Arnold Hauser - Storia Sociale Dell'Arte - Vol 4

April 6, 2017 | Author: Athanasius78 | Category: N/A
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Storia sociale dell’arte

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di Arnold Hauser

Storia dell’arte Einaudi

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Edizione di riferimento:

Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume terzo. Rococò Neoclassicismo Romanticismo e Volume quarto. Arte moderna e contemporanea, trad. it. di Anna Bovero, Einaudi, Torino 1956 e 1987 Titolo originale:

Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck, München

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Indice

ROCOCÒ NEOCLASSICISMO ROMANTICISMO VI.

Il Romanticismo in Germania e nell’Europa occidentale

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ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA I.

La generazione del 1830

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II.

Il Secondo Impero

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III.

Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia

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IV.

L’impressionismo

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Capitolo sesto Il Romanticismo in Germania e nell’Europa occidentale

Il liberalismo ottocentesco identificò il romanticismo con la Restaurazione e la reazione. Questa connessione, anche se non mancava di qualche legittimità, specie per quel che riguarda la Germania, finí per provocare, in generale, un’errata visione storica. Questa poté essere rettificata soltanto quando si cominciò a distinguere tra il romanticismo tedesco e quello dell’Europa occidentale, riconducendo il primo a tendenze reazionarie, il secondo a tendenze progressiste. Il quadro che ne derivò, benché ancora semplicistico per molti aspetti, risultò assai piú vicino al vero, poiché, politicamente, né l’una né l’altra forma di romanticismo furono chiare e coerenti. Piú tardi infine, con piú aderenza alla realtà, si distinsero nel romanticismo tedesco, come in quello francese e in quello inglese, una fase primitiva e una piú tarda, una prima e una seconda generazione. Si constatò che in Germania e nell’Occidente europeo lo sviluppo seguiva direzioni diverse e che il romanticismo tedesco da inizi rivoluzionari si svolgeva poi in senso reazionario, mentre quello dell’Europa occidentale da posizioni legittimistiche e conservatrici si accostava progressivamente al liberalismo. Il quadro era esatto, ma piuttosto infruttuoso per una determinazione del concetto di romanticismo. Infatti il movimento romantico ebbe questo di caratteristico, che in sé non rappresentava una

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ideologia rivoluzionaria o conservatrice, progressista o reazionaria, ma all’una o all’altra di queste posizioni giungeva per una via irreale, irrazionale, non dialettica. La passione rivoluzionaria restava nel romanticismo qualcosa di estraneo al mondo, esattamente come l’opposto atteggiamento conservatore; l’entusiasmo per «la Rivoluzione, Fichte e il Wilhelm Meister di Goethe» era in esso atteggiamento tanto ingenuo, tanto lontano dalla conoscenza delle vere forze motrici dell’evoluzione, quanto il fanatismo per la Chiesa e il Trono, la cavalleria e il feudalesimo. Dappertutto vi furono romantici rivoluzionari e altri devoti all’antico regime e alla Restaurazione. Danton e Robespierre furono astratti dogmatici quanto Chateaubriand e De Maistre, Görres e Adam Müller. Friedrich Schlegel fu un romantico da giovane, quando si esaltava per Fichte, il Wilhelm Meister e la Rivoluzione, come da vecchio, quando applaudiva Metternich e la Santa Alleanza. Quanto a Metternich, non era un romantico, benché tradizionalista e conservatore; egli lasciò ai letterati il compito di elaborare il mito dello storicismo, del legittimismo e del clericalismo. È un realista chi sa quando lotta per i propri interessi e quando fa concessioni agli interessi altrui; ed è un dialettico chi riconosce che ogni situazione storica comporta un complesso di motivi e di impegni che non si possono eludere. Il romantico, pur con tutta la sua comprensione del passato, ignora la storicità e la dialettica del presente; non capisce ch’esso sta fra passato e futuro e presenta un insolubile contrasto di elementi statici e dinamici. La definizione di Goethe per cui il romanticismo incarna il principio della malattia – un giudizio che, cosí com’era inteso, difficilmente era accettabile – alla luce della recente psicologia acquista un senso nuovo e riceve una nuova conferma. Infatti, se effettivamente il romanticismo vede solo un lato di una situazione piena

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di tensioni e di contrasti, se non considera che un solo fattore della dialettica storica, accentuandolo a spese dell’altro, se infine mostra una tale unilateralità, una reazione cosí esagerata, una mancanza di equilibrio psichico, si ha ragione di chiamarlo «morboso». Infatti, perché esagerare e svisare le cose, se non ne siamo turbati, impauriti? «Things and actions are what they are, and the consequences of them will be what they will be; why then should we wish to be deceived?» [«Cose e azioni son quel che sono, e le loro conseguenze saranno quel che saranno; a che dunque volersi illudere?»], domanda il vescovo Butler, caratterizzando cosí nel miglior modo il sereno e «sano» realismo settecentesco, alieno da ogni illusione1. Da questo punto di vista il Romanticismo appare sempre una menzogna, un autoinganno che, come dice Nietzsche a proposito di Wagner, «non vuol sentire i contrasti come contrasti» e afferma a gran voce proprio quello di cui dubita di piú. La fuga nel passato non è la sola forma dell’irrealismo e dell’illusionismo romantico; c’è anche una fuga nel futuro, nell’utopia. Quello a cui si aggrappa il romantico è, in ultima analisi, senza importanza; quel che importa è la sua paura del presente, dell’imminente cataclisma. Il romanticismo improntò di sé tutta un’epoca, e ne ebbe chiara coscienza2. Esso costituí una delle piú importanti svolte nella storia dello spirito occidentale, e di questa sua funzione storica fu pienamente consapevole. Dall’età gotica in poi lo sviluppo della sensibilità mai aveva subito impulso piú energico, e il diritto dell’artista a seguire la voce del suo sentimento e della sua natura non era mai stato accentuato con tale risolutezza. Il razionalismo, che a cominciare dal Rinascimento aveva senza soste guadagnato terreno, raggiungendo nell’età dei lumi una validità universale in tutto il mondo civile, conobbe il piú grave scacco della sua storia. Dopo la fine del trascendentalismo e del tradi-

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zionalismo medievale mai era accaduto che si parlasse con tanto disprezzo della ragione, della vigile e misurata intelligenza, della volontà e della facoltà di dominarsi. «Those who restrain desire do so because theirs is weak enough to be restrained» [«Coloro che frenano il desiderio, cosí fanno perché il loro è abbastanza fiacco per essere frenato»], dice persino Blake, che pure certamente non approvava lo sfrenato sentimentalismo di un Wordsworth. Se come principio della scienza e della pratica il razionalismo ha potuto presto riaversi dagli attacchi romantici, l’arte occidentale è però rimasta «romantica». Il romanticismo non è stato soltanto un generale movimento europeo, che l’una dopo l’altra ha conquistato tutte le nazioni, creando infine quell’universale linguaggio letterario, comprensibile in Russia e in Polonia come in Francia e in Inghilterra: al pari del naturalismo dell’età gotica e del classicismo del Rinascimento, esso si è rivelato uno di quei movimenti che rimangono come fattori costanti dell’evoluzione storica. Effettivamente non c’è prodotto dell’arte moderna, né impulso sentimentale, né impressione o stato d’animo dell’uomo della nostra epoca, che non debba la sua sottigliezza e ricchezza di sfumature a quell’eccitabilità che nel romanticismo ha la sua prima origine. E ad esso risalgono tutta l’esuberanza, l’anarchia e la violenza dell’arte moderna, il suo ebbro e balbettante lirismo, l’esibizionismo senza freno né riguardo. E questo atteggiamento soggettivo, egocentrico, è diventato per noi cosí naturale, cosí inevitabile, che non possiamo neppure esporre un astratto sviluppo di idee senza parlare delle nostre sensazioni3. La passione intellettuale, il pathos della ragione, la fecondità artistica del razionalismo sono cosí completamente caduti in oblio, che anche l’arte classica la possiamo intendere soltanto come espressione di un sentimento romantico. «Seuls les romantiques savent lire les ouvrages classiques,

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parce qu’ils les lisent comme ils ont été ecrits, romantiquement» [«Solo i romantici san leggere le opere classiche, perché le leggono come sono state scritte, romanticamente»], dice Marcel Proust4. Artisticamente tutto l’Ottocento dipende dal romanticismo, ma questo a sua volta era un prodotto del Settecento, e non aveva mai perduto la coscienza del suo carattere di transizione e della sua problematica posizione storica. L’Occidente conobbe molte altre crisi, analoghe e piú gravi, ma non ebbe mai cosí vivo il senso di trovarsi a una svolta della storia. Certo non era la prima volta che una generazione assumeva un atteggiamento critico di fronte al proprio tempo e rifiutava le forme tradizionali della cultura, perché in esse non poteva esprimere il proprio mondo spirituale. Anche in epoche anteriori era accaduto che si avesse il senso di un invecchiamento e si desiderasse un generale rinnovamento, ma nessuno aveva mai pensato di porre in dubbio il significato e la ragion d’essere della propria civiltà, chiedendosi se veramente si potesse giustificare la particolare fisionomia e se rappresentasse un elemento necessario nel complesso della civiltà umana. Il senso romantico di un risorgimento non era certo cosa nuova; la Rinascita l’aveva ben conosciuto e già il Medioevo era stato agitato da pensieri di rinnovamento e fantasie di resurrezione, il cui oggetto era l’antica Roma. Ma nessuna generazione ebbe mai cosí forte il senso di essere erede e discendente, né cosí netto il desiderio di restaurare e richiamare a nuova vita tempi remoti e una perduta civiltà. Il romanticismo cerca continuamente nella storia reminiscenze e analogie e trova il piú forte stimolo in ideali, che crede già attuati nel passato. Ma il suo rapporto con il Medioevo è alquanto diverso da quello del neoclassicismo con l’antichità: il neoclassicismo vede nei Greci e nei Romani semplicemente un esempio, il romanticismo invece conserva sempre il senso del «déjà

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vécu». Esso ricorda le età remote come una preesistenza. Questo sentimento per altro non prova affatto che romanticismo e Medioevo fossero piú affini tra loro di quanto fossero antichità e neoclassicismo, anzi prova il contrario. «Quando un benedettino studiava il Medioevo, – si dice in una recente, acuta analisi del romanticismo, – non si domandava a che cosa questo gli servisse e se nel Medioevo si vivesse piú felici e piú vicini a Dio. Poiché egli stesso si trovava ancora nell’ambito di quella fede e di quell’organizzazione ecclesiastica fondamentali per il Medioevo, di fronte alla religione poteva esser miglior critico di un romantico, che si trovava a vivere in un secolo rivoluzionario, in cui ogni fede era scossa e tutto posto in discussione»5. Non si può disconoscere che nell’esperienza storica dei romantici si esprima un morboso timore del presente e un tentativo di evasione. Ma non ci fu mai psicosi piú feconda. Ad essa i romantici debbono la loro sottigliezza e chiaroveggenza di fronte alla storia, la loro sensibilità nel cogliere le piú remote analogie, nel tentare le piú difficili interpretazioni. Senza questa iperestesia, il romanticismo non sarebbe riuscito a stabilire i grandi nessi nella storia dello spirito, a definire la civiltà moderna di fronte all’antica, a riconoscere nel cristianesimo la gran cesura della storia occidentale e a scoprire il comune carattere «romantico» delle civiltà derivate dal cristianesimo, individualistiche, riflesse, piene di problemi. Senza la coscienza del proprio tempo cosí viva nei romantici, senza il continuo problema del presente che domina il loro pensiero, tutto lo storicismo dell’Ottocento sarebbe inconcepibile, e con esso una delle piú profonde rivoluzioni nella storia dello spirito. Fino all’età romantica, nonostante Eraclito e i sofisti, il nominalismo scolastico e il naturalismo rinascimentale, il dinamismo dell’economia capitalistica e i progressi della critica storica nel Settecento, l’Occidente ebbe del

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mondo un’immagine sostanzialmente statica, parmenidea, astorica. I fattori determinanti della civiltà umana, i principî razionali dell’ordinamento naturale e soprannaturale, le leggi morali e logiche, l’idea della verità e del diritto, il destino dell’uomo e il fine delle istituzioni sociali furono, in fondo, concepiti come qualcosa di essenzialmente chiaro e immutabile nel suo significato, eterne entelechie, o idee innate. Rispetto alla stabilità di questi principî, ogni mutamento, ogni sviluppo e differenziazione apparivano irrilevanti ed effimeri; tutto quel che si svolgeva nei tempi storici pareva non toccare che la superficie delle cose. Solo a partire dalla Rivoluzione e dall’età romantica si cominciò a sentire la natura dell’uomo e della società come essenzialmente dinamica e in continua evoluzione. La concezione che noi e la nostra civiltà siamo coinvolti in un eterno fluire e in una lotta senza fine, il pensiero che la nostra vita spirituale ha il carattere transitorio di un processo, è una scoperta del romanticismo e ne costituisce il piú valido contributo al pensiero del nostro tempo. È noto che il «senso storico» già nell’età preromantica non solo era vivo e vigile, ma agiva come una forza motrice dell’evoluzione. E l’illuminismo, che produsse storici quali Montesquieu, Hume, Gibbon, Vico, Winckelmann e Herder, non solo oppose alla rivelazione l’origine storica dei valori civili, ma anche presenti la relatività di questi stessi valori. Era certo un pensiero corrente per l’estetica del tempo che ci fossero piú tipi equivalenti di bellezza e che il concetto stesso di bellezza fosse variabile come variabili erano gli aspetti della vita, insomma che fosse vero che «un dio cinese ha il ventre grosso come quello di un mandarino»6. Tuttavia la concezione storica dell’illuminismo rimane legata all’idea base che nella storia si dispieghi una ragione sempre identica a se stessa, in un processo che tende a una meta sicura, discernibile fin dagli inizi. Il Settecento dunque

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non fu antistorico, perché indifferente alla storia o ignaro del carattere storico della civiltà umana, ma perché fraintese la natura del divenire, immaginandolo come un processo continuo e rettilineo7. Friedrich Schlegel è il primo a riconoscere che i rapporti storici non sono di natura logica, e Novalis il primo a sottolineare che «la filosofia è radicalmente antistorica». Ma soprattutto la consapevolezza che esiste qualcosa come un destino storico e che «noi siamo quelli che siamo, perché guardiamo indietro a un tal passato», è una conquista dell’età romantica. Pensieri di questa specie e lo storicismo che essi riflettono erano lontanissimi dall’illuminismo. L’idea che la natura dello spirito umano, delle istituzioni politiche, del diritto, del linguaggio, della religione e dell’arte si possa comprendere solo attraverso la loro storia e che il processo storico rappresenti la sfera in cui tali creazioni appaiono nel modo piú diretto, piú puro e piú reale, sarebbe stata semplicemente inconcepibile prima del romanticismo. Ma dove menasse lo storicismo risulta forse nel modo piú chiaro dalla formula acutamente paradossale di Ortega y Gasset: «L’uomo non ha una natura, ha solo una storia»8. Sulle prime non suona incoraggiante; tuttavia anche qui, come sempre nel movimento romantico, si tratta di un atteggiamento ambivalente: ottimismo e pessimismo, attivismo e fatalismo possono ugualmente richiamarvisi. Insieme con l’arte ermeneutica, la prontezza a cogliere i nessi storici, la sensibilità per tutto ciò che nella storia è problematico e suscettibile di diversa valutazione, abbiamo ereditato dal romanticismo anche la mistica del concetto, la sua tendenza a personificare e mitologizzare, le forze storiche; in altre parole, l’idea che i fenomeni storici non siano altro che le funzioni, le manifestazioni e le incarnazioni di principî autonomi. Per questo modo di pensare è stata escogitata la formula molto calzante ed espressiva di «logica emanatistica»9

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con la quale si coglie non solo l’astratta concezione storica, ma anche l’inconscia metafisica spesso implicita in un tal metodo. Secondo questa logica la storia appare come una sfera dominata da potenze anonime, un substrato di idee sublimi che solo incompiutamente si esprimono nei singoli fenomeni storici. E questa metafisica platonica si manifesta non solo nelle teorie romantiche ormai superate dello spirito popolare, dell’epos popolare, delle letterature nazionali e dell’arte cristiana, ma ancora nel concetto dell’«intento artistico» (Kunstwollen). Infatti anche Riegl è in certa misura ancora affascinato dalla mistica del concetto e dalla visione pneumatica della storia propria del romanticismo. Egli immagina l’intento artistico di un’epoca come una persona che agisce e realizza il suo proposito spesso contro la piú energica opposizione, e talvolta riesce a farsi strada senza che i suoi esponenti ne abbiano coscienza, anzi addirittura contro la loro volontà. Negli scritti di Riegl gli stili ci appaiono come individui a sé stanti, inconfondibili e incomparabili, che vivono, muoiono e, soccombendo, vengono sostituiti da altri stili ugualmente individuali. La storia dell’arte, come, coesistenza e successione di tali fenomeni stilistici che richiedono di essere giudicati ognuno secondo una loro propria misura, e hanno il loro valore nella loro stessa individualità, è in certo modo il piú puro esempio della concezione romantica della storia, che personifica le forze storiche. In realtà le creazioni piú importanti e piú vaste dello spirito umano non risultano quasi mai da una simile evoluzione, che fin dall’inizio procede rettilinea verso un fine prestabilito. L’epos omerico e la tragedia attica, l’architettura gotica e il teatro shakespeariano non sono certo l’esplicazione di un intento artistico netto e coerente, ma il casuale prodotto di esigenze specifiche, determinate dal tempo e dal luogo, e di una serie di mezzi preesistenti, spesso sostanzialmente estranei e

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inadeguati. Sono, in altre parole, il prodotto di graduali innovazioni tecniche che spesso possono deviare dal disegno originario, e altrettanto spesso avvicinarvisi, di effimeri motivi occasionali, di trovate improvvise, d’esperienze personali che a volte non hanno alcun rapporto con il vero compito dell’artista. La teoria dell’«intento artistico» ipostatizza come idea determinante il risultato ultimo di questa evoluzione, che in sé è tutta discontinua ed eterogenea. Ma anche la teoria della «storia dell’arte senza nomi», proprio perché elimina le personalità reali come fattori determinanti dell’evoluzione, non è che una forma di quella metafisica che conferisce al concetto una realtà e personifica le forze storiche. In essa la storia dell’arte diventa un processo che si svolge secondo un suo intimo principio vitale e non tollera l’affermarsi dell’autonoma personalità artistica, come un organismo animale non tollererebbe l’emancipazione dei singoli organi. A posizioni analoghe si può giungere infine anche col materialismo storico. Se con esso semplicemente si intende che nelle varie creazioni dello spirito non si esprimono se non i caratteri propri dei mezzi di produzione di ogni epoca e si vuol significare che la realtà economica esercita nella storia un dominio non meno assoluto di quello dell’«intento artistico» o dell’«immanente legge formale» dell’idealismo, è chiaro che in questo caso non si fa che romanticizzare e semplificare il processo storico, in realtà assai piú complesso; in altre parole si riduce anche la concezione materialistica della storia a una variante della logica emanatistica. Il vero senso del materialismo storico, e in questo esso costituisce il progresso piú significativo della storiografia dal romanticismo in poi, sta piuttosto nell’intuizione che la storia non nasce da principî formali, da idee, da entità, cioè non da sostanze che nel processo storico si dispieghino attraverso semplici «modificazioni» della loro natura fondamentalmente astorica; ma

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che invece lo sviluppo storico costituisce un processo dialettico in cui ogni fattore è fluido, soggetto a continue trasformazioni. In esso nulla è statico, nulla eternamente valido e neppure volto a un effetto unilaterale, ma tutti i fattori, materiali e spirituali, ideali ed economici, sono inscindibilmente interdipendenti, e, per quanto lontano si risalga nel tempo, non è dato trovare situazione storicamente definibile che già non risulti da un tal reciproco influsso di fattori. Anche l’economia piú primitiva è già organizzata; ciò non toglie che la nostra analisi debba partire dalle premesse materiali che – a differenza di quanto avviene per le forme dell’organizzazione intellettuale – sono dati autonomi e comprensibili in sé. Legato a un orientamento completamente nuovo della civiltà, lo storicismo è il risultato di un profondo mutamento dell’esistenza e risponde al sovvertimento che ha scosso le basi della società. La rivoluzione politica aveva abolito le antiche barriere fra le classi, la rivoluzione economica aveva reso la vita di gran lunga piú instabile. Il romanticismo fu l’ideologia della nuova società ed espresse l’animo di una generazione che non credeva piú a valori assoluti, e non avrebbe ormai accettato alcun valore senza ricordarsi della sua relatività, del suo limite storico. Questa generazione vedeva tutto legato a premesse storiche poiché si trovava a vivere tra il tramonto dell’antica civiltà e la nascita della nuova e di questo trapasso storico era partecipe come del suo proprio destino. Cosí profonda era nell’epoca romantica la consapevolezza della storicità in tutta la vita sociale, che anche i ceti conservatori, quando vollero dare un fondamento ai loro privilegi, seppero addurre ormai solo argomenti storici e per sostenere le loro pretese non poterono che vantare antiche, profonde radici nella storia della civiltà nazionale. Ma, contrariamente a quanto piú volte è stato detto, la visione storicistica non fu

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creata dai conservatori; questi non fecero che appropriarsela svolgendola poi in un senso tutto particolare, opposto a quello originario. La borghesia progressista vedeva nell’origine storica delle istituzioni sociali una prova contro il loro valore assoluto; i ceti conservatori, invece, che per fondare i loro privilegi non potevano che appellarsi ai «diritti storici», all’antichità e alla priorità, diedero allo storicismo un nuovo senso: velarono il contrasto tra storicità e validità sovratemporale, ma in cambio istituirono una sorta di opposizione fra il prodotto della evoluzione storica, cresciuto e affermatosi lentamente, e l’atto di volontà spontaneo, razionale, riformatore. In questo modo all’antica opposizione tra il tempo e l’eterno, la storia e l’assoluto, si sostituiva quella tra il «divenire organico» e l’arbitrio individuale. La storia diventa il rifugio di tutti gli elementi in rotta col presente, minacciati nella loro esistenza materiale o spirituale; e prima di tutti degli intellettuali, che ora non solo in Germania, ma anche nei paesi dell’Occidente europeo si sentono frustrati nelle loro speranze e defraudati dei loro diritti. L’esclusione da ogni efficacia politica, che finora era stata propria dell’intellettuale tedesco, ora diviene sorte comune degli intellettuali anche nell’Occidente. L’illuminismo e la Rivoluzione avevano incoraggiato l’individuo a speranze smisurate; essi sembravano garantire l’illimitato dominio della ragione, e l’assoluta autorità dei poeti e dei pensatori. Nel Settecento gli scrittori erano le guide spirituali dell’Occidente; costituivano l’elemento dinamico che dava vita alle tendenze riformatrici e incarnavano quell’ideale della personalità a cui tendevano i ceti progressisti. Le cose cambiarono con il concludersi della Rivoluzione. Ad essi fu imputata di volta in volta la responsabilità ora del troppo ora del troppo poco che la Rivoluzione aveva potuto cambiare, e in questo tempo di ristagno e di confusione non poterono conservare il

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loro prestigio. La soddisfazione morale dei «filosofi» settecenteschi rimase loro ignota, anche se erano d’accordo con la reazione e la servivano lealmente. Ma i piú tra loro si vedevano completamente esautorati e si sentivano superflui. Cosí si volsero al passato, in cui cercavano l’adempimento dei loro desideri e dei loro sogni, e da cui eliminavano ogni tensione fra idea e realtà, io e mondo, individuo e società. «Nelle sofferenze della vita ha radice il romanticismo, e cosí si troverà tanto piú romantico ed elegiaco un popolo, quanto piú infelice è il suo stato», dice un critico liberale del romanticismo tedesco10. I tedeschi erano certo il piú infelice popolo d’Europa; ma dopo la Rivoluzione ben presto nessun popolo dell’Occidente, o almeno gli intellettuali di nessun popolo poterono sentirsi protetti e sicuri nel proprio paese. E proprio il senso dell’esilio e della solitudine fu l’esperienza cruciale della nuova generazione, che ne ebbe cosí determinata in modo durevole tutta la visione del mondo. Tale senso di solitudine assunse innumerevoli forme, e trovò la sua espressione in tutta una serie di tentativi d’evasione, dei quali il ritorno al passato fu il piú tipico. La fuga nell’utopia e nella favola, nell’inconscio e nell’immaginario, nel sinistro e nel misterioso, il volgersi all’infanzia e alla natura, al sogno e alla follia, non erano che forme mascherate e piú o meno sublimate di uno stesso sentimento, della medesima aspirazione all’irresponsabilità e all’assenza del dolore; tentativi cioè di evasione in quel caos e in quell’anarchia contro cui il classicismo del Sei e del Settecento aveva combattuto ora con tono aspro e preoccupato, ora con spirito e con grazia, ma sempre con la stessa risolutezza. Il classicista si sentiva signore della realtà; consentiva a lasciarsi imporre delle regole, perché egli sapeva imporle a se stesso e credeva che la vita potesse essere regolata. Il romantico invece respingeva ogni vincolo esteriore, era incapace di impegnarsi e si sentiva iner-

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me in balia della soverchiante realtà, che perciò spregiava e, a un tempo, divinizzava. Di fronte ad essa si comportava con prepotenza oppure le si abbandonava ciecamente e senza resistenza, ma restava inesorabilmente conscio della propria inferiorità. Ogni volta che i romantici analizzano la loro visione dell’arte e della vita, s’insinua nelle loro frasi la parola nostalgia o l’idea dell’esilio. Novalis definisce la filosofia come «nostalgia», come «l’ansia, dovunque, di essere a casa», e la favola come un sogno «di quel paese natio che è dappertutto e in nessun luogo». In Schiller egli esalta «il senso della patria che non è di questa terra» e Schiller a sua volta chiama i romantici «esuli, che anelano alla patria». Perciò essi parlano tanto di vagabondaggio senza meta né fine, del «fiore azzurro» che è irraggiungibile e tale deve restare, della solitudine che si cerca e si fugge, dell’infinito che è tutto e nulla. «Mon cœur désire tout, il veut tout, il contient tout. Que mettre à la place de cet infini qu’exige ma pensée?» [«Il mio cuore desidera tutto, vuole tutto, contiene tutto. Che cosa sostituire a quell’infinito che il mio pensiero esige?»] si dice nell’Obermann di Senancour. Ma è evidente che quel «tout» non contiene nulla, e quell’«infini» non si trova in nessun luogo. Nostalgia e amor di terra lontana: ecco i sentimenti che si contendono l’anima romantica; essa disprezza ciò che è vicino, soffre del suo isolamento fra gli uomini, ma li evita e cerca assiduamente quel che è lontano e ignoto. Soffre perché estraniata dal mondo, ma afferma e vuole questa sua condizione. Per Novalis la poesia romantica è questo: «l’arte di suscitare un piacevole stupore, di fare un oggetto strano, e pure noto e attraente»; per lui tutto diventa romantico e poetico «se lo si allontana», tutto può diventarlo se «si dà al consueto un aspetto misterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un senso infinito». La «dignità dell’ignoto»: ancora una

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generazione prima, anzi ancora pochi anni prima, quale uomo ragionevole avrebbe detto una simile assurdità? Si parlava della dignità della ragione, della conoscenza, del buon senso, del saggio e freddo realismo, ma la – «dignità dell’ignoto» a chi sarebbe mai venuta in mente? L’ignoto, si voleva domarlo e renderlo inoffensivo; esaltarlo ed elevarlo al di sopra di sé sarebbe stato un suicidio intellettuale, un’autodistruzione. Ma Novalis non si limita a dare una definizione di ciò che è romantico; suggerisce anche come essere romantici, perché al romantico non basta esser tale, ma del romanticismo egli fa una meta e un programma per la vita. Oltre che ritrarla in modo romantico, egli la vuole adattare all’arte, cullandosi nell’illusione di una utopistica esistenza tutta estetica. Questo significa anzitutto rendere la vita piú semplice e omogenea, liberarla dalla tormentosa dialettica di ogni realtà storica, eliminarne le contraddizioni insolubili e indebolire le resistenze della ragione ai desideri irreali e alle fantasie. È vero che ogni opera d’arte è una visione, una trasfigurazione mitica della realtà, dove l’utopia si sostituisce alla vita; ma nel romanticismo questo carattere d’utopia si esprime piú puro e senza contrasti che altrove. Il concetto d’«ironia romantica» si fonda essenzialmente sul riconoscimento che l’arte non è che autosuggestione e autoinganno, e che si ha sempre chiara coscienza della sua natura fittizia. La definizione dell’arte come «consapevole illusione»11 risale al romanticismo e a idee come quella espressa da Coleridge di una «willing suspension of disbelief» [«Volontaria sospensione dell’incredulità»]12. Ma la scelta consapevole che è alla base di tale atteggiamento è ancora un tratto classico e razionalistico, che il romanticismo va cancellando sostituendovi l’illusione inconscia, lo stordimento e l’ebbrezza dei sensi, la rinunzia all’ironia e alla critica. Si è paragonato l’effetto del film a quello dell’alcool e

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dell’oppio, descrivendo la folla dei cinematografi che esce vacillando nel buio della notte, come degli ubriachi, storditi dalle droghe, che non sanno né vogliono rendersi conto del loro stato. Ma quest’effetto non è esclusivo del film; risale per l’appunto all’arte romantica. Anche il classicismo naturalmente voleva essere suggestivo e suscitare nel lettore o nello spettatore sentimenti e illusioni – come del resto ogni arte – ma nelle sue immagini c’era sempre un esempio istruttivo, un’analogia illuminante, un simbolo ricco di riferimenti, e ad esse il lettore o lo spettatore si trovavano a reagire non con lacrime, estasi o deliqui, ma con riflessioni, giudizi e una piú profonda comprensione dell’uomo e del suo destino. Il periodo postrivoluzionario fu un tempo di generale delusione. Per chi non era profondamente legato alle idee rivoluzionarie la delusione cominciò già con la Convenzione; per chi piú le amava col Termidoro. Ai primi a poco a poco venne in odio tutto ciò che ricordava la Rivoluzione; per gli altri, ogni nuovo passo confermava il tradimento dei loro ex alleati. Ma fu un doloroso risveglio anche per chi fin dal principio aveva subito come un incubo il sogno rivoluzionario. A tutti il presente appariva ormai squallido e vuoto. Gli intellettuali si isolavano sempre piú dal resto della società e gli ingegni piú fecondi vivevano ormai appartati. Cominciò cosí a formarsi il concetto del filisteo e del piccolo borghese, del bourgeois contrapposto al citoyen; e si ebbe la strana situazione, fino allora quasi senza esempio, di artisti e poeti pieni di odio e di sprezzo per quella classe cui pure dovevano la loro vita intellettuale e materiale. Infatti il romanticismo fu un movimento essenzialmente borghese, anzi il movimento borghese per eccellenza, che mise fine definitivamente alle convenzioni classiche, all’artificio e alla retorica aulica e nobiliare, allo stile elevato e al linguaggio scelto. L’arte del-

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l’illuminismo, pur con le sue inclinazioni rivoluzionarie, aveva tuttavia seguito il gusto classicheggiante dell’aristocrazia. Non solo Voltaire e Pope, ma anche Prévost e Marivaux, Swift e Sterne erano piú vicini al Seicento che all’Ottocento. Soltanto con il romanticismo l’arte diventa «document humain», grido di confessione, ferita scoperta e dolorante. Quando la letteratura illuministica celebra il borghese, lo fa sempre con un’intenzione piú o meno polemica verso i ceti superiori; solo con il romanticismo il borghese diventa la naturale misura dell’uomo. Né questo carattere borghese viene sminuito per l’origine aristocratica di tanti esponenti romantici, né per l’ostilità contro il filisteo, che è nel programma culturale del romanticismo. Novalis, Kleist, Arnim, Eichendorff e Chamisso, il visconte di Chateaubriand, Lamartine, de Vigny, de Musset, Bonald, de Maistre e Lamennais, lord Byron e Shelley, Leopardi e Manzoni, Pu∫kin e Lermontov appartenevano a famiglie nobili e in parte manifestavano opinioni aristocratiche; ma con l’età romantica la letteratura era ormai esclusivamente destinata al libero mercato, cioè a un pubblico borghese. A un pubblico come questo si potevano magari suggerire idee politiche opposte ai suoi veri interessi, ma non era piú possibile presentargli il mondo nello stile impersonale e nelle astratte categorie di pensiero del Settecento. La concezione del mondo che questo pubblico sentiva come sua si rivela soprattutto in quell’idea dell’autonomia dello spirito e dell’immanenza delle singole sfere della cultura, che da Kant in poi ha dominato la filosofia tedesca e sarebbe stata inconcepibile senza l’emancipazione della borghesia13. Fino al romanticismo il concetto di cultura era rimasto legato all’idea della funzione subordinata dello spirito umano: si trattasse della visione ecclesiastico-ascetica, o eroico-mondana, o aristocratico-assolutistica, lo spirito vi appariva sempre come un mezzo, mai rivolto a fini propri, immanenti.

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Sciolti gli antichi vincoli, svanito il senso dell’assoluta nullità di fronte alle gerarchie ecclesiastiche e mondane, ricondotto l’individuo a se stesso, solo allora poté sorger l’idea dell’autonomia dello spirito. Essa corrispondeva alla mentalità del liberalismo economico e politico e si mantenne finché il socialismo non portò l’idea di una nuova subordinazione distruggendo nuovamente l’autonomia dello spirito nel materialismo storico. Quest’autonomia, come anche l’individualismo romantico, fu dunque una conseguenza, non la causa, del conflitto che scosse la società settecentesca. In sé e per sé nessuno dei due concetti era veramente nuovo, ma per la prima volta accadde che s’incitasse l’individuo alla rivolta contro la struttura sociale e contro tutto ciò che impediva la sua felicità14. I romantici esaltarono il proprio individualismo per compensare l’indifferenza del mondo per le cose dello spirito e proteggersi dall’ostilità dell’ambiente borghese e filisteo. Come già i preromantici, essi volevano con l’estetismo isolarsi in una loro sfera esclusiva, dove nessuna forza estranea potesse interferire. Il classicismo aveva regolato il concetto di bellezza su quello di verità, cioè su un canone universalmente umano che comprendesse tutta la vita. Ma ora Musset invertiva il motto di Boileau proclamando: «Rien n’est vrai que le beau» [«Nulla è vero se non la bellezza»]. I romantici giudicavano la vita con i criteri dell’arte, tentando cosí di elevarsi sul resto dell’umanità quasi come una casta sacerdotale. Ma anche nel loro rapporto con l’arte si tradiva l’atteggiamento ambivalente che dominava tutta la loro concezione. La problematica goethiana intorno alla natura dell’artista continuò e si arricchí nell’epoca romantica; l’arte considerata come un organo dell’«intuizione intellettuale», dell’esaltazione religiosa e della rivelazione divina, tuttavia si dubitò del suo valore nella vita. «L’arte è un frutto seduttore, proibi-

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to, – diceva già Wackenroder, – chi ne ha gustato una volta il piú intimo e dolce succo è irreparabilmente perduto per la vita attiva. Egli si rannicchia sempre piú nel suo piacere...» E ancora: «Questo è il veleno dell’arte: l’artista diventa un attore, che considera ogni vita come una parte da recitare, e vede nella sua scena il mondo vero, la polpa, e nella vita reale il guscio, una miserabile imitazione raffazzonata»15. Anche la filosofia dell’identità di Schelling fu solo un tentativo di superare questa contraddizione, e cosí il messaggio di Keats: «Beauty is truth, truth beauty» [«Bellezza è verità, verità è bellezza»]. Tuttavia l’estetismo rimane il carattere fondamentale della visione romantica; e giustamente Heine riassume classicismo e romanticismo come «l’epoca dell’arte» (Kunstperiode) nella letteratura tedesca. Nulla per i romantici era senza conflitto; e in ogni loro manifestazione si riflette la problematica della loro situazione storica e il loro intimo dissidio sentimentale. La vita morale dell’umanità è tutta una catena di contrasti e di lotte; quanto piú differenziata la società, tanto piú frequenti e aspri sono gli urti tra l’io e il mondo, l’istinto e la ragione, il passato e il presente. Ma nell’età romantica il conflitto diventa forma essenziale della coscienza. Vita e pensiero, natura e civiltà, storia ed eternità, solitudine e società, rivoluzione e tradizione non appaiono piú come logici correlativi e come alternative morali, fra cui si debba scegliere, ma come possibilità, che si cerca di attuare contemporaneamente. Certo, essi non vengono ancora contrapposti dialetticamente, non si cerca una sintesi che ne esprima l’interdipendenza; essi sono soltanto oggetto di esperimento e di gioco. Né l’idealismo e lo spiritualismo, né l’irrazionalismo e l’individualismo dominano senza contrasti; piuttosto si alternano con una tendenza altrettanto forte al naturalismo e al collettivismo. La schiettezza e la sta-

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bilità delle posizioni filosofiche è cessata; non ci sono piú che atteggiamenti riflessi, critici, problematici, tali che portano sempre con sé, presente e realizzabile, il loro contrario. Lo spirito umano ha perduto anche quell’ultimo resto di spontaneità, che aveva ancora nel Settecento. L’intimo dissidio e l’ambivalenza dei rapporti spirituali vanno tanto oltre da giustificare l’affermazione che i romantici, o almeno i primi romantici tedeschi fecero ogni sforzo per tener lontano da sé proprio quel che era «romantico»16. Friedrich Schlegel e Novalis tentarono almeno di superare la propria emotività e, pur cosí soggettivi e sensibili, cercarono di fondare la loro filosofia su qualcosa di saldo e universalmente valido. Ecco appunto la grande, fondamentale differenza fra preromantici e romantici: il sentimentalismo settecentesco fu sostituito da un’acuita sensibilità, da un’accresciuta «eccitabilità dell’animo» e se è vero che si continuò a versar lacrime, la reazione sentimentale cominciò a perdere il suo valore etico scendendo a strati culturali sempre piú bassi. Nulla riflette con tanta immediatezza ed efficacia il dissidio dell’anima romantica come la figura del «doppio», sempre presente al romantico, e che ritorna nella letteratura in forme e varianti innumerevoli. L’origine di questa che finisce col diventare un’idea fissa è chiara: è l’irresistibile impulso all’introspezione, la mania dell’autocontemplazione di chi è spinto a considerarsi sempre come un ignoto, un estraneo inquietante e lontano. Anche questo naturalmente non è che un tentativo di evasione che tradisce l’incapacità del romantico di adattarsi alla propria condizione storica e sociale. Egli si getta nello sdoppiamento come in tutto quel che è oscuro e ambiguo, caotico ed estatico, demoniaco e dionisiaco, cercandovi un rifugio di fronte alla realtà, che la sua ragione non sa dominare. E in questa fuga egli scopre l’inconscio, quel che alla ragione è celato, la fonte

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delle fantasie nate dal desiderio e delle soluzioni irrazionali. Scopre che due anime abitano il suo petto; ch’egli ha nell’intimo, diverso da sé, qualcosa che pensa e sente; ch’egli porta seco il suo demone e il suo giudice; in breve, scopre i fatti fondamentali della psicanalisi. Ai suoi occhi l’irrazionale ha l’immenso vantaggio di essere incontrollabile, quindi egli apprezza gli impulsi oscuri e inconsci, gli stati d’animo sognanti ed ebbri, e ricerca in essi l’appagamento, che non può dargli la critica spassionata e fredda della ragione. «La sensibilité n’est guère la qualité d’un grand génie... Ce n’est pas son cœur, c’est sa tête qui fait tout» [«La sensibilità non è affatto la qualità di un grande genio... Non il suo cuore, ma la sua testa fa tutto»], diceva Diderot17. Ora invece si attende tutto dal salto mortale della ragione; donde la fede nelle esperienze dirette e negli stati d’animo, l’abbandono all’istante e all’impressione fuggevole e quell’adorazione del caos di cui parla Novalis. Quanto piú impenetrabile è il caos, tanto piú splendido si spera l’astro che ne uscirà. Di qui il culto del misterioso e del notturno, del bizzarro e del grottesco, del pauroso e dello spettrale, del diabolico e del macabro, del patologico e del perverso. Definire sommariamente, come ha fatto Goethe, il romanticismo «poesia da lazzaretto», è certo una grande ingiustizia, ma un’ingiustizia significativa, anche se, dicendo questo, non si pensa proprio a Novalis e ai suoi aforismi, secondo cui la vita è una malattia dello spirito, e sono le malattie che distinguono l’uomo dalle piante e dagli animali. Naturalmente, anche la malattia non è che un modo di sfuggire ai compiti imposti dalla vita alla ragione, un pretesto per sottrarsi a doveri quotidiani. Affermando che i romantici erano «malati» non si dice gran che; ma quando si riconosce che la filosofia della malattia era un elemento essenziale della loro generale concezione, si viene a dire qualche cosa di piú. Per loro la malattia rappresentava

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la negazione del consueto, del normale, del ragionevole e portava in sé quel dualismo di vita e morte, natura e non natura, vincolo e dissoluzione, che dominava tutto il loro mondo. Essa significava la svalutazione di tutto ciò che è chiaro e durevole e rispondeva all’ostilità romantica verso ogni limite, ogni forma salda e definitiva. Come sappiamo, già Goethe parlava di una falsità e insufficienza delle forme e, ripensando alle sue parole, comprendiamo perché i francesi lo abbiano sempre annoverato fra i romantici. Ma per Goethe le circoscritte forme dell’arte erano false solo di fronte alla concreta ricchezza della vita; per i romantici invece ogni cosa chiara e definitiva era di per sé meno valida dell’aperta, irrealizzata possibilità a cui essi attribuivano i caratteri dell’infinito divenire, dell’eterno moto, del dinamismo e della fecondità vitale. Ogni forma salda, ogni idea chiara, ogni netta parola per loro era morta e bugiarda; quindi, pur con il loro estetismo, essi erano inclini a svalutare l’opera d’arte per la sua forma disciplinata e autosufficiente. In loro le intemperanze e gli arbitrî, la mescolanza e la fusione delle arti, l’espressione improvvisata e frammentaria non erano che sintomi di questa visione dinamica della vita a cui essi dovevano tutta la loro genialità, la loro sensibilità esasperata e la loro chiaroveggenza storica. Dalla Rivoluzione in poi l’individuo aveva perduto ogni appoggio esteriore; doveva contare su se stesso e in se stesso cercare i punti d’appoggio; e appunto nel suo io trovò un oggetto infinitamente importante, infinitamente interessante. All’esperienza del mondo sostituí l’esperienza di sé e la vita interiore, il flusso delle idee e dei sentimenti, il moto da uno stato d’animo all’altro finirono col sembrargli piú reali della realtà esterna. Considerò il mondo soltanto come materia prima e substrato delle proprie esperienze e se ne valse come di un pretesto per parlar di se stesso.

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«Tutti i casi della nostra vita, – disse Novalis, – sono materiali, di cui possiamo far quel che vogliamo, ogni cosa è un anello in un’infinita catena». Cioè vengono svalutati tanto l’inizio quanto il termine ultimo dell’esperienza, in altre parole il contenuto e la forma della creazione artistica. Il mondo diventa soltanto occasione dell’attività spirituale, l’arte un vaso casuale in cui i contenuti dell’esperienza assumono forma per un attimo. In altre parole, sorge quel modo di pensare che è stato chiamato occasionalismo romantico18, nel quale la realtà si dissolve in una serie di occasioni senza reale sostanza, in sé indeterminate, in puri stimoli alla fecondità intellettuale, in situazioni che apparentemente esistono solo perché il soggetto possa accertarsi della propria esistenza. Quanto piú indeterminati, cangianti, aerei, «musicali» sono gli stimoli, tanto piú forte è la vibrazione del soggetto; quanto piú inafferrabile, fluido, inconsistente appare il mondo, tanto piú forte, libero, autonomo si sentirà l’io, che lotta per affermarsi. Solo una situazione storica, in cui l’individuo era ormai libero e indipendente, ma si sentiva minacciato e in pericolo, poteva produrre un tale atteggiamento. L’ostentato soggettivismo, l’incontenibile impulso all’espansione della sfera psichica, il lirismo dell’arte nuova, sempre insoddisfatto e in gara con se stesso, si spiegano solo con questa intima scissione. Non si intende il romanticismo se non si parte da questa disarmonia e dalle ipercompensazioni correlative che caratterizzano l’individuo liberato e deluso del periodo postrivoluzionario. La conversione politica del romanticismo dal liberalismo al legittimismo conservatore, in Germania; il processo opposto, in Francia; quello ben piú complicato nelle sue oscillazioni tra Rivoluzione e Restaurazione, ma in complesso simile allo sviluppo francese, in Inghilterra, furono possibili solo grazie all’atteggiamento del romanticismo, ambivalente anche di fronte alla Rivolu-

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zione, e sempre pronto a rovesciar le sue posizioni. Il neoclassicismo tedesco aveva simpatizzato con le idee della Rivoluzione francese, e questa simpatia si fece anche piú profonda nel romanticismo tedesco che, come già hanno accertato Haym e Dilthey, non fu mai del tutto apolitico19. Solo durante le guerre napoleoniche riuscí alle classi dominanti di guadagnare i romantici alla reazione. Fino all’invasione napoleonica, in Germania le forze conservatrici si erano sentite pienamente sicure e si erano mostrate a loro modo «illuminate» e tolleranti; ma ora che il vittorioso esercito francese minacciava di diffondere anche le conquiste della Rivoluzione, decisero di reprimere ogni forma di liberalismo e nell’invasore combatterono soprattutto l’esponente della Rivoluzione. Gli elementi davvero progressisti e indipendenti, come Goethe, non si lasciarono trarre in inganno dalla propaganda antinapoleonica; ma nella borghesia e nel ceto colto non rappresentavano che una minoranza sempre piú esigua. Fin dall’inizio lo spirito rivoluzionario in Germania era stato diverso da quello francese. L’entusiasmo dei poeti tedeschi per la Rivoluzione era un atteggiamento astratto che travisava i fatti; ad essi, come alle classi dominanti, nella loro improvvida tolleranza, sfuggiva il vero significato degli avvenimenti. I poeti s’immaginavano la Rivoluzione come una gran discussione filosofica; e i detentori del potere vi assistevano come a uno spettacolo che in Germania, secondo loro, non sarebbe mai divenuto realtà. Questo spiega il completo voltafaccia di tutto il paese durante le guerre di liberazione. Il mutamento di Fichte, il repubblicano che a un tratto vede nel presente il tempo dell’«assoluta empietà», è quanto mai sintomatico. La Rivoluzione, un tempo romanticizzata, è ora tanto piú aspramente respinta, e questo provoca l’identificarsi del romanticismo con la Restaurazione. E tutti i romantici sono già passati al campo legittimista e conservatore,

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quando in Occidente il movimento romantico entra nella fase davvero creatrice e rivoluzionaria20. Il romanticismo francese, che agli inizi era una «letteratura di emigrati»21, rimase fino dopo il 1820 il portavoce della Restaurazione. Ma, tra il 1825 e il 1830, esso si trasforma in un movimento liberale, che formula i suoi obbiettivi artistici in termini analoghi a quelli della politica rivoluzionaria. In Inghilterra, come in Germania, il romanticismo dapprima è favorevole alla Rivoluzione e solo durante la lotta contro Napoleone diventa conservatore; tuttavia, dopo la guerra esso prende una nuova piega e si riavvicina agli antichi ideali. In Francia e in Inghilterra esso dunque finisce col rivolgersi contro la Restaurazione e la reazione, e in termini assai piú chiari di quanto accada nell’evoluzione politica. Infatti, sebbene le idee liberali apparentemente riescano a imporsi nelle costituzioni e nelle istituzioni dell’Occidente, l’Europa moderna, con la sua politica economica filocapitalistica, le sue monarchie militaristiche e imperialistiche, i suoi sistemi amministrativi accentrati e burocratici, le Chiese riabilitate e le religioni di stato, è nella stessa misura creazione della Restaurazione e dell’illuminismo, e con uguale diritto si può vedere nell’Ottocento un periodo di opposizione allo spirito rivoluzionario, e anche un trionfo del pensiero illuministico e liberale22. Se già l’impero napoleonico aveva significato il dissolversi degli ideali individualistici della Rivoluzione, la vittoria degli alleati sul Còrso, la Santa Alleanza e il ritorno dei Borboni portarono alla definitiva frattura con il Settecento e con l’idea di modellare lo stato e la società sulle esigenze dell’individuo. Ma dal pensiero e dall’esperienza della nuova generazione l’individualismo non poté piú esser bandito; il che spiega la contraddizione tra la politica reazionaria e le tendenze liberali dell’arte.

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Per la Restaurazione l’avventura militare di Bonaparte non era che la controparte del delitto politico del 1789, e il Primo Impero ne continuava l’illegalità e l’anarchia. Per i legittimisti tutta l’epoca rivoluzionaria e napoleonica era un unico fenomeno, una metodica dissoluzione dell’ordine antico, della gerarchia, dei diritti di proprietà. E l’Impero, pur con le sue tendenze reazionarie, era tanto piú pericoloso in quanto pareva consolidare le conquiste della Rivoluzione e creare un nuovo equilibrio. Di fronte a tutto questo la Restaurazione aprí una era nuova. Essa salvò il salvabile e tentò di stabilire un compromesso fra quanto si poteva restaurare delle antiche istituzioni e quanto delle nuove non si poteva piú mutare. In questo anche la Restaurazione non fece che continuare il periodo napoleonico; rappresentò essa pure un compromesso fra i principî rivoluzionari e le idee dell’ancien régime; con la differenza però che Napoleone voleva conservare il piú possibile delle conquiste rivoluzionarie, mentre la Restaurazione avrebbe voluto, potendo, negare la Rivoluzione. Non si deve sottovalutare questa differenza, sebbene nei primi tempi la Restaurazione abbia significato un allentamento di quel rigore, che avevano dovuto esercitare sia la Rivoluzione sempre in pericolo mortale, sia l’Impero minacciato da destra e da sinistra. Naturalmente non c’era da parlare di rinascita della libertà civile, dopo la dittatura militare di Napoleone; parve che cosí fosse, solo perché ora si perseguitavano o danneggiavano gruppi o classi intere anziché individui singoli; tuttavia nel quadro di questo regime classista la libertà, nei limiti della legge, era fino a un certo punto garantita. La Restaurazione poté permettersi il lusso di esser piú tollerante dei suoi predecessori. La reazione era vittoriosa in tutta Europa e le idee liberali diventavano innocue; i popoli europei erano stanchi delle imprese rivoluzionarie e militari e anelavano alla tranquillità. Cosí lo

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scambio delle idee poté avvenire con piú libertà di prima, e non ci furono piú interventi dell’autorità per imporre questo o quel criterio di gusto, benché si sentisse molto nettamente lo sfondo politico delle diverse posizioni artistiche. In Francia da principio i romantici si dichiarano senza eccezione legittimisti e clericali, mentre la tradizione classica nella letteratura è rappresentata principalmente dai liberali. Non tutti i classicisti sono liberali, ma tutti i liberali sono classicisti23. Forse non c’è altro esempio nella storia dell’arte da cui risulti cosí chiaro che una tendenza politica conservatrice può benissimo accordarsi con un atteggiamento innovatore in arte; anzi, che i concetti di conservazione e progresso sono incommensurabili fra le due sfere. Tra i liberali di tendenze classiciste e gli ultra romantici non è possibile alcuna intesa, ma fra i legittimisti c’è tutto un gruppo che aderisce alla visione classica, sebbene, a differenza dei liberali, si ispiri al classicismo del grand siècle, non già a quello del Settecento. E nella lotta contro i romantici, classicisti liberali e conservatori sono assolutamente unanimi; perciò l’Accademia respinge Lamartine, benché conservatore. Essa, del resto, non rappresenta piú il gusto letterario prevalente fra il pubblico; gran parte dei lettori segue i romantici, con una passione finora sconosciuta. Già il successo del Génie du Christianisme fu inaudito nel suo genere, ma mai, né prima né poi, era accaduto che una piccola raccolta di liriche fosse accolta con l’entusiasmo con cui furono accolte le Méditations di Lamartine. Dopo il lungo ristagno, comincia ora per la letteratura un’epoca viva, fecondissima, ricca d’ingegni eccezionali e di opere riuscite. Il pubblico non è vasto, ma si appassiona alla letteratura con entusiasmo e sinceramente24. Si comprano molti libri, i giornali seguono con la massima attenzione gli avvenimenti letterari, i salotti si riaprono e onorano i nuovi eroi

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dello spirito. La relativa libertà favorisce la differenziazione delle aspirazioni letterarie, e l’unità culturale del grand siècle a poco a poco appare in una mitica lontananza. È vero che anche il Seicento aveva conosciuto un conflitto tra vecchio e nuovo, un contrasto tra la tendenza accademica di Le Brun e la concezione pittorica dei suoi avversari; e il Settecento l’antagonismo, ben piú aspro, tra l’aulico Rococò e il preromanticismo borghese. Ma per tutto l’ancien regime aveva dominato un gusto sostanzialmente omogeneo, un’ortodossia i cui oppositori facevano sempre figura di eretici e di bizzarri. Insomma, non c’erano in arte tendenze propriamente rivali. Ora invece ci sono due gruppi ugualmente forti, o almeno ugualmente stimati. Nessuna delle tendenze in lizza domina incontrastata o prevale negli ambienti piú colti; e neppure dopo il trionfo del romanticismo c’è un «gusto romantico» che detti legge come un tempo il gusto neoclassico. È vero che nessuno sfugge al suo influsso, ma non è affatto vero che ognuno lo proclami, e i primi conflitti interni cominciano quasi nello stesso momento del suo trionfo. L’antagonismo delle tendenze è adesso un tratto fondamentale della vita artistica, non meno che l’intolleranza del pubblico verso i nuovi ingegni. La borghesia fiuta scherno e disprezzo in tutto ciò che non capisce e finisce col respingere per principio ogni cosa nuova. La linea che separa l’ortodossia estetica dall’eresia a poco a poco si perde, e alla fine la distinzione non avrà piú senso. Ben presto in letteratura non ci sono piú che «partiti», e comincia per le lettere quasi un tempo di democrazia. La novità sociologica del Romanticismo è la politicizzazione dell’arte, non solo nel senso che artisti e scrittori aderiscono a partiti politici, ma anche che fanno una politica di partito anche nel campo artistico. «Vous verrez qu’il faudra finir par avoir une opinion» [«Vedrete che bisognerà finire per l’avere un’opinione»], dice malinconicamen-

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te un eclettico dell’epoca, e Balzac nelle Illusions perdues25 descrive cosí la situazione: «Les royalistes sont romantiques, les libéraux classiques... Si vous êtes éclectiques, vous n’aurez personne pour vous» [«i monarchici sono romantici, i liberali classici... Se siete eclettici, nessuno vi sosterrà»]. La necessità di prendere posizione nella grande controversia, Balzac la vede giustamente, ma la situazione è alquanto piú complicata. Il principale esponente della «letteratura dell’emigrazione» è Chateaubriand. Con Rousseau e Byron, egli è uno dei piú autorevoli artefici del nuovo uomo romantico, e come tale ha nella storia della letteratura moderna una parte incomparabilmente maggiore di quanto comporti il valore intrinseco delle sue opere. Egli è l’esponente, non il campione o il creatore di un movimento spirituale, ch’egli arricchisce soltanto di una nuova forma espressiva, non di un nuovo contenuto d’esperienza. Il Saint-Preux di Rousseau e il Werther di Goethe erano state le prime incarnazioni del disinganno che aveva dato il tono all’età romantica; il René di Chateaubriand esprime la disperazione in cui ora il disinganno va trasformandosi. Il sentimentalismo e la malinconia preromantica rispondevano allo stato d’animo della borghesia prima della Rivoluzione; il pessimismo e il taedium vitae della letteratura degli emigrati riflettono invece lo stato d’animo dell’aristocrazia dopo la bufera rivoluzionaria. Questo diventa un generale fenomeno europeo dopo la caduta di Napoleone ed esprime il sentimento di tutta l’alta società. Rousseau ancora sapeva perché era infelice: soffriva a causa della civiltà moderna, delle convenzioni sociali inadeguate alle esigenze del suo spirito. Egli sapeva immaginarsi una situazione concreta, non importa se irrealizzabile, nella quale il suo male sarebbe guarito. Invece la malinconia di René è indefinibile e incurabile. Per lui tutta la vita è ormai priva di senso; egli prova un infinito, esaltato bisogno di amore, di comunione,

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un’eterna brama di abbracciare l’universo e di sciogliersi in esso; ma sa che non è dato appagarla e che l’anima sua rimarrebbe insoddisfatta anche se si adempisse ogni suo desiderio. Nulla è degno di essere desiderato, vano è ogni sforzo e vana ogni lotta; l’unica azione sensata è il suicidio. E suicidio è già l’assoluta separazione del mondo intimo da quello esterno, della poesia dalla prosa quotidiana; suicidio è la solitudine, il disprezzo del mondo e la misantropia, l’esistenza irreale, astratta, disperatamente egoistica, che menano le nature romantiche del nuovo secolo. Chateaubriand, Madame de Staël, Senancour, Constant, Nodier sono tutti vicini a Rousseau e sono violentemente avversi a Voltaire. Ma i piú fra loro si sentono in contrasto solo con il razionalismo settecentesco, non con quello del grand siècle. Solo cosí riesce, soprattutto a Chateaubriand, di conciliare la concezione artistica progressiva con la politica conservatrice, la fedeltà alla monarchia e il clericalismo, l’entusiasmo per il trono e l’altare. E solo perché il romanticismo si sente piú affine a tempi lontani che al recente passato, Lamartine, Vigny e Victor Hugo rimangono cosí a lungo fedeli al legittimismo. I primi segni di una conversione politica appaiono verso il 1824. Nasce allora la prima delle conventicole romantiche (cénacles), il celebre gruppo intorno a Charles Nodier all’Arsenal, e il movimento comincia a concretarsi in una specie di scuola. La cornice sociale in cui si era sviluppata la letteratura francese del Settecento erano stati i salotti, cioè i regolari incontri di poeti, artisti e critici con i membri della classe dirigente nelle case dell’aristocrazia, e dell’alta borghesia. Erano ambienti chiusi, ligi al costume signorile, che, nonostante ogni concessione alle maniere dei corifei intellettuali, conservavano un ben preciso tono di «società». Ma il loro influsso, pur stimolante per lo scrittore, non era direttamente creativo. Essi costitui-

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vano piuttosto una sorta di tribunale letterario a cui per lo piú ci si sottometteva docilmente, una scuola di buon gusto, dove si decideva delle mode letterarie, ma non era certo un ambiente propizio alla feconda collaborazione di un gruppo. I cenacoli romantici invece sono circoli amichevoli di artisti in cui c’è assai poco il tono di «società»: anzitutto perché si formano sempre intorno a un artista e poi perché sono molto meno chiusi del piú liberale dei salotti. Qui non solo è benvenuto ogni poeta, artista, critico pronto ad aderire al movimento, ma anche ogni semplice membro del pubblico che ne sia fautore. Questa apertura e promiscuità, se certamente impediscono al movimento di avere un rigido carattere di scuola, non impediscono però lo sviluppo di criteri estetici comuni e di un programma caratterizzato. A differenza di quanto avveniva un tempo, l’ambito in cui si svolge la vita letteraria non è un salotto privo di centro, come nella Francia del Settecento, e neppure un club o un caffè, come in Inghilterra; qui abbiamo un gruppo che si raccoglie intorno a un poeta o a una personalità che il gruppo considera come maestro, e di cui riconosce l’autorità assoluta, benché non sempre in un esplicito rapporto di scuola. Per la prima volta nella storia della letteratura moderna accade che sia una scuola a determinare l’evoluzione. Né il Sei, né il Settecento conoscono tale fenomeno, che pure sarebbe stato piú rispondente al carattere normativo della letteratura classica. Il romanticismo invece, nonostante la dubbia validità dei suoi principî artistici, o forse grazie ad essa, sviluppa una scuola con una dottrina rigorosamente formulabile e apprendibile. Nell’età classica tutta quanta la letteratura francese costituiva una grande scuola, e il gusto era unico in tutta la Francia; i dissidenti e i ribelli rappresentavano un gruppo troppo disparato per inquadrarsi in un programma comune. Ma ora che la letteratura francese è divenuta il campo di battaglia di due

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grandi partiti quasi equivalenti, ora che l’esempio della vita politica induce i poeti a formulare programmi di parte, suscitando in loro il desiderio di un capo, ora, infine, che le mete della nuova corrente artistica sono ancora cosí oscure e contraddittorie da dover essere riassunte e codificate, ora è venuto il tempo di fondare scuole letterarie. Questo aspetto del romanticismo fu piú evidente in Francia che in Germania, dove l’ideale classico non si realizzò mai con assoluta purezza, e dove la sua visione, già cosí venata di romanticismo, rimase in complesso normativa anche per i romantici. In ogni caso, qui il carattere partigiano della vita letteraria fu meno netto che in Francia, e quindi meno reciso il raggrupparsi degli scrittori per scuole. In Inghilterra, dove il contrasto tra classici e romantici aveva perso ogni preciso contenuto fin dalla seconda metà del Settecento, perché ormai la letteratura non era che romantica, non si costituirono scuole, né si ebbero veri e propri maestri26. Veramente anche i cénacles francesi spesso non sono che chiesuole letterarie tenute insieme unicamente da un gergo comune; viste dall’esterno sembrano congiure, dall’interno, compagnie di attori pieni di gelosia. Spesso pare che siano soltanto sette battagliere o ambienti di accesa polemica, per cui la dottrina è piú importante della prassi e il distinguersi vale piú che l’adeguarsi. Tuttavia, in Francia come in Germania, è propria del movimento romantico una concezione profonda della comunione di idee e di intenti e una forte tendenza a raccogliersi in gruppi. I romantici amano dedicarsi in comune alla filosofia, alla poesia, alla discussione, alla critica e trovano nell’amicizia e nell’amore il senso piú intimo della vita; fondano riviste, pubblicano annali e antologie, tengono conferenze e corsi, fanno propaganda per sé e per i compagni, cercano, insomma, l’unione piú stretta, anche se questa urgenza di simbiosi è sol-

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tanto l’altra faccia del loro individualismo, il compenso alla loro solitudine di sradicati. Il confluire del romanticismo francese in un gruppo omogeneo coincide con il volgersi dell’opinione pubblica verso il liberalismo. Intorno al 1824 il «Globe» comincia a cambiare tono, ed è il momento delle prime riunioni regolari all’Arsenal. I romantici piú in vista, anzitutto Lamartine e Hugo, sono ancora fedeli alla Chiesa e al trono, ma il romanticismo cessa di essere esclusivamente clericale e monarchico. Tuttavia il vero e proprio rivolgimento lo si ha nel 1827, quando Victor Hugo scrive la celebre prefazione del Cromwell enunciando chiara e netta la tesi del romanticismo come liberalismo letterario. Quell’anno stesso il Salon espone per la prima volta numerosi quadri dei pittori romantici piú in vista: accanto a dodici tele di Delacroix, opere tipiche di Devéria e di Boulanger. È un vasto, compatto movimento, che pare estendersi a tutta la vita intellettuale e giungere alla vittoria definitiva. A questo carattere di universalità corrisponde anche il costituirsi del nuovo cénacle intorno a Victor Hugo, che d’ora in poi è il maestro della scuola romantica. Gli scrittori Deschamps, Vigny, Sainte-Beuve, Dumas, De Musset, Balzac, i pittori Delacroix, Devéria, Boulanger, gli incisori Johannot, Gigoux, Nanteuil, lo scultore David d’Angers sono fra gli ospiti usuali di rue de Notre-Dame-des-Champs. Qui Victor Hugo legge i suoi drammi, Marion Delorme e Hernani. È vero che il gruppo si scioglie già nello stesso anno, ma la scuola continua. Anzi il movimento si concentra e si chiarisce, diventando sempre piú definito e radicale. Già dal secondo cénacle in casa di Nodier, nel 1829, scompaiono gli elementi semiclassicheggianti, mentre pittori e scultori diventano membri regolari del gruppo. La completa unità del movimento, come la sua tendenza antiborghese che a poco a poco diventa un dogma, si rivela

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nel modo piú netto nell’ultimo cénacle che si riunisce negli atéliers di rue du Doyenné, dove abitano Théophile Gautier, Gérard de Nerval e i loro amici. Questa colonia di artisti con la sua avversione per il filisteo e la sua dottrina de «l’art pour l’art» è il vivaio della moderna bohème. Lo stile bohème, che si usa attribuire al romanticismo, non risale davvero ai suoi inizi. Da Chateaubriand a Lamartine, i romantici in Francia furono quasi esclusivamente elementi della nobiltà e quando, dal 1824, cessò l’unanime fedeltà alla monarchia e alla Chiesa, il romanticismo rimase tuttavia piú o meno aristocratico e clericale. Solo gradatamente la guida del movimento passa a plebei come Victor Hugo, Théophile Gautier e Alexandre Dumas; e solo poco prima della Rivoluzione di luglio, la maggioranza dei romantici rinuncia al proprio atteggiamento conservatore. Ma l’importanza nuova dell’elemento plebeo è un sintomo piú che la causa del mutamento politico. Da principio gli scrittori borghesi si erano adeguati alla mentalità conservatrice degli aristocratici; ora invece anche i nobili Lamartine e Chateaubriand passano all’opposizione. Le restrizioni sempre maggiori delle libertà sotto il governo di Carlo X, la clericalizzazione della vita pubblica, l’introduzione della pena di morte per i sacrilegi, lo scioglimento della Guardia Nazionale e della Camera, l’arbitrio di ordinanze e decreti, non fanno che affrettare l’evolversi della cultura in senso radicale. Si sente ancora piú chiaramente quel che fin dal 1815 era innegabile, cioè che la Restaurazione segnava la sconfitta definitiva della Rivoluzione. Ora gli spiriti si sono finalmente riavuti dell’apatia postrivoluzionaria, e proprio questo nuovo stato d’animo spinge Carlo X a misure sempre piú retrive, che è l’unica via possibile a un governo che si appoggia agli elementi reazionari. I romantici, che a poco a poco si erano resi conto dove realmente portava la

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Restaurazione, riconobbero nello stesso tempo che la ricca borghesia capitalistica era il piú forte sostegno del regime, assai piú dell’antica nobiltà, in parte spogliata dei suoi beni e comunque inabile alla lotta. Tutto il loro odio, tutto il loro disprezzo si riversò ora sulla classe borghese. Il bourgeois, meschino, avido, ipocrita, divenne il principale nemico e di fronte ad esso l’artista, povero, onesto, sincero, ribelle a ogni vincolo umiliante e a ogni convenzione menzognera, apparve senz’altro come il nuovo ideale umano. Lo straniarsi dalla vita pratica, da una vita legata a solide radici sociali e a chiari impegni politici, fenomeno caratteristico del romanticismo e in Germania già in atto fin dal Settecento, ormai diviene l’atteggiamento prevalente dappertutto. Anche nei paesi occidentali si apre ora un abisso invalicabile tra il genio e l’uomo comune, tra l’artista e il pubblico, tra l’arte e la realtà sociale. I modi liberi e sfacciati della bohème, l’ambizione spesso fanciullesca di mettere in imbarazzo e irritare il borghese sprovveduto, lo spasmodico sforzo di distinguersi dalla normalità, dalla media, gli abiti eccentrici, le zazzere e le barbe, il panciotto rosso di Gautier e il bizzarro costume altrettanto appariscente, se pur non sempre cosí chiassoso, dei suoi amici, il linguaggio disinvolto e paradossale, l’esagerazione delle idee formulate in modo aggressivo, le invettive e le sconvenienze, tutto ciò manifesta soltanto l’intento di isolarsi dalla società borghese, o piuttosto di presentare come voluto e gradito l’ormai completo isolamento. Per la Jeune France, come si chiamano ora i ribelli, tutto s’impernia sull’odio contro i filistei, sul disprezzo della vita borghese metodica e inaridita, sulla lotta contro tradizioni e convenzioni, contro tutto quel che si può insegnare e apprendere, tutto quel che è maturo e tranquillo. Il sistema dei valori spirituali si arricchisce ora di un nuovo concetto: l’idea della giovinezza come forza

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creatrice e già di per sé superiore alla vecchiaia. È un’idea nuova, estranea soprattutto al classicismo, ma in certo modo anche a ogni precedente cultura. Naturalmente anche prima non mancavano rivalità fra le diverse generazioni e la giovinezza riusciva spesso vittoriosa in quanto esponente dei nuovi valori artistici. Ma non vinceva per il solo fatto d’esser «giovane»; di fronte ad essa la cautela prevaleva sull’eccessiva fiducia. Solo con il romanticismo ci si avvezza a considerare i «giovani» come i naturali campioni del progresso, e solo dopo la sconfitta del classicismo si parla del torto che, per principio, la vecchia generazione ha di fronte a loro27. Del resto, la solidarietà fra i giovani, come l’insistenza sull’unità delle arti, non è che un sintomo dell’isolamento romantico nel mondo prosaico del filisteo. Mentre il Settecento aveva insistito sulla connessione della letteratura con la filosofia, ora, coerentemente, la letteratura viene designata come «arte»28. Finché gli artisti avevano avuto l’ambizione di appartenere all’alta borghesia, avevano insistito sull’affinità della loro professione con quella dei letterati; ma ora sono i poeti che vogliono distinguersi dalla borghesia e cosí accentuano la loro affinità con gli artisti. I romantici sono talmente compiaciuti di se stessi e tale è la loro vanità, che correggono anche il loro estetismo iniziale e, se prima del poeta facevano un dio, ora di Dio fanno un poeta. «Dieu n’est peut-être que le premier poète du monde» [«Dio forse non è che il primo poeta del mondo»] dice Gautier. Anche la teoria de «l’art pour l’art», che veramente è un fenomeno quanto mai complesso ed esprime insieme un atteggiamento liberale e un quietismo conservatore, nasce dalla protesta contro i canoni borghesi. Quando Gautier mette in evidenza il carattere di pura forma e di gioco dell’arte, quando la vuol liberare dalle idee e dagli ideali, vorrebbe anzitutto liberarla dalla tirannia dell’ordine borghe-

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se. E pare ch’egli abbia detto a Taine, che lodava De Musset a spese di Victor Hugo: «Taine, sembra che lei cada nell’idiozia borghese. Esigere sentimento dalla poesia! Non è questo che importa. Parole radiose, parole di luce che si fanno ritmo e musica, ecco la poesia»29. Ne «l’art pour l’art» di Gautier, Stendhal e Mérimée, nella loro emancipazione dalle idee del tempo, nel proposito di esercitare l’arte come un gioco sublime e di goderla come un segreto paradiso vietato ai comuni mortali, l’opposizione al mondo borghese gioca un ruolo anche maggiore che nell’estetismo del periodo piú tardo, quando la rinunzia a ogni attività politica e sociale è ben accolta dalla borghesia ormai al potere. Gautier e i suoi compagni rifiutano di cooperare con la borghesia al soggiogamento morale della società; Flaubert, Leconte de Lisle e Baudelaire invece, chiudendosi nella loro torre di avorio, senza curarsi piú di come vada il mondo, non fanno che favorire gli interessi borghesi. La lotta dei romantici per conquistare il teatro, in particolare la famosa battaglia per Hernani di Victor Hugo, fu la lotta di rue du Doyenné, della bohème e della gioventú. Non si può dire che sia stata coronata da una smagliante vittoria; l’opposizione non scomparve da un giorno all’altro, e ancora per molto tempo rimase padrona dei maggiori teatri di Parigi. Ma ormai il destino del movimento non era piú legato all’accoglienza fatta a un dramma; come indirizzo del gusto, esso già da un pezzo aveva conquistato il mondo. Intorno al 1830 la sola novità è la piena adesione del romanticismo alla vita politica e la sua alleanza con il liberalismo. Dopo la Rivoluzione di luglio, gli esponenti della cultura escono dalla loro passività e molti abbandonano la carriera letteraria per quella politica. Ma anche i poeti che restano fedeli alla loro vocazione, come Lamartine e Victor Hugo, partecipano agli eventi politici piú attivamente e direttamente di prima. Victor Hugo non è un ribelle né

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un bohémien e non ha alcun rapporto diretto con la campagna dei romantici contro i borghesi. Piuttosto, nella sua evoluzione politica, egli segue la strada della borghesia francese. Da principio fedele seguace dei Borboni, piú tardi prende parte alla Rivoluzione e aderisce alla monarchia di luglio; infine sostiene le aspirazioni di Luigi Napoleone, per diventare repubblicano e radicale solo quando ormai la maggioranza della borghesia francese è diventata liberale e antimonarchica. Anche nei suoi atteggiamenti verso Napoleone non fa che rispecchiare i mutamenti dell’opinione generale. Nel 1825 egli è ancora un avversario accanito del Còrso e ne maledice la memoria; solo verso il 1827 muta atteggiamento, e comincia a parlare della gloria francese unita al nome di Napoleone. Infine egli diviene tipico portavoce di quel bonapartismo che è un miscuglio cosí singolare d’ingenuo culto dell’eroe, di nazionalismo sentimentale e di liberalismo sincero, sebbene non sempre ponderato. Quanto intricati siano i motivi di questo movimento lo mostra il fatto che ad esso aderiscono spiriti cosí diversi come Heine e Béranger e che può valersi dell’appoggio sia degli elementi schiettamente volterriani e degli eredi dell’illuminismo, sia della piccola borghesia anch’essa volterriana, anticlericale e antilegittimista, ma sentimentale e disponibile alle leggende. Il fatto che un unico editore, il celebre Touquet, fra il 1817 e il 1824 venda 31 000 copie – cioè un milione e seicentomila volumi – delle opere di Voltaire30 è il segno piú impressionante della rinascita illuministica e una prova che il medio ceto costituisce una parte notevole degli acquirenti. Ed è tipico di questo ceto acquistare l’opera omnia di Voltaire e nello stesso tempo cantare le canzoni di Béranger, liberali benché povere d’arte e di pensiero. Queste canzoni si sentono dappertutto ora, i loro ritornelli risuonano all’orecchio di tutti, e, a quanto si dice, contribuiscono a minare l’autorità dei Borboni

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piú di ogni altra opera del tempo. Naturalmente, anche prima la borghesia aveva le sue canzoni: canzoni da ballo, canti conviviali, patriottici e politici, strofette d’attualità e canzonette, non certo migliori di quelle di Béranger: ma erano al di fuori della «letteratura» e non avevano alcun influsso sostanziale sui poeti dell’ambiente colto. Ora la rivoluzione, non solo aveva provocato una piú ricca produzione in questo genere popolare, ma ne aveva introdotto il gusto anche presso i letterati. L’evoluzione poetica di Vietor Hugo costituisce il miglior esempio di questo assorbimento e mostra chiarissimi i vantaggi e gli svantaggi ad esso legati. La poesia patriottica del tardo romanticismo è inconcepibile senza le canzoni di Béranger, come il dramma romantico senza il teatro popolare. Anche come poeta, Victor Hugo segue l’evoluzione della borghesia; il suo stile lirico oscilla fra il gusto popolaresco del periodo rivoluzionario e l’enfasi, il fasto pseudo-barocco del Secondo Impero. Hugo non era affatto uno spirito rivoluzionario, ad onta di tutte le battaglie che si svolsero intorno a lui. Né era nuova la definizione del romanticismo come liberalismo della letteratura, quando egli la formulò; l’idea era già in Stendhal. La sua concezione artistica venne sempre piú perfettamente a concordare con il gusto della ricca borghesia dominante. Infine si trovarono a coincidere nel culto di un gigantismo, da cui in realtà erano ben lontani, e nell’amore di un pathos pomposo, sonoro, esaltato, di cui gli echi risuonano ancora in Rostand. La massima conquista della rivoluzione romantica fu il rinnovamento del linguaggio poetico. In Francia, la lingua letteraria si era venuta riducendo, nel corso del Sei e Settecento, povera e incolore a causa delle rigide convenzioni che vagliavano la correttezza della espressione e della forma stilistica. Ogni termine che suonasse come volgare o di mestiere, arcaico o dialettale, era

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rigorosamente vietato. Le espressioni semplici, naturali, in uso nella lingua parlata dovevano essere sostituite da parole nobili, scelte, «poetiche» o da artificiose perifrasi. Non si diceva «guerriero» o «cavallo», ma «eroe» e «destriero»; non si poteva dire «acqua» o «tempesta», ma si doveva dire «l’umido elemento» e «la furia degli elementi». Per Hernani, com’è noto, la battaglia si accese sul passo: «Est-il minuit? – Minuit bientôt» [«È mezzanotte? – Mezzanotte fra poco»], che parve espressione troppo comune, troppo diretta e semplice. La risposta, diceva Stendhal, avrebbe dovuto essere: ... l’heure atteindra bientôt sa dernière demeure. [«... L’ora | giungerà presto all’ultima dimora»]. I difensori dello stile classico sapevano benissimo qual era la questione. La lingua di Victor Hugo non era propriamente nuova; non se ne udiva altra sulle scene dei boulevards. Ma i classicisti si preoccupavano soltanto della «purezza» del teatro letterario, non dei boulevards, né del divertimento delle masse. Finché c’era un teatro elevato e una poesia colta, si poteva tranquillamente sorvolare su quel che si recitava in periferia; ma quando anche sul palcoscenico del Théâtre Français si poté parlare come meglio garbava, allora non rimase piú nessuna differenza sensibile tra i vari ceti culturali e sociali. Da Corneille in poi la tragedia era considerata il genere letterario piú elevato; un poeta doveva esordire con una tragedia e come tragediografo giungeva al colmo della fama. Tragedia e teatro letterario erano il terreno proprio dell’élite intellettuale; finché esso rimase intatto, ci si poté sentire eredi del grand siècle. Ma ora del teatro letterario si stava impadronendo un dramma popolareggiante, che trascurava i problemi psicologici e morali della tragedia classica, e ricercava invece il movimen-

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to dell’intreccio, le scene pittoresche, i personaggi interessanti, la violenza dei sentimenti. Il destino del teatro era l’argomento del giorno; nei due campi si sapeva che si trattava di conquistare una posizione chiave. E in questa lotta il personaggio nato, si direbbe, per assumere figura di simbolo, se non proprio per essere la forza propulsiva, era Victor Hugo, in grazia della sua natura teatrale e della sua passione per il teatro, del suo carattere sonante e apodittico, della sua sensibilità per tutto ciò che è popolare, volgare, brutalmente efficace. Nel campo del teatro il romanticismo si trovò di fronte a una situazione intricatissima. Il teatro popolare, erede dell’antico mimo, della farsa medievale e della commedia dell’arte, era stato nel Sei e nel Settecento soverchiato dal teatro letterario. Ma con la Rivoluzione la produzione popolare aveva preso nuovo impulso e, sia pure con influenze del dramma letterario, aveva riconquistato una parte delle scene parigine. Alla Comédie Française e all’Odéon si recitavano ancor sempre le opere di Corneille, Racine, Molière e di quegli autori che si erano adeguati alla tradizione classica e al gusto di corte, o si erano attenuti alla concezione letteraria del dramma borghese. Invece nei teatri dei boulevards – al Gymnase, al Vaudeville, all’Ambigu-Comique, alla Gaieté, nei Variétés e Nouveautés – si rappresentavano lavori adatti al gusto e al livello culturale delle masse. Durante e subito dopo la Rivoluzione, stando alle testimonianze molto dettagliate dei contemporanei, il pubblico nei teatri muta radicalmente e in genere si fa notare la mancanza di esigenze artistiche e il difetto di cultura nei ceti che ormai riempiono le platee parigine. È un pubblico fatto in gran parte di soldati, operai, commessi di negozio e ragazzi; e, secondo una fonte, appena un terzo di loro sa scrivere31. Questo uditorio non soltanto domina i teatri plebei dei boulevards, ma giunge a minacciare l’esistenza degli eleganti teatri letterari,

