (figura 6.3). Inoltre, poiché i colori complementari generalmente appartengono l'uno alle cosiddette tinte calde, l'altro alle tinte fredde, il contrasto tra colori complementari può caricarsi, in misura maggiore o minore, anche di questo contrasto caldo-freddo. Il contrasto di colori complementari è largamente usato nella pittura. Si osservi ad esempio la Madonna di Monterchi di Piero della Francesca (figura 7.5). Nei due angeli che sorreggono la tenda ai lati della Madonna, gioca il contrasto dei colori complementari rosso-porpora e verde con cui sono dipinte le vesti, le ali e i calzari. Questi colori sono scambiati nei due angeli, così da creare un contrasto di complementari anche tra queste due figure. Nell'abito della Madonna gioca il contrasto tra altri due colori complementari, il giallo e il blu. L'accostamento di queste coppie di colori complementari in ognuna delle tre figure crea un effetto armonico di notevole bellezza e il distacco tra la figura centrale e le due laterali simmetriche viene accentuato dalla sapiente scelta dei colori, che costituiscono due coppie largamente separate nel disco cromatico. L'effetto chiaroscurale che accompagna il contrasto cromatico tra i complementari giallo e viola viene spesso impiegato in pittura. Ad esempio, nel famoso quadro di Cézanne Mont Ste Victoire, questo contrasto viene utilizzato sapientemente per dare un senso di profondità al paesaggio, accentuando il distacco tra figura e sfondo (figura 7.6).

Figura 7.5 Piero della Francesca, Madonna di Monterchi come risulta dal recente restauro. Monterchi (Arezzo), Cappella del cimitero.

Figura 7.6 Paul Cézanne, Mont Ste Victoire. Philadelphia, Art Museum.

Figura 7.7 (a sinistra) Vetrata della Cattedrale di Chartres, detta La Verrière (XII secolo). Figura 7.8 (a destra) Piero della Francesca, Natività. Londra, National Gallery.

Un altro effetto di contrasto di notevole efficacia pittorica nasce dall'accostamento di colori freddi e caldi che può suggerire anche un contrasto tra ombreggiato e soleggiaro, riposante ed eccitante, lontano e vicino. Nella pittura medievale e nelle vetrate delle cattedrali gotiche, il contrasto caldo-freddo tra rosso e blu simboleggia la dualità tra ciò che è materiale e ciò che è al di là della materia. Spesso la Madonna porta una veste rossa sotto il manto azzurro, a simboleggiare 1'«umano coperto dal divino» (figura 7.7). Questo simbolismo si ritrova anche nel Rinascimento; in taluni casi il contrasto tra azzurro e rosso può contrapporre personaggi divini e angelici a personaggi terreni, come nella Natività di Piero della Francesca (figura 7.8). Il contrasto freddo-caldo assume un particolare rilievo nei quadri degli impressionisti, dove la fredda tonalità azzurra dell'atmosfera diviene ombra colorata ed entra in contrasto con la calda tonalità delle zone illuminate dal sole. Così, ad esempio, in Impression, soleil levant, di Claude Monet, dove le calde tonalità del sole e dei suoi riflessi sull'acqua si contrappongono alle fredde ombre, dissolvendole in un magico effetto chiaroscurale (figura 7.9). Altro tipo di contrasto è quello che si crea tra aree fortemente cromatiche, di colore saturo, e aree neutre. Questo contrasto di saturazione è presente in molte opere di pittura di tutte le epoche, dai manieristi agli astrattisti. Per illustrarlo abbiamo scelto un quadro di Georges de

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La Tour (figura 7.10), dove il contrasto chiaro-scurale si accompagna a un forte contrasto di saturazione tra il rosso abito della madre e le tinte neutre del resto del quadro. Citiamo per ultimo il contrasto di quantità, che si verifica quando su aree estese di colore relativamente uniforme è presente una piccola area di colore notevolmente diverso. Questa piccola macchia di colore viene evidenziata per contrasto. Così accade per la rossa camicia del contadino nel Paesaggio con la caduta di Icaro di Bruegel (figura 7.11). Come abbiamo detto, nella grande maggioranza dei casi il contrasto cromatico si accompagna a un contrasto di chiaro-scuro, o perché i colori stessi hanno tendenzialmente questa proprietà, come il giallo e il viola, o perché una differenza di luminosità viene introdotta appositamente dal pittore. Solo eccezionalmente si trovano accostate in un dipinto due aree cromaticamente diverse ma ugualmente luminose. Se questo avviene, i margini della figura tendono ad apparire meno definiti, si attenua il rapporto tra figura e sfondo, si appiattiscono le distanze. Un contrasto puramente cromatico, senza differenza di luminosità, è relativamente meno efficace nella rappresentazione della forma. Questo fatto ha la sua spiegazione nell'organizzazione delle vie visive, come abbiamo detto precedentemente (Capitolo 6). La capacità di distinguere piccoli dettagli che differiscono tra loro solo per colore e non per luminosità è scarsa, circa 3 o 4 volte inferiore a quella che consente di distinguere piccoli dettagli in bianco e nero. Questa è la ragione per cui la nitidezza dei contorni è assai ridotta ai bordi puramente cromatici. Per comprendere meglio il diverso ruolo che possono avere in una pittura il contrasto puramente cromatico e il contrasto di chiaro-scuro,

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osserviamo la figura ottenuta estraendo queste due componenti del contrasto da un particolare del Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck (figura di apertura del capitolo). Un particolare del quadro, la giovane sposa, è stato fotografato in modo da conservare solo il contrasto di colore presente tra le varie aree del dipinto, ed eliminandone le differenze di luminosità (foto in basso a sinistra). Il contrasto di chiaro-scuro, senza differenze di colore, è invece rappresentato nella fotografia in basso a destra. Si noti come la figura con contrasti puramente cromatici risulti assai meno definita nella forma, e quasi irreale, rispetto a quella in chiaro-scuro.

Gli effetti di profondità creati dal colore

Figura 7.12 Effetti di profondità per diversi colori. Sul nero il giallo si stacca dallo sfondo più del rosso e del blu (sopra). Su fondo bianco l'effetto si inverte (sotto).

Figura 7.13 Cellule rosse viste al microscopio sullo sfondo di un mezzo blu. Le macchie rosse sembrano emergere sullo sfondo. Questo effetto stereoscopico è dovuto all'aberrazione cromatica dell'occhio, (da Schober e Rentschler, 1972).

