Arnold Hauser - Storia Sociale Dell'Arte - Vol 3

April 6, 2017 | Author: Athanasius78 | Category: N/A
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Storia sociale dell’arte

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di Arnold Hauser

Storia dell’arte Einaudi

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Edizione di riferimento:

Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume terzo. Rococò Neoclassicismo Romanticismo, trad. it. di Anna Bovero, Einaudi, Torino 1956 e 1987 Titolo originale:

Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck, München

Storia dell’arte Einaudi

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Indice

rococò neoclassicismo romanticismo

i.

La fine dell’arte aulica

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ii.

Il nuovo pubblico della letteratura

iii. Gli inizi del dramma borghese

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iv. La Germania e l’illuminismo

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La Rivoluzione e l’arte

148

v.

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rococò neoclassicismo romanticismo Capitolo primo La fine dell’arte aulica

È cosa comunemente risaputa che l’arte aulica, dopo uno sviluppo quasi continuo dalla fine del Rinascimento in poi, subisce nel secolo xviii un arresto per cedere poi del tutto a quel soggettivismo borghese, che, in complesso domina ancor oggi la concezione artistica; è meno noto invece che certi caratteri della nuova tendenza sono già palesi nel Rococò e che proprio a questo punto si verifica la rottura con la tradizione aulica. Infatti, se è vero che soltanto con Greuze e Chardin si entra nel mondo borghese, è vero anche che Boucher e Largillière non ne sono piú molto lontani. La tendenza al monumentale, al solenne, al patetico scompare già col primo Rococò, per lasciare posto a un gusto del leggiadro e dell’intimo. Il colore e la sfumatura prevalgono fin dall’inizio sulla linea grandiosa, salda, obiettiva, e la nota della sensualità e del sentimento è d’ora in poi sempre presente. Se dunque il Dix-huitième per certi aspetti può sembrare una prosecuzione, anzi la piena maturazione del fasto e dell’albagia barocca, in realtà è ben lontano dal considerare il grand goût* come lo stile unico e indiscusso. Le sue creazioni, anche quelle destinate ai ceti superiori, mancano ormai delle grandi, eroiche dimensioni. Si tratta però sempre di un’arte molto distinta, elegante, essenzialmente aristocratica, un’arte per la quale i criteri di leggiadria e convenzione sono piú validi di quelli di interiorità e spontaneità, un’arte che

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si realizza secondo uno schema fisso, universale, ripetuto all’infinito, tant’è vero che l’elemento piú caratteristico di essa è un eccezionale virtuosismo tecnico, per lo piú affatto esteriore. Questi aspetti decorativi e convenzionali, di origine barocca, solo lentamente scompaiono dal Rococò, sostituiti via via da caratteri del gusto borghese. Contro la tradizione barocco-rococò si muove da due direzioni diverse, che però convergono verso un medesimo ideale estetico, contrario al gusto di corte: da un lato l’orientamento sentimentale e naturalistico di Rousseau e di Richardson, Greuze e Hogarth; dall’altro, il razionalismo e il classicismo di Lessing e Winckelmann, di Mengs e David. Entrambe queste correnti al fasto aulico della tradizione oppongono un ideale di semplicità e la serietà profonda di un costume puritano. Il passaggio dall’arte aulica a quella borghese avviene in Inghilterra prima e piú radicalmente che in Francia, dove la tradizione barocco-rococò continua a vivere sotterranea e si fa sentire ancora nell’età romantica. Ma alla fine del secolo anche in Europa l’arte dominante è un’arte borghese. Magari è possibile distinguere in essa una corrente progressista da una conservatrice, ma un’arte viva che esprima gli ideali aristocratici e serva le ambizioni della corte ormai non c’è piú. È raro nella storia un mutamento di egemonia culturale e artistica altrettanto radicale di questo, che porta la borghesia a sostituire in tutto l’aristocrazia. Non meno raro è un capovolgimento del gusto deciso come questo, per cui alla decorazione si sostituisce l’espressione. Veramente non per la prima volta la borghesia impone il suo gusto. Già nei secoli xv e xvi in tutta Europa aveva dominato un’arte di chiaro stampo borghese, che solo nel tardo Rinascimento e nell’epoca manieristica e barocca aveva ceduto di fronte al prevalere dello stile aulico. Ma nel Settecento, quando la borghesia riacqui-