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perché attrae anche il pubblico piú raffinato, cosí che gli attori della Comédie Française e dell’Odéon recitano davanti a sale vuote32. Durante il Primo Impero, la Restaurazione e la monarchia di luglio, ecco i generi che figurano nel repertorio dei teatri parigini: 1) la comédie en cinq acts et en vers, genere letterario per eccellenza, e come tale destinato alla Comédie Française e all’Odéon (ad esempio, l’Othello di Ducis); 2) la comédie de mœurs en prose che, come erede del dramma borghese, è di tipo piú modesto, ma sempre abbastanza stimata, perché l’accolgano i migliori teatri (esempio, il Mariage d’argent di Scribe); 3) il drame en prose, cioè il dramma patetico, anch’esso risalente al dramma borghese, ma, per il gusto, inferiore alla comédie de mœurs (esempio, L’Abbé et l’épée di Bouilly); 4) la comédie historique che tratta eventi e personaggi storici non piú come esempi e modelli, ma come curiosità e offre una serie di scene invece d’una coerente azione drammatica (gli esempi sono vari e numerosi: dal Cromwell di Mérimée alle Barrìcades di Vitet, comprendono tutti i tentativi da cui nacque Henri III di Dumas); 5) il vaudeville, cioè la commedia musicale o, piú esattamente, la commedia inframmezzata di canzoni, uno dei piú diretti precedenti dell’operetta (in questa categoria si possono annoverare la maggior parte dei lavori di Scribe e dei suoi collaboratori); 6) il mélodrame, forma ibrida, che ha in comune con il vaudeville l’accompagnamento musicale, e con gli altri generi inferiori, specialmente col dramma patetico e con quello storico, il soggetto serio e spesso tragico. A spiegare l’enorme produzione nei generi popolari, specie nei due ultimi elencati, e il graduale cedimento del dramma letterario di maggior pretesa, non basta il fatto che la Rivoluzione aveva aperto i teatri alle masse, e che erano queste ormai a decidere il successo dell’opera; occorre anche ricordare in primo luogo l’effetto

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della censura sul repertorio. La censura napoleonica e quella della Restaurazione impedivano che nel dramma letterario piú elevato si discutessero questioni di attualità o si descrivessero i costumi della classe dominante. Invece la farsa, la commedia musicale, e il melodramma erano piú liberi, perché erano presi meno sul serio e si pensava che non valesse la pena di preoccuparsene. Alla franca descrizione di costumi e situazioni, inammissibile alla Comédie Française, non si ponevano ostacoli nei teatri dei boulevards: e ciò spiega l’attrattiva che questi esercitavano sugli autori e sul pubblico33. Le forme drammatiche piú importanti e interessanti per la successiva evoluzione del teatro sono il vaudeville e il melodramma; essi costituiscono la vera svolta nella storia del teatro moderno e la transizione dal dramma classico a quello romantico. Per essi il teatro torna ad essere un divertimento, riacquista la sua vivacità, la sua evidenza. Dei due, il melodramma ha la struttura piú complessa e la genealogia piú ramificata. Uno dei suoi numerosi precedenti è il monologo con accompagnamento musicale, la forma originaria di quell’ibrido genere che è vivo ancor oggi nei programmi dei filodrammatici, e che nel Pygmalion di Rousseau (1775) ha il primo esempio noto. Di qui comincia a rinnovarsi la recita con accompagnamento musicale, forma di origine antichissima. Un’altra fonte del mélodrame, tecnicamente assai piú ricca, è il dramma borghese di De la Chaussée, Diderot, Mercier e Sedaine, che dalla Rivoluzione in poi è diventato, per la sua natura lacrimosa e moraleggiante, carissimo ai ceti piú umili. Ma a preparare il melodramma è soprattutto la pantomima. Le cosiddette pantomimes historiques et romanesques cominciano ad apparire nell’ultimo terzo del Settecento. Dapprima trattano soggetti mitologici e leggendarî, come Ercole e Onfale, Rosaspina, La maschera di ferro, piú tardi anche temi contemporanei, come la Bataille du général Hoche. Sono

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serie di quadri a mo’ di rivista, per lo piú tumultuosi, senza coerenza organica né sviluppo drammatico e prediligono le situazioni in cui prevalgano il mistero e il prodigio, spettri e spiriti, carceri e sepolcri. A poco a poco nelle singole scene vengono inseriti brevi passi esplicativi e dialoghi, e cosí durante la Rivoluzione e nell’epoca successiva questi lavori si sviluppano nelle curiose pantomimes dialoguées e finiscono nel mélodrame à grand spectacle, che lentamente va perdendo il suo carattere coreografico e gli elementi musicali, e diventa la commedia d’intreccio, fondamentale per la storia del teatro ottocentesco. Sulla trasformazione del melodramma influiscono soprattutto i romanzi neri della Radcliffe e dei suoi imitatori. Di qui derivano quegli effetti da Grand Guignol che esso presenta, e anche certi suoi aspetti criminali. Ma tutti questi influssi modificano e arricchiscono solo la forma del melodramma, la sua essenza rimane pur sempre il conflitto del dramma classico. Il melodramma non è che la tragedia in veste popolare, o, se si vuole, degenerata. Pixérécourt, il principale esponente di questo genere letterario, è perfettamente conscio dell’affinità dell’arte sua con il teatro popolare, ed erra solo nel supporre fra il melodramma e il mimo una comune natura e una continuità storica34. È vero che egli riconosce il giusto nesso che lega il mimo ai misteri medievali, al dramma pastorale e all’arte di Molière, ma non sa cogliere la differenza di fondo che corre tra il carattere schiettamente popolare del mimo e il carattere derivato invece di un teatro letterario decaduto poi al livello del gran pubblico urbano. Il melodramma è tutt’altro che un’arte spontanea e ingenua; segue invece i raffinati principî formali che la tragedia si era elaborata in un lungo e cosciente sviluppo, sia pur interpretandoli piú rozzamente, senza le finezze psicologiche e le bellezze poetiche della forma classica. Formalmente, il melodramma

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è il genere piú convenzionale, schematico e artificioso che si possa pensare: un canone in cui non c’è posto per novità e spontaneità, per elementi di spregiudicato naturalismo. Esso presenta una struttura rigorosamente tripartita, con una situazione iniziale di forte contrasto, un urto violento e un dénouement in cui la virtú trionfa e il male è punito: insomma un’azione molto evidente e sommaria, in cui l’intreccio prevale sui caratteri e le figure sono sempre le stesse: l’eroe, l’innocente perseguitato, il malvagio e il tipo comico35. Sugli eventi domina una fatalità cieca e crudele; ma assume anche un energico spicco la morale che, veramente, per la sua scipita tendenza a tutto accomodare, premiando i buoni e punendo i cattivi, non corrisponde piú al carattere etico della tragedia, ma con essa ha in comune il pathos sublime, sebbene spinto all’esagerazione. Il melodramma rivela la sua dipendenza dalla tragedia anzitutto per l’osservanza delle tre unità o almeno per l’inclinazione a non trascurarle. Pixérécourt si permette mutamenti di luogo fra un atto e l’altro, ma in questi casi il mutamento non salta troppo agli occhi, e solo in Charles le Téméraire (1814) egli cambia la scena nel corso di un atto. Ma se ne scusa in una nota, che costituisce una singolare indicazione dei suoi principî classici: «Accade per la prima volta che io mi permetta un’infrazione delle regole», egli assicura. In generale Pixérécourt mantiene anche l’unità di tempo: per lo piú nei suoi lavori tutto si svolge in ventiquattr’ore. Solo nel 1818, con la Fille de l’exilé ou huit mois en deux heures egli segue un nuovo criterio, scusandosene anche questa volta36. Invece il mimo, che consta di una sola scena naturalistica, ritratta dalla vita, o di una libera serie di scene del genere, non ha un’azione stereotipa, riducibile a schema rigido, né caratteri tipici o fuor del comune, né una severa morale, né uno stile idealizzato, distinto dalla lingua parlata. Il melodramma ha in comune col mimo il dinamismo delle

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scene e la violenza degli effetti, i mezzi abborracciati e il carattere popolare dei temi; ma per altri aspetti invece si attiene rigidamente all’ideale stilistico della tragedia classica. Il convenzionalismo di una forma non è sempre il segno di una destinazione elevata. La varietà moderna del mimo non è il melodramma, bensí il vaudeville, che è assai piú affine all’antico teatro popolare per la sua azione episodica, disarticolata in scene singole, per le canzoni intercalate, i tipi popolari tratti dalla vita quotidiana, lo stile fresco, piccante, che pare improvvisato, sebbene non vi manchino influssi letterari. Tra il 1815 e il 1848 questo genere presenta una grande fecondità, e produce una folla di lavori e lavoretti tenui, leggeri, divertenti, oltre alle numerose commedie di Scribe. La costernazione dei letterati per l’abbondanza e il successo di tale produzione si può immaginare solo ricordando come si reagí alla marcia trionfale del film. Durante la Rivoluzione la commedia si era esaurita, come già prima era avvenuto della tragedia; e come questa era degenerata rozzamente nel melodramma, cosí il vaudeville fu una rozza degenerazione della commedia. Ma né l’uno né l’altro uccisero il dramma, che anzi ne uscí rinnovato; infatti il dramma romantico – Hernani di Victor Hugo, l’Antony di Dumas – altro non era che il mélodrame parvenu; e il moderno dramma di costume, di Augier, Sardou e Dumas figlio, non fu che una varietà del vaudeville37. Pixérécourt scrisse fra il 1798 e il 1834 circa centoventi lavori, di cui molti furono rappresentati migliaia di volte. Per trent’anni il melodramma dominò la vita del teatro parigino, e il suo favore cessò solo quando il gusto del pubblico cominciò a elevarsi, e le crudezze di quei lavori, il loro difetto di logica, l’insufficiente motivazione e il linguaggio innaturale apparvero sempre piú fastidiosi. Ma i romantici avevano un debole per il melodramma, non solo per la loro opposizione ai ceti colti

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conservatori, ma anche per la loro maggior spregiudicatezza che li portava a comprendere meglio i pregi extraletterari, schiettamente teatrali del genere. Charles Nodier si dichiarò subito fautore entusiasta del melodramma che non esitò a definire «la seule tragédie populaire qui convienne à notre époque» [«La sola tragedia popolare che convenga alla nostra epoca»]38; e Paul Lacroix indica Pixérécourt come il drammaturgo che sviluppa e conclude gli spunti di Beaumarchais, Diderot, Sedaine e Mercier39. L’inaudito successo, l’opposizione dei circoli ufficiali, la particolare predilezione dei romantici per gli effetti melodrammatici, i colori violenti, le situazioni sensazionali, gli accenti forti, tutti questi elementi hanno fatto sí che nel dramma romantico si siano conservati tanti caratteri del teatro plebeo. Ma dal melodramma il romanticismo riprese soltanto quel che era suo dall’inizio, o in germe era già implicito nel preromanticismo e nello Sturm und Drang, e che al teatro era stato trasmesso in parte dal racconto terrifico inglese e da quello tedesco di briganti e cavalieri. Il teatro romantico ha infatti in comune col melodramma anzitutto gli acuti contrasti e gli ardenti conflitti, l’azione complicata, avventurosa, cruenta e selvaggia; il predominio del prodigio e del caso, i passaggi bruschi, i mutamenti improvvisi, per lo piú ingiustificati, gli incontri e i riconoscimenti insperati, il continuo avvicendarsi di tensione e distensione; la violenza, l’irresistibile brutalità degli espedienti; il raccapricciante, il sinistro, il demoniaco che sorprende e soggioga lo spettatore; il meccanismo già bell’e pronto della vicenda, gli intrighi e le congiure, i travestimenti e gli inganni, le macchinazioni e i tranelli; infine gli effetti teatrali e il repertorio scenico, senza cui non si concepisce un dramma romantico: imprigionamenti e ratti, contrattempi e salvataggi, tentativi di fuga e assassini, salme e bare, carceri e cripte, torri e segrete, pugnali, daghe, fiale di veleno, anel-

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li, amuleti e tesori di famiglia, lettere intercettate, testamenti perduti, contratti segreti trafugati. Il romanticismo non era certo schizzinoso; ma basta pensare a Balzac, il piú grande scrittore del secolo e il piú discutibile in fatto di gusto, per accorgersi come siano ormai ristretti, e in conclusione trascurabili, i criteri del gusto classico. Che il teatro si andasse sviluppando in senso popolaresco lo prova non tanto l’esistenza in sé del melodramma, quanto la buona fede con cui Pixérécourt spacciava i suoi prodotti. Egli riteneva cattivi, falsi, immorali e pericolosi i lavori dei romantici, ed era profondamente persuaso che i suoi ambiziosi concorrenti avessero meno cuore di lui e meno senso di responsabilità morale40. A questo proposito Faguet nota giustamente che bisogna credere alla robaccia per farne di buona, destinata al successo. D’Ennery, per esempio, era miglior scrittore e persona piú intelligente di Pixérécourt, ma scriveva i suoi melodrammi senza convinzione, unicamente per guadagnare, e cosí non riuscí nemmeno una volta a scriverne di buoni41; invece Pixérécourt credeva di adempiere a una missione e non voleva aver niente in comune col nuovo dramma romantico. I romantici invece devono a lui anzitutto il senso del vero teatro e il contatto con il gran pubblico. A lui anche devono se hanno potuto avere una parte cosí importante nello sviluppo della pièce bien faite [Dramma ben fatto]; e tutto l’Ottocento gli deve la rinascita di un vivace teatro popolare che, paragonato a quello del Sei e del Settecento, può risultare farraginoso e spesso triviale, ma ha avuto il merito di evitare che il dramma si volatilizzasse in mera letteratura. Era destino di questo secolo che, ogni qualvolta l’elemento poetico si affermava nel dramma, finisse per minacciarne il divertimento, l’efficacia e l’evidenza scenica. Già nell’età romantica i due elementi vengono a conflitto, per cui o

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il successo teatrale o la perfezione poetica vengono sacrificati. Alessandro Dumas tendeva al dramma robusto, fatto per la scena, Victor Hugo, alla soverchiante eloquenza, e la stessa alternativa si presentò ai loro successori; soltanto in Ibsen le due opposte tendenze trovarono un equilibrio armonico, se pur precario. L’Inghilterra aveva avuto già nel Seicento la sua rivoluzione politica e un secolo dopo quella industriale e artistica; al tempo della gran contesa tra classici e romantici in Francia, qui non restava quasi nulla della tradizione classica. Il romanticismo inglese ebbe cosí uno sviluppo piú continuo e coerente di quello francese e incontrò minor resistenza fra il pubblico; anche politicamente fu meno diviso che in Francia. All’inizio esso era nettamente liberale e guardava con schietta simpatia alla Rivoluzione; la lotta contro Bonaparte portò poi a un’intesa fra conservatori e romantici, e solo dopo la caduta di Napoleone fra questi ultimi tornò a prevalere il liberalismo. L’unità di un tempo tuttavia non fu piú ritrovata; non si vollero dimenticare tanto presto gli «insegnamenti» della Rivoluzione e del dominio napoleonico, e molti degli antichi liberali, fra cui i Laghisti, rimasero antirivoluzionari. Walter Scott era e rimase un tory; invece Godwin, Shelley, Leigh Hunt e Byron rappresentarono il radicalismo prevalente nella giovane generazione. Il romanticismo inglese nacque, in sostanza, dalla reazione degli elementi liberali alla rivoluzione industriale; quello francese, dalla reazione dei ceti conservatori alla rivoluzione politica. Il rapporto fra romanticismo e preromanticismo in Inghilterra fu assai piú stretto che in Francia, dove il classicismo rivoluzionario spezzò la continuità dei due movimenti. In Inghilterra fra il romanticismo e la rivoluzione industriale ormai in atto correva un rapporto sostanzialmente analogo a quello che era intercorso tra preromanticismo e prodromi dell’industrializzazione. Nel Deserted Village

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[Il villaggio abbandonato] di Goldsmith, nei Satanic Mills [I mulini diabolici] di Blake e nell’Age of Despair [L’età disperata] di Shelley si esprime su per giú il medesimo stato d’animo. La passione dei romantici per la natura è inconcepibile senza il distacco fra città e campagna, come il loro pessimismo senza lo squallore e la miseria delle città industriali. Essi sono pienamente consci di quanto accade e vedono esattamente che cosa significhi il convertirsi del lavoro umano in semplice merce. Southey e Coleridge nella disoccupazione periodica riconoscono la conseguenza inevitabile dell’anarchica produzione capitalistica, e Coleridge sottolinea che secondo la nuova concezione del lavoro l’imprenditore compera e l’operaio vende qualcosa che essi non avrebbero il diritto di comprare né di vendere, «la salute, la vita, il benessere del lavoratore»42. Al termine del conflitto con Napoleone, l’Inghilterra, benché non esausta, si trova indebolita e disorientata, in una condizione cioè particolarmente adatta perché la società borghese dubiti delle basi stesse della propria esistenza. Questo processo viene avviato dai piú giovani fra i romantici, la generazione di Shelley, Keats e Byron. Il loro intransigente umanesimo è la protesta contro la politica di sfruttamento e di oppressione; la loro vita ribelle alle convenzioni, il loro aggressivo ateismo e la loro spregiudicatezza morale sono le varie forme della loro lotta contro la classe che dispone dei mezzi per sfruttare e opprimere. Persino nei suoi esponenti conservatori, come Wordsworth e Scott, il romanticismo inglese è un movimento in certo modo democratico, che contribuisce a rendere la letteratura popolare. Il proposito di Wordsworth, di avvicinare la lingua poetica alla lingua parlata, è un esempio caratteristico di questa tendenza, benché la «naturale» dizione poetica di cui egli si serve non sia, in realtà, piú semplice e spontanea dell’antica lingua letteraria, ch’egli rifiuta perché artificio-

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sa. Se essa è meno dotta, tanto piú complicate ne sono le premesse psicologiche soggettive. E per quanto riguarda l’impresa di descrivere se stesso e la propria evoluzione spirituale, in un poema lungo quanto l’epopea omerica, questa sì, rispetto all’obiettività dell’antica letteratura, è un’azione, rivoluzionaria e per il nuovo soggettivismo forse significativa quanto Poesia e verità di Goethe; ma la «popolarità» e la «naturalezza» di una simile impresa sono piú che dubbie. Nel suo saggio su Wordsworth, Matthew Arnold, parlando di certi difetti del poeta, osserva che anche Shakespeare, naturalmente, ha i suoi punti deboli; ma se nei Campi Elisi gliene potessimo parlare, certo risponderebbe di esserne pienamente consapevole. «Del resto, – aggiungerebbe forse sorridendo, – che fa se una volta tanto ci si lascia andare!» Invece, concentrandosi tutto sul proprio io, il poeta moderno è portato a sopravvalutare senza umorismo ogni manifestazione personale, a far conto del valore espressivo di ogni minimo particolare e perde cosí la felice noncuranza con cui l’antico poeta lasciava sgorgare i suoi versi. Per il Settecento la poesia era espressione di idee; senso e scopo delle immagini poetiche era la spiegazione e l’illustrazione di un contenuto ideale. Nella poesia romantica invece l’immagine poetica è non il risultato, ma la fonte delle idee43. La metafora le genera, e noi abbiamo il senso che la parola si renda indipendente e diventi per se stessa poesia. Apparentemente i romantici vi si abbandonano senza resistenza, esprimendo anche cosí la loro concezione irrazionale dell’arte. Può darsi che il Kubla Khan di Coleridge sia stato un caso limite; ma certo è sintomatico. I romantici credevano a una forza soprasensibile, emanante dall’anima del mondo, come origine dell’ispirazione poetica, e la identificavano con la spontanea forza creatrice della parola. Lasciarsene dominare, era per loro il segno del genio

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artistico. Naturalmente già Platone parlava dell’«entusiasmo», dell’ispirazione divina dei poeti, e la fede in essa è propria di ogni tempo in cui poeti e artisti vogliono apparire quasi una casta sacerdotale. Ma non era mai accaduto che l’ispirazione fosse concepita come una fiamma che s’accende da sé, come una luce che ha nell’anima stessa del poeta la sua sorgente. La sua origine divina riguarda solo la forma, non già il contenuto; nulla ne viene all’anima, ch’essa già non possegga. Cosí vengono mantenuti i due principî: il divino e l’individuale; e il poeta diventa il dio di se stesso. Il panteismo estatico di Shelley è il paradigma di questa autodeificazione. Manca in esso ogni traccia di abnegazione devota, la rinunzia di chi è pronto a scomparire di fronte a ciò che è sublime. Il perdersi nel Tutto è volontà di dominio, non già sottomissione. Il mondo governato dalla poesia e dal poeta è considerato il piú alto, il piú puro, il piú schiettamente divino, e la divinità stessa non conosce altri criteri che quelli derivati dalla poesia. Shelley fonda la sua visione cosmica, in perfetto accordo con Friedrich Schlegel e con il romanticismo tedesco, su una mitologia a cui, però, egli stesso non crede. Accade in lui che la metafora diventa mito, non già l’inverso, come presso i Greci. Ma anche questo mitologizzare non è che un modo di evadere dalla realtà consueta, volgare, inerte; un ponte per ricongiungersi alla propria vita piú intima e alla propria sensibilità. Per il poeta non è che un mezzo per ritrovarsi. Il mito antico era sorto da una simpatia e da un legame con la realtà; la mitologia romantica nasce dalle sue rovine e in certo modo come un surrogato. La visione cosmica di Shelley s’impernia sull’idea di una grande lotta, estesa a tutto il mondo, tra il principio del bene e quello del male; e rappresenta una idealizzazione grandiosa dell’antagonismo politico che costituisce la piú profonda e decisiva esperienza del poeta. Il suo ateismo come è

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stato notato, è una rivolta contro Dio piú che una negazione di Dio; esso combatte un oppressore e un tiranno44. Shelley è il ribelle nato, che in tutto quanto è legittimo, costituzionale e convenzionale vede l’opera di una volontà dispotica e per il quale l’oppressione, lo sfruttamento e la violenza, l’ottusità, la sozzura e la menzogna, i re, le classi dominanti e le Chiese formano con il Dio della Bibbia un’unica forza compatta. Il carattere astratto e fragile di quest’idea mostra chiaramente quanto vicini siano ormai, a quest’epoca, gli scrittori inglesi e quelli tedeschi. L’isterismo antirivoluzionario ha avvelenato l’atmosfera spirituale in cui potevano ancora esprimersi liberamente gli scrittori inglesi del Settecento; le manifestazioni dell’epoca assumono un aspetto irreale, rispecchiano un atteggiamento di fuga e negazione del mondo, che fin qui era ignoto alla letteratura inglese. I migliori poeti della generazione di Shelley non trovano consenso nel pubblico45; si sentono senza patria e fuggono all’estero. Questa generazione in Inghilterra è condannata non diversamente che in Germania o in Russia; Shelley e Keats vengono schiacciati dal loro tempo con la stessa inesorabilità che Höderlin e Kleist o Pu∫kin e Lermontov. E anche il risultato ideologico è dovunque lo stesso: idealismo in Germania, «l’art pour l’art» in Francia, estetismo in Inghilterra. Dappertutto si cessa di lottare distogliendosi dalla realtà e rinunziando a mutare la struttura sociale esistente. In Keats questo estetismo va già unito con una profonda malinconia, con il lamento sulla bellezza che non è vita, che anzi è negazione della vita; negazione di quella vita e di quella realtà, che al poeta, adoratore della bellezza, sono eternamente negate, inaccessibili come la santità, l’eroismo, l’amore, come tutto ciò ch’è immediato, naturale, spontaneo. Già si presente la rinunzia flaubertiana, la rassegnazione dell’ultimo grande romantico, a cui già era ben chiaro che la vita è il prezzo della poesia.

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Fra tutti i celebri romantici, è Byron ad esercitare l’influsso piú profondo e piú vasto sui contemporanei. Ma egli non è certo il piú originale; è soltanto il piú felice nel formulare il nuovo ideale della personalità. Né il mal du siècle, né l’eroe solitario e orgoglioso, segnato dal destino, cioè nessuno dei due elementi fondamentali della sua poesia è veramente una sua invenzione. La malinconia byroniana viene da Chateaubriand e dalla letteratura dell’emigrazione francese; l’eroe byroniano discende da Saint-Preux e da Werther. Il senso dell’inconciliabilità fra le esigenze morali dell’individuo e le convenzioni sociali già per Rousseau e per Goethe caratterizzava l’uomo nuovo, e già Sénancour e Constant descrivono l’eroe come un eterno esule, che porta in sé la maledizione della sua natura asociale. Ma nell’opera loro il carattere asociale dell’eroe era ancora connesso con un senso di colpevolezza, e si palesava in rapporti complicati e ambivalenti con la società; solo Byron lo trasforma in aperta ribellione senza piú scrupoli; in un’accusa ai contemporanei da parte dell’eroe che rende giustizia a se stesso e si commisera lamentosamente: Byron rende esteriore e volgare il gran problema del romanticismo; l’intimo tormento del suo tempo in lui diventa moda, atteggiamento mondano. Grazie a lui l’inquietudine del romantico, senza piú scopo nella vita, diventa un contagio, la «malattia del secolo»; il senso dell’isolamento degenera in un culto della solitudine pieno di rancore, la perdita degli antichi ideali in anarchico individualismo, il tedio della civiltà e della vita in un gioco affettato con la vita e la morte. Alla maledizione da cui la sua generazione si sentiva oppressa Byron dà un aspetto seducente: i suoi eroi sono degli esibizionisti che ostentano le loro ferite, dei masochisti che si coprono pubblicamente di colpe e di vergogna, dei flagellanti che si torturano con autoaccuse e rimorsi e

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rivendicano per sé, con lo stesso orgoglio, le buone e le cattive azioni. L’eroe byroniano, questo tardo epigono del cavaliere errante, altrettanto amato e quasi altrettanto longevo, domina tutta la letteratura ottocentesca e imperversa ancora negli odierni film di criminali e di gangsters. Certi suoi tratti sono antichissimi, almeno antichi quanto il romanzo picaresco. In questo infatti si trova già la figura del reietto che dichiara guerra alla società ed è nemico imperterrito dei grandi e dei potenti quanto amico e benefattore dei deboli e dei poveri: esteriormente rude e spiacevole, si rivela alla fine schietto e magnanimo; è insomma quale la società lo ha fatto. Tra Lazarillo de Tormes e Humphrey Bogart l’eroe byroniano è solo un anello intermedio. Già molto tempo prima di Byron il briccone era diventato l’inquieto pellegrino che regolava i suoi passi sulle stelle, l’eterno straniero tra gli uomini, che cercava la felicità perduta senza trovarla mai, l’amaro misantropo che portava il proprio destino con l’orgoglio di un angelo caduto. Tutti questi motivi esistevano già in Rousseau e in Chateaubriand; di nuovo nella figura byroniana non ci sono che i tratti satanici e narcisistici. L’eroe romantico, che Byron introduce nella letteratura, è un’uomo misterioso; nel suo passato c’è un segreto, un tremendo peccato, un fatale errore o una omissione irreparabile. Egli è un proscritto, ognuno lo sente, ma nessuno sa che cosa si celi sotto il velo del tempo, ed egli non lo solleva. Si avvolge nel mistero del suo passato come in un manto regale: solitario, taciturno, inaccessibile. Da lui emana dannazione e rovina. È spietato con se stesso e con gli altri. Non conosce perdono e non chiede grazia né a Dio, né agli uomini. Non rimpiange nulla, non si pente di nulla e, nonostante la sua vita disperata, nulla vorrebbe mutare in quel che è stato e in quel ch’egli ha fatto. È rude e selvatico, ma d’alta origine; i suoi lineamenti sono duri e impenetra-

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bili, ma nobili e belli; da lui emana uno strano fascino a cui nessuna donna può resistere, mentre ogni uomo risponde con amicizia o inimicizia. Egli è colui che il destino incalza e che diventa per gli altri il destino; il prototipo non solo degli irresistibili e fatali amanti che troviamo nella letteratura moderna, ma in certo modo anche dei demoni di sesso femminile, dalla Carmen di Mérimée alle vamps di Hollywood. Se non è stato proprio Byron a scoprire l’«eroe satanico» che, ossesso e accecato, getta nella perdizione se stesso e chiunque venga a contatto con lui, certo egli ne ha fatto l’uomo «interessante» per eccellenza, Gli ha dato i caratteri piccanti e seducenti che da allora gli sono rimasti, lo ha tramutato nell’immoralista, nel cinico, irresistibile proprio per il suo cinismo. Per il disincantato mondo romantico in cerca di una nuova fede l’idea dell’«angelo caduto» aveva una fortissima attrattiva. Ci si sentiva colpevoli, ribelli a Dio, ma nella dannazione si voleva essere almeno come Lucifero. Anche i serafici Lamartine e Vigny finirono per passare al satanismo mettendosi nel seguito degli Shelley e dei Byron, dei Gautier, dei Musset, dei Leopardi e degli Heine46. Questo atteggiamento, traendo origine dal contraddittorio atteggiamento dei romantici di fronte alla vita, scaturiva senza dubbio da un’inquietudine religiosa, ma, specialmente in Byron, si trasformò in scherno per tutto ciò che appariva sacro alla borghesia. Si trattava però di un’avversione diversa da quella della bohème francese per il borghese: l’anticonvenzionalismo plebeo di Gautier e dei suoi amici rappresentava un attacco dal basso; l’immoralismo di Byron, invece, un attacco dall’alto. Ogni espressione piú o meno tipica di Byron tradisce lo snobismo che accompagna le sue idee liberali, ogni sua testimonianza svela l’aristocratico, certo non piú saldamente radicato nella sua posizione sociale, ma fedele alle pose della casta. Soprattutto l’isterica passionalità con

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cui, nelle opere tarde, egli si scaglia contro l’aristocrazia che lo scomunica, mostra quanto profondamente egli si senta legato a quella classe e, nonostante tutto, quanta autorità e attrattiva essa abbia ancora per lui47. «La morte non è un argomento», dice Hebbel. Certo Byron con la sua morte eroica non ha provato nulla. Essa non gli si addice, bench’egli fosse di sentimenti rivoluzionari. Byron cercò la morte «perché il suo equilibrio spirituale era turbato» e morí «coronato di pampini» come voleva morire Hedda Gabler. Dalle inclinazioni aristocratiche di Byron dipende anche la sua fedeltà all’estetica classicistica e la sua predilezione per Pope. Di Wordsworth gli spiaceva il tono freddamente solenne, prosaicamente untuoso; e disprezzava Keats per la sua «volgarità». Da queste preferenze classiche derivano anche lo spirito distaccato e ironico, la forma vivace delle opere byroniane, soprattutto il disinvolto tono discorsivo del Don Juan. Tuttavia è innegabile una connessione fra la scorrevolezza del suo stile e la dizione «naturale» di Wordsworth; sono entrambi aspetti della reazione al pathos retorico del Sei e del Settecento. Il fine comune era quello di raggiungere una maggior flessibilità della lingua, e proprio come maestro di uno stile fluido, agilissimo, apparentemente improvvisato, Byron destò il maggior entusiasmo fra i contemporanei. Né la grazia alata di Pu∫kin, né l’eleganza di Musset sarebbero concepibili senza questo nuovo tono. Il Don Juan con il suo particolare accento non solo fu esemplare per la poesia arguta, maliziosa, satirica, ma è all’origine del moderno romanzo d’appendice48. I primi lettori di Byron probabilmente appartennero alla nobiltà e all’alta borghesia; ma il suo vero, grande pubblico egli lo trovò nelle file di quella borghesia scontenta, piena di rancore, incline al romanticismo, dove ogni fallito si riteneva un Napoleone incompreso. L’eroe byroniano era concepito in modo che ogni giovane deluso nelle sue

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speranze, ogni fanciulla offesa nel suo amore vi si potesse riconoscere. Incoraggiando il lettore a tale intimità, Byron non fa che continuare la tendenza già palese in Rousseau e in Richardson, ed è questa la ragione piú profonda del suo successo. L’intimità del vincolo fra lettore ed eroe provocava un interesse tutto particolare per la persona dell’autore. Anche questo era fenomeno già noto ai tempi di Rousseau e di Richardson, tuttavia si può dire che fino all’età romantica la vita privata del poeta fosse rimasta ignota ai lettori. Ma da quando Byron prese a farsi réclame, il poeta divenne il beniamino del pubblico, e i lettori – specialmente le lettrici – ebbero con lui quei singolari rapporti che sogliono stabilirsi fra lo psicanalista e il suo paziente, o fra un astro del cinematografo e le sue adoratrici. Byron fu il primo poeta inglese che esercitò un influsso importante sulla letteratura europea; Walter Scott fu il secondo. Grazie a loro divenne realtà quel che Goethe intendeva per «letteratura universale». La loro scuola si estese a tutto il mondo letterario, godendovi la più alta autorità, introdusse nuove forme, nuovi valori, avviò nutriti scambi culturali fra l’uno e l’altro paese d’Europa, quasi flussi e riflussi che portavano seco nuovi ingegni, spesso sollevandoli al di sopra dei loro maestri. Basta pensare a Pu∫kin e a Balzac per capire l’ampiezza e la fecondità della scuola. Forse la moda byroniana fu piú febbrile e appariscente, ma l’azione di Walter Scott, che è stato detto «il piú fortunato scrittore del mondo»49, fu piú reale e profonda. Da lui procede quel rinnovamento del romanzo naturalistico, il genere moderno per eccellenza, che trasforma l’intero pubblico letterario. In Inghilterra il numero dei lettori era venuto crescendo continuamente già dal principio del Settecento. In questo processo si possono distinguere tre tappe: la fase iniziatasi verso il 1710 con i nuovi periodici e culminante nel romanzo della metà del secolo; il

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tempo dei pseudostorici romanzi neri, dal 1770 fino al 1800; e il periodo del romanzo naturalistico moderno, aperto da Walter Scott. Ad ognuna di queste fasi corrispose un aumento considerevole di lettori. La prima conquistò alla letteratura di argomento profano una parte relativamente esigua della borghesia, cioè di gente che fino allora non leggeva nulla, o, al massimo, libri edificanti; nella seconda questo pubblico ingrossò fino a comprendere un’ampia cerchia di borghesi in via di arricchirsi, soprattutto signore; nella terza vi si aggiunsero altri elementi dell’alta e della piccola borghesia, che cercavano nel romanzo divertimento e istruzione. Walter Scott riuscí a raggiungere la popolarità dei romanzi neri e sensazionali con i mezzi, ben piú raffinati, dei grandi romanzieri settecenteschi. Egli divulgò le descrizioni del passato feudale, fino allora lettura esclusiva dei ceti superiori50, e nello stesso tempo elevò a vera dignità letteraria lo pseudostorico romanzo a forti tinte. L’ultimo grande romanziere del Settecento fu Smollett. Il mirabile sviluppo che nel romanzo inglese corrispose alle conquiste politiche e sociali della borghesia, si arresta verso il 1770. L’improvviso crescere del pubblico provoca una sensibile decadenza: la richiesta eccede di molto il numero dei buoni scrittori, e poiché la produzione viene in ogni modo assorbita, si produce senza freno né discernimento. L’esigenza delle biblioteche circolanti impone il ritmo e determina la qualità. Le cose piú ricercate, oltre ai romanzi raccapriccianti, sono gli scandali del giorno, i «casi» celebri, le biografie piú o meno romanzate, le relazioni di viaggi e le memorie segrete, insomma i soliti generi sensazionali. Ne viene, fenomeno inaudito, che gli ambienti colti cominciano a disprezzare il romanzo51. Solo Walter Scott ne restaura il prestigio, trattandolo anzitutto in modo da soddisfare l’interesse degli ambienti intellettuali per la storia e la scienza. Non solo egli cerca di offrire ogni volta un

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fedele quadro storico, ma provvede i suoi romanzi di introduzioni, note e appendici, a sostegno della loro attendibilità scientifica. Se è vero che non si può considerare Walter Scott come il vero creatore del romanzo storico, è tuttavia fuor di dubbio che egli è l’inventore del genere storico-sociale, prima affatto ignoto. I romanzieri francesi del Settecento, Marivaux, Prévost, Laclos e Chateaubriand avevano certo determinato con le loro opere un immenso progresso del romanzo psicologico, ma non avevano saputo creare l’atmosfera sociale intorno ai loro personaggi, o li avevano circondati di un ambiente che non esercitava alcun influsso sostanziale sulla loro intima struttura. Il romanzo inglese del Settecento può chiamarsi «sociale», in quanto insiste maggiormente sui rapporti fra gli uomini; ma anch’esso, nel delineare i personaggi, trascura affatto le distinzioni di classe o la causalità sociale. Invece le figure di Walter Scott ne portano sempre l’impronta52. E poiché in complesso Scott descrive giustamente lo sfondo sociale delle sue storie, nonostante le sue opinioni di conservatore egli diventa un campione del liberalismo e del progresso53. Per quanto avverso egli sia, anche politicamente, alla Rivoluzione, il suo metodo sociologico sarebbe inconcepibile senza questa svolta della storia. Solo con essa, infatti, si sviluppa il senso delle differenze di classe e diviene un dovere per ogni artista onesto di rappresentare nei suoi scritti la realtà che a quelle corrisponde. Come scrittore, il retrivo Scott è piú profondamente legato alla Rivoluzione del radicale Byron. Certo non bisogna sopravvalutare il «trionfo del realismo», come Engels chiama l’astuzia dell’arte che spesso fa strumenti del progresso anche gli spiriti conservatori. Di solito in Scott la comprensione, l’entusiasmo per il «popolo» non è che un atteggiamento poco impegnativo, e in complesso il popolo minuto ch’egli descrive rimane conven-

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zionale e schematico. L’atteggiamento conservatore di Scott è però meno aggressivo dei sentimenti antirivoluzionari di Wordsworth e di Coleridge, che sono espressione di un amaro disinganno e di un improvviso mutamento di idee. È vero che Scott, come generalmente i romantici reazionari, è entusiasta della cavalleria medievale e ne deplora la decadenza; ma nello stesso tempo anch’egli, come Pu∫kin e Heine, critica tutta la stravaganza romantica. Con la stessa chiaroveggenza con cui Pu∫kin constata l’affettazione di Oneghin, in Riccardo Cuor di Leone egli riconosce lo «splendido, ma inutile cavaliere della leggenda»54. Delacroix, il primo e il massimo esponente della pittura romantica, già si contrappone al romanticismo e lo supera. Egli rappresenta ormai l’Ottocento, mentre in sostanza il romanticismo è ancora Settecento, e non solo perché continua il preromanticismo, ma anche perché è contraddittorio ma non relativistico, ambivalente nei suoi rapporti spirituali, ma non cosí scisso come il secolo xix. Il Settecento è dogmatico – lo sono un po’ anche i suoi romantici – l’Ottocento è scettico e agnostico. Da ogni cosa, perfino dal sentimentalismo e dall’irrazionalismo, gli uomini del Settecento cercano di trarre una chiara formulazione teorica e una visione universale nettamente definibile; sono sistematici, filosofi, riformatori, si dichiarano favorevoli o avversi a una cosa e spesso mutano parte, ma prendono posizione, seguono dei principî, si attengono a un piano riformatore della vita e del mondo. Invece gli intellettuali dell’Ottocento hanno perduto la fede nei sistemi e nei programmi, e vedono il senso e il fine dell’arte nell’abbandonarsi passivamente alla vita, nel coglierne il ritmo, nel conservarne l’atmosfera e l’intimo accordo; la loro fede è un’irrazionale, istintiva affermazione della vita; la loro mora-

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le, un adeguarsi alla realtà. Essi non vogliono regolarla né superarla; vogliono viverla e riprodurne l’esperienza nel modo piú diretto, fedele e completo. Li domina un sentimento invincibile che la vita e il presente, i contemporanei e il mondo circostante, le esperienze e i ricordi sfuggano giorno per giorno e si perdano per sempre. L’arte diventa il mezzo d’inseguire «il tempo perduto», la vita che sfugge, eternamente inafferrabile. Il naturalismo intransigente non è dei secoli che credono di possedere saldamente e sicuramente la realtà, ma di quelli che temono di perderla; perciò l’Ottocento è il tempo classico del naturalismo. Delacroix e Constable stanno sulla soglia del nuovo secolo. In parte sono ancora degli espressionisti romantici, che lottano per esprimere l’idea; ma in parte sono già degli impressionisti, che cercano di cogliere l’oggetto fuggevole e non credono piú a un equivalente perfetto della realtà. Dei due, Delacroix è il piú romantico; se lo si paragona a Constable, appare evidentissima la continuità storica che lega classicismo e romanticismo, distinguendoli dal naturalismo. Di fronte a questo, classicismo e romanticismo hanno in comune l’esaltazione della vita e dell’uomo, a cui dànno grandezza tragica ed eroica, espressione appassionatamente patetica: caratteri questi ancora presenti in Delacroix, ma non in Constable e nel naturalismo dell’Ottocento. Per Delacroix l’uomo è ancora il centro del mondo, mentre per Constable egli è divenuto una cosa fra le cose, riassorbito dall’ambiente. Perciò Constable, sebbene non sia il piú grande, è l’artista piú innovatore del suo tempo. Scacciato l’uomo dal centro dell’arte, vi subentra il mondo delle cose, e la pittura non solo acquista un nuovo contenuto, ma tende sempre piú esclusivamente alla soluzione di problemi tecnici e puramente formali. A poco a poco il soggetto perde ogni valore estetico, ogni interesse per l’artista, e l’arte diventa piú formalistica che mai. Non

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importa piú affatto che cosa si dipinga, si chiede soltanto come lo si dipinga. Una tale indifferenza al tema non si era avuta neppure col piú disinvolto Manierismo. Mai finora si erano considerati argomenti di ugual valore artistico un cavolo e una testa di Madonna. Solo ora che il pittorico costituisce il vero contenuto della pittura, viene meno l’antica gerarchia accademica dei soggetti e dei generi. Già in Delacroix, pur cosí legato alla poesia, i motivi letterari costituiscono soltanto l’occasione, non la sostanza del quadro. Egli nega alla pittura ogni intento letterario e, invece di concetti, cerca di esprimere qualcosa di proprio, d’irrazionale, simile alla musica55. L’origine di questo spostarsi dell’interesse dall’uomo alla natura, è da vedere nella scarsa fiducia che la nuova generazione ha in sé, nel suo disorientamento, nella sua incerta coscienza sociale, ma soprattutto nel trionfo della visione scientifico-naturalistica cosí lontana dai valori dell’umanesimo. Constable supera l’umanesimo classico-romantico piú facilmente di Delacroix e diventa il primo paesista moderno, mentre Delacroix rimane essenzialmente «pittore di storia». Ma entrambi incarnano in ugual misura lo spirito del nuovo secolo per il modo scientifico di porsi i problemi pittorici, dando all’ottica il predominio sulla visione. Lo sviluppo dello stile «pittorico», cominciato in Francia con Watteau e interrotto dal classicismo settecentesco, viene ripreso e continuato da Delacroix. Per la seconda volta Rubens sovverte la pittura francese; per la seconda volta egli dà origine a un sensualismo irrazionale ribelle al gusto classico. La massima di Delacroix, per cui un quadro dev’essere anzitutto una festa per gli occhi, era anche il messaggio di Watteau e fu vangelo per tutto l’impressionismo. Il vibrante dinamismo delle forme, il movimento lineare e cromatico, l’agitazione barocca dei corpi e il dissolversi dei colori locali nei loro componenti, tutto concorre a creare quest’arte sensuale, che ora permette

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di unire romanticismo e naturalismo, contrapponendoli entrambi al gusto classico. In certa misura Delacroix fu ancora una vittima del mal du siècle. Soffriva di gravi depressioni, conosceva il senso dell’inutilità e del vuoto, lottava contro un indefinibile e inguaribile tedio. Era un malinconico, un insoddisfatto, con il rovello dell’imperfezione. Lo stato d’animo di Géricault a Londra, quando scriveva a casa: «Qualunque cosa io faccia, vorrei aver fatto qualcosa d’altro», tormentò Delacroix per tutta la vita56. Le sue radici romantiche erano ancor cosí profonde, che non gli erano estranee neppure le tentazioni piú brutali. Basta pensare a un’opera come il Sardanapalo (1829) per capire quanto posto avessero nel suo spirito il teatrale demonismo e l’idolatria di Moloch cari ai romantici. Ma il romanticismo come atteggiamento pratico, egli lo combatté; si riconobbe fra i suoi esponenti soltanto con forti riserve, e lo accettò come tendenza artistica soprattutto per la larghezza di motivi che offriva alla pittura. Come sostituì un viaggio in Oriente al tradizionale viaggio a Roma, cosí attinse dalle fonti poetiche dell’antico e del moderno romanticismo, da Dante e da Shakespeare, da Byron e da Goethe, anziché dall’antichità classica. Soltanto l’interesse del soggetto lo legava ad Ary Scheffer e Louis Boulanger, a Decamps e Delaroche. Egli odia il falso romanticismo del chiaro di luna e i sognatori incorreggibili, Chateaubriand, Lamartine e Schubert, ch’egli accomuna alquanto arbitrariamente57. Quanto a lui, non volle esser chiamato romantico e negò assolutamente di essere il maestro di quella scuola. Del resto, non aveva nessuna voglia di educare artisti, né diede mai libero accesso al suo studio; al massimo assumeva qualche aiuto, ma non allievi58. Nella pittura francese, non ci fu piú nulla di simile alla scuola di David; nessuno sostituí il maestro. Le mete dell’arte erano ormai troppo personali, i criteri di valutazione troppo

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differenziati, perché potessero sorgere scuole di pittura come quelle di un tempo59. L’antiromanticismo di Delacroix si esprime anche nella sua ripugnanza per la bohème. Rubens è il suo modello, non solo come artista, ma anche come uomo; e, dopo Rubens e i grandi del Rinascimento, egli è il primo e forse l’unico pittore che unisca modi signorili a una grande cultura60. Le sue inclinazioni aristocratiche gli fanno odiare ogni esibizionismo e ogni ostentazione; della tradizione della bohème gli rimane una cosa sola: il disprezzo del pubblico. A ventisei anni, egli è già un pittore celebre, ma ancora trent’anni piú tardi scrive: «Il y a trente ans que je suis livré aux bêtes» [«Da trent’anni mi si dà in pasto alle bestie»]. Aveva amici, ammiratori, mecenati, incarichi dallo Stato; ma il pubblico non lo amò né lo comprese mai. Nella stima che gli si tributava mancava ogni calore. Delacroix è un isolato, un solitario in un senso assai piú vero di quello in uso fra i romantici. C’è un solo contemporaneo, ch’egli apprezzi e ami senza riserve: Chopin. Né Hugo, né Musset, né Stendhal, né Mérimée gli sono particolarmente vicini; egli non prende molto sul serio George Sand, la trascuratezza di Gautier lo respinge, Balzac gli dà sui nervi61. Lo straordinario valore che ha per lui la musica, e che lo porta ad ammirare tanto Chopin, è un sintomo della nuova gerarchia fra le arti e della posizione preminente che l’estetica del romanticismo assegna alla musica. Essa è l’arte romantica per eccellenza e Chopin è il piú romantico dei romantici. L’affetto per lui è la rivelazione piú diretta dell’intima affinità di Delacroix con il romanticismo. Ma il suo giudizio sugli altri grandi musicisti tradisce l’incoerenza del suo sentimento. Di Mozart egli parla sempre con la piú viva ammirazione, mentre Beethoven gli sembra troppo arbitrario, troppo romantico. In fatto di musica il suo gusto è classicista62, il sentimentalismo stereotipo di Chopin non lo disturba, ma

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l’«arbitrio» di Beethoven, che dovrebbe essergli molto piú vicino come artista, lo sorprende e lo confonde. La musica romantica si contrappone non solo a quella classica, ma anche a quella preromantica, in quanto quest’ultime poggiano entrambe sul principio dell’unità formale e dell’esaltazione dell’effetto finale. La struttura accentrata, in funzione di un’acme drammatica, delle forme musicali nell’età romantica si dissolve, e torna a prevalere il modo aggiuntivo della composizione piú antica. La sonata si disgrega e viene sempre piú spesso sostituita da altre forme meno rigide e meno tipiche, da brevi liriche e bozzetti musicali, come il pezzo caratteristico, la fantasia, l’improvviso e l’intermezzo, l’arabesco e lo studio, l’improvvisazione e la variazione. Anche le composizioni piú vaste constano spesso di queste forme miniaturistiche, che strutturalmente non costituiscono piú gli atti di un dramma, bensí le scene di una rivista. Una sonata o una sinfonia classica era un microcosmo. Una serie di quadretti musicali, come il Carnaval di Schumann o Les années de pélerinage di Liszt, è come l’album di schizzi di un pittore; può contenere particolari di gran pregio lirico e impressionistico, ma rinunzia senz’altro a un effetto di insieme e di unità organica. Anche la predilezione per il poema sinfonico, che in Berlioz, Liszt, Rimskij Korsakov, Smetana e altri sottentra alla sinfonia, è soprattutto un segno d’inettitudine o di esitazione a rappresentare il mondo come un tutto. Del resto, questo mutamento di forme dipende anche dalle tendenze letterarie dei compositori e dalla loro predilezione per la musica descrittiva. L’ibridismo formale che si può osservare dappertutto, nella musica si manifesta anche nel fatto che molto spesso il compositore romantico ha notevoli doti di scrittore. Una minor coerenza strutturale si può constatare anche nella pittura e nella poesia del tempo, ma la disintegrazione delle forme non è mai cosí rapida e cosí vasta come nella musi-

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ca. La differenza si spiega in parte col fatto che le altre arti già da lungo tempo avevano superato la struttura ciclica «medievale», mentre nella musica questa era rimasta in vigore fino a mezzo il secolo xviii è solo dopo la morte di Bach l’unità formale aveva cominciato ad allentarsi. Richiamarsi ad essa era quindi assai piú facile che in pittura, dove tale struttura appariva ormai affatto antiquata. Tuttavia l’interesse storico dei romantici per la musica antica e il risorgente prestigio di Bach non contribuiscono che in via secondaria a dissolvere il rigore formale della sonata; la ragione vera del mutamento va cercata in una svolta del gusto che si fonda su cause essenzialmente sociologiche. Il romanticismo porta a termine il processo che s’era iniziato nella seconda metà del Settecento: la musica diventa esclusivo possesso della borghesia. Non soltanto le orchestre passano dalle sale dei castelli e dei palazzi alle sale da concerto affollate di borghesi, ma anche la musica da camera trova il suo ambiente nelle case borghesi, anziché nei salotti aristocratici. Il gran pubblico, sempre piú assiduo alle manifestazioni musicali, esige tuttavia una musica piú leggera, piú attraente, meno complicata. Quest’esigenza favorisce il sorgere di forme brevi, piú dilettevoli, piú mosse, ma porta anche a una divisione tra musica seria e musica leggera. Finora le composizioni destinate al semplice divertimento non si distinguevano per qualità dalle altre; naturalmente c’erano opere di valore assai differente, ma ciò non dipendeva dalla loro destinazione. Come sappiamo, la generazione successiva a Bach e a Haendel distingueva già tra il comporre per proprio diletto e la produzione destinata al pubblico; ma adesso si distingue ormai fra le diverse categorie del pubblico stesso. Già le opere di Schubert e di Schumann si possono classificare secondo questo criterio63; in Chopin e in Liszt la preoccupazione di compiacere anche la parte piú accontentabile del

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pubblico influisce, per cosí dire, su ogni singola opera; e in Berlioz e Wagner porta spesso a un’esplicita civetteria. Quando Schubert dichiara di non conoscere musica «allegra» ha l’aria di voler prevenire il rimprovero di frivolezza; poiché dall’avvento del romanticismo in poi ogni gaiezza appare frivola e superficiale. L’unione della piú spensierata leggerezza con la piú profonda serietà, del gioco piú esuberante con l’ethos piú alto, piú puro, piú profondamente trasfiguratore, ancor presente nell’opera di Mozart, viene meno; d’ora in poi tutto ciò che non è solito e volgare assume un’aria cupa e pensierosa. Basta confrontare lo spasmodico espressionismo della musica romantica con la serena, chiara umanità di Mozart, esente da ogni misticismo, per misurare quel che con il Settecento è andato perduto. Nei romantici le concessioni al pubblico valgono a compensare l’assenza di ogni ritegno e l’arbitrio dell’espressione. Consciamente e volutamente si rendono piú difficili le composizioni, sia nello spirito che nella tecnica, sicché esse non si prestano piú ad essere eseguite da dilettanti. Già le più tarde opere di Beethoven per pianoforte e per orchestra da camera potevano essere eseguite solo da artisti e apprezzate da un pubblico di raffinata cultura musicale. I romantici accrescono anzitutto le difficoltà tecniche. Weber, Schumann, Chopin, Liszt compongono per i grandi concertisti. La bravura, ch’essi esigono dall’esecutore, ha un duplice effetto: riserva l’esercizio della musica all’esperto e abbaglia il profano. Per il virtuoso-compositore, il cui prototipo è Paganini, lo stile brillante non ha altro scopo che di sbalordire l’ascoltatore, è l’espressione di una difficoltà, di una complicazione intima. Entrambe le tendenze, sia quella che accresce la distanza tra il dilettante e il virtuoso, sia quella che approfondisce la cesura tra musica leggera e musica difficile, portano alla dissoluzione dei generi classici. Per sua natura, lo stile del virtuoso ato-

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mizza le grandi forme massicce: il pezzo di bravura è relativamente breve, scintillante, pungente. Ma anche uno stile intrinsecamente difficile, originale, volto a sublimare pensieri e sentimenti favorisce il dissolversi delle forme universalmente valide, tipiche e di lungo respiro. La facilità con cui la musica può essere sottoposta a questa disgregazione formale, l’irrazionalità del suo contenuto e l’autonomia dei suoi mezzi espressivi, spiegano la preminenza che ora assume nel sistema delle arti. Per i classici l’arte sovrana era la poesia, il preromanticismo tendeva in parte alla pittura; il romanticismo maturo guarda alla musica. Per Gautier la pittura rappresentava ancora l’ideale dell’arte, per Delacroix la musica è ormai la fonte delle piú profonde esperienze artistiche64. Tale evoluzione culmina nella filosofia di Schopenhauer. Il romanticismo celebra nella musica i suoi maggiori trionfi. La gloria di Weber, Meyerbeer, Chopin, Liszt, Wagner riempie tutta l’Europa e soverchia il successo dei poeti piú noti. Alla fine dell’Ottocento la musica è la sola fra le arti che sia rimasta pienamente romantica. E che il secolo sentisse proprio nella musica l’essenza dell’arte, è prova chiarissima di quanto profondamente fosse legato al romanticismo. La confessione di Thomas Mann, che riconosce esser stata la musica di Wagner a svelargli il senso dell’arte, è altamente sintomatica. Ancora sullo scorcio del secolo formule come «le sang, la volupté et la mort», la romantica ebbrezza dei sensi e il salto mortale della ragione varranno a indicare il senso profondo dell’arte. L’Ottocento non arrivò a concludere la sua lotta con lo spirito romantico; la decisione doveva toccare al nuovo secolo.

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte Citato da f. l. lucas, The Decline and Fall ot the Romantic Ideal, 1937, p. 36. 2 Per questo concetto della «coscienza epocale», cfr. karl jaspers, Die geistige Situation der Zeit, 1932, 3a ed., pp. 7 sgg. 3 g. lanson, Histoire de la littérature française cit., p. 943. 4 marcel proust, Pastiches et mélanges, 1919, p. 267. 5 joseph aynard, Comment définir le romantisme?, in «Revue de littérature comparée», v, 1925, p. 653. 6 f. benoit, L’art français ecc. cit., pp. 62-63. 7 Cfr. albert pötzsch, Studien zur frühromantischen Politik und Geschichtsauffassung, 1907, pp. 62-63. 8 ortega y gasset, History as a System, in Philosophy and History. Essays presented to Ernst Cassirer, a cura di r. klibansky e j. h. paton, 1936, p. 313. 9 emil lask, Fichtes Idealismus und die Geschichte, 1902, pp. 56 sgg., 83 sgg. Cfr. erich rothacker, Einleitung in die Geschichtswissenschaften, 1920, pp. 116-18. 10 arnold ruge, Die wahre Romantik, Gesammelte Schriften, III, p. 134; citato da carl schmitt, Politische Romantik, 1925, 2a ed., p. 35. 11 konrad lange, Das Wesen der Kunst, 1901. 12 coleridge, Biographia Literaria, XIV. 13 Cfr. albert salomon, Bürgerlicher und kapitalisticher Geist, in «Die Gesellshaft», iv, 1927, p. 552. 14 louis maigron, Le Romantisme et les mœurs, 1910, p. v. 15 Citato da ricarda huch, Ausbreitung und Verfall der Romantik, 1908, 2a ed., p. 349. 16 e. kirchner, Die Philosophie der Romantik, 1906, pp. 42-43. 17 diderot, Paradoxe sur le comédien, 1773. 18 c. schmitt, Politische Romantik cit., pp. 24 sgg., 120 sgg., 148-49. 19 Cfr. a. pötzsch, Studien ecc. cit., p. 17. 20 fritz strich, Die Romantik als europäische Bewegung, in Wölfflin-Festschrift, 1924, p. 54. 21 georg brandes, Hauptströmungen der Literatur des 19. Jahrhunderts, 1924, I, pp. 13 sgg. 22 Cfr. ernst troeltsch, Die Restaurationsepoche am Anfang des 19. Jahrhunderts, in «Vorträge der Baltischen Literatur- Gesellschaft», 1913, p. 49. 23 c.-m. des granges, La presse littéraire sous la Restauration, 1907, p. 44. 24 a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 107. 25 pierre moreau, Le Classicisme des romantiques, 1932, p. 132. 26 henry a. beers, A History of English Romanticism in the 19th Century, 1902, p. 173. 1

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 121. g. brandes, Hauptströmungen ecc. cit., III, p. 9. 29 Ibid., p. 225. 30 Ibid., II, p. 224. 31 grimod de la reynière, in «Le Censeur dramatique», i, 1797. 32 maurice albert, Les Théâtres des Boulevards (1789-1848), 1902. 33 c.-m. des granges, La Comédie et les mœurs sous la Restauration et la Monarchie de Juillet, 1904, pp. 35-41, 43-46, 53-54. 34 w. j. hartog, Guilbert de Pixerécourt, 1913, pp. 52-54. 35 paul ginisty, Le Mélodrame, 1910, p. 14. 36 alexander lacey, Pixerécourt and the French Romantic Drama, 1928, pp. 22-23. 37 émile faguet, Propos de théâtre, II, 1905, pp. 299 sgg. 38 w. j. hartog, Guilbert de Pixerécourt cit., p. 51. 39 Ibid. 40 g. de pixérécourt, Dernières réflexions sur le mélodrame, 1843; citato da hartog, Guilbert de Pixerécourt cit., pp. 231-32. 41 faguet, Propos de théâtre cit., p. 318. 42 alfred cobban, Edmund Burke and the Revolt against the 18th Century, 1929, pp. 208-9, 215. 43 c. day lewis, The Poetic Image, 1947, p. 54. 44 h. n. brailsford, Shelley, Godwin and their Circle, 1913, p. 226. 45 francis thompson, Shelley, 1909, p. 41. 46 Cfr. fritz strich, Die Romantik als europäische Bewegung, p. 54. 47 h. y. c. grierson, The Background of English Literature, 1925, pp. 167-68. 48 julius bab, Fortinbras oder der Kampf des 19. Jahrhunderts mit dem Geist der Romantik, 1914, p. 38. 49 w. p. ker, Collected Essays, 1925, I, p. 164. 50 henry a. beers, A History of English Romanticism ecc. cit., p. 2. 51 j. m. s. tompkins, The Popular Novel in England (1770-1800), 1932, pp. 3-4. 52 louis maigron, Le roman historique à l’époque du romantisme, 1898, p. 90. 53 g. lukács, Walter Scott and the Historical Novel, in «The International Literature», 1938, p. 80. 54 walter scott, Ivanhoe, 1820, cap. XLI. 55 léon rosenthal, La peinture romantique, 1903, pp. 205-6. 56 delacroix, Journal [trad. it., Diario (1804-1863), Torino 1954]. Cfr., tra l’altro, la nota del 26 aprile 1824. 57 Ibid., 14 febbraio 1850. 58 l. rosenthal, La peinture romantique cit., pp. 202-3. 59 paul jamot, Delacroix, in Le Romantisme et l’art, 1928, p. 116. 60 Ibid., p. 120, 27 28

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte Ibid., pp. 100-1. andré joubin, Journal de Delacroix, 1932, I, pp. 284-85. 63 alfred einstein, Music in the Romantic Era, 1947, p. 39. 64 delagroix, Journal, passim; in particolare nota del 30 gennaio 1855. 61 62

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Capitolo primo La generazione del 1830

Se il fine della ricerca storica è la comprensione del presente – né altro potrebbe essere – quest’indagine è ormai prossima al suo fine. Ora finalmente proprio degli aspetti moderni del capitalismo dobbiamo occuparci, della società borghese, del naturalismo in arte e in letteratura, insomma, di quello che è il nostro mondo. In ogni campo ci stanno di fronte nuovi rapporti, nuove forme di vita, e ci sentiamo come staccati dal passato. Ma in nessun altro settore forse la cesura è cosí profonda come nella letteratura, dove il confine fra le opere piú antiche, che ormai hanno assunto carattere storico, e quelle piú vicine, tuttora piú o meno attuali, costituisce la frattura piú rilevante che si conosca nella storia dell’arte. Soltanto le opere che rimangono al di qua di questo confine ideale costituiscono la letteratura moderna, viva, che tocca direttamente i nostri problemi; dalle altre ci separa un abisso incolmabile, tanto che per comprenderle ci occorre una disposizione particolare, un particolare sforzo, e interpretandole si rischia sempre di errare e di fraintenderle. Noi leggiamo le opere letterarie del passato con occhi diversi da quelle del nostro tempo; le godiamo in modo puramente estetico, cioè con distacco, anzi spassionatamente e con la chiara consapevolezza del loro carattere fittizio e del nostro illuderci. Questo presuppone punti di vista e capacità che mancano certamente al lettore comune; ma anche il lettore

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guidato da interessi storici ed estetici sente un’immensa differenza tra opere che non hanno alcun diretto rapporto col suo tempo, con il suo senso della vita e con i fini ch’essa persegue, e quelle invece che da tale senso della vita derivano e cercano di rispondere alla domanda di come si possa o si debba vivere in questo nostro tempo. L’Ottocento, o l’epoca che con questo termine comunemente si intende, comincia intorno al 1830. Soltanto al tempo della monarchia borghese cominciano a delinearsi le basi e le linee generali del secolo: l’ordine sociale in cui noi stessi siamo radicati, il sistema economico di cui sussistono ancor oggi i principî e le contraddizioni, quella letteratura che, in complesso, è ancor oggi la forma in cui noi ci esprimiamo. I romanzi di Stendhal e di Balzac sono i primi libri che trattino della nostra vita, dei nostri problemi, di difficoltà morali e di conflitti ignoti alle generazioni precedenti. Julien Sorel e Mathilde de la Mole, Lucien de Rubempré e Rastignac sono i primi uomini moderni della letteratura occidentale, i primi nostri contemporanei ideali. In loro per la prima volta troviamo quella sensibilità che è anche la nostra, nel loro carattere troviamo i primi segni di quella complicata psicologia che contraddistingue i contemporanei. Da Stendhal a Proust, dalla generazione del 1830 a quella del 1910, noi siamo testimoni di una continua, organica evoluzione intellettuale. Tre generazioni si affaticano con gli stessi problemi; per settanta, ottant’anni il corso della storia non devia. I tratti caratteristici del secolo si possono già tutti riconoscere intorno al 1830. La borghesia è in pieno sviluppo, già forte e consapevole della sua potenza. L’aristocrazia è scomparsa dalla scena storica, ridotta a una condizione strettamente privata. Il trionfo della borghesia è indubbio e incontrastato. È vero che i vincitori costituiscono una classe capitalistica del tutto conser-

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vatrice e illiberale che adotta, in parte ancora tali e quali, le forme e i metodi di governo dell’antica aristocrazia; ma i suoi membri nella condotta e nel pensiero non sono affatto aristocratici, né tradizionalisti. Già il romanticismo era stato un movimento essenzialmente borghese, inconcepibile senza l’emanciparsi delle classi medie; ma i romantici avevano spesso assunto atteggiamenti ancora prettamente aristocratici, lusingati dall’idea di trovare il loro pubblico fra la nobiltà. Queste illusioni cessano dopo il 183o ed è evidente allora che non c’è piú un vasto pubblico letterario fuori della borghesia. Ma compiuta l’emancipazione borghese, ecco subito iniziarsi la lotta politica della classe operaia. E questo è il secondo dei movimenti fondamentali per l’Ottocento, che prendono l’avvio dalla rivoluzione di luglio e dalla monarchia borghese. Finora le lotte di classe del proletariato si erano confuse con quelle della borghesia e soprattutto per le mire politiche del ceto medio si erano mosse le classi lavoratrici. Solo le vicende successive al 183o apriranno loro gli occhi convincendole che nella lotta per i loro diritti non potranno appoggiarsi a nessun’altra classe. Mentre si viene così svegliando nel proletariato la coscienza di classe, la teoria socialista assume la sua prima forma concreta, e nello stesso tempo si delinea il programma di un attivismo artistico che per intransigenza supera ogni precedente. L’art pour l’art attraversa la prima crisi e d’ora in poi, oltre all’idealismo dei classicisti, dovrà combattere anche l’utilitarismo sia dell’arte «sociale» che dell’arte «borghese». Il razionalismo economico che procede di pari passo con l’industrializzazione e la completa vittoria del capitalismo, il progresso delle scienze storiche ed esatte e quindi la generale tendenza scientifica del pensiero, la rinnovata esperienza di una rivoluzione fallita e il conseguente realismo politico, sono tutti fattori che preparano quella grande lotta contro il romanticismo, che

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riempie la storia dei cento anni successivi. La preparazione e l’avvio di questa lotta è un altro contributo della generazione del 183o al costituirsi del secolo xix. L’oscillare di Stendhal fra logique e espagnolisme, i rapporti ambivalenti di Balzac con la borghesia e in entrambi la dialettica di razionalismo e irrazionalismo mostra che ormai la battaglia è in corso; la generazione di Flaubert non fa che acuire una situazione di lotta già in atto. La visione artistica della monarchia di luglio è in parte borghese, in parte socialista, ma in complesso antiromantica. Il pubblico, osserva Balzac nella prefazione a La peau de chagrin (1831), «è ristucco di Spagna, d’Oriente, di storia di Francia alla Walter Scott». È passato, deplora Lamartine, il tempo della poesia, cioè della poesia «romantica»1. Il romanzo realista, la piú originale creazione di questi anni e il piú importante acquisto del secolo nel campo artistico, esprime, nonostante il romanticismo dei suoi fondatori, cioè benché Stendhal si richiami a Rousseau e in Balzac ci sia ancora l’eco del melodramma, lo spirito antiromantico della nuova generazione. Sia il razionalismo economico, che il pensiero politico formulato in termini di lotta di classe spingono il romanzo allo studio della realtà sociale e dei meccanismi psicologico-sociali. L’oggetto e il punto di vista dell’indagine rispondono pienamente alle intenzioni della borghesia e il risultato, il romanzo realista, serve quasi da manuale a questa classe in ascesa, che aspira al completo dominio della società. Gli scrittori del tempo ne fanno uno strumento per conoscere l’uomo e trattare col mondo, rispondendo alle esigenze e al gusto di un pubblico che essi odiano e disprezzano. Essi cercano di soddisfare i loro lettori borghesi, siano o non siano sansimoniani o fourieristi, credano all’arte sociale o a l’art pour l’art, poiché un pubblico proletario non c’è e, se anche ci fosse, non riuscirebbe che a metterli in imbarazzo.

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Fino al Settecento gli autori non erano che i portavoce del loro pubblico2; essi curavano i beni intellettuali dei lettori, come i domestici e gli impiegati ne curavano i beni materiali. Accettavano e sanzionavano la morale e il gusto corrente, non li inventavano né li mutavano. Scrivevano le loro opere per un pubblico nettamente definito e limitato e non tentavano certo di acquistare nuovi lettori. Quindi non c’era tensione alcuna tra pubblico vero e pubblico ideale3. Lo scrittore ignorava il tormentoso problema della scelta fra diverse possibilità soggettive, e il problema morale della scelta fra diversi ceti sociali. Solo nel Settecento il pubblico si divide in due campi e l’arte in due tendenze rivali. D’ora in poi ogni artista ha di fronte due ordini contrastanti, il mondo dell’aristocrazia conservatrice e quello della borghesia progressista; un gruppo che si attiene agli antichi valori tradizionali, presunti assoluti, e uno che stima anche quei valori – e specialmente quelli – legati al tempo e afferma che altri ne esistono, piú aggiornati e meglio rispondenti al bene comune. La borghesia si affranca dai modelli aristocratici e l’aristocrazia stessa comincia a dubitare della validità dei propri criteri, cosí che in parte passa nel campo borghese, per favorire una letteratura che le è nemica e funesta. Per gli scrittori si sviluppa una situazione affatto nuova: quelli che continuano a servire i ceti conservatori, la Chiesa, la corte e la nobiltà, finiscono per tradire i loro compagni di classe; quelli invece che si fanno interpreti delle idee della borghesia in ascesa, si trovano a compiere una funzione finora mai compiuta da nessuno scrittore importante, salvo poche eccezioni: essi combattono per una classe oppressa o, comunque, non ancora al potere4. Questo pubblico non ha una sua ideologia già bell’e pronta, ed essi stessi debbono collaborare a definire il sistema concettuale, le nuove categorie e i nuovi valori. In questo modo essi non sono piú sempli-

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ci portavoce dei lettori, ma, per cosí dire, i difensori e i maestri, e riprendono perfino qualcosa di quella dignità sacerdotale perduta da tanto tempo, che né i poeti dell’antichità classica né quelli del Rinascimento avevano posseduta, e meno che mai i chierici del Medioevo, che per lettori avevano solo dei chierici e, come letterati, non avevano alcun contatto con i laici. Durante la Restaurazione e la monarchia borghese i letterati vengono a perdere la singolare posizione che avevano avuto nel Settecento; non sono piú i difensori e nemmeno i maestri del lettore, ne sono anzi gli involontari servitori, sempre ribelli, ma non per questo meno utili. Di nuovo essi divengono i portavoce di un’ideologia, ch’essi trovano già piú o meno elaborata e chiaramente prescritta: il liberalismo della borghesia trionfante, che essa ha derivato dall’illuminismo attraverso molteplici alterazioni. Questo dev’essere il loro orientamento, se vogliono trovare lettori. È tuttavia singolare che essi lo seguano senza però identificarsi in alcun modo con il loro pubblico. Anche gli scrittori dell’illuminismo annoveravano fra i loro seguaci solo una parte del pubblico letterario, anch’essi erano circondati da un mondo ostile e pericoloso, ma almeno appartenevano allo stesso campo dei loro lettori. Persino i romantici, per quanto spaesati, si sentivano vicini all’uno o all’altro ambiente sociale, e potevano sempre dire per quale gruppo, per quale classe scendessero in campo. Ma a quale parte del pubblico si sente legato Stendhal? Al massimo agli happy few [To the happy few (ai pochi eletti): dedica delle opere La Chartreuse de Parme, Lucien Leuwen, Promenades dans Rome], gli indesiderabili, gli esclusi, i vinti. E Balzac? S’identifica con la nobiltà, la borghesia o il proletariato? con la classe che gl’ispira magari qualche simpatia, ma ch’egli abbandona senza batter ciglio; o con quella di cui ammira le inesauribili energie, e che tuttavia gli ripugna; o con le masse, di cui ha paura come del fuoco?