I colori caldi visti sullo sfondo di colori freddi tendono a generare un'impressione di profondità: i gialli e i rossi avanzano verso lo spettatore, mentre i verdi e i blu retrocedono. Scrive Kandinskij: "Anche il colore correttamente usato può muoversi verso lo spettatore o allontanarsene, protendersi o ritrarsi, e fare del quadro una cosa sospesa nell'aria, dilatando pittoricamente lo spazio". E ancora: "Il colore caldo si muove verso lo spettatore, quello freddo se ne allontana". Questi effetti di diversa profondità tra colori caldi e colori freddi possono essere esaltati oppure attenuati (e addirittura invertiti) giocando con la luminosità sia degli oggetti, sia dello sfondo (figura 7.12). Visti su uno sfondo nero, tre rettangoli di colore giallo, rosso e blu si dispongono in una scala di profondità dove il giallo, che è il colore più chiaro, avanza rispetto al rosso e ancor più rispetto al blu, che è il colore più scuro. Gli stessi tre colori danno un effetto di profondità totalmente diverso se sovrapposti a uno sfondo bianco: qui è il giallo che si schiaccia sullo sfondo, con il quale crea solo un debole contrasto, sia di luminosità sia di saturazione. Il rosso invece si stacca maggiormente dal bianco e in una certa misura anche il blu. L'effetto di profondità per cui un oggetto rosso appare più vicino di un oggetto contiguo blu è attribuibile in parte a proprietà fisiche degli occhi. Le radiazioni di lunghezza d'onda lunga (rosso) e corta (blu) vengono rifratte diversamente dal sistema ottico dell'occhio: le seconde vengono maggiormente rifratte rispetto alle prime. Si crea un effetto prismatico per cui nei due occhi si formano immagini rispettivamente rosse e blu con disparità diverse (Capitolo 5). È quindi un vero e proprio effetto stereoscopico binoculare quello per cui oggetti rossi possono apparire più vicini di una superficie blu . Questo effetto binoculare non esaurisce tuttavia l'effetto di profondità, poiché questo permane in parte anche se si guarda l'immagine con un occhio solo (figura 7.13).

Figura 7.14 Claude Monet, Covoni con la brina (1891). Edimburgo, National Galleries of Scotland.

Le o m b r e colorate Ci serviamo delle parole di Goethe per introdurre un importante fenomeno di visione dei colori: quello delle ombre colorate. Scrive Goethe: "In un viaggio d'inverno nello Harz {...} i fianchi delle montagne erano coperti di neve {...] il sole scendeva all'orizzonte. Durante il giorno avevo già potuto notare che, contrastando con il tono giallastro della neve, le ombre apparivano leggermente violette {...] Ma quando il sole sul punto di sparire all'orizzonte ricoprì di porpora il mondo intorno, l'ombra cambiò di colore e apparve un verde paragonabile a quello del mare [...]". Da questa viva descrizione emerge un fenomeno ben noto per il quale, quando la sorgente che illumina ha una tinta fortemente dominante, le ombre appaiono colorate del colore complementare a quello della sorgente. Il colore dell'ombra risulta da un effetto di contrasto: le parti in luce spingono le parti in ombra, meno intense, verso il colore complementare. Questo fenomeno percettivo è noto ai pittori ed è frequentemente rappresentato nei quadri: il colore dell'ombra contribuisce a creare contrasto. Un esempio suggestivo sono i Covoni con la brina di Monet, dove l'ombra del covone è vistosamente dipinta con il colore complementare a quello che domina nelle parti illuminate del quadro. La luce dominante, dorata, crea un'ombra dipinta con il colore complementare cioè l'azzurro (figura 7.14).

Altro caso in cui si producono ombre colorate è quello di una scena illuminata da due sorgenti cromaticamente diverse, ad esempio il sole e una lampada oppure una candela. Se un oggetto crea un'ombra rispetto alla radiazione del sole, la parte in ombra, illuminata soltanto dalla sorgente artificiale, risulta di colore più saturo rispetto alle parti illuminate da tutte due le sorgenti. Se la sorgente artificiale è una candela, l'ombra è rossastra. Al contrario, una zona d'ombra per la luce della candela, e illuminata solo dal sole, appare azzurrina. Hegel l'aveva notato e descritto accuratamente: "L'ombra proiettata dalla luce della candela e illuminata dalla luce naturale del mattino diviene blu; l'ombra gettata dalla luce del giorno e rischiarata dalla luce della candela diviene rossa". All'aperto possono apparire leggermente azzurre le zone di ombra proiettata da oggetti che coprono i raggi diretti del sole e che sono quindi illuminate soltanto dalla luce diffusa del cielo. Bisogna però tener presente che, perché un'ombra appaia come tale e non, per esempio, come una parte di un oggetto con proprietà diverse, occorre che ci sia una differenza di intensità; una differenza di colore senza una differenza di intensità non crea ombra.

Pointillisme e divisionismo Nella seconda metà dell'Ottocento si svilupparono scuole pittoriche che furono notevolmente influenzate dal contemporaneo sviluppo delle conoscenze scientifiche sulla visione dei colori. Ciò accadde per l'impressionismo e poi per il postimpressionismo (o neoimpressionismo), in cui dominano ancora il colore puro e le sensazioni che derivano dal colore. È da notare che in questo periodo la scienza diviene stimolo intellettuale specialmente nei pittori più colti, come Seurat. Il neoimpressionismo è inizialmente caratterizzato dalla tecnica del pointillisme, nata con il proposito di frammentare la rappresentazione pittorica in piccolissime macchie di colori puri, vicinissime tra loro, tali da essere fuse dall'occhio. I colori del quadro risultano così da un'integrazione visiva dei colori puri delle macchioline nell'occhio dell'osservatore. Questo processo di integrazione si supponeva desse luogo a colori più luminosi di quelli ottenibili per miscela di tinte sulla tavolozza. Occorreva naturalmente osservare il quadro da una distanza sufficientemente grande per consentire la «fusione» delle macchioline di colore. Un analogo procedimento era già stato applicato dai mosaicisti bizantini, che usavano proporzionare la grandezza delle tessere alla distanza da cui il mosaico era destinato ad essere visto.

Figura 7.15 Georges Seurat, Un dimancbe d'étéà la Grande Jatte (1886). Chicago, Museo di Arte moderna.

Georges Seurat (1859-1891) cercò di dare una base scientifica al metodo, per quella che lui chiamò peinture optìque. La sua prima grande opera con questa tecnica è Un dimanche d'été à la Grande Jatte, per la quale egli fece ben diciotto studi preparatori. La versione finale, del 1886, è ora nel Museo di Arte moderna di Chicago (figura 7.15). Il metodo fu perfezionato in opere successive, come Embouchure de la Seine, dove le piccole pennellate diventano punti ordinati. Questa tecnica indaginosa, che implicava un lungo processo di studio preliminare alla produzione del quadro, mostrò ben presto i suoi limiti, soprattutto perché finiva in realtà con lo smorzare le tinte, desaturandole e velandole quasi di grigio. Signac, che era seguace e allievo di Seurat, rivedendo dopo dieci anni, nel 1897, un quadro del suo maestro, Les Poseuses, scriveva: "Sono passati più di dieci anni da quando l'ho visto per l'ultima volta. Mi è stato di buon insegnamento. E troppo diviso, la pennellata è troppo piccola. [...] Le parti uniformi, coperte da quelle piccole pennellate, sono sgradevoli e questo operare sembra inutile e nocivo perché dà all'insieme del lavoro una tonalità grigia". Nacque così il divisionismo, dove le macchie di colore sono più grandi, in modo da non essere fuse dall'occhio (figura 7.16). Nel suo libro, Paul Signac and Color in Neo-Impressionism, Floyd Ratliff fa giustamente notare che le due tecniche danno luogo a fenomeni visivi completamente diversi: l'una causando una perdita di vivacità dei colori attraverso la loro combinazione additiva, contrariamente a quanto il pittore si propo-

Figura 3.17 Crocifisso di Scuola lucchese (xm sec). Firenze, Galleria degli Uffizi.