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sta potenza economica, sociale e politica, l’arte aulica ufficiale, che frattanto si era imposta dovunque, torna a scomparire e lascia il gusto borghese padrone assoluto del campo. Nel Seicento, solo in Olanda si era avuta una grande fioritura d’arte, assai piú coerente e radicale, nel suo carattere borghese, di quella del Rinascimento, che tanti elementi romantico-cavallereschi e mistico-religiosi portava ancora con sé. Ma era rimasto un fenomeno quasi del tutto isolato nell’Europa d’allora, e il Settecento che dà inizio all’arte moderna non si ricollega direttamente ad essa. Una vera continuità di sviluppo manca anche perché la stessa pittura olandese nel corso del Seicento era venuta perdendo molto del suo primitivo carattere. In realtà le origini vere dell’arte della moderna borghesia sono da ricercare, in Francia come in Inghilterra, nel mutamento della società; solo questo può spiegare il superamento del gusto aulico, a cui, certo, i movimenti filosofici e letterari del tempo furono stimoli piú forti di un’arte straniera, lontana nel tempo e nello spazio. Il processo che sul piano politico culmina nella Rivoluzione francese, e su quello artistico nel romanticismo, comincia con la Reggenza, che mina la monarchia in quanto principio di autorità assoluta, disgrega la corte in quanto centro dell’arte e della cultura, e mette fine al Barocco classicheggiante, in quanto diretta espressione della potenza e dell’orgogliosa sicurezza dell’assolutismo. Del resto, il processo si prepara già durante il regno di Luigi XIV. Le guerre interminabili dissestano le finanze del paese; le casse dello stato si svuotano e il popolo s’impoverisce, poiché staffile e carcere non valgono a creare contribuenti, come le guerre e le conquiste non assicurano nessuna egemonia economica. È ancor vivo il Re Sole, quando si fanno sentire le prime critiche alle conseguenze dell’autocrazia. Già Fénelon è abbastanza esplicito in proposito, ma Bayle, Malebran-

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che e Fontenelle vanno tanto oltre, da giustificare l’affermazione che la «crisi dello spirito europeo», di cui è piena la storia del secolo xviii, era già in atto fin dal 16801. Contemporaneamente, anche la critica del classicismo guadagna terreno e prelude alla fine dell’arte aulica. Verso il 1685 si conclude l’epoca creativa del Barocco classicheggiante; Le Brun perde la sua influenza e i grandi scrittori dell’epoca, Racine, Molière, Boileau e Bossuet, hanno ormai detto la loro ultima parola o, almeno, quella decisiva2. Con la querelle des anciens et des modernes cominciano già quelle lotte fra tradizione e progresso, antico e moderno, ragione e sentimento che troveranno nel preromanticismo di Diderot e di Rousseau la loro conclusione. Negli ultimi anni di Luigi XIV stato e corte furono governati dalla bigotta Madame de Maintenon. L’aristocrazia si sentiva a disagio nell’atmosfera di cupa solennità e di gretta devozione ormai imperante a Versailles. Quando il re morì, tutti trassero un sospiro di sollievo, specie quelli che dalla reggenza di Filippo d’Orléans si attendevano la liberazione dal dispotismo. Il reggente considerava antiquato il sistema amministrativo dello zio3 e iniziò il suo governo reagendo su tutta la linea contro i vecchi metodi. Sul piano politico e sociale tentò di rianimare la nobiltà, su quello economico favorì iniziative private, come quella di Law, e quanto al modo di vivere dell’alta società portò un nuovo stile e mise in voga edonismo e libertinaggio. Cominciò cosí un processo di generale disgregazione, cui non resistette nessuno degli antichi vincoli. Alcuni di essi piú tardi si ricostituirono, ma il vecchio sistema fu scosso dalle radici. Come primo atto di governo, Filippo annullò il testamento del defunto re, che prevedeva il riconoscimento dei propri figli illegittimi. Cominciò cosí il declino del prestigio del re, che, anche se la monarchia assoluta si mantenne a lungo, non poté piú