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Gli scrittori che non sono puri maîtres de plaisir della borghesia non hanno un loro vero pubblico: questo per il fortunato Balzac come per l’incompreso Stendhal. Lo stato di tensione, il rapporto difficile che corre tra autori e lettori della generazione del 1830 si riflettono nettissimi nel nuovo tipo d’eroe che appare nei romanzi di Balzac e di Stendhal. Negli eroi di Rousseau, Chateaubriand e Byron, solitari e straniati dal mondo, la delusione e il senso del dolore universale si trasformano in rinunzia ad attuare i propri ideali, in disprezzo per la società e spesso in disperato cinismo di fronte alle norme e alle convenzioni. Il romanzo del disinganno diventa il romanzo della disperazione e della rassegnazione. Scompare ogni tratto tragico-eroico, ogni volontà di autoaffermazione, ogni fede nel perfezionamento del proprio essere; e vi subentra la disposizione al compromesso, a vivere senza scopo e a morire senza gloria. Nel romanzo della delusione balenava ancora l’idea della tragedia, che faceva l’eroe in lotta contro la volgare realtà vittorioso pur nella sconfitta. Invece nel romanzo ottocentesco l’eroe risulta vinto nell’intimo, anche quando sembra giungere alla meta e, spesso, proprio in quel momento. Per l’eroe del giovane Goethe, di Chateaubriand o di Benjamin Constant, il dubbio sulla ragion d’essere della propria personalità, sulla legittimità dei propri fini non esisteva; è il romanzo moderno che per primo crea la cattiva coscienza dell’eroe nel conflitto con l’ordine borghese, e gli impone di accettare i costumi e le convenzioni sociali, almeno come regola di gioco. Werther è ancora l’individuo eccezionale, a cui il poeta accorda fin da principio il diritto di ribellarsi al mondo stupido e prosaico; invece Wilhelm Meister finisce i suoi anni di tirocinio riconoscendo che bisogna adattarsi a questo mondo cosí com’è. La realtà esteriore è ormai piú insensata e ottusa, perché è diventata piú meccanica e arrogante; la società, finora ambiente naturale e campo d’a-

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zione dell’individuo, ha perduto ogni importanza, ogni valore per i fini piú alti dell’individuo, e tuttavia ancora piú forte si è fatta la necessità di adattarvisi, di vivere in essa e per essa. La politicizzazione della società, iniziata con la Rivoluzione francese, giunge all’acme durante la monarchia di luglio. Il conflitto tra liberalismo e reazione, lo sforzo di conciliare le conquiste rivoluzionarie con gli interessi delle classi privilegiate continua, investendo tutti i campi della vita pubblica. Il capitale finanziario trionfa sulla proprietà terriera; aristocrazia e Chiesa non sono piú protagoniste della vita politica; i progressisti si oppongono ai banchieri e agli industriali. L’antagonismo politico e sociale di un tempo non si è certo attenuato, solo sono mutate le posizioni. Ora i contrasti piú profondi sono quelli che dividono il capitalismo industriale dal proletariato e dalla piccola borghesia. I fini della lotta di classe si chiariscono, si inaspriscono i metodi, tutto sembra annunziare un’altra rivoluzione. Nonostante i frequenti riflussi, il liberalismo guadagna terreno; lentamente si prepara la democrazia dell’Europa occidentale. La legge elettorale viene cambiata, e il numero degli elettori, da circa centomila, cresce di due volte e mezzo. Si costituiscono in embrione gli elementi del sistema parlamentare e si gettano le basi della coalizione proletaria. Veramente, nonostante la riforma elettorale, in Parlamento continuano a essere rappresentate soltanto le classi possidenti, e il liberalismo che è giunto al potere è semplicemente quello dell’alta borghesia. Insomma, la monarchia di luglio è un periodo di eclettismo, di compromessi, l’epoca del «mezzo», anche se non proprio del «giusto mezzo» come amava definirla Luigi Filippo e come ora è indicata da tutti vuoi seriamente vuoi con ironia. Esteriormente, è un tempo di moderazione e tolleranza, ma nella realtà della piú dura lotta per l’esistenza; è un’epoca di moderato progresso

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politico e di conservatorismo economico sull’esempio inglese. I Guizot e i Thiers esaltano l’idea della monarchia costituzionale, auspicano che il sovrano regni e non governi, ma essi stessi sono lo strumento di un’oligarchia parlamentare, di un esiguo partito di governo che tiene in balia i piú vasti ceti borghesi con la magica parola enrichissez-vous! La monarchia di luglio è un periodo di prosperità, di floridezza industriale e commerciale. Il denaro domina tutta la vita pubblica e privata: tutto si piega al suo servizio, tutto gli si prostituisce – esattamente, o quasi, come descrive Balzac. Certo il dominio del capitale non comincia da ora; ma prima in Francia il denaro era soltanto uno dei mezzi per potersi affermare, e non il piú cospicuo né il piú efficace. Adesso invece ogni diritto, ogni potere, ogni attitudine viene a un tratto espressa in denaro. Ogni cosa dev’esser ridotta a quel denominatore per diventare comprensibile. D’ora in poi tutta la storia antecedente del capitalismo appare un semplice preludio. Non solo l’alta politica e l’alta società, non solo il Parlamento e la burocrazia hanno un carattere plutocratico, non solo la Francia è dominata dai Rothschild e dagli altri juste-millionaires [gioco di parole fra milieu (mezzo) e million (milione)], come li chiama Heine, ma il re stesso è uno speculatore astuto e senza scrupoli. Per diciott’anni il governo, come dice Tocqueville, è una specie di società commerciale: re, Parlamento e amministrazione si dividono i grossi bocconi, si scambiano informazioni e favori, affari e concessioni, speculano sulle azioni e sulle rendite, sulle cambiali e sulle ipoteche. Il capitalista afferra le redini della società assicurandosi una posizione quale mai aveva avuto. Finora una funzione del genere si era accompagnata alla trasfigurazione ideologica della ricchezza; il ricco doveva apparire il protettore della Chiesa, della Corona, o delle arti e delle scienze; ora invece gode dei massimi onori semplicemente perché è ricco. «D’ora in

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poi regneranno i banchieri», profetizza Laffitte, quando viene proclamato re Luigi Filippo. E nel 1836 un deputato dichiara in Parlamento: «Nessuna società può vivere senza un’aristocrazia. Volete sapere chi sono gli aristocratici della monarchia di luglio? I grandi industriali; su di loro si fonda la nuova dinastia»5. Ma la borghesia è ancora impegnata nella lotta per la supremazia, per il prestigio sociale, che la nobiltà le concede a malincuore, esitando. Essa è ancora una «classe in ascesa» ed ha ancora lo slancio dell’offensiva, la sicurezza senza dubbi di chi reclama i propri diritti. Ma è cosí certa di vincere, che la sicurezza già comincia a mutarsi in compiacimento, in autoapologia. La sua buona coscienza riposa già in parte su un’illusione ed essa si avvia a quello stato in cui le rivelazioni del socialismo incrineranno la sua fiducia. Diventa sempre piú intollerante e retriva e dei suoi peggiori difetti – grettezza, piatto razionalismo, mascheramenti idealistici della corsa al guadagno – fa le basi della sua filosofia. Ogni vero idealismo le par sospetto, ridicolo ogni distacco dal mondo; combatte ogni intransigenza, ogni radicalismo, perseguita e reprime ogni opposizione allo spirito del juste-milieu e alla prudente dissimulazione dei contrasti. Alleva i propri satelliti all’ipocrisia e si trincera dietro le sue finzioni ideologiche, tanto piú disperatamente, quanto piú pericolosi diventano gli attacchi del socialismo. Le tendenze fondamentali del moderno capitalismo, visibili fin dal Rinascimento, si palesano ora con brutale e intransigente chiarezza, non mitigate da nessuna tradizione. Specialmente sensibile si fa la tendenza alla considerazione obiettiva, lo sforzo cioè di sottrarre l’apparato di un’impresa economica a ogni influsso direttamente umano, a ogni considerazione delle circostanze personali. L’impresa diventa un organismo autonomo, che persegue interessi e fini suoi propri, diretta da una sua propria logica; un tiranno che asservisce chiunque lo

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avvicini6. La completa dedizione agli affari, il sacrificio spontaneo dell’imprenditore per resistere alla concorrenza, per la prosperità e l’incremento della ditta, quell’astratta ambizione del successo che lo fa spietato verso di sé, acquistano un aspetto pauroso, monomaniaco7. Il sistema si affranca dai suoi promotori e si trasforma in un meccanismo, che nessuna forza umana può arrestare. Questo automatismo dell’apparato è l’aspetto sinistro del capitalismo moderno; esso gli dà quell’impronta demoniaca che ci atterrisce nella descrizione di Balzac. Via via che i mezzi e le condizioni del successo sfuggono alla sfera dell’influenza individuale, negli uomini si fa sempre piú grave l’incertezza, il senso di essere in balia di un mostro. E quanto piú gli interessi si fanno estesi e intricati, tanto piú selvaggia e disperata è la lotta, tanto piú multiforme il mostro, e inevitabile la rovina. Infine ci si ritrova completamente circondati da rivali, avversari, nemici; tutti combattono contro tutti; ognuno è sul fronte di una guerra perpetua, generale, veramente «totale»8. Ogni proprietà, ogni posizione, ogni influsso dev’essere giorno per giorno riguadagnato, riconquistato, estorto; tutto sembra provvisorio, instabile, infido9. Di qui lo scetticismo, il pessimismo generale, il senso dell’angoscia che prende alla gola; il mondo di Balzac ne è pieno, ed esso rimane il carattere precipuo nella letteratura dell’età capitalistica. A Luigi Filippo e alla sua aristocrazia di finanzieri sta di fronte una forte, vasta opposizione che, oltre ai legittimisti della nobiltà e del clero, comprende tutti coloro che sentono frustrate le speranze riposte nella rivoluzione di luglio: da un lato la piccola borghesia patriottica e bonapartista, ma in fondo liberale; dall’altro la sinistra, composta dei borghesi repubblicani e dei socialisti, a cui si aggiungono gli intellettuali militanti nell’uno o nell’altro settore. Il partito di governo, cosí detto «liberale», è quindi assediato da ogni parte da

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gruppi di opposizione e sovversivi, e Luigi Filippo, il «re cittadino», è completamente estraneo alla stragrande maggioranza del suo popolo10. Le tendenze radicali si manifestano e si sfogano nella costituzione di associazioni democratiche, partiti e sette, in scioperi, rivolte della fame e attentati; a dirla breve, in quel che a ragione si designò come uno stato di rivoluzione permanente. Questi torbidi non sono affatto il seguito puro e semplice delle rivoluzioni e delle rivolte antecedenti. Già la sommossa di Lione del 1831 se ne distingue per il suo carattere apolitico11; è l’arsi, l’inizio di quel movimento di masse il cui simbolo, la bandiera rossa, appare per la prima volta nel 1832. La svolta comincia con una scoperta caratteristica del pensiero socialista: «Le teorie dell’economia borghese sull’identità di interessi fra capitale e lavoro, sull’armonia universale e l’universale benessere conseguenti alla libera concorrenza sono state contraddette dai fatti, – osserva Engels, – in modo sempre piú convincente»12. Il socialismo come dottrina si sviluppa dal riconoscimento del carattere di classe dell’economia borghese. Idee e tendenze socialiste le incontriamo, naturalmente, fin dalla grande Rivoluzione francese, specie nella Convenzione e nella congiura di Babeuf; ma di un movimento proletario di massa e di una corrispondente coscienza di classe si può parlare solo dopo il trionfo della rivoluzione industriale e lo stabilirsi delle grandi aziende meccanizzate. Qui dalla continua convivenza nasce la solidarietà fra i lavoratori, e quindi tutto il moderno movimento operaio13. L’odierno proletariato, come integrazione dei piccoli gruppi operai, prima dispersi, è frutto dell’Ottocento e dell’industrialismo; prima, la storia non aveva conosciuto nulla di simile14. La teoria socialista, fondata da filantropi e utopisti isolati e sorta dal disagio economico del popolo, dal desiderio di lenirlo e di risolvere il problema di una piú equa distribuzione della ricchezza, diventa un’arma effi-

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cace soltanto con l’organizzazione dell’attività industriale nelle città e con le lotte sociali che si combattono dopo il 1830; solo ora essa imbocca la via che Engels ha chiamato sviluppo «dall’utopia alla scienza». Anche la critica sociale di Saint-Simon e Fourier era nata dall’esperienza dell’industrialismo e dalla constatazione dei suoi effetti rovinosi; ma in quei pensatori il realismo era ancora molto commisto di romanticismo, e ai problemi bene impostati facevano riscontro tentativi di soluzione del tutto fantastici. Le tendenze religiose, emerse con la Restaurazione, anzi in certa misura già con il Concordato, e che dal 1830 si facevano sempre piú profonde, non mancavano di influenzare la loro opera di riformatori e missionari. Da Saint-Simon fino ad Auguste Comte, i socialisti e i filosofi sociali hanno ancora l’occhio fisso a quella che era stata l’ambizione dei romantici: tutti vorrebbero sostituire alla Chiesa medievale, come forma «organica», sintetica, un nuovo ordine, una nuova organizzazione sociale, realizzando la nuova «cristianità» con l’aiuto dei poeti e degli artisti. Con la sempre maggiore politicizzazione, della vita, anche nella letteratura viene accentuandosi, fra il 1830 e il 1848, l’interesse politico. In questo periodo quasi non si hanno opere politicamente indifferenti; perfino il quietismo de l’art pour l’art assume una tinta politica. La nuova tendenza si rivela specialmente nel frequente intrecciarsi della carriera politica con quella letteraria, e nel fatto che tanto i politici quanto i letterati appartengono per lo piú allo stesso ceto. Attitudini letterarie si considerano premesse naturali per una carriera politica, e spesso il prestigio politico ricompensa meriti letterari. Durante la monarchia di luglio, i politici che scrivono e gli scrittori che fanno politica – Guizot, Thiers, Michelet, Thierry, Villemain, Cousin, Jouffroy, Nisard – sono gli epigoni dei «filosofi» settecenteschi; gli autori della generazione successiva non avranno piú alcuna

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ambizione politica, né i politici alcuna autorità nell’ambito culturale. Ma fino alla rivoluzione di febbraio la vita politica assorbe tutte le forze intellettuali. I giovani d’ingegno, che la povertà esclude dalla carriera politica, si dedicano al giornalismo, che è ora l’inizio abituale e la forma tipica della professione letteraria. Il giornalismo non solo è un mezzo per passare alla politica e alla letteratura vera e propria, ma è, già in sé, un’attività che assicura spesso una notevole influenza e un reddito considerevole. Bertin, il redattore-capo del «Journal des Débats», soddisfatto e sicuro di sé, ci appare come la quintessenza della monarchia di luglio. Egli incarna la borghesia che si fa letterata, e la letteratura che si fa borghese. L’attività letteraria si trasforma non solo in un affare per i Bertin, ma, come nota SainteBeuve, in un’«industria» per quanti vi partecipano15. Essa diventa semplicemente un mezzo di procurarsi annunzi pubblicitari e abbonamenti. La stretta connessione fra letteratura e stampa quotidiana ha, secondo l’opinione di un contemporaneo, un effetto rivoluzionario come l’uso del vapore nelle industrie; tutta la produzione letteraria viene a mutare carattere16. Forse si insiste troppo in questa analogia, in quanto l’industrializzarsi della letteratura non è in realtà che un sintomo di un’evoluzione generale della mentalità, e non fa che mettere in luce una tendenza ormai implicita nella produzione artistica; tuttavia quando Émile de Girardin, scrittore insignificante, ma uomo d’affari pieno d’immaginazione, fa propria l’idea di Dutacq, che fino allora era affatto sconosciuto, e nel 1836 fonda il giornale «La Presse», è questo un evento d’importanza storica. La gran novità consiste nel fissare il costo annuo d’abbonamento a quaranta franchi, la metà del prezzo solito, proponendosi di colmare il deficit con annunzi pubblicitari e avvisi. Nello stesso anno Dutacq fonda il «Siècle» con ugual programma, e gli altri giornali pari-

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gini ne seguono l’esempio, ognuno nel proprio settore. Il numero degli abbonati cresce e nel 1846 ha raggiunto i duecentomila, di fronte ai settantamila di dieci anni prima. Le nuove iniziative spingono gli editori alla concorrenza. Essi debbono offrire ai loro lettori il cibo piú sapido e variato, per accrescere l’attrattiva del giornale, soprattutto in considerazione della pubblicità. D’ora in poi ognuno deve trovare nel suo giornale quel che gli interessa e gli serve; per ognuno esso deve sostituire una piccola biblioteca e un’enciclopedia. Accanto agli interventi degli esperti, i giornali recano articoli d’interesse generale, specie descrizioni di viaggi, storie di scandali e cronache giudiziarie. Ma l’attrattiva maggiore è il romanzo a puntate. Tutti lo leggono, aristocratici e borghesi, il gran mondo e gli intellettuali, giovani e vecchi, uomini e donne, padroni e servitori. «La Presse» apre la serie dei suoi romanzi d’appendice (feuilletons), pubblicando Balzac che ogni anno, fra il 1837 e il 1847, fornisce un romanzo, ed Eugenio Sue, che le affida la massima parte delle sue opere. A questi autori il «Siècle» contrappone Alessandro Dumas e l’enorme successo dei Tre Moschettieri reca al giornale un notevole profitto. Il «Journal des Débats» deve la sua popolarità soprattutto ai Mystères de Paris di Eugenio Sue, che sarà d’ora in poi fra gli autori piú richiesti e meglio pagati. Il «Constitutionnel» gli offre centomila franchi per il Juif errant, e questa rimarrà la misura dei suoi onorari. Ma i guadagni maggiori sono sempre quelli di Dumas, che ricava circa duecentomila franchi all’anno e a cui «La Presse» e il «Constitutionnel» per duecentoventimila righe a stampa pagano annualmente la somma di sessantatremila franchi. Per far fronte all’enorme richiesta, gli autori cari al pubblico si associano i coolies della letteratura, che prestano loro inapprezzabili servigi nella produzione in serie. Sorgono vere e proprie manifatture letterarie, dove i romanzi vengono fatti

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a macchina. In una azione giudiziaria viene provato che Dumas ha pubblicato con il suo nome piú di quanto gli fosse materialmente possibile scrivere, anche lavorando ininterrottamente giorno e notte. Di fatto egli impiega settantatre collaboratori, fra i quali un certo Auguste Maquet, a cui lascia piena libertà. L’opera letteraria ora diventa «merce» nel vero senso della parola: ha una tariffa, segue un modello fisso, e si consegna a termine. È un articolo commerciale, per cui si paga il prezzo dovuto, che verrà ripreso. A nessun editore viene in mente di pagare i signori Dumas e Sue piú di quanto si debba e si possa pagare, e gli autori dei romanzi d’appendice non sono «strapagati», come non lo sono oggi gli astri del cinematografo: i loro prezzi sono regolati dalla richiesta e non dipendono in alcun modo dal valore artistico dei prodotti. «La Presse» e il «Siècle» sono i primi quotidiani che escano con romanzi a puntate, ma la trovata non è loro. È invece un’idea di Véron, che già la mette in pratica nella sua «Revue de Paris» fondata nel 182917. Buloz l’adotta poi nella sua «Revue des Deux Mondes», pubblicando, fra l’altro, anche romanzi di Balzac. Ma in sé il feuilleton è ancora piú antico di queste riviste; lo si trova già verso il 1800. I giornali, che durante il Consolato e il Primo Impero sono assai magri, per la censura e altre restrizioni, tanto per offrire qualcosa ai lettori pubblicano un’appendice letteraria. Dapprima è solo una specie di cronaca mondana e artistica, ma durante la Restaurazione si sviluppa in una vera pagina letteraria. Dal 1830 racconti e relazioni di viaggio ne formano l’argomento principale, e dopo il 1840 esso non reca piú che romanzi. Il Secondo Impero, applicando l’imposta di un centesimo su ogni copia di giornale che porti un’appendice, prepara al romanzo a puntate una rapida fine. È vero che piú tardi il genere ha una seconda fioritura, ma non influisce piú sull’evolu-

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zione letteraria, mentre ha lasciato profonde tracce nella letteratura fra il 1840 e il ’50. Il romanzo d’appendice è destinato, come il melodramma e il vaudeville, a un pubblico promiscuo e di nuovo tipo; dominano in questo romanzo gli stessi criteri di forma e di gusto che sono propri dei teatri popolari. Quanto allo stile, vi si predilige di regola l’eccessivo e il piccante, il grossolano e l’eccentrico; i soggetti preferiti sono quelli che trattano di ratti e adulteri, violenze e crudeltà. Anche qui, come nel melodramma, caratteri e azione sono stereotipi18. La necessità di interrompere il racconto a ogni puntata, e ogni volta trovare un finale atto a eccitare la curiosità del lettore per la puntata successiva, spinge l’autore ad adottare una specie di tecnica teatrale, che consenta di evidenziare e articolare come in singole scene autonome la narrazione. Alessandro Dumas, maestro della tensione drammatica, è anche un virtuoso di questa tecnica; infatti, quanto piú drammatico è lo sviluppo di un romanzo a puntate, tanto piú forte ne è l’effetto sul pubblico. D’altra parte il particolare modo di lavoro per cui l’opera viene condotta giorno per giorno e le singole parti vengono pubblicate per lo piú senza un piano preciso e senza possibilità di correggere quelle già uscite e di accordarle con quelle successive, determina una forma narrativa «antidrammatica», episodica e improvvisata, un dilungarsi del corso degli eventi, nonché un disegno inorganico e spesso contraddittorio dei caratteri. Tutta l’arte della preparazione degli effetti, la tecnica per assicurare ai fatti una motivazione che risulti naturale, spontanea, non voluta, vanno cosí perdute. Talora i casi dell’intreccio e gli sviluppi dei personaggi paiono tirati pei capelli; le figure secondarie che compaiono nel corso del racconto spesso sembrano piovere dal cielo, poiché l’autore ha trascurato di «presentarle» tempestivamente. La brusca introduzione di certe figure è un errore frequente

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anche in Balzac, benché egli rimproveri appunto questa improvvisazione alla Chartreuse de Parme. Ma in Stendhal la costruzione trascurata e debole è la conseguenza di una tecnica narrativa in se stessa episodica, picaresca, essenzialmente antidrammatica19; mentre in Balzac, che mira al romanzo drammatico, essa è un difetto che dipende dal modo di scrivere giornalistico, di chi vive alla giornata. Tuttavia non possiamo affermare che l’industrializzarsi della letteratura sia semplicemente una conseguenza del giornalismo e il romanzo ameno debba il suo carattere rigidamente stereotipo unicamente all’appendice; infatti, come provano gli esempi dell’Impero e della Restaurazione, verso il 1830 già da un pezzo il romanzo era sulla via di ridursi a uno stile puramente convenzionale20. Il romanzo d’appendice significa una democratizzazione senza precedenti della letteratura e un livellamento quasi completo del pubblico. Mai un’arte aveva trovato unanime accoglienza in ambienti sociali e culturali cosí diversi e un tale accordo di sentimenti. Perfino un Sainte-Beuve loda nell’autore dei Mystères de Paris qualità che è dolente di non trovare in Balzac. La diffusione del socialismo va di pari passo con l’aumento dei lettori; ma le idee democratiche di Eugenio Sue e la sua fede nel fine sociale dell’arte non bastano a spiegare il successo dei suoi romanzi. Piuttosto è strano sentire il beniamino di un pubblico in gran parte borghese entusiasmarsi per il «nobile lavoratore» e tuonare contro il «crudele capitalismo». Il compito ch’egli si assume, di svelare le piaghe della società malata, spiega, al massimo, la simpatia con cui lo tratta la stampa progressista: il «Globe», la «Démocratie pacifique», la «Revue indipendente», la «Phalange» e il loro seguito. La maggioranza dei suoi lettori considera la sua tendenza al socialismo come un soprappiú. Ma tutti senza dubbio trovano naturale che la letteratura tratti dei piú

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scottanti problemi sociali. L’energica affermazione di Madame de Staël, che la letteratura deve essere espressione della società, trova un generale consenso e diventa un assioma per la critica francese. Dal 1830 è regola giudicare un’opera letteraria nei suoi rapporti con i problemi d’attualità politica e sociale e, ad eccezione dei gruppi relativamente ristretti che seguono il movimento de l’art pour l’art, nessuno si scandalizza vedendo l’arte al servizio della politica. Mai forse l’estetica pura, formale, lontana da ogni riferimento pratico, ha avuto scarso seguito come ora21. Fino al 1848 le opere maggiori per numero e importanza fanno capo a questa tendenza attivistica; dopo quell’anno, a un indirizzo quietistico. La delusione di Stendhal è ancora aggressiva, estroversa, anarchica; la rassegnazione di Flaubert è passiva, egocentrica, nichilista. Nel seno stesso del romanticismo la corrente principale non è piú ora l’art pour l’art di Théophile Gautier e di Gérard de Nerval. Romantici non si è pié nel vecchio senso mistico e mistificatore di esuli nel mondo. Il romanticismo continua, ma si trasforma, acquista un altro significato. La tendenza anticlericale e antilegittimista che si era manifestata alla fine della Restaurazione si acuisce in una visione rivoluzionaria. I piú dei romantici rinnegano l’arte pura e si accostano alle idee di Saint-Simon e Fourier22. I corifei – Hugo, Lamartine, George Sand – fanno professione di attivismo artistico e si pongono al servigio dell’arte «popolare» auspicata dai socialisti. Il popolo ha vinto, e anche nell’arte bisogna esprimere questa svolta rivoluzionaria. Non solo George Sand ed Eugenio Sue diventano socialisti, non solo Lamartine e Hugo si entusiasmano per il popolo, ma anche scrittori come Dumas, Scribe, Musset, Mérimée e Balzac civettano con le idee socialiste23. Questo idillio, d’altronde, finisce ben presto; infatti, come la monarchia di luglio abbandona le mete democratiche

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della rivoluzione e diventa il regime della borghesia conservatrice, cosí i romantici abiurano il socialismo e ritornano, sia pur con qualche modifica, alle antiche opinioni sull’arte. Alla fine non rimane nessun poeta di qualche valore fedele all’idea sociale e per ora la causa dell’«arte popolare» sembra perduta. Si verifica una sorta di acquetamento interiore dell’arte romantica che si fa borghese e disciplinata. Sotto la guida di Lamartine, Hugo, Vigny e Musset sorge un romanticismo accademico e conservatore, e anche un elegante romanticismo da salotto. Il fiero e violento spirito ribelle è domato e la borghesia accoglie con entusiasmo questo romanticismo in parte ammansato dall’accademia, fatto per cosí dire «classico», in parte fuso con il dandysmo dei discepoli di Byron24. Sainte-Beuve, Villemain, Buloz sono le piú alte autorità, il «Journal des Débats» e la «Revue des Deux Mondes» sono gli organi ufficiali del nuovo gruppo letterario borghese, tinto di romanticismo e con tendenze accademiche25. Ma a certe categorie del pubblico il romanticismo sembra ancor troppo violento e arbitrario. Gli si contrappone un nuovo classicismo, sobrio, strettamente borghese, l’arte della cosí detta école de bon sens e del juste-milieu estetico. Il successo di Ponsard, la rinascita della tragédie classique e la moda della Rachel sono i sintomi piú evidenti di questo nuovo gusto. Dopo i «morbosi» eccessi di un’atmosfera rovente, si vuol respirare di nuovo aria fresca. Si vuol aver a che fare con caratteri equilibrati, regolari, esemplari, con sentimenti e passioni normali, universalmente comprensibili, con una concezione che si fondi sull’equilibrio, l’ordine, la moderazione: si vuole insomma una letteratura che rinunzi alla mordacità, alle trovate bizzarre e all’espressione eccentrica dei romantici. Il 1843 vede il successo della Lucrèce e il fiasco dei Burgraves; e al trionfo di Ponsard su Victor Hugo, si accompagna quello di Scribe, Dumas,

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Ingres su Stendhal, Balzac e Delacroix. Dall’arte la borghesia non vuole piú scosse, ma divertimento; per essa il poeta non è un vate, ma un maître de plaisir. Dietro Ingres viene l’infinita serie dei pittori accademici, corretti ma noiosi; dietro a Ponsard, quella dei fidati, ma insignificanti fornitori dei teatri statali e comunali. Ci si vuol divertire in pace e quindi si torna a favorire l’arte «pura», apolitica. L’art pour l’art nasce dal romanticismo, per il quale rappresenta uno strumento nella lotta per la libertà; è la conseguenza e, in certo modo, il vero risultato dell’estetica romantica. Il movimento che in origine si era proposto solo la negazione delle regole imposte all’arte dal classicismo, si è trasformato in rivolta contro ogni vincolo esteriore, un’emancipazione da tutti i valori intellettuali e morali estranei all’arte. Per Gautier la libertà dell’arte significa già l’indipendenza dai criteri di valore della borghesia, l’indifferenza ai suoi fini utilitari e il rifiuto di contribuire a attuarli. L’art pour l’art diventa la torre d’avorio in cui i romantici si ritirano dalla vita pratica. L’accordo con l’ordine costituito è il prezzo ch’essi pagano per questa loro quiete e per la superiorità del loro atteggiamento puramente contemplativo. Fino al 1830 la borghesia si era ripromessa dall’arte un appoggio ai propri fini, e per questo aveva acconsentito a svolgere una propaganda politica attraverso l’arte. «L’uomo non è fatto soltanto per cantare, credere, amare... La vita non è un esilio, ma una missione...», scrive il «Globe» nel 182526. Ma dopo il 1830 la borghesia comincia a diffidare dell’arte, e all’alleanza di prima preferisce la neutralità. La «Revue des Deux Mondes» ora pensa che non è necessario, anzi neppur desiderabile, che l’artista abbia idee politiche e sociali sue proprie; e cosí pensano i critici piú autorevoli, fra cui Gustave Planche, Nisard e Cousin27. La borghesia fa proprio il principio de l’art pour l’art; esalta la natura

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ideale dell’arte e l’alta posizione dell’artista al di sopra dei partiti politici; lo chiude cioè in una gabbia d’oro. Cousin riprende dalla filosofia kantiana l’idea dell’autonomia e rinnova la teoria del carattere «disinteressato» dell’arte; e qui gli viene in taglio la tendenza alla specializzazione, che prende il sopravvento con il capitalismo. Effettivamente l’art pour l’art corrisponde sia a quella divisione del lavoro che con l’industrialismo aumenta sempre piú, sia a una necessità di difesa dell’arte minacciata dal pericolo di venir assorbita dalla vita industrializzata e meccanizzata. Esso rappresenta innegabilmente una razionalizzazione, un disincantamento e anche una limitazione dell’arte, ma nello stesso tempo un tentativo di salvarne la particolare natura e la spontaneità nella generale meccanizzazione. Senza dubbio l’art pour l’art ha dato espressione a quello che è il problema piú intricato dell’estetica. Nulla rivela cosí netto il dualismo, l’intimo dissidio dell’atteggiamento estetico. È l’arte fine a se stessa, o soltanto un mezzo? La risposta varierà, non solo a seconda della condizione storica e sociale, ma anche a seconda dell’elemento che si considera nel complesso quadro dell’arte. L’opera d’arte è stata paragonata a una finestra da cui si può osservare la vita, senza tener conto della struttura, della trasparenza, del colore dei vetri della finestra stessa28. Quest’analogia fa dell’opera soltanto un veicolo, dell’osservazione e della conoscenza, appunto come un vetro o una lente, indifferente in sé e semplice strumento. Ma come si può volgere lo sguardo alla struttura del vetro, senza badare al quadro che si apre oltre la finestra, cosí anche l’opera d’arte si può concepire come una forma indipendente, che ha in sé la sua ragion d’essere, un contesto significativo in sé conchiuso e perfetto; e tutto quel che la trascende, ogni «sguardo attraverso la finestra» ne pregiudica l’intima coerenza. Il senso dell’opera d’arte oscilla continuamente

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tra questi due aspetti: l’immanenza, rescissa dalla vita, da ogni realtà che trascenda l’opera stessa, e la funzione determinata dalla vita, dalla società, dalla prassi. Dal punto di vista dell’esperienza estetica immediata, l’autonomia e l’autosufficienza appaiono la vera sostanza dell’opera d’arte, poiché solo in quanto essa si stacca dalla realtà sostituendosi interamente ad essa, solo in quanto costituisce un cosmo totale, in sé perfetto, essa è in grado di suscitare una completa illusione. Ma questa illusione non è affatto tutto il contenuto dell’arte e spesso non ha parte alcuna nella sua efficacia. I piú alti capolavori rinunziano all’illusionismo ingannatore di un mondo estetico chiuso in sé e rinviano a qualcosa che li trascende. Essi sono in diretto rapporto con i grandi problemi del loro tempo e cercano sempre una risposta alla domanda: come trarre un senso dalla vita umana? come parteciparvi? Il paradosso piú arduo dell’opera d’arte sta nel fatto che essa sembra esistere per sé e nello stesso tempo non soltanto per sé; che essa si rivolge a un pubblico concreto, storicamente e socialmente definito e insieme sembra ignorare ogni pubblico. La «quarta parete» della scena appare a volte il piú naturale presupposto, altre volte la piú arbitraria finzione dell’estetica. Distruggendo, con una tesi, un indirizzo morale, un intento pratico l’illusione, si impedisce, è vero, il godimento estetico assoluto; tuttavia è l’unico modo di provocare una vera adesione all’opera, un’adesione che investa tutto l’essere dello spettatore o del lettore. Quest’alternativa però è affatto estranea all’intenzione dell’artista. Anche l’opera politicamente e moralmente piú tendenziosa può esser compresa come arte pura, cioè pura forma, se è davvero un’opera d’arte; e ogni prodotto artistico, anche privo, per l’autore, di qualsiasi fine pratico, può esser considerato come espressione e strumento della causalità sociale. L’attivismo di Dante non esclude affatto

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un’interpretazione puramente estetica della Divina Commedia, né il formalismo di Flaubert esclude una spiegazione sociologica di Madame Bovary e dell’Education sentimentale. Verso il 1830 i rapporti fra le principali correnti artistiche – l’«arte sociale», l’école de bon sens e l’art pour l’art – sono complicati e per lo piú contraddittori. Queste contraddizioni caratterizzano l’atteggiamento dei sansimoniani e dei fourieristi sia verso il romanticismo, sia verso il classicismo borghese. Del primo essi rifiutano le simpatie per la Chiesa e per la monarchia, la visione romanzesca e irreale della vita, l’egoistico individualismo, ma specialmente il quietismo de l’art pour l’art. D’altronde li attrae nel romanticismo il liberalismo, il concetto della libertà e spontaneità dell’arte, la rivolta contro le regole e l’autorità dei classici. E ancora ammirano fortemente nei romantici le aspirazioni realistiche, ch’essi riconoscono affini al loro interesse per la vita, alla loro disposizione verso la realtà. L’affinità fra socialismo e realismo spiega anzitutto la loro simpatia per Balzac di cui, soprattutto in principio, essi giudicano con molto favore le opere29. Con questi sentimenti contrastanti di fronte al romanticismo è connesso il loro atteggiamento, altrettanto contraddittorio, verso il classicismo borghese. Il consenso al liberalismo dell’estetica romantica li porta a condannare il ritorno ai modelli classici dell’arte borghese; invece l’avversione agli arbitrî e alle esagerazioni della poesia, e specialmente del teatro romantico, li spinge a una parziale adesione al classicismo di Ponsard»30. A questa indecisione dei socialisti corrisponde da un lato l’incertezza del gusto borghese diviso tra il romanticismo accademico e il dramma di Ponsard; dall’altro, l’oscillare del romanticismo stesso tra l’attivismo e l’art pour l’art. Ma con queste tre correnti ne incrocia una quarta, che storicamente è la piú importante: il realismo di Stendhal e di Balzac. Anch’es-

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so si trova in un rapporto contraddittorio con il romanticismo. In questo caso l’ambivalenza è frutto principalmente di quel dissidio che di solito esiste tra due generazioni o due tendenze intellettuali di cui una è la prosecuzione dell’altra. Il realismo rappresenta la continuazione e la dissoluzione del romanticismo; Stendhal e Balzac ne sono i piú legittimi eredi e i piú ardenti avversari. In arte il realismo non è una concezione chiara e unitaria, che segua costantemente uno stesso concetto della realtà, bensí un’interpretazione della vita sempre diversa, volta a un fine determinato, a un compito concreto, e limitata a fenomeni particolari. Ci si professa realisti, non perché si ritenga a priori che ci sia piú arte nella rappresentazione naturalistica che in quella stilizzatrice, ma perché nella realtà si scopre un carattere, una tendenza, che si vorrebbe fortemente accentuare, favorire o combattere. In sé, tale scoperta non deriva dall’osservazione del vero; se mai, l’interesse per il vero ne è una conseguenza. La generazione del 1830 comincia la sua carriera letteraria con la coscienza che un totale mutamento è avvenuto nella struttura della società; in parte lo approva, in parte lo combatte, comunque si tratta sempre di una reazione estremamente attiva, ed è appunto da questo atteggiamento impegnato che deriva la sua tendenza realistica. Il realismo dunque non mira semplicemente al vero, alla «natura» o alla «vita» in genere, ma in modo particolare alla vita sociale, cioè a quella sfera della realtà che per questa generazione ha assunto un’importanza particolare. Stendhal e Balzac si assumono il compito di rappresentare la nuova società trasformata; proprio lo sforzo di esprimerne la novità e i caratteri particolari li porta al realismo e determina il loro concetto della verità artistica. La coscienza sociale della generazione del 1830, la sua sensibilità a fenomeni in cui sono in gioco interessi sociali, la sua perspica-

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cia per i cambiamenti nella società e nella sua scala di valori, fanno degli scrittori di questa generazione i creatori del romanzo sociale e del moderno realismo. La storia del romanzo comincia nel Medioevo con l’epopea cavalleresca. Questa a dir vero ha poco di comune con il romanzo moderno; pure la sua composizione aggiuntiva, la sua tecnica prolissa che allinea senza fine avventure ed episodi, sono all’origine di una tradizione che si continua non solo nel romanzo picaresco o nelle storie eroiche e pastorali del Rinascimento e dell’età barocca, ma addirittura nel romanzo d’avventure dell’Ottocento e in quelle evocazioni del fluire della vita e dell’esperienza che sono i romanzi di Proust e Joyce. A prescindere dall’inclinazione alla forma aggiuntiva comune a tutto il Medioevo, e dalla concezione cristiana che tende a vedere la vita non come un fenomeno tragico, che culmina in singoli conflitti drammatici, ma come un itinerario con le sue varie stazioni, questa struttura dipende soprattutto dal fatto che la poesia era recitata e che il pubblico vi portava un’ingenua avidità di nuovi argomenti. La stampa, cioè la diretta lettura di libri, e la visione sintetica dell’arte rinascimentale fanno sì che la narrazione diffusa del Medioevo cominci a cedere a una rappresentazione piú unitaria, meno episodica. Il Don Quijote, nonostante la sua struttura essenzialmente picaresca, costituisce anche formalmente una critica alla prolissità dei romanzi cavallereschi. La svolta decisiva, verso l’unità e la semplificazione del romanzo, la dobbiamo al classicismo francese. La Princesse de Clèves è un caso affatto isolato, poiché in genere i romanzi eroici e pastorali del Seicento non sono diversi dalle storie d’avventure del Medioevo che s’ingrossano a valanga rotolando senza fine. Il capolavoro di Madame de Lafayette invece aveva attuato, dimostrando che si trattava di una possibilità sempre attuabile, l’idea del «romanzo d’amore», con un’azione

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coerente, un’acme drammatica e l’analisi psicologica di un singolare conflitto. D’ora in poi il romanzo d’avventure costituisce una forma letteraria di second’ordine; rimane fuori dei confini dell’arte ufficiale e viene a godere dei vantaggi di ciò che è insignificante e irresponsabile. Il Grand Cyrus e l’Astrée sono letti principalmente dall’aristocrazia di corte, ma li si legge, per cosí dire, in via strettamente privata e ci si abbandona a quel piacere come a un vizio, o almeno come a una debolezza, di cui non si può essere certo orgogliosi. Bossuet nell’orazione funebre per Enrichetta d’Inghilterra rammenta come un elogio che la defunta non si curava affatto dei romanzi in voga e dei loro insulsi eroi; ciò basta per farsi un’idea di come il genere fosse giudicato in pubblico. Ma l’aristocrazia, quando si trattava dei suoi svaghi privati, non si lasciava guidare dalle regole dei classicisti, e continuava imperterrita a godersi avventure e stravaganze. Ancora nel Settecento, per lo piú, il romanzo non si discosta dal prolisso genere picaresco. Non solo il Gil Blas e il Diable boiteux, ma anche i romanzi di Voltaire, benché brevi, sono costruiti a episodi, e Gulliver e Robinson rispondono perfettamente al principio dell’addizione. Perfino Manon Lescaut, la Vie de Marianne e le Liaisons dangereuses sono ancora forme di transizione dalle antiche storie d’avventure al romanzo d’amore, che a poco a poco diventa il genere principale e comincia a dominare la letteratura preromantica. Con Clarissa Harlowe, la Nouvelle Héloïse e il Werther trionfa nel romanzo il principio drammatico dando inizio a un processo che culminerà in opere come Madame Bovary di Flaubert e Anna Karenina di Tolstoj. L’attenzione si accentra ormai sullo sviluppo psicologico; i dati esterni vengono considerati solo in quanto provocano reazioni psichiche. È questo il segno piú evidente della progressiva tendenza al soggettivismo e all’introversio-

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ne che si sviluppa nella cultura del tempo; tendenza che si afferma anche piú fortemente nel romanzo della formazione intima, il cosiddetto Bildungsroman, che rappresenta lo stadio successivo del processo e, dal punto di vista della storia, stilistica, è la forma letteraria piú importante del secolo. La storia interiore dell’eroe diventa la storia del formarsi di un mondo. Solo un tempo per cui lo sviluppo individuale è la fonte piú importante della cultura poteva suscitare questa forma di romanzo che non a caso ha avuto origine in un paese come la Germania, ove meno profonde erano le radici di una cultura collettiva. Comunque il Wilhelm Meister di Goethe è il primo Bildungsroman in senso stretto, sebbene se ne trovino le origini in opere piú antiche, soprattutto di tipo picaresco, come il Tom Jones di Fielding e il Tristram Shandy di Sterne. Il romanzo diventa il maggior genere letterario del Settecento, perché esprime nel modo piú ampio e profondo il problema culturale del tempo, il contrasto tra individuo e società. In nessun’altra forma letteraria gli antagonismi della società borghese si affermano cosí intensi, o con altrettanta efficacia vengono descritte le lotte e le sconfitte dell’individuo. Non per nulla Friedrich Schlegel vede nel romanzo il «genere romantico» per eccellenza. Il romanticismo vi ravvisa la piú adeguata rappresentazione del conflitto tra l’io e il mondo, il sogno e la vita, la poesia e la prosa, e l’espressione piú profonda di quella rassegnazione, che considera l’unica soluzione del conflitto. La soluzione invece che ne dà Goethe nel Wilhelm Meister è diametralmente opposta a quella romantica: l’opera in realtà rappresenta non solo il punto d’arrivo del romanzo settecentesco, ma anche il prototipo da cui, direttamente o indirettamente, si possono far derivare le creazioni piú tipiche del genere, Le rouge et le noir, Les illusions perdues, L’éducation sentimentale e Der Grüne Heinrich [Enrico il

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Verde], per non nominare che le piú famose. Ma oltre a questo, il Wilhelm Meister rappresenta la prima critica importante del romanticismo come forma di vita. Qui Goethe – ed è il vero messaggio dell’opera – mostra quanto sia sterile lo straniarsi dei romantici dalla realtà, e afferma che al mondo si rende giustizia se vi si è intimamente legati, e che solo dall’interno lo si può riformare. Egli non vela né abbellisce il dissidio tra mondo intimo e mondo esterno, tra l’io spirituale e la realtà convenzionale, ma riconosce e dimostra che il disprezzo romantico del mondo è un’evasione di fronte al vero problema31. L’esortazione goethiana a vivere col mondo e secondo le sue regole si involgarí in seguito nella letteratura borghese, trasformandosi in un invito alla collaborazione senza riserve. Il pacato, ma non certo passivo adeguarsi alla situazione esistente, divenne cosí conciliante servilismo e utilitario culto del mondo. Goethe è responsabile di questo processo solo in quanto non si avvide dell’impossibilità di appianare pacificamente i contrasti, per cui il suo ottimismo un po’ facile poté apparire come ideologia della politica borghese di conciliazione. Assai piú acutamente di lui Stendhal e Balzac videro le tensioni che dominavano l’epoca e le giudicarono in modo piú realistico. Il romanzo sociale, a cui essi affidarono le loro intuizioni, non solo va oltre il romanzo della delusione ma anche oltre quello goethiano dello sviluppo intimo. La loro rassegnazione supera il disprezzo romantico del mondo, e la stessa critica goethiana del romanticismo. Il loro pessimismo risulta da un’analisi che non si fa illusioni sulla possibilità di risolvere la questione sociale. Il realismo, con cui Stendhal e Balzac descrissero la situazione, la loro comprensione per la dialettica da cui era mossa la società, era senza esempio nella letteratura del tempo; ma l’idea del romanzo sociale era nell’aria. Sottotitoli come Scene del gran mondo o Scene della vita

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privata si incontrano già molto prima di Balzac32. «Molti giovani descrivono le cose, come avvengono ogni giorno in provincia... non ne vien fuori molta arte, ma molta verità», scrive Stendhal a proposito del romanzo sociale dei suoi giorni33. Da lungo tempo si notavano dappertutto indizi e tentativi, ma con Stendhal e Balzac il romanzo sociale diventa senz’altro il romanzo moderno, e ormai pare impossibile rappresentare un personaggio avulso dalla società, che si sviluppi e agisca al di fuori di un determinato ambiente. La realtà della vita sociale entra nella coscienza dell’uomo e non potrà piú esserne rimossa. Le grandi opere letterarie dell’Ottocento, quelle di Stendhal, Balzac, Flaubert, Dickens, Tolstoj e Dostoevskij, e ancora quelle di un Proust e di un Joyce, sono romanzi sociali, a qualunque categoria appartengano. Un personaggio si considera ormai vero e plausibile solo se è radicato nella società; e diventa argomento del nuovo romanzo realista, solo per la problematica sociale che la sua vita coinvolge. Questo concetto sociologico dell’uomo è la scoperta dei romanzieri della generazione del 1830, ed è la ragione dell’interesse di Marx per le opere di Balzac. La società del tempo trova in Stendhal e Balzac due critici severi, spesso malevoli; ma l’uno giudica da liberale, l’altro da conservatore. Pure, nonostante le sue opinioni reazionarie, fra i due artisti il piú avanzato è Balzac; egli vede piú nettamente la struttura della società borghese e nel descriverne le tendenze è piú obiettivo di Stendhal, radicale in politica, ma contraddittorio in tutto il suo modo di pensare e di sentire. Nella storia dell’arte non c’è esempio che dimostri piú chiaramente che un artista è utile alla causa del progresso non tanto per le sue convinzioni e le sue simpatie, quanto per la potenza con cui sa rappresentare i problemi e le contraddizioni della realtà sociale. Stendhal giudica il suo tempo secondo le idee, ormai

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antiquate, del Settecento, e gli sfugge il significato storico del capitalismo. Balzac considera addirittura troppo avanzate anche queste idee, ma nei suoi romanzi non può fare a meno di descrivere la società in modo tale, che un ritorno alle condizioni e alle idee prerivoluzionarie risulta del tutto impensabile. Per Stendhal la cultura illuministica, la visione intellettuale di Diderot, Elvezio e Holbach è senz’altro esemplare e imperitura; egli ne considera la decadenza come un fenomeno transitorio e ne prevede la rinascita in quel tempo da cui egli si attende anche un giusto apprezzamento dell’arte sua. Balzac invece riconosce che l’antica civiltà si è ormai disgregata, che l’aristocrazia stessa si è fatta strumento di questo processo, e proprio in questo vede un segno della forza irresistibile dell’evoluzione capitalistica. La posizione di Stendhal è essenzialmente politica ed egli, nel descrivere la società, è attento soprattutto al «meccanismo dello stato»34. Balzac invece fonda il suo edificio sociale sull’economia, anticipando in certo modo le teorie del materialismo storico. Egli sa bene che le varie forme della scienza, dell’arte e della morale sono, come quelle della politica, funzioni della realtà economica e che la civiltà borghese, individualista e razionalista, affonda le sue radici nelle forme dell’economia capitalistica. Quest’intuizione non è certo meno feconda perché il poeta crede di ravvisare nella società feudale il proprio ideale di civiltà meglio che in quella del capitalismo borghese. Nonostante l’entusiasmo per l’antica monarchia, la Chiesa cattolica e la società aristocratica, nel mondo di Balzac il realismo e il materialismo sono come fermenti intellettuali che distruggono gli ultimi resti del feudalesimo. I romanzi di Stendhal sono cronache politiche: Le rouge et le noir è la storia della società francese durante la Restaurazione, La Chartreuse de Parme, il quadro dell’Europa dominata dalla Santa Alleanza, Lucien Leuwen,

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l’analisi storico-sociale della monarchia di luglio. Anche prima, naturalmente, c’erano stati romanzi a sfondo storico e politico, ma a nessuno, prima di Stendhal, sarebbe venuto in mente d’impostare un romanzo proprio sul sistema politico del tempo. Prima di lui nessuno fu mai cosí conscio del momento storico, nessuno sentí cosí fortemente che di tali momenti è composta tutta la storia, in una continua cronaca delle generazioni. Il presente è per Stendhal l’ora fatale della prima generazione postrivoluzionaria, tempo di promesse e di speranze inadempiute, di energie inutilizzate e d’ingegni delusi. Egli lo vive come una paurosa tragicommedia, in cui la borghesia arrivata al potere gioca una parte non meno deplorevole di quella dell’aristocrazia cospiratrice, come un crudele dramma politico, in cui non ci sono che intriganti, siano essi reazionari o liberali. In un tal mondo, egli si domanda, dove tutto è menzogna e ipocrisia, non è forse buono ogni mezzo che porti al successo? La cosa piú importante è di non fare il gabbato, cioè di mentire, di finger meglio degli altri. Tutti i grandi romanzi di Stendhal s’imperniano sul problema dell’ipocrisia, sul segreto per trattare con gli uomini, per ingannare il mondo; sono tutti per cosí dire dei manuali di realismo e amoralismo politico. Nella sua critica a Stendhal, Balzac osserva che La Chartreuse de Parme è un nuovo Principe, che Machiavelli non avrebbe potuto scrivere altrimenti, se fosse vissuto esule nell’Italia dell’Ottocento. Il motto machiavellico di Julien Sorel «Qui veut la fin veut les moyens» [ «Chi vuole il fine vuole i mezzi»] ha qui la sua formulazione classica, ripetutamente usata dallo stesso Balzac: nel mondo bisogna accettare le regole del suo gioco, se si vuol parteciparvi e contar qualcosa. Per Stendhal la nuova società si distingue dalla vecchia anzitutto per le diverse forme del potere, che si sono costituite in seguito allo spostarsi delle forze e al

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mutato valore politico delle classi; per lui il sistema capitalistico è la conseguenza della nuova struttura politica. Egli descrive la società francese nel momento in cui la borghesia si è già assicurata il potere economico, ma ancora deve lottare per imporsi sul piano sociale. Questa lotta egli la rappresenta da un punto di vista personale, soggettivo, precisamente come si configura per l’intellettuale in ascesa. L’isolamento di Julien Sorel è il motivo dominante di tutta l’opera stendhaliana, il tema che viene variato e modulato negli altri romanzi, specialmente nella Chartreuse de Parme e nel Lucien Leuwen. Per Stendhal la questione sociale consiste nel destino di quei giovani ambiziosi di umile origine, che la cultura ha strappato al loro ambiente: rimasti, alla fine dell’epoca rivoluzionaria, senza mezzi e senza legami, abbagliati dalle occasioni della Rivoluzione e dalla fortuna di Napoleone, vogliono avere nella società una parte adeguata al loro ingegno e alle loro ambizioni. Ma essi scoprono che poteri, influenza, posti importanti sono tutti nelle mani dell’antica nobiltà e della nuova aristocrazia del denaro e che dappertutto la mediocrità ha il sopravvento sulle doti e sull’ingegno. Il principio che ognuno è l’artefice della propria fortuna – idea affatto estranea agli uomini dell’ancien régime, ma familiare alla gioventú rivoluzionaria – perde il suo valore. Vent’anni prima il destino di Julien Sorel sarebbe stato tutt’altro; a venticinque anni sarebbe diventato colonnello, a trentacinque generale: ecco il motivo che ritorna sempre. Egli è nato troppo tardi o troppo presto; è come sospeso fra un’epoca e l’altra, fra una classe e l’altra. Qual è il suo vero posto? per chi parteggia? È ancora il vecchio, ben noto problema del romanticismo, che anche ora come allora rimane insoluto. L’origine romantica delle idee politiche di Stendhal si rivela nel modo piú chiaro nel fatto che egli fonda le pretese del suo eroe semplicemente sul privilegio del talento,

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dell’intelligenza e dell’energia. Per criticare la Restaurazione e giustificare la Rivoluzione egli parte dal presupposto che vera vitalità ed energia si possono ancora trovare soltanto nel popolo. Le circostanze del famoso omicidio del seminarista Berthet, ch’egli riprenderà nel Rouge et noir, sono per lui una prova che d’ora in poi i grandi uomini usciranno da quei ceti inferiori ancora pieni d’energia e capaci di vere passioni, a cui apparteneva non solo Berthet, ma, com’egli sottolinea, anche Napoleone. Cosí la coscienza della lotta di classe entra nella letteratura. Naturalmente, anche prima i narratori avevano rappresentato il conflitto tra i vari ceti; nessuna rappresentazione viva della realtà sociale poteva trascurarlo. Ma il suo vero significato rimaneva oscuro ai personaggi e anche all’autore. Lo schiavo, il servo della gleba, il contadino figuravano abbastanza spesso nell’antica letteratura – soprattutto come figure comiche – e il plebeo era descritto non solo come un infingardo, ma anche – ad esempio, nel Paysan parvenu di Marivaux – come il nuovo ricco; tuttavia mai accadeva che un uomo di umile condizione, cioè al di sotto della media borghesia, fosse presentato come il campione di una classe diseredata. Julien Sorel è il primo eroe di romanzo che sia consapevole della sua origine plebea e l’abbia sempre presente; per lui ogni successo è una vittoria sulla classe dominante e ogni sconfitta un’umiliazione. Neppure a Madame de Rênal, l’unica donna ch’egli ami davvero, può perdonare di esser ricca e di appartenere a quella classe davanti a cui egli crede di dover sempre stare in guardia. Nei suoi rapporti con Mathilde de la Mole la lotta di classe ormai si confonde con la lotta dei sessi. E la sua allocuzione ai giudici non è se non una affermazione della lotta di classe, una sfida lanciata agli avversari da chi ha il collo sotto la scure: «Signori, io non ho l’onore di appartenere alla vostra classe, – egli

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dice. – Voi vedete in me un contadino, che si è ribellato all’umiltà della sua sorte... Io vedo uomini che vorranno punire in me e scoraggiare per sempre quella classe di giovani che, nati in basso e oppressi dalla povertà, hanno la fortuna di potersi istruire e l’audacia di mescolarsi a quel che l’orgoglio dei ricchi chiama la società...» E tuttavia all’autore non importa unicamente, e neppure in modo particolare, la lotta di classe; la sua simpatia non va senz’altro ai poveri e agli oppressi, ma ai figliastri geniali e sensibili della società, alle vittime della classe dominante senza cuore e senza fantasia. Perciò Julien Sorel, il figlio di contadini, Fabrizio del Dongo, il rampollo di una famiglia di antichissima nobiltà, e Lucien Leuwen, l’erede di un patrimonio di milioni, ci appaiono come fratelli d’arme, compagni di lotta e di pena, che si sentono ugualmente stranieri e sperduti in questo mondo volgare e prosaico. La Restaurazione ha creato condizioni in cui il conformismo è l’unica via al successo e in cui piú nessuno può respirare e muoversi liberamente, qualunque sia la sua origine. Ma il destino comune degli eroi stendhaliani nulla toglie al fatto che la lotta di classe è l’origine sociologica del nuovo tipo di eroe e che Fabrizio e Lucien non sono che trasposizioni ideologiche di Sorel, metamorfosi del «plebeo ribelle», varietà dell’«infelice che muove guerra a tutta la società». Senza un ceto medio insidiato dalla reazione, senza quegli intellettuali condannati alla passività, fra cui lo stesso Stendhal, la figura di Fabrizio del Dongo sarebbe inconcepibile come quella di Julien Sorel. Henri Beyle, funzionario dell’esercito imperiale, nel 1815 viene messo in pensione a metà paga; per anni cerca di ottenere un altro impiego, ma non riesce neppure a diventare bibliotecario. Vive in volontario esilio lontano dalla Francia, tagliato fuori da ogni possibilità di carriera, come un naufrago. Odia la reazione, ma quando parla di libertà pensa unicamente

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a sé, al diritto di inseguire la sua felicità. La felicità dell’individuo, la felicità in senso puramente epicureo è per lui lo scopo di ogni attività politica. Il suo liberalismo è il risultato del suo destino personale, della sua educazione, dello spirito ribelle determinato in lui da esperienze infantili, del suo fallimento nella vita, ma non di uno schietto sentimento democratico. Egli è un enfant de gauche35, anzitutto perché soggiace a un complesso di Edipo, ma anche perché allievo del nonno che, fedele alunno dei «filosofi» settecenteschi, lo alleva nel culto dell’illuminismo. L’insuccesso lo conferma in questo spirito e ne fa un ribelle; ma sentimentalmente egli è un individualista e un aristocratico, alieno da ogni istinto gregario. Il suo culto romantico dell’eroe, l’esaltazione della personalità forte, dotata, eccezionale, il suo concetto degli happy few, la morbosa avversione a tutto quel che è plebeo, l’estetismo, il dandysmo sono tutte forme di un preziosismo e di un autocompiacimento aristocratico. Ha paura della repubblica, si tiene lontano dalla folla, ama gli agi e il lusso e il suo ideale politico è una monarchia costituzionale che assicuri al fiore dell’intellettualità una vita senza crucci. Ama i salotti signorili, l’ozio dell’epicureo, la gente ben educata, frivola e intelligente. Teme che la repubblica e la democrazia rendano piú povera e squallida la vita, teme la vittoria delle rozze masse ignoranti sulla società colta, che della vita sa godere la bellezza nel modo piú raffinato. «Amo il popolo e odio gli oppressori, – dice, – ma sarebbe un tormento per me dover sempre vivere con il popolo». Benché solidale con Julien Sorel, Stendhal lo accompagna con sguardo severamente critico e, pur ammirando l’ingegno e l’integrità del giovane ribelle, non dissimula affatto le sue riserve sulla sua natura plebea. Egli ne comprende l’amarezza, ne condivide il disprezzo per la società, ne approva l’ipocrisia senza scrupoli e il rifiu-

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to di collaborare con la gente che lo circonda, ma ciò ch’egli non capisce e non approva è la folle méfiance, la morbosa, umiliante diffidenza del plebeo afflitto da complessi d’inferiorità e da rancori, la sua impotente brama di vendetta che infuria alla cieca, la brutta invidia che lo sfigura. L’analisi dei sentimenti di Julien, dopo la lettera di Mathilde che gli dichiara il suo amore, mostra chiarissima la distanza che divide Stendhal dal suo eroe. Di fatto essa è la chiave di tutto il romanzo e ci ricorda che nella storia di Julien Sorel non dobbiamo vedere una semplice confessione dell’autore. Anzi, questi è preso da un senso di repulsione, di paura, di ribrezzo di fronte a quel sospetto maniaco. «Lo sguardo di Julien era crudele, la sua espressione orrenda», dice senza alcuna simpatia, senza tentare affatto di scusarlo. Non gli venne mai fatto di pensare che la piú grande colpa della società verso Julien era appunto di averlo reso cosí diffidente e perciò cosí infelice, cosí inumano? Le opinioni politiche di Stendhal sono altrettanto contraddittorie. Per origine egli appartiene alla borghesia, ma per educazione diventa uno dei suoi avversari. Sotto Napoleone egli è un alto funzionario, partecipa alle ultime campagne dell’imperatore, che forse gli fa profonda impressione, ma certo non lo entusiasma: egli mantiene le sue riserve di fronte al despota violento e allo spietato conquistatore36. Anche per lui da principio la Restaurazione significa la pace, la fine del lungo, inquieto, incerto periodo rivoluzionario; nella nuova Francia, dapprima egli non si sente affatto estraneo e scontento. Ma via via che si accorge come al misero pensionato sia chiusa ogni prospettiva, e quale sia il vero volto della Restaurazione, cresce in lui, con l’odio e la nausea per il nuovo regime, l’entusiasmo per Bonaparte. Il suo debole per la vita bella e comoda lo rende avverso al livellamento sociale; ma il suo stato povero e oscuro alimenta la sua diffidenza e l’ostilità verso l’or-

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dine attuale impedendogli di aderire alla reazione. Le due tendenze sono sempre presenti nel pensiero di Stendhal; e, secondo le circostanze della sua vita, prevale or l’una or l’altra. Nel periodo, per lui cosí oscuro, della Restaurazione, crescono sempre piú il suo scontento e il suo radicalismo politico; ma quando le sue condizioni personali migliorano, egli si calma e da ribelle diventa un difensore dell’ordine e un moderato conservatore37. Le rouge et le noir è ancora la confessione di uno spostato e di un sedizioso, La Chartreuse de Parme è già l’opera di un animo placato nella tranquilla rinunzia38. La tragedia è diventata tragicommedia, alla genialità dell’odio è subentrata una saggezza cordiale, quasi conciliante, un piú aperto, superiore umorismo che certo osserva con inesorabile obiettività, ma riconosce la relatività delle cose e la debolezza di tutto ciò ch’è umano. Veramente nel tono del poeta s’insinua cosí una certa frivolezza, che ricorda la tolleranza del «tutto comprendere – tutto perdonare»; ma quanto lontano è Stendhal dal conformismo della piú tarda borghesia che tutto perdona nell’ambito delle sue convenzioni, ma nulla fuori di esse! Che diverso senso dei valori! Che entusiasmo in Stendhal per la giovinezza, il coraggio, l’ingegno, il bisogno di felicità, l’abitudine a goderla e a crearla; e che stanchezza, che tedio, che timore della felicità nella borghesia ormai saldamente al potere! «... Devo esser piú felice di un altro, perché possiedo quel che gli altri non hanno... – dice il conte Mosca. – Ebbene, siamo giusti, l’abitudine di questo pensiero deve guastarmi il sorriso... deve darmi un’aria da egoista... soddisfatta... E il suo, che sorriso incantevole! – (egli parla di Fabrizio). – Ne traspare la spontanea felicità della prima giovinezza e la suscita». Eppure Mosca non è un furfante. È soltanto un debole, e si è venduto. Stendhal si sforza in ogni modo di comprenderlo. Anzi, nel Rouge et noir si chiedeva: «Chi sa quel che si deve

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passare sulla via di una grande impresa? – Danton ha rubato, Mirabeau si è venduto. – Napoleone in Italia ha rubato milioni, se no, non sarebbe andato avanti... Soltanto Lafayette non ha mai rubato. – Bisogna rubare, bisogna vendersi?» Evidentemente si tratta di ben altro che dei milioni di Napoleone: Stendhal scopre l’inesorabile dialettica di ogni atto che opera nella realtà, il materialismo di ogni esistenza, di ogni prassi. Una scoperta sconvolgente per un romantico genuino, anche se travagliato da forti inibizioni. Nell’Ottocento nessuno come Stendhal è diviso fra attrazione e opposizione al romanticismo. Anche in questo si riflette il dissidio della sua visione politica. Stendhal è un rigido razionalista e positivista; ogni metafisica, ogni pura speculazione, ogni confuso idealismo gli è estraneo, odioso. L’essenza della morale, della dirittura intellettuale sta per lui nello sforzo «di veder chiaro in quel che è», nel resistere alle seduzioni della superstizione e dell’autoinganno. «La sua fervida fantasia le velava talvolta le cose, – dice di una delle sue creature predilette, la duchessa Sanseverina, – eppure le erano ignote quelle illusioni gratuite che suggerisce la viltà». Ai suoi occhi il fine piú alto è l’ideale di Voltaire e di Lucrezio: vivere liberi dalla paura. Il suo ateismo è lotta contro il despota della Bibbia e del mito, ed è solo un aspetto del suo appassionato realismo ribelle a ogni menzogna, a ogni inganno. Il suo orrore della retorica e del pathos, delle parole e delle frasi magniloquenti, dello stile smagliante, esuberante, enfatico di Chateaubriand e di De Maistre, la sua predilezione per la chiara, concisa concretezza del «codice civile», per le «buone definizioni», per le frasi brevi, precise, disadorne: tutto in lui esprime un materialismo rigido, intransigente – «eroico», come dice Bourget – e il desiderio di veder chiaro e far veder chiaro in quel che è. Ogni esagerazione, ogni ostentazione gli ripugna, e seb-

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bene egli sia spesso entusiastico, non è mai pomposo. Si è osservato, per esempio, ch’egli non dice mai «libertà», ma sempre «le due Camere e la libertà di stampa»39; anche questo è un segno della sua avversione a tutto quanto è irreale ed enfatico; anche questo fa parte della sua lotta contro il romanticismo e contro il suo stesso sentimento romantico. Il suo sentire infatti è schiettamente romantico; «egli pensa come Elvezio, ma sente come Rousseau», è stato detto40. I suoi eroi sono idealisti delusi, spiriti avventurosi, appassionati, anime intatte di fanciulli non contaminati dalla sozzura della vita. Come il loro celebre predecessore, Saint-Preux, amano la solitudine e i luoghi alti e remoti, dove possono sognare indisturbati e abbandonarsi ai loro ricordi. I loro sogni, le loro memorie, i loro piú segreti pensieri sorgono dai piú teneri affetti. Ecco la grande forza che in Stendhal bilancia la ragione, la fonte della piú pura poesia e del piú profondo fascino dell’opera sua. Ma in lui il romanticismo non è sempre poesia pura, schietta e limpida arte; spesso implica elementi romanzeschi, fantastici, morbosi e macabri. Anzitutto il suo culto del genio non è solo entusiasmo per quel che è grande e sovrumano, ma gusto dello stravagante e del curioso; egli esalta la «vita pericolosa» non solo perché adora l’intrepido eroismo, ma anche perché ama giocare con la perversità e il delitto. Le rouge et le noir è, se vogliamo, un romanzo nero, con una fine eccitante e orrida; La Chartreuse de Parme è un romanzo d’avventure pieno di sorprese, salvataggi miracolosi, crudeltà e situazioni melodrammatiche. Il «beylismo» non è solo una religione della forza e della bellezza, ma anche un culto del piacere e un vangelo della violenza – una variante del satanismo romantico. Tutta la critica stendhaliana alla civiltà ha un carattere romantico; si ispira all’entusiasmo di Rousseau per lo stato di natura, ma conclude a un entusiasmo insieme esaltato e negati-

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vo, che rimprovera al mondo civile non solo la perdita della spontaneità, ma anche il diminuito coraggio per i grandi delitti pittoreschi. Il bonapartismo di Stendhal è la prova migliore della natura complessa, in parte ancora fortemente romantica, del suo mondo intellettuale. Oltre l’esaltazione estetizzante del genio, entrano in questo culto la stima per chi viene dal basso e vuole elevarsi, ma anche la solidarietà per il vinto, la vittima della reazione e dell’oscurantismo. Per Stendhal, Napoleone è il tenentino che diventa signore del mondo, il cadetto della favola che scioglie l’enigma e ottiene la figlia del re; ma è anche l’eterno martire e l’eroe dello spirito, troppo buono per questo mondo corrotto, e votato al sacrificio. Anche qui immoralismo e satanismo romantico si confondono e trasformano l’apoteosi della grandezza – nel bene come nel male –, l’ammirazione per essa nonostante il male che spesso necessariamente ne deriva, in un culto della grandezza proprio perché disposta anche al male, anche al delitto. Il Napoleone di Stendhal, come Julien Sorel, appartiene agli antenati di Raskol´nikov; essi incarnano quel che per Dostoevskij era il romanticismo dell’Occidente e ch’egli volle fatale al suo eroe. Anche la rassegnazione stendhaliana conserva tratti romantici e mostra di derivare dal romanzo della delusione piú direttamente che non il freddo e oggettivo pessimismo balzachiano. Ma i romanzi di Stendhal finiscono male come quelli di Balzac; la differenza è quindi nel modo, non nel grado della rinunzia. Anche i suoi eroi sono sconfitti, anch’essi affondano miseramente o, peggio, sono costretti alla capitolazione, ai compromessi, muoiono giovani o si appartano delusi. Alla fine sono tutti stanchi della vita, logori, consunti, bruciati; cessano di lottare e patteggiano con la società. La morte di Julien è una specie di suicidio e la fine dell’eroe nella Chartreuse de Parme è una sconfitta altrettanto triste. Il

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tono della rinunzia risuona già in Armance, dove il tema dell’impotenza è il chiaro simbolo dell’isolamento che affligge tutti gli eroi stendhaliani. Il motivo riecheggia nella persuasione del giovane Fabrizio di essere incapace di vero amore; e un analogo dubbio sorge in Julien Sorel. Comunque, la potenza di Eros che colma di felicità spegnendo l’essere egoisticamente individuale, l’abbandono intero all’istante e il perfetto oblio di sé nella dedizione all’amata gli sono ignoti. Per gli eroi di Stendhal non esiste felicità del presente; la felicità per essi è sempre già alle loro spalle, ci pensano soltanto quando è già trascorsa. Il senso tragico che Stendhal ha della vita mai si esprime in modo tanto straziante come quando Julien scopre che i giorni di Vergy e di Verrières, vissuti inconsciamente e distrattamente, e ora inesorabilmente e per sempre svaniti, erano la cosa piú bella, piú buona, piú preziosa che la vita avesse da offrire. Solo il passare delle cose ci fa consci del loro valore; solo nell’ombra della morte Julien impara ad apprezzare la vita e l’amore di Madame de Rénal; solo in carcere Fabrizio scopre la vera felicità e la vera, intima libertà. Chi sa, si domanda Rilke davanti alla gabbia di un leone, dov’è la libertà: davanti o dietro le sbarre? Domanda schiettamente stendhaliana e altamente romantica. Nonostante la sua avversione allo stile colorito ed enfatico, anche formalmente Stendhal è un erede del romanticismo, e in senso assai piú stretto di quanto si possa dire, piú o meno, per ogni artista moderno. L’ideale classico dell’unità, dell’ordine rigoroso, della subordinazione a un’idea principale, l’equilibrato sviluppo dell’argomento, senza arbitrî soggettivi, e senza mai perdere di vista il lettore, in lui scompaiono del tutto, sostituiti da una visione in cui domina unicamente la volontà di esprimersi, e che mira a rendere l’esperienza nel modo piú diretto, semplice e autentico. I

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romanzi di Stendhal appaiono come un insieme di pagine di diario e di schizzi, che anzitutto cercano di fissare i moti dell’animo, il meccanismo dei sentimenti e il lavorio mentale dell’autore. Espressione, confessione, comunicazione soggettiva sono la meta vera; il fluire delle esperienze, il ritmo stesso della corrente sono il vero argomento; in confronto, ciò che la corrente trascina e porta con sé appare quasi secondario. Piú o meno, ogni arte moderna, post-romantica, è improvvisazione e all’origine di questo sta sempre l’idea che il sentimento, lo stato d’animo, l’ispirazione siano piú ricchi e piú vicini alla vita, che non l’abilità, il gusto critico e la costruzione sapiente. Consciamente o no, tutta la concezione moderna parte dalla convinzione che gli elementi piú validi dell’opera d’arte siano le fantasie improvvise, le felici trovate, i doni della divina ispirazione e che per l’artista il meglio sia di abbandonarsi all’inventiva. Perciò l’invenzione del particolare è cosí importante nell’arte moderna, e tanto piú forte è il suo effetto quanto piú frequenti vi sono le svolte inattese e i motivi accessori imprevisti. Già Beethoven, rispetto ai suoi predecessori, fa l’effetto di improvvisare, benché le opere di quelli, specie quelle di Mozart, siano nate in modo evidentemente piú agevole, sereno e ispirato delle composizioni beethoveniane che invece sono state preparate con molta cura, spesso attraverso numerosi abbozzi. Mozart sembra sempre seguire un piano obiettivo, necessario, invariabile, mentre Beethoven in ogni tema, in ogni motivo, in ogni tono ha l’aria di dire «perché lo sento così», «perché lo odo così» e «perché voglio che sia così». Le opere dei maestri piú antichi sono composizioni ben articolate e costruite, melodie schiette e nitide, mentre le opere di Beethoven e dei compositori piú tardi sono recitativi, gridi dal fondo del cuore in pena.

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In Port Royal Sainte-Beuve osserva che per il classicismo il maggior poeta era chi creava l’opera piú perfetta, piú chiara, piú gradevole, mentre noi moderni da un poeta ci aspettiamo soprattutto uno stimolo, cioè un motivo per sognare e poetare con lui41. I nostri poeti prediletti sono quelli che suggeriscono molte cose accennandole appena e lasciando sempre qualcosa d’inespresso, che tocca a noi indovinare, chiarire, integrare. L’opera incompiuta, inesauribile, indefinibile è per noi la piú affascinante, la piú profonda ed espressiva. Tutta l’arte psicologica di Stendhal mira a stimolare la collaborazione del lettore nell’osservazione e nell’analisi. Due fondamentalmente sono i metodi di analisi psicologica. I classici francesi partono dall’idea unitaria di un carattere e sviluppano i diversi attributi psichici da una sostanza in sé immutabile. La forza persuasiva del personaggio cosí creato sta nella logica coerenza dei tratti, ma in sé l’immagine è piuttosto il mito che il ritratto di un uomo. L’introspezione del lettore nulla aggiunge, si può dire, all’interesse e alla verosimiglianza dei personaggi; questi s’impongono in linee grandi e nitide, vogliono esser contemplati e ammirati, non analizzati e interpretati. Il metodo psicologico di Stendhal, che si suol considerare ugualmente analitico, benché diametralmente opposto a quello classico, non parte dall’unità logica della personalità, ma dalle sue manifestazioni singole, e nel quadro non accentua i contorni, ma le sfumature e i valori tonali. L’immagine complessiva consta di particolari, di osservazioni singole, di puntuali precisazioni, in un contesto per lo piú cosí lacunoso e contraddittorio, che il lettore viene sempre rinviato all’introspezione e all’interpretazione soggettiva del complesso e caotico quadro. Per i classici un carattere era tanto piú plausibile quanto piú era chiaro e coerente, ora invece una figura poetica risulta tanto piú viva e persuasiva, quanto piú è complicata e rapsodica, quanto piú

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chiede di essere integrata dalla personale esperienza del lettore. La tecnica di Stendhal dei petits faits vrais non vuol dire che la vita psichica consista tutta di piccole manifestazioni effimere, in sé e per sé irrilevanti, ma invece che un carattere è imprevedibile e indefinibile e contiene innumerevoli aspetti capaci di modificarne la misura fondamentale e di romperne l’unità. Incoraggiare il lettore a osservare e poetare insieme con l’autore e ammettere che il soggetto è inesauribile significa una cosa sola: dubitare che l’arte sia in grado di dominare la realtà. L’intricata psicologia moderna è un segno della nostra incapacità di comprendere l’uomo odierno con la stessa sicurezza con cui il classicismo aveva compreso l’uomo del Sei e del Settecento. Ma di fronte a quest’insufficienza, esclamare con Zola: «La vita è piú semplice»42, sarebbe pura cecità di fronte alla complessa natura della vita moderna. Per Stendhal la complicazione psicologica è il frutto della sempre piú chiara consapevolezza dell’uomo odierno, della sua appassionata introspezione, della sua attenzione a ogni moto del cuore e della mente. Ma quando lo scrittore afferma: «L’uomo ha in sé due anime» (Le rouge et le noir), con ciò non intende ancora l’intima scissione che in Dostoevskij rende l’uomo estraneo a se stesso, ma semplicemente quel dualismo che fa del nostro intellettuale un essere che insieme agisce e contempla, attore e spettatore di se stesso. Stendhal ne conosce la piú grande felicità e la peggior miseria: l’autocoscienza che ne accompagna la vita spirituale. Quando egli ama, gode della bellezza, si sente intimamente libero da ogni vincolo, non soltanto per questo s’allieta, ma anche per la coscienza della sua felicità43. Tuttavia, mentre dovrebbe interamente abbandonarvisi, sciolto da ogni imperfezione e insufficienza, è sempre pieno di problemi e di dubbi: E questo è tutto? – si domanda – questo, il celebrato amore? È dunque possibile amare,

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sentire, estasiarsi e intanto osservarsi cosí freddamente e tranquillamente? La risposta di Stendhal non è certo quella corrente, che tra sentimento e ragione, passione e riflessione, amore e ambizione ammette una distanza insuperabile; egli è invece persuaso che l’uomo moderno sente, si inebria e si esalta diversamente da un contemporaneo di Racine o di Rousseau. Per costoro sentimento spontaneo e suo riflettersi nella coscienza erano cose inconciliabili, per Stendhal e i suoi eroi sono invece cose inscindibili; nessuna delle loro passioni è forte quanto il desiderio d’essere sempre consci di ciò che avviene nel loro intimo. Questa consapevolezza significa, rispetto alla letteratura precedente, un mutamento non meno profondo del realismo stendhaliano; e il superamento della psicologia classicoromantica è per la sua arte una premessa essenziale quanto l’annullamento dell’alternativa tra romantica fuga dal mondo e ottimismo antiromantico. I caratteri di Balzac sono piú coerenti, meno complicati e problematici di quelli di Stendhal; in certo modo essi segnano un ritorno alla psicologia delle opere classiche e romantiche. Sono monomani, soggiogati da una sola passione e ogni loro passo, ogni parola sembra obbedire a un ordine. Ma è strano che tale costrizione non menomi la verosimiglianza delle figure, che risultano in definitiva piú reali di quelle stendhaliane, meglio rispondenti per altro, con le loro antinomie, alle nostre concezioni psicologiche. Ci troviamo di fronte al mistero di un’arte travolgente, benché straordinariamente disuguale di valore, che costituisce un fenomeno fra i piú inesplicabili nella storia della creazione artistica. Del resto i personaggi di Balzac non sempre sono cosí semplici come si usa affermare: alla loro maniaca unilateralità spesso si associa una grande ricchezza di tratti individuali. Forse sono meno brillanti e «interessanti» degli

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eroi stendhaliani, ma appaiono piú vivi, inconfondibili e indimenticabili. Si è chiamato Balzac gran pittore di ritratti, riconducendo l’irresistibile efficacia della sua arte alla potenza delle sue figure. Di fatto, parlando di Balzac, si pensa anzitutto alla giungla umana dei suoi romanzi, alla folla e alla varietà dei tipi a cui dà vita; ma per lui il fattore psicologico non è il piú importante. Quando si cerca di chiarire l’origine del suo mondo, ci si deve sempre rifare alla sua sociologia, parlando delle condizioni materiali da cui sorge il suo cosmo intellettuale. A differenza di Stendhal, Dostoevskij o Proust, per lui c’è una cosa piú essenziale, piú irriducibile della realtà psichica. Un personaggio non ha importanza di per sé; comincia ad essere interessante e significativo soltanto come rappresentante di un gruppo sociale, come esponente di un conflitto tra opposti interessi di classe. Lo stesso Balzac considera sempre i suoi personaggi come fenomeni naturali e, quando vuol indicare i fini dell’arte sua, non parla mai della sua psicologia, ma sempre soltanto della sua sociologia, della sua storia naturale della società e della funzione dei singoli individui nella vita dell’organismo sociale. Tuttavia, non già come «dottore in scienze sociali», come gli piacque chiamarsi, egli divenne il maestro di un nuovo tipo di romanzo, ma come assertore della nuova idea dell’uomo, secondo cui «l’individuo esiste solo in rapporto con la società». Come da una scoperta geologica si può trarre tutto un mondo, – egli dice nella Recherche de l’absolu, – cosí ogni monumento di una civiltà, ogni casa, ogni mosaico esprime tutta una struttura sociale; tutto è espressione e testimonianza di quel grande processo. Una sorta d’ebbrezza, d’estasi lo afferra di fronte a questa causalità sociale, a questa legge ineluttabile, che sola può spiegare il senso del presente, e quindi risolvere il problema su cui s’impernia tutto il suo mondo. La Comédie humaine difatti deve la sua intima unità, non al

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concatenarsi dell’azione, né al ricorrere dei personaggi, ma alla presenza di questo problema come motivo dominante, che in realtà ne fa un unico grande romanzo, la storia della moderna società francese. Balzac libera la narrativa dalle angustie dell’autobiografia e della pura psicologia, in cui si era rinchiusa nella seconda metà del Settecento. Egli spezza quei limiti di vicenda individuale, cui si attenevano sia i romanzi di Rousseau e di Chateaubriand, sia quelli di Goethe e di Stendhal, e si emancipa dallo stile di confessione che era stato proprio del Settecento, pur non riuscendo, naturalmente, a spogliarsi d’un tratto d’ogni elemento lirico-autobiografico. Balzac anzi trova il suo stile assai lentamente: in un primo tempo continua la letteratura in voga durante la Rivoluzione, la Restaurazione e il romanticismo, e anche nella piena maturità conserva reminiscenze di certi mediocri romanzi precedenti. Egli non può negare che la sua arte derivi dal misterioso romanzo nero e dal melodrammatico romanzo d’appendice, come da quello amoroso e storico; e il suo stile discende da Pigault-Lebrun e da Ducray-Duminil, come da Byron e da Walter Scott44. Non solo Ferragus e Vautrin, ma anche Montriveau e Rastignac rientrano nella serie romantica dei ribelli, dei proscritti, e il gusto del romanzo nero riaffiora, non solo nella vita degli avventurieri e dei delinquenti, ma, come è stato osservato, anche nella descrizione della vita borghese45. La società moderna con i suoi politici, burocrati, banchieri, con gli speculatori, i gaudenti, le cocottes, i giornalisti, gli pare un incubo, un’implacabile danza macabra. Egli concepisce il capitalismo come una malattia della società e per un certo tempo vagheggia l’idea di trattarla da un punto di vista medico, in una Patologia della vita sociale46. La sua diagnosi è che esiste un’ipertrofia del desiderio di profitto e di potenza, e la causa del male sta per lui nell’egoismo e nell’irreligiosità dell’epoca. In tutto egli

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vede le conseguenze della Rivoluzione e imputa il crollo delle antiche strutture gerarchiche – monarchia, Chiesa e famiglia – all’individualismo, alla libera concorrenza e alla smodata, sfrenata ambizione. Balzac descrive con mirabile acume i sintomi dell’epoca d’espansione economica in cui vive la sua generazione, penetra le fatali contraddizioni interne del sistema capitalistico, ma nello spiegarne l’origine dà troppa parte all’arbitrio, ed egli stesso non crede fermamente alla cura che prescrive. L’oro, il luigi d’oro e lo scudo, le azioni, le cambiali, le polizze e le carte da gioco, ecco gl’idoli e i feticci della nuova società: il «vitello d’oro» è qui una realtà piú tremenda che nel Vecchio Testamento e il richiamo dei milioni è piú seducente di quello della meretrice apocalittica. Balzac ritiene che le sue tragedie borghesi, anche se imperniate soltanto sul denaro, siano piú crudeli del dramma degli Atridi; e infatti le parole di Grandet morente alla figlia: «Tu me ne renderai conto laggiú», superano in orrore i toni piú cupi della tragedia greca. Le cifre, le somme, i bilanci sono qui gli scongiuri e gli oracoli di una nuova mitologia, di un nuovo mondo magico. Come nella favola i doni degli spiriti malvagi, qui i milioni emergono dal nulla e subito spariscono, dileguano. Balzac facilmente scivola in un tono fiabesco, quando si tratta di denaro. Gli piace far la parte di quei geni che coprono di doni i mendicanti, e con i suoi eroi si rifugia volentieri in un’orgia romantica di sogni. Ma sugli effetti ultimi dell’oro, sulle devastazioni ch’esso provoca, sull’avvelenamento dei rapporti umani che determina, egli non s’inganna mai; il suo senso della realtà mai lo tradisce. La caccia al denaro e al profitto distrugge la vita famigliare, allontana la moglie dal marito, la figlia dal padre, il fratello dal fratello, trasforma il matrimonio in un’associazione d’interessi, l’amore in un affare e incatena le vittime l’una all’altra come schiavi. Si può imma-

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ginare nulla di piú sinistro dell’obbligo imposto dal vecchio Grandet alla figlia, erede della sua ricchezza? o di quei tratti del carattere paterno che riaffiorano in Eugénie, appena essa diventa padrona di casa? C’è qualcosa di piú spettrale di questa forza della natura, di questo dominio della materia sulle anime? Il denaro estrania l’uomo da se stesso, distrugge gli ideali, corrompe gl’ingegni, prostituisce artisti, poeti, studiosi, del genio fa un delinquente, trasforma in avventurieri e in giocatori d’azzardo coloro che erano nati per essere dei capi. La classe sociale piú responsabile della spietata economia monetaria, quella che ne trae il massimo profitto, è naturalmente la ricca borghesia; ma la lotta selvaggia e bestiale ch’essa scatena, coinvolge tutti i ceti: l’aristocrazia, che ne è la vittima maggiore, come le altre classi. Eppure, di fronte all’anarchia del presente, Balzac non trova altro rimedio da proporre se non un rinnovamento di quest’aristocrazia, che vorrebbe educata al razionalismo e al realismo borghese e aperta ai plebei d’ingegno. Egli è un ardente fautore della feudalità, ammira gl’ideali intellettuali e morali ch’essa rappresenta e ne deplora la rovina; ma appunto per questo è tanto piú spietato e obiettivo nel descriverne la degenerazione e anzitutto la deferenza per le borse d’oro della borghesia. Lo snobismo di Balzac fa sempre un effetto penoso, ma i suoi scarti politici sono affatto innocenti, poiché, sebbene sostenga con tanto zelo la causa dell’aristocrazia, egli non è un aristocratico, il che, come giustamente si è notato47, muta la sostanza delle cose. Il suo atteggiamento è tutto speculativo; non viene dal cuore né dall’istinto. Balzac non solo è uno scrittore borghese fino al midollo, che attinge spontaneamente e profondamente dall’intimo orientamento della sua classe, ma è anche il piú felice apologeta della borghesia, e non dissimula la sua ammirazione per quanto essa ha fatto. Solo, è pieno

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d’isterica paura e fiuta dappertutto disordine e rivoluzione. Egli combatte tutto quel che minaccia l’ordine costituito e difende tutto quello che pare sostenerlo. Il miglior baluardo contro l’anarchia e il caos sono per lui il trono e la Chiesa, e il feudalesimo è soltanto il sistema che consegue al loro dominio. Egli non considera affatto la monarchia, la Chiesa e la nobiltà quali sono diventate dopo la Rivoluzione, ma soltanto gl’ideali ch’esse rappresentano, e combatte la democrazia e il liberalismo perché sa che tutto l’edificio gerarchico fatalmente crollerà, se si comincia a criticarlo. Egli pensa infatti che «una potenza discussa non dura». L’uguaglianza è una folle utopia, in nessun luogo del mondo si è attuata. E come ogni comunità – prima d’ogni altra la famiglia – riposa sul principio autoritario, cosí tutta la società deve reggersi su questo principio. I democratici e i socialisti sono astratti sognatori, non solo perché credono alla libertà e all’uguaglianza, ma anche perché idealizzano smisuratamente il popolo e il proletariato. Pure gli uomini sono in fondo tutti uguali; tutti pensano al proprio vantaggio e fanno solo i propri interessi. La società nel suo complesso è dominata dalla logica della lotta di classe; la guerra tra ricchi e poveri, forti e deboli, privilegiati e paria non avrà mai fine. «Ogni potere tende alla propria conservazione» (Le Médecin de campagne), e ogni classe oppressa a distruggere i suoi oppressori: questi i fatti immutabili. Ma Balzac, a cui sono già familiari i concetti della lotta di classe, conosce anche il metodo rivelatore del materialismo storico. «Uno scassinatore si manda all’ergastolo, – dice Vautrin nelle Illusions perdues, – mentre un uomo che con una bancarotta fraudolenta rovina intere famiglie, se la cava con qualche mese... I giudici che condannano il ladro fanno buona guardia alla barriera tra ricco e povero... ma sanno che il bancarottiere causa al massimo uno spostamento della ricchezza».