U n a visita agli Uffizi La prima sala degli Uffizi ci offre un confronto tra la pittura dominata dal segno e una pittura diversa, dominata dalle forme e dalle superfici. La prima esperienza ci viene offerta dai crocifissi di scuola toscana (figura 3.17), dove il Redentore e le Storie Sacre ai lati sono dominate da un segno netto, semplice, marcato. Le gambe e le braccia del Cristo sono delimitate da pochi segni neri, spesso dei segmenti di linea retta.

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Figura 4.4 A sinistra: Gian Lorenzo Bernini, Estasi di Santa Teresa (1645-1652 circa). Roma, Sanra Maria della Vittoria. A destra: Correggio, lo (1531). Vienna, Kunsthistotisches Museum.

bero eccitare la corteccia e questa mandare i suoi impulsi eccitatori al lobo limbico e all'ipotalamo e produrre quindi gli effetti che si hanno per stimolazione di queste parti del cervello. Forse le esperienze dei mistici e dei santi, come le estasi di Santa Teresa d'Avila che Gian Lorenzo Bernini ha rappresentato in marmo in dimensioni naturali nella cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria a Roma (1645-1652) o il «felice» martirio di San Sebastiano, possono essere state esperienze di piacere a origine corticale. Il San Sebastiano di Matteo di Giovanni (1435-1495) alla National Gallery di Londra con il volto «felice» e sorridente mentre il suo corpo è trafitto da numerose frecce sembra proprio invaso da un piacere paradisiaco, probabilmente risultante dalla sicurezza del pensiero della fede. Nella figura 4.4 si possono confrontare una rappresentazione artistica di un'estasi mistica {Santa Teresa del Bernini) e una di estasi sensuale, più terrena (lo del Correggio).

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Il piacere nel guardare un q u a d r o Ma perché, si domanderà il lettore, siamo svicolati a parlare di piacere sessuale, di dopamine ed endorfine? Cosa ha a che fare tutto questo con l'arte? Anche l'arte dà piacere; perché non cercare allora di collegare questo piacere con sensazioni o emozioni di simile natura, di cui si comincia a intravedere il funzionamento neurochimico o neurofisiologico? La reazione a uno stimolo complesso, sensoriale e culturale allo stesso tempo, come ad esempio l'opera d'arte, non può realizzarsi solo a livello del pensiero ma deve coinvolgere tutto il corpo, con la sua parte a controllo razionale e con quella a controllo vegetativo. Quando nasce un pensiero nel nostro cervello, l'attività da esso generata nel sistema nervoso può influenzare altre funzioni come il battito cardiaco, la sudorazione, la salivazione, il diametro pupillare ecc. Nell'esperienza artistica si possono distinguere, forse con eccesso di schematicità, due stadi. Un primo stadio è caratterizzato dal desiderio e dall'eccitazione di esperire un'opera d'arte, visitare un museo, sentire un concerto. Un secondo stadio, che segue la fine dell'esperienza, è caratterizzato da una sorta di stato di grazia, di quiete spirituale, da sensazioni ed emozioni che chiamiamo "il piacere dell'esperienza artistica" o "piacere estetico". Si potrebbe fare l'ipotesi affascinante che il primo stadio, quello di eccitazione, derivi da un'attivazione dei cosiddetti centri del piacere nell'ipotalamo laterale o di qualche altra parte del lobo limbico. Questi centri potrebbero essere attivati dall'esperienza artistica, come ad esempio dalla visione di un'opera d'arte e dalle esperienze culturali che essa richiama alla memoria. Va ricordato che i mediatori chimici coinvolti nella regolazione e nel controllo dei centri del piacere (come le catecolamine) partecipano anche all'attivazione generale della corteccia, al cosiddetto fenomeno deli'arousal; "arousal" significa risveglio, aumento dell'attenzione e, in questo caso, dell'interesse del soggetto. In senso neurofisiologico, arousal significa eccitazione diffusa di tutta la neocorteccia, che in conseguenza di ciò diviene anche più recettiva alle esperienze sensoriali. Il secondo stadio dell'esperienza estetica, quello di soddisfazione, potrebbe essere dovuto alla produzione di endorfine, cui conseguirebbe il senso di piacere e di quiete: insomma, un piccolo orgasmo estetico, con stadi consimili di eccitazione e di rilassamento. Bisogna però dire che il piacere che segue l'esperienza estetica non è mai, come dicono gli psicologi, una piccola mors post coitum; rimane un piacere creativo, pieno di pensiero e di desideri. Si potrebbe obiettare che questo tentativo di attribuire il piacere artistico al funzionamento di circuiti cerebrali è un'ipotesi riduzionistica,

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poiché cerca di spiegare un fenomeno così complesso con meccanismi troppo semplici della neurofisiologia e della neurochimica del nostro cervello. Noi non pensiamo che il tentativo sia di per sé riduttivo, perché tutti gli eventi della sfera dell'emotivo e del cosciente sono da riportare, in ultima analisi, al sistema nervoso, e anche perché non si negano margini di imprevedibilità al sistema: infatti le variabili che possono influenzare l'attività elettrica eccitatoria e inibitoria dei vari centri nervosi, attraverso il gioco degli ormoni con le loro influenze reciproche, sono così numerose e complesse che lasciano lo spazio più ampio all'imprevedibilità e quindi alla libertà di pensiero e di giudizio.

Estetica e struttura cerebrale

Figura 4.5 I patterns in alto sono formati dall'insieme tegolate delle «tessere» indicate in nero. Percettivamente le tessete vengono ignorate, mentre vengono previlegiate le figure quadrate (gute Gestalt) formate dai loto contorni, (da lllusionen, C.J. Bucher Verlag, Frankfurt 1973).

Non si può concludere un capitolo che tratta dell'emozione suscitata dalla visione di un'opera d'arte senza almeno sfiorare il problema della possibile esistenza di principi percettivi che stiano alla base della sensazione del bello e della sua universalità. Di particolare importanza ci sembra ricordare ancora una volta le leggi percettive della Gestalt, che dimostrano l'esistenza di regole ben precise nell'ordinamento delle nostre percezioni e che fanno della percezione stessa un processo attivo di categorizzazione e interpretazione. Anche una figura ambigua, suscettibile di due interpretazioni percettive, non dà mai luogo a una situazione di incertezza: o si percepisce l'una o l'altra. Il vaso di Rubin o è un vaso o sono due facce. Fra le leggi della Gestalt vi è anche quella della gute Gestalt («buona forma»), che si può verificare quando si osservano semplici figure geometriche, come triangoli, cerchi o quadrati, che abbiano piccole irregolarità o asimmetrie: si tende sempre a percepire la forma nel suo aspetto più regolare e simmetrico (figura 4.5). Questa tendenza alla regolarità e alla simmetria è già presente nei bambini molto piccoli. A proposito della gute Gestalt, è nota a tutti la cosiddetta sezione aurea di un segmento, cui corrisponde un rapporto privilegiato tra i lati di un rettangolo (1:1,62). L'occhio sembra particolarmente appagato da figure che obbediscono a questo rapporto, ampiamente usate in diverse epoche e in particolare nel Rinascimento. È stato fatto notare che l'architettura del Rinascimento e anche la pittura rinascimentale danno un senso di riposo e di bello allo stesso tempo. Ciò avviene in parte per l'uso dei rapporti suggeriti dalla sezione aurea nelle finestre, nelle porte ecc. A questo però si aggiunge l'uso di archi a tutto sesto, cioè semicircolari, e la preferenza per organizzazioni architettoniche o pittoriche simmetriche, sia nelle strutture verticali sia in quelle orizzontali. È un fatto che la nostra percezione ama l'ordine e cerca di dare or-