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essere restaurato nella sua antica grandezza. Il potere venne esercitato in modo sempre piú arbitrario, tuttavia tradendo sempre piú un senso di insicurezza: situazione che le famose parole del maresciallo di Richelieu a Luigi XVI caratterizzano perfettamente: «Sotto Luigi XIV non si osava aprir bocca, sotto Luigi XV si mormorava, ora si parla forte e senza riguardi». Chi volesse giudicare i rapporti di forza effettivi dalle ordinanze e dai decreti del tempo cadrebbe, osserva Tocqueville, in un ridicolo errore. Sanzioni come la celebre pena di morte per chi componesse o diffondesse scritti contro la religione e l’ordine pubblico rimanevano sulla carta. Nel caso peggiore i colpevoli dovevano lasciare il paese e spesso erano avvisati e protetti da quegli stessi funzionari che avrebbero dovuto perseguirli. Al tempo di Luigi XIV tutta la vita intellettuale stava ancora sotto la tutela del re; non si trovava appoggio se non presso di lui, e tanto meno contro di lui. Ma ora appaiono altri protettori, altri mecenati, altri centri di cultura; e l’arte in larga misura, la letteratura completamente, si sviluppano lontano dalla corte e dal re. Filippo d’Orléans trasporta la residenza da Versailles a Parigi, il che in fondo significa sciogliere la corte. Il reggente è ostile a ogni restrizione e costrizione, a ogni formalità; si sente a suo agio soltanto nella stretta cerchia degli amici. Il giovane re abita alle Tuileries, il reggente al Palais Royal, i membri della nobiltà sono dispersi fra castelli e palazzi e si divertono nei teatri, ai balli e nei salotti della città. Il reggente e il Palais Royal rappresentano il gusto di Parigi, lo stile cittadino piú disinvolto e agile di fronte al grand goût di Versailles. La «città» non si contenta piú di vivere all’ombra della corte, ne usurpa il posto e ne assume le funzioni culturali. La melanconica esclamazione della contessa palatina Elisabetta Carlotta, madre del reggente, «Non c’è piú corte in Francia!», risponde alla realtà. E non si tratta

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di una situazione passeggera; una corte come l’antica non ci sarà mai piú. Luigi XV ha gli stessi gusti del reggente, anch’egli predilige le compagnie poco numerose; e Luigi XVI si limita alla cerchia dei famigliari. Entrambi si sottraggono alle cerimonie, l’etichetta li annoia e li irrita e, anche se in certa misura si continua a rispettarla, perde gran parte della sua solennità. Alla corte di Luigi XVI domina un tono intimo e per sei giorni alla settimana i ricevimenti hanno l’aspetto di conversazioni private4. L’unico luogo in cui, durante la Reggenza, si sviluppa in certo senso una vita di corte è il castello della duchessa del Maine, a Sceaux, che diventa il teatro di feste splendide, ricchissime e ingegnose, e insieme un nuovo centro d’arte, una vera corte delle Muse. Ma gli spettacoli della duchessa contengono il germe della definitiva distruzione della vita di corte: essi sono qualcosa di intermedio fra la corte nel vecchio senso e quello che è il suo erede spirituale, il salotto del Settecento. Cosí la corte torna a dissolversi nei circoli privati, da cui si era sviluppata come centro dell’arte e della letteratura. Uno degli aspetti piú importanti del programma di Filippo fu il tentativo di reintegrare negli antichi diritti e funzioni politiche gli aristocratici soggiogati da Luigi XIV. Egli formò con membri dell’alta nobiltà i cosiddetti Conseils, destinati a sostituire i ministri borghesi. Ma l’esperimento dovette essere abbandonato dopo tre anni, perché i nobili avevano perso l’abitudine agli affari pubblici e non prendevano piú alcun vero interesse al governo dello stato. Essi disertavano le sedute e, volenti o nolenti, si dovette tornare al sistema di Luigi XIV. La Reggenza dunque, esteriormente, segnò l’inizio di un recupero del prestigio aristocratico, che irrigidí i confini sociali e accrebbe le distanze fra i ceti; in sostanza invece non arrestò la marcia della borghesia verso il potere, né il declino della nobiltà. Come già ebbe a rilevare il Tocqueville, è caratteristico dello sviluppo socia-