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Questa è la differenza essenziale tra Balzac e Marx: il poeta della Comédie humaine giudica la lotta del proletariato esattamente come quella delle altre classi, una lotta cioè che mira a vantaggi e privilegi; Marx invece vi scorge l’inizio di un’era nuova e, nel suo trionfo, l’attuazione di una condizione ideale e definitiva48. Prima di Marx, e in forma che Marx stesso giudicherà esemplare, Balzac scopre la natura ideologica del pensiero. «La virtú comincia con il benessere», dice nella Rabouilleuse, e nelle Illusions perdues Vautrin parla del «lusso dell’onestà», che ci si può permettere solo quando si disponga di posizione e censo adeguati. Già nel suo Essai sur la situation du parti royaliste (1832) Balzac indica come proceda il formarsi dell’ideologia. «Le rivoluzioni si compiono, – egli afferma, – prima nelle cose e negli interessi, poi si estendono alle idee e infine si trasformano in principî». Il nesso che lega il pensiero all’esistenza materiale e la dialettica di vita e coscienza, egli li scopre già in Louis Lambert dove l’eroe, com’egli osserva, dopo lo spiritualismo della sua giovinezza, vede sempre piú chiara la materialità del pensiero. Evidentemente non fu un caso se Balzac e Hegel riconobbero quasi a un tempo la struttura dialettica dei contenuti della coscienza. L’economia capitalistica e la moderna borghesia erano piene di contraddizioni e mettevano in luce il duplice condizionamento dello sviluppo storico piú chiaramente delle civiltà precedenti. Le basi materiali della società borghese non solo già di per sé erano piú trasparenti di quelle del feudalesimo, ma il nuovo ceto dirigente era assai meno preoccupato dell’antico di travestire ideologicamente le premesse economiche del suo potere. Del resto, la sua ideologia era ancora troppo recente, perché se ne potesse dimenticare l’origine. Nella concezione di Balzac il tratto saliente è il realismo, la considerazione nuda e obiettiva dei fatti. Il suo materialismo storico e la sua teoria delle ideologie non

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sono che obiettivazioni del suo senso della realtà. E questa posizione realistica e critica Balzac la mantiene anche di fronte a quei fenomeni a cui sentimentalmente è legato. Così, pur con le sue opinioni conservatrici, egli sottolinea soprattutto la forza incoercibile dello sviluppo che ha portato alla moderna società capitalisticoborghese, e non cade mai nel provincialismo degli idealisti nel giudicare la civiltà della tecnica. Egli è nettamente favorevole all’industria moderna, nuova potenza universale49; ammira la moderna metropoli con le sue grandi proporzioni, il suo dinamismo, il suo slancio. Parigi lo inebria; egli l’ama pur cosí viziosa, anzi forse per la mostruosità dei suoi vizi. Infatti, quando parla del «grand chancre fumeux, étalé sur les bords de la Seine» [«Gran cancro fumoso, che s’adagia sulle rive della Senna»], ogni parola tradisce il fascino che si cela dietro l’espressione violenta. Il mito di Parigi nuova Babilonia, città di luci notturne e di segreti paradisi, patria di Baudelaire e di Verlaine, di Constantin Guy e di Toulouse-Lautrec, il mito della Parigi pericolosa, seduttrice, irresistibile, ha la sua origine nelle Illusions perdues, nell’Histoire des Treize e nel Père Goriot. Balzac è il primo scrittore entusiasta di una moderna metropoli, il primo che si compiaccia di fronte a un impianto industriale. Parlare di «délicieuses fabriques» in mezzo al dolce paesaggio di una valle, non era ancor venuto in mente a nessuno50. Quest’ammirazione per la nuova vita, creatrice pur nel suo impeto spietato, è un compenso al pessimismo balzachiano, è la sua forma di speranza, di fiducia nell’avvenire. Egli sa che non è piú possibile ritornare alla vita patriarcale e idillica della piccola città e del villaggio; ma sa pure che questa non era affatto cosí romantica e poetica, come di solito la si descrive, poiché «naturalezza» non significava che ignoranza, malattia e povertà (Le Médecin de campagne, Le Curé de village). Il «misticismo sociale» dei romantici gli è affat-

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to estraneo, nonostante le sue inclinazioni per il romanzesco51; e specialmente sulla «purezza morale» e l’«innocenza» dei contadini egli non si fa illusioni. Giudica le qualità buone e cattive del popolo con la stessa obiettività con cui analizza le virtú e i vizi dell’aristocrazia e il suo atteggiamento verso le masse è altrettanto poco dogmatico, contraddittorio anzi, che quello, di odio e amore insieme, verso la borghesia. Balzac, senza volerlo e senza saperlo, è uno scrittore rivoluzionario. Le sue vere simpatie lo portano verso i ribelli e i nichilisti. La maggior parte dei suoi contemporanei lo sentono politicamente infido; essi sanno che in fondo egli è un anarchico, sempre solidale con i nemici della società, con chi è fuori rango, con gli spostati. Louis Veuillot osserva ch’egli difende trono e altare in un modo che potrebbe valergli tutta la riconoscenza dei loro nemici52. Alfred Nettement nella «Gazette de France» (febbraio 1836) scrive che Balzac vuole vendicarsi della società per tutte le ingiustizie subite in gioventú, e solo per questo esalta le nature antisociali. Nei suoi ricordi (ottobre 1833) Charles Weiss sottolinea che Balzac si dichiara legittimista, ma parla sempre come un liberale. Victor Hugo afferma che, volente o nolente, egli appartiene alla razza dei poeti rivoluzionari, e nelle sue opere si manifesta il cuore di uno schietto democratico. Zola infine rileva il contrasto tra gli elementi palesi e quelli latenti della sua visione e osserva, prevenendo l’interpretazione marxista, che l’ingegno di un poeta può benissimo contrastare con le sue opinioni. Ma il vero senso di questo antagonismo lo scopre e lo definisce Engels. Per primo egli studia in forma suscettibile di ulteriore sviluppo scientifico la contraddizione tra le vedute politiche e l’arte del poeta, formulando cosí uno dei piú importanti principî euristici della sociologia artistica. Da allora in poi è acquisito che arte progressista e politica conservatrice possono benissimo coesiste-

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re e che ogni onesto artista che descriva fedelmente e sinceramente la realtà fa opera di per sé illuminante e liberatrice. Un tale artista contribuisce involontariamente a distruggere quelle convenzioni e quegli schemi, quei tabú e quei dogmi su cui poggia l’ideologia reazionaria, ostile al progresso. In una lettera divenuta celebre, dell’anno 1888, a una certa miss Harkness, Engels scrive fra l’altro: «Il realismo di cui parlo può manifestarsi perfino nonostante le opinioni dell’autore... Balzac, che io ritengo un maestro del realismo di gran lunga superiore a tutti gli Zola passati, presenti e futuri, nella Comédie humaine ci dà un’eccellente storia realistica della «società» francese, descrivendo quasi a mo’ di cronaca, quasi anno per anno, dal 1816 fino al 1848, la pressione sempre crescente della borghesia in ascesa contro la società nobiliare che dopo il 1815 si ricostituí e, per quanto poteva, tenne alta la bandiera della vieille politesse française [antica cortesia francese]. Egli descrive come gli ultimi residui di questa società per lui esemplare a poco a poco soccombano all’assalto dei volgari arricchiti, o ne vengano corrotti... Certo, Balzac politicamente era un legittimista; la sua grande opera è un continuo epicedio sull’inevitabile decadenza della buona società; tutte le sue simpatie vanno alla classe condannata. E tuttavia la satira non è mai piú acuta, né l’ironia piú amara, di quando entrano in scena appunto gli uomini e le donne di quella classe piú profondamente cara all’autore, la nobiltà... Che Balzac sia così costretto ad agire contro le proprie simpatie sociali, i propri pregiudizi politici, ch’egli veda ineluttabile il tramonto dei suoi diletti nobili e li descriva come gente che non merita destino migliore; e che egli veda i veri uomini del futuro soltanto là dove allora si potevano trovare – questo io lo considero uno dei massimi trionfi del realismo e uno dei piú grandiosi tratti del vecchio Balzac»53.

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Balzac è un naturalista che si abbandona alla forza espansiva di una volontà artistica, tutta tesa ad arricchire e differenziare il materiale dell’esperienza. Ma si esiterà a considerarlo veramente tale, se per naturalista s’intende chi si adegua perfettamente ai dati della realtà, e usa lo stesso criterio di verità in tutti i piani dell’opera. Piuttosto si dovrà constatare che la sua fantasia romantica e la sua inclinazione al melodramma finiscono sempre per avere la meglio e che spesso egli non solo sceglie i caratteri piú eccentrici e le situazioni piú inverosimili, ma addirittura costruisce i fondi delle sue storie in modo che non è possibile immaginarseli concretamente, e solo i colori e i toni suggeriscono l’impressione voluta. Definirlo senz’altro un naturalista può solo condurre a delusioni. È assurdo e vano paragonarlo, come psicologo o ricreatore di ambienti, ai maestri del piú tardo romanzo naturalistico, quali Flaubert o Maupassant. Le sue opere vanno godute come descrizioni della realtà e insieme come sogni tra i piú audaci e sfrenati; pretendere che esse siano qualcosa di diverso da questo miscuglio indiscriminato di elementi, ne impedirà sempre la comprensione. L’arte di Balzac è dominata da un appassionato desiderio di abbandonarsi alla vita, ma in complesso è relativamente poco quel che essa deve all’osservazione diretta; il piú è invenzione, immaginazione, sentimento. Ogni opera d’arte, anche la piú naturalistica, è un’immagine ideale e una versione leggendaria della realtà. Anche nello stile meno convenzionale certi elementi, come, ad esempio, i colori chiari e le macchie senza contorni della pittura impressionistica o le figure incoerenti e inconsistenti del romanzo moderno, noi le accettiamo senz’altro, come veri e giusti. Ma in Balzac la descrizione della realtà è ancora piú arbitraria che nella maggior parte dei naturalisti. Egli suscita l’impressione della vita soprattutto sottomettendo dispoticamente il

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lettore al suo capriccio, alla totalità microcosmica del suo mondo fittizio che esclude a priori la concorrenza della realtà empirica. Le figure e gli scenari appaiono cosí autentici, non perché i singoli tratti con cui sono disegnati corrispondano all’esperienza reale, ma perché il loro disegno è altrettanto sottile e circostanziato, che se fosse stato osservato e ritratto dal vero. Il senso di esser di fronte a una densa realtà, ci viene dal fatto che i singoli elementi di quel microcosmo sono inscindibilmente connessi, e le figure appaiono inimmaginabili senza l’ambiente, i caratteri senza l’aspetto fisico, le persone senza gli oggetti circostanti. Le opere classiche sono isolate dal mondo esterno: chiuse nella loro sfera estetica stanno l’una accanto all’altra, in una rigorosa solitudine. Qualsiasi tratto naturalistico, ogni evidente dipendenza da un modello rompe l’immanenza di questa sfera, e ogni struttura ciclica che intervenga a collegare le diverse rappresentazioni artistiche annulla l’autonomia dell’opera singola. Per la maggior parte le opere medievali sono composizioni aggiuntive di questo tipo, che includono piú unità indipendenti; tali sono l’epos cavalleresco e i romanzi d’avventura, con la loro vicenda interminabile e le figure in parte ricorrenti; tali i cicli della pittura medievale e gli innumeri episodi dei misteri. Balzac, con il suo sistema, con l’idea della Comédie humaine come quadro unitario in cui includere i singoli romanzi, in pratica ritorna proprio a questo modo di composizione medievale, facendo sua una forma per cui non avevano senso e valore l’autonomia e la cristallina perfezione dell’opera classica. Ma come è giunto Balzac a questa forma «medievale»? Come ha potuto questa tornare attuale a metà dell’Ottocento? La concezione medievale era stata interamente eclissata dal classicismo rinascimentale, dall’idea di unità e subordinazione. Finché il classicismo si era mantenuto in vigore, la composizione ciclica non aveva

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mai potuto affermarsi; ma il classicismo durò soltanto finché durò la convinzione di poter dominare la realtà materiale. L’arte classica decade quando nasce il senso della soggezione dell’essere alle condizioni materiali. Anche in questo senso i romantici precorrono Balzac. Zola, Wagner e Proust segnano le tappe ulteriori di questo sviluppo e affermano sempre piú la tendenza all’opera ciclica, enciclopedica, universale, in contrasto con il principio dell’unità e della scelta. L’artista moderno vuol essere partecipe di una vita che appare inesauribile e non si lascia chiudere nella misura di un’opera singola. Egli può esprimere la grandezza solo ricorrendo all’estensione, la forza solo rompendo ogni limite. Proust era evidentemente conscio delle sue connessioni con la forma ciclica di Wagner e di Balzac. «Il musicista (Wagner), – egli scrive, – dovette provare la stessa ebbrezza di Balzac quando guardò alle sue creazioni con l’occhio di un estraneo e insieme, di un padre... Egli allora osservò che sarebbero state assai piú belle, se unite in un ciclo da figure ricorrenti e aggiunse un’altra pennellata, l’ultima, sublime, all’opera sua... un’unità che era un complemento, ma non certo un artificio... un’unità prima non riconosciuta, ma perciò tanto piú vera e vitale...»54. Dei duemila personaggi della Comédie humaine, oltre quattrocentosessanta ricorrono in piú romanzi. Henry de Marsay, per esempio, lo incontriamo in venticinque opere diverse e in Splendeurs et misères des courtisanes compaiono centocinquanta personaggi che anche altrove hanno una parte piú o meno importante55. La ricchezza delle figure trascende l’opera singola e si ha sempre l’impressione che Balzac non ci dica tutto quel che ne sa. Quando fu chiesto a Ibsen, perché all’eroina di Casa di bambola avesse dato un nome esotico, rispose che era il nome di sua nonna che era italiana. La nonna vera-

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mente si chiamava Eleonora, ma da bimba la chiamavano col vezzeggiativo di Nora. All’obiezione che tutto ciò non compariva affatto nel dramma, egli rispose stupito: «Ma i fatti sono fatti». Thomas Mann ha pienamente ragione: Ibsen rientra nella stessa categoria a cui appartengono gli altri due grandi del teatro ottocentesco, Zola e Wagner56. Anche in lui l’opera singola ha perduto la microcosmica compiutezza della forma classica. Aneddoti come quello di Ibsen riferito non si contano nei rapporti di Balzac con i suoi personaggi. Notissimo è quello di Jules Sandeau, che mentre sta raccontandogli di sua sorella malata, viene da lui interrotto: «Tutto bene, ma torniamo alla realtà: che marito daremo a Eugénie Grandet?» Altrettanto nota la domanda con cui aggredisce uno dei suoi amici: «Lo sai chi sposerà Félix de Vaudeville? Una Grandeville. È proprio un buon partito». Ma il piú bello e caratteristico è l’aneddoto di Hofmannsthal, che fa dire a Balzac in un dialogo immaginario: «Il mio Vautrin la ritiene [la Venezia salvata di Otway] il piú bello di tutti i drammi. Io do molta importanza al giudizio di un uomo come lui»57. Per Balzac l’esistenza dei suoi personaggi anche fuori dell’opera è una realtà cosí evidente, che potrebbe sempre dire che cosa pensano, o dovrebbero pensare, Vautrin o de Marsay o Rastignac di un dramma o di un libro qualsiasi. E va tant’oltre in questo, che gli avviene spesso di richiamarsi a personaggi della Comédie humaine anche quando non compaiono affatto in quel determinato romanzo, e di citare i titoli di certe parti dell’opera complessiva come fonti d’informazione oggettive. Si sa quanto volentieri Paul Bourget sfogliasse il Répertoire della Comédie humaine, il «Chi è?» dei personaggi di Balzac58. Ancor oggi questa passione serve a riconoscere un vero «balzacien» ed è, in ogni caso, il segno di una effettiva comprensione della natura di quest’opera inscindibile dalla vita reale, solo in parte

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concepita e solo in parte valida sul piano estetico. Balzac rappresenta nella storia dell’arte un momento fuggevole, che sta fra l’epoca esclusivamente artistica della poesia classica e romantica e la successiva fase dell’estetismo di Flaubert e di Baudelaire: la breve ora di un’arte completamente immersa nei problemi del presente. Nell’Ottocento non c’è scrittore piú lontano di lui da l’art pour l’art e dal purismo artistico. Non è possibile gustare senza disagio e a pieno le opere di Balzac, se fin da principio non ci si rende conto ch’esse sono un miscuglio mal dosato, in parte grezzo, che ben poco ha a vedere con i principî classicistici del «nulla di piú e nulla di meno» e della riduzione ad un unico piano dei dati dell’esperienza. L’opera d’arte d’un sol getto è sempre una finzione; anche le creazioni piú complete sono piene di elementi caotici e disparati. Ma i romanzi di Balzac sono davvero l’esempio tipico dell’opera riuscita a dispetto di ogni norma estetica. Giudicandoli coi criteri delle opere classiche, sarà facile riscontrarvi le piú grossolane offese alle leggi dell’arte, anche a quelle piú liberali. Sotto la loro diretta impressione, quando non si è ancora spenta nell’animo nostro la furia suicida dei personaggi, la tempesta delle scene, la voce crudele dei delusi e dei ribelli, saremo obbligati ad ammettere che in queste opere quasi tutto quel che si può analizzare razionalmente è «sbagliato». Dovremo concedere che Balzac non sa comporre né sviluppare nitidamente l’azione, che i suoi caratteri sono spesso confusi ed eterogenei come gli ambienti e gli sfondi, che il suo naturalismo non soltanto è incompleto, ma anche scorretto, e talvolta la sua psicologia è, non solo inverosimile, ma anche goffa e sommaria. E soprattutto non ci si potrà dissimulare che a tutte queste insufficienze si aggiungono difetti di gusto da far rizzare i capelli; che al nostro autore manca ogni senso critico, e ogni mezzo è buono per lui pur di sorprendere e sog-

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giogare; che piú nulla gli rimane della cultura settecentesca, del suo riserbo, della sua eleganza, della sua amabile scorrevolezza; che il suo gusto è degno del pubblico dei peggiori romanzi d’appendice; che per lui nulla è mai eccessivo, esagerato, stravagante; ch’egli è incapace di esprimere quanto gli sta a cuore senza enfasi e senza superlativi; che è sempre pronto a vantarsi, a sballarle grosse e a raccontare fandonie; che è un disgustoso ciarlatano appena vuol darsi l’aria di studioso e di filosofo e, come pensatore, è tanto piú grande quanto meno sa d’esser tale, quando pensa e ragiona secondo il suo spontaneo sentire, gli immediati interessi della sua vita e la sua posizione storica. Specialmente sgradevoli sono i suoi difetti di gusto in fatto di stile: l’abbondanza confusa del suo discorso, la pesante solennità, le metafore studiate e pompose, l’entusiasmo sempre acceso, la commozione che vuol essere sempre sublime. Nemmeno i dialoghi sono impeccabili; anche qui ci sono punti morti e toni «falsi,», come le stecche di un cantante. È noto come Taine cerca di spiegare e giustificare le singolarità stilistiche di Balzac. Ammesso che in letteratura ci sono vari linguaggi ugualmente legittimi, fa notare che l’autore della Comédie humaine non si rivolge piú al pubblico dei salotti del Sei e del Settecento, ad un pubblico cioè sensibile alle piú lievi allusioni e non solo ai colori sfacciati e ai toni acuti, ma a gente su cui ha presa solo ciò che è strano, sensazionale, eccessivo, in altre parole i lettori del romanzo d’appendice59. Ecco, senza dubbio, un ottimo esempio di critica sociologica; infatti, sebbene molti autori della generazione di Balzac abbiano saputo evitare i suoi errori stilistici, pochi sono stati cosí intimamente uniti al loro tempo. Ma invece di scusare le pecche di Balzac non si dovrebbe piuttosto cercar di capire quell’immediata contiguità di grandioso e di scadente che c’è in lui? E la spiegazione sociologica non

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dovrebbe anzitutto dimostrare che le caratteristiche del suo stile sono legate alla sua stessa origine plebea e che egli è l’espressione intellettuale della nuova borghesia, relativamente incolta, ma straordinariamente viva e capace? È stato ripetutamente osservato che nelle sue opere Balzac fa un quadro della generazione successiva piú che della propria, e che i suoi nouveaux riches e parvenus, i suoi speculatori e avventurieri, gli artisti e le cocottes sono tipici del Secondo Impero piú che della monarchia di luglio. Di fatto, pare che la vita abbia imitato l’arte. Balzac è di quegli scrittori profeti, che sono in ultima analisi piú visionari che osservatori. Profeta, visionario: sono veramente parole dettate dall’imbarazzo e piú che altro servono a dissimulare la nostra perplessità di fronte a un’arte, di cui ogni insufficienza par che accresca il magico effetto. Ma che altro dire davanti a un’opera come il Chef-d’œuvre inconnu che unisce la piú profonda intuizione della vita e del presente a un’incredibile ingenuità? Vi si narra di Frenhofer, il piú grande allievo di Mabuse, l’unico a cui il maestro ha trasmesso l’arte d’infondere vita alle figure dipinte. Da dieci anni egli lavora a un’opera – un’immagine femminile – sforzandosi di giungere al piú alto fine di ogni arte, al segreto di Pigmalione. Ogni giorno egli si sente piú vicino alla meta, eppure rimane sempre qualcosa d’invincibile, insolubile, irraggiungibile. Crede che sia colpa della realtà, del fatto che non ha ancora trovato il modello adatto. Un giorno Poussin, nel suo entusiasmo per l’arte, gli conduce la sua amica, che si dice abbia il corpo piú perfetto che mai sia stato dipinto. Frenhofer è affascinato dalla bellezza della donna, ma poi i suoi occhi si distolgono da quel corpo giovanile e tornano al quadro incompiuto e impossibile a compiersi. La realtà non lo trattiene piú, egli ha ucciso in sé la vita. Ma il quadro, l’opera della sua vita, che egli, piú geloso che Poussin della

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sua donna, finora non ha voluto svelare a occhi estranei, il quadro non è che un incomprensibile groviglio di linee sinuose e di macchie sovrapposte, accumulate nel corso di tanti anni, sotto cui non si distinguono che le forme di una gamba perfetta. Balzac ha preveduto il destino dell’arte dell’ultimo secolo e l’ha rappresentato da artista in modo insuperabile. Egli ha individuato le conseguenze dell’estraniarsi dalla vita e dal pubblico e meglio dei piú colti e intelligenti fra i suoi contemporanei ha compreso la minaccia dell’estetismo e del nichilismo, il pericolo di autodistruzione che doveva divenire una paurosa realtà al tempo del Secondo Impero.

henri guillemin, Le Jocelyn de Lamartine, 1936, p. 59. Per quel che segue, cfr. jean-paul sartre, Qu’est-ce que la littérature?, in «Les Temps Modernes», ii, 1947, pp. 971 sgg. Anche in Situations , II, 1948. 3 Ibid., p. 976. 4 Ibid., p. 981. 5 s. charléty, La Monarchie de Juillet, in e. lavisse, Histoire de la France contemporaine, V, 1921, pp. 178-79. 6 w. sombart, Der moderne Kapitalismus, III, i, pp. 35-38, 82, 657-61. 7 id., Der Bourgeois, 1913, p. 220. 8 Cfr. louis blanc, Histoire de dix ans, III, 1843, pp. 90-92. w. sombart, Die deutsche Volkswirtschaft des 19. Jahrhunderts, 7a ed., 1927, pp. 399 sgg. 9 emil lederer, Zum sozialpsychologischen Habitus der Gegenwart, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. XLVI, 1918, pp. 122 sgg. 10 paul louis, Histoire du socialisme en France de la Révolution à nos jours, 1936, 3a ed., pp. 64, 97. - j. lucas-dubreton, La Restauration et la Monarchie de Juillet, 1937, pp. 160-61. 11 p. louis, Histoire du socialisme en France ecc. cit., pp. 160-7. 12 friedrich engels, Die Entwicklung des Sozialismus von der Utopie zur Wissenschaft, 4a ed., 1891, p. 24. 13 robert michels, Psychologie der antikapitalistischen Massenbewegungen, in Grundriß der Sozialökonomie, IX, 1, 1926, pp. 244-246, 270. 14 w. sombart, Die deutsche Volkswirtschaft cit. p. 471. 1 2

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte sainte-beuve, De la littérature industrielle, in «Revue des Deux Mondes», 1839. Anche in Portraits contemporains, 1847. 16 jules champfleury, Souvenirs et portraits, 1872, p. 77. 17 eugène gilbert, Le Roman en France pendant le 19e siècle, 1909, p. 209. 18 nora atkinson, Eugène Sue et le roman-feuilleton, 1929, p. 211. alfred nettement, Études critiques sur le feuilleton-roman, 1845, I, p. 16. 19 Cfr. maurice bardèche, Stendhal romancier, 1947. 20 andré le breton, Le Roman français au 19e siècle, I, 1901, pp. 67, 73. - m. bardèche, Balzac romancier, 1947, pp. 2-8, 12-13. 21 c.-m. des granges, La Presse littéraire sous la Restauration, 1907, p. 22. 22 h. j. hunt, Le Socialisme et le romantisme en France, 1935, pp. 195, 340. 23 Ibid., pp. 203-4. - albert cassagne, La Théorie de l’art pour l’art en France, 1906, pp. 61-71. 24 Cfr. edmond estève, Byron et le romantisme français, 1907, p. 228. 25 Cfr. pierre moreau, Le Classicisme des romantiques, 1932, pp. 242 sgg. 26 Articolo di charles rémusat del 12 marzo 1825, citato da a. cassagne, La Théorie ecc. cit., p. 37. 27 Ibid. 28 josé ortega y gasset, La Deshumanización del Arte, 1925, p. 19. 29 h. j. hunt, Le socialisme ecc. cit., pp. 157-58. 30 Ibid., p. 174. 31 g. lukàcs, Goethe und seine Zeit, 1947, pp. 39-40 [trad. it., Goethe e il suo tempo, Milano 1949]. 32 m. bardèche, Balzac romancier cit., pp. 3, 7. 33 Citato da jules marsan, Stendhal, 1932, p. 141. 34 m. bardèche, Stendhal romancier cit., p. 424. 3 5 a. thibaudet, Stendhal, 1931. - henri martineau, L’Œuvre de Stendhal, 1945, p. 198. 36 Cfr. jean mélia, Stendhal et Taine, in «La Nouvelle Revue», 1910, p. 392. 37 pierre martino, Stendhal, 1934, 302. 38 h. martineau, L’Œuvre de Stendhal cit., p. 470. 39 é. faguet, Politiques et moralistes, III, 1900, p. 8. 40 m.bardèche, Stendhal romancier cit., p. 47. 41 sainte-beuve, Port-Royal, 1888, 5a, ed., VI, pp. 266-67. 42 émile zola, Les Romanciers naturalistes, 1881, 2a ed., p. 124. 43 Cfr. paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885, p. 282. 44 andré le breton, Balzac, 1905, pp. 70-73. 15

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte m. bardèche, Balzac romancier cit., p. 285. bernard guyon, La Pensée politique et sociale de Balzac, 1947, p. 432. 47 v. grib, Balzac, «Critics Group Series», n. 5, 1937, p. 716. 48 marie bor, Balzac contre Balzac, 1933, p. 38. 49 e. buttke, Balzac als Dichter des moaernen Kapitalismus, 1932, p. 28. 50 balzac, Correspondance, 1876, I, p. 433. 51 ernest seillière, Balzac et la morale romantique, 1922, p. 61. 52 andré bellessort, Balzac et son œuvre, 1924, p. 175. 53 karl marx - friedirich engels, Über Kunst und Literatur, a cura di I. K. Luppol, 1937, pp. 53-54. - Anche in «International Literature», luglio 1933, n. 3, p. 114. 54 m. proust, La Prisonnière, I [trad. it., La prigioniera, Torino 1950]. 55 e. preston, Recherches sur la technique de Balzac, 1926, pp. 5, 222. 56 t. mann, Die Forderung des Tages, 1910, pp. 273 sgg. 57 hugo von hofmannsthal, Unterhaltungen über literarische Gegenstände, 1904, p. 40. 58 a. cerfberr - j. christophe, Répertoire de la Comédie humaine, 1887. 59 taine, Nouveaux essais de critique et d’histoire, 1865, pagine 104-13. 45

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Capitolo secondo Il Secondo Impero

I romantici erano pienamente consapevoli della perdita di prestigio subita dallo scrittore dopo la Rivoluzione e contro il pubblico ostile cercavano un rifugio nell’individualismo. Il loro senso d’isolamento si esprimeva in un umore aspramente battagliero, ma essi non pensavano certo che fosse vana la loro lotta contro la società. Gli scrittori della generazione del 1830 furono i primi a dimettere lo spirito combattivo dei loro predecessori e a trovarsi a proprio agio nell’isolamento; la loro protesta si limitò ad accentuare la loro differenza dal pubblico, che essi servivano. Gli scrittori della generazione successiva andarono tant’oltre con il loro orgoglio, da rinunziare anche a quelle manifestazioni coprendosi sotto il velo di una ostentata impersonalità e insensibilità. Ma si trattava di un ritegno ben diverso dall’obiettività del Sei e del Settecento. Gli scrittori classici volevano distrarre o istruire il lettore, oppure discutere con lui determinati problemi della vita. Invece, dall’età romantica in poi, la letteratura non era piú stata conversazione e discussione fra pubblico e autore, ma una confessione e un’autoesaltazione di quest’ultimo. Naturale quindi, che quando Flaubert e i Parnassiani cercano di celare i loro sentimenti personali, non si tratta di un semplice ritorno allo spirito della letteratura preromantica, ma della forma piú altezzosa e arrogante dell’individualismo, quello che sdegna persino di comunicare.

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Il 1848 e le sue conseguenze hanno completamente straniato i veri artisti dal pubblico. Anche questa volta, come nel 1789 e nel 1830, la Rivoluzione era seguita a un periodo di fervore intellettuale fecondissimo e, come le rivoluzioni precedenti, si era conclusa con la sconfitta della democrazia e della libertà intellettuale. La vittoria della reazione provocò un appiattimento senza esempio del pensiero e un completo imbarbarimento del gusto. La congiura dell’alta borghesia contro la rivoluzione, la denunzia della lotta di classe come un tradimento verso la nazione, che divise in due campi avversi una società per sua natura pacifica1, la soppressione della libertà di stampa, la creazione della nuova burocrazia come il piú forte sostegno del regime, l’insediarsi dello stato poliziesco come giudice supremo in ogni questione di morale e di gusto, provocarono nella cultura della Francia una scissione senza precedenti. Si determinò cosí fra gli intellettuali quel contrasto tuttora aperto fra conformismo e ribellione, e quell’opposizione allo stato che ha trasformato una parte degli intellettuali in un elemento di disgregazione. Il socialismo fu sacrificato senza resistenza all’«ordine» ristabilito. Nel primo decennio dopo il colpo di stato non si verifica in Francia nessun movimento operaio degno di nota. Il proletariato è esausto, intimidito, confuso, le sue associazioni sono sciolte, i suoi capi imprigionati, espulsi o ridotti al silenzio2. Le elezioni del 1863, rinforzando notevolmente l’opposizione, sono il primo sintomo di un cambiamento. Gli operai tornano ad associarsi, gli scioperi si moltiplicano e Napoleone III è costretto a nuove concessioni. Il socialismo non avrebbe certo raggiunto cosí presto il suo scopo, se non avesse trovato un aiuto involontario nell’alta borghesia liberale, che nel cesarismo di Napoleone vedeva un pericolo per la propria potenza. Lo sviluppo politico dopo il 1860, il declino del governo autoritario e la decadenza

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dell’Impero si spiegano con questo intimo dissidio del regime3. Il potere di Napoleone III si appoggiava al capitale finanziario e alla grande industria; l’esercito, prezioso nella lotta contro il proletariato, era tanto piú inutile contro l’alta borghesia, in quanto poteva sussistere solo grazie ad essa. Il Secondo Impero è inconcepibile senza l’ondata di prosperità con cui venne a coincidere. Esso trovò appoggio e giustificazione nella ricchezza dei suoi cittadini, nelle nuove invenzioni tecniche, nella costruzione di ferrovie e di canali, nell’infittirsi e accelerarsi degli scambi, nella diffusione e nella crescente flessibilità del credito. Durante la monarchia di luglio era ancora la politica che piú attraeva i giovani d’ingegno; ora le forze migliori le assorbe l’economia. La Francia diventa capitalistica, non solo nei rapporti latenti, ma anche nelle forme palesi della sua cultura. Il capitalismo e l’industrialismo non escono, è vero, dai binari ben noti, ma solo ora si sviluppano in tutta la loro ampiezza, e la vita quotidiana degli uomini, le abitazioni, i trasporti, la tecnica dell’illuminazione, il nutrimento e il vestire subiscono dal 1850 in poi mutamenti piú radicali di quanti ne abbiano subiti nei secoli dall’inizio della civiltà urbana. Incomparabilmente piú grande e piú che mai diffuso, il bisogno di lusso e anzitutto l’amore dei piaceri. Il borghese diventa sicuro di sé, pretenzioso, arrogante e crede di poter coprire con un lusso esteriore la modestia delle sue origini e il carattere promiscuo della nuova società mondana, in cui assumono un’importanza fin qui inaudita demi-monde, attrici e stranieri. La disgregazione dell’antico regime entra nello stadio finale e, scomparsi gli ultimi rappresentanti della buona società di un tempo, la cultura francese attraversa una crisi piú sensibile che ai giorni della sua prima scossa. Nell’arte, soprattutto nell’architettura e nella decorazione degli interni, il cattivo gusto predomina come mai

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prima. Per la classe ricca, abbastanza importante per voler brillare, ma non abbastanza antica per saper evitare l’ostentazione, nulla è troppo prezioso e carico. Si usano senza discernimento materiali genuini e falsi, si riprendono e si contaminano gli stili. Rinascimento e Barocco non sono che mezzi, come il marmo e l’onice, il velluto e la seta, gli specchi e i cristalli. Si imitano palazzi di Roma e castelli della Loira, atri pompeiani e sale barocche, le ebanisterie Luigi XV e gli arazzi Luigi XVI. Parigi acquista un nuovo splendore, un nuovo aspetto di metropoli. Ma la sua grandezza è tutta apparente, il pretenzioso materiale spesso non è che un surrogato: il marmo è stucco, la pietra è intonaco. Le pompose facciate sono posticce, la ricca decorazione è inorganica e non strutturale. L’architettura assume un aspetto instabile, degno della classe di parvenus che la dirige. Parigi ridiventa la capitale dell’Europa, ma non è, come una volta, il centro dell’arte e della cultura, bensí la metropoli dei piaceri, la città dell’opera, dell’operetta, dei balli, dei boulevards, dei ristoranti, dei magazzini, delle esposizioni universali, dei piaceri bell’e pronti e a buon mercato. Il Secondo Impero è il classico tempo dell’eclettismo: un tempo senza stile proprio nell’architettura e nell’artigianato e senza unità stilistica nella pittura. Sorgono nuovi teatri, alberghi, case d’affitto, caserme, magazzini, mercati, intere vie che s’irradiano da piazze circolari; Parigi è quasi riedificata da Haussmann, ma tutto ciò, se si prescinde dal nuovo criterio degli ampi spazi e dalla tecnica della costruzione in ferro che ora comincia a diffondersi, non ha alcuna originalità architettonica. Naturalmente anche in altri tempi si era avuta una compresenza di stili diversi, rivali; ed anche l’antitesi tra uno stile storicamente valido, ma non accetto ai ceti dominanti, e uno meno importante, affatto sterile nel processo evolutivo, ma caro al pubblico, non era un feno-

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meno nuovo. Tuttavia mai era accaduto che le tendenze veramente significative dell’arte avessero cosí scarsa eco presso i contemporanei. In questo caso noi sentiamo che la storia dell’arte e della letteratura, in quanto tratta delle manifestazioni esteticamente valide e storicamente significative, meno che per ogni altra epoca risulta aderente alla reale vita artistica del tempo; in altre parole, che la storia delle tendenze progressive, significanti per il futuro e quella delle tendenze che hanno avuto una voga o un influsso momentaneo vertono su due serie di fatti completamente distinti. Un Octave Feuillet o un Paul Baudry, a cui si dedicano dieci righe nei nostri manuali, apparivano al pubblico del loro tempo incomparabilmente piú importanti di Flaubert o Courbet, a cui noi dedichiamo tante pagine. La vita artistica del Secondo Impero è dominata da una produzione facile e piacevole, destinata a una borghesia che si è fatta indolente e intellettualmente pigra. La grassa borghesia, a cui dobbiamo quella pretenziosa architettura che si rifà ai modelli piú grandiosi, ma è per lo piú vacua e disorganica, e riempie le sue case degli oggetti piú costosi, ma spesso perfettamente superflui, scoperta falsificazione dei modelli storici, favorisce una pittura che si riduce a una gradevole decorazione murale, una letteratura di frivolo divertimento, una musica leggera e lusinghevole e un teatro che celebra i suoi trionfi con gli espedienti della pièce bien faite. Prevale un gusto incerto, cattivo, facilone, mentre l’arte vera diviene esclusivo possesso di una cerchia d’intenditori, che non è piú in grado di offrire alcun compenso adeguato al lavoro dell’artista. Il naturalismo, che in germe contiene tutta l’evoluzione successiva, e può rivendicare le opere d’arte piú significative del secolo, è una corrente di opposizione, cioè lo stile di una piccola minoranza, sia fra gli artisti che fra il pubblico. È il bersaglio dell’accademia, del-

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l’università e della critica, insomma di tutti i circoli ufficiali e autorevoli. E l’ostilità si acuisce via via che si precisano i fini e i presupposti del movimento, e dal cosiddetto «realismo» si sviluppa il «naturalismo». Ma distinguere cosí le due fasi, che in realtà non hanno limiti netti, si rivela praticamente affatto inutile, se non addirittura ingannevole. In ogni caso è piú opportuno comprendere col solo nome di naturalismo l’intero fenomeno, riservando il concetto di realismo alla filosofia che si contrappone all’idealismo romantico. Se per naturalismo si intende lo stile artistico e per realismo la concezione filosofica la cosa rimane chiara, mentre volendo distinguere naturalismo e realismo in arte non si fa che complicare le cose e porsi un problema fittizio. Inoltre il concetto di realismo applicato all’arte verrebbe a sottolineare troppo l’opposizione al romanticismo, facendo dimenticare che si tratta di una diretta continuazione degli intenti dell’arte romantica e che in sostanza il naturalismo è piuttosto una lotta incessante con lo spirito romantico che una vittoria su di esso. Il naturalismo è un romanticismo con nuove convenzioni, con nuovi, e piú o meno arbitrari, postulati di verosimiglianza. La maggior differenza tra romanticismo e naturalismo sta nell’indirizzo scientifico della nuova tendenza, che applica i criteri delle scienze esatte alla rappresentazione artistica della realtà. Il predominio dell’arte naturalistica nella seconda metà dell’Ottocento non è che un sintomo del trionfo di una generale concezione scientifica e della mentalità razionalistico-tecnicistica sullo spirito idealistico e tradizionale. Si può dire che il naturalismo derivi tutti i suoi criteri di verosimiglianza dall’indagine scientifica. Il suo concetto della verità psicologica si fonda sul principio di causalità, quello del corretto sviluppo di un intreccio sull’eliminazione del caso e del miracolo; la sua descrizione dell’ambiente, sull’idea che ogni fenomeno naturale

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rientra in una serie infinita di condizioni e moventi; la sua valorizzazione del particolare caratteristico, sul metodo dell’osservazione scientifica, che non trascura alcuna circostanza, per quanto irrilevante; la sua rinunzia alla composizione troppo perfetta, sul carattere necessariamente non conclusivo dell’indagine scientifica. Ma la fonte principale della dottrina naturalistica è l’esperienza politica della generazione del 1848: l’insuccesso della rivoluzione, la repressione di giugno e il colpo di stato di Luigi Napoleone. Il disinganno dei democratici, il brusco e generale cader delle illusioni, si esprimono benissimo nella visione obiettiva, spassionata, strettamente aderente all’esperienza, delle scienze naturali. Fallito ogni ideale, caduta ogni utopia, ci si attiene ai fatti, e nulla piú. L’origine politica del naturalismo ne spiega anzitutto gli aspetti antiromantici e morali: il rifiuto di sfuggire alla realtà e l’esigenza di un’assoluta onestà nel descrivere i fatti; lo sforzo d’essere impersonali e impassibili per garantire l’obiettività e la solidarietà sociale; l’attivismo che vuol mutare la realtà, non solo conoscerla e descriverla; lo spirito di modernità, che si attiene al presente come alla sola cosa che importi; infine il carattere popolare nella scelta dei soggetti e del pubblico. La frase di Champfleury4, «Le public du livre à vingt sous, c’est le vrai public» [«Il vero pubblico è quello dei libri da venti soldi»], mostra in quale senso la rivoluzione del 1848 abbia agito sulla letteratura e quanto il nuovo concetto di «popolarità» sia diverso da quello dei vecchi scrittori d’appendice. Questi scrivevano per le masse, perché volevano scrivere per tutti; i naturalisti invece, Champfleury e la sua cerchia, vogliono scrivere anzitutto per le masse. Comunque, si distinguono nella letteratura naturalistica due correnti: il naturalismo degli scrittori che vengono dalla bohème – Champfleury, Duranty e Murger – e quello dei possidenti, di Flaubert e dei Goncourt5. Son due campi oppo-

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sti: la bohème odia ogni tradizione, mentre a Flaubert e ai suoi amici riesce sospetto ogni scrittore che ambisca al favore popolare. Il naturalismo comincia come movimento del proletariato artistico; il suo primo maestro è Courbet, uomo del popolo e artista affatto insensibile alla rispettabilità borghese. Sciolta l’antica bohème, mentre i suoi membri diventano i beniamini del pubblico borghese romanticizzante, si forma intorno a Courbet un nuovo circolo, un altro cénacle della bohème. Il pittore degli Spaccapietre deve la sua posizione di guida alle sue qualità di uomo, piuttosto che di artista; anzitutto alla sua origine, al fatto ch’egli descrive la vita del popolo e con l’arte sua si volge al popolo, o almeno al piú vasto pubblico, vive la vita precaria e libera dell’artista proletario, disprezza il borghese e i suoi ideali, è un convinto democratico e un rivoluzionario, un perseguitato e un reietto. La teoria naturalistica sorge appunto a difesa della sua arte contro la critica tradizionalista. Quando viene esposto il Funerale di Ornans (1850) Champfleury dichiara: «D’ora in poi i critici debbono decidersi pro o contro il realismo». Cosí la gran parola è detta6. Sostanzialmente in quest’arte né la teoria né la pratica sono nuove, anche se la vita quotidiana forse non ha mai avuto una rappresentazione cosí brutale; quel che è nuovo è la tendenza politica, il messaggio sociale, la vita del popolo ritratta senza degnazione, senza alcun tono di superiorità, satirico o bozzettistico. Ma per quanto sia nuovo questo atteggiamento sociale, per quanto si parli, nell’ambiente di Courbet, del fine umanitario e del compito politico dell’arte, la bohème è e rimane erede dell’estetismo romantico. Spesso essa attribuisce all’arte un’importanza che non le fu concessa nemmeno dalle piú esaltate teorie romantiche, e fa un profeta di un pittore confusionario e chiacchierone, un avvenimento storico Dell’esposizione di un quadro invendibile.

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Ma la passione che anima Courbet e i suoi seguaci è fondamentalmente politica; in loro l’orgoglio nasce dalla persuasione di essere i campioni della verità e gli araldi del futuro. Champfleury afferma che il realismo non è che l’arte della democrazia e i Goncourt definiscono senz’altro la bohème come il socialismo nella letteratura. Agli occhi di Proudhon e di Courbet realismo e rivolta politica sono manifestazioni diverse di uno stesso atteggiamento, né essi vedono un’essenziale differenza tra verità sociale e verità artistica. In una lettera del 1851 Courbet dichiara: «Io non sono soltanto un socialista, ma un democratico e un repubblicano, insomma un partigiano della rivoluzione e anzitutto un realista, cioè il sincero amico della verità vera»7. E Zola non fa che sviluppare l’idea di Courbet, quando afferma8: «La République sera naturaliste ou elle ne sera pas» [«La repubblica sarà naturalista o non sarà»]. Quindi il rifiuto del naturalismo non è, nelle classi dirigenti, che istinto di autoconservazione; si sente giustamente che ogni arte che osi ritrarre la vita senza pregiudizi né remore, è di per sé un fatto rivoluzionario. Questo pericolo è avvertito dai conservatori anche piú nettamente che dall’opposizione9. Gustave Planche nella «Revue des Deux Mondes» dice esplicitamente che l’opposizione al naturalismo è una professione di fede nell’ordine costituito e, rifiutandolo, si rifiuta a un tempo il materialismo e la democrazia10. La critica conservatrice degli anni fra il ’50 e il ’60 adduce contro il naturalismo tutti i noti argomenti e cerca di dissimulare sotto il manto dell’estetica i pregiudizi sociali e politici che determinano il suo atteggiamento. Il naturalismo, dicono, non ha ideali né morale superiore, sguazza nel brutto e nel volgare, nel morboso e nell’osceno, è un’indiscriminata, servile imitazione del vero. Ma quel che li turba non è evidentemente il grado, ma l’oggetto dell’imitazione. Sanno fin

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troppo bene che Courbet, distruggendo la kalokagathìa classico-romantica ed eliminando il vecchio ideale di bellezza mantenutosi quasi intatto, pur fra rivoluzioni e mutamenti sociali, fin verso il 1850, propugna un’umanità nuova e un nuovo ordine di vita. Sentono che la deformità dei suoi contadini e dei suoi operai, la volgare corpulenza delle sue borghesi è una protesta contro la società esistente e che «il dispregio dell’idealismo» e «il grufolare nel fango» sono le armi rivoluzionarie della pittura naturalista. Millet celebra con la sua pittura l’apoteosi del lavoro manuale, e dei contadini fa gli eroi di una nuova epopea. Daumier descrive il borghese conservatore, ostinato e ottuso, ne deride la politica, la giustizia, i piaceri, e svela tutta la spettrale commedia che si cela dietro il suo decoro. È evidente che la scelta dei temi qui è determinata da motivi politici piú che artistici. Persino il quadro di paesaggio diventa una dimostrazione contro la cultura della società dominante. Il paesaggio moderno nasce veramente come antitesi alla vita della città industriale; ma quello romantico rappresentava ancora un mondo autonomo, il quadro di una vita irreale, ideale, senza alcun diretto rapporto con quella quotidiana. Era un mondo cosí diverso dalla scena della realtà contemporanea, che lo si concepiva come antitesi ad essa, difficilmente come protesta. Invece il paysage intime della pittura moderna ritrae un ambiente che per la sua intimità e quiete, è, sì, affatto diverso dalla città, ma pur cosí vicino ad essa per il suo carattere semplice, antiromantico, quotidiano, da indurre spontaneamente al confronto. Le vette montane e gli specchi marini dei romantici, e anche i boschi e i cieli di Constable, avevano in sé qualcosa di favoloso, di mitico; invece i pittori di Barbizon ci mostrano radure e bordi di foreste cosí naturali e familiari, cosí accessibili al nostro piacere, che a un abitante della città moderna debbono

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sempre apparire come un ammonimento e un rimprovero. La scelta di questi motivi comuni, «non poetici» rivela lo stesso spirito democratico che affiora nei tipi di Courbet, Millet e Daumier; con la sola differenza che i paesisti sembrano dire: la natura è bella sempre e dappertutto, per avvedersene non occorrono motivi «ideali»; mentre i pittori di figura vogliono provare che l’uomo è brutto e miserabile, l’oppresso come l’oppressore. Ma il paesaggio dei naturalisti, pur cosí schietto e semplice, diventa presto convenzionale com’era stato quello dei romantici. Questi dipingevano la poesia del boschetto sacro, i naturalisti la prosa della vita campagnola: la radura con le bestie al pascolo, il fiume con la chiatta, il campo con la bica di fieno. Anche qui, come sovente nella storia dell’arte, il progresso sta piú nel rinnovarsi, che nello scomparire dei motivi tradizionali. I mutamenti piú radicali derivano dal principio della pittura «all’aria aperta», che del resto non viene messo in pratica subito e quasi mai coerentemente e si limita per lo piú a «dar l’impressione» che il quadro sia dipinto all’aria aperta. Anche l’idea di questa tecnica ha alla sua base, oltre i palesi elementi scientifici, un fondo eticopolitico, quasi a significare: «Fuori, all’aria libera, alla luce della verità!» Il carattere sociale della nuova arte si esprime anche in una piú marcata tendenza dei pittori a raggrupparsi, a fondare colonie di artisti, a condurre vita in comune. La «scuola di Fontainebleau» che non è una scuola né una conventicola, ma un gruppo fluido, dove i membri seguono ciascuno la propria via e sono uniti solo dalla serietà degli intenti, rappresenta già lo spirito collettivo dei tempi nuovi. E le successive confraternite e colonie di artisti, i comuni tentativi di riforma e i gruppi d’avanguardia dell’Ottocento esprimono sempre la stessa tendenza alla coalizione e alla cooperazione. La coscienza della propria funzione storica, la percezione del senso

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e delle necessità dell’ora, intuizioni del romanticismo, guidano ormai la mente degli artisti. La frase di Courbet, «faire de l’art vivant» [«Far dell’arte viva»] e il motto attribuito a Daumier, «Il faut être de son temps» [«Bisogna essere del proprio tempo»] dicono una cosa sola: il desiderio di rompere l’isolamento romantico e riscattare l’artista dal suo individualismo. Anche il fatto che la litografia assurga ora a espressione d’arte è un sintomo di questa tendenza sociale. Essa non corrisponde soltanto a quella democratizzazione del godimento artistico che in letteratura si è attuata col romanzo d’appendice, ma segna il trionfo dello spirito popolare e del giornalismo a un livello incomparabilmente piú alto. Il giornalismo pittorico di Daumier è anche uno dei vertici dell’arte del tempo, mentre il romanzo d’appendice di Balzac segna uno scadimento dell’autore e non giunge ad elevare il livello generale. I naturalisti rappresentavano veramente il loro tempo, o almeno, se non tutto, la parte maggiore e piú importante del pubblico contemporaneo? La maggioranza di coloro che ordinavano, compravano o giudicavano pubblicamente i quadri, che dirigevano le accademie e decidevano sulle opere da esporre, no certamente. Le idee artistiche di costoro erano in genere piuttosto liberali, ma la loro tolleranza cessava di fronte al naturalismo. Essi amavano e favorivano l’accademico idealismo di Ingres e della sua scuola, la romantica pittura aneddotica di Decamps e di Meissonier, gli eleganti ritratti di Winterhalter e di Dubufe, i quadroni pseudobarocchi di Couture e di Boulanger, le decorazioni mitologico-allegoriche di Bouguereau e di Baudry11, cioè la forma grande, fastosa, ma vuota, in tutte le sue variazioni. Invece per le opere dei naturalisti non c’era posto in quelle case piene di mobili e di drappeggi, né negli arcaizzanti saloni di rappresentanza. L’arte moderna fu bandita e cominciò a

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perdere ogni funzione pratica. La stessa distanza che si nota tra la pittura naturalistica e l’elegante «decorazione murale» si riscontra anche tra poesia e letteratura amena, tra musica seria e musica leggera. Al pari della pittura progressista, erano prive di un’effettiva funzione anche la letteratura e la musica non destinate al puro divertimento. Finora anche le opere letterarie piú valide e piú serie, come i romanzi di Prévost, Voltaire, Rousseau e Balzac, avevano trovato un pubblico relativamente vasto, anche se spesso indifferente alla qualità artistica. Ma ora la letteratura cessa di essere a un tempo arte e divertimento, e di soddisfare con le stesse opere le esigenze di ceti di diversa cultura. Le opere piú valide non sono piú considerate lettura amena e perdono ogni attrattiva per il lettore comune, a meno che non lo attirino per qualche particolare motivo e ottengano un successo di scandalo, come ad esempio Madame Bovary di Flaubert. Un’adeguata considerazione queste opere la trovano solo in un gruppo esiguo di letterati e d’intellettuali, e anche questa può chiamarsi «arte di atelier», come tutta la pittura progressista: è una letteratura destinata a specialisti, artisti ed esperti. Lo straniarsi degli artisti dal presente e la loro rinunzia a ogni comunione col pubblico va tant’oltre, ch’essi non solo accettano l’insuccesso come cosa naturale, ma considerano il successo come segno di scarso valore artistico, e scorgono proprio nell’incomprensione dei contemporanei una promessa d’immortalità. Il romanticismo ancora conservava in sé un elemento popolare capace di parlare a ceti piuttosto vasti; il naturalismo invece, almeno nelle opere piú notevoli, non ha nulla che sappia attrarre il gran pubblico. Con la morte di Balzac termina l’età romantica; è, vero che l’arte di Victor Hugo è ancora nel suo pieno sviluppo, ma come grande movimento letterario il romanticismo è ormai concluso. Il ripudio dell’ideale romantico da

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parte dei piú eminenti scrittori segna anche la completa rottura con i gruppi autorevoli del pubblico e della critica. La partie de résistance [La parte dei resistenti], che in letteratura corrisponde al partito dell’ordine, è piú favorevole al romanticismo di quanto lo sia al naturalismo, che pur ne è la diretta conseguenza storica. La critica conservatrice combatte lo spirito della rivolta in ogni forma, romantica o naturalistica, e antepone la ragionevolezza a ogni specie di spontaneità; esige però dalla poesia l’espressione di «puri sentimenti» e considera la «profondità» come il criterio dell’arte vera. Ma quest’estetica del sentimento non è che una nuova forma, sebbene non sempre chiarissima, dell’antica kalokagathìa; essa si fonda sulla presunta identità di spontaneità sentimentale e validità morale nella vita psichica e postula una mistica corrispondenza fra il bene e il bello. L’effetto morale dell’arte è il suo piú importante assioma e l’artista educatore il suo piú alto ideale. L’atteggiamento della ricca borghesia a proposito de l’art pour l’art si è nuovamente modificato. Dopo una prima ripulsa, e un successivo consenso, ora si dichiara definitivamente ostile all’arte «pura», moralmente indifferente. Fiaccata la ribellione dell’artista, non c’è piú nulla da temere, se anche egli s’immischia di questioni pratiche; l’art pour l’art può esser buttata a mare, e si può tornare a riconoscere all’artista la funzione di guida spirituale. La minaccia ora viene dal naturalismo; ma poiché i suoi esponenti propugnano, se non l’art pour l’art, una trattazione spregiudicata e senza riguardi delle questioni morali, cioè un amoralismo artistico, la condanna de l’art pour l’art coinvolge anche loro. Il governo include anche l’arte e gli artisti nel suo programma di educazione e di correzione. I caporedattori e i critici delle grandi riviste e dei giornali, i Buloz, i Bertin, Gustave Planche, Charles Rémusat, Arnaud de Pont-Martin, Émile

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Montégut sono le maggiori autorità del regime; i suoi piú illustri poeti sono Jules Sandeau, Octave Feuillet, Étmile Augier e Dumas figlio; università e accademie sono le sue scuole e i suoi laboratori per questa igiene spirituale; il procuratore generale e il prefetto di polizia, i custodi dei suoi principî morali. Gli esponenti del naturalismo hanno da lottare contro l’ostilità della critica fin verso il 1860, contro l’università per tutta la vita. L’accademia rimane chiusa per loro, né possono mai contare su aiuti dello stato. Flaubert e i fratelli Goncourt vengono denunziati per offese alla morale, a Baudelaire viene inflitta una forte multa. Il processo contro Flaubert e il successo strepitoso di Madame Bovary (1857) decidono la battaglia in favore del naturalismo. Il pubblico si appassiona e presto anche la critica cede le armi; solo i piú cocciuti e miopi reazionari restano all’opposizione. Questa volta sono i lettori a imporre il nuovo gusto ai critici, anche se l’interesse del pubblico non ha cause puramente artistiche. Sainte-Beuve, sensibilissimo alle oscillazioni delle tendenze intellettuali, ritorna al suo liberalismo di gioventú. Egli si associa al gruppo di Taine, Renan, Berthelot e Flaubert, critica il governo e proclama il trionfo del naturalismo. Questa sua conversione, che è nello stesso tempo politica e artistica, è acutamente sintomatica per la situazione intellettuale; essa prova che il naturalismo, pur diviso nei due campi della bohème e dei rentiers, ha le sue radici nel liberalismo. Neppure di Flaubert, conservatore in politica, si può affermare che rappresenti una posizione reazionaria, antisociale e antiliberale. La sua opposizione al sistema politico del Secondo Impero e all’opportunismo della borghesia, come si esprime soprattutto nell’Education sentimentale, certo rispecchia il suo pensiero meglio della diffamazione della democrazia, che fa nelle sue lettere spesso troppo impulsive e contraddittorie. La critica sociale avversa al regime è

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un tratto comune a tutta la letteratura naturalistica, e Flaubert, Maupassant, Zola, Baudelaire e i Goncourt, pur diversamente orientati in politica, sono perfettamente concordi nel loro non-conformismo12. Il «trionfo del realismo» si ripete e i suoi esponenti contribuiscono tutti a minare le basi della società esistente. Nelle sue lettere, Flaubert deplora piú volte la soppressione della libertà e l’odio contro le tradizioni della grande rivoluzione13. Egli è un aperto avversario del suffragio universale e dell’egemonia delle masse incolte14, ma non certo un alleato della borghesia dominante. Le sue opinioni politiche sono spesso ingenue e confuse, ma esprimono sempre un onesto intento razionalistico e realistico e un atteggiamento alieno da ogni utopia, sia pur quella dei benefattori del popolo e dei fanatici del progresso. Del socialismo gli repugnano non tanto gli aspetti materialistici, quanto quelli irrazionali15. Per timore d’ogni dogmatismo, d’ogni fede cieca, d’ogni sorta di vincoli, egli respinge ogni attivismo politico e combatte contro tutto ciò che possa distoglierlo dalla sua cerchia strettamente privata16. Per timore d’illudersi, diventa un nichilista. Ma si sente legittimo crede della Rivoluzione e dell’illuminismo e imputa la decadenza dello spirito alla fatale vittoria di Rousseau su Voltaire17. Flaubert si aggrappa al razionalismo come all’ultimo resto del Settecento antiromantico, e basta pensare alla patologica angoscia del nostro tempo per capire il senso del suo ammonimento di fronte alle tendenze irrazionali e suicide del romanticismo di origine rousseauiana. «Di quale colpa dovrebbero rispondere gli uomini?», scrive a una malata di nervi, che si tormenta con fissazioni religiose e rimorsi18. Pare un grido d’allarme, un ultimo tentativo di mantenersi in equilibrio in un mondo minacciato da ogni parte. La lotta di Flaubert con lo spirito del romanticismo, il suo continuo oscillare di fronte ad esso, che gli dà sempre il senso di essere un tradi-

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tore, non è che una manovra per conservare tale equilibrio. Tutta la sua vita e la sua opera oscillano tra due poli, tra le inclinazioni romantiche e l’autodisciplina, la nostalgia della morte e la volontà di restar vivo e sano. Egli, che è un provinciale, è vicino al romanticismo, ormai un po’ fuori moda, piú dei suoi coetanei parigini19, e ancora passati i vent’anni vive nel mondo fittizio e nella surriscaldata atmosfera spirituale di una gioventú strappata alle sue radici e fuor del suo tempo. Piú tardi egli ricorda spesso in quale paurosa condizione, minacciato dalla follia e dal suicidio, si trovasse allora con i suoi amici20 e come riuscisse a salvarsi soltanto con uno sforzo inaudito di volontà e un’autodisciplina ferrea e spietata. Fino alla crisi, subita a ventidue anni, egli è un uomo tormentato da visioni, depressioni, da una furia selvaggia di sentimenti; è un malato che va incontro alla catastrofe per la sua eccitabilità e sensibilità. La sua vita tutta dedita all’arte, il carattere regolare e intransigente del suo lavoro, il rigore inumano che assume in lui l’indirizzo de l’art pour l’art, il tono impersonale del suo stile, insomma tutta la sua teoria e la sua prassi di artista non sono che uno sforzo disperato per salvarsi dalla rovina certa. L’estetismo assume in lui, sul piano psicologico, la stessa funzione che aveva avuto per i romantici su un piano sociologico: la funzione di fuga dalla realtà ormai insopportabile. Flaubert si libera dal romanticismo; e arriva a superarlo rappresentandolo poeticamente, trasformandosi da amante soggiogato, in analista e critico del movimento. Egli contrappone alla realtà della vita quotidiana il mondo dei sogni romantici e diventa naturalista per rivelarne il carattere falso e malsano. Ma non si stanca mai di dire quanto odii la volgarità quotidiana e gli spiaccia il naturalismo di Madame Bovary e de L’Education sentimentale, e quanto gli sembri puerile tutta la dottrina. E tuttavia egli è il primo vero scrittore naturali-

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sta, il primo a dare nelle sue opere un quadro – della realtà rispondente alle teorie del naturalismo. SainteBeuve riconosce con sguardo sicuro le conseguenze della svolta che Madame Bovary rappresenta nella storia della letteratura francese: «Flaubert adopera la penna come altri il bisturi», scrive nella sua recensione, e caratterizza il nuovo stile come il trionfo di un anatomico e di un fisiologo nell’arte21. Dalle opere di Flaubert, Zola deriva tutta la sua teoria del naturalismo e considera l’autore di Madame Bovary e de L’Education sentimentale come il padre del romanzo moderno22. Flaubert, soprattutto di fronte alle esagerazioni e agli effetti violenti di Balzac, rappresenta la totale rinunzia all’azione melodrammatica, avventurosa, e anche soltanto appassionante; descrive con amore la vita quotidiana monotona, uguale, piatta; evita ogni estremo nel dar forma ai personaggi, astenendosi dall’accentuare in loro il bene o il male; rinunzia ad ogni tesi, ad ogni morale, ad ogni tendenza, insomma ad ogni indiretto intervento negli avvenimenti e ad ogni diretta interpretazione dei fatti. Questa sua impersonalità e imparzialità non derivano però esclusivamente dai principî del naturalismo, né rispondono solo all’esigenza estetica che l’oggetto dell’opera d’arte agisca come realtà immediata e non perché raccomandato dall’autore; la sua non è soltanto una reazione agli eccessi di Balzac e un ritorno al concetto dell’opera come un microcosmo in sé conchiuso, un sistema in cui «l’autore, come Dio nell’universo, dev’essere sempre presente e mai visibile»23. Né si tratta soltanto della convinzione, da allora cosí spesso ripresa e riaffermata – dai Goncourt, da Maupassant, Gide, Valéry e altri – che dei piú bei sentimenti si fanno i versi peggiori, e la partecipazione personale, la schietta commozione, il sussulto dei nervi e le lacrime agli occhi non fanno che pregiudicare l’acutezza dello sguardo; no, l’impassibilità di Flaubert non è solo un principio tec-

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nico, ma piuttosto contiene un’idea nuova, una nuova morale per l’artista. Il suo «Nous sommes faits pour le dire et non pour l’avoir» [«Siamo fatti per dirlo, non per averlo»] è la formulazione estrema e intransigente di quella rinunzia alla vita da cui è nato il romanticismo come visione artistica e filosofica; ma, dato il suo intimo dissidio, è nello stesso tempo il piú netto rifiuto del romanticismo. Infatti, quando Flaubert proclama che la poesia non è «la schiuma del cuore» egli vuol salvare la purezza del cuore come quella della poesia. Dal riconoscimento che la confusa, esaltata, romantica sensibilità della sua giovinezza era in procinto di distruggerlo come artista e come uomo, Flaubert derivò un nuovo metodo di vita e una nuova estetica. «Ci sono bambini, – scrive nel 1852, – su cui la musica agisce sfavorevolmente; hanno gran disposizione, ricordano le melodie sentite una volta sola, il pianoforte li eccita, dà loro il batticuore; si fanno magri e smunti, si ammalano e; quando sentono musica, i loro poveri nervi spasimano come quelli dei cani. Fra questi bimbi si cercheranno invano i Mozart del futuro. In loro il talento si è stravolto, l’idea è passata nella carne, dov’è sterile, e per la carne esiziale...»24. Flaubert non sospettava quanto romantiche fossero quella distinzione di «idea» e «carne», e la sua rinunzia alla vita per amore dell’arte; e non si accorse mai che la soluzione vera, antiromantica del suo problema, soltanto la vita poteva offrirla. La personale soluzione che egli ne tenta rientra tuttavia tra i grandi atteggiamenti simbolici dell’umanità occidentale; essa rappresenta l’ultima incarnazione importante della concezione romantica, quella in cui il romanticismo viene negato provocando negli intellettuali borghesi la coscienza della loro incapacità a dominare la vita e fare dell’arte uno strumento per la vita. Come ha sottolineato Brunetière, l’autoavvilimento è connaturato alla psicologia borghese25, ma occorre aggiungere che auto-

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critica e autonegazione diventano un fattore decisivo nella vita culturale soltanto dal tempo di Flaubert. I borghesi della monarchia di luglio credevano ancora in se stessi e nella missione della loro arte. La critica flaubertiana del romanticismo, l’orrore dell’esibizionismo romantico, della prostituzione delle proprie esperienze personali e dei piú intimi sentimenti ricordano l’antipatia di Voltaire per la cruda schiettezza di Rousseau. Ma Voltaire era ancora immune da romanticismo e, quando si opponeva a Rousseau, non aveva da combattere anche contro se stesso; il suo carattere borghese era chiaro e sicuro. Invece Flaubert è pieno di contraddizioni e il suo rapporto contraddittorio con il romanticismo corrisponde a un rapporto analogo con la borghesia. È stato spesso osservato che l’odio contro il bourgeois è la fonte della sua ispirazione e l’origine del suo naturalismo. Nella sua mania di persecuzione lo spirito borghese assurge a sostanza metafisica, una specie di «cosa in sé» impenetrabile, inesauribile. «Il borghese, – egli scrive a un amico, – è per me qualcosa d’indefinibile»: parola in cui all’idea d’indeterminato si unisce quella d’infinito. La scoperta che i borghesi stessi sono diventati romantici, anzi, per cosí dire, rappresentano l’elemento romantico per eccellenza, e che nessun altro declama con tanta sensibilità e commozione i versi dei poeti romantici, e le Bovary sono le ultime rappresentanti dell’ideale romantico, ha contribuito molto ad allontanare Flaubert dal romanticismo. Ma borghese è la sua indole piú profonda ed egli lo sa. «Io rinunzio alla posizione del letterato, – egli dichiara: – ... sono soltanto un borghese che vive in campagna e si occupa di letteratura»26. Sotto processo per il suo romanzo, egli, preparando la propria difesa, scrive al fratello: «Si deve sapere al Ministero degli Interni che noi a Rouen siamo quel che si dice una famiglia e abbiamo profonde radici nel paese». Ma questo aspetto di

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Flaubert si esplica anzitutto nel suo modo di lavoro strettamente disciplinato, nell’antipatia per il disordine della creazione «geniale.». Egli cita le parole di Goethe sull’«esigenza quotidiana» e si fa un dovere di esercitare il mestiere di scrittore come una professione metodica, indipendente dalla voglia, dall’ispirazione e dall’umore. Ma la sua monomania, il suo sforzo per la forma perfetta, il suo estetismo concreto nascono da questa concezione borghese-artigiana dell’attività artistica. Com’è noto, l’art pour l’art risponde solo in parte al senso romantico della vita, avulsa dalla società e dalla pratica; per certi aspetti esprime anzi un’etica del lavoro schiettamente borghese e artigiana, tutta volta all’esecuzione27. L’antipatia di Flaubert per il romanticismo è strettamente connessa con la sua avversione all’artista come tipo, con la sua ripugnanza per i sognatori e gli idealisti irresponsabili. Nell’artista e nel romantico egli combatte la personificazione di un costume, che gli pare minacci tutta la sua esistenza morale. Egli odia il borghese, ma ancor piú il vagabondo. Egli sa che negli artisti c’è sempre un elemento distruttore, una forza disgregatrice e antisociale. Sa che l’artista nella vita tende all’anarchia e al caos e che il suo lavoro, già per il movente irrazionale da cui nasce, cerca di sottrarsi ad ogni ordine e ad ogni disciplina, ad ogni perseveranza e stabilità. Quel che già sentiva Goethe28, e di cui Thomas Mann farà il problema centrale della sua psicologia dell’artista – cioè l’inclinazione dell’artista al patologico e al criminale, il suo esibizionismo spudorato, il suo istrionismo senza dignità, insomma tutta l’esistenza di vagans cui è obbligato – deve aver profondamente turbato e oppresso Flaubert. L’ascesi, ch’egli s’impone, la diligenza artigianesca, quel monastico celarsi dietro l’opera, debbono in definitiva testimoniare della sua serietà, della sua decenza e probità borghese, che non ha niente di comune con il «panciotto rosso» di Gautier. Il pro-

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letariato artistico è ormai diventato un fatto sociale non trascurabile; la borghesia lo sente come un pericolo rivoluzionario e gli scrittori borghesi solidarizzano con lei contro questo pericolo, come piú tardi contro la Comune, che sveglia in loro tutti gli istinti borghesi repressi. Tuttavia una dottrina come l’estetismo flaubertiano non è una soluzione chiara, definitiva, ma una forza dialettica che, mutando direzione, mette in dubbio la sua stessa validità. Contro l’irruenza romantica della sua gioventú, Flaubert cerca quiete e riparo nell’arte; ma in questa funzione essa prende proporzioni fantastiche e figura demoniaca. Non solo soppianta ogni altra cosa che possa appagare l’anima e placarla, ma diventa il principio stesso della vita. Pare che solo essa abbia realtà, costituisca un punto fermo nel flusso di ciò che passa e dilegua, si corrompe e si dissolve. La dedizione della vita all’arte assume qui un carattere mistico-religioso; non è piú semplicemente servizio o sacrificio, ma un fissarsi, estatici, all’unica realtà, un dissolversi e un annullarsi nell’idea. «L’art, la seule chose vraie et bonne de la vie» [«L’arte, la sola cosa vera e buona della vita»] scrive Flaubert all’inizio della sua carriera29; e alla fine30: «L’homme n’est rien, l’œuvre tout» [«L’uomo non è nulla, l’opera è tutto»]. Il virtuosismo artigianesco, l’esaltazione della maestria tecnica in contrasto con il dilettantismo romantico, in origine esprimeva il desiderio d’inserirsi in un saldo ordine di vita sociale; l’ultimo estetismo di Flaubert è invece un nichilismo antisociale e avverso alla vita, una fuga da tutto ciò che è connesso con la pratica e con l’uomo di carne e d’ossa. Vi si esprime l’estremo disprezzo del mondo, l’estrema ripulsa. «La vita è cosí orribile, – geme Flaubert, – che la si può sopportare soltanto fuggendola. E lo si fa vivendo nell’arte»31. «Nous sommes faits pour le dire et non pour l’avoir», è un crudele messaggio, l’accettazione di un destino infelice, inumano. «Tu potrai descrivere il

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vino, l’amore, le donne, la gloria soltanto se non sei bevitore, né amante, né sposo, né soldato», scrive Flaubert, e soggiunge che l’artista «è qualcosa di mostruoso e innaturale». Il romantico era troppo intimamente legato alla vita, al desiderio di vita; egli era tutto sentimento e natura. Per Flaubert l’artista non ha piú alcun diretto rapporto con la vita; non è che un automa, un’astrazione, qualcosa d’inumano e contro natura. Nell’opposizione al romanticismo l’arte ha perduto ogni carattere spontaneo, è ormai divenuta un premio che l’artista deve conquistare lottando con se stesso, con la sua origine romantica, le sue inclinazioni e i suoi impulsi. Per attività artistica, finora s’intendeva, se non proprio un abbandono intero al proprio talento, almeno un lasciarsene guidare; ora l’opera ha sempre l’aria di un tour de force, di un prodotto dello sforzo, di una conquista nella lotta contro se stessi. Faguet osserva che lo stile epistolare di Flaubert è ben diverso da quello dei romanzi e che il bello stile e la lingua corretta non gli riescono affatto agevoli e naturali32. Nulla illumina la distanza fra l’uomo e l’artista piú nitidamente di questa constatazione. Pochi sono gli scrittori di cui si conosca cosí bene il metodo di lavoro, ma non ce n’è sicuramente alcuno che abbia scritto le sue opere con tanto tormento e spasimo, contrastando cosí aspramente ai propri istinti. Ma quella continua lotta con la lingua, la lotta per trovare la parola giusta, l’unica giusta, non è che il segno di un’invalicabile distanza tra il «possedere» la vita e il «raccontarla». Non c’è parola, come non c’è forma, che sia l’unica giusta; sono invenzioni di esteti, per i quali la funzione vitale dell’arte è del tutto perduta. «Io preferisco crepare come un cane piuttosto che precipitare anche di un istante la mia frase, prima che sia matura»; non parla cosí uno scrittore che abbia con l’opera sua uno spontaneo rapporto umano. Lo Shakespeare di Matthew Arnold sorriderebbe di questi scru-

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poli nell’Eliso. Il lamento sulla lotta quotidiana che stordisce il cuore, il cervello e i nervi, sulla vita da forzato in catene che è costretto a fare, è il motivo dominante delle lettere di Flaubert. «Da tre giorni mi sbatto su tutti i mobili, perché mi venga in mente qualcosa», scrive nel 1853 a Louise Colet33. «Non riesco piú a distinguere i giorni della settimana... faccio una vita da pazzo, assurda... È il nulla puro, assoluto», scrive nel 1858 a Ernest Feydeau34. «Lei non sa quel che vuol dire star lì a sedere tutta una giornata, con il capo fra le mani per spremersi una parola dal povero cervello», scrive nel 1866 a George Sand35. Col suo orario regolare di sette ore al giorno egli scrive una pagina al giorno, poi venti pagine in un mese, poi due pagine in una settimana. È una cosa pietosa. «La rage des phrases t’a desséché le cœur» [«La smania delle frasi ti ha inaridito il cuore»], gli dice la madre, e forse nessuno ha detto di lui cosa piú crudele e piú giusta. Il peggio è che Flaubert, nonostante il suo estetismo, dubita anche dell’arte. In fondo, forse non è che un gioco di birilli, forse è tutta ciarlataneria, osserva egli una volta36. La sua incertezza, il suo lavoro sforzato e tormentato, a cui manca del tutto la spensieratezza degli antichi scrittori, derivano dal fatto che egli sente l’opera sua sempre in pericolo e non gli riesce di crederci veramente. «Quel che faccio adesso, – dichiara mentre lavora a Madame Bovary, – può facilmente diventare qualcosa alla Paul de Kock... In un libro come questo una riga fuor di posto può allontanare dalla meta...»37. E mentre scrive L’Education sentimentale: «Quel che mi spinge alla disperazione è il senso di far qualcosa d’inutile, contrario all’arte»38. Diventa una formula fissa nelle sue lettere dire ch’egli si occupa di cose che non gl’importano, e che non riesce mai a scrivere quel che realmente vorrebbe, né come vorrebbe39. La frase di Flaubert: «Madame Bovary, c’est moi» è doppiamente vera. Spesso dovette sembrargli che non

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solo il romanticismo dei primi anni, ma anche la reazione critica ad esso, la funzione di giudice che esercitava proprio nell’atto stesso della sua creazione fosse un falsificare la vita. Proprio perché egli visse cosí intensamente il problema di questa menzogna, la crisi dell’autoinganno, la deformazione della propria personalità, Madame Bovary è un’opera d’arte cosí vera e attuale. Con la problematica del romanticismo vennero in luce tutti i problemi dell’uomo moderno che fugge il presente, rifiuta il luogo che dovrebbe esser suo, cerca quel che è lontano, perché teme la responsabilità di quel che è prossimo e attuale. L’analisi del romanticismo portò a diagnosticare la malattia di tutto il secolo, a scoprire la nevrosi le cui vittime non hanno mai chiara coscienza del loro stato e, sempre desiderose di essere nei panni altrui, non si vedono come sono, ma come vorrebbero essere. In questo autoinganno e in questa falsificazione della vita, in questo bovarismo, come è stata chiamata la sua filosofia40, Flaubert vede l’essenza della soggettività moderna, che deforma tutto quel che tocca. Il senso che noi possediamo la realtà attraverso deformazioni, imprigionati nelle forme soggettive del nostro pensiero, trova in Madame Bovary la prima espressione artistica. Di qui una via diritta e quasi continua mena all’illusionismo di Proust41. La trasformazione della realtà attraverso la coscienza, a cui già accennava Kant, assunse nel corso dell’Ottocento carattere di un inganno ora piú o meno cosciente, ora del tutto inconscio, e si tentò di spiegarla e di smascherarla in teorie quali il materialismo storico e la psicanalisi. Con la sua interpretazione del romanticismo, Flaubert appartiene alla schiera dei grandi rivelatori e smascheratori del secolo, quindi agli iniziatori della moderna concezione introspettiva. I due maggiori romanzi flaubertiani, la storia della piccola provinciale che il suo romanticismo rende inetta alla vita, e quella del giovane borghese agiato, di