dine alle sensazioni visive. Categorizzare, scoprire ordine dà piacere visivo, così come dà piacere ridurre la realtà a semplici forme geometriche. In riferimento a quest'ultimo punto, Cézanne ha scritto che la realtà si può ridurre a cilindri, sfere e coni. Salvador Dali e l'artista olandese Escher hanno abilmente giocato con i principi percettivi della Gestalt per rendere l'interpretazione dei loro quadri instabile e misteriosa (figura 4.6). Queste leggi «estetiche» della Gestalt in parte sono innate, ma in parte sono anche acquisite. C'è un interessante esperimento di Francis Galton che risale a più di un secolo fa. Ripetuto con tecniche più moderne da Daucher nel 1979, esso dà un'idea di come si possano formare dei templates per il bello. Daucher sovrappose le 20 fotografie di ragazze riportate nella figura 4.7, ottenendo come risultato la faccia riportata di lato. Questa rappresenta una media statistica dei lineamenti delle

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Figura 4.7 La sovrapposizione delle 20 fotografie di volti femminili dà luogo all'immagine media riportata a destra.

Figura 4.8 Lo schema infantile. Le bambole e i giocattoli ripetono, accentuandoli, gli attributi del bambino o dei cuccioli: testa grande rispetto al corpo, fronte prominente, bocca piccola e contorni tondeggianti, (da Rentschlet, Herzberger e Epstein, 1988).

facce delle varie donne. Si tenga presente che il procedimento in genere attenua o addirittura toglie le particolarità, mettendo in evidenza i lineamenti che sono più comuni. Agli osservarori veniva richiesto di indicare la donna che sembrava loro più attraente. In generale essi trovarono più bella la faccia di donna che risultava dalla media delle altre. L'esperimento fu interpretato come la dimostrazione che certi «modelli» di riferimento si formano dalla somma di molteplici esperienze. Non è forse irrilevante notare che gli ideali della bellezza greca si rifacevano a figure di riferimento esistenti solo nel mondo delle idee di Platone. Questi modelli non mostravano mai particolarità nella loro struttura fisica, proprio come se scaturissero da un tipo di GedankenExperiment (esperimento mentale) simile a quello citato. Plinio racconta che Zeusi costruì la sua Elena prendendo ad esempio cinque delle più belle fanciulle di Crotone. Per i Greci la bellezza era armonia di proporzioni e doveva essere regolata da numeri. Tra le caratteristiche fisiche di animali o persone che vengono giudicate più piacevoli, vanno ricordate le caratterisriche infantili, ciò che Konrad Lorenz chiama Kindcben-Schema (schema del bambino). Secondo gli antropologi questa preferenza è motivata dai sentimenti di tenerezza e protezione tipici del comportamento materno o paterno, essenziali per la prorezione della specie. Nell'uomo in particolare questo schema è caratterizzato da una testa grande rispetto al corpo, guance grassocce, contorni tondeggianti ecc. (figura 4.8). Per quanro riguarda la bellezza del corpo femminile, Eibl-Eibesfeldt fa notare che esistono due ideali di bellezza (figura 4.9)-

Figura 4.9 Venere, l'ideale di bellezza femminile. (a) Venere di Willendorf. Vienna, Naturhistorischen Museum. (b) Venere di Milo. Parigi, Louvre, (e) Sandro Botticelli, ha nascita di Venere (1482). Firenze, Galleria degli Uffizi. (d) Pieter Paul Rubens, ha toletta di Venere (1628). Lugano - Castagnola, Fondazione Thyssen - Bornemisza.

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Uno è il modello della Venere greca che predomina ai giorni nostri, e l'altro è la Venere paleolitica di Willendorf, grassa, con un grosso seno e un grosso sedere. Già in epoca preistorica si era sviluppato un altro modello di bellezza femminile, in cui le forme erano stilizzate secondo schemi geometrici: sono le figure femminili delle Cicladi. Nel corso della storia si succedono modelli in cui si alternano con vario peso le forme tondeggianti della Venere di Willendorf, che suggeriscono la fertilità, e le forme più sottili e slanciate tipiche della giovane donna. La Venere del Botticelli ha forme slanciate e sensuali allo stesso tempo, mentre le donne di Rubens e in parte anche di Renoir richiamano certe caratteristiche della Venere paleolitica. Inoltre, almeno così asseriscono gli antropologi, gli uomini tendono a preferire nella donna caratteri che richiamano quelli infantili. È stato provato che una bocca infantile, un naso piccolo e un piccolo mento sono molto attraenti. Lo studioso del funzionamento del cervello non ha motivazioni convincenti per spiegare l'esistenza di un giudizio estetico con valenza universale. Nota anzitutto che il problema si ripropone anche per altre modalità sensoriali, in particolare per l'udito e il tatto. Una spiegazione plausibile per il neurofisiologo si basa sulla relativa uniformità strutturale e funzionale del cervello di tutti gli uomini che vivono in un determinato momento storico, dovuta sia a ragioni biologiche sia culturali. Dal punto di vista strutturale si constata che la forma, il peso e la struttura macroscopica e microscopica del cervello sono molto simili in tutti gli individui. Ne consegue che se l'organo è simile in tutti gli uomini, anche la sua maniera di rispondere allo stesso stimolo sensoriale sarà con molta probabilità paragonabile. Il secondo tipo di ragioni, quelle di origine culturale, è rintracciabile nell'osservazione che in un determinato luogo della terra, ad esempio il mondo occidentale, gli stimoli che gli individui ricevono dall'ambiente in cui vivono, sia da bambini sia da adulti, sono in parte simili e quindi atti verosimilmente a produrre cambiamenti simili nella memoria e nell'organizzazione cerebrale di tutti gli individui. Questo potrebbe causare una certa uniformità di giudizio di fronte a un quadro o a una poesia. Chomsky ha proposto che la struttura cerebrale stia alla base di certe regole e caratteristiche comuni in tutte le lingue. Anche nella percezione del bello attraverso i sensi potrebbe accadere che la struttura cerebrale sia responsabile, per proprietà innate o acquiste, delle nostre preferenze estetiche. Alcune tendenze estetiche di ordine e regolarità sembrano essere proprie anche di certi animali; il che suggerisce che evolutivamente