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le del Settecento che, pur accentuandosi le distinzioni tra gli ordini e le classi, il livellamento della cultura non si arrestò, e gli uomini, che esteriormente si affannavano tanto a distinguersi, intimamente diventavano sempre piú simili5, cosí che alla fine non ci furono piú che due grandi gruppi: il popolo e la comunità di coloro che gli sovrastavano. La gente che apparteneva a quest’ultimo gruppo aveva le stesse abitudini, lo stesso gusto e parlava lo stesso linguaggio. L’aristocrazia e l’alta borghesia si fusero in un unico ceto depositario della cultura, in cui l’antica classe colta dava e riceveva a un tempo. I membri dell’alta nobiltà non si limitavano a frequentare occasionalmente e per condiscendenza case dove si incontravano finanzieri e alti funzionari, ma accorrevano anche nei salotti dei ricchi borghesi e delle colte signore della borghesia. Madame Geoffrin riunisce in casa sua il fiore dell’aristocrazia e dell’intellettualità, figli di principi, conti, orologiai, mercanti; è in corrispondenza epistolare con l’imperatrice di Russia e con Grimm, è amica del re di Polonia e di Fontenelle, rifiuta l’invito di Federico il Grande e degna di particolare attenzione il plebeo d’Alembert. L’aristocrazia comincia ad adottare mentalità e morale borghesi e a mescolarsi con la borghesia intellettuale proprio nel momento in cui piú forte che mai è il peso della gerarchia sociale6. Forse fra i due fenomeni corre un rapporto di causa ed effetto. Nel Seicento la nobiltà aveva perduto i suoi privilegi feudali, tranne i diritti di proprietà sulle sue terre e l’immunità fiscale; a funzionari della Corona aveva dovuto cedere le sue funzioni giudiziarie e amministrative. La rendita fondiaria, d’altra parte, a partire dal 1660, in seguito alla sempre minor capacità d’acquisto del denaro, era venuta perdendo molto del suo valore. La nobiltà fu cosí costretta ad alienare le sue terre in misura sempre maggiore, impoverendosi e avviandosi

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alla decadenza. Il fenomeno, veramente, fu piú largo e diffuso fra la piccola e media nobiltà di provincia, che negli ambienti dell’alta nobiltà di corte, ancor molto ricca e rifattasi piú autorevole nel secolo xviii. Alle «quattromila famiglie» dell’alta nobiltà continuarono ad essere riservati gli uffici di corte, le alte dignità ecclesiastiche, i gradi dell’esercito, i posti di governatore e le pensioni reali. Quasi un quarto dell’intero bilancio andava a loro profitto. L’antico rancore della Corona contro la nobiltà feudale era cessato; Luigi XV e Luigi XVI ripresero a scegliere i loro ministri per lo piú tra i nobili7, che tuttavia conservarono le loro tendenze antidinastiche e il loro spirito di insubordinazione e nell’ora del pericolo furono fatali alla monarchia. La nobiltà infatti non esitò ad allearsi con i borghesi contro la Corona, benché la buona intesa fra le due classi avesse molto sofferto dall’inizio dell’accentramento statale. Prima, esse si sentivano spesso minacciate dallo stesso pericolo, non solo, ma avevano da risolvere problemi amministrativi comuni, il che bastava a ravvicinarle. Le relazioni peggiorarono da quando la nobiltà riconobbe nella borghesia la sua rivale piú pericolosa e da allora il re dovette intervenire continuamente a calmare la gelosia dei nobili. Se in apparenza il re sembra superiore ad entrambe le parti, in realtà deve far loro continue concessioni, favorendo or l’una or l’altra8. Un segno di questa politica di favore verso la nobiltà è da scorgere anche nel fatto che già sotto Luigi XV è molto piú difficile per un roturier giungere al grado di ufficiale che non al tempo di Luigi XIV. Dopo, l’editto del 1781 la borghesia fu esclusa del tutto dall’esercito. Lo stesso accadde per le alte dignità ecclesiastiche; nel Seicento c’era ancora fra i principi della Chiesa un certo numero di non nobili, come Bossuet e Fléchier, ma questo non si verificò piú nel Settecento. La rivalità tra aristocratici e borghesi si acuí sempre piú, sublimandosi però in un’emu-