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media intelligenza, che disperde le sue forze intellettuali e le sue capacità, sono strettamente connessi. Frédéric Moreau è stato detto il figlio spirituale di Emma Bovary; ma entrambi sono frutto di quella «stanca civiltà»42 in cui si muove la vita della borghesia arrivata al potere. Entrambi incarnano la stessa confusione sentimentale e rappresentano lo stesso tipo di «falliti» cosí caratteristico per quella generazione di eredi. Zola vide nell’Education sentimentale il romanzo moderno per eccellenza; e infatti, come storia di una generazione, segna l’acme di uno sviluppo che si era iniziato con il Rouge et noir e proseguito ne La comédie humaine. È un romanzo «storico», cioè un romanzo dove protagonista è il tempo, sia come l’elemento che determina e anima i personaggi, sia come il principio che li consuma, li annienta, li inghiotte. Il romanticismo ha scoperto il tempo come realtà creativa; la lotta antiromantica svela il tempo come forza corruttrice, che mina la vita e logora gli uomini. La constatazione di Flaubert, che «nella vita non sono da temere le grandi sventure, ma le piccole»43, che, in altre parole, non si cade abbattuti dai nostri maggiori e piú sconvolgenti disinganni, ma ci si consuma lentamente insieme con le nostre speranze e le nostre ambizioni, è la realtà piú triste. Questo graduale, impercettibile, inarrestabile languire, che mina silenziosamente la vita senza produrre neppure lo schianto delle grandi, imponenti catastrofi, è l’esperienza su cui s’impernia L’Education sentimentale e, si può dire, tutto il romanzo moderno; esperienza che, per il suo carattere non tragico, anzi neppur drammatico, può esprimersi soltanto in forma narrativa. L’egemonia del romanzo nella letteratura dell’Ottocento si spiega specialmente perché il senso dell’irresistibile appiattimento e inaridimento della vita e l’idea del tempo come forza distruttiva si sono impadroniti interamente degli animi. Il romanzo sviluppa i suoi principî dal concetto del tempo

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che rode e distrugge, come la tragedia li aveva tratti dall’idea dell’eterno destino che annienta l’uomo d’un colpo. E come in questa il fato possiede sovrumana grandezza e forza metafisica, così, nel romanzo, enorme e quasi mitica è la dimensione del tempo. Nell’Education sentimentale Flaubert scopre – e in questo consiste l’importanza storica dell’opera – la costante presenza, nella nostra vita, del tempo che passa ed è passato. Egli è il primo a vedere che mutano col tempo il senso e il valore delle cose, che esse possono diventare per noi significative e importanti solo perché sono parte del nostro passato, e in questa funzione il loro valore è affatto indipendente dal loro effettivo contenuto e dai loro rapporti obiettivi. Ma questa rivalutazione del passato e l’implicito conforto che il tempo, che seppellisce noi e le rovine della nostra vita, lascia trasparire «dappertutto germi e tracce del senso perduto»44, non fa che esprimere un sentimento romantico: il presente, ogni presente, è irrilevante e vuoto, e tale fu il passato, quand’era presente. Questo è il senso delle ultime pagine de L’Education sentimentale, che sono la chiave di tutto il romanzo e di tutta la concezione flaubertiana del tempo. Questo spiega perché l’autore in queste pagine prenda a caso un episodio del passato del suo eroe e lo consideri quanto di meglio la vita potesse offrirgli. L’assoluta nullità di quell’esperienza, affatto comune e vuota, significa che nella catena della vita per noi manca sempre un anello e che ogni particolare della nostra esistenza è pieno della malinconia che deriva dalla sua assurdità obiettiva e dal senso puramente soggettivo che gli attribuiamo. Flaubert segna la massima depressione nella visione ottocentesca della vita. L’opera di Zola, pur con i suoi toni cupi, rappresenta già una speranza, una svolta in senso ottimistico. E Maupassant, sebbene altrettanto amaro, è tuttavia piú leggero e piú cinico di Flaubert; le

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sue novelle segnano già, come concezione del mondo, il trapasso alla letteratura amena borghese, ad una concezione che, quanto a elementi ottimistici e pessimistici, non è meno complicata e contraddittoria di quella dei ceti piú umili. Per giudicare rettamente, occorre in questo caso distinguere con chiarezza i sentimenti delle singole classi sociali di fronte al presente e al futuro. Le classi in ascesa, sebbene considerino il presente con gran pessimismo, hanno fiducia nell’avvenire; le classi dominanti, invece, pur nella potenza e nello splendore attuale, sovente hanno il cuore stretto da un senso d’imminente rovina. Nelle classi oppresse, ma fiduciose nella propria ascesa, il pessimismo del presente si unisce all’ottimismo del futuro; anche fra i ceti condannati al declino l’immagine del futuro contrasta con quella del presente, ma con opposti auspici. Perciò Zola, che si sente solidale con gli oppressi e gli sfruttati, giudica il presente con assoluto pessimismo, ma non gli manca la speranza nel futuro. Questo contrasto corrisponde anche alla sua visione scientifica. Com’egli stesso dichiara, Zola è un determinista, ma non un fatalista; in altre parole, egli è perfettamente conscio che il comportamento degli uomini dipende dalle condizioni materiali della loro vita, ma non crede che queste siano immutabili. Egli accetta senza riserve la teoria di Taine sull’importanza dell’ambiente, anzi la esagera, ma considera particolare compito e meta perfettamente accessibile delle scienze sociali il mutamento, il miglioramento – oggi diremmo la pianificazione – dell’ambiente in cui vivono gli uomini45. Tutto il pensiero scientifico di Zola ha quest’impronta utilitaristica ed è permeato dallo spirito di riforma e di progresso civile dell’illuminismo. Anche la sua psicologia mira a fini pratici; essa è al servizio di un’igiene spirituale e parte dalla teoria che anche sulle passioni si può influire, appena se ne colga il meccanismo. In Zola giunge all’estremo la visione scientifica propria

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dei naturalisti. Questi finora consideravano la scienza come ancella dell’arte; ma Zola inverte il rapporto. Anche Flaubert crede che l’arte sia giunta a uno stadio scientifico, e non solo si sforza di descrivere la realtà secondo la piú esatta osservazione, ma di questa accentua il carattere scientifico, anzi medico. Tuttavia non si attribuisce mai meriti diversi da quelli artistici, a differenza di Zola che invece vuol esser considerato uno studioso e accrescere il proprio valore di artista con la sua attendibilità scientifica. In questo si ha la stessa divinizzazione della scienza, lo stesso feticismo scientifico che in genere caratterizza il socialismo ed è proprio di quei ceti che dal trionfo della scienza sperano la propria ascesa. Anche per Zola, come per tutta la concezione del socialismo scientifico, l’uomo è un essere determinato nei suoi caratteri da leggi ereditarie e ambientali, ed egli va tant’oltre nel suo entusiasmo per le scienze naturali, da definire il naturalismo nel romanzo semplicemente come l’applicazione del metodo sperimentale alla letteratura. Ma qui «esperimento» è solo un parolone privo di senso, o tutt’al piú equivalente a «osservazione»46. Nelle teorie letterarie di Zola c’è un po’ di ciarlataneria, eppure i suoi romanzi hanno un certo valore teoretico, perché, sebbene non contengano alcuna novità scientifica, sono opera di un notevole sociologo, come giustamente è stato sottolineato. E, cosa importantissima per la storia dello stile, sono il risultato di un lavoro condotto con metodo scientifico, affatto nuovo nell’arte. Di solito l’artista esperimenta il mondo senza un piano né un sistema prestabilito; si direbbe ch’egli raccolga, passando, il suo materiale, dati ed elementi della vita che si porta via con sé: germi da lasciar crescere e maturare, per trarre un giorno da quella provvista ignoti, insospettati tesori. Lo scienziato invece sceglie la via opposta. Parte da un problema, cioè da un fatto di cui egli non sa nulla, o non sa precisamente quello che gl’im-

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porta. Per lui comincia, con l’impostarsi stesso del problema, la raccolta e il vaglio del materiale, cioè una piú intima conoscenza di quel settore della vita. Non è l’esperienza a portarlo al problema, ma questo all’esperienza. Ecco appunto la via e il metodo di Zola: egli comincia un nuovo romanzo come quel tal professore un nuovo corso, documentandosi con cura su un soggetto che gli è oscuro. E appunto quel che racconta Paul Alexis sulla preparazione di Nana, sulle esplorazioni di Zola nel mondo della prostituzione e del teatro, fa venire in mente quel professore. L’idea complessiva secondo cui Zola costruisce il suo ciclo romanzesco ha l’aria di un piano per qualche impresa scientifica. Secondo il programma, le singole opere costituiscono le parti di un grande sistema enciclopedico, di una summa della società moderna. «Io voglio spiegare come una famiglia, cioè un piccolo gruppo di esseri, si comporta in una società», scrive nella prefazione a La fortune des Rougon. E tale società è la Francia decadente e corrotta del Secondo Impero. Non ci può essere per un artista programma piú obiettivo, preciso, scientifico. Ma Zola non sfugge al destino del suo secolo; nonostante il suo metodo, egli è un romantico, e assai piú sfrenato degli altri contemporanei, meno radicalmente naturalisti. Anche il suo modo di razionalizzare e schematizzare la realtà, unilaterale e non dialettico, è ardito, acceso romanticismo. E i simboli a cui egli riduce la varietà molteplice, contraddittoria della vita – la città, la macchina, l’alcool, la prostituzione, il fondaco, il mercato, la borsa, il teatro, ecc. – non sono che le visioni di un sistematico, non affrancato dal romanticismo, che al posto di singoli fenomeni concreti vede allegorie. A questa inclinazione si aggiunge il fascino che ogni cosa grande, gigantesca esercita su di lui. Egli è un fanatico della massa, del numero, della rozza, compatta, inesauribile realtà di fatto. Egli s’inebria della mate-

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ria, della realtà pullulante, dello spettacolo grandioso della vita. Non per nulla è contemporaneo del grandopéra e del barone Haussmann. In quest’epoca dell’alta borghesia e del grande capitale, lo spirito pratico e antiromantico non si rivela nel naturalismo, bensí nell’idealistica letteratura amena dei ricchi borghesi. La produzione naturalistica, benché radicalmente materialista, anzi spesso appunto perché tale, offre un quadro della realtà sfrenatamente fantastico. Invece il razionalismo e il pragmatismo borghesi tendono a un’immagine del mondo equilibrata, armonica, tranquilla. Per soggetti «ideali» la borghesia intende quelli che, servono a calmare, acquetare, sopire. Alla letteratura spetta il compito di riconciliare con la vita gli infelici e gli scontenti, velando ai loro occhi la realtà e introducendoli illusoriamente in un’esistenza da cui sono e rimangono esclusi. Si mira ad abbagliare, non già illuminare. Al romanzo naturalista di Flaubert, di Zola, dei Goncourt, sempre sconvolgente, eccitante, l’élite sociale contrappone i romanzi della «Revue des Deux Mondes», specie quelli di Octave Feuillet, dove la vita e le aspirazioni del gran mondo appaiono il piú alto ideale dell’umanità civile; dove ancora ci sono veri eroi, forti, arditi e disinteressati cavalieri, figure ideali che già appartengono all’alta società, o giovani, che questa è pronta ad accogliere nel suo seno. Finora, nonostante le rivoluzioni e i mutamenti sociali, la vita dell’aristocrazia veniva sempre descritta con una certa evidenza e immediatezza; benché sorpassata, essa conservava ancora certi caratteri naturali e spontanei. Ma nei romanzi d’ora la vita del gran mondo appare come fuori d’ogni rapporto con la vita reale, in una luce da salotto pallida, vaga, gradevolmente smorzata, che ricorda gli odierni film di Hollywood. Feuillet non distingue affatto tra eleganza e cultura, belle maniere e buone qualità; per lui buona educazione e nobiltà d’animo sono sinonimi e la

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fedeltà verso le classi superiori è già prova di una certa finezza. L’eroe del suo Roman d’un jeune homme pauvre (1858) incarna la distinzione dei modi e dell’animo; è bello e generoso, sportivo e intelligente, virtuoso e sensibile, e con la sua povertà prova soltanto che l’ineguale distribuzione dei beni materiali non impedisce l’attuarsi degli ideali aristocratici. Si tratta cioè di un vero e proprio romanzo a tesi, analogo ai drammi di Augier e Dumas. Vi si proclamano e vi si esaltano i precetti della morale cristiana, del conservatorismo politico e del conformismo sociale; vi si combatte il pericolo della grande passione caotica, della selvaggia disperazione e della resistenza passiva. L’ipocrisia borghese va insieme a uno straordinario abbassamento del livello culturale. Il Secondo Impero, se dà luogo all’arte di Flaubert e di Baudelaire, è anche all’origine del cattivo gusto e del ciarpame moderno. Naturalmente neanche prima mancavano imbrattatele e poeti senza talento, opere rozze e abborracciate, idee annacquate e scadenti; ma l’opera deteriore era tale manifestamente, volgare e priva di gusto, senza pretese e senza importanza: la sciocchezza ben lisciata, la robaccia eseguita con meccanica raffinatezza, non c’erano, o almeno restavano prodotti secondari. Tutto questo invece ora diventa norma e la qualità è regolarmente sostituita dalla vuota apparenza. Si mira a un’arte che si possa godere con il minimo sforzo e il massimo piacere, eliminandone difficoltà e complicazioni, ogni elemento problematico e tormentoso, insomma riducendola ai soli aspetti piacevoli e lusinghieri. L’arte come svago, nella quale il pubblico consciamente e di proposito abbassa il proprio livello mentale, è invenzione di quel tempo; essa domina in tutte le forme, ma specialmente in quella piú decisamente e schiettamente pubblica: il teatro. Nel romanzo e nella pittura, accanto alle tendenze care al gusto borghese, domina il naturalismo; nel tea-

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tro invece non c’è nulla che si opponga agli interessi e alle idee della borghesia. Per difendersi dalle correnti che gli appaiono pericolose, il governo non soltanto si affida alla maggioranza del pubblico, composta di «benpensanti», ma le combatte con ogni sorta di prescrizioni e divieti. In quanto arte destinata a un gran pubblico, il teatro viene trattato piú severamente degli altri generi, proprio come oggi il film è soggetto a restrizioni che non si estendono alla scena. Dalla metà del secolo gli sforzi degli scrittori, in armonia con le intenzioni del governo, mirano a creare uno strumento di propaganda per l’ideologia borghese, per i suoi principî economici, sociali e morali. L’avidità di piacere delle classi dominanti, il loro debole per gli spettacoli, la loro gioia di vedere e di farsi vedere fanno del teatro la tipica arte del tempo. Nessuna società ne fu cosí amante, e mai una première ebbe tanta importanza come per il pubblico di Augier, Dumas e Offenbach47. Questa passione riesce gradita a coloro che foggiano l’opinione pubblica, che la incoraggiano e ne confermano le inclinazioni e il gusto. Il concetto del pubblico di un Sarcey, ad esempio, cioè del piú autorevole critico teatrale del tempo, è senza dubbio strettamente connesso con tale preoccupazione. La sua affermazione che la sostanza del teatro è il pubblico e che nell’esecuzione di un dramma si può astrarre da ogni cosa fuor che dallo spettatore48, non rispecchia soltanto il generale sviluppo delle scienze sociali e l’accentrarsi dell’interesse su fenomeni intellettuali collettivi. Per Sarcey il principio, che, il pubblico ha sempre ragione è la norma di ogni critica ed egli vi si attiene, benché sappia benissimo che l’antico pubblico colto è scomparso da gran tempo, e dei vecchi habitués, ancora concordi in un vero criterio di gusto, resta solo un piccolo gruppo, stabile nella sua composizione, di spettatori regolari: il pubblico delle premières49. Per Sarcey il mutamento sociale, da cui è uscito il pub-

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blico del grande teatro moderno, è un processo relativamente nuovo che avviene nell’ambito della stessa borghesia. Il rapido aumento del pubblico in seguito allo sviluppo delle ferrovie che riversano a Parigi provinciali e stranieri, sostituendo al gruppo discretamente omogeneo degli habitués una platea promiscua e occasionale, è un fenomeno su cui insistono, oltre che Sarcey, altri contemporanei, come la causa principale del mutamento di stile nel teatro50; si tratta però solo dello sviluppo piú recente, e non certo il piú importante, di un processo che risale alla Rivoluzione francese. In Francia, la svolta decisiva nel teatro moderno si compie con Scribe, che non solo è il primo che sappia portare sulla scena l’ideologia della borghesia della Restaurazione, asservita al denaro, ma con la sua commedia d’intreccio crea lo strumento piú adatto a favorire l’affermazione di tale ideologia. Dumas e Augier rappresentano soltanto una forma piú evoluta del suo bon sens ed hanno per la borghesia del 1850 lo stesso significato che Scribe aveva avuto per la Restaurazione e la monarchia di luglio. Quello ch’essi proclamano è lo stesso razionalismo piatto e utilitario, lo stesso ottimismo e materialismo superficiale; ma Scribe era piú onesto di loro e senza falsi pudori, senza sentimentalismi, parlava di denaro, di carriera, di matrimoni, di convenienza, mentr’essi parlano d’ideali, di doveri, di eterno amore. La borghesia che all’epoca di Scribe era una classe in ascesa e ancora in lotta, ora è ormai giunta alla meta e, già minacciata dal basso, crede di dover ammantare d’idealismo le sue mire materialistiche, rivelando cosí un timore, che non prova mai chi lotta ancora per il suo posto nella società. Per un’idealizzazione della borghesia non si poteva trovare piedistallo piú adatto dell’istituzione del matrimonio e della famiglia. Si poteva rappresentarla in buona fede tra le forme sociali che esprimono i piú puri,

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altruistici e nobili sentimenti; e certamente, sciolti gli antichi vincoli feudali, era l’unica istituzione che potesse assicurare stabilità e durata alla proprietà. Comunque, l’idea della famiglia come scudo della società borghese, contro le pericolose intrusioni dall’esterno e gli elementi disgregatori interni, divenne fondamento spirituale del dramma. E tanto piú si prestava, in quanto la si poteva collegare direttamente con il tema amoroso, cosa possibile con la nuova idea che veniva affermandosi dell’amore, che perdeva cosí molti dei suoi elementi romantici. Non doveva essere piú la grande passione selvaggia, né si doveva accettarlo od esaltarlo come tale. I romantici si erano sempre mostrati comprensivi e indulgenti verso l’amore sfrenato, ribelle, irresistibile: la sua giustificazione stava nella sua stessa intensità. Per il dramma borghese invece il senso e la dignità dell’amore sta nella sua durata, nel suo mantenersi nella quotidianità del matrimonio. Questo mutamento noi lo seguiamo di passo in passo dalla Marion Delorme di Victor Hugo alla Dame aux camélias e al Demi-Monde di Dumas. Già nella Dame aux camélias l’amore dell’eroe per la ragazza caduta è inconciliabile con i principî morali di una famiglia borghese, ma l’autore, almeno sentimentalmente, se pure non razionalmente, parteggia ancora per la vittima; nel Demi-Monde invece l’autore è ormai del tutto avverso alla donna di dubbia fama, che dev’essere allontanata dall’organismo sociale come un focolaio d’infezione. Essa infatti rappresenta per la famiglia borghese un pericolo ancora maggiore di una ragazza povera, ma onesta, che infine può diventare una buona madre, una fedele compagna e una fida custode del patrimonio. Se dunque si è sedotta una ragazza del genere, la si deve anche sposare, e non solo per riparare l’errore, ma anche per mettere ordine e – come Zola riassume la morale di Augier nei Fourchambault – per non finire con una bancarotta. Ma quando si è messo al mondo un figlio illegittimo –

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cosa riprovevole – si deve legittimarlo, come Dumas sostiene nel Fils naturel e in Monsieur Alphonse, soprattutto per non accrescere il numero di quegli spostati che sono un pericolo costante per la società borghese. Anche l’adulterio viene giudicato semplicemente in quanto minaccia all’istituto familiare. In certi casi lo si può perdonare all’uomo, non mai alla donna. Del resto, una donna di dubbia moralità difficilmente arriva a rompere il legame familiare (Francillon). In breve, è permesso tutto quanto è conciliabile con l’idea della famiglia, vietato tutto quanto vi contraddice. Ecco le norme e gli ideali, propugnati in tono apologetico dai drammi di Augier e Dumas, e il loro successo sta a provare che gli autori leggevano nell’animo del pubblico. Lo scarso valore di quei drammi – perché valgono poco davvero – non si deve tuttavia al fatto ch’essi servono una tendenza e sono «lavori a tesi» – tali erano anche le commedie di Aristofane e le tragedie di Corneille – ma al fatto che la tesi è imposta dall’esterno e in nessun personaggio riesce veramente a incarnarsi. Il legame inorganico fra tesi e rappresentazione vi si rivela specialmente nella figura stereotipa del raisonneur. Il semplice fatto che si abbia una figura che non ha altra funzione se non di portavoce dell’autore mostra che la teoria non esce dall’astratto e che l’ideologia di fondo non riesce a fare tutt’uno con la creazione artistica. In pratica, gli autori si fanno le loro idee, o piuttosto accettano quelle della classe dominante, sul costume e il malcostume del tempo, e in piú, indipendentemente da queste idee, hanno un certo talento per lo spettacolo, una certa capacità di suscitare interesse e tensione con i mezzi teatrali. Essi combinano questi dati e utilizzano il loro talento scenico per diffondere le opinioni e le teorie che vogliono divulgare. Ma lo fanno in modo tanto diretto e grossolano, che indirettamente contribuiscono a giustificare il principio de l’art pour l’art. Infatti nel-

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l’arte la propaganda è specialmente fastidiosa quando non arriva a fondersi interamente con le forme concrete della rappresentazione e l’idea da diffondere non coincide a pieno con la visione dell’artista. A differenza del romanticismo, il Secondo Impero è un’epoca di razionalismo, di riflessione e di analisi51. Dovunque sono in primo piano i problemi tecnici e la comprensione critica domina in ogni genere artistico. Nel romanzo Flaubert, Zola e i fratelli Goncourt, nella lirica Baudelaire e i Parnassiani, nel dramma i maestri della pièce bien faite sono gli esponenti di questo spirito critico. I problemi formali, che nelle altre forme letterarie in genere riescono appena a far da contrappeso alle tendenze sentimentali, dominano invece incondizionatamente il teatro. E non è solo per le circostanze esteriori della rappresentazione, gli stretti limiti di spazio e di tempo, il carattere di massa del pubblico e la natura immediata delle sue reazioni, che il drammaturgo è portato a preoccuparsi dei problemi di struttura e di economia artistica; già in partenza il fine didattico e propagandistico gli impone una trattazione formalmente chiara, efficiente, diretta allo scopo. Autori e critici diventano sempre piú consapevoli che il teatro è in sé tutt’altro dalla letteratura, che la scena si regge secondo una logica e leggi proprie e nel dramma la poesia spesso addirittura contrasta con l’effetto scenico. Quando Sarcey parla di prospettiva teatrale (optique de théâtre) e d’istinto teatrale (génie de théâtre) o quando dice semplicemente: c’est du théâtre, si riferisce alle convenienze sceniche, astraendo da ogni considerazione letteraria, ad un uso energico dei mezzi teatrali, alla preoccupazione di conquistare – e ad ogni costo – il pubblico; si tratta insomma, di una posizione che trasforma la scena in tribuna. Già Voltaire sapeva che in teatro era piú importante de frapper fort que de frapper juste, ma solo i tecnici e i teorici della pièce bien faite arrivano a stabilire le

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regole di questo colpir forte e dar nel segno. La loro maggiore scoperta è di aver riconosciuto che l’efficacia scenica, anzi la semplice possibilità di condurre una rappresentazione, riposa su una serie di convenzioni, regole di gioco, tricheries (trucchi), come Sarcey le chiama, e che il tacito accordo fra autore e pubblico è nel dramma ancora piú decisivo che negli altri generi. Fra le convenzioni teatrali c’è anzitutto la disposizione del pubblico a lasciarsi sorprendere dalle vicende, il suo conscio autoinganno, la sua docilità nel consentire al gioco senza opporre resistenza. Altrimenti, non solo ci annoieremmo assistendo due volte a un dramma che si regga su espedienti puramente teatrali, ma non potremmo prenderci gusto neppure la prima volta. Infatti in un lavoro di questo genere tutto deve sorprendere, benché tutto sia prevedibile. Qui le scènes à faire (le scene principali) sono gli inevitabili chiarimenti a cui, come Sarcey fa notare, il pubblico sa benissimo che si deve arrivare e si arriverà52 e il dénouement è la soluzione attesa e desiderata dallo spettatore53. Cosí il teatro diventa un gioco di società che è, sì, eseguito con tutte le regole e l’abilità piú consumata, ma tuttavia ha in sé qualcosa di ingenuo e di primitivo. Le difficoltà non derivano tanto dalla varietà del materiale, quanto dalla complicazione delle regole del gioco. Queste debbono anzitutto ricompensare gli spettatori piú esigenti del contenuto povero e trito. Il preciso funzionamento della macchina teatrale deve, insomma, dissimulare il suo girare a vuoto. Il pubblico, anche il migliore, vuole un divertimento leggero, senza sforzo; non devono esserci quindi oscurità, né problemi insolubili, né profondità insondabili. Per questo si accentua tanto il rigore della struttura, la logica delle connessioni. Il dramma deve svolgersi come un’operazione matematica; l’intima necessità dev’essere sostituita da una necessità esteriore, come l’illusoria argomentazione sostituisce l’intima verità della tesi.

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Il dénouement è la soluzione del problema. Se il risultato è sbagliato, lo è tutta l’operazione, dice Dumas. Perciò, egli pensa, si deve cominciare un lavoro dalla fine, dalla soluzione, dalla chiusa. Nulla meglio di quest’andatura da gambero illumina la differenza fra il calcolo ingegnoso, con cui si costruisce una pièce bien faite e gli impulsi irrazionali da cui si lascia trascinare il poeta. Il drammaturgo fa un passo innanzi e due indietro; deve confrontare e accordare ogni idea, ogni motivo, ogni mossa nuova con i motivi e le mosse prestabilite. Scrivere drammi obbliga di continuo ad anticipare i fatti e rifarsi ai precedenti, a ordinare e riordinare, a procedere a tastoni, elevando a poco a poco l’edificio, saggiandone di continuo la resistenza, consolidando e rincalzando i singoli piani. Un razionalismo di questo genere caratterizza piú o meno ogni prodotto artistico passabile e, in modo particolare, ogni opera drammatica rappresentabile – le opere di Shakespeare nate effettivamente per il palcoscenico, come i lavori di Augier e Dumas – ma l’efficacia della pièce bien faite sta semplicemente nella successione degli effetti e delle risorse, mentre in un dramma shakespeariano l’efficacia risulta da infinite componenti, fuor d’ogni rapporto matematico. Si sa che Emerson amava leggere Shakespeare invertendo l’ordine delle scene, rinunziando deliberatamente all’effetto teatrale per concentrarsi tutto sulla sostanza poetica. Una vera pièce bien faite letta in questo modo diventerebbe non solo intollerabile, ma anche incomprensibile, poiché i singoli elementi non hanno valore in sé, ma solo in relazione agli altri. Nel loro sviluppo, come in una partita a scacchi, tutto mira alla mossa finale; e come vi si possa giungere meccanicamente, lo mostra benissimo il metodo con cui Sardou ha fatto propria la tecnica di Scribe. Egli racconta che si limitava a leggere il primo atto dei lavori del maestro e tentava di dedurre il «giusto» seguito dalle premesse

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cosí acquisite. Col tempo, grazie a questo «puro esercizio logico», com’egli stesso lo chiama, arrivò a prevedere con approssimazione sempre maggiore la soluzione adottata da Scribe nel secondo e nel terzo atto dei suoi lavori; e nello stesso tempo giunse alla convinzione, condivisa dal Dumas, che tutta la vicenda risulti con una certa necessità dalla situazione iniziale. Per Dumas inventare una situazione drammatica ed escogitare un conflitto non era arte; piuttosto lo era preparare bene la scena madre e sciogliere agevolmente i nodi. La trama che al primo sguardo pare il dato piú spontaneo, indiscutibile e immediato del dramma, si rivela cosí l’ingrediente piú artificiale e ottenuto piú laboriosamente. Essa non è affatto pura materia prima o puro prodotto di fantasia, ma è una serie di mosse strategiche che non lasciano campo all’invenzione spontanea, né al sovrano arbitrio del poeta. A seconda delle opinioni, si può considerare l’armatura di un’opera ben costrutta come la scala per giungere a vertiginose altezze, o semplicemente come uno schema meccanico e professionale che non ha nulla in comune con l’arte e l’umanità vera. Si può entusiasticamente celebrare con Walter Pater l’ingegno dell’artista che «nel principio prevede la fine e mai la perde di vista, in ogni sua parte considera l’opera intera e fino all’ultima frase, con immutato vigore, sviluppa e giustifica la prima»; ma si può anche, come Bernard Shaw, temere che la tirannia di una tal logica risulti fatale al drammaturgo, poiché «è quasi impossibile per chi ne è schiavo dare ai suoi drammi un ultimo atto tollerabile, tanto convenzionale è il modo per cui dalle premesse discendono le conclusioni». Ma per credere che Shaw disprezzi e rifiuti davvero gli ingegnosi trucchi e artifici di questa tecnica, si dovrebbe dimenticare ch’egli è l’autore di lavori come L’alunno del diavolo e Candida che, osservati da presso, si rivelano vere e proprie pièces bien fai-

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tes. Tuttavia non solo Shaw, ma anche Ibsen e Strindberg, e con loro tutto il dramma moderno che veramente si presti alla rappresentazione, discendono piú o meno direttamente da quel modello francese. L’arte di costruire l’intreccio e provocare la tensione, di stringere il nodo dell’azione e differirne lo scioglimento, di preparare le svolte del dramma, pur non facendo mancare la sorpresa, le regole dell’esatta distribuzione e tempestività dei «colpi di scena», la casistica delle grandi tirate e delle chiuse incisive di ogni atto, la sapienza nello scegliere il momento opportuno per far calare il sipario, e mantenere incerto fino all’ultimo istante lo scioglimento: tutto questo essi lo hanno imparato da Scribe, Dumas, Augier, Labiche e Sardou. Con ciò non si vuol dire che la moderna tecnica teatrale sia creazione esclusiva di quei drammaturghi. Anzi, è possibile risalire ben oltre il melodramma e il vaudeville del periodo postrivoluzionario, oltre il dramma borghese e la commedia settecentesca, oltre la commedia dell’arte e Molière, fino addirittura alla commedia romana e alla farsa medievale. Resta tuttavia che il contributo dei maestri della pièce bien faite a questa tradizione è grandissimo. Il prodotto artistico piú originale – e per molti aspetti il piú espressivo – del Secondo Impero è l’operetta54. Neppur essa veramente è un’assoluta novità – cosa impensabile, del resto, ad uno stadio cosí avanzato della storia teatrale – ma continua due generi piú antichi, l’opera buffa e il vaudeville. In quest’epoca priva di grazia e di umorismo essa porta un riflesso dello spirito settecentesco, leggero, gaio, antiromantico. È l’unica forma giocosa di questi anni, danzante, agile e leggiadra. Fra il conformismo delle tendenze che si adattano al prosaico gusto borghese e l’anticonformismo dei naturalisti, essa costituisce un mondo a sé, un limbo. È molto piú attraente del dramma borghese o del romanzo in voga, piú socialmente rappresentativa del naturalismo e, come tale,

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e il solo genere che dia luogo ad opere popolari, adatte al gran pubblico e non prive di valore artistico. Il carattere piú saliente dell’operetta – e il piú singolare dal punto di vista del naturalismo – è l’assoluta inverosimiglianza, il carattere irreale, fantastico, fiabesco delle sue scene fuggevoli e vorticose. Essa è per l’Ottocento quel che per i secoli precedenti era stato il dramma pastorale. Il suo contenuto artificioso, gli intrecci e gli scioglimenti convenzionali sono un gioco, privo ormai di ogni rapporto con la realtà. Al tono falso dell’invenzione s’accompagna il meccanismo marionettistico dei personaggi e l’esecuzione apparentemente improvvisata. Già Sarcey nota la somiglianza fra operetta e commedia dell’arte55 e sottolinea l’impressione d’irrealtà, di sogno, che gli viene dalle composizioni di Offenbach; ma con ciò egli vuol dire soltanto che esse hanno di caratteristico una vena stranamente fantastica. Solo un moderno ammiratore di Offenbach, il viennese Karl Kraus, ha tentato di interpretare in un senso piú profondo questo loro carattere, sottolineando che nell’operetta di Offenbach la vita è inverosimile e assurda, grottesca e inquietante com’è appunto in realtà, se guardata da una certa distanza56. Naturalmente Sarcey era lontanissimo da una simile interpretazione, che forse sarebbe stata inconcepibile, prima che l’espressionismo e il surrealismo facessero risaltare l’aspetto irreale e allucinante della vita. Soltanto un occhio affinato attraverso queste esperienze artistiche era in grado di constatare che l’operetta non era unicamente un’immagine della frivola e cinica società del Secondo Impero, ma anche un’autoderisione; ch’essa esprimeva non soltanto la realtà, ma anche l’irrealtà di quel mondo; che, insomma, era nata dall’aspetto operettistico della vita stessa57, se si può dir cosí di un tempo come quello, tanto serio, posato e critico. I contadini all’aratro, gli operai nelle fabbriche, i commercianti in ufficio, i pittori a Barbizon,

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Flaubert a Croisset, erano quel che erano; ma la classe dirigente, la corte alle Tuileries, il mondo dei banchieri crapuloni, degli aristocratici dissipati, dei giornalisti risaliti e delle raffinate cocottes aveva in sé qualcosa d’inverosimile, di spettrale e caduco: era un paese da operetta, un palcoscenico dove le quinte minacciavano di crollare ogni momento. L’operetta era il prodotto di un generale laissez faire, laissez aller, cioè del liberalismo economico, sociale, morale: un mondo in cui ciascuno poteva far quel che voleva, fuor che discutere il sistema. Questa condizione significava ampia indulgenza e, d’altro canto il piú stretto rigore. Lo stesso governo che citava in giudizio Flaubert e Baudelaire, tollerava in Offenbach la piú sfrontata satira sociale, la piú insolente canzonatura del regime autoritario, della corte, dell’esercito, della burocrazia. Ma si sopportavano le beffe soltanto perché non erano o non parevano pericolose, perché le accoglieva un pubblico la cui fedeltà era indubbia, e che bastava la valvola di sicurezza di quell’innocua canzonatura ad appagare. Solo a noi quello spasso appare spettrale; i contemporanei erano sordi alla vibrazione sinistra che noi cogliamo nel folle ritmo del galoppo e del cancan di Offenbach. Ma il divertimento non era del tutto innocuo, perché vi si cercava l’ebbrezza da cui si voleva esser trascinati. L’operetta corrompeva la gente, non perché dileggiasse ogni cosa «rispettabile», non perché la derisione dell’antichità, della tragedia classica, dell’opera romantica celasse una sua critica sociale, ma perché scoteva la fiducia nelle autorità, senza negarne le basi. L’immoralismo dell’operetta consisteva nella frivola tolleranza con cui essa esercitava la sua critica verso la corruzione del sistema politico e della società contemporanea, nell’apparenza innocente ch’essa dava alla futilità delle piccole prostitute, dei galanti scapestrati e degli amabili vecchi gaudenti. La sua critica fiacca ed

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esitante non faceva che incoraggiare la corruzione. D’altronde da artisti che godevano di uno straordinario successo, e che il successo amavano sopra ogni cosa, un successo legato al perdurare di quella società indolente e avida di piaceri, non ci si poteva attendere che questo ambiguo atteggiamento. Offenbach era un ebreo tedesco, un esule, un musicista nomade, un artista doppiamente minacciato nella sua esistenza; nella capitale francese, in quel mondo corrotto e pur tanto seducente, egli doveva sentirsi doppiamente straniero, spostato, spettatore indifferente. Piú della maggior parte dei suoi colleghi egli doveva sentire la posizione problematica dell’artista nella società moderna, la contraddizione tra le sue ambizioni e il suo risentimento, il suo orgoglio di accattone che pur s’affanna a conquistare il favore del pubblico. Non era un ribelle, e neppure un democratico, anzi ben volentieri accettava il governo della «mano forte» e con animo tranquillissimo godeva i vantaggi, che il sistema politico del Secondo Impero gli offriva; ma considerava tutto quell’agitarsi intorno a lui con lo sguardo distaccato, acuto, freddo di un escluso e, senza volerlo, affrettava il declino della società a cui doveva l’esistenza. L’operetta significa in fondo l’ingresso del giornalismo nella musica. Dopo il romanzo, il dramma e l’arte grafica, ora anche il teatro musicale commenta i fatti del giorno. Ma qui il giornalismo non si limita alle strofette e alle battute comiche su fatti di attualità; tutto il genere è come una rubrica permanente degli scandali mondani. Con ragione Heine è stato chiamato il precursore di Offenbach. L’origine, il temperamento, la posizione sociale dei due sono su per giú gli stessi; entrambi sono giornalisti nati, nature critiche e positive, che non vogliono vivere ai margini della società, ma in essa, con essa, benché, certo, non sempre d’accordo con i suoi fini e i suoi mezzi.

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Nella Parigi cosmopolita della monarchia di luglio e del Secondo Impero, Heine aveva le stesse probabilità di successo di Meyerbeer e di Offenbach; ma per esprimersi non disponeva di un linguaggio universale come i suoi piú fortunati compatrioti. La sua fama rimase limitata a una cerchia relativamente angusta, mentre Meyerbeer e Offenbach conquistarono Parigi e con essa tutto il mondo civile. Non solo essi crearono due fra i generi piú caratteristici dell’arte francese, ma con piú fedeltà e larghezza dei colleghi francesi seppero essere interpreti del gusto parigino del tempo. Anzi, Offenbach può considerarsi come un vero e proprio compendio del suo tempo; l’opera sua contiene molti di quelli che sono i suoi tratti piú peculiari e originali. Già ai contemporanei parve cosí rappresentativo, ch’essi lo identificarono con lo spirito di Parigi e videro nella sua arte il perpetuarsi della tradizione classica francese. In Offenbach tutto l’Occidente sentí la gioia e il rigoglio della vita58. La granduchessa di Gerolstein si rivelò la piú grande e duratura attrattiva dell’esposizione universale del 1867; i numerosi sovrani e principi in visita a Parigi furono entusiasti dello spettacolo e dell’irresistibile Hortense Schneider nella parte della protagonista, non meno dei roués [gli smaliziati] della capitale e dei borghesucci di provincia. Lo zar di Russia, tre ore dopo il suo arrivo, era già in un palco delle Variétés; e Bismarck, benché apparentemente sapesse dominare meglio la sua impazienza, era estasiato quanto le teste coronate. Rossini chiamava Offenbach il «Mozart dei Champs Élysées» e Wagner confermò quel giudizio, ma solo dopo la morte dell’invidiato rivale. L’operetta fiorí per tutto il periodo fra le due esposizioni universali del 1855 e del 1867. Dopo le traversie politiche sulla fine del sesto decennio le venne meno il pubblico adatto, un pubblico spensierato o che si cullava nell’illusione di una spensierata sicurezza. I tempi

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migliori dell’operetta finirono in una con il Secondo Impero; le generazioni successive l’amarono, non piú come espressione viva, spontanea, immediata del presente, ma perché richiamava, come nessun’altra forma d’arte, «i bei tempi andati». Grazie a questa associazione d’idee, l’operetta sopravvisse ai rivolgimenti sullo scorcio del secolo, e in una città intellettualmente cosí volubile come Vienna rimase fino alla seconda guerra mondiale la forma piú diffusa d’idealizzazione sentimentale del passato. Ci vollero le esperienze degli ultimi vent’anni perché ci si decidesse a rivedere il concetto dei «bei tempi andati», che una parte d’Europa associava con Napoleone III e Offenbach, l’altra con l’imperatore Francesco Giuseppe e Johann Strauss. La lotta di classe, che fra il 1848 e il 1870 era stata dovunque repressa, tornò a divampare dopo il ’70, minacciando il potere di quella borghesia che piú di tutti aveva tratto profitto dalla reazione. E l’operetta apparve come l’immagine di un’esistenza sicura, tranquilla, felice: un idillio che nella realtà non era mai esistito. Ebbero ragione i Goncourt con la loro profezia che il circo, il varietà e la rivista avrebbero soppiantato il teatro. Il film, che si può annoverare fra questi tipi per le sue qualità spettacolari, ne è un’ulteriore conferma. Vicinissima al varietà e alla rivista, l’operetta non è tuttavia la forma piú antica in cui lo spettacolo trionfi sul dramma. La vera svolta era avvenuta prima, con l’affermarsi del grand-opéra, durante la monarchia di luglio, benché l’elemento spettacolare fosse sempre stato parte integrante del teatro e avesse sempre finito per prevalere sull’elemento drammatico e lirico. Cosí era avvenuto anzitutto nel teatro barocco, dove la solennità della rappresentazione, gli scenari, i costumi, le danze e le sfilate spesso soverchiavano tutto il resto. La cultura borghese della monarchia di luglio e del Secondo Impero, una cultura da villan rifatti, nel teatro cercava il monu-

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mentale, l’imponente, e della grandezza tanto piú esagerava l’apparenza quanto piú gliene mancava l’intimo senso. Sappiamo che due diversi impulsi spingono la società alla cerimonia, alla forma grandiosa e pretenziosa: il bisogno di magnificenza come sua naturale forma di vita, e la smania del colossale come ipercompensazione di un difetto sentito piú o meno dolorosamente. Il Barocco secentesco rifletteva la grandiosità connaturata alla corte e all’aristocrazia dell’era assolutistica; lo pseudo-barocco ottocentesco riflette l’ambizione che la borghesia giunta al potere ha di una grandiosità del genere. L’opera fu il suo genere preferito, perché meglio di ogni altro si prestava all’ostentazione, alla parata, allo sfarzo, all’accumulo e all’esagerazione degli effetti. Il tipo attuato da Meyerbeer includeva tutte le attrattive spettacolari creando un insieme eterogeneo di musica, canto e danza, fatto per l’occhio come per l’orecchio, e in cui tutti gli elementi miravano ad abbagliare e sbalordire lo spettatore. L’opera di Meyerbeer era un grande programma di varietà, la cui unità stava piú nel ritmo del dinamismo scenico, che nell’assoluta prevalenza della musica59. Era uno spettacolo destinato a un pubblico che non aveva nessuna intima disposizione alla musica. L’idea dell’«opera d’arte totale» si affermò qui molto tempo prima di Wagner, ed espresse un’esigenza prima ancora che si pensasse a una sua formulazione programmatica. Wagner cercò di giustificare la complessa natura dell’opera attraverso l’analogia con la tragedia greca, che in realtà non era che un oratorio; ma il desiderio di una tal giustificazione nasceva dalla barocca molteplicità del genere, che dopo Meyerbeer minacciava di diventare sempre piú «informe e privo di stile». Il grand-opéra, cui sono ancora legati i Maestri cantori e l’Aida, e che rappresenta una convenzione anche piú rigida dell’antica opera italiana60, poté affermarsi perché la cultura della borghesia francese era esemplare per

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tutto il continente e dappertutto rispondeva a schiette esigenze radicate nella realtà sociale. Nulla vi si adeguava meglio dell’arte di Meyerbeer, che organizzava tutti i mezzi a sua disposizione – l’orchestra gigantesca, l’immenso palcoscenico, il grande coro – in un insieme che voleva soltanto imporsi, sopraffare e soggiogare. A ciò mirava anzitutto il grande finale, che spesso riuscí a trovare nuovi effetti visivi e musicali, che non avevano nulla di comune con la profonda umanità del finale mozartiano, né con la danzante grazia di quello rossiniano. Quel che noi chiamiamo di solito «operistico» – la monumentalità scenografica, l’enfasi vacua, il tonante eroismo, il falso pathos, il linguaggio artificioso – non è tuttavia creazione di Meyerbeer, né appartiene unicamente a questo genere di spettacolo. Persino un artista di gusto così castigato come Flaubert non è del tutto esente da teatralità. Essa fa parte dell’eredità romantica di quella generazione, e al suo sviluppo Victor Hugo contribuí non meno di Meyerbeer. Fra tutti i grandi musicisti del tempo Riccardo Wagner è quello piú vicino allo stile operistico di Meyerbeer: e non solo perché cerca di legarsi alla vita teatrale del tempo, ma anche perché nessuno piú di lui tiene al successo. Egli accetta la convenzione dominante senza intima opposizione e, come è stato giustamente osservato, solo a poco a poco trova una sua originalità, percorre cioè uno sviluppo contrario a quello solito che in genere parte da un’esperienza individuale, da una scoperta personale e finisce in maniera61. Ma assai piú sorprendente dei suoi rapporti con il grandopéra, è in Wagner la fedeltà a una forma che unisce l’espressione dei sentimenti piú intimi, fervidi ed elevati, con il fasto del Secondo Impero. Infatti non solo il Rienzi e il Tannhaüser sono opere ancora pienamente coreografiche in cui predomina l’apparato scenico, ma anche i Maestri cantori e il Parsifal sono in certa misura

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spettacoli musicali che vogliono impegnare tutti i sensi e superare tutte le aspettative. L’amore della grandiosità e della massa è forte in Wagner quanto in Meyerbeer e in Zola; e, come Victor Hugo e Dumas, egli è nato per il teatro, è un «istrione», un «mimomane», come disse Nietzsche62. Ma questa sua teatralità non viene dalle sue opere, anzi queste non sono che espressione del suo indiscriminato gusto teatrale e della sua natura sonora, tutta ostentazione. Come Meyerbeer, Napoleone III, la Païva o Zola, anch’egli ama l’eccessivo, il prezioso, il voluttuoso; e le sue opere ricordano i salotti di allora, pieni di tappeti e di portiere, di mobili rivestiti di seta, velluto, broccato d’oro, anche quando non si sappia ch’egli voleva gli scenari dipinti da Makart63. La sua smania di magnificenza ed esuberanza ha origini complicate; ci sono elementi che risalgono non soltanto a Makart, ma anche a Delacroix. Fra la Morte di Sardanapalo e il Crepuscolo degli Dei corrono stretti rapporti come tra il fasto del grand-opéra parigino e i festival di Bayreuth. Ma neppure questo esaurisce l’argomento; non solo il sensualismo di Wagner è piú elementare dell’avidità di fasto, ma anche piú genuino e spontaneo di tutto il misticismo di quel tempo, espresso dalla formula: «il sangue, la voluttà e la morte». Non per nulla l’opera sua apparve per molti dei piú raffinati spiriti del secolo la quintessenza dell’arte, il paradigma da cui essi traevano il senso e il principio della musica. Certo essa fu l’ultima e forse la maggior manifestazione del romanticismo, l’unica sua forma tuttora viva, l’unica che ne riveli pienamente l’effetto inebriante sui contemporanei, che vi ravvisarono il rifiuto di ogni convenzione e la scoperta di un misterioso mondo sepolto. È comprensibile, benché sulle prime sorprendente e in definitiva spiegabile solo col generale clima del tempo, che Baudelaire, che per natura era alieno dalla musica, ma è il solo fra i contemporanei di

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Wagner che sappia comunicarci quello stesso senso di felicità che sgorga dalla musica del Tristano, sia anche stato il primo a riconoscere l’importanza dell’arte wagneriana. Wagner ha in comune con Baudelaire, oltre alla grande eccitabilità nervosa, la passione per l’ipnosi e per i mezzi ipnotizzanti, i sentimenti quasi religiosi e il romantico desiderio di redenzione. E a Flaubert, oltre il debole per i colori ardenti e le forme esuberanti, lo unisce il geniale dilettantismo e l’atteggiamento riflesso verso l’opera propria. Anche l’ingegno di Wagner, come quello di Flaubert, manca di spontaneità e di naturalezza, ed alle sue opere egli arriva attraverso una lotta quasi altrettanto violenta e disperata e con un’uguale diffidenza verso l’arte. A ventott’anni nessuno fra i grandi maestri era cosí cattivo musicista come lui, osserva Nietzsche, e nessun grande artista, eccettuato Flaubert, dubitò cosí a lungo del proprio talento. Per entrambi l’arte fu il martirio di tutta l’esistenza, entrambi sentivano ch’essa li separava dalla vita, e consideravano invalicabile l’abisso tra arte e realtà, tra l’avoir e il dire. Appartenevano alla stessa generazione di quei tardi romantici che lottavano incessantemente e disperatamente contro il proprio egoismo di esteti.

Cfr. il discorso di Tocqueville all’Assemblea nazionale citato da paul louis, Histoire du socialisme en France, 3a ed., 1936, II, p. 191. 2 Ibid., pp. 200-1. 3 Ibid., p. 197. 4 pierre martino, Le Roman réaliste sous le Second Empire, 1913, p. 85. 5 a. thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours, 1936, p. 361. 6 émile bouvier, La Bataille réaliste, 1913, p. 237. 7 jules coulin, Die sozialistische Weltanschauung in der französischen Malerei, 1909, p. 61. 1

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte é. zola, La République et la littérature, 1879. oliver larkin, Courbet and his Contemporaries, in «Science and Society», III, 1939, I, p. 44. 10 é. bouvier, La Bataille réaliste cit., p. 248. 11 Cfr. léon rosenthal, La Peinture romantique, 1903, pp. 267-268. - henri focillon, La Peinture aux xixe et xxe siècles, 1928, pp. 74-101. 12 h. j. hunt, Le Socialisme et le romantisme en France, 1935, pp. 342-44. 13 Cfr. la lettera a Victor Hugo del 15 luglio 1853, in Correspondance, ed. Conard, III, 1910, p. 6. 14 Ibid., II, pp. 116-17, 366. 15 Ibid., III, pp. 120, 390. 16 e. e j. de goncourt, Journal, 29 gennaio 1863, ed. FlammarionFasquelle, II, p. 67. 17 gustave flaubert, Correspondance, III, pp. 485, 490, 508. - L’Éducation sentimentale, II, 3 [trad. it., L’educazione sentimentale, Torino 1949]. - ernest seillière, Le Romantisme des réalistes: Gustave Flaubert, 1914, p. 257. - eugen haas, Flaubert und die Politik, 1931, p. 30. 18 Lettera a Mlle Leroyer de Chantepie del 18 Maggio 1857, in Correspondance, III, p. 119. 19 eugène gilbert, Le Roman en France pendant le 19e siècle, 1909, p. 157. 20 Correspondance, III, pp. 157, 448, ecc. 21 «Le Moniteur», 4 Maggio 1857. - Causeries du Lundi, XIII. 22 é. zola, Les Romanciers naturalistes, 1881, 2a ed., pp. 126-29. 23 Correspondance, II, p. 182, III, p. 113. 24 Ibid., II, p. 112. 25 a. thibaudet, Gustave Flaubert, 1922, p. 12. 26 Correspondance, II, p. 155. 27 g. lukäcs, Die Seele und die Formen (Theodor Storm oder die Bürgerlichkeit und l’art pour l’art), 1911. - t. mann, Betrachtungen eines Unpolitischen, 1918, pp. 69-70. 28 georg keferstein, Bürgertum und Bürgerlichkeit bei Goethe, 1933, pp. 126-22 29 Correspondance, I, p. 238, settembre 1851. 30 Ibid., IV, p. 244, dicembre 1875. 31 Ibid., III, p. 119. 32 é. faguet, Flaubert, 1913, p. 145. 33 Correspondance, II, p. 237. 34 Ibid., III, p. 190. 35 Ibid., p. 446. 36 Ibid., II, p. 70. 37 Ibid., p. 137. 8 9

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte Ibid., III, p. 440. Ibid., II, p. 133, 140-41, 336. 40 jules de gaultier, Le Bovarysme, 1902. 41 édouard maynial, Flaubert, 1943, pp. 111-12. 42 paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885, p. 144. 43 Correspondance, I p. 289. 44 g. lukàcs, Die Theorie des Romans, 1920, p. 131. 45 é. zola, Le Roman expérimental, 1880, 2e ed., pp. 24, 28. 46 charles-brun, Le Roman social en France au 19e siècle, 1910, p. 158. 47 andré bellessort, La Société française sous le second Empire, in «La Revue Hebdomadaire», 1932, 12, pp. 290, 292. 48 francisque sarcey, Quarante ans de théâtre, I, 1900, pp. 120, 122. 49 Ibid., pp. 209-12. 50 J.-J. weiss, Le Théâtre et les mœurs, 1889, pp. 121-22. - Cfr. la prefazione di Renan ai Drames philosophiques, 1888. 51 a. thibaudet, Gustave Flaubert cit., 295 sgg. 52 sarcey, Quarante ans de théâtre cit., V, p. 94. 53 Ibid., p. 286. 54 Cfr. jules lemaitre, Impressions de théâtre, I, 1888, p. 217. 55 sarcey, Quarante ans de théâtre cit., VI, 1901, p. 180. 56 s. kracauer, Jacques Offenbach und das Paris seiner Zeit, 1937, p. 349. 57 Ibid., p. 270. 58 Cfr. fleury-sonolet, La Société du second Empire, III, 1913, p. 387 59 paul bekker, Wandlungen der Oper, 1934, p. 86. 60 lionel de la laurencie, Le Gotit musical en France, 1905, p. 292. - william l. crosten, French Grand Opera, 1948, p. 106. 61 a. einstein, Music in the Romantic Era cit., p. 231. 62 friedrich nietzsche, Der Fall Wagner, 1888. Nietzsche contra Wagner, 1888. 63 Cfr. t. mann, Betracktungen eines Unpolitischen, 1918, p. 75. Leiden und Größe der Meister, 1935, pp. 145 sgg. 38 39

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Capitolo terzo Il romanzo sociale in Inghilterra e in Russia

La rivoluzione industriale ebbe in Inghilterra i suoi inizi e in Inghilterra raggiunse gli sviluppi piú fecondi e suscitò le piú forti e appassionate proteste. Ma le accuse non impedirono alle classi dirigenti di opporsi con la massima energia e con pieno successo alla rivoluzione sociale. Mentre in Francia una parte degli intellettuali e dei letterati, dopo le esperienze della Rivoluzione, cominciò ad assumere un atteggiamento antidemocratico, qui, dopo il fallimento dei tentativi rivoluzionari, l’orientamento degli intellettuali rimase, se non sempre rivoluzionario, in complesso radicale. Tuttavia una differenza fondamentale divise le élites dei due paesi: mentre gli intellettuali francesi erano e rimasero fortemente razionalisti, comunque fossero orientati rispetto alla rivoluzione e alla democrazia, gli inglesi invece, nonostante le loro tendenze radicali e la loro opposizione all’industrialismo, spesso anzi perché contrari alla società dominante, si orientarono verso un disperato irrazionalismo rifugiandosi nel nebuloso idealismo dei romantici tedeschi. Cosa strana, in Inghilterra i capitalisti e i fautori dell’utilitarismo erano piú profondamente legati alla filosofia illuministica che non i loro avversari che negavano il principio della libera concorrenza e della divisione del lavoro. Dal punto di vista della storia delle idee, in ogni caso, gli idealisti nemici delle macchine erano i reazio-

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nari, mentre materialisti e capitalisti rappresentavano il razionalismo e il progresso. La libertà economica e il liberalismo politico avevano comuni radici storiche; erano entrambi conquiste dell’illuminismo e logicamente erano inscindibili. Partendo dalla libertà personale e dall’individualismo, si dovette accettare la libera concorrenza come parte integrante dei diritti dell’uomo. L’emancipazione della borghesia fu un passo necessario nella liquidazione del feudalesimo e a sua volta postulò l’affrancarsi dell’economia dai vincoli e dalle restrizioni del Medioevo. La conquista della parità dei diritti da parte della borghesia si spiega soltanto come risultato di un processo in cui le forme dell’economia precapitalistica furono via via superate. Solo dopo che l’economia ebbe raggiunto una completa autonomia e le classi medie si furono liberate dei rigidi vincoli del sistema feudale, si poté pensare alla liberazione della società dall’anarchia della libera concorrenza. Ed era inoltre del tutto vano combattere singole manifestazioni del capitalismo senza rimettere in discussione l’intero sistema. Finché l’economia capitalistica non fu revocata in dubbio, fu possibile soltanto parlare di attenuazioni filantropiche dei suoi abusi. L’attenersi ai principî razionalistici e liberali era l’unica via per mettervi riparo; occorreva soltanto allargare il concetto di libertà oltre i limiti borghesi. Invece l’abbandono della ratio e dell’idea liberale, per quanto buona e onesta ne fosse l’intenzione, doveva portare a un incontrollabile intuizionismo e a una specie di minorità dell’intelletto. Questo pericolo, sempre presente in Carlyle, minaccia l’idealismo dei piú fra i pensatori vittoriani, e il proverbiale compromesso del tempo, la via di mezzo fra tradizione e progresso, non è mai cosí palese come nel ribelle romantico, nostalgicamente volto al passato. Nessuno dei vittoriani piú noti sfugge del tutto al compromesso, e l’ambiguità che ne deriva pregiudica

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l’influsso politico anche di un radicale cosí schietto come Dickens. In Francia gli intellettuali si sentivano costretti a scegliere tra rivoluzione e politica borghese e, se spesso la scelta era legata anche a un dissidio dei sentimenti, era tuttavia chiara e definitiva. In Inghilterra invece anche quella parte dei ceti intellettuali che si opponeva al capitalismo partiva spesso da una visione altrettanto conservatrice, o perfino piú arretrata, di quella della borghesia capitalistica. I seguaci dell’utilitarismo, che rappresentavano i principî dell’economia industriale, erano i discepoli di Adam Smith e i campioni della dottrina secondo cui l’economia lasciata a se stessa rispondeva meglio d’ogni altra, non solo allo spirito del liberalismo, ma anche agli interessi della comunità. Contro di loro si scatenava l’opposizione degli idealisti che batteva non tanto sulla insostenibilità della tesi quanto sul loro fatalismo nel rappresentare gli istinti egoistici come movente fondamentale e invariabile dell’azione, sulla necessità matematica con cui si credeva di poter dedurre le leggi dell’economia e della società dall’egoismo umano. La protesta degli idealisti contro questa riduzione dell’uomo all’homo œconomicus era l’eterna protesta della romantica «filosofia della vita» – la fede cioè nella vita che non si può risolvere intera nella logica né costringere senza residui nella teoria – contro il razionalismo e il pensiero che astrae dall’immediata realtà. Fu questo un secondo romanticismo, in cui la lotta contro l’ingiustizia sociale e l’opposizione alla concretezza della dismal science [funesta scienza] ebbero parte assai minore della fuga dal presente – di cui non si potevano e non si volevano risolvere i problemi – nell’irrazionalismo dei Burke, dei Coleridge e dei romantici tedeschi. L’invocazione a un intervento dello stato, specie in Carlyle, era segno a un tempo di inclinazioni antiliberali, autoritarie, e di sentimenti umanitari, altruistici; e nel suo lamento sull’a-

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tomizzarsi della società si esprimeva tanto il desiderio di comunione quanto la nostalgia di un capo diletto e temuto. Passato il tempo migliore del romanticismo inglese, verso il 1815 comincia a diffondersi un razionalismo antiromantico, che culmina nella riforma elettorale del 1832, nel nuovo Parlamento e nel trionfo della borghesia. Questa, giunta al potere, si fa sempre piú conservatrice e oppone alle aspirazioni democratiche una reazione che ha di nuovo un carattere essenzialmente romantico. Accanto all’Inghilterra razionalistica si afferma un’Inghilterra sentimentale; e il capitalista indurito, di mente chiara e fredda, si mette a civettare con idee filantropiche, umanitarie, riformistiche. La reazione ideale al liberismo, assume la forma di una questione intima, di un autosalvataggio morale della borghesia; è opera cioè di quello stesso ceto che nella pratica rappresenta il principio liberistico e nel compromesso vittoriano crea quell’elemento che equilibra il materialismo e l’egoismo. Gli anni fra il 1832 e il 1848 sono un tempo di acutissima crisi sociale, di torbidi e di lotte cruente tra capitale e lavoro. Dopo il Reform bill [riforma elettorale] il proletariato inglese ha avuto dalla borghesia lo stesso trattamento di quello francese dopo il 1830. L’aristocrazia e il popolo sono cosí quasi uniti da un comune destino contro lo stesso nemico, la borghesia capitalistica. Veramente è un legame effimero, che non può condurre mai a una vera comunione d’interessi né a fraternità d’armi, ma basta a velare la realtà agli occhi d’un pensatore cosí emotivo come Carlyle e a trasformare la sua lotta contro il capitalismo in un’esaltazione romantico-reazionaria della storia. Mentre in Francia l’odio contro la borghesia si esprime in un rigoroso e sobrio naturalismo, in Inghilterra, dove dal Seicento non si sono piú avute rivoluzioni e si ignorano le espe-

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rienze e le delusioni politiche dei francesi, si assiste al sorgere di un secondo romanticismo. Questo in Francia verso la metà del secolo è già superato come movimento e l’ultima polemica intorno ad esso ha il carattere di una questione piú o meno personale. In Inghilterra le cose vanno altrimenti; qui l’antagonismo tra tendenze razionalistiche e irrazionalistiche non si limita ad essere un conflitto intimo, come in Flaubert, ma divide il paese in due campi, in realtà molto piú eterogenei delle «due nazioni» di Disraeli. Anche qui, come in tutto l’Occidente, la tendenza dominante è quella positivistica, rispondente ai principî del razionalismo e del naturalismo. Non solo gli arbitri del potere politico ed economico, non solo i tecnici e gli studiosi, ma anche l’uomo comune e quello legato alla consuetudine del suo mestiere, pensano da razionalisti e avversano la tradizione. La letteratura del tempo invece è pervasa di romantica nostalgia per il Medioevo e per un’Utopia in cui non valgono le leggi dell’economia capitalistica, dell’attività commerciale, della vita ormai prosaica e disincantata. Il feudalesimo di Disraeli è romanticismo politico; il «movimento di Oxford», romanticismo religioso; la critica alla civiltà di Carlyle, romanticismo sociale; la filosofia artistica di Ruskin, romanticismo estetico: teorie e correnti tutte che negano il liberalismo e il razionalismo, e di fronte ai problemi del presente si rifugiano in un ordine superiore, sovrapersonale e sovrannaturale, in una stabilità non soggetta all’anarchia della società liberale e individualistica. La voce piú alta e piú seducente è quella di Carlyle, il primo e il piú originale di quei flautisti acchiappatopi che aprono la via ai Mussolini e agli Hitler. Infatti, per quanto importante e fecondo sia stato, sotto certi aspetti, il suo influsso, e tanto a lui debba anche l’epoca moderna nella sua lotta per una piú diretta rispondenza spirituale delle forme della civiltà, egli fu un confusionario, e con i fumi del

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suo entusiasmo per l’infinito e l’eterno, con la sua morale del superuomo e la mistica dell’eroe, annebbiò e oscurò i fatti per intere generazioni. L’immediato erede di Carlyle è Ruskin, che deriva da lui gli argomenti contro il liberalismo e l’industrialismo, ripete le sue querele contro la civiltà moderna senz’anima e senza Dio, partecipa alla sua esaltazione per il Medioevo e la civiltà unitaria dell’Occidente cristiano. Ma egli trasforma l’astratto culto degli eroi in un culto della bellezza pieno di significato, il vago romanticismo sociale in un idealismo estetico volto a compiti concreti e fini esattamente definibili. Nulla prova l’opportunità storica e la concretezza delle teorie ruskiniane, meglio del fatto ch’egli poté divenire il portavoce di un movimento cosí rappresentativo come il preraffaellismo. Le sue idee e i suoi ideali erano nell’aria: soprattutto il rifiuto dell’arte rinascimentale, della forma grande, opulenta, autonoma e sovrana e il ritorno all’arte preclassica, «gotica», alle rigide e ispirate espressioni dei «primitivi»; erano i sintomi di una generale crisi della cultura, che abbracciava tutta la società. Le teorie di Ruskin e l’arte dei preraffaelliti sorgono dallo stesso clima spirituale e rappresentano un’uguale protesta contro la convenzionale visione della vita e dell’arte che domina l’Inghilterra vittoriana. Quello che Ruskin intende per degenerazione dell’arte a partire dal Rinascimento, i preraffaelliti lo vedono e lo combattono nell’accademia del tempo. La loro lotta prende di mira soprattutto il classicismo, il canone di bellezza della scuola raffaellesca, cioè il vuoto formalismo e la meccanica levigatezza di un’arte, che la borghesia vuol portare come prova della sua rispettabilità, della sua morale puritana, dei suoi alti ideali e del suo senso poetico. La borghesia vittoriana ha la fissazione della «grande arte»1 e il cattivo gusto che domina nell’architettura, nella pittura e nelle arti «minori» è in sostanza la conseguenza

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di un autoinganno e di una presunzione che le impediscono un’espressione spontanea della sua natura. La pittura vittoriana brulica di temi storici, poetici, aneddotici; è pittura «letteraria» per eccellenza, un’arte ibrida, in cui, del resto, piú che l’abbondanza di motivi letterari è deplorevole la penuria di valori pittorici. È soprattutto la paura di ogni sensualità e spontaneità ad impedire che qui si diffonda lo schietto, rigoglioso pittoricismo dei francesi. Ma la natura, scacciata dalla porta, rientra dalla finestra. Nella collezione Chantrey, singolare monumento del mal gusto vittoriano, c’è un quadro in cui una giovane suora, rinunziando al mondo, ne rifiuta perfino le vesti. Affatto nuda, essa è inginocchiata davanti all’altare, nella penombra notturna di una cappella, e mostra ai monaci che stan dietro di lei le forme seducenti del suo tenero corpo. Non si può immaginare cosa piú penosa di un tal quadro, che appartiene alla peggiore, perché meno sincera, specie di pornografia. La pittura preraffaellita è letteraria e «poetica» come tutta l’arte vittoriana; ma ai soggetti che di per sé non si prestano ad essere perfettamente risolti in pittura, essa unisce certi valori pittorici, spesso non soltanto attraentissimi, ma anche nuovi. Allo spiritualismo vittoriano, ai soggetti storici, religiosi, letterari, alle allegorie morali e ai simboli fiabeschi essa unisce un sensualismo che si esprime nella gioia del minuto particolare, nel gioco di contraffare ogni stelo, ogni piega. Questa precisione non riflette soltanto il generale naturalismo dell’arte europea, ma anche un’etica del lavoro propria della borghesia, che vede un criterio di valore artistico nell’irreprensibile mestiere, nell’esecuzione accurata degli antichi maestri. Seguendo questo ideale dell’arte vittoriana, i preraffaelliti accentuano la perizia tecnica, l’abilità mimetica, la perfezione dell’ultima mano. I loro quadri sono politi quanto quelli degli acca-

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demici, e il contrasto tra i preraffaelliti e gli altri pittori vittoriani ci appare molto minore di quello che si nota tra naturalisti e accademici in Francia. I preraffaelliti sono idealisti, moralisti, erotici impauriti, come la massima parte dei vittoriani. Hanno dell’arte lo stesso concetto contraddittorio, tradiscono lo stesso imbarazzo, le stesse inibizioni nel dare espressione artistica alla loro esperienza, e tale è l’impaccio puritano di fronte al mezzo espressivo, che le loro opere fanno sempre l’effetto di un timido, benché geniale dilettantismo. Questa distanza fra l’artista e l’opera aggrava l’aspetto artigianale proprio della pittura preraffaellita. Perciò essa appare cosí artefatta, manierata, leggiadra e affettata e ha sempre in sé qualcosa di stilizzato e irreale, che ricorda gli ingegnosi arabeschi dei tappeti. Il tono del moderno simbolismo, prezioso, intellettualistico e, nonostante la sua natura lirica, freddo; l’acerba grazia e l’angolosità un po’ ricercata dei neoromantici; il ritegno, la studiata ritrosia, l’ermetismo dell’arte sullo scorcio del secolo risalgono in parte a questa stilizzazione. Il preraffaellismo è un movimento estetizzante, un estremo culto della bellezza, un tentativo di dar valore alla vita richiamandosi all’arte. Ma anch’esso, al pari della filosofia di Ruskin, non può indentificarsi con l’art pour l’art. La tesi che il supremo valore dell’arte consista nell’espressione di «un animo buono e grande»2 rifletteva la persuasione di tutti i preraffaelliti. Essi erano certo degli edonisti mancati, ma vivevano nella fede che il loro gioco formale avesse un fine superiore, la virtú di elevare e di educare. In loro, estetismo e moralismo erano in aperta contraddizione, come arcaismo e minuzia naturalistica dei particolari3. La stessa contraddizione vittoriana è patente anche negli scritti di Ruskin; il suo intellettualistico entusiasmo per l’arte non sempre si può conciliare con il suo messaggio sociale, che vede possibile la perfetta bellezza solo in una

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comunità retta da solidarietà e giustizia. Una grande arte è l’espressione di una società moralmente sana; nel tempo materialista della macchina fatalmente intristiscono il senso della bellezza e la facoltà di creare valori d’arte. La stereotipa accusa contro la moderna società capitalistica di uccidere l’anima con l’impronta della moneta e con i suoi metodi meccanici di produzione, già l’aveva lanciata Carlyle; Ruskin non fa che ripetere le parole del predecessore. E neppure il lamento sulla decadenza dell’arte è nuovo. Anzi è antico quanto la leggenda dell’età dell’oro l’atteggiamento verso l’arte contemporanea, che la considera inferiore a quella del passato e pretende di vedere in essa i segni della stessa decadenza che affligge i costumi. Ma finora nel declino dell’arte non si era mai scorto il sintomo di una malattia che minasse tutto l’organismo sociale, né mai prima di Ruskin il legame organico fra l’arte e la società era stato visto con tanta chiarezza4. Senza dubbio egli fu il primo a concepire lo scadere dell’arte e del gusto come segno di una generale crisi della civiltà e ad enunciare il principio, fondamentale anche se neppure oggi abbastanza apprezzato, che si debbono mutare anzitutto le condizioni di vita se si vuole suscitare nell’uomo il senso della bellezza e la comprensione dell’arte. Questa scoperta lo indusse ad abbandonare la storia dell’arte per l’economia politica; e, riconoscendo il materialismo di questa scienza, si scostò dall’idealismo di Carlyle. Inoltre Ruskin fu il primo in Inghilterra a sostenere fermamente che l’arte è di pubblico interesse e che il favorirla è uno dei compiti piú importanti dello stato; che, in altre parole, essa è necessaria alla società e nessuna nazione può trascurarla senza pericolo per la sua vita intellettuale. Infine egli fu il primo a proclamare che l’arte non è privilegio di artisti, esperti e persone colte, ma retaggio e proprietà di tutti. Tuttavia egli non era un socialista, anzi neppure un vero democratico5. La plato-

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nica repubblica dei filosofi, nella quale la bellezza e la saggezza erano i principî informatori, era la forma piú vicina al suo ideale, e quanto al suo «socialismo» si limitava ad asserire che l’uomo è educabile e ha diritto alla cultura. Secondo lui, la vera ricchezza non consiste nel possesso di beni materiali, ma nella capacità di godere la bellezza della vita e dell’arte. Questo quietismo estetico e il rifiuto di ogni violenza sono i limiti del suo riformismo6. William Morris, il terzo di quelli che si occupano di critica della cultura nell’epoca vittoriana, è assai piú coerente in teoria e progredito nella pratica, di Ruskin. Per certi riguardi egli di fatto è il piú grande7, cioè il piú audace, il piú intransigente dei vittoriani, benché non sappia liberarsi del tutto dalle contraddizioni e dai compromessi. Ma dalla teoria ruskiniana sul legame fatale dell’arte con la società egli ha saputo trarre l’estrema conseguenza, giungendo alla persuasione che «fare dei socialisti» fosse piú urgente che fare della buona arte. L’idea di Ruskin che l’inferiorità dell’arte moderna, il declino della cultura artistica, il cattivo gusto del pubblico non fossero che sintomi di un male piú profondo ed esteso, egli la sviluppò fino in fondo, e comprese che era insensato voler migliorare l’arte e il gusto, lasciando immutata la società. Egli sapeva che è inutile cercare d’influire direttamente sullo sviluppo artistico e che al massimo si possono creare condizioni sociali che ne permettano una migliore comprensione. Egli era perfettamente consapevole della lotta di classe, nelle cui forme si svolge il processo sociale e quindi anche l’evoluzione artistica, e considerava il compito piú importante renderne conscio il proletariato8. Benché chiare sui fatti fondamentali, le teorie e le esigenze di Morris contengono tuttavia, come si è detto, numerose contraddizioni. Nonostante il suo realismo nel concepire la natura e la funzione sociale dell’arte, egli è un romantico

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invaghito del Medioevo e del suo ideale di bellezza. Predica la necessità di un’arte fatta dal popolo e per il popolo, ma resta un dilettante fallito e fa cose che solo i ricchi possono comprare e solo i colti godere. Egli sostiene che l’arte nasce dal lavoro, dall’esercizio del mestiere, ma non riconosce l’importanza del massimo e piú pratico strumento della produzione moderna, la macchina. La fonte delle contraddizioni fra la sua dottrina e la sua attività d’artista va cercata nel tradizionalismo piccolo-borghese con cui i suoi maestri, Carlyle e Ruskin, giudicano l’epoca della tecnica, e nel loro provincialismo da cui, egli non sa liberarsi del tutto. Ruskin deduceva la decadenza dell’arte dal fatto che la moderna fabbrica, con il suo metodo di produzione meccanica e la sua divisione del lavoro, impedisce al lavoratore un intimo rapporto con l’opera sua, cioè priva il lavoro di una sua anima ed estrania il produttore dal prodotto delle sue mani. La lotta contro l’industrialismo veniva a perdere in lui il significato di lotta contro il proletarizzarsi delle masse per trasformarsi in romantico entusiasmo per qualcosa che non poteva ripetersi, cioè per il lavoro artigianale, l’industria casalinga, le corporazioni, insomma le forme medievali di produzione. Il merito di Ruskin è di aver additato la bruttezza dell’arte applicata dell’età vittoriana, e, di fronte ai materiali spuri, alla forma assurda e all’esecuzione rozza e a buon mercato, di aver richiamato alla memoria dei suoi contemporanei il fascino del lavoro a mano, solido e accurato. Il suo influsso fu vastissimo, quasi inestimabile. Il lavoro nell’ambito di un’officina relativamente piccola, in cui i rapporti fra i lavoratori conservassero un carattere personale, in cui il lavoro a mano fosse assolutamente prevalente e ogni lavoratore attendesse a un’opera singola, completa, divenne l’ideale della moderna produzione artistica e artigiana. Il carattere pratico e solido dell’architettura e dell’arte industriale moderna

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sono in gran parte il risultato degli sforzi e dell’insegnamento di Ruskin. Ma il loro effetto immediato fu quello di provocare un culto esagerato del lavoro a mano, che misconosceva i compiti e le possibilità dell’industria meccanica, e di destare una speranza che doveva andare delusa. Era romanticismo, irrazionalismo della peggior specie credere che le conquiste tecniche, sorte da reali bisogni e in vista di concreti vantaggi economici, potessero venire semplicemente respinte. Era quanto mai ingenuo voler fermare lo sviluppo tecnico ed economico con polemiche e proteste. Ruskin e i suoi discepoli avevano ragione in quanto effettivamente gli uomini vennero a perdere il dominio sulla macchina, la tecnica si rese indipendente e, specie nel campo dell’arte industriale, produsse gli oggetti piú repellenti e privi di gusto; ma essi dimenticavano che per dominare la macchina non c’era altra via che accettarla di buon grado e sottoporla allo spirito. L’errore stava anzitutto nella troppo angusta definizione della tecnica, nel disconoscere la natura tecnica di ogni concreta produzione, di ogni applicazione pratica, di ogni contatto con la realtà obiettiva. All’arte occorre sempre un espediente materiale, tecnico, uno strumento, una «macchina»; ed è cosa tanto evidente che si è potuto vedere appunto in questo suo carattere mediato, nella natura materiale dei suoi mezzi, nel suo condizionamento tecnico uno dei suoi caratteri piú essenziali. Forse l’arte è proprio la piú sensibile, la piú tangibile «manifestazione» dello spirito e già come tale è legata a qualcosa di concreto, a una tecnica, a uno strumento, sia questo il telaio a mano o il telaio meccanico, il pennello o la macchina da presa, il violino o – per nominar qualcosa di veramente orribile – la macchina del sonoro. Perfino la voce umana – e anche l’apparato canoro di un Caruso – è uno strumento materiale e nulla piú. L’anima si versa nell’anima, direttamente, d’un

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tratto, senza strumento alcuno, solo nell’estasi mistica, nella felicità d’amore, nella compassione – forse soltanto nella compassione – ma non mai nell’esperienza di un’opera d’arte. Tutta la storia dell’arte si può rappresentare come un continuo rinnovarsi, ampliarsi e perfezionarsi dei mezzi tecnici dell’espressione, e il suo normale e regolare sviluppo può definirsi come un processo di piena utilizzazione e dominio di essi, come un armonico equilibrio tra il potere e il volere, tra i mezzi e l’intento artistico. Il ristagno intervenuto in tale sviluppo con la rivoluzione industriale, il vantaggio acquistato dall’evoluzione tecnica su quella intellettuale, non vanno tanto attribuiti alla maggior complicazione ed efficienza delle macchine che si cominciavano a usare, quanto al ritmo assunto dall’evoluzione tecnica sotto l’impulso della congiuntura economica, un ritmo cosí rapido da non poter essere seguito dallo sviluppo intellettuale. In altre parole, coloro che avrebbero potuto trasferire nella produzione meccanica la tradizione dell’artigiano, i maestri indipendenti e i loro aiuti, vennero esclusi dalla vita economica, prima che avessero potuto adattare ai nuovi metodi le antiche tradizioni del loro mestiere. Cioè l’equilibrio fra evoluzione tecnica ed evoluzione intellettuale fu turbato da una crisi dell’organizzazione e non già da un cambiamento fondamentale nella natura della tecnica: nelle industrie che si erano sviluppate dal vecchio artigianato scarseggiarono a un tratto gli esperti. Morris condivideva i pregiudizi di Ruskin contro la produzione meccanica come il suo entusiasmo per il lavoro a mano, ma fu assai piú razionale e progressista del maestro nel giudicare la funzione della macchina. Egli rimproverava alla società del suo tempo l’abuso della tecnica, ma già sapeva come in certe circostanze questa potesse diventare una benedizione per l’umanità9.