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esista una somiglianza tra gli esseri viventi. L'antropologo Eibl-Eibesfeldt riporta esperimenti con diversi animali, tra cui la scimmia e gli uccelli, che dimostrano una loro chiara preferenza per la regolarità e la simmetria nella disposizione degli oggetti. Tra questi esperimenti si inseriscono anche le esperienze di Desmond Morris sui tentativi pittorici degli scimpanzé. In realtà i tentativi di far dipingere i primati sono stati molteplici: i primi risalgono all'inizio del XX secolo. Gli esperimenti di Morris sono però tra i più fantasiosi e sono stati raccolti nel 1962 in un libro interessante, dal titolo The Biology of Art. I suoi risultati concordano con quelli ottenuti da altri autori. Oltre alle qualità estetiche, Morris fa notare interessanti regolarità nei dipinti. L'animale riempie il foglio simmetricamente, restando dentro un contorno tracciato dallo sperimentatore. Sono frequenti, ad esempio nello scimpanzé di nome Congo, i disegni o dipinti a ventaglio, che riempiono il foglio con armonia (figura 4.10). Se si dà agli animali la possibilità di usare diversi colori, questi li dispongono con regolarità, evitando di metterli uno sopra l'altro. Se, ad esempio, uno scimpanzé ha dipinto un ventaglio con un certo colore, quando gli si offre un altro colore esso cerca di inserirlo negli spazi lasciati liberi e crea così un altro ventaglio. Morris organizzò una mostra dei dipinti di Betsy e Congo, i suoi due migliori scimpanzé pittori, all'Istituto di Arte Contemporanea di Londra nel 1957. La mostra fu inaugurata da Sir Julian Huxley, che scrisse: "I risultati mostrano in modo decisivo che gli scimpanzé hanno potenzialità artistiche che possono essere portate alla luce se se ne fornisce loro l'opportunità. Uno dei grandi misteri nella storia dell'evoluzione culturale umana è l'improvvisa esplosione di un'arte di alta qualità nel Paleolitico superiore. Ciò diventa più comprensibile se i nostri antenati scimmieschi hanno avuto queste primitive potenzialità estetiche cui si è aggiunta in seguito la capacità peculiare dell'uomo, quella di creare simboli". La mostra ebbe un grande successo e i dipinti furono trovati simili a certi quadri astratti e a quelli dipinti con le dita dai bambini. Figura 4.10 Dipinti degli scimpanzé, (da Morris, 1962).

CAPITOLO 5 DIPINGERE LA DISTANZA Ma quello che vi è di bellissimo oltre alle figure e una volta a mezza botte tirata in prospettiva e spartita in quattro pieni dì rosoni, che diminuiscono e scortano così bene, che pare che sìa bucato quel muro. Giorgio Vasari, La vita dei più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani < sino ai tempi nostri.

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l mondo che ci circonda è un mondo a tre dimensioni e tale noi lo vediamo: gli oggetti ci appaiono nella loro solidità e a distanze diverse rispetto a noi. Eppure l'immagine di questo mondo che si proietta sulla superficie della retina è a due dimensioni e non contiene un'informazione diretta sulla terza dimensione, cioè sulla solidità degli oggetti e sulla loro distanza. Ci possiamo domandare quali siano le informazioni che il nostro sistema visivo ha a disposizione per risalire dalle immagini retiniche alla ricostruzione dello spazio tridimensionale. Questo problema ci sembra particolarmente pertinente alla nostra trattazione perché ci aiuta a mettere in evidenza quali elementi possa contenere un dipinto, cioè una figura che come l'immagine retinica è a due dimensioni, per simulare la terza dimensione. Cominceremo col descrivere le proprietà dello spazio che ci circonda così come esso ci appare. In seguito descriveremo quali meccanismi cerebrali intervengono nella percezione visiva della distanza; infine discuteremo gli elementi che possono essere utilizzati nella rappresentazione pittorica per simulare uno spazio a tre dimensioni e quali espedienti si possono suggerire per facilitare nell'osservatore del quadro la visione della profondità.

Le leggi percettive per la visione della profondità Jan van Eyck, Ritratto dei Coniugi Arnolfini, particolare (1434). Londra, National Gallery. Questo specchio convesso, che nel quadro ha un diametro di meno di venti centimetri, riproduce la scena dipinta nel quadro prolungandone l'ampiezza e mostrando le figure di due testimoni, come in uno specchio tetrovisore. La cornice dello specchio contiene scene della vita e della morte di Cristo.

Abbiamo già fatto notare che un oggetto di date dimensioni dà luogo a un'immagine retinica tanto più piccola quanto più l'oggetto è lontano, cioè quanto più piccolo è l'angolo visivo sotto cui l'occhio vede l'oggetto (Capitolo 2). Dunque l'immagine sulla retina non contiene separatamente l'informazione sulla grandezza dell'oggetto e sulla sua distanza dall'occhio: ad esempio, un'immagine retinica piccola può es-

Figura 5.1 Agli occhi di questa ragazza le due mani appaiono di uguale grandezza, nonostante che le immagini retiniche siano molto diverse a causa della diversa distanza delle mani dagli occhi. Per la macchina fotografica le immagini risultano diverse poiché la fotografia rispetta la legge della costanza dell'angolo.

sere prodotta da un oggetto piccolo e vicino, oppure da un oggetto grande ma lontano. Tuttavia nello spazio che ci circonda, così come lo vediamo, i vari oggetti ci appaiono a distanze diverse. Questo ci dice che l'informazione sulla distanza degli oggetti viene in qualche modo recuperata, così da risolvere l'ambiguità tra distanza e grandezza. È opportuno premettere che la nostra percezione della distanza segue due leggi diverse, una valida per distanze ravvicinate e l'altra per grandi distanze. Nell'ambito del mondo che ci circonda più da vicino, per distanze non superiori a una decina di metri, gli oggetti ci appaiono nella loro solidità, dislocati a diverse distanze da noi, e tuttavia conservano la loro grandezza apparente anche se la loro distanza cambia. Ad esempio, le nostre mani ci appaiono sempre all'incirca uguali anche quando sono a distanza diversa dai nostri occhi, addirittura quando una mano è a una distanza dagli occhi doppia rispetto all'altra, così che la sua immagine retinica è la metà di quella dell'altra mano. Questo spiega certi paradossi fotografici; le immagini fotografiche, come quelle retiniche, obbediscono infatti alla legge per cui la grandezza dell'immagine diminuisce proporzionalmente al crescere della distanza dell'oggetto (figura 5.1). Questa legge percettiva, che vale solo entro distanze moderate, è chiamata legge della costanza della grandezza, perché le dimensioni apparenti di un oggetto rimangono pressoché invariate quando l'oggetto si allontana o si avvicina da noi. Per distanze maggiori, la legge della costanza della grandezza non vale più, e si tende a percepire progressivamente più piccola l'immagine di un oggetto che si allontana. Si passa cioè a percepire la grandezza degli oggetti in relazione alle dimensioni della loro immagine retinica e quindi in relazione all'angolo visivo. Dalla legge della costanza della grandezza si passa alla legge della costanza dell'angolo. Qui la nostra percezione della distanza è in un certo senso indiretta, e deriva da quanto si vede più piccolo. Ciò contrasta con la percezione dello spazio che ci circonda più da vicino, dove la distanza viene percepita in modo «più diretto» e indipendentemente dalla grandezza degli oggetti, che in apparenza rimane invariata. Ad esempio, le persone non ci sembrano cambiare di dimensioni quando si muovono in una stanza, o quando attraversano una strada e passano all'altro marciapiede (legge della costanza della grandezza), mentre quando le guardiamo dai piani alti di una casa ci appaiono decisamente più piccole e tanto più piccole quanto più in alto saliamo (legge della costanza dell'angolo). La legge della costanza dell'angolo è in sostanza la legge della prospettiva lineare, secondo la quale le dimensioni degli oggetti vengono rappresentate proporzionalmente più piccole al crescere della loro distanza. È importante però tenere presente la diversità delle due leggi percettive per quanto riguarda la simulazione pittorica dello spazio tridi-

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mensionale. Se un pittore riproducesse oggetti a distanza ravvicinata seguendo le leggi della prospettiva lineare, cioè della costanza dell'angolo, obbedirebbe alle leggi geometriche, ma sarebbe in contrasto con le leggi della percezione visiva che in questo ambito di distanze obbedisce alla costanza della grandezza. Si creerebbero dei paradossi come quello riportato in figura 5.1. Domandiamoci ora quali informazioni contenute nelle immagini retiniche contribuiscono alla percezione della distanza. Alcune informazioni sono utili per la percezione assoluta della distanza, cioè della distanza di un oggetto da noi; altre contribuiscono solo alla percezione relativa della distanza, cioè a percepire un oggetto più vicino o più lontano di un altro. Degli indizi che conducono alla percezione della distanza e della profondità dell'oggetto, alcuni sono riproducibili pittoricamente e altri no.