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lazione intellettuale, che provocò un gioco psicologico complesso, in cui s’intrecciavano in piú modi attrazione e repulsione, imitazione e rifiuto, considerazione e risentimento. L’uguaglianza materiale e la superiorità pratica della borghesia spingevano i nobili ad accentuare la disparità dell’origine e la differenza delle tradizioni. Ma anche la borghesia, quanto piú simili si facevano le condizioni esteriori, tanto piú si sentiva avversa alla nobiltà. Finché ogni possibile ascesa sociale le era stata preclusa, mai aveva pensato di paragonarsi ai ceti superiori; ma appena le si offrì la possibilità di elevarsi, subito ebbe chiara coscienza dell’ingiustizia sociale e i privilegi nobiliari le apparvero intollerabili. In breve, quanto piú la nobiltà perdeva del suo potere effettivo, tanto piú ostinatamente si attaccava ai privilegi superstiti e tanto piú li ostentava; d’altra parte la borghesia, quanto piú diventava ricca, tanto piú umiliante sentiva la discriminazione sociale e si accaniva nella lotta per l’uguaglianza dei diritti politici. La ricchezza accumulata dalla borghesia nel Rinascimento era stata distrutta dalle grandi bancarotte statali del Cinquecento, e non aveva potuto ricostituirsi nell’epoca aurea dell’assolutismo e del mercantilismo, quando i principi e gli stati monopolizzavano gli affari piú importanti9. Solo nel secolo xviii, finita l’epoca del mercantilismo e iniziatasi quella del laissez-faire, la borghesia, con il suo individualismo economico, riuscí nuovamente ad affermarsi; e benché mercanti e industriali già avessero saputo trarre notevoli vantaggi dall’assenza dell’aristocrazia dagli affari, il grande capitale borghese si formò solo durante la Reggenza e il periodo successivo. Questo regime fu realmente «la culla del Terzo Stato». Sotto Luigi XVI, poi, la borghesia dell’ancien régime raggiunse il suo pieno sviluppo intellettuale e materiale10. Erano nelle sue mani il commercio, l’industria, le banche, la ferme générale, le professioni liberali, la let-

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teratura e il giornalismo, cioè tutte le posizioni-chiave della società, ad eccezione degli alti gradi nell’esercito, nella Chiesa e a corte. Si ebbe allora un’attività commerciale mai vista prima, le industrie prosperarono, le banche si moltiplicarono, enormi somme passarono fra le mani di imprenditori e di speculatori. I bisogni aumentarono e si diffusero; e non solo gente come i banchieri e gli appaltatori delle tasse salirono di grado e presero a gareggiare in splendore coi nobili, ma anche la media borghesia trasse profitto dalla congiuntura e partecipò sempre piú largamente alla vita culturale. La Rivoluzione, dunque, non scoppiò in un paese economicamente esausto; si trattava piuttosto di uno stato insolvente, con cittadini ricchi. A poco a poco la borghesia s’impadroní di tutti gli strumenti della cultura. Non solo scriveva i libri, ma li leggeva; non solo dipingeva i quadri, ma li comprava. Nel secolo precedente essa rappresentava una parte ancor relativamente modesta del pubblico che si occupava d’arte e di letteratura; ora essa costituisce senz’altro la classe colta, anzi diventa la vera depositaria della cultura. Ad essa appartengono in gran parte i lettori di Voltaire, quasi esclusivamente quelli di Rousseau. Crozat, il piú grande collezionista del secolo, viene da una famiglia di mercanti; Bergeret, il protettore di Fragonard, è d’origine anche piú modesta; Laplace è figlio di un contadino, e d’Alembert non si sapeva di chi fosse figlio. Lo stesso pubblico borghese che legge Voltaire legge anche i poeti latini e i classici francesi del Seicento, e nelle sue esclusioni è risoluto come nei suoi consensi. È poco favorevole agli autori greci, che scompaiono via via dalle biblioteche; disprezza il Medioevo; la Spagna gli è ormai estranea; le sue relazioni con l’Italia non sono ancora ben sviluppate e comunque non avranno mai la cordialità di quelle fra la società aristocratica e il Rinascimento italiano. Il rappresentante del