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Il suo ottimismo socialista si manifestava anche in questa speranza, fondata sul progresso tecnico. Secondo la sua definizione, l’arte esprime la gioia del lavoro10; per lui essa non è soltanto una fonte di felicità, ma nasce da un senso di felicità. Il suo vero valore sta nel processo creativo; nell’opera l’artista gode della propria produttività ed è la gioia del lavoro a generare l’arte. Questa autogenesi è invero piuttosto misteriosa e accusa un deciso influsso di Rousseau, ma non è piú mistica né piú romantica dell’idea che nel macchinismo vede la fine dell’arte. I fenomeni sociali intorno a cui si affatica la critica dell’arte e della cultura nell’epoca vittoriana formano anche l’argomento del romanzo inglese del tempo. Anche questo s’impernia sul problema, che Carlyle ha chiamato «della condizione inglese», e descrive i rapporti sociali sorti dalla rivoluzione industriale. Ma esso si rivolge a un pubblico piú composito di quello della letteratura critica, ha un carattere piú eterogeneo e parla un linguaggio piú vario, meno scelto. Cerca di interessare ceti in cui non sono mai penetrate le opere di Carlyle e di Ruskin, e vuol conquistarsi lettori per i quali le riforme sociali non siano soltanto questione di coscienza, ma di vita. Ma poiché questi lettori sono una minoranza, il romanzo rimane principalmente orientato secondo gli interessi dell’alta e media borghesia, e serve di sfogo ai conflitti morali, che la lotta di classe suscita nei vincitori. Lo stimolo può venire, come per Disraeli, da nostalgiche fantasie patriarcali e feudali, o da un ideale di vita cristiano-sociale, come per Kingsley e Mrs Gaskell, oppure (ed è il caso di Dickens), dalla preoccupazione per l’immiserirsi della piccola borghesia; ma si finisce sempre con l’accettare in sostanza l’ordine costituito. Tutti cominciano con i piú aspri attacchi alla società capitalistica, ma alla fine ne accolgono le pre-

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messe in un quadro ottimistico o quietistico, come se volessero metterne a nudo e combatterne gli abusi soltanto per evitare profondi cambiamenti rivoluzionari. In Kingsley la tendenza conciliativa dà luogo a un aperto mutamento di opinioni, in Dickens è velata dall’atteggiamento radicale del poeta, che va spostandosi sempre piú a sinistra. Una parte degli scrittori simpatizza con le classi piú elevate, un’altra con gli umiliati e gli offesi, ma non ci sono fra loro veri rivoluzionari. Nel caso migliore essi oscillano fra impulsi schiettamente democratici e la persuasione che, nonostante tutto, le distinzioni di classe siano giustificate e abbiano un benefico effetto. Le differenze tra loro sono, comunque, d’importanza secondaria in confronto alle analogie del loro conservatorismo filantropico11. Il moderno romanzo sociale sorge anche in Inghilterra, come in Francia, intorno al 1830 e fiorisce negli anni torbidi fra il 1840 e il 1850, quando il paese è sull’orlo della rivoluzione. Anche qui esso diventa la massima espressione letteraria di quella generazione per la quale le mete e i valori della società borghese sono problematici e vuol spiegarsene la rapida ascesa e l’incombente sfacelo. Ma nel romanzo inglese i problemi discussi sono piú concreti e generali, meno intellettualistici e raffinati che in quello francese; la posizione dello scrittore è piú umana, piú generosa, ma insieme piú conciliante e opportunistica. Disraeli, Kingsley, Mrs Gaskell e Dickens sono i primi discepoli di Carlyle e sono tra quegli scrittori che piú prontamente ne accettano le idee12. Sono irrazionalisti, idealisti, favorevoli all’intervento dello Stato, scherniscono l’utilitarismo e l’economia nazionale, condannano il liberalismo e l’industrialismo, pongono i loro romanzi al servizio della lotta contro il principio del laissez faire e l’anarchia economica, che per essi ne è la conseguenza. Prima del 1830, il romanzo mai si era pre-

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sentato come interprete di una tal tendenza, benché in Inghilterra il romanzo moderno già con Defoe e con Fielding avesse assunto carattere «sociale». Esso si collegava ai saggi di Addison e Steele ben piú direttamente e profondamente che al romanzo pastorale e amoroso di Sidney e di Lyly, e i suoi primi maestri dovettero agli stimoli del giornalismo l’attenzione per le questioni di attualità e la sensibilità per i problemi sociali del giorno. È vero che questa s’attutí alla fine del primo grande periodo del romanzo inglese, ma non venne meno del tutto. Il romanzo nero e sensazionale, che si sostituí alle opere di Fielding e di Richardson nel favore del pubblico, non aveva diretto rapporto con la realtà sociale, e neppure con la realtà in genere, e d’altronde nei romanzi di Jane Austen la realtà sociale era, sì, il terreno da cui nascevano i personaggi, ma non costituiva certo un problema, che la scrittrice tentasse di risolvere o di interpretare. Solo con Walter Scott il romanzo ridiventa «sociale», benché in tutt’altro senso che in Defoe, Fielding, Richardson o Smollet. In Scott la dipendenza dei personaggi dallo sfondo sociale è assai piú chiaramente sentita che nei suoi predecessori; egli li mostra sempre come esponenti di una classe, ma il suo quadro della società è assai piú astratto e programmatico di quello del romanzo settecentesco. Egli fonda una nuova tradizione e solo vagamente discende dalla linea di Defoe, Fielding, Smollet. Invece Dickens, che succede immediatamente allo scozzese, soprattutto in quanto è il miglior narratore e l’autore piú popolare del suo tempo, si ricollega proprio a quella linea poiché, sebbene discepolo di Walter Scott – e chi non lo è, fra i romanzieri della prima metà del secolo? – è assai piú vicino alla forma picaresca degli antichi autori che allo stile drammatico del suo maestro. Dickens si riannoda al Settecento anche per la tendenza morale e didattica dell’arte sua; oltre la tradizione picaresca di Fielding e

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Sterne, egli riprende l’indirizzo filantropico di Defoe e di Goldsmith, che Scott aveva trascurato13. La sua popolarità si spiega soprattutto con la ripresa di entrambe quelle tradizioni letterarie per cui egli è in grado di rispondere ai gusti del nuovo pubblico, sia con la varietà picaresca, sia con il tono sentimentale e morale delle sue opere. In Inghilterra, fra il 1816 e il 1850, si pubblicano in media cento romanzi all’anno14; e i libri editi nel 1853, in prevalenza opere narrative, sono il triplo di quelli pubblicati venticinque anni prima15. Vi è un reciproco rapporto di causa ed effetto fra l’aumento dei lettori e la diminuzione del prezzo dei libri. Il pubblico letterario, formatosi nel Settecento, si accrebbe a un tratto con lo sviluppo delle biblioteche circolanti; ma queste, se rinvigorirono l’attività editoriale, non ridussero i prezzi dei libri. Anzi, la loro crescente richiesta contribuiva a stabilizzarli a un livello relativamente alto. Un romanzo, di solito in tre volumi, costava una ghinea e mezza, somma che solo pochissimi potevano spendere per quello scopo. Quindi la letteratura amena difficilmente superava la cerchia degli abbonati alle biblioteche. Un mutamento fondamentale nella composizione e nell’ampiezza del pubblico si verificò soltanto quando i romanzi cominciarono a uscire in fascicoli mensili. Il pagamento rateale, benché riducesse il prezzo solo di un terzo, permise a molti, che fino allora non compravano libri, di acquistarsi le opere degli autori prediletti. La pubblicazione di romanzi a dispense mensili rappresentò quindi un’innovazione commerciale, che in sostanza corrispondeva all’uso del romanzo d’appendice ed ebbe analoghe conseguenze sociali e artistiche. Una di esse fu il ritorno alla forma picaresca. Dickens, i cui successi segnano anche il trionfo dei nuovi metodi editoriali, gode di tutti i vantaggi e soffre di tutti gli inconvenienti che derivano dall’ampia diffu-

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sione della letteratura. Il continuo contatto con il gran pubblico lo aiuta a trovare uno stile popolare nel senso migliore; egli è di quegli artisti non molto numerosi che sono grandi appunto perché popolari. Alla fedeltà del suo pubblico e al senso di sicurezza di cui lo riempie la devozione dei lettori egli deve il suo grande stile epico, il tono costante del suo linguaggio e quel suo creare in modo spontaneo, schietto, quasi ingenuo, che può dirsi unico nell’Ottocento. Veramente il carattere popolare del suo stile spiega solo in parte la sua grandezza, poiché Alexandre Dumas ed Eugène Sue sono altrettanto popolari, senza esser grandi. E ancor meno la sua grandezza spiega il suo successo, perché Balzac è incomparabilmente piú grande, altrettanto facile, eppure assai meno fortunato, benché le condizioni esteriori in cui crea le sue opere siano perfettamente analoghe. Gli inconvenienti della popolarità sono invece molto piú facili da spiegare. La fedeltà verso i lettori, la solidarietà spirituale con la moltitudine ingenua e il desiderio di mantenere la cordialità di tale rapporto lo spingono ad attribuire un valore assoluto a quei mezzi che trovano eco nell’emotività delle masse, e a credere quindi nell’infallibile istinto e nel gran cuore del pubblico16. Non avrebbe mai ammesso che siano sovente in rapporto inverso il pregio di un’opera e il numero di coloro che se ne sentono commossi. Ci sono certi mezzi che riescono a muoverci al pianto, benché poi ci si vergogni di non aver resistito alla loro suggestione «universalmente umana». Sul destino degli eroi di Omero, Sofocle, Shakespeare, Corneille, Racine, Voltaire, Fielding, Jane Austen, Stendhal e Flaubert, noi non versiamo lacrime; invece Dickens suscita la stessa facile, compiaciuta commozione con cui reagiamo alla maggior parte degli odierni film. Dickens è uno dei piú fortunati scrittori di tutti i tempi, e forse il piú popolare fra i grandi dell’età moder-

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na. Certo è l’unico vero poeta, dall’età romantica in qua, la cui opera non nasca in contrasto con il suo tempo, in tensione con l’ambiente e risponda invece perfettamente alle aspirazioni del pubblico. Egli gode di una popolarità mai raggiunta dopo Shakespeare, probabilmente analoga a quella degli antichi mimi e giullari. Il mondo di Dickens è cosí totale e senza incrinature, perché egli non ha bisogno di fare concessioni quando parla al suo pubblico, e il suo orizzonte è altrettanto ristretto, il suo gusto altrettanto indiscriminato e la sua fantasia altrettanto ingenua, sebbene incomparabilmente piú ricca, di quella dei suoi lettori. Molto giustamente Chesterton osserva che, a differenza di Dickens, gli odierni scrittori popolari hanno sempre la sensazione di dover abbassarsi al livello del loro pubblico17. Tra loro e il lettore esiste una frattura altrettanto sensibile, anche se diversa di carattere e assai meno giustificata, che tra i veri poeti e il pubblico medio del tempo. Nulla di simile per Dickens. Non soltanto egli è il creatore della piú grande galleria di figure che, impresse nell’animo di ogni lettore inglese, ne popolano il mondo fantastico, ma il suo intimo rapporto con esse è identico a quello del pubblico. I beniamini del lettore sono anche i suoi ed egli parla della piccola Nell o del piccolo Dombey con lo stesso affetto e lo stesso tono ingenuo di qualsiasi vecchietto o vecchia zitella. La serie dei trionfi per Dickens cominciò con la prima grande opera, Il circolo Pickwick che, a partire dalla quindicesima dispensa, si vendette in quarantamila copie. Questo successo determinò la forma editoriale in cui doveva svilupparsi per venticinque anni la letteratura amena inglese. L’autore, divenuto a un tratto celebre, non perdette mai piú il suo ascendente. Il mondo non si saziava di leggere i suoi libri; ed egli lavorava febbrilmente, senza tregua, quasi come Balzac, per rispondere all’enorme richiesta. Questi due colossi si fanno riscon-

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tro: sono gli esponenti della stessa congiuntura letteraria, i fornitori dello stesso pubblico affamato di libri che, dopo gli sconvolgimenti di un mondo pieno di fermenti rivoluzionari e di delusioni, cerca nel mondo fittizio dei romanzi un surrogato della realtà, una guida nel caos della vita, e un conforto per le illusioni perdute. Ma Dickens diventa piú popolare di Balzac. Favorito dalla vendita a dispense mensili a buon mercato, egli conquista alla letteratura un pubblico completamente nuovo, gente che prima non leggeva mai romanzi, e di fronte al quale i lettori della piú antica narrativa fanno l’effetto di veri intellettuali, Una donna di servizio narra che nel suo casamento c’era l’abitudine di riunirsi, il primo lunedí di ogni mese, nell’alloggio di un tabaccaio a prendere il tè, pagando una piccola quota; quindi il padron di casa leggeva ad alta voce l’ultimo fascicolo di Dombey, e alla lettura venivano ammessi gratis tutti gli inquilini dello stabile18. Dickens fu un produttore di letteratura amena per le masse, il continuatore del vecchio romanzo nero e l’inventore del moderno «giallo»19; insomma, l’autore di libri che, a prescindere dal valore poetico, corrispondono perfettamente ai nostri best-sellers. Ma sarebbe un errore credere ch’egli scrivesse i suoi romanzi soltanto per le masse incolte o di scarsa cultura; una parte dell’alta borghesia e perfino degli intellettuali lo leggevano con entusiasmo. I suoi romanzi erano adeguati ai tempi, arte attuale, come per noi quella del film; e, anche per chi è ben conscio dei suoi difetti, essa ha l’inapprezzabile valore di cosa viva e volta all’avvenire. Fin dall’inizio Dickens, tanto come gusto quanto come ideologia, fu l’esponente della nuova letteratura progressista. Egli riusciva a interessare anche dove non piaceva, e si trovavano divertenti i suoi romanzi anche se non riusciva gradito il suo messaggio sociale. La sua arte si poteva separare dalla politica. Egli si scagliava con parole infiammate contro le colpe della società, contro

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la spietata albagia dei ricchi, la durezza ottusa dei giudici, il crudele trattamento dei bambini, le condizioni inumane nelle prigioni, nelle fabbriche e nelle scuole, insomma contro la brutalità propria di ogni organizzazione istituzionale. Le sue accuse rimbombavano all’orecchio di tutti ed empivano i cuori dell’angoscioso sentimento di un’ingiustizia imputabile a tutta la società. Ma non si andava oltre il grido d’allarme e la soddisfazione che si prova quando ci si è sfogati a gridare. Il messaggio sociale del poeta non portò frutti in politica e la sua filantropia non fu sempre vantaggiosa per l’arte. Essa approfondí la sua penetrazione psicologica, ma suscitò anche un sentimentalismo atto a velargli lo sguardo. Il suo confuso atteggiamento umanitario, il suo «cheeriblismo» [fratelli Cheeryble sono figure filantropi del Nicola Nickleby], la sua fiducia che la beneficenza privata e la bontà dei ricchi possano rimediare ai mali della società nascevano, in conclusione, da un difetto di chiarezza nella sua concezione sociale, che ne faceva un piccolo-borghese indeciso fra l’una e l’altra classe. Egli non riuscí mai a superare la violenta scossa della sua fanciullezza, l’esperienza di chi era stato gettato fuori del ceto medio, ai limiti del proletariato, e si sentí sempre un decaduto, o in procinto di diventarlo20. Era in fondo un filantropo radicale, un liberale amico del popolo, un appassionato avversario dei conservatori, ma non un socialista né un rivoluzionario: al massimo, un piccoloborghese ribelle, un umiliato che non dimenticò mai quel che gli era toccato in gioventú21. E per tutta la vita egli rimase il piccolo-borghese che credeva di dover scongiurare non solo un pericolo dall’alto, ma anche uno dal basso. Egli sentiva e pensava da piccolo-borghese e i suoi ideali erano quelli della piccola borghesia: la vita era fatta di lavoro, di sforzo, di risparmio, per giungere alla sicurezza, alla tranquillità e alla rispettabilità; la felicità consisteva nel modesto benessere, nel-

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l’idillio di una vita al riparo dal mondo ostile, nel cerchio familiare, nel rifugio di una camera ben riscaldata, di un’accogliente locanda o della diligenza che ti conduce a una meta sicura. Dickens è incapace di superare le intime contraddizioni della sua visione sociale. Da un lato egli accusa la società nel modo piú amaro, ma dall’altro sottovaluta la portata del male, perché rifiuta di riconoscerla22. In realtà egli si attiene ancora al principio: «Tutto per il popolo – nulla con il popolo», e non riesce a liberarsi dal pregiudizio che il popolo sia incapace di governarsi23. Egli teme la «plebaglia» e identifica il «popolo» in senso ideale con il ceto medio. Flaubert, Maupassant e i Goncourt, benché conservatori, sono ribelli irriducibili; Dickens invece, benché politicamente progressista e oppositore, è un pacifico borghese che accetta senz’altro i presupposti del dominante capitalismo. Egli conosce soltanto i fardelli e le pene della piccola borghesia e combatte contro mali a cui si può rimediare senza scuotere le basi della società. Della condizione del proletariato, della vita nelle grandi città industriali egli non sa quasi nulla, e sul movimento dei lavoratori ha molte idee storte. Solo la sorte dell’artigiano, del piccolo esercente, dei garzoni e degli apprendisti lo preoccupa. Le esigenze della classe operaia, la grande forza del futuro in continuo accrescimento, non fanno che impaurirlo. Le conquiste tecniche del suo tempo non lo interessano in modo particolare e lo spirito romantico con cui egli aderisce alle forme di vita tradizionali è molto piú profondo e spontaneo dell’entusiasmo di Carlyle e di Ruskin per i conventi e le Arti del Medioevo. Di fronte all’amore di Balzac per la grande città, le innovazioni, il tecnicismo, questo atteggiamento appare inerzia, meschinità provinciale. Nelle opere tarde, specie in Tempi difficili, la sua concezione forse si amplia: il problema della città industriale vi è ormai presente, e il destino della

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classe lavoratrice è discusso con crescente interesse. Tuttavia il quadro ch’egli si fa dell’intima struttura del capitalismo rimane insufficiente e limitato ed ingenuo è il giudizio sui fini del movimento proletario. Del resto è tipicamente piccolo-borghese la sua idea che l’agitazione socialista sia tutta demagogia e lo sciopero non sia che ricatto!24. La simpatia dell’autore va al bravo Stephen Blackpool, che non ha preso parte allo sciopero e, per atavica, canina fedeltà, si sente irresistibilmente, benché assai velatamente, solidale con il padrone. La «morale del cane» in Dickens ha una parte importante. Quanto piú un atteggiamento è lontano dalla posizione matura, critica di un intellettuale, tanto maggiore comprensione e simpatia trova in Dickens. I semplici, gli incolti gli sono sempre piú vicini della gente colta, e i bambini, piú degli adulti. Dickens fraintende del tutto la lotta fra capitale e lavoro; non capisce che si tratta del contrasto di due forze inconciliabili e che non basta la buona volontà del singolo a comporre il dissidio. La verità evangelica che l’uomo non vive di solo pane non suona molto persuasiva in un romanzo che appunto descrive la lotta del proletariato per il pane quotidiano. Ma Dickens non può rinunziare alla sua puerile fiducia nella possibilità di conciliare le classi. Egli si culla nell’illusione che sentimenti di patriarcale filantropia da una parte, e una paziente abnegazione dall’altra possano assicurare la pace sociale. Predica la rinunzia alla violenza, perché ritiene che rivolta e sovversione siano mali peggiori dell’oppressione e dello sfruttamento. Non è mai arrivato a parole cosí dure come il famoso «meglio l’ingiustizia che il disordine» solo perché era meno audace di Goethe e meno chiaro verso se stesso. Egli trasforma il sano, schietto egoismo dell’antica borghesia in un intruglio zuccherino di «filosofia natalizia», che Taine caratterizza benissimo: «Siate buoni e amatevi; il sentimento

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del cuore è l’unica vera gioia... Lasciate la scienza ai dotti, l’orgoglio ai nobili, il lusso ai ricchi...»25. Dickens non sapeva quanto fosse duro il nocciolo di quel messaggio d’amore e quanto cara sarebbe costata la sua pace ai piú deboli. Ma lo sentiva e le intime contraddizioni della sua visione si riflettono chiaramente nei gravi disturbi nervosi che lo affliggono. Il mondo di questo apostolo di pace non è certo un mondo pacifico e innocente. Il suo beato sentimentalismo spesso non è che la maschera di una spaventosa crudeltà, l’umorismo è un sorriso fra le lacrime, il buonumore combatte con una soffocante angoscia, dietro i lineamenti delle sue figure piú bonarie si cela una smorfia, il decoro borghese confina sempre con la criminalità, lo scenario del suo diletto mondo patriarcale è un sinistro ripostiglio di roba vecchia, la sua immensa vitalità, la sua gioia di vivere sta all’ombra della morte e la sua fedeltà al vero è una febbrile allucinazione. Questo vittoriano apparentemente cosí decoroso, corretto, rispettabile si rivela un disperato surrealista in preda a sogni angosciosi. Dickens non è soltanto un rappresentante del verismo e del naturalismo, non solo un perfetto maestro, di petits faits vrais, ma proprio l’artista a cui il naturalismo della letteratura inglese deve le piú importanti conquiste. Tutto il romanzo inglese moderno deriva da lui l’arte di ricreare l’ambiente, di disegnare i caratteri, di condurre i dialoghi. In realtà però tutti i personaggi di questo naturalista sono caricature, tutti i tratti della vita sono calcati, esagerati, spinti all’estremo, tutto diventa un fantastico spettacolo di marionette, di ombre cinesi, tutto si trasforma in situazioni e rapporti da melodramma, stilizzati, semplificati, stereotipi. Le sue figure piú attraenti sono veri e propri pazzi, i suoi piú innocui piccoli borghesi sono degli originali impossibili, dei monomani, dei coboldi; i suoi ambienti accuratamente disegnati fanno l’effetto di scenari romantici, e tutto il

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suo naturalismo sbocca sovente nel fantasma crudo e tagliente del sogno. Le peggiori assurdità di Balzac risultano piú logiche di molte delle visioni dickensiane. Le inibizioni e i compromessi vittoriani favoriscono in lui lo sviluppo di uno stile affatto senza equilibrio, incontrollato, «nevrotico». D’altronde non sempre le nevrosi sono complicate, e Dickens effettivamente non aveva in sé nulla di complicato e differenziato. Non solo era fra i meno colti scrittori inglesi, non solo era altrettanto indotto e di scarse letture che un Richardson o una Jane Austen; ma, a differenza specialmente di quest’ultima, era primitivo e per certi aspetti ottuso, veramente un bambino insensibile ai piú profondi problemi della vita. Non aveva nulla in sé dell’intellettuale, e del resto agli intellettuali non era molto favorevole. Se gli avveniva di descrivere un artista o un pensatore, se ne prendeva gioco. Di fronte all’arte manteneva la diffidenza del puritano, aggiungendovi l’incomprensione e l’ostilità del prosaico borghese; egli la considerava propriamente come qualcosa di superfluo, anzi dissoluto. Questa sua avversione era peggio che borghese, era piccolo-borghese e filistea. Egli rifiutava ogni rapporto con artisti, poeti e simili fanfaroni, come se volesse provare anche cosí la propria solidarietà con il suo pubblico26. Nell’epoca vittoriana il pubblico letterario era già diviso in due sfere ben distinte e Dickens, benché avesse i suoi fedeli anche fra le classi elevate, era considerato l’autore del pubblico incolto e di facile contentatura. Questa divisione esisteva fin dal Settecento, e di fronte a Defoe e a Fielding si può ritenere che fosse Richardson a interpretare il gusto della borghesia piú raffinata; tuttavia i lettori di Defoe, Fielding e Richardson erano in complesso le stesse persone. Invece dopo il 1830 il divario di cultura tra i due ceti si fece assai piú sensibile, e il pubblico di Dickens poteva distinguersi abbastanza nettamente da quello di Thackeray e di Trol-

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lope, benché molti lettori appartenessero all’uno e all’altro. Evidentemente anche nel Settecento c’erano coloro che si potevano identificare piú facilmente e perfettamente con gli eroi e le eroine di Richardson, altri invece con quelli di Fielding; ma ora la distinzione è piú netta: c’è chi non può assolutamente sopportare Dickens e chi non riesce quasi a capire Thackeray o George Eliot. La presenza – accanto al pubblico colto e dotato di senso critico – di lettori altrettanto assidui, ma che nella letteratura cercano solo un leggero e fugace divertimento, è un fenomeno tipico dei nostri giorni, ma era ignoto prima dell’età vittoriana. Il pubblico della letteratura amena era per lo piú un pubblico di lettori occasionali; i lettori assidui e regolari non si trovavano che tra le persone colte. Ma ai tempi di Dickens, proprio come oggi, la letteratura amena ha già due gruppi diversi di clienti. Quei tempi si distinguono dai nostri in quanto allora il romanzo popolare comprendeva le opere di un Dickens, amate anche da molti che pur sapevano apprezzarne anche di piú raffinate27; mentre oggi la buona letteratura è fondamentalmente non popolare e quella popolare non è per la gente di gusto. L’esposizione universale del 1851 segna una svolta nella storia d’Inghilterra; a differenza del primo periodo vittoriano, il successivo è un tempo di prosperità e di pacificazione. L’Inghilterra diventa l’«officina del mondo», i prezzi salgono, le condizioni dei lavoratori migliorano, il socialismo è reso inoffensivo, il potere politico della borghesia si consolida. Veramente i problemi sociali non vengono risolti, ma semplicemente smussati. La catastrofe del 1848 ha provocato una sorta di stanchezza e passività nei ceti progressisti e cosí anche il romanzo perde la sua aggressiva intolleranza. Thackeray, Trollope e George Eliot non scrivono piú «romanzi sociali» come quelli di Kingsley, Mrs Gaskell e Dickens. Essi disegnano grandi quadri della società, ma

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di rado discutono i problemi del giorno, e rinunziano a diffondere una tesi politico-sociale. Per George Eliot, la cui concezione è assai caratteristica dell’atmosfera intellettuale del tempo28, la realtà sociale non è piú in primo piano, sebbene, come per Jane Austen, sia l’elemento vitale in cui si muovono i personaggi diventando l’un per l’altro fatali. Suo tema costante è l’interdipendenza degli uomini, il campo magnetico ch’essi creano intorno a sé, e di cui intensificano la potenza con ogni azione e ogni parola29; essa mostra che nella società moderna nessuno può vivere isolato, autonomo30, e il suo è in questo senso un romanzo sociale. Ma l’accento è mutato: la società è sí una realtà positiva, che tutto abbraccia, ma anche un fatto che si accetta e non si discute. George Eliot significa nella storia del romanzo inglese una svolta verso l’introversione. Gli avvenimenti piú importanti sono nella sua opera di natura intellettuale e morale, e la scena delle grandi lotte fatali è l’anima, l’intimo, la coscienza morale degli uomini. Il suo è quindi un romanzo psicologico31. Anziché avvenimenti e avventure esteriori, questioni e conflitti sociali, al centro dell’azione stanno un problema e una crisi morale. I suoi eroi sono anime pensose, per cui le esperienze della mente e della coscienza morale hanno l’immediatezza di fatti fisici. I romanzi della Eliot sono saggi psicologicofilosofici, che in certa misura si accostano a quell’ideale del romanzo a cui miravano i romantici tedeschi. Tuttavia si tratta di un’arte già diversa dal romanticismo, anzi il primo tentativo fortunato di sostituirne i valori intellettuali e morali con altri, fondamentalmente antiromantici. I romanzi di George Eliot hanno un nuovo contenuto intellettuale e passionale che si era perduto dal tempo del classicismo. Anziché su esperienze sentimentali di natura irrazionale, l’opera si impernia su un atteggiamento, che l’autrice stessa chiama «passione intellettuale»32. Analisi e interpretazione della vita, conoscenza

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e comprensione dei valori intellettuali, ecco il vero argomento dei suoi romanzi. Comprendere è la parola che vi ricorre sempre33; un atteggiamento vigile, responsabile, severo con se stesso, e l’esigenza sempre ribadita: «Il segno della vocazione e dell’elezione è la rinunzia all’oppio, la sopportazione del dolore con piena coscienza ed occhi aperti», essa scrive in una lettera del 186034. Solo nell’opera di un autore cosí profondamente legato alla vita intellettuale del proprio tempo come George Eliot, poteva esprimersi il destino di nature cosí riflessive, con i suoi problemi e le sue contraddizioni, le sue tragedie e le sue sconfitte, giungendo all’immediatezza e alla forza, che troviamo in Middlemarch. I migliori pensatori dell’Inghilterra di allora, i piú progressisti – Mill, Spencer, Huxley – sono amici di George Eliot; essa traduce Feuerbach e D. F. Strauss, ed è al centro del movimento razionalista e positivista. Un severo senso critico, che la tiene lontana da ogni atteggiamento superficiale e da ogni credulità e che impronta il suo atteggiamento morale, caratterizza tutto il suo pensiero. Fra i romanzieri inglesi è la prima a saper descrivere adeguatamente un intellettuale. Nessun altro contemporaneo sa parlare di un artista o di uno studioso senza renderlo ridicolo e senza cader nel ridicolo. Anche per Balzac gli intellettuali sono esseri strani, esotici, che lo gettano in un ingenuo stupore e lo inducono a un sorriso piú o meno bonario. Accanto a George Eliot, egli fa la figura di un autodidatta semicolto, anche se, come nel Chef-d’œuvre inconnu, apre prospettive piú ampie e piú profonde di quelle concesse all’arte della scrittrice inglese. La forza di Balzac sta nella rappresentazione della vita, quella di George Eliot nell’analisi. Essa conosce per propria esperienza il tormento di chi lotta con problemi intellettuali, conosce o intuisce le tragedie legate alle sconfitte dello spirito, altrimenti non avrebbe mai potuto creare una figura cosí originale come il

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dottor Casaubon35. Solo grazie a quest’intima disposizione essa può giungere a un nuovo ideale di vita e a una nuova concezione della «vita mancata», arricchendo di un tipo nuovo la serie di quei «falliti» a cui appartengono per lo piú gli eroi del romanzo moderno. L’intellettualismo di George Eliot non è tuttavia la causa reale dello svolgersi del romanzo sociale in senso psicologico, ma è solo il sintomo di un generale processo che provoca un recedere dei problemi sociali di fronte a quelli psicologici. Il romanzo psicologico è il genere letterario degli intellettuali in quanto ceto colto in via di emancipazione dalla borghesia, come il romanzo sociale era quello di una intellettualità ancora in complesso solidale con essa. Solo al principio del secondo periodo vittoriano gli intellettuali si presentano in Inghilterra come un gruppo libero, «indipendente»36, «al di là di ogni distinzione di classe»37, «mediatore» fra le classi38. Fino a quel momento non c’era stato un «ceto intellettuale» conscio di una propria autonomia sociale e ribelle alla borghesia. A questa il ceto colto rimane legato fino a che la borghesia non lo lascia andare per la sua strada. Questo processo di separazione tra la letteratura progressista e la borghesia conservatrice, che era cominciato con il romanticismo, cessò quando i romantici divennero conservatori. Gli scrittori del primo periodo vittoriano propugnavano riforme all’interno della società borghese, ma non pensarono mai a distruggerla. E neppure la borghesia li aveva mai considerati come estranei, né come traditori; anzi ne seguiva la critica sociale e culturale con simpatia e benevolenza. Nella vita della società borghese l’intellettuale esercitava una funzione della cui importanza le classi dominanti erano piú o meno consapevoli. Era la valvola di sicurezza che evitava le esplosioni e dava sfogo alle tensioni interne della borghesia, rivelando conflitti di coscienza che minacciavano di venire repressi.

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Soltanto dopo la vittoria sulla Rivoluzione e la sconfitta del cartismo, la borghesia si sentí cosí sicura del suo potere che non ebbe piú conflitti di coscienza né rimorsi e credette di poter fare a meno di critiche. I gruppi culturali e specialmente gli scrittori perdettero in questo modo il senso di avere una missione nella società. Si videro esclusi da quella classe di cui fino allora erano stati gli interpreti, e si sentirono affatto isolati tra i ceti incolti da un lato e dall’altro la borghesia che non aveva piú bisogno di loro. Cosí questi gruppi, prima profondamente radicati nella borghesia, furono portati a mutarsi nel ceto sociale, che noi chiamiamo degli «intellettuali». Veramente questa fu solo l’ultima fase del lungo processo di graduale affrancamento degli esponenti della cultura da quelli del potere. L’umanesimo e l’illuminismo erano state le prime tappe su questa via, emancipando la cultura sia dal dogma e dalla Chiesa, che dall’egemonia del gusto aristocratico. La Rivoluzione francese aveva segnato la fine del monopolio culturale dei due ceti superiori e aperta la strada a quello della borghesia, che con la monarchia di luglio sembra definitivamente assicurato. Verso la metà del secolo l’epoca rivoluzionaria si conclude con il distacco della cultura dalle classi dominanti e l’avvio alla formazione di un vero e proprio ceto degli intellettuali. Il ceto degli «intellettuali» trae origine dalla borghesia e ha i suoi precursori in quell’avanguardia che aveva presieduto al maturare della Rivoluzione francese. La cultura è per loro illuministica e liberale, il loro ideale di umanità è quello della personalità libera, progressiva, sciolta da vincoli tradizionali. Quando la borghesia allontana da sé gli intellettuali e questi abbandonano la classe d’origine, a cui li legano innumerevoli fili, si compie un processo veramente innaturale, assurdo. L’emancipazione degli intellettuali può considerarsi una fase della generale specializzazione, un aspetto cioè di

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quel processo di astrazione che dopo la rivoluzione industriale abolisce i nessi «organici» tra i diversi ceti, tra le varie professioni e i vari campi culturali; ma può anche interpretarsi come una diretta reazione a quel processo, come un tentativo di attuare l’ideale dell’uomo completo, versatile, che integra in sé tutti i valori culturali. L’apparente indipendenza degli intellettuali dalla borghesia, e quindi da ogni vincolo sociale, corrisponde all’illusione che lo spirito trascenda le classi, illusione comune a borghesi e intellettuali. Questi vogliono credere al carattere assoluto della verità e della bellezza, perché in questo modo vengono ad essere gli esponenti di una verità «superiore» e possono compensare la loro mancanza d’influsso sociale; quelli tollerano la pretesa degli intellettuali di essere al di sopra delle classi, perché cosí credono di veder dimostrata l’esistenza di valori universali e la possibilità di superare i contrasti di classe. Ma la scienza per la scienza o la verità per la verità, non meno che l’art pour l’art, sono solo una conseguenza dell’estraniarsi dell’intellettuale dalla vita pratica. L’idealismo implicito in questo atteggiamento esige che la borghesia superi il suo odio per la cultura, ma gl’intellettuali da parte loro vi esprimono soprattutto la loro gelosia per la potenza dei borghesi. Il risentimento degli uomini di cultura contro i loro padroni non è nuovo; già gli umanisti avevano sofferto di questo conflitto da cui derivavano i ben noti sintomi nevrotici del loro complesso d’inferiorità. Ma era forse possibile per una classe, che si credeva in possesso, della verità, non provare odio e gelosia contro quella che possedeva tutta la potenza economica e politica? Nel Medioevo il monopolio della «verità» l’aveva il clero, a cui non mancavano i mezzi per esercitare il potere nella politica e nell’economia. Tale coincidenza evitava i fenomeni patologici, che seguirono piú tardi alla divisione di queste sfere d’autorità.

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A differenza del clero medievale, il moderno ceto degli intellettuali si recluta da classi varie per censo e mestiere e di esse rappresenta gli interessi e le vedute, diverse e spesso antagonistiche. Questo rafforza in loro il senso di essere al di sopra dei conflitti di classe e di rappresentare la viva coscienza della società. La loro origine promiscua li rende piú sensibili ai limiti delle varie ideologie e forme di cultura, e inasprisce il tono della loro critica sociale a cui già si sentivano chiamati fin dal tempo della loro alleanza con la borghesia. Fin da principio il loro compito era stato di chiarire le premesse dei valori culturali e furono loro a dare chiara formulazione alle idee che stavano all’origine della concezione borghese, ad assicurare coerenza ideologica a quello che semplicemente era un senso della vita; in un mondo pratico essi adempirono alla funzione del pensiero contemplativo, dell’introversione e della sublimazione; furono insomma i portavoce dell’ideologia borghese. Ma, allentati ormai i loro vincoli con la borghesia, quella che un tempo era una censura che la classe dominante imponeva a se stessa, si trasforma in una critica distruttiva, il principio della dinamica e del rinnovamento si muta in un principio di anarchia. Come parte della classe borghese, gli intellettuali avevano aperto la via alle riforme; abbandonandola, diventano fomite di rivolta e disgregazione. Fin verso il 1848, rappresentano ancora lo spirito d’avanguardia della borghesia, dopo il 1848 consciamente o inconsciamente diventano i campioni della classe lavoratrice. La precarietà della loro esistenza li porta a sentire una certa comunione di destino con il proletariato, e questo senso di solidarietà accresce la loro costante disposizione a cospirare contro la borghesia, contribuendo a preparare la rivoluzione contro il capitalismo. Nella bohème l’affinità fra intellettuali e proletariato va ben oltre i limiti di questa generica simpatia. Anzi,

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il bohémien è parte del proletariato. In certo modo egli rappresenta la figura compiuta, e insieme anche la caricatura dell’«intellettuale». Infatti se la bohème emancipa l’intellettuale dalla borghesia, fa anche in modo che la lotta contro le convenzioni borghesi diventi un’idea fissa, spesso quasi una mania di persecuzione. Attuando l’ideale di una concentrazione esclusiva sui fini intellettuali, l’intellettuale trascura gli altri valori della vita e toglie ogni significato a questa vittoria dello spirito sulla vita. L’indipendenza del mondo borghese si rivela una libertà apparente, poiché l’intellettuale sente il proprio isolamento come una colpa grave, se pure inconfessata; la sua arroganza copre in realtà una debolezza; il suo esagerato orgoglio, un dubbio sulla propria forza creativa. In Francia quest’evoluzione e piú rapida che in Inghilterra, dove a mezzo il secolo con Ruskin, J. S. Mill, Huxley, George Eliot e il loro seguito appaiono i primi rappresentanti di un «pensiero libero», «indipendente», ma dove per il momento non si può parlare né di una svolta verso la rivoluzione proletaria, né del costituirsi di una bohème. I vincoli con la borghesia qui sono ancora cosí stretti che gli intellettuali preferiscono rifugiarsi in un «aristocratico moralismo»39 piuttosto che far causa comune con le masse. Anche George Eliot concepisce essenzialmente come una questione psicologico-morale quel che in realtà è un problema sociologico, e i suoi romanzi cercano nella psicologia la risposta a quesiti, che soltanto il sociologo può risolvere. Cosí essa abbandona il sentiero che il romanzo russo invece percorre, trovandovi la sua perfezione. Il moderno romanzo russo è essenzialmente opera dell’intelligencija russa, cioè di quell’élite che si considera scissa dalla Russia ufficiale e per letteratura intende anzitutto critica della società e per romanzo il romanzo «sociale». Come semplice genere ameno o pura analisi

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psicologica, senza pretese d’importanza e di utilità sociale, il romanzo è un genere ignoto in Russia fin verso il 1880. La nazione è in tal fermento e fra i lettori è cosí evoluta la coscienza politica e sociale, che un principio come l’art pour l’art qui non può certo affermarsi. In Russia l’intellettuale implica sempre l’attivista, ben piú legato che in Occidente all’opposizione democratica. I nazionalisti conservatori non possono in alcun modo essere annoverati fra questi intellettuali intransigenti, esclusivi, settari40, e gli stessi maestri maggiori del romanzo russo, specialmente Dostoevskij e Tolstoj, solo con riserva vi possono rientrare; per altro il loro atteggiamento critico verso la società è legato al pensiero dell’intelligencija, e la loro arte partecipa alla sua opera distruttiva, anche se personalmente non vogliono aver nulla di comune con essa41. Tutta la moderna letteratura russa nasce dallo spirito dell’opposizione. La sua prima fioritura si deve all’attività poetica della nobiltà progressista e cosmopolita, che mira ad affermare le idee dell’illuminismo e della democrazia contro il dispotismo degli zar. La nobiltà liberale e occidentalizzante è, al tempo di Pu∫kin, l’unico gruppo colto della società russa. È vero che con il sorgere del capitalismo commerciale e industriale la classe dei lavoratori della mente, finora composta soprattutto di funzionari e di medici, si allarga sensibilmente grazie ai nuovi tecnici, avvocati e giornalisti42; ma la letteratura rimane dominio esclusivo di ufficiali dell’aristocrazia, insoddisfatti del loro mestiere, che sperano piú nel libero mondo borghese che nel loro vacillante feudalesimo43. Sconfitti i decabristi, la reazione, rinvigorita, riesce, sì, a sbaragliare i ribelli, ma non a evitare la formazione di una nuova avanguardia politica e letteraria – quella dell’intelligencija. Cosí nella letteratura russa finisce l’egemonia della nobiltà, quasi esclusiva fin verso il 1840. La morte di Pu∫kin conclude un’epo-

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ca: la funzione direttiva passa nelle mani dell’intelligencija e in complesso non vi sono deviazioni fino alla rivoluzione bolscevica44. Il nuovo ceto colto è un gruppo misto di nobili e plebei, che recluta spostati d’ogni classe. Lo compongono i cosiddetti «nobili penitenti», idealmente ancora abbastanza vicini ai decabristi, e i figli di piccoli commercianti, di funzionari subalterni, di preti di città e di servi emancipati, che di solito vengono indicati come «gente di origine promiscua», e per lo piú conducono la vita precaria di «liberi artisti», giornalisti, studenti e precettori. Fin verso la metà del secolo i plebei sono una minoranza di fronte ai nobili, ma a poco a poco si fanno piú numerosi e finiscono con l’assorbire gli altri elementi. La parte piú importante l’hanno i figli dei sacerdoti, che da casa portano con sé una certa cultura e sensibilità intellettuale, ma, per la naturale opposizione tra padri e figli, sono i piú aspri nel manifestare l’ostilità dell’intelligencija alla religione e alle tradizioni. In complesso essi sono quel che nel Settecento erano stati i figli dei pastori in Occidente, dove l’illuminismo aveva trovato condizioni analoghe a quelle della Russia prerivoluzionaria. Non a caso, dunque, due dei massimi campioni del razionalismo e del radicalismo russo, Cerny∫evskij e Dobroljubov, sono figli di preti e vengono dalla borghesia delle grandi città commerciali. L’università di Mosca con le sue associazioni studentesche e i suoi circoli culturali è il centro della nuova intelligencija senza classi. Il contrasto tra l’antica residenza imperiale, scettica e dedita ai piaceri, popolata di alti funzionari e generali, e la moderna città universitaria con la sua gioventú infiammabile e avida di sapere, sta all’origine di questa svolta culturale45. Lo studente povero, che può contare solo su se stesso, è il prototipo del nuovo ceto intellettuale, come il nobile ufficiale della Guardia lo era dell’antica élite. La società colta di

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Mosca conserva ancora per qualche tempo un’impronta semiaristocratica, e fin verso il 1850 le discussioni filosofiche si tengono ancora per lo piú nei salotti46, ma questi non hanno piú un carattere esclusivo e a poco a poco perdono d’importanza. Nel settimo decennio del secolo la democratizzazione della letteratura e la costituzione del nuovo ceto intellettuale sono ormai compiute. Dopo l’emancipazione dei contadini questo si accresce notevolmente per l’afflusso di elementi della piccola nobiltà impoverita; ma questi elementi non mutano piú nulla all’intima struttura del gruppo. I possidenti rovinati debbono in parte vivere del loro lavoro intellettuale e adattarsi alle condizioni dell’intelligencija borghese. Se una parte di essi va ad accrescere il numero degli occidentalisti, cosmopoliti e progressisti, un’altra parte accresce quello degli slavofili, favorendo cosí l’equilibrio fra i due gruppi. Il movimento slavofilo, reazione intellettuale al razionalismo degli occidentalisti, corrisponde allo storicismo e al tradizionalismo romantico con cui, mezzo secolo prima, l’Occidente aveva reagito alla Rivoluzione. Gli slavofili sono gli eredi indiretti, e per lo piú inconsci, di Burke, de Bonald, de Maistre, Herder, Hamann, Möser e Adam Müller, come gli occidentalisti sono discepoli di Voltaire e dell’Encyclopédie, dell’idealismo tedesco e, piú tardi, dei socialisti Saint-Simon, Fourier e Comte, o dei materialisti Feuerbach, Büchner, Vogt e Moleschott. Di fronte al cosmopolitismo e al libero pensiero ateo degli occidentalisti, gli slavofili insistono sul valore delle tradizioni religiose e nazionali e proclamano la loro mistica fede nel contadino russo e la loro devozione alla Chiesa ortodossa. In contrasto con il razionalismo e il positivismo, si dichiarano per l’idea irrazionale dell’«organico» sviluppo storico e presentano la vecchia Russia con il suo «genuino cristianesimo» libero dall’individualismo occidentale, come l’ideale e la salvezza

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dell’Europa; mentre per gli occidentalisti, era l’Europa l’ideale e la salvezza della Russia. La slavofilia è in sé antichissima, anche piú antica dell’opposizione alle riforme di Pietro il Grande, ma ufficialmente comincia solo con la lotta contro Belinskij. Ad ogni modo l’avvio effettivo e il programma del movimento risalgono all’opposizione contro «gli uomini del quinto decennio». Esponenti di questa slavofilia che presenta una sua definizione teorica e una sua consapevolezza programmatica dapprima sono specialmente nobili possidenti, ancora legati a una vita feudale e che mascherano il loro conservatorismo politico e sociale con l’ideologia della «santa Russia» e della «funzione messianica degli Slavi». Per lo piú il loro culto delle tradizioni nazionali non è che un mezzo per combattere le idee progressive degli occidentalisti, e il loro entusiasmo, rousseauiano e romantico, per il contadino russo è solo la forma ideologica del loro sforzo di mantenere condizioni di vita patriarcali e feudali. Ma la slavofilia non s’identifica del tutto con il conservatorismo e la reazione. Fra gli slavofili ci sono veri amici del popolo, come tra gli occidentalisti non mancano anche avversari della democrazia. È noto che lo stesso Herzen nutriva certe riserve contro le istituzioni democratiche dell’Occidente. I primi slavofili sono, in ogni caso, avversari dell’autocrazia zarista e combattono il governo di Nicola I. Piú tardi la loro corrente si riconcilia con lo zarismo, la cui idea è parte integrante della loro teoria dello Stato e della loro filosofia della storia; ma continuano ad annoverare dei democratici fra i loro partigiani. Dobbiamo distinguere soprattutto due fasi nel movimento slavofilo, proprio come dobbiamo parlare di due generazioni diverse di occidentalisti. Infatti, come il riformismo e il razionalismo degli anni 1840-50 si sviluppa nel socialismo e nel materialismo degli anni ’60-80, cosí la slavofilia dei proprietari feu-

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dali si trasforma nel panslavismo e nel populismo di Danilevskij, Grigor´ev e Dostoevskij. Il nuovo indirizzo democratico è in stridente contrasto con l’antica tendenza aristocratica47. Dopo l’emancipazione dei contadini molti degli scrittori piú anziani s’allontanano dall’intelligencija e dagli occidentalisti per aderire al nazionalismo, cosí che non si può piú affermare che «la critica conservatrice qualitativamente e quantitativamente sia notevolmente inferiore a quella progressista»48. Gli slavofili e gli occidentalisti ora si distinguono piú nei metodi di lotta che nei fini. Tutti gl’intellettuali russi fanno propria l’«idea slava»; tutti sono patrioti e araldi della «missione russa». Essi «s’inginocchiano misticamente davanti al contadino e alla sua pelliccia di pecora»49, studiano l’anima russa e si entusiasmano per la «poesia folkloristica». La frase di Pietro il Grande: «Abbiamo bisogno dell’Europa per qualche decennio, poi potremo voltarle le spalle», risponde ancora all’opinione prevalente fra questi riformatori. La parola narod, che vuol dire insieme «popolo» e «nazione», è tale da permettere di cancellare la distinzione tra democratici e nazionalisti50. Le velleità slavofile dei radicali si spiegano anzitutto col fatto che i Russi, ancora in una fase iniziale del capitalismo, sono una nazione assai piú omogenea, cioè assai meno differenziata in classi, di quelle dell’Occidente. In Russia tutta l’élite intellettuale è sotto l’influsso di Rousseau e piú o meno ostile all’arte e alla cultura; le tradizioni culturali dell’Occidente, l’antichità classica, la Chiesa romana, la scolastica medievale, il Rinascimento e la Riforma e, in parte, perfino il moderno individualismo, l’orientamento scientifico e quello estetizzante, le appaiono come un ostacolo all’attuazione. delle sue proprie mete51. L’utilitarismo estetico di Belinskij, Cerny∫evskij e Pisarev è antitradizionalista non meno dell’atteggiamento di Tolstoj contro l’arte. Neppure nella grande controversia tra soggettivismo

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e obiettivismo, individualismo e collettivismo, libertà e autorità, le parti sono nettamente divise tra occidentalisti e slavofili, benché naturalmente i primi siano piú inclini al liberalismo, i secondi all’autoritarismo. Belinskij e Herzen combattono non meno disperatamente di Dostoevskij e Tolstoj, e spesso nello stesso modo inconsulto, con il problema della libertà individuale. Tutta la speculazione filosofica dei Russi s’impernia su questo problema, e il pericolo del relativismo morale, lo spettro dell’anarchia, il caos del delitto sono l’angosciosa preoccupazione di ogni pensatore russo. Il grande problema, fondamentale per la coscienza europea, dell’estraniarsi dell’individuo dalla società, della solitudine e dell’isolamento dell’uomo moderno, diviene per i Russi il problema della libertà. In nessun altro luogo esso è stato vissuto e dibattuto piú profondamente e intensamente; e nessuno piú tormentosamente di Tolstoj e Dostoevskij ha sentito la responsabilità della sua soluzione. L’eroe delle Memorie del sottosuolo, Raskol´nikov, Kirillov, Ivan Karamazov, tutti vi si cimentano, tutti lottano contro il pericolo di essere inghiottiti dall’abisso dell’illimitata libertà, dell’arbitrio e dell’egoismo. Il rifiuto dell’individualismo da parte di Dostoevskij, la sua critica all’Europa razionalista e materialista, la sua apoteosi della solidarietà umana e dell’amore non hanno altro senso che quello di prevenire un’evoluzione che porterebbe al nichilismo di Flaubert. Il romanzo occidentale finisce con la rappresentazione dell’individuo isolato dalla società, soccombente al peso della propria solitudine; il romanzo russo, dal principio alla fine, descrive la lotta contro i demoni che inducono l’individuo a rinnegare il mondo e la comunità degli uomini. Questo tratto essenziale spiega non solo le figure problematiche di Raskol´nikov e Ivan Karamazov, di Pierre Bezuchov e Levin, non solo il messaggio d’amore e

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di fede di Dostoevskij e Tolstoj, ma il messianismo di tutta la letteratura russa. Il romanzo russo è letteratura impegnata in un senso molto piú stretto che non quello occidentale. I problemi sociali non solo vi occupano piú spazio e una posizione piú centrale, ma vi mantengono una preminenza piú lunga e incontrastata che nella letteratura d’Occidente. Fin dall’inizio in esso l’aggancio con le questioni sociali e politiche del momento è piú stretto che nelle opere degli scrittori contemporanei di Francia e d’Inghilterra. Il dispotismo russo non permette alle energie intellettuali altra affermazione che quella letteraria, e la censura fa sí che la critica sociale non abbia altra via di comunicazione che la poesia52. In quanto forma che meglio vi si presta, il romanzo assume quindi un carattere attivistico, pedagogico, anzi profetico, che in Occidente non ebbe mai, e gli autori russi rimangono i maestri e i profeti del loro popolo, quando ormai in Europa i letterati cadono in totale passività e isolamento. L’Ottocento è l’epoca illuministica dei Russi; per tutto il secolo essi conservano l’entusiasmo e l’ottimismo dell’Occidente prerivoluzionario. La Russia non ha provato le delusioni delle rivoluzioni europee, tradite, sconfitte, falsate; qui non c’è traccia della stanchezza che si osserva in Francia e in Inghilterra dopo il 1848. Alla giovanile inesperienza della nazione e alla sua fiducia, non ancora mortificata, nell’idea del progresso sociale dobbiamo la promettente freschezza del romanzo naturalistico russo, mentre il naturalismo in Francia e in Inghilterra comincia ad evolversi verso un passivo impressionismo. La letteratura russa, passando dalle mani della nobiltà stanca e in declino in quelle di un ceto in ascesa, quando in Occidente la borghesia, il ceto culturalmente egemone, si sente ormai esausta e minacciata dal basso, riesce a superare non soltanto la malinconia che cominciava ad affermarsi negli scrittori della nobiltà

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incline al romanticismo, ma anche lo stato d’animo rassegnato e scettico prevalente nella moderna letteratura occidentale. Nonostante i suoi toni cupi, il romanzo russo esprime un invincibile ottimismo, testimonia la fede nell’avvenire della Russia e dell’umanità; è e rimane pervaso da uno spirito combattivo pieno di speranza, da una brama, da una certezza evangelica di redenzione. Quest’ottimismo non si manifesta certo in facili ideali né in un «lieto fine» a buon mercato, ma nella sicura fiducia che abbiano un senso e non siano mai vani il dolore e il sacrificio dell’umanità. Le opere dei grandi scrittori russi hanno quasi sempre una fine dolcemente placata, sebbene spesso tristissima; sono piú seri dei romanzi di Flaubert, di Maupassant e dei Goncourt, ma non sono mai cosí amari, cosí disperati. È prodigioso come il romanzo russo, pur cosí recente, non solo uguagli il romanzo francese e inglese, ma si sostituisca ad essi nella funzione di guida e si ponga come la forma letteraria piú avanzata e vitale del tempo. Accanto alle opere di Dostoevskij e di Tolstoj, tutta la letteratura occidentale del secondo Ottocento appare esausta e stagnante. Anna Karenina e I fratelli Karamazov segnano le vette del naturalismo europeo; essi riassumono e sorpassano le conquiste psicologiche del romanzo francese e inglese, senza mai smarrire il senso dei grandi nessi sovraindividuali. Come il romanzo sociale giunge a perfezione con Balzac, il romanzo della formazione intima con Flaubert, il romanzo picaresco con Dickens, cosí il romanzo psicologico entra con Dostoevskij e Tolstoj nella piena maturità. Sono questi due artisti i primi che portano a conclusione il processo iniziatosi con il romanzo sentimentale di Rousseau, Richardson e Goethe, come con il romanzo analitico di Marivaux, Benjamin Constant e Stendhal. La psicologia moderna comincia con la rappresentazione del dissidio dell’anima, dissidio che non si può semplicemente ridur-

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re a un conflitto intimo. Già Antigone oscilla fra dovere e impulsi e gli eroi di Corneille si può dire non vivono se non in questo contrasto. In Shakespeare l’indecisione dell’eroe diventa l’argomento stesso del dramma. È vero che le inibizioni qui non vengono soltanto da un impulso morale, come in Sofocle e in Corneille, ma anche dai nervi, cioè da una zona psichica inconscia e incontrollata; ma le opposte inclinazioni si presentano sempre ben distinte, e il giudizio morale dei personaggi sui propri impulsi è netto e coerente. Al piú essi esitano tra impulsi e sentimenti diversi, ma non mai nella loro adesione morale all’una o all’altra parte dei loro impulsi. La disintegrazione della personalità, per cui l’antagonismo dei sentimenti va tant’oltre che l’individuo non è piú chiaro a se stesso e diventa per se stesso un problema, non fa la sua comparsa che al principio del secolo scorso. Solo con i fenomeni connessi con il moderno capitalismo, cioè il romanticismo e l’estraniarsi dell’individuo dalla società, si hanno questi spiriti cosí coscienti del loro intimo dissidio e con essi il problematico personaggio moderno. Le contraddizioni psicologiche in Shakespeare e negli elisabettiani per lo piú non sono che assurdità; rappresentano uno stadio di sviluppo anteriore alla sintesi classica. In altri termini, il drammaturgo non ha ancora imparato come si disegna un personaggio che agisca in modo unitario e coerente, né dà speciale importanza all’unità del carattere. I personaggi incoerenti della letteratura romantica sono invece espressione di una cosciente e programmatica reazione al razionalismo della psicologia classica. Si prediligono tipi sfrenati e fantastici, perché si crede che il caotico sentimento sia piú genuino e spontaneo della coerente e metodica ragione. L’espressione piú evidente, benché ancora un po’ cruda, dell’anima in contrasto con se stessa, ormai irriducibile ad unità razionale, è l’idea del «doppio», che lo stesso Dostoevskij desume dai roman-

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tici come requisito costante del personaggio, e conserva sino alla fine. Ma la completa dissoluzione dell’unità del carattere, cioè la disorganizzazione che consiste non solo nell’incoerenza dei contenuti psichici, ma anche nel loro continuo spostarsi e trasformarsi, mutando valore e significato, si ha con la lotta contro il romanticismo e il continuo oscillare fra atteggiamenti romantici e antiromantici. In Stendhal, che apre questa fase, i vari contenuti della psiche si trasformano sotto i nostri occhi. La provvisorietà del quadro psichico e la natura indefinibile degli atteggiamenti intimi, diventano ora il criterio di ogni studio psicologico e solo una figura cangiante e caleidoscopica può suscitare un interesse artistico. L’ultimo stadio di questa evoluzione si ha nei personaggi di Dostoevskij, del tutto imprevedibili e irrazionali. «Tu non sei quel che sembri», diventa la norma della psicologia, e importanza psicologica nell’uomo ha soltanto quel che è strano e sinistro, demoniaco e abissale. Accanto alle figure di Dostoevskij, i caratteri ben meno complicati della letteratura precedente appaiono sempre, dal piú al meno, idillici e arbitrari. Oggi per altro è facile accorgersi che anche la psicologia di Dostoevskij è piena di tratti convenzionali e largamente si serve di residui di byronismo e di romanzo nero. Vediamo che Dostoevskij non è un inizio, ma un termine e che, pur con tutta la sua originalità e fecondità, è pronto ad accogliere e sviluppare coerentemente le conquiste del romanzo psicologico occidentale. Dostoevskij scopre il piú importante principio della psicologia moderna: l’ambivalenza dei sentimenti e il dissidio di ogni atteggiamento psichico eccessivo, che si esplichi in forme esagerate e troppo dimostrative. Non solo amore e odio, orgoglio e umiltà, autoesaltazione e autoavvilimento, sadismo e masochismo, desiderio del sublime e «nostalgia del fango», sono intimamente legati; non solo figure come Raskol´nikov e Svidrigailov,

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My∫kin e Rogo∆in, Ivan Karamazov e Smerdjakov sono due volti di un unico principio; ma ogni impulso, ogni moto dell’animo, ogni idea suscita il suo opposto appena affiora alla coscienza di questi uomini. Gli eroi di Dostoevskij sono sempre di fronte ad alternative: dovrebbero e non possono scegliere; quindi il loro pensiero, l’autoanalisi e l’autocritica non sono che un continuo infierire contro se stessi. La parabola dei porci in cui è entrato il Maligno non si riferisce solo ai personaggi dei Demoni, ma piú o meno a tutta la stirpe dostoevskiana. I suoi romanzi si svolgono alla vigilia del giudizio universale; vi regna sempre una terribile tensione, un’angoscia mortale, vi si disfrena il caos; ogni cosa attende lume, pace, salvezza da un miracolo: attende una soluzione che non verrà piú dalla forza e dal rigore dell’intelletto, dalla dialettica razionale, ma dalla rinunzia a quella forza e dal sacrificio della ragione. Nell’idea del suicidio intellettuale, che Dostoevskij propugna, si rivela quanto sia discutibile la sua filosofia, che cerca di risolvere in modo affatto irreale problemi reali, questioni rettamente impostate. Dostoevskij deve la profondità e la sottigliezza della sua psicologia all’intensità con cui egli vive la problematica dell’intellettuale moderno. Ma l’ingenuità della sua etica nasce dai suoi scarti antirazionalistici, dall’abbandono dei valori intellettuali e dall’incapacità di resistere alle seduzioni del romanticismo e dell’astratto idealismo. In lui nazionalismo mistico, ortodossia religiosa, etica intuitiva si legano in una fondamentale unità che risale evidentemente alla stessa esperienza, alla medesima scossa psichica. In gioventú Dostoevskij fu un radicale e appartenne alla cerchia socialisteggiante di Petra∫evskij. Per tale attività venne condannato a morte e, dopo aver assistito a tutti i preparativi dell’esecuzione, fu graziato e mandato in Siberia. Quest’esperienza e gli anni della prigionia sembrano averne fiaccato lo spi-

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rito di rivolta. Quando, dopo un’assenza di dieci anni, egli torna a Pietroburgo, non è piú socialista né radicale, benché sia ancora molto lontano dal misticismo politico e religioso dei suoi anni successivi. Soltanto le terribili privazioni dei tempi che seguirono, il peggioramento della malattia e il vagabondaggio per l’Europa infrangeranno del tutto la sua resistenza. Già l’autore di Delitto e castigo e dell’Idiota cerca rifugio e pace nella religione, ma il creatore dei Demoni e dei Fratelli Karamazov è ormai un entusiastico apologeta dell’autorità ecclesiastica e laica e un banditore del dogma. Solo però negli ultimi anni Dostoevskij diventa il moralista, il mistico, il reazionario, quale si suole sommariamente caratterizzarlo53. Tuttavia, anche con queste limitazioni non è agevole definirlo politicamente. La sua critica del socialismo è semplicemente assurda; eppure, il mondo ch’egli descrive invoca il socialismo e la liberazione dell’umanità dalla miseria e dall’umiliazione. Anche in questo caso si deve parlare di «trionfo del realismo», di vittoria dell’artista penetrante e sensibile alla realtà sul politico romantico e confuso. Ma in Dostoevskij la situazione è assai piú complicata che in Balzac. Nell’arte sua hanno una grande importanza la simpatia e la solidarietà con gli «umiliati e offesi», simpatia di cui non c’è traccia nello scrittore francese; e c’è in lui una specie di nobiltà della miseria, benché nelle sue pagine sulla povera gente molto sia convenzione letteraria e derivazione romantica. In ogni caso Dostoevskij è uno dei pochi veri poeti della povertà, e non solo per compassione verso i poveri come George Sand ed Eugène Sue, o per pallidi ricordi come Dickens, ma perché ha passato la piú gran parte della sua vita in miseria e talvolta ha letteralmente sofferto la fame. Perciò, anche quando parla dei suoi problemi religiosi e morali, Dostoevskij riesce piú travolgente e rivoluzionario di George Sand, Eugène Sue e Dickens quando descrivo-

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no la miseria e l’ingiustizia del loro tempo. Ma egli non è comunque un interprete delle masse rivoluzionarie. Con il proletariato operaio e coi contadini egli non ha alcuna intima affinità, nonostante la sua idealizzazione del «popolo» e la sua slavofilia54. Solo il proletariato intellettuale lo attrae veramente. Egli stesso si chiama «proletario della letteratura» e «cavallo di posta», perché lavora sempre sotto l’assillo del contratto, non ha mai venduto un’opera se non a pagamento anticipato, e spesso non sa ancora quale sarà la fine di un capitolo, mentre il principio è già in tipografia. Egli si lamenta che il lavoro lo ha schiacciato, consunto; che ha lavorato fino all’istupidimento, fino a sentirsi rompere il cervello e sospira di riuscire a scrivere anche un solo romanzo, come Turgenev e Tolstoj scrivono le loro opere. Tuttavia egli si proclama «letterato» in tono di fierezza e di sfida e si considera il rappresentante di una nuova generazione e di una nuova classe sociale, che ancora non hanno trovato espressione letteraria. E, nonostante la sua opposizione alle aspirazioni politiche dell’intelligencija, è il primo valido esponente di essa nel romanzo russo. Gogol´, Goncarov e Turgenev, sostanzialmente esprimono ancora la mentalità nobiliare, anche se sostengono idee molto avanzate e, in contrasto con gli interessi della propria classe, sono fra i campioni dell’evoluzione borghese della Russia. Dostoevskij giustamente annovera anche Tolstoj fra i rappresentanti di questa «letteratura di possidenti», e lo chiama lo «storiografo dell’aristocrazia», che nei suoi grandi romanzi, soprattutto in Guerra e pace, si attiene alla forma della cronaca famigliare di Aksakov55. Per lo piú gli eroi di Dostoevskij, specie Raskol´nikov, Ivan Karamazov, \catov, Kirillov, Stepan Verchovenskij, sono intellettuali borghesi, e l’autore orienta la sua analisi della società secondo il loro punto di vista, benché non si identifichi mai espressamente con

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loro. Ma per capire la visione di uno scrittore non importa tanto sapere quale causa egli sostenga, quanto con quali occhi egli consideri il mondo. Dostoevskij vede i problemi sociali del suo tempo, anzitutto il disgregarsi della società e l’abisso sempre piú profondo tra le classi, dal punto di vista dell’intelligencija, e per lui la soluzione può venire solo dal ricongiungersi della gente colta al popolo ingenuo e credente da cui si è allontanata. Tolstoj giudica gli stessi problemi dal punto di vista della nobiltà e spera il risanamento sociale dall’intesa fra contadini e signori terrieri. Il suo pensiero rimane vincolato alle idee di un feudalesimo patriarcale, e anche quei personaggi che meglio incarnano le sue idee, Levin e Pierre Bezuchov, sono al piú benefattori del popolo, ma non veri democratici. Invece nel mondo di Dostoevskij domina una perfetta democrazia spirituale. Tutti i suoi personaggi, ricchi e poveri, aristocratici e plebei, lottano con gli stessi problemi morali. My∫kin, il ricco principe, e Raskol´nikov, il povero studente, sono entrambi esuli, vagabondi, decaduti e reietti e non hanno posto nella moderna società borghese. In certa misura tutti i suoi eroi ne sono esclusi e formano un mondo senza classi, in cui dominano rapporti puramente spirituali. In quel che fanno essi si impegnano con tutto l’essere loro, con tutta l’anima, e nella meccanica monotonia del mondo moderno rappresentano un’utopica realtà dell’intelletto e dell’anima. «Noi non abbiamo interessi di classe, perché, a rigore, non abbiamo classi e perché l’anima russa è piú grande dei contrasti, degli interessi e della giustizia di classe», scrive Dostoevskij nel Diario di uno scrittore; e nulla è piú caratteristico del suo modo di pensare di questa affermazione che contraddice alla sua consapevolezza d’esser diverso dai suoi nobili colleghi proprio per una differenza di classe. Il medesimo Dostoevskij che pone una cesura cosí netta tra sé e gli esponenti della «letteratu-

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ra dei possidenti» e come scrittore fonda la sua ragion d’essere sulla sua natura di intellettuale plebeo, d’altra parte nega le classi e crede al primato di rapporti spirituali fuori d’ogni legame sociale. Piú volte si è insistito sull’analogia fra la posizione sociale dello scrittore russo e quella di Dickens. È stato osservato che entrambi erano figli di gente senza salde radici sociali e fin da giovani conobbero l’insicurezza sociale e la condizione di spostati56. Il padre di Dostoevskij era un medico militare e la madre era figlia di un mercante. Il padre aveva acquistato una piccola proprietà e fatto educare i figli in una scuola frequentata specialmente da giovani nobili. La madre morí presto e il padre, datosi al bere, venne ucciso dai suoi contadini che, a quanto pare, egli maltrattava. Così, da un livello sociale relativamente rispettabile, Dostoevskij cadde al livello di quel proletariato intellettuale, da cui egli si sentiva attratto e insieme respinto. Nulla di piú verosimile che, per Dickens come per Dostoevskij, il loro atteggiamento verso la società, contraddittorio e per molti aspetti confuso, sia connesso con la posizione incerta del padre e con la loro precoce esperienza della degradazione sociale. Nella storia del romanzo sociale Dostoevskij ha anzitutto il merito di averci dato la prima rappresentazione naturalistica della grande città moderna con la sua popolazione piccolo-borghese e proletaria, i bottegai e gli impiegati, gli studenti e le prostitute, i perdigiorno e gli affamati. La Parigi di Balzac era ancora una selva romantica, teatro di fantastiche avventure e di prodigiosi incontri, uno scenario dipinto a violento chiaroscuro, un paese di fiaba dove la ricchezza abbagliante stava accanto alla povertà pittoresca. Invece Dostoevskij dipinge il quadro della gran città grigio su grigio, come un luogo di cupa, incolore miseria. Egli ne mostra i sordidi uffici, le bettole soffocanti, le camere ammobiliate, quelle

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«casse da morto» – com’egli le chiama – in cui consumano i loro giorni le piú tristi vittime della vita cittadina. Tutto ciò ha un chiaro significato sociale e una punta politica; ma Dostoevskij si sforza di eliminare dai suoi personaggi i coefficienti di classe. Egli abbatte le barriere economiche e sociali e li mescola tutti insieme, come se veramente esistesse per gli uomini un comune destino. In lui spiritualismo e nazionalismo hanno la stessa funzione: servono a creare la leggenda di un essere morale che vive secondo leggi che trascendono la nascita, la classe e la cultura. In Gon™arov, Turgenev e Tolstoj le caratteristiche di classe dei personaggi rimangono; il fatto ch’essi siano nobili, borghesi o popolani non è mai trascurato né dimenticato. Invece Dostoevskij tralascia spesso queste distinzioni, anzi talvolta sembra farlo deliberatamente. Se tuttavia il carattere di classe riesce ad affermarsi nei suoi personaggi, e soprattutto i suoi intellettuali ci appaiono come un gruppo sociale ben definito, è questo un trionfo del realismo che fa di Dostoevskij, a suo dispetto, un materialista. Ma questo «materialismo» non è che una delle premesse invisibili e per lo piú inconsce, di una vera passione intellettuale, di un’ossessione che lo spinge ad esaurire fino all’ultimo le esperienze, a scrutare i sentimenti fin nel piú remoto impulso, ad approfondire sempre piú le idee, a esperimentarne le estreme conseguenze scendendo fino alle piú profonde sorgenti del subconscio. Gli eroi di Dostoevskij sono pensatori appassionati, impavidi, maniaci, in lotta disperata con le loro idee e i loro fantasmi come un tempo gli eroi dei romanzi cavallereschi con i mostri e i giganti. Per le idee essi soffrono, uccidono, muoiono; per essi la vita è un compito filosofico e la loro unica incoercibile attività, l’unica sostanza della vita è il pensiero. Essi lottano veramente con i mostri, con idee non ancor nate, indefinibili, amorfe, con problemi che non si possono risolvere, anzi

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neppur formulare. Non solo Dostoevskij è il primo pensatore moderno che sappia rendere un’esperienza intellettuale concreta e immediata come un’esperienza sensibile, ma si spinge in regioni dello spirito ancora inesplorate. Egli scopre una nuova dimensione, una nuova profondità, una nuova intensità del pensiero. Certo la scoperta appare cosí nuova anzitutto perché il romanticismo ci ha abituati a distinguere nettamente pensiero e sentimento, idea e passione, e a considerare oggetto di poesia soltanto sentimenti e passioni57. La vera novità dello spirito dostoevskiano consiste nel fatto ch’egli è un romantico del pensiero e in lui le idee hanno la stessa forza emotiva, lo stesso impeto passionale, anzi patologico, che presso i romantici hanno il flusso e il tumulto dei sentimenti. La sintesi di intellettualismo e romanticismo è la pietra miliare posta dall’arte di Dostoevskij; da essa deriva la forma letteraria piú avanzata della seconda metà dell’Ottocento, la forma piú adeguata alle esigenze artistiche di quel tempo inscindibilmente legato al romanticismo e irresistibilmente attratto dall’intellettualismo. La rinunzia all’uno o all’altro di questi elementi culturali, l’affettazione neoclassica come l’isterismo neoromantico si erano rivelati vicoli ciechi; l’espressionismo dostoevskiano invece poteva essere continuato, e adattato al nuovo senso della vita. Dostoevskij però oltre che sulle vette si muoveva anche nelle bassure del romanticismo. È vero che l’opera sua continua la letteratura di confessione dei romantici, ma anche il romanzo di delitti e di avventure58. Anche in questo egli è il contemporaneo di Dickens – uno scrittore che nella scelta dei suoi mezzi artistici non era piú difficile degli altri produttori di letteratura d’appendice. Forse egli avrebbe davvero evitato certi difetti di gusto e certa trascuratezza, se avesse potuto lavorare come Tolstoj o Turgenev. D’altra parte il tono melodrammatico del suo stile era intimamente connes-

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so alla sua concezione del romanzo psicologico; e i mezzi drastici non servivano soltanto ad aumentare la tensione nel lettore, ma contribuivano anche a creare quella rovente atmosfera spirituale senza cui sarebbero inconcepibili le situazioni drammatiche dei suoi romanzi. Se si vuole, I fratelli Karamazov sono un romanzo giallo, Delitto e castigo un romanzo poliziesco, I demoni un romanzo di avventure, L’Idiota un romanzo sensazionale; assassinio e delitto, segreti e sorprese, scene commoventi e orrende, stati morbosi e macabri vi hanno una parte preminente. Ma sarebbe un errore credere che tutto questo miri unicamente a compensare il lettore dell’astratto contenuto intellettuale; anzi il poeta vuol suscitare il senso che i processi spirituali su cui s’impernia la storia sono elementari quanto gli impulsi piú primitivi. In Dostoevskij ritroviamo tutta la galleria degli eroi romantici: l’eroe byroniano bello, forte, misterioso e solitario (Stavrogin), il personaggio impulsivo, sfrenato, pericoloso, ma bonario (Rogozin e Dmitrij Karamazov), le figure angeliche e luminose (My\kin e Alë\a), le prostitute dall’anima pura (Sonja e Nata\a Filippovna), il vecchio dissoluto (Fëdor Karamazov), il forzato evaso (Fedka), il beone depravato (Lebjadkin) e cosí via. Vi ritroviamo tutti gli elementi e le caratteristiche del romanzo nero e avventuroso: la ragazza sedotta e abbandonata, il matrimonio segreto, le lettere anonime, l’assassinio misterioso, la pazzia, gli accessi epilettici, lo schiaffo clamoroso, soprattutto e ripetutamente le scene di pubblico scandalo che portano a un’esplosione59. Queste specialmente mostrano che cosa sappia trarre Dostoevskij dai mezzi del romanzo sensazionale. Non solo esse gli servono, come si potrebbe credere, per finali e colpi di scena, ma fin dal principio incombono come un pericolo, e suscitano il senso che le grandi passioni e le condizioni elementari dell’anima

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urtano sempre contro i limiti della convenzione e della tolleranza sociale. L’Utopia spirituale in cui vive l’eroe di Dostoevskij si rivela una stretta gabbia; appena l’immanenza della sua vita viene forzata, tosto ne nasce lo scandalo. In queste scene di scandalo è essenziale la presenza di un pubblico straordinariamente misto, l’intervento degli elementi socialmente piú disparati. Sia nella grande scena in casa di Nata∫a Filippovna, nell’Idiota, come in quella presso Varvara Petrovna, nei Demoni, tutti coloro che vi partecipano sono raccolti, come per provare che la differenziazione sociale non può reggere di fronte alla catastrofe generale. Ognuna di queste scene è come un sogno angoscioso; una folla di gente è stipata in uno spazio incredibilmente stretto e l’atmosfera d’incubo mostra quale sinistro potere abbia per Dostoevskij la società con le sue differenze di classe e di rango, i suoi tabú e i suoi veti. Per lo piú i critici mettono in rilievo la struttura drammatica dei grandi romanzi di Dostoevskij; senonché di solito questa caratteristica formale viene interpretata come un puro espediente per effetti teatrali e viene contrapposta all’ampio, epico flusso dei romanzi tolstoiani. Eppure la tecnica drammatica in Dostoevskij non serve solo per le scene culminanti, in cui confluiscono le fila dell’azione e scoppia il conflitto fino allora incombente, ma piuttosto anima tutta l’azione ed esprime una visione affatto diversa da quella epica. Per Dostoevskij il senso della vita non è nel suo carattere temporale, nel sorgere e nello svanire delle sue mete, nei ricordi e nelle illusioni, negli anni, giorni e ore che cadono l’un sull’altro a seppellirci; ma in quei momenti eccelsi in cui le anime sono messe a nudo, ridotte a una formula semplice e chiara, in cui esse sentono la loro indubbia sostanza, si dichiarano identiche a se stesse e in armonia con il proprio destino. Sull’esistenza di simili momenti si fonda il tragico ottimismo di Dostoevskij,

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quella riconciliazione con il destino, che la tragedia greca chiamava catarsi. Su ciò si fonda la sua filosofia opposta al pessimismo e al nichilismo di Flaubert. Dostoevskij ha sempre indicato il senso della massima felicità e della perfettissima armonia come un’esperienza di eternità; tale soprattutto lo stato di My∫kin prima degli attacchi epilettici e i «cinque secondi» di Kirillov, quel gaudio, com’egli afferma, che non si potrebbe sopportare piú a lungo. Per descrivere un’esistenza che culmina in momenti simili, la concezione flaubertiana del romanzo, fondata tutta sul senso del tempo, dovette subire tali trasformazioni, che spesso il risultato pare non avere piú nulla di comune con il romanzo in senso tradizionale. Se è vero che la forma dostoevskiana continua direttamente il romanzo sociale e psicologico, è anche vero che essa dà l’avvio a un nuovo processo. Quella che si suol chiamare la sua struttura drammatica si regge su un principio formale affatto diverso dall’unità propria dei romanzi d’amore e della formazione intima, che con il romanticismo s’erano sostituiti alla vecchia forma picaresca. Il romanzo dostoevskiano è piuttosto un ritorno a quest’ultima, già per il solo fatto che i momenti drammatici vi sono dispersi, costituendo dei punti di concentrazione indipendenti. Abolendo in questo modo la continuità a favore di una serie di episodi essenziali, carichi di potenza espressiva, ma combinati a mosaico, esso precorre il principio formale del moderno romanzo espressionistico. La narrazione cede il passo alla spiegazione, all’analisi psicologica e alla discussione filosofica, e il romanzo diventa una raccolta di dialoghi e intimi monologhi, accompagnati da commenti e digressioni dell’autore. Spesso questo metodo s’allontana dal naturalismo come stile non meno che dal romanzo come genere epico. Innegabilmente per l’acutezza dell’osservazione psicologica Dostoevskij rappresenta la forma piú evolu-

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ta del romanzo naturalistico; ma se per naturalismo s’intende la rappresentazione di quel che è normale, medio, quotidiano, bisogna vedere una reazione al naturalismo nel suo amore per le situazioni estreme quasi da allucinazione, per i caratteri fantasticamente esagerati. Dostoevskij stesso definisce la sua posizione storico-stilistica con perfetta esattezza: «Mi chiamano psicologo, – dice; – è falso, io non sono che un realista in senso piú alto, cioè descrivo tutti gli abissi dell’anima umana». E per lui questi abissi sono appunto gli aspetti irrazionali, demoniaci, visionari e spettrali dell’uomo; elementi che richiedono un naturalismo che non si limiti alla verità superficiale; che rivelano fenomeni in cui gli elementi della vita reale si mescolano, fantasticamente disordinati e acuiti. Egli dichiara: «Il realismo nell’arte l’amo fuor di misura, il realismo che, per cosí dire, giunge al fantastico... Che cosa può apparirmi piú fantastico e inatteso della realtà? Anzi, che cosa può essere piú inverosimile?» Non c’è definizione piú esatta dell’espressionismo e del surrealismo. Quelle che in Dickens erano ancora puntate puramente occasionali, e per lo piú inconsce, in quella zona che sta al limite fra sogno e realtà, esperienza e allucinazione, qui diventa una costante apertura sui «misteri della vita». In questo modo si prepara la rottura con lo scientifismo dell’arte naturalistica. Un nuovo spiritualismo sta sorgendo dalla reazione all’orientamento scientifico, dalla rivolta contro il naturalismo, dalla diffidenza per la visione scientifica del mondo e per il modo razionalistico di affrontare i problemi. La vita stessa ora viene sentita come qualcosa di essenzialmente irrazionale; si crede di percepire da ogni parte voci misteriose, e l’arte ne diventa l’eco. Nonostante i profondissimi contrasti, c’è una fondamentale analogia tra l’atteggiamento di Dostoevskij e quello di Tolstoj di fronte al problema dell’individuali-

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smo e della libertà. Entrambi considerano il distacco dell’individuo dalla società, la sua solitudine e il suo isolamento, come il peggiore dei mali. Entrambi vogliono ad ogni costo evitare il caos che minaccia di travolgere gli uomini resi cosí solitari. Specialmente in Dostoevskij tutto s’impernia sul problema della libertà e i suoi grandi romanzi, in fondo, non sono che analisi e interpretazioni di quest’idea. Il problema in sé non era nuovo; i romantici vi si erano sempre affaticati e dal 1830 esso era al centro del pensiero filosofico e politico. Per il romanticismo libertà significava la vittoria dell’individuo sulla convenzione; libera e creatrice era ritenuta una personalità che avesse la forza intellettuale e il coraggio di trascurare i pregiudizi estetici e morali del suo tempo. Per Stendhal il problema è quello stesso del genio, in particolare del genio di Napoleone il cui successo, egli pensa, dipende dalla brutale imposizione della sua volontà, della sua personalità, della sua grandezza. L’arbitrio del genio e i sacrifici ch’esso richiedeva gli parevano il prezzo dovuto dal mondo all’eroe dello spirito. Su questa via il Raskol´nikov di Dostoevskij rappresenta la tappa successiva. L’individualismo geniale trova in questa figura una forma astratta, virtuosistica, la forma, per cosí dire, del gioco. La personalità esige le sue vittime non piú nell’interesse di un’idea superiore, di un fine obiettivo, di un’opera praticamente valida, ma semplicemente per provare la propria attitudine all’azione libera e sovrana. L’azione in sé diventa affatto secondaria; il problema è puramente formale: la libertà dell’individuo è in se stessa un valore? La risposta di Dostoevskij non è certo cosí chiara come potrebbe a prima vista sembrare. L’individualismo porta al caos e all’anarchia, ma dove portano la costrizione e l’ordine? Il problema trova la sua espressione ultima e piú profonda nel racconto del Grande Inquisitore, e la soluzione a cui giunge qui Dostoevskij può considerarsi il risultato

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di tutta la sua filosofia morale e religiosa. L’abolizione della libertà cristallizza le istituzioni e sostituisce alla religione la Chiesa, all’individuo lo Stato, all’inquietudine di chi domanda e ricerca l’acquietamento nel dogma. Cristo è intima libertà, ma anche lotta senza fine; la Chiesa è intima costrizione, ma anche pace e sicurezza. Si vede come sia dialettico il pensiero di Dostoevskij e quanto sia difficile definirne chiaramente la posizione etica e politico-sociale. Il tanto deprecato reazionario e dogmatico conclude l’opera sua con un problema aperto. Per Tolstoj la questione dell’individualismo è di gran lunga meno importante che per Dostoevskij, ma è pur sempre la chiave per comprendere le sue figure psicologicamente piú interessanti e moralmente piú significative. Soprattutto la figura di Levin è tutta costruita per essere l’esponente di questo problema, e la violenza dei suoi intimi conflitti rivela quanto sia dura la lotta di Tolstoj con l’idea dell’isolamento e lo spettro dell’uomo abbandonato a se stesso. Dostoevskij aveva ragione: Anna Karenina non è un libro innocuo. È pieno di dubbi, scrupoli, timori. Il motivo fondamentale, che è quello poi che lega la storia di Anna con quella di Levin, è anche qui l’appartarsi dell’individuo dalla società e il pericolo di diventarle estranei. Lo stesso destino, che colpisce Anna per il suo adulterio, minaccia Levin per il suo individualismo, la sua visione anticonformista, i suoi strani dubbi e problemi. Entrambi si espongono al rischio di venir espulsi dalla società della gente normale e rispettabile. Ma, mentre Anna rinunzia senz’altro all’approvazione della società, Levin fa ogni sforzo per non perderne l’appoggio. Egli accetta il giogo matrimoniale, amministra la sua terra come fanno i suoi vicini, si piega alle convenzioni e ai pregiudizi del suo ambiente; in breve, è disposto a tutto, pur di non diventare uno spostato, un escluso, un eccentrico, uno stravagante60.