Indizi non pittorici della profondità Vi sono due principali fonti di informazioni per la percezione della profondità degli oggetti e della loro distanza relativa (visione stereoscopica). Si tratta della visione binoculare e della parallasse da movimento. Questi due indizi, così importanti per la visione naturale dello spazio, non sono riproducibili pittoricamente. Visione binoculare della profondità. L'informazione è fornita dalla diversità delle immagini che si formano sulla retina dell'occhio destro e su quella dell'occhio sinistro quando guardiamo un oggetto solido oppure oggetti situati a distanze diverse. Quando si guardano due punti che si trovano di fronte a noi alla stessa distanza, le immagini dei due punti che si formano sulla retina dell'occhio destro sono tra loro separate quanto le immagini dei medesimi due punti sulla retina dell'occhio sinistro. Se invece si guardano due punti posti a distanze diverse, ad esempio il punto P, a sinistra, più vicino, e il punto Q, a destra, più distante, le immagini di P e Q sulla retina dell'occhio destro sono più distanti tra loro che non le immagini di P e Q nell'occhio sinistro (figura 5.2a). È proprio questa disparità delle immagini retiniche nei due occhi che dà al cervello le informazioni sulla diversa distanza da noi dei due punti. L'informazione derivata dalla disparità delle immagini retiniche è molto accurata e contribuisce in modo notevole al nostro senso stereoscopico della profondità degli oggetti. Essa però diviene meno efficace con l'aumentare della distanza e a più di un centinaio di metri il suo contributo alla percezione della profondità è praticamente trascurabile.

Figura 5.2 Disparità binoculare (a) e parallasse da movimento (b). (a) Il punto P è più vicino all'osservatore del punto Q. Le immagini dei due punti sulla retina dell'occhio sinistro (P' e Q') sono più vicine tra loro che non le immagini dei due punti sulla retina dell'occhio destro (P"e Q"). Quanto più il punto P è vicino all'osservatore rispetto al punto Q, tanto maggiore è la disparità delle immagini retiniche, cioè la differenza tra la distanza P'Q' e P"Q". (b) Un osservatore guarda due oggetti a diversa distanza da lui. Quando si trova nella posizione 1 vede la chiesa alla sinistra dell'albero; se si muove fino a trovarsi nella posizione 2 vede la chiesa alla destra dell'albero.

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Ci possiamo rendere conto della diversità delle immagini viste dai due occhi, nel caso di oggetti vicini, se teniamo in mano un oggetto solido e lo guardiamo alternativamente con un occhio o con l'altro, senza muovere la testa. Oppure mettendo di fronte a noi a diversa distanza due oggetti sottili in posizione verticale, ad esempio un dito della nostra mano e una matita, e guardandoli alternativamente con un occhio o con l'altro. Si osservi come cambiano le posizioni relative del dito e della matita a seconda dell'occhio con cui guardiamo. Il cambiamento della posizione relativa apparente dei due oggetti quando cambia il punto di osservazione si dice parallasse. Parallasse da movimento. Quando ci spostiamo lateralmente con la testa o col corpo, la posizione relativa degli oggetti posti a diverse distanze da noi cambia (figura 5.2b). Se ci spostiamo da sinistra verso destra, certi oggetti in primo piano, che ci appaiono inizialmente alla destra di altri più lontani, si spostano progressivamente rispetto ai più lontani, fino ad apparire alla loro sinistra. In modo analogo cambia durante il nostro movimento l'immagine retinica di un oggetto tridimensionale vicino a noi: ad esempio, un volto ci può apparire inizialmente di profilo, poi di fronte ecc. Queste diverse immagini dello stesso oggetto, che si susseguono nel tempo in conseguenza del movimento, costituiscono un'importante informazione per la ricostruzione percettiva della terza dimensione dell'oggetto. Sia l'informazione derivante dalla disparità delle immagini retiniche, sia la successione dinamica delle immagini prodotte dalla parallasse da movimento non possono nascere che da oggetti tridimensionali o da oggetti dislocati diversamente nello spazio; i loro effetti non sono quindi direttamente simulabili in una superficie come quella del quadro.

Indizi pittorici della profondità Vi sono altri indizi visivi per la percezione della profondità che prescindono sia dalla disparità binoculare, sia dagli effetti del movimento. Questi indizi, di cui ci si avvale anche quando si guarda con un solo occhio e in assenza di movimento, possono essere utilizzati pittoricamente per simulare la terza dimensione. Ne elenchiamo i principali.

Figura 5.3 Nella fotografia sono evidenti alcuni indizi pittorici di profondità: la convergenza delle rotaie, l'altezza relativa degli oggetti più lontani, la diminuizione progressiva di grandezza dei ciottoli (gtadiente di grandezza). Si noti che la convergenza dei binari crea un'illusione di grandezza: dei due rettangoli uguali, quello più lontano appare più grande (Illusione di Ponzo).

— Grandezza relativa. A distanze relativamente grandi la grandezza relativa di un'immagine dipende dalla sua distanza: diviene più piccola via via che l'oggetto si allontana. Per un oggetto di dimensioni note, la sua grandezza apparente è un indizio di distanza: ad esempio, un'automobile su una strada rettilinea ci appare tanto più lontana quanto più piccola la vediamo. — Convergenza apparente di rette parallele. La separazione orizzontale delle immagini retiniche di due rotaie è più grande per il tratto di binario più vicino e più piccola per i tratti di rotaia via via più lontani. Si verifica cioè una convergenza per le immagini di rette parallele che si allontanano dall'osservatore (figura 5.3). — Altezza rispetto all' orizzonte. Siccome i nostri occhi si trovano più in alto del terreno su cui noi poggiamo insieme a molti altri oggetti, ne risultano differenze nell'altezza delle immagini dei vari oggetti nel campo visivo: più un oggetto è lontano da noi, più alta è la sua immagine nel campo visivo (figura 5.3). — Gradienti. Una successione di oggetti tutti uguali tra loro (ad esempio delle mattonelle) e via via più lontani dà luogo a immagini retiniche di dimensioni regolarmente decrescenti, cioè a un gradiente di grandezza. Questo gradiente può produrre l'illusione di una superficie inclinata nel senso della profondità (figura 5.3). I quattro indizi pittorici che seguono sono determinati dalle proprietà geometriche dell'immagine retinica. Essi possono essere meglio compresi supponendo di proiettare, su un piano frontale rispetto all'osservatore, oggetti situati a varie distanze. Sono queste le regole della prospettiva lineare, di cui parleremo più avanti a proposito della pittura rinascimentale. — Sovrapposizione. Gli oggetti che coprono parzialmente altri oggetti ci appaiono più vicini (figura 5.4a). — Trasparenza. Un oggetto attraverso il quale ne traspare un altro ci appare più vicino del secondo (figura 5.4b). — Luce e ombre. Le ombre proiettate dagli oggetti possono essere un potente indizio di profondità (figura 5.4c).