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Ma nell’anti-individualismo di Dostoevskij e di Tolstoj si svela tutta la differenza della loro mentalità. Le obiezioni di Dostoevskij sono di natura irrazionale e mistica; per lui il principium individuationis significa la negazione dello spirito universale, l’unità originaria, l’idea divina che, in forma storicamente concreta, si manifesta come popolo, nazione, comunità sociale. Tolstoj invece respinge l’atteggiamento individualistico semplicemente per motivi razionali, eudemonistici; l’assoluta libertà personale non può portare all’uomo né felicità, né soddisfazione; sollievo e contentezza egli può trovare soltanto nella rinunzia al proprio io e nell’altruismo. Fra i due scrittori si ripropone quel rapporto significativo, esemplare, profondamente tipico, che già era intercorso fra Voltaire e Rousseau e che si era ripresentato in termini analoghi fra Goethe e Schiller61. In tutti questi casi si tratta dell’antitesi di razionalismo e irrazionalismo, senso e intelletto, o, come si esprime Schiller, di spontaneo e sentimentale. Nei tre casi il contrasto si può ricondurre alle differenze sociali degli antagonisti: ogni volta un aristocratico, un patrizio sta di fronte a un plebleo, a un ribelle. Certamente si deve soprattutto alla sua natura aristocratica se tutta l’arte e il pensiero di Tolstoj si radicano nell’idea del corporeo, dell’organico, del naturale. Lo spiritualismo di Dostoevskij invece, la sua natura speculativa, il procedere dinamico, dialettico del suo pensiero si spiegano con la sua origine borghese e la sua plebea mancanza di vincoli. L’aristocratico si afferma col semplice fatto di essere, grazie all’origine, alla razza; ma il plebeo deve tutto al suo talento, alle sue attitudini e alle sue azioni. Il rapporto tra signori feudali e scrivani non è mutato nel corso dei secoli, anche se talvolta il signore è diventato egli stesso una specie di «scrivano». Il contrasto tra la discrezione di Tolstoj e l’esibizionismo di Dostoevskij, tra il nobile ritegno dell’uno e –

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com’è detto nei Demoni – «il danzar nudo in pubblico» dell’altro, risulta dallo stesso divario sociale che divide Voltaire da Rousseau. Piú difficile invece è riferire a premesse sociologiche le peculiarità di stile e di carattere: cioè misura disciplina, ordine per l’uno; assenza di forma, caos, anarchia per l’altro. In certe circostanze la dismisura è dell’aristocratico come del plebeo, e sappiamo che l’arte borghese dimostra spesso una tendenza al rigorismo non inferiore a quella dell’arte aulica. Nella composizione delle sue opere Tolstoj è eccessivo e arbitrario quanto Dostoevskij; per questo riguardo sono entrambi anarchici. Ma in Tolstoj c’è un riserbo maggiore nello scrutare gli abissi dell’anima e un piú esigente criterio nella scelta dei mezzi destinati a commuovere. L’arte sua è molto piú elegante, pura e gradevole di quella di Dostoevskij e, di contro a questo tipico rappresentante della nevrosi ottocentesca, a ragione lo si è detto un figlio del Settecento. Rispetto a Dostoevskij romantico, mistico, «dionisiacamente» estatico, egli ha, piú o meno, l’aria di un classico o, se vogliamo mantenere la terminologia di Nietzsche, di una natura «apollinea», plastica, statuaria. In contrasto con la natura problematica di Dostoevskij, tutto il suo modo di pensare ha un carattere positivo, nel senso che gli attribuiva Goethe quando diceva di voler sentire l’opinione altrui espressa in forma «positiva», perché di problematico ne aveva abbastanza in se stesso. Il detto, se non per la forma certo per la sostanza, potrebbe essere di Tolstoj, che appunto disse qualcosa di simile a proposito di Dostoevskij. Egli lo paragonava a un cavallo che alla prima occhiata fa una splendida impressione e pare valga mille rubli; ma a un tratto ci si accorge che ha un difetto nell’andatura e zoppica, e si conclude con rincrescimento che non vale un soldo. Effettivamente Dostoevskij aveva un difetto e, accanto al robusto, «sano» Tolstoj, lascia sempre un po’ un’impressione

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patologica, come Rousseau di fronte al ragionevole ed equilibrato Voltaire. Ma qui le categorie non si possono piú distinguere cosí nettamente come in Voltaire e in Rousseau. Lo stesso Tolstoj rivela tutta una serie di tratti che per molti riguardi lo pongono assai piú di Dostoevskij vicino a Rousseau. Il suo ideale di semplicità, naturalezza e sincerità non è che una variante del rousseauiano «disagio della cultura», e la sua nostalgia dell’idillico villaggio patriarcale non è che una nuova forma della vecchia avversione romantica alla civiltà. Non per nulla egli cita le parole di Lichtenberg, che l’umanità sarebbe perduta se non ci fossero piú selvaggi. Ma anche questi aspetti alla Rousseau non sono che espressione del timore della solitudine, dello sradicamento, dell’esclusione dalla società. Tolstoj condanna la civiltà moderna per i suoi effetti di differenziazione, e l’arte di Shakespeare, di Beethoven e di Pu∫kin, perché divide, invece di unirli, i vari strati dell’umanità. Quel che nelle teorie di Tolstoj potrebbe dirsi collettivismo e lotta contro le distinzioni di classe, non ha nulla a che vedere con la democrazia e il socialismo; è piuttosto la nostalgia di un intellettuale solitario per una comunità da cui egli spera anzitutto la propria salvezza. Quando Cristo invitò il giovane ricco a distribuire ai poveri tutto quanto possedeva non voleva, secondo l’esegesi di Henry George, aiutare i poveri, ma solo il giovane ricco. Anche l’intento di Tolstoj è di aiutare anzitutto il «giovane ricco». L’autoperfezionamento e la salvezza dell’anima sono il suo vero scopo. Spiritualismo ed egocentrismo determinano il carattere irreale, utopico del messaggio sociale tolstoiano e le intime contraddizioni della sua dottrina politica. Questa morale strettamente privata implica il quietismo, il rifiuto dell’opposizione violenta al male, e lo sforzo di riformare le anime invece della realtà. «Nulla è piú dannoso per gli uomini», scrive nel suo appello Al popolo lavoratore dopo la rivo-

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luzione del 1905, «dell’idea che le cause della loro miseria stiano nelle condizioni esteriori, anziché in loro stessi». La passività di Tolstoj di fronte alla realtà esteriore corrisponde allo spirito pacifico della soddisfatta classe dominante e il suo lambiccato moralismo di autoaccusa e di autotormento è del tutto estraneo al pensiero e al sentimento del popolo. Ma Tolstoj, come Dostoevskij, non si lascia costringere in una definizione politica troppo stretta. Egli è un inflessibile osservatore della realtà sociale, un sincero amico della verità e della giustizia e un implacabile critico del capitalismo, benché giudichi i difetti e le colpe della moderna società unicamente dal punto di vista del contadino e dell’economia agricola; d’altra parte, egli non vede le vere cause del male e predica una morale che a priori significa la rinunzia ad ogni attività politica62. Tolstoj non è un rivoluzionario, anzi è un nemico aperto di ogni atteggiamento rivoluzionario; tuttavia, a differenza dei fautori dell’«ordine» e della pace sociale in Occidente, come Balzac, Flaubert e i Goncourt, egli tollera il terrore governativo ancor meno di quello rivoluzionario. L’assassinio di Alessandro II non lo scuote affatto, ma all’esecuzione degli attentatori reagisce con una protesta63. Nonostante i suoi pregiudizi e i suoi errori, Tolstoj rappresenta un’immensa forza rivoluzionaria. La sua lotta contro le menzogne dello stato poliziesco e della Chiesa, il suo entusiasmo per la comunità contadina e l’esempio della sua stessa vita, qualunque sia stato l’intimo motivo della sua «conversione» e della sua fuga finale, sono da considerare tra i fermenti che disgregano la vecchia società e favoriscono non solo la rivoluzione russa, ma il movimento rivoluzionario contro il capitalismo in tutta Europa. Di fatto, per Tolstoj si può parlare non solo di «trionfo del realismo», ma anche di «trionfo del socialismo»; non solo della spre-

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giudicata pittura sociale di un aristocratico, ma anche dell’efficacia rivoluzionaria di un reazionario nato. L’intransigente razionalismo impedisce all’arte e alla dottrina filosofica di Tolstoj di finire nella sterilità e nell’inefficienza. Il suo sguardo acuto e obiettivo per i fatti fisici e psichici e la sua ripugnanza ad ingannare se stesso e gli altri mantengono la sua religiosità fuori da ogni misticismo e dogmatismo e fanno del suo moralismo cristiano un efficace fattore politico. L’entusiasmo di Dostoevskij per l’ortodossia russa gli è estraneo quanto in genere la religiosità degli slavofili. Anche alla fede egli giunge per una via razionale, pragmatica, non spontanea64. Tutto razionale è il processo della sua cosiddetta conversione, senza alcuna immediata esperienza religiosa. Fu, com’egli dice nella sua Confessione, «il senso di paura di chi è orfano e solo» a far di lui un cristiano. Non un’esperienza mistica di Dio e dell’aldilà, ma la scontentezza di sé, l’aspirazione a trovare un senso e uno scopo alla vita, la disperazione per la propria nullità e inconsistenza, e soprattutto l’infinita paura della morte fanno di lui un credente. Egli diventa un apostolo dell’amore, perché ha coscienza di mancare d’amore; esalta la solidarietà umana per contrastare alla propria sfiducia e al proprio disprezzo verso gli uomini; e afferma l’immortalità dell’anima umana, perché non può sopportare l’idea della morte. Tutta la sua esperienza religiosa è un’ascesi «razionalmente intesa a uno scopo», un esercizio di cristianesimo secondo il modello orientale. Ma la sua fuga dal mondo è aristocraticamente altera, non già cristianamente umile; al mondo egli rinunzia, perché il mondo non si lascia completamente dominare e possedere. Il concetto della grazia è l’unico elemento irrazionale nella concezione religiosa di Tolstoj. Nei suoi Racconti popolari lo scrittore riprende una vecchia leggenda d’origine medievale. In tempi remoti viveva in un’isola

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deserta un santo eremita. Un giorno, presso la sua capanna, approdarono dei pescatori, fra cui un vecchio cosí semplice che non riusciva quasi ad esprimersi e non sapeva nemmeno pregare. L’eremita, profondamente turbato da tanta ignoranza, con molta fatica gli insegnò il Paternoster. Il vecchio lo ringraziò caldamente e, con gli altri pescatori, lasciò l’isola. Dopo qualche tempo, quando il battello era ormai sparito in lontananza, a un tratto il santo scorse all’orizzonte una figura umana che si avvicinava all’isola camminando sullo specchio delle acque. Ben presto riconobbe il vecchio, il suo scolaro, e, quando questi toccò terra, gli andò incontro muto e sbalordito. Balbettando, il vecchio gli fece capire che aveva dimenticato la preghiera. «Tu non hai bisogno di pregare», rispose l’eremita, e congedò il vecchio che, librandosi sull’acqua, s’affrettò verso il battello dei pescatori. Il senso di questa storia sta nell’idea di una salvezza eterna non legata ad alcun criterio morale. In un altro racconto degli anni tardi, Padre Sergio, Tolstoj rappresenta lo stesso motivo dal lato opposto: la grazia, che ad uno viene concessa senza che faccia nessun sforzo e apparentemente senza merito, rimane negata all’altro, nonostante ogni pena e ogni tormento, nonostante i sacrifici sovrumani e l’eroica vittoria su se stesso. Questo concetto della grazia, per cui l’elezione sta al di sopra del merito e la predestinazione viene assimilata alla nascita e alla fortuna, evidentemente si lega piú con l’origine aristocratica di Tolstoj che con il suo cristianesimo. L’ottimismo dell’aristocratico sano e sicuro di sé, che ancora domina in Guerra e pace, e fa del romanzo un’apoteosi della vita animale, vegetativa, organicamente creatrice, un grande idillio, «un’ingenua epopea» – e sul suo coronamento, come osserva cosí gustosamente Mere∫kovskij, il poeta «pianta come bandiera che indichi la via all’umanità le fasce dei bimbi di Nata∫a»65 –

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questo ottimismo panteistico si oscura in Anna Karenina e si avvicina al pessimismo della letteratura occidentale; ma la delusione per l’arida e convenzionale civiltà moderna ha qui tutt’altro carattere che in Flaubert e in Maupassant. Il trionfo della vita reale sul romanticismo dei sentimenti già in Guerra e pace si contaminava di una certa malinconia, e anche prima, ad esempio in Felicità domestica, Tolstoj aveva avuto toni flaubertiani nel descrivere il degenerare delle grandi passioni, specialmente il decadere dell’amore ad amicizia. Ma il dissidio tra ideale e realtà, poesia e prosa, giovinezza e vecchiaia non è mai in lui cosí sconsolato come nei francesi. La sua delusione non porta mai al nichilismo, né all’accusa contro tutto quel che ha corpo e vita. Nel romanzo occidentale l’eroe venuto a conflitto con la realtà commisera e drammatizza se stesso con troppe querimonie; la colpa dell’urto è sempre delle condizioni esteriori: società, stato, ambiente. In Tolstoj invece, quando si giunge al conflitto, l’io soggettivo è colpevole quanto la realtà obiettiva66. Se la vita che delude è troppo arida, l’eroe deluso è però troppo sentimentale, poetico, utopico; alla vita manca, è vero, ogni tolleranza verso i sognatori, ma a questi manca il senso della realtà. Da questa concezione dell’io e del mondo, diversa da quella di Flaubert, dipende soprattutto la profonda differenza di forma tra il romanzo occidentale e quello tolstoiano. Di fatto, questo è lontano dalla norma naturalistica almeno quanto quello di Dostoevskij; ma in senso opposto. Se i romanzi di Dostoevskij hanno una struttura drammatica, i suoi hanno carattere epico, sono veramente simili all’epos. Non c’è lettore attento che non ne abbia sentito il maestoso, omerico fluire, l’ampiezza panoramica e il panteistico senso della vita. Tolstoj stesso si era paragonato a Omero, e il paragone è diventato una formula costante nella critica. Omerica è sempre apparsa la sua forma, aliena da ogni risalto

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romantico e drammatico, la sua rinunzia all’esasperazione e all’intensità del dramma. L’accentramento drammatico del romanzo, maturato con il trapasso dalla forma picaresca del Settecento a quella biografica del preromanticismo, non si riscontra ancora in Guerra e pace. Egli considera il conflitto tra individuo e società non come una tragedia inevitabile, ma come una calamità che egli, come i settecentisti, fa risalire alla mancanza di perspicacia, d’intelligenza e di serietà morale. Egli vive ancora nell’età illuministica della Russia, in un’atmosfera intellettuale di fiducia nel mondo e nell’avvenire. Ma, lavorando ad Anna Karenina, quell’ottimismo viene meno, e soprattutto viene meno la sua fede nell’arte, dichiarata del tutto inutile, anzi dannosa, a meno che non rinunci alle raffinatezze e alle trovate del naturalismo e dell’impressionismo moderno, e da articolo di lusso diventi bene comune dell’umanità. Nell’estraniarsi dell’arte dalle grandi masse e nel restringersi del pubblico a una cerchia sempre piú angusta, Tolstoj riconobbe un reale pericolo. È indubbio che l’ampliarsi di quella cerchia e il contatto con ceti culturalmente meno esclusivi sarebbe stato un vantaggio per l’arte. Ma un tale mutamento non poteva prodursi se non contrastando l’attività degli artisti cresciuti nella tradizione dell’arte moderna e favorendo invece con ogni mezzo, e a svantaggio di quelli, l’attività dei dilettanti che a questa tradizione erano estranei? Col suo rifiuto della grande evoluzione dell’arte moderna e la sua predilezione per le forme dell’arte primitiva, «universalmente umana», Tolstoj si palesa ancora discendente di Rousseau, non meno di quando contrappone il villaggio alla città e identifica la questione sociale con quella dei contadini. Che per esempio egli trascurasse Shakespeare, è perfettamente comprensibile. Come poteva piacere il manierismo di un poeta, anche grandissimo, a un puritano che odiava ogni forma di esuberanza e di virtuosismo? Ma

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è incomprensibile che il creatore di opere d’arte cosí raffinate come Anna Karenina e La morte di Ivan Il´ic, in tutta la letteratura moderna accettasse senza riserve, oltre a La capanna dello zio Tom, solo I masnadieri di Schiller, I Miserabili di Victor Hugo, I racconti di Natale di Dickens, Le memorie dalla casa dei morti di Dostoevskij e Adam Bede di George Eliot67. L’atteggiamento di Tolstoj di fronte all’arte può essere inteso soltanto come il sintomo di un mutamento storico, come il segno di un’evoluzione che conclude la cultura estetica dell’Ottocento e produce una generazione che nell’arte torna a vedere anzitutto la mediatrice delle idee68. Questa generazione venerò nell’autore di Guerra e pace non solo il grande poeta, non solo il creatore del massimo romanzo della letteratura universale, ma piú ancora il riformatore sociale e il fondatore di una religione. Tolstoi ebbe la fama di Voltaire, la popolarità di Rousseau, l’autorità di Goethe e, piú di tutto questo, divenne una figura leggendaria, il cui prestigio ricordava gli antichi veggenti e profeti. Jasnaja Poljana divenne meta di pellegrinaggio per uomini d’ogni nazione, classe e cultura, che ammiravano come un santo il vecchio conte con la blusa da contadino. Gor´kij non dev’essere stato l’unico a pensare, vedendolo: «Quest’uomo è simile a Dio!» Confessione di un miscredente che cosí chiude i suoi ricordi su Tolstoj69. E forse, come Thomas Mann, molti altri ebbero il senso che dopo la sua morte l’Europa fosse rimasta «senza padrone»70. Ma erano soltanto sentimenti e stati d’animo, parole di riconoscenza e di fedeltà. Senza dubbio Tolstoj fu come la viva coscienza dell’Europa, il grande maestro ed educatore che meglio di ogni altro seppe esprimere l’inquietudine morale e la volontà di rinnovamento spirituale della sua generazione; ma con il suo ingenuo orientamento alla Rousseau e con il suo quietismo non avrebbe certo potuto rimanere «padrone» del-

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l’Europa, se mai lo fu. Infatti, come pensava Ωechov, per un artista può bastare porre giustamente i problemi, ma per un uomo che debba regnare sul suo secolo è necessario che sappia anche giustamente risolverli. a. paul oppé, Art, in Early Victorian England, a cura di G. M. Young, 1934, II, p. 154. 2 ruskin, Stones of Venice, III, in Works, 1904, XI, p. 201. 3 h. w. singer, Der Präraffaelismus in England, 1912, p. 51. 4 Cfr. a. clutton-brock, William Morris. His Work and Influence, 1914, p. 9. 5 d. c. somervell, English Thought in the 19th Century, 1947, 5a ed., p. 153. 6 christian eckert, John Ruskin, in «Schmollers Jahrbuch», XXVI, 1902, p. 362. 7 e. batho - b. dobrée, The Victorians and After, 1938, p. 112. 8 a. clutton-brock, William Morris ecc. cit., p. 150. 9 Ibid., p. 228. 10 william morris, Art under Plutocracy, 1883. 11 m. louis cazamian, Le Roman social en Angleterre (1830-1850), II, 1935, pp. 250-51. 12 Ibid., I, 1934, pp. 11-12, 163. 13 w. l. cross, The Development of the English Novel, 1899, p. 182. 14 m. l. cazamian, Le roman social ecc. cit., I, p. 8. 15 a. h. thorndike, Literature in a Changing Age, 1920, pp. 24-25. 16 Cfr. q. d. leavis, Fiction and the Reading Public, 1939, p. 156. 17 g. k. chesterton, Charles Dickens, 1917, 11a ed., pp. 79, 84. 18 amy cruse, The Victorians and their Books, 1936, 2a ed., p. 158. 19 osbert sitwell, Dickens, 1932, p. 15. 20 Cfr. m. l. cazamian Le roman social ecc. cit., I, pp. 209 sgg. 21 t. a. jackson, Charles Dickens, 1937, pp. 22-23. 22 humphrey house, The Dickens World, 1941, p. 219. 23 Cfr. il discorso di Dickens a Birmingham il 27 settembre 1869. 24 Cfr. h. house, The Dickens World cit., p. 209. 25 hippolyte taine, Histoire de la littérature anglaise, 1864, IV, p. 66. 26 o. sitwell, Dickens cit., p. 16. 27 q. d. leavis, Fiction ecc. cit., pp. 33-34, 42-43, 158-59, 168-69. 28 m. l. cazamian, Le roman et les idées en Angleterre, I, 1923, p. 138. - elizabeth s. haldane, George Eliot and her Times, 1927, p. 292. 29 p. bourl’honne, George Eliot, 1933, pp. 128, 135. 30 ernest a. baker, History of the English Novel, VIIII, 1937, pp. 240-54. 1

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte e. batho - b. dobrée, The Victorians and After cit., pp. 78-79, 91-92. 32 george eliot, Middlemarch, 1871-72, XV. 33 m. l. cazamian, Le roman social cit., p. 108. 34 j. w. cross, George Eliot’s Life as related in her Letters and Journal, 1885, p. 230. 35 f. r. leavis, The Great Tradition, 1948, p. 61. 36 alfred wtzer, Die Not der geistigen Arbeiter, in «Schriften des Vereins für Sozialpolitik», 1920. 37 g. lukacs, Moses Hess und die Probleme der idealistischen Dialektik, in «Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung», xii, 1926, p. 123. 38 karl mannheim, Ideology and Utopy, 1936, pp. 136 sgg. - Man and Society in an Age of Reconstruction, 1940, pp. 79 sgg. 39 Cfr. hans speier Zur Soziologie der burggerlischen Intelligenz in Deutschland, in «Die Gesellschaft», II, 1929, p. 71. 40 d. s. mirsky, Contemporary Russian Literature, 1926, pp. 42-43. 41 id., A History of Russian literature, 1927, p. 321-22. 42 m. n. pokrovsky, Brief History of Russia, I, 1933, p. 144. 43 d. s. mirsky, Russia. A Social History 1931, p 199. 44 janko lavrin, Pushkin and Russian Literature, 1947, p. 198. 45 d. s. mirsky, A History of Russian Literature, pp. 203-4. 46 Ibid., p. 204. 47 Ibid., p. 282. 48 t. g. masaryk, Zur russischen Geschichts- und Religionsphilosophie, 1913, I, p. 126. 49 turgenev in una lettera a Herzen dell’8 novembre 1862. 50 e. h. carr, Dostoevsky, 1931. p. 268. 51 nikolaj berdjaev, Mirosozercanie Dostoevskogo, Praha 1923 [trad. it., La concezione di Dostoevskij, Torino 1945, p. 21]. 52 mirsky, A History of Russian Literature cit., p. 219. 53 e. h. carr, Dostoevsky cit., pp. 281 sgg. 54 Ibid., pp. 267-68. 55 dostoevskij, Diario di uno scrittore, febbraio 1877. 56 edmund wilson, The Wound and the Bow, 1941, p. 50. - rex warner, The Cull of Power, 1946, p. 41. 57 Cfr. d. s. MEREZKOVSKIJ, Tolstoj i Dostoevskij [trad. ted., Tolstoj und Dostojewskij, 1903, p. 232]. 58 vladimir pozner, Dostoievskij et le roman d’aventure, in «Europe» XXVII, 1931. 59 Ibid., pp. 135-36. 60 Cfr. lenon sestov, Dostoevskij i Nietzsche [trad. ted., Dostojewskij und Nietzsche, 1924, pp. 90-91]. 31

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte t. mann, Goethe und Tolstoi, in Bemühungen, 1925, p. 33 [trad. it., Goethe e Tolstòj, in Nobilità dello spirito, Milano 1954]. 62 n. lenin, L. N. Tolstoi (1910), in n. lenin - g. plechanov, L. N. Tolstoi im Spiegel des Marxismus, 1928, pp. 42-44. 63 d. s. mirsky, Contemporary Russian Literature cit., p. 8. 64 Ibid., p. 9. janko lavrin, Tolstoy, 1944, p. 94. 65 d. s. mereikovskij, Tolstoij Dostoevskij cit., p. 183. 66 g. lukács, Nagy orosz realisták, Budapest 1946, p. 92 [trad. it., Saggi sul realismo, Torino 1950]. 67 tolstoj, Che cosa è l’arte?, XVI. 68 Cfr. t. mann, Die Forderung des Tages cit., p. 283. 69 maksim gor’kij, Letteratura e vita. 70 t. mann, Die Forderung des Tages cit., p. 278. 61

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Capitolo quarto L’impressionismo

Il confine fra naturalismo e impressionismo è fluido, le due correnti non ammettono una precisa distinzione né storica, né concettuale. La gradualità del mutamento stilistico corrisponde alla continuità dello sviluppo economico dell’epoca e alla stabilità dei rapporti sociali. Nella storia di Francia il 1871 ha un’importanza solo transitoria. Il predominio dell’alta borghesia rimane sostanzialmente intatto e all’impero «liberale» subentra la repubblica conservatrice: quella «repubblica senza repubblicani»1, a cui ci si adatta, perché sembra assicurare il minor attrito possibile nella soluzione dei problemi politici. Ma con essa ci si riconcilia soltanto dopo che essa ha sterminato i comunardi, confortandosi con la teoria del salasso necessario e benefico2. Gli intellettuali assistono perplessi agli avvenimenti. Flaubert, Gautier, i Goncourt e molti altri con loro si sfogano in vituperi e imprecazioni contro i perturbatori. Al massimo, dalla repubblica sperano un riparo contro il clericalismo e nella democrazia vedono il male minore3. Il capitalismo finanziario e industriale continua la sua coerente evoluzione secondo l’antico indirizzo; ma nel profondo avvengono mutamenti notevoli, sebbene ancora inavvertiti. L’economia entra nello stadio del grande capitalismo e da «libero gioco di forze» si trasforma in un sistema rigidamente organizzato e razionalizzato, in una fitta rete di sfere d’interessi, zone doganali, situazioni

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di monopolio, cartelli, trusts e sindacati. E come questo accentramento sistematico dell’economia ha potuto esser designato come un fenomeno di senilità4, cosí dovunque nella società borghese si possono constatare indizi d’incertezza e segni premonitori di dissoluzione. La Comune finisce con una sconfitta cosí completa degli insorti, quale nessun’altra rivoluzione aveva ancora subito, ma è la prima che sia sostenuta da un movimento operaio internazionale, e la borghesia ne esce, sì, vittoriosa, ma con il senso di un pericolo acuto5. È quest’intima crisi a rinnovare le tendenze idealistiche e mistiche e a suscitare contro il pessimismo prevalente la reazione di un forte movimento religioso. Soltanto nel corso di questo processo l’impressionismo, perde il contatto con il naturalismo e, specie nella poesia, si trasforma in una nuova forma di romanticismo. Gli enormi progressi della tecnica non valgono a mascherare l’intima crisi del tempo. Anzi la crisi stessa è da considerarsi tra gli stimoli alle conquiste tecniche e al miglioramento dei metodi produttivi6. Certi aspetti dell’atmosfera di crisi si fanno sentire in tutte le manifestazioni della tecnica. Soprattutto il ritmo frenetico dello sviluppo e il succedersi forzato dei mutamenti appaiono patologici, specie se confrontati con il progresso dei secoli precedenti e studiati nelle loro ripercussioni sull’arte. Il rapido sviluppo della tecnica non affretta soltanto il variare delle mode, ma anche il mutare del gusto artistico; sovente esso porta a un’assurda e sterile smania di novità, a una incessante aspirazione al nuovo in quanto nuovo. Gli imprenditori debbono accrescere ad arte il bisogno di prodotti piú moderni e alimentare continuamente l’idea che la cosa nuova sia sempre la migliore, se vogliono realmente trarre profitti dalle conquiste della tecnica7. Ma la continua e sempre piú frequente sostituzione dei vecchi oggetti d’uso fa sí che diminuisca sempre piú l’attaccamento alle cose

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materiali, e ben presto anche a quelle dello spirito, sicché il ritmo dei mutamenti in campo filosofico e artistico finisce per adattarsi a quello delle mode. La tecnica moderna provoca cioè una inaudita dinamizzazione della concezione del mondo, ed è essenzialmente questo nuovo senso dinamico che si esprime nella vita. Un fenomeno imponente che va connesso con il progresso tecnico è lo svilupparsi dei centri di cultura in vere e proprie metropoli moderne; queste sono il terreno in cui l’arte nuova affonda le sue radici. L’impressionismo è l’arte urbana per eccellenza, e non solo perché scopre la città e alla città riporta, dalla campagna, la pittura di paesaggio, ma anche perché vede il mondo con gli occhi del cittadino e reagisce alle impressioni dall’esterno con l’ipertensione nervosa dell’uomo educato alla tecnica moderna. È uno stile urbano, perché ritrae la mutevolezza, il ritmo nervoso, le impressioni subitanee, nette ma labili, della vita cittadina. E appunto come tale rappresenta un’immensa espansione della percezione sensoriale, una nuova, acuita sensibilità, una nuova eccitabilità nervosa e, accanto all’arte gotica e al romanticismo, rappresenta una fra le piú importanti svolte nella storia dell’arte occidentale. Nel processo dialettico che percorre la storia della pittura, nell’alternarsi di stasi e dinamismo, disegno e colore, ordine astratto e vita organica, l’impressionismo segna l’acme della tendenza dinamica che dissolve interamente la statica visione medievale. Come dall’economia del tardo Medioevo al grande capitalismo corre una linea ininterrotta di sviluppo, cosí anche dall’arte gotica all’impressionismo; e l’uomo moderno, che concepisce tutta la sua vita come lotta e gara, che traduce in movimento e mutamento ogni forma di vita, che sente l’esperienza del mondo sempre piú come esperienza del tempo, è il prodotto di questo processo duplice, ma fondamentalmente unitario.

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Il prevalere del momento sulla durata e la stabilità, il senso che ogni fenomeno è una costellazione transitoria e irripetibile, una labile onda del fiume in cui non si scende due volte, è la piú semplice formula a cui si può ridurre l’impressionismo. Tutto il metodo impressionistico, con i suoi mezzi e i suoi trucchi, non mira che ad esprimere questa visione eraclitea, sottolineando che la realtà non è un essere, ma un divenire, non uno stato, ma un evento. Ogni quadro impressionistico è il sedimento di un istante nel perpetuum mobile della vita, la rappresentazione di un labile equilibrio sempre minacciato nel gioco delle opposte forze. La visione impressionistica trasforma il quadro naturale in un processo, in qualche cosa che si forma e svanisce. Ogni cosa stabile e coerente, si risolve in essa in metamorfosi e la realtà vi assume un volto non-finito e imperfetto. Viene cioè perfettamente reso l’atto soggettivo del vedere, non piú l’obiettivo substrato di esso vedere, con cui s’inizia la storia della moderna pittura prospettica. La rappresentazione della luce, dell’aria, dell’atmosfera, la scomposizione della superficie colorata in macchie e tocchi, la dissoluzione del colore locale in tono, in valori prospettici e atmosferici, il gioco dei riflessi e delle ombre schiarite, il tocco virgolato, tremulo e guizzante e la pennellata scoperta, fluida, libera, tutto quel dipingere alla prima con il rapido disegno appena schizzato, il colpo d’occhio fuggevole, apparentemente distratto, e l’immagine resa con virtuosistica approssimazione, in ultima analisi altro non esprimono se non quel senso di una realtà mobile, dinamica, sempre mutevole che è cominciato con la soggettivizzazione della rappresentazione pittorica attraverso la prospettiva. Un mondo di fenomeni che senza posa si rinnova per innumerevoli, impercettibili passaggi, suscita l’impressione di un continuo in cui tutto confluisce; sicché a mutare è solo l’atteggiamento, il punto di vista dell’os-

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servatore. Un’arte adeguata a questo mondo non solo accentuerà il carattere momentaneo e transitorio dei fenomeni, non solo vedrà nell’uomo la misura delle cose, ma cercherà il criterio del vero nell’hic et nunc dell’individuo. Il caso sarà per essa il principio di ogni esistenza e la verità del momento toglierà valore ad ogni altra verità. Il primato dell’istante, del divenire e del caso significa, espresso in termini estetici, il prevalere dello stato d’animo sulla vita, cioè di un rapporto con le cose, caratterizzato non solo dalla mutevolezza, ma dalla mancanza di qualsiasi impegno. In questa tendenza dell’arte si esplica un atteggiamento fondamentalmente passivo di fronte alla vita, un adattarsi alla parte di spettatore, di soggetto recettivo e contemplante, cioè una posizione di distacco, di attesa, di neutralità – insomma, il puro atteggiamento estetico. L’impressionismo è al sommo di questa cultura ed è l’estrema conseguenza della rinunzia romantica alla vita attiva. Come stile, l’impressionismo è un fenomeno singolarmente complesso. Per certi aspetti esso rappresenta soltanto la coerente evoluzione del naturalismo. Se con questo termine s’intende il passaggio dal generale al particolare, dal tipico all’individuale, dall’idea astratta all’esperienza concreta, determinata nel tempo e nello spazio, la rappresentazione impressionistica della realtà, proprio in quanto accentua l’elemento momentaneo e irripetibile, rappresenta una importante conquista del naturalismo. I quadri impressionistici sono piú vicini all’esperienza dei sensi di quelli naturalistici in senso stretto, e per la prima volta nella storia dell’arte sostituiscono totalmente all’oggetto del sapere teorico quello dell’immediata esperienza visiva. Senonché, separando gli elementi ottici da quelli concettuali ed elaborando il dato visivo nella sua autonomia, l’impressionismo si allontana da tutta la pratica dell’arte precedente e quindi anche dal naturalismo. Mentre finora si tendeva

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a un’immagine che, pur unificata nella coscienza, era tuttavia composta di elementi eterogenei, concettuali e sensoriali, il metodo proprio dell’impressionismo tende a ottenere una omogeneità dell’immagine puramente visiva. Ogni arte precedente era il risultato di una sintesi; l’impressionismo, di un’analisi. Ogni volta esso costruisce il suo oggetto dai puri dati dei sensi, risalendo all’inconscio meccanismo psichico, e in parte esso fornisce un materiale d’esperienza ancora grezzo, piú lontano dalla consueta immagine della realtà di quanto lo siano le impressioni sensoriali elaborate razionalmente. L’impressionismo è meno illusionistico del naturalismo, non dà l’illusione, ma gli elementi dell’oggetto; invece di un’immagine totale, dà i singoli elementi di cui si compone l’esperienza. Prima dell’impressionismo l’arte riproduceva gli oggetti per mezzo di segni, ora li rappresenta attraverso le loro componenti, attraverso elementi della materia prima di cui sono composti8. Rispetto all’arte piú antica, il naturalismo aveva significato un ampliamento del patrimonio della pittura, aveva accresciuto i temi e arricchita la tecnica. Invece il metodo impressionistico implica una serie di riduzioni, un sistema di limitazioni e semplificazioni9. Nulla è piú tipico per un dipinto impressionista del fatto che si debba contemplarlo da una certa distanza e ch’esso ritragga le cose con le omissioni proprie della veduta da lontano. La serie delle riduzioni comincia limitando gli elementi figurativi alla pura visualità ed eliminando tutto quello che non è di natura ottica o traducibile nelle categorie dell’ottica. La rinunzia ai cosiddetti elementi letterari del soggetto, al racconto o all’aneddoto, è l’espressione piú evidente di questo «ripiegare della pittura sui propri mezzi». Che i temi figurativi si riducano al paesaggio, alla natura morta e al ritratto, o che ogni altro soggetto venga trattato come «paesaggio» o «natura morta», non è che un sintomo che rivela il pre-

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dominio di uno specifico «pittoricismo»: «La scelta di un soggetto non per se stesso, ma per i suoi toni è ciò che distingue gli impressionisti dagli altri pittori», constata già uno dei primi storici e teorici del movimento10. Questa tendenza a materializzare, a neutralizzare il tema, può essere considerata come espressione dei sentimenti antiromantici dell’epoca, una forma di completa diseroicizzazione dei soggetti artistici, ma può anche essere intesa come un allontanamento dalla realtà; e la tendenza a limitare la pittura a soggetti specifici può apparire come una perdita da un punto di vista naturalistico. Il sorriso, che i Greci avevano dato all’arte figurativa e che, come qualcuno ha osservato, va perdendosi nell’arte moderna11, è sacrificato alla visione «pittorica»; ma con esso scompare dalla pittura ogni psicologia e ogni umanesimo. La sostituzione dell’immagine visiva all’immagine plastica, cioè la traduzione in superficie del volume dei corpi e della forma plastico-spaziale, è un grado ulteriore, anch’esso legato alla tendenza «pittorica» dell’epoca, nella serie di quelle riduzioni che l’impressionismo impone all’immagine naturalistica della realtà. Questa però non è il fine, ma soltanto una conseguenza laterale del metodo. È solo per meglio accentuare gli effetti cromatici e per il desiderio di trasformare la superficie del quadro in un’armonia di effetti di colore e di luce, che lo spazio viene assorbito e viene dissolta la struttura dei corpi. L’impressionismo, oltre a ridurre la realtà a una superficie bidimensionale, la semplifica ancora in un sistema di macchie senza contorno; rinunzia insomma alla plastica e al disegno, alla forma spaziale e a quella lineare. È indiscutibile che in questo modo la rappresentazione acquista, in luogo della chiarezza e dell’evidenza che innegabilmente perde, energia e fascino sensuale, e questo appunto premeva agli impressionisti. Ma il pubblico sentí la perdita piú dell’acquisto, ed è

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impossibile per noi moderni, per i quali la visione impressionistica è ormai uno dei fattori piú importanti della nostra esperienza visiva, immaginare la perplessità suscitata da quell’intrico di macchie, tocchi e sgorbi. L’impressionismo fu certo l’ultimo passo di un secolare processo di involuzione formale. Fin dall’età barocca la pittura era diventata sempre piú difficile per il pubblico; si era fatta sempre meno nitida, e sempre piú complicato era divenuto il suo rapporto con la realtà. Ma in tutto questo processo l’impressionismo rappresenta certamente il salto piú ardito, e lo scandalo delle prime esposizioni non è comparabile a quello di nessun’altra novità artistica. La tecnica sommaria e la mancanza di forma degli impressionisti parvero una provocazione; furono prese come una beffa e il pubblico se ne vendicò nel modo piú crudele. Ma la serie delle riduzioni di cui il metodo si serve non si esaurisce qui. Gli stessi colori usati dall’impressionismo mutano e deformano l’immagine della comune esperienza. Ad esempio, per noi un pezzo di carta «bianco» è bianco, comunque sia illuminato, nonostante i riflessi colorati ch’esso mostra alla luce diurna. In altri termini, il «colore della memoria», che noi associamo a un oggetto e che risulta da lunga esperienza e abitudine, soverchia la concretezza dell’esperienza immediata12; ora l’impressionismo al di là del colore mentale, teorico, ritrova la percezione reale, il che d’altronde non è un atto spontaneo, ma rappresenta un processo psicologico quanto mai artificioso e complicato. La visione impressionistica infine compie un’altra sensibilissima riduzione sull’immagine consueta della realtà, mostrando i colori non come qualità concrete, legate al singolo oggetto, ma come fenomeni cromatici astratti, incorporei, immateriali – per cosí dire, colori in sé. Se davanti a un oggetto mettiamo uno schermo con una piccola apertura, che lasci vedere un colore, ma non

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consenta di farsi nessuna idea della forma dell’oggetto e del suo rapporto con quel determinato colore, noi, com’è noto, otteniamo un’impressione di colore sciolta, incorporea, fluttuante, di natura diversissima da quella dei colori che siamo abituati a vedere inscindibili dalla forma dell’oggetto. In questo modo il fuoco perde il suo splendore, la sera il suo riflesso, l’acqua la sua trasparenza, e cosí via13. Ora l’impressionismo dipinge sempre gli oggetti in questi incorporei colori di superficie che, cosí freschi e intensi, producono un’impressione immediata, ma diminuiscono considerevolmente l’illusionismo della rappresentazione e rivelano chiarissima la convenzionalità del metodo. Nella seconda metà dell’Ottocento la pittura è l’arte d’avanguardia. L’impressionismo ha già raggiunto una sua autonomia, quando in letteratura si combatte ancora per il naturalismo. La prima esposizione collettiva degli impressionisti è del 1874, ma la storia dell’impressionismo comincia circa vent’anni prima e finisce nel 1886, con l’ottava esposizione del gruppo. Questo si scioglie verso quell’anno e si apre da allora un nuovo periodo, post-impressionistico, che dura fino alla morte di Cézanne, nel 190614. Dopo il predominio della letteratura nel Sei e nel Settecento e quello della musica nell’età romantica, verso la metà dell’Ottocento è la volta della pittura. Il critico d’arte Asselineau già verso il 1840 constata che la pittura ha detronizzato la poesia15 e, una generazione piú tardi, i fratelli Goncourt esclamano con entusiasmo: «Che felice professione è quella del pittore rispetto a quella del letterato!»16. Non solo la pittura domina tutte le altre arti come la piú progredita del tempo, ma anche qualitativamente le sue creazioni superano la letteratura contemporanea, specie in Francia, dove si è potuto dire con ragione che i grandi poeti di quegli anni sono i pittori impressionisti17. È vero che l’arte dell’Ottocento rimane in certa misura roman-

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tica, cioè «musicale», e i poeti del secolo confessano di aver nella musica il loro supremo ideale; ma con ciò essi intendono un simbolo della sovrana forza creatrice, indipendente dalla realtà obiettiva, piú che l’esempio concreto della musica. Invece la pittura impressionistica scopre sensazioni, che in seguito anche la poesia e la musica si sforzeranno di esprimere, adattando il proprio linguaggio alle forme pittoriche. Le impressioni atmosferiche, specialmente l’esperienza della luce, dell’aria e della chiarità colorata sono percezioni proprie della pittura, e quando le altre arti cercano di riprodurle è giustificato parlare di «pittoricismo» della poesia e della musica. «Pittorico» per altro è lo stile di queste arti anche quando esse si esprimono in forme «senza contorni», ricorrendo ad effetti di colore e di luce, e dànno piú importanza alla vivacità dei particolari che all’unità dell’impressione complessiva. Quando Paul Bourget constata, a proposito dello stile letterario del suo tempo, che l’impressione delle singole pagine è sempre piú forte di quella di tutto il libro, che la frase colpisce piú della pagina e la parola piú della frase18, egli caratterizza il metodo dell’impressionismo, stile di una visione atomistica e dinamica del mondo. L’impressionismo tuttavia non è soltanto lo stile del tempo, che domina in tutte le arti, è anche l’ultimo stile «europeo», l’ultima corrente artistica che possa contare su un generale consenso del gusto. Dopo, non si avrà piú uno stile unitario che comprenda le diverse arti o la cultura delle diverse nazioni. Ma l’impressionismo non cessa né sorge all’improvviso. Delacroix, che scopre la legge dei colori complementari e delle ombre colorate, e Constable, che constata la composizione complessa degli effetti di colore in natura, precorrono in piú modi il metodo impressionistico. Il dinamizzarsi della visione, che costituisce l’essenza dell’impressionismo, comincia senza dubbio con loro. I rudimenti del plein air speri-

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mentati dai pittori di Barbizon sono un altro passo su quella via. Ma al sorgere dell’impressionismo come movimento collettivo contribuiscono soprattutto l’esperienza pittorica della città i cui primi segni si hanno in Manet e in Monet, e anche la coalizione delle energie giovanili provocata dall’ostilità del pubblico. A prima vista può apparire sorprendente che la grande città, cosí affollata e promiscua, abbia potuto nutrire quest’arte cosí intima, cosí radicata nel sentimento dell’individualità e della solitudine. Ma, com’è noto, nulla isola quanto la stretta vicinanza di troppa gente e in nessun luogo ci si trova cosí soli e abbandonati come in una gran folla estranea. I due fondamentali sentimenti, che la vita in simile ambiente provoca, il senso di esser soli e inosservati e l’impressione vertiginosa del traffico, del moto incessante, del continuo mutamento, sono quelli che determinano la visione impressionistica, visione che unisce gli stati d’animo piú sottili con il piú rapido avvicendarsi delle sensazioni. E altrettanto sorprendente può apparire a prima vista l’osservazione che l’atteggiamento ostile del pubblico ha dato impulso al movimento impressionista. Gli impressionisti non furono mai aggressivi di fronte al pubblico; volevano rimanere nel quadro delle tradizioni e spesso fecero sforzi disperati per ottenere il placet delle sfere ufficiali, soprattutto al Salon, considerato la normale via del successo. In ogni caso lo spirito di contraddizione e il desiderio di attirare l’attenzione con mezzi sbalorditivi è molto meno rilevante in loro che nella maggior parte dei romantici e in molti naturalisti. E tuttavia non c’era forse mai stata scissione cosí profonda tra gli ambienti ufficiali e gli artisti della nuova generazione, né mai era stato cosí forte nel pubblico il senso di esser gabbato. Non si può dire che gli impressionisti aiutassero la gente a capire le loro idee – ma che dire di un pubblico che quasi lasciava

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morire di fame artisti cosí grandi, onesti, pacifici come Monet, Renoir e Pissarro! Né d’altra parte l’impressionismo aveva in sé alcun elemento plebeo che potesse respingere il borghese; anzi è uno «stile aristocratico», elegante e arguto, nervoso e sensibile, sensuale ed epicureo, amante del prezioso e del raro, ispirato da esperienze strettamente personali, dal senso della solitudine e dell’isolamento, da sensi e nervi raffinatissimi. D’altra parte esso è opera di artisti che non solo vengono in gran parte dal popolo e dalla piccola borghesia, ma che di problemi estetici e intellettuali si occupano assai meno dei colleghi della generazione precedente; sono molto meno versatili e complicati, piú schiettamente artigiani e «tecnici» dei predecessori. Ma fra loro si trovano anche borghesi agiati e perfino aristocratici: Manet, Bazille, Berthe Morisot e Cézanne sono di famiglia ricca, Degas è un aristocratico e Toulouse-Lautrec discende da un grande casato. L’intelligente e mondana raffinatezza di Manet e di Degas, e la scaltrita originalità di Constantin Guy e di ToulouseLautrec mostrano sotto l’aspetto piú attraente la cospicua società borghese del Secondo Impero, il mondo delle crinoline e dei décolletés, delle carrozze e dei cavalli da sella al Bois. Nella storia letteraria il quadro è assai piú complicato che nella pittura. Come stile letterario, l’impressionismo non è un fenomeno nettamente definito; i suoi inizi non si possono facilmente discernere dal complesso del naturalismo, e le sue forme piú evolute si confondono completamente con le manifestazioni del simbolismo. Anche cronologicamente si può osservare un certo divario fra l’impressionismo letterario e quello pittorico: il suo periodo piú fecondo è già passato nella pittura, quando comincia appena a definirsi nella poesia. Ma la distinzione maggiore sta nel fatto che l’impressionismo in letteratura perde abbastanza presto il contatto

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con il naturalismo, il positivismo, il materialismo, e quasi subito si fa l’araldo di quella reazione idealistica che in pittura si fa strada solo dopo la disgregazione del gruppo impressionista. Il fenomeno trova la sua spiegazione soprattutto nel fatto che l’élite culturale conservatrice ha fra i letterati un peso incomparabilmente maggiore che fra i pittori, assai piú difesi, per la loro stessa formazione artigiana, di mestiere, contro gli assalti dello spiritualismo. La crisi del naturalismo, semplice sintomo di quella del positivismo, si palesa solo verso il 1885, ma se ne possono constatare i segni premonitori fin dal 1870. I nemici della repubblica sono per lo piú nemici del razionalismo, del materialismo e del naturalismo; combattono il progresso scientifico e si attendono la rinascita dello spirito da un rinnovamento religioso. Parlano di «bancarotta della scienza», di «fine del naturalismo», di «arido meccanizzarsi della civiltà»; ma quando si scagliano contro il materialismo del tempo, pensano sempre alla rivoluzione, alla repubblica, al liberalismo. Se i conservatori hanno perduto il loro influsso sul governo, hanno però mantenuto la loro autorità nella vita pubblica. Occupano sempre i posti piú importanti nell’amministrazione, nella diplomazia, nell’esercito e dirigono l’istruzione pubblica, specie nei gradi superiori19. Licei e università sono ancora dominio del clero e dell’alta finanza, e di qui si diffondono gli ideali della cultura che si affermano piú che mai fra i letterati. Gli scrittori di formazione accademica sono assai piú numerosi di prima, e sotto il loro influsso la vita intellettuale acquista un prevalente aspetto reazionario. Flaubert, Maupassant e Zola non erano dei dotti; Bourget e Barrès invece rappresentano lo spirito dell’accademia e dell’università; in certo modo essi si sentono responsabili del patrimonio culturale della nazione e si presentano nella loro missione di guide intellettuali della gioventú20. L’in-

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tellettualizzarsi della letteratura è forse il tratto piú spiccato e generale dell’epoca; esso si manifesta sia negli scrittori progressisti, sia nei conservatori21. Per questo aspetto Anatole France non si distingue minimamente dai suoi colleghi clericali e nazionalisti. Ma se di fronte ai Bourget, ai Barrès, ai Brunetière, ai Bergson, ai Claudel troviamo un solo Anatole France, l’autorità di questo erede di Voltaire prova che in Francia non è morto lo spirito dell’illuminismo. D’altra parte, casi come il processo Dreyfus e lo scandalo del canale di Panama sono fatti apposta per destarlo dal letargo. Intorno al 1870 la Francia attraversa una delle sue piú gravi crisi intellettuali e morali; ma quella «Sedan intellettuale», contrariamente all’asserzione di Barrès22, non dipende affatto dal disastro militare, e la «mortale stanchezza» non deriva, come crede Bourget, dal materialismo e dal relativismo. Da quella stanchezza della vita non vanno esenti né Bourget né Barrès, come non lo erano stati Baudelaire e Flaubert. Si tratta ancora della malattia romantica del secolo e il naturalismo zoliano, che la generazione del 1885 tratta da capro espiatorio, rappresenta in realtà l’unico tentativo serio, benché insufficiente, di superare il nichilismo che si è impadronito degli animi. Il panorama letterario verso il 1890 è dominato dagli assalti contro Zola e dalla dissoluzione del movimento naturalistico, come tendenza dominante. Questa è l’impressione piú forte che si ricava dalle risposte all’inchiesta promossa da Jules Huret, collaboratore de «L’Echo de Paris», che nel 1891 furono pubblicate in volume sotto il titolo Enquéte sur l’évolution littéraire e costituiscono uno dei documenti piú importanti sullo sviluppo culturale di quegli anni. Huret chiese a sessantaquattro scrittori, fra i piú noti al pubblico francese, che cosa pensassero del naturalismo: se potesse ancora salvarsi o fosse già morto e, se mai, quale corrente letteraria lo avrebbe sostituito. La gran mag-

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gioranza degli interrogati, e, fra i primi, molti ex discepoli di Zola, diedero per spacciato il paziente. Solo il fedele Paul Alexis si affrettò a telegrafare: «Naturalisme pas mort. Lettre suit», come se volesse evitare la diffusione di una voce pericolosa. Ma la sua fretta non serví a nulla. La voce si diffuse e il naturalismo fu rinnegato anche da quelli che gli dovevano tutta la loro vita di artisti. Eppure fra questi c’erano molti fra i migliori dell’epoca. Infatti che cosa è stata fino allo scorcio del secolo la letteratura valida, e che cos’è, in parte, ancor oggi, se non naturalismo distruttore di formule, teso ad arricchire sempre piú i contenuti dell’esperienza? Soprattutto il «romanzo psicologico» di Bourget, Barrès, Huysmans e ancora quello di Proust cos’era se non il prodotto di un’osservazione naturalistica, intenta al document humain? È vero che alcuni tratti antinaturalistici sono inscindibili dall’impressionismo letterario come da quello pittorico, ma rampollano anch’essi dal terreno del naturalismo. L’accanimento del pubblico nel reagire contro di esso appare a prima vista inspiegabile. Gli argomenti contro il naturalismo non erano nuovi; è strano invece che ci si ribellasse contro di esso con tanta acrimonia nel momento in cui sembrava essere vittorioso. Che cosa non si poteva, o si fingeva di non poter perdonare al naturalismo? Si afferma ch’esso è un’arte brutale, oscena, espressione di un piatto materialismo, strumento di una stupida, grossolana propaganda democratica, una raccolta di noiose, futili volgarità, una rappresentazione della realtà che descrive nell’uomo solo la bestia selvaggia, feroce, sfrenata, nella società soltanto l’opera della distruzione, il dissolversi dei rapporti umani, il disgregarsi della famiglia, della nazione e della religione; insomma, esso è distruttivo, contro natura, ostile alla vita. La generazione del 1850 combattendo il naturalismo difendeva semplicemente gli interessi dei ceti superiori; quella del 1885 lo combatte per difende-

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re l’umanità, la vita feconda, il buon Dio. La religione ci ha forse guadagnato, non certo la sincerità. Si farnetica sui misteri dell’essere e gli abissi dell’anima; si chiama piatto ciò che è ragionevole e si vuole esplorare, sperimentare l’ignoto, l’inconoscibile. Si fa professione di «ideali ascetici» negatori del mondo, ma si trascura di chiedersi con Nietzsche a che cosa essi servano in realtà. Il simbolismo è la corrente letteraria in auge; Verlaine e Mallarmé sono al centro dell’interesse generale. I piú grandi nomi del movimento romantico, Chateaubriand, Lamartine, Vigny, Musset, Mérimée, Gautier, George Sand non compaiono nemmeno nelle risposte ricevute da Huret23. Si scoprono in quest’occasione Stendhal e Baudelaire, ci si entusiasma per Villiers de l’Isle-Adam e Rimbaud, si crea la moda del romanzo russo, del preraffaellismo inglese e della filosofia tedesca. Ma l’influsso piú profondo e fecondo è quello di Baudelaire; egli appare il massimo precursore della poesia simbolista e il creatore della lirica moderna. È lui a riportare la generazione di Bourget e Barrès, Huysmans e Mallarmé sulla via dell’estetismo romantico, insegnando a conciliare il nuovo misticismo con il vecchio fanatismo per l’arte. Con gli impressionisti, l’estetismo giunge al colmo del suo sviluppo. Ormai i suoi tratti caratteristici, l’atteggiamento passivo, puramente contemplativo, di fronte alla vita, la fugacità dell’esperienza che non impegna e il sensualismo edonistico sono i soli criteri dell’arte. L’opera non solo è considerata fine a se stessa, come un gioco il cui fascino andrebbe distrutto con l’imposizione di un qualsiasi scopo estraneo all’arte, non solo è tenuta il piú bel dono della vita, al cui godimento occorre prepararsi devotamente, ma nel suo splendido isolamento, nella sua indifferenza per tutto ciò che è fuori della sua sfera, essa diventa modello di vita: la vita del

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dilettante che ora nella stima dei poeti comincia a sostituire gli antichi eroi dello spirito, e diventa l’ideale fin de siècle. Ciò che soprattutto è tipico del dilettante è il suo proposito di «far della sua vita un’opera d’arte», cioè qualcosa di lussuoso e d’inutile, qualcosa che scorre libero e prodigo, interamente dedito alla bellezza, alla forma pura, all’armonia dei colori e delle linee. L’estetismo imperante, che eleva a stile di vita l’inutile e il superfluo, è la quintessenza della rassegnazione e della passività romantica. Anzi esso esagera il romanticismo; non solo rinunzia alla vita per amore dell’arte, ma in questa cerca la giustificazione della vita. Considera l’opera d’arte come l’unico compenso alle delusioni, la vera attuazione e il compimento dell’esistenza, in sé sempre imperfetta e confusa. Ma ciò significa non solo che la vita sublimata nelle forme dell’arte appare piú bella e attraente, ma che – secondo la concezione di Proust, l’ultimo grande impressionista ed edonista – soltanto nel ricordo, nella visione, nell’esperienza estetica essa si dispiega in pregnante realtà. Noi siamo maggiormente presenti e partecipi delle nostre esperienze non quando incontriamo realmente gli uomini e le cose – il «tempo» e la presenza sono qui sempre «perduti» –, ma quando «ritroviamo il tempo», quando cioè non siamo piú attori, ma spettatori della nostra vita, quando creiamo opere d’arte o le godiamo, cioè quando ricordiamo. In Proust per la prima volta l’arte s’impadronisce di quel che Platone le rifiutava: le idee, il ricordo adeguato alle forme essenziali dell’essere. Il moderno estetismo, in quanto atteggiamento passivo e puramente contemplativo di fronte alla vita, risale nel suo fondamento teoretico a Schopenhauer, che definisce l’arte riscatto dalla volontà, elemento sedativo che riduce al silenzio avidità e passioni. La concezione estetica del mondo giudica e valuta l’intera esistenza dal punto di vista di quest’arte abulica e apatica. Il suo idea-

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le è un pubblico tutto di artisti veri o potenziali, nature per cui la realtà costituisce soltanto il substrato di esperienze estetiche. Il mondo civile è per essi un grande studio d’artista e l’artista stesso è il miglior intenditore d’arte. D’Alembert poteva ancora ammonire: «Guai all’arte che riservi la sua bellezza agli artisti!» Ma ch’egli si sentisse indotto a questo ammonimento prova che il pericolo dell’estetismo esisteva già nel Settecento; nel Seicento un’idea simile non sarebbe venuta a nessuno. E per l’Ottocento quel che D’Alembert temeva non è piú un pericolo. I Goncourt vedono nelle sue parole la piú gran sciocchezza che si possa immaginare24, e soprattutto sono profondamente persuasi che la prima condizione per intendere adeguatamente l’arte sia una vita ad essa dedicata, cioè il suo esercizio pratico. L’estetismo dell’epoca impressionistica segna l’inizio di una degenerazione profonda. Gli artisti creano per gli artisti e l’arte, cioè l’esperienza formale del mondo sub specie artis, si riduce ad avere come suo unico soggetto l’arte stessa. La rozza, informe, vergine natura perde il suo fascino estetico e l’ideale della naturalezza cede il posto a quello dell’artificio. La città con la sua cultura e i suoi piaceri, la vie factice e i paradis artificiels non soltanto paiono incomparabilmente piú attraenti, ma anche assai piú intelligenti e spirituali del cosiddetto fascino della natura. Questa di per sé è brutta, volgare, informe; soltanto l’arte la rende piacevole. Baudelaire odia la campagna, i Goncourt nella natura scorgono una nemica, e i piú tardi esteti, specialmente Whistler e Wilde, ne parlano con sprezzante ironia. È la fine dell’Arcadia, del romantico entusiasmo per la natura e della fede nell’identità di natura e ragione. Si conclude cosí la reazione a Rousseau e al culto, da lui promosso, dello stato di natura. Tutto ciò che è semplice e chiaro, istintivo ed ingenuo perde valore; si insiste invece sulla consapevolezza, l’intellettualismo e l’artificio della cultura.

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Nello stesso processo della creazione artistica si scopre la partecipazione dell’intelligenza e delle facoltà razionali. La fantasia dell’artista produce di continuo cose buone, mediocri, cattive, – afferma Nietzsche; – solo il suo giudizio scarta, sceglie e ordina il materiale disponibile25. In fondo anche quest’idea, come tutta la filosofia della vie factice, procede da Baudelaire, che vuol trasformare «il diletto in conoscenza», nel poeta vuol sempre vedere anche il critico26 e nel suo entusiasmo per tutto quel ch’è artificioso va cosí oltre da considerare la natura anche moralmente inferiore. Egli afferma che il male accade senza sforzo, cioè naturalmente, mentre il bene è sempre il prodotto di un’arte, è cioè artificiale, innaturale27. Tuttavia l’entusiasmo per l’artificio della cultura non è che una nuova forma dell’evasione romantica. Si sceglie la vita artificiosa e fittizia, perché la realtà non potrebbe mai esser bella come l’illusione, e ogni contatto con la realtà, ogni tentativo di attuare sogni e desideri finisce col corromperli. Solo che ora fuggendo dalla realtà sociale non ci si rifugia nella natura, come facevano i romantici, ma in un mondo artificiale, piú alto, sublimato. Nell’Axel di Villiers de l’Isle-Adam (pubblicato postumo nel 1890), una delle classiche espressioni del nuovo senso della vita, le forme intellettuali e fantastiche prevalgono sempre su quelle naturali e pratiche, e i desideri inadempiuti appaiono sempre piú perfetti e soddisfacenti del loro attuarsi nella realtà comune e volgare. Axel vuole uccidersi insieme con l’amata Sara. Essa è pronta a morire con lui, ma prima vorrebbe conoscere la felicità di una notte d’amore. Tuttavia Axel teme che dopo gli mancherà il coraggio di morire e che il loro amore, come tutti i sogni avverati, non resisterà alla prova del tempo. Egli preferisce la perfetta illusione all’imperfetta realtà. Da questo sentimento deriva piú o meno tutto il mondo ideale dei neoromantici; dap-

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pertutto c’imbattiamo in un Lohengrin che, per dirla con Nietzsche, lascia in asso la sua Elsa nella notte delle nozze. «Vivere? – domanda Axel: –ci pensano i nostri servi per noi». In A rebours di Huysmans (1884), il testo fondamentale di questo estetismo timoroso della natura e del mondo, la sostituzione della vita mentale alla vita pratica è ancora piú completa. Des Esseintes, il celebre eroe del romanzo, il prototipo di tutti i Dorian Gray, si isola cosí ermeticamente dal mondo, che non osa piú nemmeno intraprendere un viaggio, perché teme di essere deluso dalla realtà. È lo stesso paralizzante soggettivismo ostile alla vita che si esprime nel tedio della natura. «Il tempo della natura – dice Des Esseintes – è passato. Essa ha ormai esaurito la pazienza degli spiriti raffinati con la stucchevole monotonia dei suoi paesaggi e dei suoi cieli». Per quegli spiriti non c’è che una via: rendersi del tutto indipendenti e sostituire la natura con lo spirito, la realtà con la finzione. Si tratta di torcere quel ch’è diritto, di invertire ogni impulso e ogni inclinazione naturale. Des Esseintes vive nella sua casa come in un chiostro, non fa né riceve visite, non scrive né riceve lettere, dorme di giorno, legge, fantastica e specula di notte; si crea i suoi «paradisi artificiali» e rifiuta tutto ciò che piace al comune mortale. Inventa sinfonie di colori, profumi, bevande, fiori strani, gemme rare; poiché rari e preziosi debbono essere gli strumenti del suo acrobatismo spirituale. Naturalmente, nel suo vocabolario, dire che una cosa è a buon mercato è come dirla insulsa o plebea. Ma il misticismo di tutto questo indirizzo non ha forse espressione piú forte della novella Véra di Villiers de l’Isle-Adam28. Vera è l’idolatrata sposa dell’eroe, che rifiuta di ammettere la sua morte prematura, perché non potrebbe sopportare di averne coscienza. Attraverso le sbarre del cancello, il protagonista getta la chiave del sepolcro in cui essa giace, va a casa e comincia una

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nuova vita fittizia, cioè continua come prima, come se nulla fosse accaduto. Si comporta, parla e agisce come s’ella fosse viva e accanto a lui. Il suo contegno è un insieme cosí coerente e perfetto di atteggiamenti e di azioni, che a renderlo del tutto sensato non manca che la presenza fisica di Vera. Ma in ispirito essa è così presente, e cosí immediata e soverchiante è la suggestione della sua personalità, che la sua vita artificiale assume una realtà ben piú profonda, vera e pura che non il fatto della sua morte. Essa muore soltanto quando al sonnambulo sfuggono le parole: «Mi ricordo... sei proprio morta!» A nessun lettore intelligente sfuggirà l’analogia fra questo ostinato rifiuto di conoscere l’importanza della realtà e la negazione cristiana del mondo; ma insieme nessuno può trascurare la differenza tra l’ostinazione di un’idea fissa e la fermezza di una fede religiosa. Anzi non si può immaginare nulla di piú lontano dal cristianesimo, di piú alieno dallo spirito del Medioevo, dell’«ennui», questa nuova forma, impressionistica, della malinconia romantica. Vi si esprime un senso di ripugnanza per la monotonia della vita29, cioè proprio l’opposto di quella insoddisfazione per le avversità dell’esistenza, che, come fu osservato, avevano provato età piú antiche, che credevano in un ordine divino30. In queste si era turbati dalla mutevolezza della fortuna, dall’incostanza e imprevedibilità del destino; si aspirava alla quiete e alla sicurezza, alla monotonia e alla noia della pace; per il moderno esteta, invece, l’ordine e la sicurezza borghese sono la cosa piú insopportabile. L’aspirazione dell’impressionismo a fermare l’ora mutevole, il suo abbandono all’umore del momento come al piú alto valore della vita, irriducibile e indefinibile, la volontà di vivere nell’istante e dissolversi in esso, è soltanto la conseguenza di quella visione antiborghese, di quella rivolta contro la routine e la disciplina della vita borghese. Anche l’impressionismo è un’arte di opposizione,

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come ogni movimento d’avanguardia dal romanticismo in poi, e il sentimento di ribellione latente nell’atteggiamento dell’impressionismo verso la vita, benché non sempre gli impressionisti ne fossero consapevoli, è tra le cause del rifiuto dell’arte nuova da parte del pubblico borghese. Tra il 1880 e il ’90 l’edonismo estetico assume di preferenza il nome di «decadentismo». Des Esseintes, il raffinato epicureo, è anche il prototipo dell’estenuato «decadente». Ma l’idea di decadentismo include motivi che esorbitano dall’estetismo: anzitutto il senso del declino di una cultura e di una crisi profonda, la coscienza cioè di trovarsi alla conclusione di un ciclo storico e prossimi alla fine di una civiltà. La simpatia per antiche epoche, stanche e ultraraffinate, come l’ellenismo, la tarda romanità, il Rococò e il tardo stile «impressionistico» dei grandi maestri del passato, è un tratto essenziale del decadentismo. Il senso di essere a una svolta della storia si era avuto anche in epoche precedenti, ma sempre s’era accompagnato ad un rammarico profondo, come avviene, ad esempio, ancora in Musset, per questo trovarsi a vivere il tramonto di una cultura; ora invece il concetto di senescenza e stanchezza, di saturazione culturale e degenerazione, si unisce a un’idea di nobiltà spirituale. S’impadronisce degli uomini una vera ebbrezza di rovina, sentimento anch’esso non nuovo, ma piú forte che mai. I richiami alla tradizione di Rousseau, al tedio byroniano e alla romantica voluttà della morte sono chiarissimi. Lo stesso abisso attrae romantici e decadenti, la stessa brama di distruzione, di autoannientamento li travolge. Ma per i decadenti tutto è «abisso», tutto è pervaso dall’insicurezza e da un’angoscia mortale: «Tout plein de vague horreur, menant on ne sait oú» [«Tutto pieno di vago orrore, che porta non sai dove»] come si legge in Baudelaire.