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Figura 5.4 Indizi pittorici di profondità: (a) sovrapposizione; (b) trasparenza (da «Le Scienze», 71, 1974); (e) luci e ombre; (d) prospettiva aerea (Leonardo da Vinci, Sant'Anna con la Madonna e il Bambino, • particolare,1510. Parigi, Louvre).

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— Prospettiva aerea. Tra noi e gli oggetti distanti visibili in un panorama (colline, montagne ecc.) si interpone uno strato di atmosfera che dà luogo a un fenomeno di diffusione della luce. La diffusione atmosferica è più accentuata per le radiazioni di lunghezza d'onda corta, corrispondenti ai colori blu e violetto. (Questa è la ragione per cui il cielo diurno ci appare azzurro.) Le montagne lontane si vedono attraverso un velo azzurrino dovuto alla diffusione della luce. Questo rende le superfìci delle montagne più uniformi e i colori meno vividi, soprattutto nelle giornate non particolarmente limpide. La sfumatura dei contorni e l'attenuarsi dei colori costituiscono un indizio per la percezione della distanza (figura 5.4d), la cui applicazione alla pittura fu descritta con accuratezza già da Leonardo nei suoi consigli ai pittori. Nello Sposalizio della Vergine di Raffaello possiamo riconoscere molti degli indizi pittorici di profondità che abbiamo descritto (figura 5.5).

Figura 5.5 Raffaello Sanzio, Lo Sposalìzio della Vergine (1504). Milano, Pinacoteca di Brera. Si notino i numerosi indizi pittorici di profondità presenti nel quadro: la convergenza di rette parallele, la sovrapposizione delle figure in primo piano su quelle in secondo piano, l'altezza relativa degli oggetti più lontani, la grandezza relativa dei personaggi, la trasparenza attraverso la porta del tempio, le ombre proiettate dalle figure in primo piano, la prospettiva aerea nello sfondo.

Ambiguità nella percezione della distanza

Figura 5.6 Vincent van Gogh, Il Seminatore (1888). Zurigo, Stiftung Sammlung E.G. Biihrle. Si noti il grande disco, esempio dell'ingrandimento apparente degli astri all'orizzonte. Mandando al fratello Theo uno schizzo a penna di questo quadro il pittore lo descriveva così: "Voici croquis de ma dernière toile entrain encore un semeur. Immense disque citron comme soleil. Ciel vert jaune à nuages roses. Le terrain violet. Le semeur et l'arbre, bleu de Prusse".

La percezione della distanza degli oggetti, e più in generale la percezione tridimensionale dello spazio che ci circonda, dipende in un certo grado dalla maggiore o minore complessità della scena visiva, e quindi da quanti indizi sono disponibili per la percezione della profondità e da quanti oggetti si interpongono tra l'osservatore e l'oggetto fissato. Queste sono alcune delle ragioni alla base di un fenomeno percettivo che ha incuriosito i pensatori fin dall'antichità, la cosiddetta moon illusion. Questa illusione consiste nel fatto che la luna, così come il sole, appare assai più grande quando è in prossimità dell'orizzonte, cioè vicina a sorgere o a tramontare, che quando è alta nel cielo (figura 5.6). Varie spiegazioni sono state offerte per questa illusione. Una delle più plausibili è l'assenza di riferimenti per la distanza in una direzione alta nel cielo, mentre lungo il piano orizzontale sono usualmente presenti numerosi riferimenti (case, alberi ecc.) con l'effetto di dilatare la scala delle distanze e quindi di far apparire più grande l'oggetto celeste, a parità di angolo visivo. Questa stessa illusione fa sì che il cielo diurno, soprattutto in presenza di nuvole, non ci appaia come una superficie semisferica, bensì sia più o meno dilatato in senso orizzontale. Il cielo notturno invece, in assenza della luna, non subisce questa deformazione apparente e ci sembra quindi più sferico. Infatti, alla sola

luce delle stelle, i riferimenti di distanza lungo il piano orizzontale divengono pressoché invisibili. Altre ambiguità nella percezione della distanza si possono verificare o quando non sono note le dimensioni dell'oggetto percepito, oppure quando vengono occasionalmente a mancare certi indizi abituali. Così avviene ad esempio per quanto riguarda la prospettiva aerea: quando l'atmosfera è più limpida e quindi vi è una minore diffusione della luce, come dopo un temporale, le montagne ci appaiono più vicine. Al contrario la visione attraverso la nebbia fa apparire gli oggetti vicini assai più lontani di quanto non siano in realtà. Questa particolare ambiguità nella valutazione della distanza attraverso la nebbia può essere causa di incidenti stradali.

La rappresentazione della distanza nell'arte antica La rappresentazione pittorica dello spazio presenta sostanziali differenze da epoca a epoca e da cultura a cultura. Ogni epoca e ogni cultura privilegiano certi indizi e certe convenzioni di rappresentazione dello spazio rispetto ad altre. Faremo una breve carrellata di diverse epoche e culture a titolo di esempio. L'arte egizia pratica un montaggio ordinato di immagini parziali o "ideogrammi" per realizzare una figura singola o una figurazione storica o narrativa complessa. La composizione degli ideogrammi non riproduce fedelmente l'immagine di quella figura o di quella scena come sarebbe stata percepita, ma in qualche misura si riferisce ad essa e la richiama secondo un codice convenzionale.

Figura 5.7 Proiezione centrale di una figura piana su un altro piano parallelo a quello della figura. La figura e la sua proiezione sono simili, (da Pirenne, 1970).

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Figura 5.8 Stele egizia rappresentante una donna che si trucca (XI dinastia, 2055-1991 a.C). Londra, Brìtish Museum.

Figura 5.9 (a) Composizione pittorica del Nuovo Regno. Tebe, tomba privata, (b) Ricostruzione della scena «reale» della figura precedente, (da Gioseffi, 1971).

Osserviamo che quando si proietta una figura piana da un centro di proiezione su un piano parallelo a quello della figura, la figura proiettata è geometricamente simile a quella originale, cioè ha la stessa forma (figura 5.7). Gli Egiziani disegnavano i particolari degli oggetti e delle persone come apparirebbero se proiettati su un piano frontale. Poi ricomponevano questi elementi uno per uno, nel piano della figura, senza tener conto dell'orientamento che ognuno di essi aveva nello spazio. Ciò risultava tra l'altro nel fatto ben noto che in una testa umana vista di profilo, l'occhio era invece rappresentato di fronte. Questa modalità di rappresentazione adottata dalla pittura egiziana può sembrare strana ai nostri occhi; tuttavia essa ha il vantaggio di rappresentare in modo non ambiguo la forma degli oggetti così come li vedremmo guardandoli di fronte, come è il caso dello specchio in figura 5.8, che ha forma circolare e non ellittica. Nel caso di scene più complesse sembra che gli egiziani usassero due convenzioni per rappresentare la successione spaziale nel senso della profondità delle figure umane o di animali (Gioseffi, 1971). Queste sono il dislocamento orizzontale e il dislocamento verticale. E cioè: ciò che è accanto si intende dietro (dislocamento orizzontale), ciò che è sopra si intende dietro (dislocamento verticale). Il dipinto di una tomba di Tebe del Nuovo Regno che rappresenta due file orizzontali di figure umane una più in alto dell'altra (figura 5.9a) potrebbe essere interpetrato secondo le convenzioni del dislocamento, come illustrato in figura 5.9b. Il dislocamento orizzontale rimarrebbe ambiguo, se non fosse introdotta una parziale sovrapposizione di una figura sull'altra, così da assegnare una direzione alla profondità. Queste convenzioni usate dagli egiziani si rifanno a due degli indizi

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Figura 5.10 Pittura parietale ellenistico-romana con prospettiva architettonica. Roma, Palatino, casa di età augustea, parete occidentale della "Stanza delle maschere".

di profondità che abbiamo sopra descritto: quello della sovrapposizione e quello dell'altezza. Della proprietà della visione per cui ci appare più piccolo un oggetto che si allontana da noi erano certamente consapevoli anche gli antichi egiziani e i loro contemporanei, benché non se ne trovi rappresentazione nelle loro espressioni figurative. Infatti, nelle tavolette cuneiformi del re assiro Assurbanipal si narra la leggenda di Etana che fu portato da un'aquila verso il trono della dea Ishtar (668-628 a.C.) e vi si dice che Etana "vide la terra diventare sempre più piccola" mentre saliva verso il cielo (Schàfer, 1963). Rappresentazioni figurative che tengono conto in qualche misura delle regole prospettiche si trovano per la prima volta nell'arte greca. Tracce di scorci di figure umane sono presenti nei vasi dipinti della fine del VI sec. e nel periodo greco classico. Nell'unica testimonianza attendibile della grande pittura greca che ci è pervenuta e cioè il mosaico della battaglia di Alessandro e Dario proveniente da Pompei, (che si ritiene essere una copia di un famoso dipinto di Filosseno di Eretria del 300 a.C.) la rappresentazione dello spazio è assai più naturalistica che non nell'arte egizia.

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Effetti illusionistici di profondità sono anche molto numerosi nella pittura romana, probabilmente in gran parte di ispirazione greca, e di cui l'esempio più noto è la "Stanza delle maschere" di una casa romana di età augustea sul Palatino (figura 5.10). Qui le architetture sono rappresentate con chiari effetti prospettici. Un altro indizio pittorico di profondità largamente usato in epoca classica sono le ombre. Nell'epoca bizantina, la rappresentazione spaziale diviene sempre meno rilevante, la solidità dei corpi si attenua accentuando la spiritualità della figura, e nonostante che alcuni indizi spaziali come quello della sovrapposizione vengano ancora utilizzati, le scene rappresentate si appiattiscono scostandosi notevolmente dalla visione naturale.

La rappresentazione dello spazio nel Trecento È solo verso la fine del Medioevo che l'interesse per la rappresentazione dello spazio riaffiora prepotentemente. Appaiono i primi segni di uno spazio tridimensionale che si evolveranno via, via, con un cammino progressivo fino alla innovazione della prospettiva rinascimentale. In questo contesto un'opera di particolare interesse, tra le numerose sull'argomento, è il libro di John White, che ha il titolo ben indovinato di The Birth and Rebirth ofPictorial Space. Questo libro ripercorre sapientemente le varie tappe che portarono alla rinascita delle leggi prospettiche. L'autore fa osservare che in tutte le arti primitive, la più semplice rappresentazione pittorica di un solido, come un edificio, consiste nel presentare solo un faccia di esso, vista di fronte, operazione che ne preserva intatta la forma. Quando l'informazione data da una sola faccia di un edificio si ritiene insufficiente, se ne presentano due consecutive, ma entrambe rappresentate di fronte come fossero le pagine di un libro aperto. In seguito si arriva alla rappresentazione di fronte di una delle due facce e di scorcio dell'altra. Successivamente, come avviene nella pittura del trecento senese, e anche nella pittura di Giotto, viene portato in primo piano lo spigolo tra le due facce, che vengono entrambe presentate in scorcio. Si veda ad esempio L'incontro di Gioacchino e Anna alla porta Aurea nella cappella degli Scrovegni con la presentazione in scorcio dei contrafforti laterali ai due lati della porta (figura 5.11). Con questi tentativi siamo ormai vicini alla prospettiva vera e propria. Nella pittura del tardo Medioevo la proiezione frontale e soprattutto quella frontale e di scorcio si ritrova, ad esempio nei dipinti di Cimabue. Nella figura 5.12a è riportata una pianta degli edifici rappresentati in un s

Figura 5.11 Giotto, L'incontro di Gioacchino e Anna alla Porta Aurea. Padova, Cappella degli Scrovegni.

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w Figura 5.12 Schemi delle pianta di composizioni architettoniche in dipinti del 300. (a) Schema di pianta tipica di Cimabue, presente ad esempio nell'affresco della chiesa superiore di Assisi (San Pietro che guarisce lo storpio). (b) Schema usato dai pittori della fine del XIII e inizio del XIV secolo, (e) Schema di pianta nel Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti. (da White, 1972).

affresco della chiesa superiore di Assisi: San Pietro che guarisce lo storpio. Vi sono tre edifici, ciascuno con proiezione frontale e di scorcio. Questa rappresentazione corrisponde a quello che uno osservatore vedrebbe da tre posizioni diverse, come se si muovesse lungo la scena rappresentata dal dipinto, guardandola successivamente dai tre punti indicati dalle frecce. Scorrendo sulle pareti della chiesa superiore di Assisi la serie degli affreschi giotteschi o degli aiuti, si può notare come si affini progressivamente l'arte di mostrare il miracolo della terza dimensione. Nel cosiddetto «scorcio obliquo» la proiezione frontale viene abbandonata e i punti di vista si avvicinano (figura 5.12b) ; gli edifici vengono aggiunti agli edifici per dare il senso della maggiore profondità. Nella cappella degli Scrovegni ben il 70% degli edifici è rappresentato in scorcio obliquo. Oltre che in Giotto, lo scorcio obliquo si trova nei pittori senesi e negli allievi di Giotto fino ai primi decenni del Quattrocento. I Lorenzetti furono maestri nel rappresentare la profondità, usando nuovi ed eleganti indizi pittorici. Nella figura 5.12c si osserva lo schema della planimetria del Buon Governo, l'affresco di Ambrogio Lorenzetti del 1339 nel palazzo comunale di Siena (figura 5.13). Qui si assume che l'osservatore sia fermo davanti alla scena rappresentata, ma che giri la testa o gli occhi per guardare in tre direzioni diverse, a cui corrispondono tre scorci separati: "la danza" al centro, con la strada che entra nel cuore della città, "i cavalieri"che escono dalla città sulla sinistra e "uomini e

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