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«Chi sa se la verità non è triste» diceva Renan: parole di profondo scetticismo, quali nessun grande scrittore russo avrebbe sottoscritto. Poiché tutto per loro poteva esser triste, tranne la verità. Ma quanto piú sinistre sono le parole di Rimbaud: «Quel che non sappiamo è forse orrendo» (Le forgeron). Si intuisce da quali impenetrabili e inesauribili enigmi egli si senta circondato, anche se subito aggiunge: «Noi sapremo». L’abisso che per il cristiano era il peccato, per il cavaliere il disonore, per il borghese l’illegalità, per il decadente è tutto ciò che sfugge a concetti, parole, formule. Di qui la sua lotta disperata per la forma e la sua invincibile ripugnanza per tutto quanto è informe, selvaggio, naturale. Di qui la sua predilezione per le età piú ricche di formule – anche se non profondissime – e che offrivano per tutto una parola, anche se inadeguata. La frase di Verlaine «Je suis l’empire à la fin de la décadence» [«Sono l’impero alla fine della decadenza»] diventa l’etichetta del tempo; e benché nell’apologia della decadenza romana già lo abbiano preceduto Gérard de Nerval31, Baudelaire e Gautier32, egli sa lanciare il suo motto al momento giusto e muta cosí quella che era stata la semplice espressione di uno stato d’animo in un programma culturale. C’erano state epoche che di un’età dell’oro non sapevano o non volevano sapere, ma prima del decadentismo ottocentesco mai c’era stata una generazione che all’età dell’oro preferisse l’età argentea. Questa scelta significava non solo una coscienza di epigoni, non solo una modestia di tardi eredi, ma anche una specie di contrizione e un senso d’inferiorità. I decadenti erano edonisti di cattiva coscienza, peccatori che, come Barbey d’Aurevilly, Huysmans, Verlaine, Wilde, Beardsley, si gettavano fra le braccia della Chiesa cattolica. Questo senso di colpa trova nella loro concezione dell’amore, tutta dominata da quella psicologia della pubertà che era stata propria del romanticismo, la sua

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espressione piú scoperta. Per Baudelaire l’amore è il frutto proibito, la caduta, la perdita irreparabile dell’innocenza. «Faire l’amour c’est faire le mal» [«Far l’amore è fare il male»]. Il suo romantico satanismo tuttavia trasforma anche il peccaminoso in una fonte di voluttà: non solo in sé e per sé l’amore è male, ma il piacere supremo consiste appunto nella coscienza di far male33. Anche la simpatia per le prostitute, comune a romantici e decadenti, e a questi suggerita da Baudelaire, rivela l’inibizione, il senso di colpa che pesa sull’amore. Naturalmente questa simpatia è soprattutto espressione della rivolta contro la società e la morale borghese, fondata sulla famiglia. La prostituta è la spostata, la reietta, che si ribella non solo alla forma istituzionale dell’amore, ma anche alla sua «naturale» forma psicologica. Essa distrugge non solo la disciplina morale del sentimento, ma anche i fondamenti di esso. È fredda nell’infuriare della passione, è e rimane spettatrice distaccata della voluttà ch’essa provoca, si sente sola e indifferente dove altri si abbandona all’ebbrezza: in breve, essa è il «doppio» femminile dell’artista. Da questa comunione di sentimenti e di destino nasce la comprensione dell’artista decadente. Anch’egli sa di prostituirsi, di esibire i suoi piú cari sentimenti, di cedere a vile prezzo i suoi segreti. Con questa dichiarata solidarietà con la prostituta, l’estraneità dell’artista dalla società borghese è completa. Il cattivo scolaro si mette nell’ultimo banco, come dice Thomas Mann di un suo eroe, e, col senso di sollievo di chi lascia il campo della gara, resta «nell’ultimo banco», disprezzato, ma indisturbato. Sarebbe strano che in un pensatore come Thomas Mann, la cui concezione ruota tutta intorno a un unico problema, la posizione dell’artista nella società borghese, anche questa osservazione, apparentemente innocua, non si legasse con la sua problematica. La peculiare esistenza dell’ar-

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tista, priva di ambizioni borghesi, è proprio simile a un «ultimo banco» che lo sottrae ad ogni responsabilità e ad ogni controllo. È certo comunque che l’accentuato «contegno borghese» di Thomas Mann, non meno che, ad esempio, il «corretto» atteggiamento sociale di Henry James si debbono intendere unicamente come reazione al costume di quegli artisti che si erano messi ostentatamente nell’ultimo banco, e coi quali non si voleva avere nulla in comune. Ma Thomas Mann e Henry James sanno fin troppo bene che l’artista necessariamente deve condurre una vita extraumana e inumana, che la via normale gli è preclusa, né gli servono la spontaneità, l’ingenuità, il calore del sentimento. Il paradosso della sua sorte sta nel dover ritrarre la vita ed esserne insieme escluso. Ne risultano complicazioni gravi, spesso inestricabili. Paul Overt, il piú giovane dei due scrittori che si contrappongono in The Lesson of the Master [La lezione del maestro] di James, si ribella invano alla crudele ascesi di una vita dedita all’arte, recalcitra invano contro la rinunzia ad ogni felicità personale, privata, che il maestro, Henry St. George, esige da lui. Egli è pieno d’impazienza e di rancore contro la spietata tirannia a cui si è vincolato. «Ma Lei non crederà ch’io esalti l’arte!» replica il maestro: «Felice la società che non la conosce!» E verso l’arte Thomas Mann è altrettanto severo, altrettanto inesorabile. Infatti se egli ci mostra tutte le esistenze problematiche, ambigue e sospette, il debole, il malato, il degenerato, qualsiasi avventuriero, cavaliere d’industria o delinquente, e in ultimo perfino Hitler come affini psichicamente all’artista34, questa è la piú tremenda accusa che mai sia stata elevata contro l’arte. L’epoca dell’impressionismo offre due tipi estremi dell’artista moderno, asociale, estraniato dalla società: il nuovo bohémien e quello che per fuggire alla civiltà occidentale si rifugia in lontane terre esotiche. Sono

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entrambi espressione dello stesso sentimento, dello stesso «disagio della civiltà», ma l’uno sceglie «l’emigrazione interna», l’altro la fuga effettiva. Entrambi vivono una vita astratta, separata dalla realtà concreta e pratica, entrambi si esprimono in forme che debbono apparire sempre piú strane, sempre piú incomprensibili alla maggioranza del pubblico. Il viaggio in paesi lontani, per fuggire la civiltà moderna, è antico quanto la protesta della bohème contro l’ordine borghese. Entrambi risalgono all’irrealismo e all’individualismo romantico, ma per via si sono profondamente trasformati, e la particolare fisionomia che questi fenomeni presentano fra l’80 e il ’90 deriva soprattutto da Baudelaire. I romantici cercavano ancora il «fiore azzurro», il paese dei sogni e dell’ideale, «mais les vrais voyageurs, – dice Baudelaire, – sont ceux-là seuls qui partent pour partir» [«Ma i veri viaggiatori sono soltanto quelli che partono per partire»]. Ecco la vera fuga, il viaggio verso l’ignoto, che obbedisce non già all’attrazione, ma alla repulsione: O Mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre! Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons! Si le ciel et la mer sont noirs comme l’encre! Nos cœurs que tu connais sont remplis de rayons! [«Morte, vecchio capitano, è tempo! leviamo l’ancora | Il paese ci annoia, Morte! Spieghiamo le vele! | Se il cielo e il mare son neri come l’inchiostro, | I nostri cuori, li conosci, sono pieni di raggi!] Rimbaud intensifica il dolore del congedo: «la vie est absente, nous ne sommes pas au monde» [La vita è assente, noi non siamo al mondo»], ma nulla aggiunge alla bellezza di quel commiato, senza pari nella poesia moderna. Eppure egli è l’unico vero erede di Baudelaire, l’unico ad attuare i viaggi immaginari del maestro e

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a mutare in sistema di vita quel che, prima di lui, non era che una scappata nel mondo della bohème. In Francia la bohème non è un fenomeno unitario e univoco. È ovvio che Rimbaud, posseduto dal Maligno, e Verlaine, oscillante fra delinquenza e misticismo religioso, non hanno nulla di comune con i frivoli e amabili giovani dell’opera pucciniana. Ma l’ascendenza di Rimbaud e Verlaine è assai ramificata, e per intenderli bisogna distinguere tre fasi e tre forme diverse nella vita degli artisti: la bohème romantica, la naturalistica, l’impressionistica35. In origine la bohème non era che una protesta contro il costume borghese. Vi partecipavano giovani artisti e studenti, in massima parte figli di gente facoltosa, e la loro opposizione alla società dominante per lo piú si esauriva in giovanile insolenza e spirito di contraddizione. Théophile Gautier, Gérard de Nerval, Arsène Houssaye, Nestor Roqueplan e tanti altri si staccavano dalla società borghese non perché fossero obbligati a farlo, ma semplicemente perché volevano vivere altrimenti dai loro genitori. Erano puri romantici, che volevano essere originali e stravaganti anche nel modo di vita, perché per arte e poesia intendevano qualche cosa di assolutamente originale e stravagante. Essi fuggivano nel mondo dei reietti e dei paria come si fa un viaggio in terra lontana ed esotica; nulla sapevano della miseria della bohème piú tarda, e la via del ritorno alla società borghese era per loro sempre aperta. La bohème della generazione successiva, quella del naturalismo militante, che teneva il suo quartier generale in birreria, e a cui fra gli altri appartenevano Champfleury, Courbet, Nadar e Murger, era invece una vera bohème, cioè un proletariato artistico fatto di gente che viveva in modo affatto precario, al di fuori della società borghese. La loro lotta contro la borghesia non era quindi un gioco insolente, ma una dura necessità; il costume antiborghese era quel che meglio si attagliava alla loro incerta

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esistenza, e non piú una semplice mascherata. Come lo spirito peculiare di Baudelaire, che cronologicamente appartiene a questa generazione, da un lato risale alla bohème romantica e dall’altro precorre l’impressionismo, cosí anche Murger, benché in altro senso, è un fenomeno di transizione. Ora che la bohème cessa di essere «romantica», la borghesia comincia a idealizzarla romanticamente. Murger vi ha la parte del maître de plaisir che le offre un Quartiere Latino ben lavato e addomesticato. Ciò gli vale, secondo il merito, un avanzamento fra gli autori accreditati della borghesia. Per il filisteo la bohème è quasi come l’inferno. Essa lo attrae e lo respinge. Egli civetta con la libertà e l’irresponsabilità che vi dominano, ma arretra spaventato davanti al disordine e all’anarchia impliciti in quella vita. Idealizzandola, Murger tende a far piú innocua di quanto sia realmente questa minaccia alla società, e a lasciare che l’improvvido borghese continui a nuotare nei suoi sogni ambigui. I personaggi di Murger per lo piú sono giovani allegri e un po’ sventati, ma brava gente che si ricorderà della sua vita di bohème come il lettore borghese ricorda le sue follie di studente. Quest’aspetto transitorio della bohème la rendeva innocua agli occhi del filisteo. E Murger non era il solo a pensarla così. Anche Balzac considerava transitoria la vita di bohème dei giovani artisti: «La bohème è fatta di giovani ancora oscuri, ma che un giorno saranno chiari e famosi», scrive in Un Prince de la bohème. Tuttavia non solo la bohème di Murger, ma anche quella vera del periodo naturalistico è un idillio in confronto alla vita degli artisti e dei poeti antiborghesi della generazione successiva, come Rimbaud, Verlaine, Tristan Corbière, Lautréamont. La bohème è diventata veramente un’accolta di vagabondi e di reietti, un gruppo di disperati, in rotta non solo con la borghesia, ma con tutta la civiltà europea. Baudelaire, Verlaine, Tou-

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louse-Lautrec sono affetti da grave alcolismo; Rimbaud, Gauguin e Van Gogh, vagabondi e giramondo; Verlaine e Rimbaud muoiono all’ospedale, Van Gogh e Toulouse-Lautrec conoscono il manicomio, i piú passano la vita nei caffè, nei varietà, nei bordelli, negli ospedali o sulla strada. Essi distruggono in sé tutto quel che potrebbe essere utile alla società, si accaniscono contro tutto ciò che dà alla vita stabilità e durata, e perfino contro se stessi, come se volessero estirpare da sé quel che li accomuna agli altri. «Io mi uccido, – scrive Baudelaire in una lettera del 1845, – perché sono inutile agli altri e pericoloso per me stesso». Egli ha coscienza non solo della propria infelicità, ma anche che la felicità degli altri è qualcosa di comune e volgare. «Lei è un uomo felice», scrive in una lettera piú tarda: «La compiango, signore, di esser cosí facilmente felice. Un uomo dev’essere caduto molto in basso per ritenersi felice»36. Nella novella L’uva spina Ωechov esprime lo stesso disprezzo per la felicità a buon mercato. E non sorprende in uno scrittore che ha tanta simpatia per la bohème. «Dica, perché vive in modo cosí noioso, scolorito?», domanda al suo ospite l’eroe di una delle sue novelle: «La mia è una vita triste, difficile, monotona, perché io sono un artista, un uomo strano, fin dalla prima giovinezza straziato dall’invidia, scontento di me stesso; incerto del mio lavoro; sono povero, sono un vagabondo; ma Lei, Lei, un uomo sano e normale, un possidente, un signore – perché vive in modo cosí scialbo, perché prende cosí poco della vita?»37. Il colore, almeno, non mancava alla vita della prima bohème: essa si adattava alla miseria pur di vivere in modo interessante e colorito. Ma la nuova bohème è oppressa dal cupo tanfo di una noia soffocante; l’arte non inebria piú, stordisce soltanto. Tuttavia, né Baudelaire, né Ωechov, né gli altri sospettano quale inferno potesse diventare la vita per un uomo come Rimbaud. La civiltà occidentale doveva

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giungere alla crisi odierna, perché noi potessimo capire una vita simile. Un nevrastenico, un buono a nulla, un perdigiorno, un uomo perverso, pericoloso, che errando di paese in paese, si fa maestro di lingua, merciaio ambulante, s’impiega in un circo, fa lo scaricatore, il bracciante, il marinaio, il volontario nell’esercito olandese, il meccanico, l’esploratore, il mercante di coloniali, e chissà cosa ancora; si prende un’infezione chissà dove in Africa, deve farsi amputare una gamba in un ospedale di Marsiglia, per morire a trentasette anni, membro a membro, fra i piú atroci tormenti; un genio che scrive a diciassette anni versi immortali, a diciannove abbandona del tutto la poesia e non parlerà mai piú di letteratura per tutto il resto della sua vita, un delinquente verso gli altri e verso se stesso, che fa getto dei suoi piú preziosi tesori, dimentica e nega assolutamente di averli mai posseduti; uno dei precursori e, come molti sostengono, il vero fondatore della poesia moderna che, quando la notizia della sua gloria lo raggiunge in Africa, non vuol saperne e non ha altro da dire che merde pour la poésie: si può immaginare nulla di piú sinistro, di piú contrario all’idea di un poeta? Tristan Corbière non ha forse ragione quando dice: «I suoi versi erano di un altro; egli non li ha letti»? Non è questo il piú tremendo nichilismo, l’estrema negazione di sé? Ed è questo che si raccoglie da quel che hanno seminato Flaubert, il buon borghese onesto e scrupoloso, e i suoi amici raffinati, colti, sensibili all’arte. Dopo il 189o la parola decadentismo perde la sua eco suggestiva e il «simbolismo» a sua volta assurge a tendenza artistica dominante. È Moréas ad introdurne il nome, e lo definisce come l’aspirazione a sostituire, nella poesia, l’«idea» alla realtà»38. Già la nuova terminologia sta ad indicare la vittoria di Mallarmé su Verlaine, e uno spostarsi della linea di sviluppo dall’impressionismo sensualistico verso lo spiritualismo. Spes-

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so è molto difficile distinguere l’impressionismo dal simbolismo: i due concetti sono in parte antitetici, in parte equivalenti. L’impressionismo di Verlaine e il simbolismo di Mallarmé si distinguono abbastanza nettamente, ma non è altrettanto agevole un’esatta definizione dello stile di un Maeterlinck. «Impressionistici» sono nel simbolismo gli effetti ottici e acustici, la contaminazione e lo scambio dei diversi dati dei sensi, l’influsso reciproco delle forme d’arte, soprattutto quel che intendeva Mallarmé quando parlava di riprendere alla musica i beni della poesia. Ma il simbolismo con la sua posizione irrazionalistica e spiritualistica costituisce anche una netta reazione all’impressionismo, per sua natura naturalistico e materialistico. Mentre per l’impressionismo, infatti, l’esperienza dei sensi è qualcosa di conclusivo e irriducibile, per il simbolismo tutta la realtà empirica non è che l’immagine di un mondo ideale. Il simbolismo rappresenta il risultato dell’evoluzione che, dalla scoperta romantica della metafora come cellula germinale della poesia, conduce alla ricchezza d’immagini dell’impressionismo; tuttavia esso rifiuta non solo l’impressionismo perché materialista, e il movimento parnassiano perché formalista e razionalista, ma perfino il romanticismo perché sentimentale e convenzionale nel suo linguaggio figurato. Per qualche aspetto il simbolismo si può considerare come la reazione a tutta la poesia anteriore39; esso scopre qualcosa che fin qui era rimasto ignoto o trascurato: la poésie pure40, la poesia nata dall’irrazionale spirito della lingua, cioè estranea ai concetti, ribelle all’interpretazione logica. Per i simbolisti la poesia non è che l’espressione dei rapporti e delle rispondenze, che la lingua abbandonata a se stessa crea fra il concreto e l’astratto, la materia e l’idea, come anche fra i diversi ordini di sensazioni. La poesia, per Mallarmé, è allusione ad immagini che ondeggiano e svaporano; nominare un oggetto, egli dice, significa

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annullare per tre quarti il piacere d’indovinarlo a poco a poco41. E il simbolo non mira soltanto ad eludere la necessità di nominare le cose, ma serve anche come indiretta espressione di un significato che non si può enunciare direttamente, che anzi per sua stessa natura ricusa di venir formulato e definito. Il simbolo come mezzo espressivo non è certo un’invenzione della generazione di Mallarmé; già prima era esistita un’arte simbolica. Semplicemente, essa ha scoperto la differenza tra simbolo e allegoria e ha fatto del simbolismo come stile poetico il fine consapevole delle sue aspirazioni. Pur senza esprimerlo chiaramente, si rendeva conto che l’allegoria non fa che tradurre in figura concreta un’idea astratta, che rimane per altro relativamente indipendente dalla sua espressione figurata tanto che potrebbe anche esprimersi in altra forma; il simbolo invece unifica inscindibilmente l’idea e la figura, e col mutare di questa muta anche quella. Il contenuto di un simbolo, insomma, è intraducibile in altra forma, mentre il simbolo stesso si può interpretare in modi assai diversi, e gli è appunto essenziale questa mobilità dell’interpretazione, quest’apparente impossibilità di esaurirne il significato. Accanto al simbolo, l’allegoria appare sempre la semplice, chiara e relativamente superflua trascrizione di un’idea che nulla acquista nel traslato. È una specie d’indovinello, che si può prontamente risolvere. Il simbolo invece può soltanto venire interpretato, non risolto. L’allegoria è espressione del pensiero statico, il simbolo, di quello dinamico; quella pone una meta e un limite all’associazione delle idee, questo le mette e le mantiene in moto. L’arte dell’alto Medioevo si esprime principalmente in simboli, quella del tardo Medioevo in allegorie. Simboliche sono le avventure di Don Quijote, allegoriche quelle degli eroi dei romanzi cavallereschi che servono di modello a Cervantes. D’altronde in quasi tutte le epoche troviamo

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accanto a un’arte simbolica un’arte allegorica e a volte perfino confuse nelle opere di uno stesso artista. La «ruota di fuoco» (wheel of fire) di Lear è un simbolo, le «candele della notte» (night’s candles) di Romeo sono un’allegoria; ma la frase successiva dello stesso Romeo – «the jocund day stands tiptoe on the misty mountain tops» [«Il gaio mattino | Si leva furtivo sulle cime nebbiose dei monti»] – suona già affine al simbolismo. Essa è ricca di rapporti e allusioni la cui forza rappresentativa è maggiore di quella di un’allegoria. Il simbolismo procede dall’idea che la poesia debba esprimere qualcosa difficilmente raffigurabile e comunque non attingibile per via diretta. Poiché non si può dire nulla d’importante sulle cose con i mezzi chiari della coscienza, mentre la lingua arriva a scoprirne i segreti rapporti, per cosí dire, automaticamente, il poeta, come afferma Mallarmé, deve «lasciare l’iniziativa alle parole», deve lasciarsi trasportare dal loro flusso, dallo spontaneo susseguirsi di immagini e visioni. Con ciò si viene a dire non solo che la lingua è piú poetica, ma anche piú filosofica della ragione. L’idea di Rousseau di uno stato di natura superiore alla civiltà, e quella di Burke, di un organico sviluppo storico, piú fecondo di bene che non il riformismo con la sua smania del nuovo, sono le vere fonti di questa poetica mistica, e sono fonti riconoscibili anche nell’idea di Tolstoj e di Nietzsche, della maggior saggezza del corpo rispetto allo spirito, e nella teoria bergsoniana dell’intuizione che è piú profonda dell’intelletto. Per un altro verso questo misticismo della lingua, questa alchimie du verbe muove da Rimbaud, come tutta l’interpretazione del creare poetico quale fenomeno allucinatorio. La parola decisiva per la poesia moderna è stata sua: il poeta doveva diventare un veggente e a tale stato doveva prepararsi distraendo sistematicamente i sensi dalle loro funzioni normali, rendendoli innaturali e inumani. La pratica

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raccomandata da Rimbaud non rispondeva soltanto all’ideale dell’artificio, miraggio di tutti i decadenti, ma già conteneva un elemento nuovo: la deformazione, la smorfia quale mezzo espressivo, che doveva assumere tanta importanza per il moderno espressionismo. Essa si fondava sul sentimento che gli atteggiamenti spontanei, normali dell’anima fossero artisticamente sterili, e che il poeta dovesse superare in sé la natura per scoprire il senso occulto delle cose. Mallarmé era un platonico, che vedeva nella comune realtà sensibile la forma corrotta di un ente ideale, eterno, assoluto, ma voleva attuare, almeno in parte, nella vita terrena il mondo delle idee. Viveva nel vuoto del suo intellettualismo, del tutto scisso dalla vita comune, e si può dire che non avesse rapporti col mondo, se non letterari. Uccisa in sé ogni spontaneità, divenne, per cosí dire, l’anonimo artefice delle sue opere. Nessuno piú fedelmente di lui seppe seguire l’esempio di Flaubert. «Tout au monde existe pour aboutir à un livre» [«Al mondo tutto esiste per mettere capo a un libro»]. Il maestro stesso non avrebbe potuto trovare una formula piú flaubertiana. À un livre dice Mallarmé, ma non è un libro quel che ne esce. Egli passa tutta la vita a scrivere, riscrivere e correggere una dozzina di sonetti, due dozzine di poesie piú brevi e sei o sette poesie di piú ampio respiro, una scena drammatica e alcuni frammenti teorici42. Sapeva che l’arte sua era un vicolo cieco43 e perciò il motivo della sterilità prende tanto spazio nella sua poesia44. La vita del raffinato, colto, acuto Mallarmé si concluse con uno scacco tremendo come quella del vagabondo Rimbaud. Entrambi disperarono dell’arte, della cultura, della società umana e non si sa chi dei due si sia comportato con piú coerenza45. Con il Chef-d’œuvre inconnu Balzac si è dimostrato buon profeta: estraniandosi dalla vita, l’artista distrugge l’opera sua.

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Già Flaubert pensava a un libro senza soggetto, che doveva essere pura forma, puro stile, puro ornamento, e a lui per primo si presentò l’idea della poésie pure. Forse Mallarmé non avrebbe accettato alla lettera la sua frase: «un bel verso senza senso val piú di uno che abbia un senso, ma sia meno bello». La rinunzia ad ogni contenuto non rispondeva affatto alla sua concezione della poesia; egli pretendeva però che il poeta rinunziasse a suscitare affetti e passioni e a servirsi di motivi extra estetici, pratici e razionali. La concezione della «poesia pura» può comunque considerarsi come il miglior compendio della sua estetica e la quintessenza di tutte le sue aspirazioni di poeta. Mallarmé cominciava a scrivere senza saper bene dove lo avrebbe condotto la prima parola, il primo verso; la poesia si formava come cristallizzazione quasi automatica di parole e di segni, catena di associazioni e di visioni che sbocciavano l’una dall’altra, modificandosi a vicenda46. La poésie pure traduce il principio di questo metodo della creazione poetica in una teoria del comportamento recettivo, e afferma che, per ottenere un’esperienza poetica, non occorre affatto leggere tutta la poesia, per quanto breve; spesso bastano uno o due versi, talvolta persino frammenti di parole per averne un’impressione adeguata. In altri termini: per godere una poesia non è necessario o comunque non basta, intenderne il significato razionale, anzi, come dimostra la poesia popolare, non occorre affatto che vi sia un «senso» chiaro47. È innegabile la somiglianza fra l’atteggiamento recettivo qui descritto e la contemplazione a giusta distanza di un dipinto impressionista; tuttavia nella concezione della «poesia pura» vi sono elementi che non ricorrono necessariamente in quella dell’impressionismo. Essa è la forma piú schietta e intransigente dell’estetismo ed esprime essenzialmente l’idea che possa esistere un mondo poetico affatto indipendente dalla realtà consueta, pratica, razionale, un

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microcosmo estetico autonomo, per sé stante, che gira su un proprio asse. L’orgoglio aristocratico del poeta che si isola e si estrania dalla vita reale si palesa anche piú intenso nella voluta oscurità dell’espressione e nella ricercata difficoltà del pensiero. Mallarmé è l’erede del «rimar chiuso» dei trovatori e della dotta poesia degli umanisti. Egli cerca il vago, l’enigmatico, il difficile, non solo perché sa che l’espressione risulta tanto piú riccamente allusiva quanto piú è vaga, ma anche perché a suo parere una poesia «dev’essere qualcosa di misterioso, e il lettore deve trovarne la chiave» 48. Catulle Mendès indica espressamente questo carattere aristocratico della poesia di Mallarmé e dei suoi seguaci. Alla domanda di Jules Huret, se rimproverasse ai simbolisti la loro oscurità, egli risponde: «Niente affatto. In questo tempo di democrazia l’arte pura diventa sempre piú l’esclusiva di una élite, di un’aristocrazia bizzarra, malaticcia, affascinante. È giusto che il suo livello si mantenga alto»49. Constatando che di fronte alla poesia l’atteggiamento caratteristico della mente non è la comprensione razionale, Mallarmé ne deduce che il fondamento di ogni grande poesia è l’incomprensibile e l’incommensurabile. È evidente il profitto che l’arte può trarre dall’espressione ellittica a cui egli pensa; saltare qualche anello nella catena delle associazioni permette una rapidità, e quindi un’intensità, che va perduta in un lento sviluppo degli effetti50. Mallarmé sfrutta a fondo questi vantaggi, e la sua poesia deve il suo fascino soprattutto alla condensazione delle idee e al succedersi improvviso delle immagini. Ma in lui l’astrusità non sempre dipende da un’intima necessità artistica, anzi spesso risulta da arbitrarie, artificiose manipolazioni linguistiche51. E l’ambizione della difficoltà in quanto tale svela solo la mira del poeta di distinguersi dalla folla, chiudendosi in un cerchio minimo di seguaci. I simbolisti erano, in sostanza,

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dei reazionari, nonostante l’apparente indifferenza politica; erano, per dirla con Barrès, i boulangisti della letteratura52. Come la poesia di Mallarmé, anche l’odierna, la cui difficoltà deriva in parte dagli stessi motivi, appare esoterica, antidemocratica, volutamente chiusa al gran pubblico, per quanto possano variare le opinioni politiche dei singoli poeti e per quanto noi sappiamo benissimo che tale difficoltà risulta da un’evoluzione della cultura moderna, ineluttabile e preparata di lunga mano. Dalla Restaurazione in poi, l’influsso francese in Inghilterra non fu mai tanto forte come nell’ultimo quarto dell’Ottocento. Dopo un lungo periodo di prosperità, l’impero inglese attraversa una crisi economica che si sviluppa in vera e propria crisi dello spirito vittoriano. La «gran depressione» comincia verso il 1875 e non dura piú di un decennio, ma la borghesia inglese vi smarrisce l’antica fiducia in sé. Comincia a sentire la concorrenza economica di altre nazioni, spesso piú giovani, come la tedesca e l’americana, e si vede impegnata in un’aspra lotta per il possesso delle colonie. Come diretta conseguenza delle nuove condizioni si ha un recedere delle concezioni liberistiche, che finora, nonostante ogni critica, avevano avuto per la borghesia inglese autorità di dogma53. Il decrescere delle esportazioni provoca un abbassamento della produzione che si ripercuote sul tenore di vita dei lavoratori. La disoccupazione aumenta, gli scioperi si moltiplicano, e il movimento socialista, arenatosi dopo gli anni rivoluzionari verso la metà del secolo, ora non solo riprende vigore, ma, per la prima volta in Inghilterra, si fa consapevole delle sue mete e della sua forza. Questa svolta ha le piú vaste ripercussioni sullo sviluppo intellettuale del paese. La coscienza di avere di fronte una concorrenza estera pone fine all’isolazionismo britannico54 e prepara il terreno agli influssi intellettuali stranieri. Fra questi, anzitutto quello della

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letteratura francese; vengono poi il romanzo russo, Wagner, Nietzsche e Ibsen e integrano gli stimoli che vengono dalla Francia. Ma c’è un fatto ben piú importante degli influssi dall’estero, che anzi di questi costituisce la premessa: con la scossa inflitta all’orgoglio borghese e alla fede nella divina missione dell’Inghilterra nel mondo, ma soprattutto con il nuovo movimento socialista dopo l’80, si rinnova la lotta per la libertà individuale, che impronta di sé tutta la cultura, la letteratura progressista e il modo di vita delle giovani generazioni. Si può dire che nell’abito mentale del tempo non c’è tratto che non rifletta questa lotta contro la tradizione e la convenzione, il puritanesimo e il filisteismo, l’arido utilitarismo e il sentimentalismo romantico. Si combatte contro la vecchia generazione per conquistare e godere la vita. Modernità diventa il motto estetico e morale della gioventú che batte alla porta e vuol passare. Fine e contenuto della vita è ora l’ibseniana affermazione di se stessi, la volontà di esprimere la propria personalità e d’imporre il proprio valore. E per quanto rimanga per lo piú oscuro quel che s’intende per realizzazione di sé, crolla sotto i colpi della nuova generazione la sicurezza morale del vecchio mondo borghese. Fin verso il 1875 la gioventú si trova di fronte a una società in complesso stabile, sicura nelle sue tradizioni e convenzioni e rispettata anche dagli oppositori. Non solo in Jane Austen, ma anche in George Eliot si sente la saldezza di un ordine sociale, che se non perfetto né del tutto accettabile, non è tuttavia trascurabile né facile a sostituirsi. Ma ora tutte le norme della vita sociale perdono a un tratto il loro valore; tutto vacilla, diventa problematico e discutibile. Nella letteratura e nell’arte inglese dopo l’80 la tendenza liberale afferma un individualismo apolitico, benché naturalmente l’impulso alla realizzazione di sé, cosí vivo nella gioventú, e la lotta di questa contro le vecchie

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forme sovraindividuali siano strettamente connessi con la nuova situazione politico-sociale55. La gioventú è schiettamente antiborghese, ma non democratica e tanto meno socialista. Anzi, in essa il sensualismo e l’edonismo, la volontà di godere la vita e di inebriarsene, di fare della propria esistenza un’opera d’arte, in cui ogni ora diventi un’esperienza indimenticabile e insostituibile, assume spesso un aspetto antisociale e amorale. La spinta antifilistea non prende di mira i capitalisti, ma i borghesi nemici dell’arte. Tutto il movimento inglese verso la modernità è dominato da quest’odio contro i filistei, che diventa a sua volta una convenzione estrinseca. Ad essa sono da connettere in gran parte anche le modificazioni che l’impressionismo subisce in Inghilterra. In Francia l’arte e la letteratura impressionistica non erano espressamente antiborghesi; i francesi erano già oltre la fase della lotta contro il filisteismo, anzi i simbolisti provavano una certa simpatia per la borghesia conservatrice. In Inghilterra, invece, spetta alla letteratura decadente di compiere l’opera di disgregazione che in Francia romanticismo e naturalismo avevano da tempo compiuto. Il tratto piú spiccato che ora distingue la letteratura inglese da quella francese è il gusto del paradosso, dell’espressione sorprendente, bizzarra, volutamente urtante, di quell’arguzia ricercata che oggi sembra cosí insulsa e con la sua civetteria cosí compiaciuta di sé e incurante della verità. È chiaro che questo amore del paradosso non è che spirito di contraddizione, che ha la sua origine soprattutto nel desiderio di épater le bourgeois [sbalordire il borghese]. Tutte le singolarità e le affettazioni, nella lingua come nel modo di pensare, nel vestire come nella condotta degli artisti, sono una protesta contro le opinioni del filisteo insensibile alle muse, privo di fantasia, bugiardo e ipocrita. Tale è il loro stravagante dandysmo, proprio come la loro lingua colorita che sfoggia tutte le attratti-

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ve dello stile impressionistico. Il decadentismo inglese è stato con ragione chiamato una sintesi «di Mayfair e Bohemia». In Inghilterra non troviamo né una bohème cosí pura come in Francia, né artisti che vivano come Mallarmé in una torre d’avorio, perfetta e inaccessibile. La borghesia inglese è ancora abbastanza energica per assimilarli o per eliminarli. Oscar Wilde è un fortunato scrittore borghese finché la classe dominante lo giudica tollerabile, ma appena egli comincia a disgustarla viene «liquidato» senza pietà. In Inghilterra il dandy sostituisce in certo modo il bohémien, mentre in Francia gli si contrapponeva. Il dandy è l’intellettuale borghese spostato nell’alta società, il bohémien invece è l’artista decaduto al livello del proletariato. L’elegante ricercatezza e la stravaganza del dandy hanno la stessa funzione dell’incuria e della dissipazione del bohémien. Entrambi incarnano una medesima protesta contro la monotonia e la volgarità della vita borghese, solo che gli Inglesi preferiscono portare il girasole all’occhiello piuttosto che il colletto sbottonato. Com’è noto, già i modelli di Musset, Gautier, Baudelaire e Barbey d’Aurevilly erano stati inglesi; Whistler, Wilde e Beardsley rilevano cosí dai francesi la filosofia del dandysmo. Per Baudelaire il dandy è la protesta vivente contro il livellamento democratico. Agli occhi del poeta egli raduna in sé tutte le virtú aristocratiche compatibili con la vita odierna; è all’altezza di ogni situazione, non si stupisce di nulla, non è mai volgare e conserva sempre il freddo sorriso dello stoico. Il dandysmo è l’ultima manifestazione dell’eroismo in un’età di decadenza, un sole al tramonto, un estremo fulgido raggio dell’orgoglio umano56. L’eleganza del vestire, la raffinatezza del contegno, il rigore intellettuale non sono che la disciplina esteriore, che gli uomini di quest’ordine eletto s’impongono nella volgarità del mondo attuale; quel che soprattutto importa è l’intima superiorità e indipendenza, l’assenza di

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scopi pratici e di precise ragioni nell’essere e nell’agire57. Baudelaire antepone il dandy all’artista58, poiché questi è ancora capace d’entusiasmo, lavora, produce: è ancora un meccanico, nel senso antico. Qui si va anche oltre la crudele previsione di Balzac: l’artista non solo distrugge l’opera sua, ma nega il suo diritto alla gloria e all’onore. Quando Oscar Wilde vuol fare della sua vita un’opera d’arte – l’arte delle sue conversazioni, dei suoi rapporti, di tutto il suo modo di vivere – e la antepone alle sue opere letterarie, guarda anzitutto al dandy di Baudelaire, all’ideale di un’esistenza affatto inutile, gratuita, senza meta. Ma quanta vanità e civetteria ci sia in questa rinunzia agli onori e alla gloria, appare dalla strana unione di dilettantismo e di estetismo che caratterizza i decadenti inglesi. Mai l’arte fu presa sul serio come ora; mai ci si diede tanta pena per scrivere versi magistralmente cesellati, una prosa impeccabile, frasi perfettamente articolate ed equilibrate. Mai l’elemento decorativo, la «bellezza», l’eleganza, la squisitezza e la rarità ebbero tanta importanza nell’arte; mai il preziosismo e il virtuosismo vi furono piú largamente spiegati. Se in Francia la pittura era modello alla poesia, in Inghilterra ci si ispira propriamente all’arte dell’orafo. Non per nulla Wilde parla con tanto entusiasmo del «jewelled style» [«stile gemmato»] di Huysmans. Effetti di colore come i «jadegreen piles of vegetables» [«velluti verde-giada degli ortaggi»] a Covent Garden sono la sua personale aggiunta all’eredità dei francesi. G. K. Chesterton osserva da qualche parte che lo schema del paradosso di Shaw consiste nel dire, invece di «uva bianca», «uva verde-chiaro». Anche Wilde, che ha tanto di comune con Shaw a dispetto di tutte le differenze, nelle sue metafore parte spesso dalla massima evidenza e trivialità e il tipico del suo stile si rivela appunto nell’unione del triviale con lo squisito. È come se egli volesse dire che anche nella

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realtà piú ordinaria si trova la bellezza, come Walter Pater gli ha insegnato. «Non il frutto dell’esperienza, ma l’esperienza stessa è il fine... Nel mantenere quest’estasi sta il successo nella vita», dice Pater nella conclusione del Rinascimento, e in queste frasi è contenuto il programma di tutto il movimento estetizzante. In Walter Pater l’evoluzione iniziata con Ruskin e continuata con William Morris giunge a compimento, ma, a differenza dei suoi predecessori, i fini sociali esulano dai suoi propositi, che non sono che edonistici, mirano solo ad esaltare l’intensità dell’esperienza estetica. In lui l’impressionismo è solo una forma di epicureismo. Poiché «tutto scorre» in senso eracliteo e la vita rumoreggiando dilegua con sinistra rapidità, per noi non c’è che una verità, quella del momento, e tutta la voluttà o il piacere è solo quello che possiamo rapire all’istante. Ma è in nostro potere di non lasciarne passare uno solo senza goderne il fascino particolare, l’intima virtú. Quanto in questo l’estetismo inglese si allontani dall’impressionismo francese, lo vediamo chiaramente in un fenomeno come Beardsley. Non si può immaginare un’arte piú «letteraria» della sua, in cui piú d’ogni altra hanno importanza la psicologia, i contenuti intellettuali, gli aneddoti. Il calligrafismo artigianale, che i maestri francesi si dànno tanto pena di evitare, è l’elemento piú tipico del suo stile; ed è il punto di partenza di tutta quell’evoluzione antimpressionistica che porta agli scenografi e agli illustratori mondani, cosí cari alla borghesia benestante e mediocremente colta. L’intellettualismo, dominante nella letteratura francese nonostante la forte corrente intuizionistica, rappresenta anche in Inghilterra il tratto fondamentale della nuova letteratura. Wilde non solo accetta l’idea di Matthew Arnold, che è il critico a determinare il clima intellettuale di un secolo59, e non solo consente alle parole di Baudelaire, che ogni vero artista deve essere anche

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un critico, ma giunge ad anteporre il critico all’artista ed è incline a considerare il mondo con gli occhi del critico. Questo spiega perché sovente l’arte sua, come quella dei suoi contemporanei, appare cosí dilettantesca. Quasi tutto quello ch’essi creano pare il gioco abilissimo di persone molto dotate, tuttavia non di artisti di mestiere. Ma, se dobbiamo credere loro, essi volevano appunto suscitare quest’impressione. Sul terreno dello stesso intellettualismo, sebbene a un piú alto livello, si muovono Meredith e Henry James. Se nel romanzo inglese c’è una tradizione che collega George Eliot con Henry James60, è certo quella dell’intellettualismo. Dal punto di vista sociologico, con George Eliot si apre una nuova fase nella storia della letteratura inglese: sorge un pubblico nuovo, piú esigente. Ma George Eliot, benché rappresentasse un ceto intellettuale assai superiore al pubblico di Dickens, poteva contare su una cerchia relativamente ampia di lettori; il pubblico di Meredith e Henry James invece si limita ormai a un esiguo ambiente d’intellettuali che a un romanzo non chiedono, come il pubblico di Dickens o di George Eliot, un’azione impressionante e figure di gran risalto, ma uno stile impeccabile e maturi, esemplari giudizi sulla vita. Quel che per lo piú in Meredith è soltanto maniera, in Henry James è spesso vera passione intellettuale; ma entrambi rappresentano un’arte che ha con la realtà rapporti essenzialmente astratti; e le loro creature, confrontate con il mondo di Stendhal, Balzac, Flaubert, Tolstoj, pare che si muovano nel vuoto. Verso la fine del secolo l’impressionismo predomina in tutta Europa. Dappertutto fiorisce una poesia degli stati d’animo, delle impressioni atmosferiche, del dileguare della stagione e dell’ora. La lirica si estenua in sensazioni fuggevoli, inafferrabili, in eccitamenti dei sensi indeterminati, indefinibili, in tinte delicate e voci stan-

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che. L’indeciso, il vago, quel che si muove alla soglia della percezione sensoriale, diventa il tema principe della poesia; non si tratta piú della realtà obiettiva, ma della commozione del poeta per la propria sensibilità e capacità d’esperienza. Quest’arte eterea degli stati d’animo domina ormai tutte le forme letterarie; tutte si trasformano in lirismo, in immagine e musica, in colore e sfumatura. Il racconto si riduce a semplici situazioni, l’azione a scene liriche, il disegno dei caratteri alla descrizione di intime disposizioni e stati psichici. Tutto diventa episodico, periferico in una vita priva di centro. Fuori di Francia, l’influsso dell’impressionismo sulla letteratura è piú forte di quello del simbolismo. Se invece si guarda solo alla letteratura francese, si è facilmente indotti a identificare le due correnti61. Anche Victor Hugo chiamava il giovane Mallarmé «mon cher poète impressioniste». Ma a un esame piú attento le differenze sono evidenti: l’impressionismo è materialistico e sensualistico, per quanto delicati ne siano i temi; il simbolismo invece è idealistico e spiritualistico, benché il suo mondo ideale non sia che una sublimazione del mondo dei sensi. Ma il simbolismo francese – in cui dobbiamo includere quello belga – con le sue derivazioni, cioè il vitalismo di Bergson da un lato, il cattolicismo monarchico dell’Action française dall’altro, si distingue essenzialmente in quanto rappresenta una tendenza sempre pronta a mutarsi in attivismo; mentre l’impressionismo dei viennesi, dei tedeschi, dei russi e degli italiani, che ha in Schnitzler, Hofmannsthal, Rilke, Ωechov, D’Annunzio, gli interpreti maggiori, esprime una concezione della passività, del perfetto abbandono al mondo circostante e del dissolversi senza resistenze nell’istante. Eppure, quanto siano profondi i rapporti fra impressionismo e simbolismo, come facilmente prevalga in entrambi il momento irrazionale e la passività si trasformi in frivolo attivismo, lo dimostra l’evoluzione di

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poeti come Stefan George e D’Annunzio. Saremmo senz’altro disposti a collegare con le simpatie fasciste di quest’ultimo il suo cattivo gusto, la paludata verbosità, la cronica ebrezza di vita, se Barrès e Stefan George non manifestassero la stessa velleità politica, pur con un gusto e con maniere letterarie tanto migliori. La forma piú pura dell’impressionismo che ripugna ad ogni atteggiamento attivo e si abbandona senza resistenza al flusso delle esperienze è quella dei viennesi. Forse è la vecchia, stanca cultura della città, la mancanza di ogni attiva politica nazionale e il grande contributo straniero, specie ebraico, alla vita letteraria, a dare all’impressionismo viennese il suo particolare carattere di sottigliezza e di passività. Si tratta dell’arte di giovani eredi borghesi, espressione del malinconico edonismo di quella «seconda generazione» che gode i frutti del lavoro paterno. Sono nevrotici e tristi, stanchi e senza meta, scettici e ironici verso se stessi questi poeti degli stati d’animo squisiti e subito dileguati, di cui nulla rimane, se non il senso del transitorio, del mancato e la coscienza dell’inettitudine alla vita. Il contenuto latente di ogni impressionismo, la coincidenza di vicino e lontano, l’estraneità delle cose prossime, quotidiane, il senso di esser sempre divisi dal mondo, diventa qui l’esperienza di fondo. «Si può dar che questi giorni vicini – sian passati, per sempre passati e del tutto perduti?» domanda Hofmannsthal, e in questa domanda sono contenute in germe anche le altre: il brivido dell’«adesso e qui» che è insieme un «oltre», lo stupirsi perché «queste cose sono altre e ancora altre le parole che usiamo», lo sgomentarsi perché «tutti gli uomini vanno per la loro strada» e infine l’ultimo, grande problema: «Quando uno muore, porta con sé un segreto: come sia stato possibile a lui, proprio a lui, vivere nel senso spirituale della parola». Se si pensa alla frase di Balzac «Nous mourons

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tous inconnus», si vede con quanta coerenza si sviluppi in Europa il senso della vita dopo il 1830. Esso presenta un carattere costante, prevalente, sempre piú profondo: la coscienza dell’isolamento, della solitudine, che può avvilirsi fino al sentimento del completo abbandono da parte di Dio e del mondo, o elevarsi nell’istante dell’orgoglio, che spesso è quello della massima disperazione, all’idea del superuomo; questi nell’aria rarefatta delle altezze si sente solo e infelice come l’esteta nella sua torre d’avorio. Il fenomeno piú rilevante di tutta la storia dell’impressionismo europeo è la sua adozione da parte dei russi e il sorgere di uno scrittore come Ωechov, che può dirsi il piú puro rappresentante di tutto lo stile. Nulla è piú sorprendente di un tale artista in un paese che fino a poco prima viveva ancora nell’atmosfera intellettuale dell’illuminismo, ed era del tutto estraneo all’estetismo e decadentismo che in Occidente accompagnano il sorgere dell’impressionismo. Ma in un secolo tecnico come il xix le idee si diffondono presto e l’adozione dell’economia industriale crea anche qui condizioni che portano al nascere di un gruppo sociale simile a quello degli intellettuali d’Occidente e al manifestarsi di un atteggiamento analogo all’ennui62. Gor´kij fin dall’inizio comprese la funzione decisiva che era destinata a Ωechov nella letteratura russa; egli vide che con lui si concludeva tutta un’epoca, e che il suo stile possedeva per le nuove generazioni un fascino a cui esse non avrebbero piú potuto rinunziare. «Sa Lei quel che fa? – gli scrive nel 1900. – Lei annienta il realismo... Dopo uno dei Suoi racconti, sia pure il meno importante, tutto sembra rozzo, scritto con un bastone, non con la penna»63. Come apologeta dell’insuccesso e dell’inettitudine alla vita, Ωechov ha i suoi precursori in Dostoevskij e Turgenev, ma questi non considerano ancora la sfortuna e la solitudine come inevitabile destino dei migliori.

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Solo con Ωechov si ha una visione del mondo imperniata sull’esperienza della incomunicabilità fra gli uomini, cosí caratteristica dell’impressionismo, sulla loro incapacità di superare del tutto la distanza che li divide o, pur riuscendovi, di mantenersi vicini. L’umanità di Ωechov si sente derelitta e disperata, irrimediabilmente paralizzata nella volontà, o sterile in ogni suo sforzo. Questa filosofia della passività e dell’indolenza, questo senso che nulla nella vita giunga allo scopo e al termine, hanno grandi conseguenze formali; portano ad accentuare il carattere episodico, irrilevante dell’avvenimento esterno, alla rinunzia ad ogni struttura formale, a ogni concentrazione e integrazione, portano a preferire una composizione eccentrica, che trascura o violenta la cornice. Come Degas respinge parti importanti della scena proprio ai margini del quadro e le taglia con la cornice, Ωechov termina le sue novelle e i suoi drammi con un’arsi, per accentuare anche cosí l’impressione del non conchiuso, dell’interrotto, della fine casuale, arbitraria. Egli segue un principio formale perfettamente opposto a quello della «frontalità»: anzi, tutto è predisposto per dare all’opera il carattere di un evento casuale, scoperto, colto per caso. Il senso che gli eventi esterni sono assurdi, irrilevanti e frammentari, porta nel dramma a ridurre al minimo l’azione e a rinunciare agli effetti cosí caratteristici della pièce bien faite. Il buon teatro deve essenzialmente la sua efficacia ai principî della forma classica: unità, conclusione e armonioso sviluppo dell’azione. Il dramma poetico, sia quello simbolico di Maeterlinck, sia quello impressionistico di Ωechov, rinunzia a questi mezzi strutturali a favore dell’immediata espressione lirica. La forma cecoviana è forse la meno teatrale di tutta la letteratura – una forma in cui i coups de théâtre, gli effetti scenici di sorpresa e di tensione hanno una parte minima. Non c’è dramma piú povero di avvenimenti, di

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movimento, di conflitti. I personaggi ignorano la lotta, la difesa, la sconfitta; cedono, affondano a poco a poco, inghiottiti dalla monotonia della loro vita senza vicende e senza prospettive. Si abbandonano al loro destino che si consuma in delusioni, non in catastrofi. Fin dalla sua prima comparsa, si è dubitato di poter giustificare un simile dramma privo d’azione e di movimento e ci si è chiesti se fosse il vero dramma, vero teatro, cioè se sulla scena si sarebbe mostrato vitale. La pièce bien faite apparteneva ancora al vecchio teatro e, pur accogliendo certi elementi del naturalismo, in complesso si atteneva sia alle convenzioni tecniche della scena, sia all’ideale eroico del dramma classico-romantico. Soltanto nel nono decennio il naturalismo conquista la scena, quando già nel romanzo comincia la sua parabola discendente. Il primo dramma naturalistico, Les corbeaux di Henri Becque, è del 1882, e il Théâtre libre di Antoine, il primo della corrente naturalistica, è fondato nel 1887. Da principio il pubblico borghese si mostra del tutto refrattario, benché Henri Becque e i suoi immediati successori non facciano che sfruttare per la scena quel che già da gran tempo Balzac e Flaubert hanno reso familiare a tutti. Il dramma naturalistico in senso stretto sorge altrove, nei paesi nordici, in Germania e in Russia. A poco a poco il pubblico ne accetta le convenzioni, come ha accettato quelle del romanzo, e Ibsen, Brieux e Shaw suscitano proteste solo per gli assalti troppo aspri alla morale borghese. Ma infine, benché avverso ad essa, il nuovo indirizzo conquista la borghesia, e persino il dramma socialista di Gerhart Hauptmann celebra i suoi primi e massimi trionfi negli ambienti dell’alta borghesia berlinese. Il teatro naturalistico non è che la via verso il dramma intimo, verso l’interiorizzazione dei conflitti, verso un piú immediato contatto fra scena e pubblico. I troppo facili espedienti, l’intreccio complicato e la tensione forzata, gli

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indugi e le sorprese artificiose, le scene madri e i finali di grand’effetto resistono nel teatro piú a lungo che nel romanzo, ma a un tratto cominciano a sembrare ridicoli e debbono essere sostituiti o velati con effetti piú sottili. Senza l’adesione di un pubblico relativamente vasto, il dramma naturalistico non sarebbe mai divenuto una realtà nella storia del teatro. Se un volume di liriche può uscire in due o trecento copie, e un romanzo in mille o duemila, una rappresentazione teatrale dev’esser vista da diecimila persone, perché se ne coprano le spese. Il nuovo dramma naturalistico in questo senso già da un pezzo si era dimostrato vitale, quando ancora critici e teorici si stillavano il cervello sulle sue possibilità. Essi non riuscivano a liberarsi dalla concezione classica del dramma e anche i piú ragionevoli fra loro, o i piú acuti, consideravano il teatro naturalistico come una contradictio in adiecto64. Soprattutto non potevano ammettere che si trascurasse l’economia del dramma classico, conversando liberamente sulla scena, discutendo problemi, descrivendo esperienze, saltando di palo in frasca, come se la rappresentazione non dovesse mai finire. Biasimavano che il dramma naturalistico non nascesse «dalla considerazione del destino, del personaggio e del soggetto, ma da una riproduzione particolaristica della realtà65»; in realtà poi accadde semplicemente che la realtà, con i suoi vincoli concreti, divenne essa stessa il destino, e i «personaggi» non furono piú semplici figure da palcoscenico, ma uomini dalle molte facce, complicati, incoerenti, «senza carattere» come si diceva un tempo e che, come espose Strindberg nel suo proemio a La signorina Giulia del 1888, erano un prodotto delle condizioni, dell’eredità, dell’ambiente, dell’educazione, dell’indole, degli influssi locali, stagionali e accidentali; e le loro decisioni non avevano un solo motivo, ma tutta una serie di motivi.

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Col prevalere dell’interiorità, dello stato d’animo, dell’atmosfera e del lirismo sull’azione drammatica, si assiste alla scomparsa del racconto vero e proprio, nel teatro come nella pittura impressionistica. Tutta l’arte del tempo mostra una tendenza allo psicologismo e al lirismo; la ripugnanza al racconto e l’inclinazione a sostituire il movimento intimo a quello esteriore, la filosofia e l’interpretazione della vita all’azione, possono di certo considerarsi il tratto essenziale del nuovo indirizzo artistico, che si afferma in ogni campo. Ma, mentre la pittura aneddotica non trovò difensori fra i critici d’arte, i critici teatrali protestarono con la massima energia contro chi trascurava l’azione. Specialmente in Germania, essi parlarono di una fatale separazione del dramma dal teatro, del peso decisivo dell’efficienza scenica per l’esperienza teatrale, del carattere di massa di tale esperienza e della fondamentale assurdità del teatro intimo. I moventi di questa opposizione erano diversissimi; la reazione politica non sempre vi aveva la parte principale, e spesso si esprimeva solo per via indiretta; di maggior peso invece furono le simpatie per un «teatro monumentale» che, soprattutto in Germania, si contrapponeva al teatro intimo rispondente alle vere esigenze spirituali, nonché l’ambizione di creare un «teatro di massa» per le masse che effettivamente c’erano, ma non formavano un pubblico teatrale. Caratteristico di tutta questa confusione d’idee fu che come stile adatto al futuro teatro popolare si finí per presentare non già il naturalismo cresciuto di pari passo con la concezione democratica, ma il classicismo della vecchia aristocrazia e della borghesia. Le maggiori accuse rivolte contro il nuovo dramma erano quelle di determinismo e relativismo, entrambi inscindibili dalla visione naturalistica del mondo. Si proclamava che dove manchino libertà intima ed esteriore, valori assoluti, regole morali obiettive, universali e indi-

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scutibili, non può esistere un vero dramma, cioè una tragedia. La relatività delle norme etiche e la comprensione per opposte posizioni morali escluderebbe del tutto un vero conflitto drammatico. Quando sia lecito tutto comprendere e tutto perdonare, l’eroe nella sua lotta a oltranza apparirà alla fine un pazzo testardo, il conflitto perderà ogni necessità e il dramma verrà a prendere un carattere tragicomico e patologico66. Tutto il ragionamento brulica di equivoci, pseudoproblemi e sofismi. In primo luogo, si viene a identificare nel dramma tragico tutto il dramma, o almeno lo si rappresenta come la sua forma ideale, esprimendo cosí un giudizio di valore per se stesso molto relativo, in quanto determinato da condizioni storiche e sociali. In realtà, non solo il dramma senza tragedia, ma anche senza conflitto può essere una forma teatrale perfettamente legittima; e il teatro si può benissimo conciliare con una visione relativistica del mondo. Ma anche se si considera il conflitto un elemento indispensabile, è difficile capire perché dovrebbero prodursi conflitti profondamente commoventi solo dove si tratti di valori assoluti. Non è altrettanto impressionante la lotta degli uomini per i loro principî morali determinati da un’ideologia? E perfino quando si tratta di una lotta necessariamente tragicomica non sarà proprio questo suo carattere a produrre, in un tempo di razionalismo e di relativismo, i maggiori effetti drammatici? Del resto la premessa di tutta l’argomentazione è discutibile, e cioè l’idea che l’assenza di libertà sociale e il relativismo etico escludano senz’altro la tragedia. Non consta affatto che solo uomini del tutto liberi, socialmente indipendenti, come sovrani e condottieri, siano eroi da tragedia. Non è forse tragico il destino del Mastro Antonio di Hebbel, del Gregers Werle di Ibsen, dello Henschel di Hauptmann? Concediamo pure che tragico e triste non sono la stessa cosa. Ma sarebbe «antidemocratico» affermare con Schiller che non ci

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può esser tragedia nel furto di cucchiai d’argento. La tragicità di una situazione dipende soltanto dalla forza, dall’intransigenza con cui diversi, inconciliabili principî morali si affrontano nell’anima di un uomo. Ma perché si determini l’effetto tragico non è neppure assolutamente necessario che un pubblico veda posti in discussione valori ch’esso crede assoluti, e tanto meno valori in cui non crede piú. Nella storia del dramma moderno Ibsen è la figura centrale, e non solo perché è il maggior drammaturgo del secolo, ma perché l’opera sua pone con il massimo vigore i problemi filosofici del tempo. La liquidazione dell’estetismo, problema cruciale della sua generazione, segna il principio e la fine della sua carriera artistica. Fin dal 1865 egli scrive a Björnson: «Se in questo momento io dovessi dichiarare quale profitto abbia tratto in sostanza dal mio viaggio, direi che mi sono liberato dall’estetismo, che mi aveva tutto in suo potere, pretendendosi fine a se stesso. Quindi esso ora mi sembra una maledizione per la poesia, come la teologia per la religione»67. Secondo ogni apparenza, Ibsen giunge a risolvere questo problema sotto l’influsso di Kierkegaard, che tanta parte deve aver avuto nella sua evoluzione, bench’egli affermasse di non capire gran che delle teorie del filosofo68. Kierkegaard con il suo aut-aut deve aver dato l’impulso decisivo soprattutto all’evolversi del rigorismo morale ibseniano69. La passione etica di Ibsen, la coscienza di dover scegliere e decidere, la concezione dell’attività poetica come «l’ultima sentenza su se stessi», tutto ciò ha radice nelle idee di Kierkegaard. Che il «tutto o nulla» di Brand corrisponda all’aut-aut di Kierkegaard, lo si è osservato spesso; ma Ibsen deve ben altro all’intransigenza del suo maestro; gli deve tutta la sua concezione etica, antiromantica e scevra d’estetismo. La miopia dei romantici consisteva soprattutto nel ridurre ogni manifestazione dello spirito a categorie estetiche,

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e ai loro occhi tutti i valori portavano piú o meno l’impronta del genio. Kierkegaard fu il primo che contro il Romanticismo osò affermare che l’esperienza etica e religiosa non ha a che vedere con la bellezza e la genialità, e un eroe della fede è affatto diverso da un genio. Nell’Occidente postromantico nessun altro aveva colto i limiti della sfera estetica, e all’infuori di lui non vi era nessuno che potesse influire in tal senso su Ibsen. Quanto tale influsso abbia contribuito a determinare la critica ibseniana del romanticismo è difficile dire. L’irrealismo romantico era un problema generale del tempo, e certo allo scrittore non occorrevano speciali stimoli per affrontarlo. Tutto il naturalismo francese s’imperniava sul conflitto tra ideale e realtà, finzione e verità, poesia e prosa, e i piú noti pensatori del secolo riconoscevano nel difetto di realismo la maledizione della cultura moderna. Sotto questo aspetto Ibsen non fece che continuare la lotta dei suoi predecessori, ultimo di una lunga serie che includeva tutti gli avversari del romanticismo. Il colpo mortale che egli porta al nemico consiste nello svelare il lato tragicomico dell’idealismo romantico. Dopo il Don Quijote la cosa non era del tutto nuova, ma Cervantes trattava ancora il suo eroe con simpatia e indulgenza, mentre Ibsen annienta moralmente Brand, Peer Gynt e Gregers Werle. L’«esigenza ideale», fuor d’ogni realtà, dei suoi romantici si rivela puro egoismo, che l’ingenuità dell’egoista non basta a mitigare. Don Quijote affermava i suoi ideali anzitutto contro se stesso; gli idealisti di Ibsen invece si distinguono soltanto per la loro intolleranza verso gli altri. Ibsen dovette la sua fama europea al messaggio sociale dei suoi drammi, riducibile, in ultima analisi, a una sola idea: il dovere dell’individuo verso se stesso, il suo compito di realizzarsi affermando la propria natura contro le convenzioni, meschine, stupide e superate, della società borghese. Il suo era dunque un vangelo dell’in-

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dividualismo, un’esaltazione della personalità sovrana, un’apoteosi della vita creatrice; dunque, in certo modo, ancora un ideale romantico che fece la piú profonda impressione sulla gioventú; e non solo era essenzialmente affine all’idea nietzschiana del superuomo e all’élan vital di Bergson, ma tornò a riecheggiare in Shaw, nel suo mito della forza vitale. In fondo Ibsen era un individualista anarchico; nella libertà personale scorgeva il piú alto valore della vita e il suo principio era che l’individuo libero, sciolto da ogni vincolo esteriore, può far molto per sé, mentre pochissimo può fare per lui la società. La sua idea della realizzazione di se medesimi era innegabilmente di grande portata sociale, ma la «questione sociale» vera e propria lo lasciava indifferente. «A dir vero, per la solidarietà non ho mai avuto gran simpatia» egli scrive a Brandes nel 187170. Il suo pensiero si imperniava sui problemi dell’etica individuale; per lui la società esprimeva solo il principio del male. Egli non vi scorgeva che il regno della stupidaggine, del pregiudizio e della costrizione. Infine giunse a quella morale aristocraticamente conservatrice, che rappresentò con particolare chiarezza in Rosmerholm. Per la sua modernità, il suo antifilisteismo, la sua lotta accanita contro ogni convenzione, Ibsen apparve all’Europa uno spirito assolutamente progressista; ma in patria, dove si era in grado di giudicare le sue opinioni politiche con maggior conoscenza di causa, lo si considerava il grande poeta conservatore, che si contrapponeva al radicale Björnson. All’estero tuttavia se ne intese meglio l’importanza storica. Egli apparve una delle poche figure rappresentative dell’epoca, se non la sola, che fosse lecito paragonare a Tolstoj, Anch’egli, infatti, dovette il suo nome e la sua autorità non tanto alla sua opera di poeta, quanto a quella di agitatore e di educatore. In lui si onorò soprattutto il grande moralista, l’appassionato accusatore e l’impavido campione della verità, per il

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quale il teatro era il mezzo a un fine piú alto. Politicamente, tuttavia, Ibsen non aveva nulla di positivo da dire ai suoi contemporanei. Tutta la sua visione del mondo era incrinata da una contraddizione profonda: egli lottava contro la morale convenzionale, i pregiudizi borghesi, la società dominante, in nome d’una libertà ch’egli stesso non credeva attuabile. Era un crociato senza fede, un rivoluzionario senza ideali sociali: e il riformatore si trasformò alla fine in un duro fatalista. Ibsen finí proprio come il Frenhofer di Balzac, o come Rimbaud e Mallarmé. Rubek, l’eroe del suo ultimo dramma, la piú schietta incarnazione della sua idea dell’artista, rinnega la propria opera e prova quel che ogni artista piú o meno ha provato dal romanticismo in poi: il senso di essersi lasciato sfuggire per l’arte la vita. «Una notte estiva sui monti con te, sì, con te, Irene, questo sarebbe stata la vita!» In questo grido è implicito il giudizio su tutta l’arte moderna. L’apoteosi delle «notti estive» della vita è diventata un povero surrogato, un oppio che ottunde i sensi e rende l’uomo incapace di godere direttamente la vita. L’unico vero discepolo e successore di Ibsen è Shaw, l’unico che ne abbia continuato con efficacia la lotta contro il romanticismo, approfondendo il grande dibattito dell’Europa ottocentesca. È lui che completa lo smascheramento dell’eroe romantico, e la distruzione della fede nei grandi gesti teatrali. Tutto ciò che è puramente decorativo, vistosamente eroico, sublime e idealistico con lui diventa sospetto; ogni sentimentalismo e distacco dalla realtà si rivelano inganni e imposture. La psicologia dell’autoinganno è la fonte della sua arte, ed egli è fra i piú animosi e intransigenti, ma anche fra i piú gioviali e divertenti smascheratori di quest’intima inclinazione. Se tutto il suo pensiero, cosí accanito nel distruggere leggende e rivelare finzioni, ha un’innegabile origine illuministica, la sua filosofia della storia, radica-

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ta nel materialismo storico, fa di lui il piú progressista e il piú moderno scrittore della sua generazione. Egli dimostra che la falsa prospettiva in cui gli uomini vedono il mondo e se stessi, le menzogne ch’essi proclamano o lasciano affermare come verità e per cui, in certi casi, sono pronti a tutto, sono legate alle ideologie, cioè a interessi economici e aspirazioni sociali. Il peggio non è che essi pensino in modo irrazionale – spesso anzi sono fin troppo razionali – ma che non abbiano alcun senso della realtà, che non vogliano ammettere i fatti come fatti. Quindi non il razionalismo, bensí il realismo è la meta di Shaw; e la volontà, non la ragione, è la faculté maitresse dei suoi eroi71. Questo spiega in parte anche la sua vocazione di drammaturgo, e come nel piú dinamico fra i generi letterari le sue idee abbiano trovato la loro forma piú adeguata. Shaw non sarebbe il perfetto rappresentante del suo tempo, se non ne condividesse anche l’intellettualismo. Pur con la loro pulsante vivacità, l’efficacia scenica spesso memore della pièce bien faite e il tono melodrammatico talvolta un po’ volgare, i suoi drammi sono essenzialmente intellettualistici; piú ancora di quelli di Ibsen sono drammi di discussione e di polemica. Il ripiegarsi dell’eroe su se stesso e il dibattito intellettuale fra le dramatis personae non sono caratteristiche esclusive del teatro moderno; anzi il conflitto drammatico, se deve raggiungere una sua incisività e un suo rilievo, esige sempre dai personaggi che vi sono impegnati la piena coscienza di quel che avviene in loro. Non c’è vero effetto drammatico, e tanto meno tragico, senza quest’intellettualismo dei personaggi. I piú ingenui, impulsivi eroi di Shakespeare diventano geniali nel momento in cui si decide il loro destino. Ma, dopo il magro vitto offerto alla mente dalle commedie allora in voga, quei «dibattiti drammatici», come furono chiamati i lavori di Shaw, riuscirono cosí indigesti, che critici e pubblico

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dovettero prima avvezzarcisi. Shaw si atteneva all’intellettualismo tradizionale del dialogo drammatico assai piú rigorosamente dei suoi predecessori; ma nessun pubblico poteva gustare una simile rappresentazione meglio degli intelligenti frequentatori del teatro sullo scorcio del secolo. Ed essi si divertirono cordialmente alle acrobazie intellettuali che venivano loro offerte, appena si furono persuasi che gli assalti di Shaw alla società borghese non erano davvero così pericolosi come pareva e, soprattutto, che egli non voleva togliere a nessuno il suo denaro. Alla fine si scoprí che in sostanza egli era solidale con la borghesia, ed era semplicemente il portavoce di quell’autocritica che rientra nell’abito mentale di questa classe. La psicologia, che sullo scorcio del secolo determina la concezione del mondo, è una «psicologia del profondo». Tanto Nietzsche che Freud partono dall’assunto che la vita psichica manifesta – cioè quel che gli uomini sanno o pretendono di sapere sui moventi del loro comportamento – spesso non fa che velare e deformare i reali motivi dei sentimenti e delle azioni. Nietzsche imputa tale falsificazione alla decadenza che travaglia l’umanità dall’inizio del cristianesimo, e allo sforzo di presentare come valori etici, come ideali altruistici e ascetici, la debolezza e i rancori dell’umanità degenerata. Al fenomeno dell’autoinganno – che Nietzsche scopre valendosi della critica storica della civiltà – Freud giunge analizzando la psiche individuale e giunge a stabilire che, dietro la coscienza dell’uomo sta, vero motore degli atteggiamenti e delle azioni, l’inconscio: ogni pensiero cosciente non è che il velo piú o meno trasparente degli impulsi che sono il contenuto dell’inconscio. Qualunque cosa Nietzsche e Freud sapessero e pensassero di Marx, quando sviluppavano le loro teorie, è certo che nelle loro indagini seguivano quella tecnica

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analitica, che per la prima volta il materialismo storico aveva applicato. Anche Marx insiste sulla coscienza deformata e guasta e sul fatto che essa vede il mondo in una falsa prospettiva. Il concetto di «razionalizzazione» della psicanalisi corrisponde appunto a quel che Marx ed Engels intendono per elaborazione delle ideologie e «falsa coscienza». Engels72 e Jones73 definiscono i due concetti nello stesso senso. Gli uomini non solo agiscono, ma spiegano e giustificano le loro azioni secondo il loro particolare punto di vista, determinato da condizioni sociali e psichiche. Marx è il primo a rilevare che, sotto la spinta degli interessi di classe, non solo essi incorrono in singoli errori, falsificazioni e mistificazioni, ma che tutto il loro pensiero, tutta la loro visione ne vengono distorti e falsati, ed essi non possono piú vedere e giudicare la realtà se non partendo da premesse tratte dalle loro condizioni economiche e sociali. La dottrina su cui Marx fonda tutta la sua filosofia della storia consiste nel principio che in una società differenziata e scissa in classi è senz’altro impossibile un pensiero corretto74. La scoperta che per lo piú si tratta di autoinganno, e che i singoli individui non sempre sono consci dei motivi del loro agire, fu di fondamentale importanza per l’ulteriore sviluppo della psicologia. Ma anche il materialismo storico, con la sua tecnica analitica, fu un prodotto di quella visione borghesecapitalistica, di cui voleva scoprire il fondo. Prima che l’economia avesse raggiunto nella coscienza del mondo occidentale l’assoluta preminenza che ha ai nostri giorni, una simile teoria sarebbe stata inconcepibile. L’esperienza decisiva per l’età postromantica fu quella della dialettica di ogni avvenimento, l’antitesi di esistenza e coscienza, l’ambivalenza dei rapporti e delle rappresentazioni. Il principio fondamentale della nuova tecnica analitica è il sospetto che dietro ogni fatto manifesto ce ne sia uno latente, dietro ogni coscienza si celi un incon-

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scio, dietro ogni apparente unità un dissidio. Perché questo orientamento si generalizzasse non era affatto necessario che i singoli pensatori e studiosi consapevolmente si rifacessero al metodo del materialismo storico; l’idea del pensiero e della psicologia come strumenti di smascheramento e rivelazione era tipica del secolo, e Nietzsche non dipendeva tanto da Marx, né Freud da Nietzsche, quanto tutti insieme da un’atmosfera di crisi. Ciascuno a suo modo, scoprirono che l’autonomia dello spirito è una finzione e che noi siamo gli schiavi di una forza che opera dentro di noi e spesso contro di noi. Come piú tardi in quella della psicanalisi, nella dottrina del materialismo storico, pur piú ottimista nelle sue conclusioni, l’Occidente esprime una concezione che rivela la perdita della baldanzosa fede in se stesso. Anche i pensatori piú razionali e consapevoli, non sempre, nello sviluppo delle loro teorie, partono da quelle che sono le effettive premesse del loro pensiero. Spesso le realizzano solo piú tardi, e talvolta mai. Anche Freud soltanto in uno stadio relativamente tardo della sua evoluzione raggiunse una chiara consapevolezza dell’esperienza da cui derivava la problematica della sua psicanalisi. Questa esperienza, che era anche all’origine di ogni significativa manifestazione del secolo, intellettuale come artistica, Freud stesso la chiamò «disagio della civiltà». Essa era espressione dello stesso senso di estraneità e di smarrimento che si ritrova nel romanticismo e nell’estetismo, della stessa angoscia mortale, della stessa incertezza sul significato della cultura, della stessa sensazione di esser circondati da pericoli ignoti, insondabili, indefinibili. Freud spiegava questo disagio, questo senso di equilibrio instabile e precario, con la forte menomazione della vita istintiva, e soprattutto degli impulsi erotici, trascurando del tutto la parte che poteva avervi la mancanza di sicurezza economica, di affermazione sociale e di influsso politico dell’individuo.

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Senza dubbio le nevrosi rientrano nel prezzo da pagare per la nostra civiltà, ma sono soltanto una parte, sovente solo una forma secondaria, dello scotto che paghiamo alla struttura sociale. Freud per la sua visione strettamente scientifica non è in grado di valutare i fattori sociologici nella vita psichica degli uomini, e benché nel super-io egli scorga un’istanza sociale, nega nello stesso tempo che l’evoluzione della società possa provocare sostanziali mutamenti nella nostra costituzione biologico-istintiva. Per lui le forme culturali non sono costruzioni storico-sociologiche, ma espressioni piú o meno meccaniche degli istinti. Nella società borghese-capitalistica giungono a palesarsi istinti di erotismo anale, le guerre sono opera dell’impulso di morte, il disagio nella civiltà risale alla repressione della libido. Perfino la teoria della sublimazione, che è fra i grandiosi risultati della psicanalisi, porta a una pericolosa e grossolana semplificazione del concetto di cultura, se si considera l’istinto sessuale come l’unica, o almeno la piú importante fonte della creazione intellettuale. I marxisti hanno ragione quando rimproverano alla psicanalisi di muoversi nel vuoto, con il suo metodo che prescinde dalla storia e dalla sociologia, e di celare un residuo d’idealismo conservatore nell’idea di una natura umana costante. Assai piú dogmatica invece appare l’altra obiezione, che designa la psicanalisi come un portato della borghesia in decadenza, destinato a soccombere con essa. Infatti, quali dei nostri valori intellettuali veramente vivi – compreso il materialismo storico – non sono il portato di questa cultura «in decadenza»? Se la psicanalisi è un fenomeno di decadenza, lo è anche l’intero romanzo naturalistico e tutta l’arte impressionistica; e insomma tutto quello che porta in sé il dissidio dell’Ottocento è decadenza. Thomas Mann osserva che Freud per la natura del suo materiale d’indagine – l’inconscio, gli affetti, gli

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impulsi e i sogni – è profondamente legato all’irrazionalismo dell’ultimo Ottocento75. In verità, Freud si lega strettamente non solo a questo irrazionalismo neoromantico, che accentra il suo interesse sul volto notturno della vita psichica, ma anche agli inizi e alle origini di tutto quel filone del pensiero romantico, che si volge al primitivo e al prerazionale. C’è ancora parecchio di Rousseau nel compiacimento con cui egli caratterizza la libertà dell’uomo selvaggio, tutto istinto. E se anche non giunge ad affermare che, ad esempio, l’uomo allo stato di natura che uccideva il padre e si accoppiava con tutte le donne della famiglia, si può chiamare «buono» nel senso usato da Rousseau, comunque mette in dubbio che sia diventato gran che migliore o piú felice incivilendosi. Il pericolo dell’irrazionalismo non sta, per la psicanalisi, nella scelta del materiale d’indagine e nella simpatia per i primitivi immuni dalla civiltà, ma nella sua stessa teoria psicologica fondata sulla vita istintiva. Ogni concezione dell’uomo che non sia dialettica e consideri la sua natura come un dato costante, non modificabile dalla storia, contiene già un elemento irrazionale e conservatore. Chi non crede alla possibilità di evoluzione dell’uomo, per lo piú non desidera affatto ch’egli muti se stesso e la società. Pessimismo e conservatorismo sono in questo caso interdipendenti. Ma Freud non è un vero pessimista e neppure un conservatore o un irrazionalista. Nonostante tutti gli elementi pericolosi, l’opera sua presenta con innegabile evidenza una spontanea filantropia e un orientamento progressista per cui non occorrono speciali prove. Queste, del resto, non mancano. Certo egli dubita che la ragione possa prevalere sugli impulsi, tuttavia dichiara che per dominarli non c’è altro mezzo che la nostra intelligenza. E non è un’affermazione disperata in lui. «La voce dell’intelletto è tenue, – egli dice, – ma non tace prima di aver ottenuto udienza. Alla fine, sovente dopo innumerevoli ripul-

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se, trova ascolto. Questo è uno dei pochi punti per cui si può essere ottimisti sull’avvenire dell’umanità, ma in sé non è cosa da poco e vi si possono riannodare altre speranze. Il primato dell’intelletto è certo molto, molto lontano, ma verosimilmente non a distanza infinita»76. Freud sa superare il suo tempo e combatte le forze oscure e irrazionali da cui esso è dominato; ma ad esso, alle sue conquiste e alle sue deficienze, è e rimane legato per innumerevoli fili. Il principio stesso della sua psicologia del profondo, in cui le differenze individuali hanno una parte tanto maggiore che in Marx, è strettamente affine all’ideale impressionistico e al relativismo filosofico di quegli anni. È tipico della mentalità impressionista quel concetto dell’illusione che nasce dall’esperienza del continuo variare in noi di sensazioni e impressioni, di stati d’animo, e rappresentazioni, cosí che la realtà si mostra in forme sempre diverse, sempre instabili, e ogni impressione che ne ricaviamo è insieme conoscenza e inganno; e la corrispondente idea freudiana che gli uomini passano tutta la vita come in incognito davanti agli altri e a se stessi, difficilmente sarebbe stata concepibile prima dell’impressionismo. L’impressionismo è veramente lo stile del tempo, nel pensiero come nell’arte. Tutta la filosofia degli ultimi decenni del secolo ne è determinata. Relativismo, soggettivismo, psicologismo, storicismo, lo spirito antisistematico, il principio dell’atomizzarsi del mondo intellettuale e la concezione prospettica della verità, sono elementi comuni alle teorie di Nietzsche, di Bergson, dei pragmatisti e di tutti gli indirizzi filosofici indipendenti dall’idealismo accademico. «Non s’è ancor vista la verità a braccetto con un assoluto», osserva Nietzsche. La scienza fine a se stessa, la verità incondizionata, la bellezza disinteressata, la morale altruistica sono, per lui e per i suoi contemporanei, finzioni. Quelle che noi chiamiamo verità, egli afferma77,

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realmente non sono che una serie di inganni e menzogne opportune, necessarie alla vita, di cui esaltano le energie; e in sostanza anche il pragmatismo adotta questo concetto attivistico e utilitaristico della verità. Vero è quel che è efficace, conveniente, utile, quel che fa buona prova e si fa «pagare», come dice William James. Non si può immaginare teoria della conoscenza meglio rispondente all’impressionismo. Ogni verità ha una precisa attualità; è valida solo in ben determinate situazioni. Un’affermazione può essere vera in se, ma affatto assurda in certe circostanze, perché priva di qualsiasi riferimento. Se alla domanda: «Che età hai?» si risponde: «La terra gira intorno al sole», queste parole, nonostante l’eventuale verità dell’asserzione, sono in questo caso affatto inutili e assurde. La verità è un rapporto indissolubile fra soggetto e oggetto, di cui i singoli componenti non si possono discernere e concepire come autonomi. Noi mutiamo, e con noi muta il mondo obiettivo. Ragguagli su avvenimenti naturali e storici, che cent’anni fa possono esser stati veri, oggi non lo sono piú, perché la verità è, come noi, in continuo moto, sviluppo, mutamento; è la somma di fenomeni sempre nuovi, inaspettati, casuali, e non può mai considerarsi conclusa. Tutto il pragmatismo deriva dalla mutevole esperienza della realtà, che l’impressionismo aveva realizzato; nell’impressionismo infatti, cioè nella sfera dell’arte, i rapporti con la verità sono di fatto come quella filosofia li afferma per l’esperienza in genere. Lo Shakespeare del dottor Johnson, di Coleridge, di Hazlitt e di Bradley non esiste piú: le opere del poeta non sono piú quel che erano un tempo. Se le parole possono essere le stesse, un’opera non è soltanto fatta di parole, ma anche del loro significato, e questo muta da una generazione all’altra. Il pensiero impressionista trova la sua espressione piú pura nella filosofia di Bergson, e proprio nell’inter-

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pretazione bergsoniana del tempo, cioè di quel medium che è l’elemento vitale dell’impressionismo. L’unicità dell’istante, che non è mai esistito prima e non si ripeterà mai piú, fu l’esperienza fondamentale dell’Ottocento, e tutto il romanzo naturalistico, specie quello di Flaubert, non fu se non la rappresentazione e l’analisi di tale esperienza. La visione flaubertiana si distingue tuttavia da quella di Bergson soprattutto perché Flaubert vedeva ancora nel tempo un elemento di dissoluzione che distrugge la sostanza ideale della vita. Il mutamento nella nostra concezione del tempo e in fondo di tutta la realtà sensibile si compí gradualmente, prima nella pittura impressionistica, poi nella filosofia bergsoniana, infine – nel modo piú esplicito e significativo – nell’opera di Proust. Il tempo non è piú principio di dissoluzione e distruzione, l’elemento in cui le idee e gli ideali perdono il loro valore, la vita e lo spirito la loro sostanza, ma anzi è la forma in cui noi diventiamo padroni e consci del nostro essere spirituale, della nostra natura vivente, opposta alla morta materia e alla rigida meccanica. Quel che noi siamo, lo diventiamo non solo nel tempo, ma grazie al tempo. Non solo siamo la somma dei singoli momenti della nostra vita, ma il prodotto dei nuovi aspetti ch’essi acquistano ad ogni nuovo momento. Non diventiamo piú poveri per il tempo passato e «perduto»; solo esso anzi dà sostanza alla nostra vita. La giustificazione della filosofia bergsoniana è il romanzo di Proust; in esso per la prima volta si esplica pienamente la concezione bergsoniana del tempo. L’esistenza riceve vita, moto, colore, trasparenza ideale e contenuto spirituale solo dalla prospettiva di un presente che risulta dal nostro passato. Non c’è felicità fuor del ricordo, che risuscita, ravviva, conquista il tempo passato e perduto; poiché i veri paradisi sono quelli perduti, come dice Proust. Dall’età romantica in poi si era sempre fatto carico all’arte di perdere la vita, e si era conside-

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rato il dire e l’avoir di Flaubert come una tragica alternativa; Proust è il primo a scorgere nella contemplazione, nella memoria e nell’arte non solo una delle forme possibili, ma l’unica in cui sia dato possedere la vita. Veramente la nuova concezione del tempo nulla muta di sostanziale nell’estetismo di quegli anni, solo gli conferisce un’apparenza piú confortante; ma null’altro che un’apparenza, poiché in Proust il trasmutare dei valori della vita non è che il conforto e l’illusione di un malato, di un sepolto vivo.

andré bellessort, Les Intellectuels et l’avènement de la troisième République, 1931, p. 24. 2 p. louis, Histoire du socialisme en France de la Révolution à nos jours, 3a ed., 1936, pp. 236-37. 3 a. bellessort, Les Intellectuels ecc. cit., p. 39 4 w. sombart, Der moderne Kapitalsmus cit., III, 1, 1927, pp. xii-xiii 5 p. louis, Histoire du socialisme ecc. cit., pp. 242, 216-17. 6 Cfr. henry ford, My Life and Work, 1922, p. 153. 7 w. sombart, Der moderne Kapitalismus cit., III, 2, pp. 603-7 - Die deutsche Volkswirtschaft im 19. Jahrhundert cit., pp. 397-98. 8 Cfr. pierre francastel, L’Impressionisme, 1937, pp. 25-26, 80. 9 georg marzynsky, Die impressionistische Methode, in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», xiv, 1920. 10 georges rivière, Exposition des Impressionistes, in «L’impressioniste. Journal d’Art», 6 aprile 1877. Riprodotto in l. venturi, Les Archives de l’Impressionisme, 1939, II, p. 309. 11 andré malraux, The Psychology of Art, in «Horizon», 1948, 103, p. 55. 12 g. marzynsky, Die impressionistische Methode cit., p. 90. 13 Ibid., p. 91. 14 john rewald, The History of Impressionism, 1946, pp. 6-7 [trad. it., Storia dell’impressionismo, Firenze 1949]. 15 albert cassagne, La Théorie de l’art pour l’art en France, 1906, p. 351. 16 e. e j. de goncourt, Journal, 1° maggio 1869, ed. cit., III, p. 221. 17 h. focillon, La Peinture aux XIXe et XXe siècles, 1928, p. 200. 18 paul bourget, Essais de psychologie contemporaine, 1885, p. 25. 1

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte charles seignobos, L’Évolution de la troisième République, in e. lavisse, Histoire de la France contemporaine, VIII, 1921, pp. 54-55. 20 henry bérenger, L’Aristocratie intellectuelle, 1895, p. 3. 21 a. thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours, 1936, p. 430. 22 e. r. curtius, Maurice Barrès, 1921, p. 98. 23 jules huret, Enquête sur l’évolution littéraire, 1891, pp. xvi, xvii. 24 e. e j. de goncourt, Idées et sensations, 1866. 25 nietzsche, Menschliches Allzumenschliches, 155. 26 baudelaire, Richard Wagner et Tannhäuser à Paris, 1861. 27 id., La Peintre de la vie moderne, 1863, in L’Art romantique, ed. Ernest Raynaud, 1931, p. 79. 28 villiers de l’isle-adam, Contes cruels, 1883, pp. 13 sgg. 29 emile tardieu, L’Ennui, 1903, pp. 81 sgg. 30 e. von sydow, Die Kultur der Dekadenz, 1921, p. 34. 31 peter quennel, Baudelaire and the Symbolists, 1929, p. 82. 32 max nordau, Entartung, 1896, 3a ed., II, p. 102. 33 baudelaire, Journaux intimes, ed. Ad. van Bever, 1920, p. 8 [trad. it., Giornali intimi, Torino 1942]. 34 t. mann, Kollege Hitler. Das Tagebuch, a cura di Leopold Schwarzschild, 1939. 35 Cfr. rené dumesnil, L’Époque realiste et naturaliste, 1945, pp. 31 sgg. - ernest raynaud, Baudelaire et la religion du dandysme, 1918, pp. 13-14. 36 baudelaire, Œuvres posthumes, ed. J. Crépet, I, p 223 sgg. 37 anton Ωechov, Dom s mezoninom [trad. it., La villa del mezzanino, in Racconti, Torino, 1950, I, p. 419]. 38 «Le Figaro», 18 settembre 1886. 39 a. thibaudet, Histoire de la littérature française ecc. cit., p. 485. 40 Ibid., p. 489 41 j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 60. 42 Cfr. ernest raynaud , La Mêlée symboliste, 1920, II, p. 163. 43 john charpentier, Le Symbolisme, 1927, 62. 44 charles mauron, introduzione alle poesie di Mallarmé tradotte da Roger Fry, 1936, p. 14. 45 georges duhamel, Les Poètes et la poésie, 1914, pp. 145-46. 46 Cfr. roger fry, An Early Introduction to Mallarmés Poems, 1936, pp. 296, 302, 304-6. 47 henri bremond, La Poésie pure, 1926, pp. 16-20. 48 e. e j. de goncourt, Journal, 23 febbraio 1893, IX, p. 87. 49 j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 297. 50 Cfr. c. m. bowra, The Heritage of Symbolism, 1943, p. 10. 51 g. m. turnell, Mallarmé, in «Scrutiny», v, 1937, p. 432. 52 j. huret, Enquête sur l’évolution littéraire cit., p. 23. 19

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte h. m. lynd, England in the Eighteen-Eighties, 1945, p. 17. Ibid., p. 8. 53 bernhard fehr, Die englische Literatur des 19. und 20. Jahrhunderts, 1931, p. 322. 56 baudelaire, Le Peintre ecc. cit., pp. 73-74. 57 j.-p. sartre, Baudelaire, 1947, pp. 166-67. 58 baudelaire, Le Peintre ecc. cit., p. 50. 59 m. l. cazamian, Le Roman et les idées en Angleterre (1880-1900), 1935, p. 167. 60 f. r. leavis, The Great Tradition, 1948, passim. 61 h. hatzfeld, Der französische Symbolismus, 1923, p. 140. 62 Cfr. d. s. mirsky, Modern Russian Literature, 1925, pp. 84-85. 63 janko lavrin, An Introduction to the Russian Novel, 1942, p. 134. 64 t. mann, Versuch über das Theater, in Rede und Antwort, 1916, p. 55. 65 paul ernst, Ein Credo, 1912, I, p. 227. 66 id., Der Weg zur Form, 1928, 3a ed., pp. 42 sgg. 67 ibsen, Sämtliche Werke, X, 1904, p. 40, lettera del 12 settembre 1865. 68 halvdan koht, The Life of Ibsen, 1931, p. 63. 69 m. c. bradbrook, Ibsen, 1946, pp. 34-35. 70 ibsen, Sämtliche Werke, X 169. 71 holbrook jackson, The Eighteen Nineties, 1939 (1913), p. 177. 72 Lettera a Mehring del 14 luglio 1893, in marx-engels, Correspondance, 1934, pp. 511-12. 73 ernest jones, Rationalism in Everyday Life. Read at the First International Psycho-Analytic Congress, 1908, in Papers on Psycho-Analysis, 1913. 74 karl mannheim, Ideology and Utopia, 1936, pp. 61-62. 75 t. mann, Die Stellung Freuds in der modernen Geistesgeschichte, in Die Forderung des Tages, pp. 201 sgg. 76 s. freud, Die Zukunft einer Illusion, in Gesammelte Werke, XIV, 1948, p. 377. 77 nietzsche, Werke, 1895 sgg. XVI, p. 19. 53 54

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