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secolo xvi lo si è voluto vedere nel gentilhomme, quello del xvii nell’honnête homme, e quello del xviii dell’uomo colto11, che equivale a dire il lettore di Voltaire. È, stato detto che non si può comprendere il borghese di Francia se non si conosce Voltaire, che il borghese prende a modello12; ma d’altra parte non si comprende Voltaire se non si vede quanto sia legato, non solo per l’origine, ma anche per la mentalità, al ceto medio, ad onta dei suoi modi da gran signore, delle sue amicizie regali e dell’ingente ricchezza. Il suo sobrio classicismo, la sua rinunzia a risolvere i grandi problemi metafisici, anzi la diffidenza verso chiunque ne discuta, il suo spirito acuto, battagliero e tuttavia cosí urbano, la religiosità anticlericale e antimistica, il suo antiromanticismo, l’avversione per tutto ciò che è oscuro, inesplicato e inesplicabile, la fiducia in se stesso, la persuasione che a tutto comprendere, risolvere, decidere bastino le facoltà razionali, il suo prudente scetticismo, il ragionevole contentarsi di ciò che è prossimo e raggiungibile, la comprensione per «l’esigenza del giorno», il suo «mais il faut cultiver notre jardin»: tutto ciò è borghese, profondamente borghese, anche se non esaurisce lo spirito della borghesia che nel soggettivismo e nel sentimentalismo di cui Rousseau si farà banditore, trova l’altra sua faccia, forse altrettanto importante. Il grande antagonismo all’interno della borghesia esisteva fin da principio; i futuri seguaci di Rousseau forse non costituivano ancora un pubblico regolare quando Voltaire si conquistò i suoi lettori, ma esistevano già come ceto sociale esattamente definibile e in Rousseau trovarono semplicemente il loro interprete. La borghesia francese del Settecento non è piú omogenea di quella italiana del Quattro e Cinquecento. Non si ha certo nel Settecento nulla di analogo all’antica lotta per l’egemonia delle Arti, ma fra i diversi strati della classe borghese esiste un contrasto altrettanto

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acuto di interessi economici. Abitualmente si parla della lotta di emancipazione e della rivoluzione del Terzo Stato come di movimenti unitari; in realtà l’unità della borghesia risulta solo dal fatto che è separata verso l’alto dalla nobiltà e verso il basso dai contadini e dal proletariato urbano; entro questi confini, permane sempre la distinzione tra la parte favorita e quella senza privilegi. Dei privilegi della borghesia non si parla mai nel Settecento e si finge di ignorarne le condizioni di favore, ma i privilegiati si oppongono a qualsiasi riforma che possa estendere i loro vantaggi anche ai ceti inferiori13. La borghesia vuole solo una democrazia politica ed abbandona i compagni di lotta non appena la Rivoluzione prende sul serio l’uguaglianza dei diritti in campo economico. La società del tempo è piena di tensioni e di contraddizioni; e la monarchia che ne è profondamente influenzata si vede costretta a sostenere ora gli interessi dei nobili, ora quelli dei borghesi, e finisce con l’inimicarsi le due parti: cioè una nobiltà tendenzialmente ostile sia alla Corona sia alla borghesia, e che assimila le idee che provocano la sua caduta; e una borghesia, che fa trionfare la sua rivoluzione con l’aiuto dei ceti inferiori, per opporsi poi subito agli alleati, affiancandosi agli ex nemici. Finché questi elementi si equilibrano dominando la vita intellettuale del paese, cioè fin dopo la metà del secolo, arte e letteratura si trovano in uno stato di transizione e sono piene di tendenze contrastanti, spesso inconciliabili; esse oscillano fra tradizione e libertà, ordine e spontaneità, decorazione ed espressione. Ma ancora nella seconda metà del secolo, quando già prevalgono il liberalismo e il culto del sentimento, le diverse correnti, pur separandosi anche piú nettamente, persistono l’una accanto all’altra. Se mai si scambiano le parti; e proprio il classicismo, che era uno stile aulico-aristocratico, servirà a diffondere le idee della borghesia progressista.

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L’epoca della Reggenza è un periodo di vivissima attività intellettuale che non si limita al criticare l’epoca precedente, ma è in larga misura creativo e pone problemi che occuperanno tutto il secolo. Di pari passo col generale allentarsi della disciplina, col crescere dell’irreligiosità, col farsi piú libero e personale del costume, decade nell’arte il «grande» stile di corte. Si comincia con la critica della dottrina accademica, che pretendeva di presentare l’ideale classico come un principio eterno, imposto da Dio, analogamente a come la teoria politica ufficiale voleva presentare la monarchia assoluta. Nulla caratterizza il liberalismo e il relativismo dei tempi nuovi meglio della frase di Antoine Coypel – prima di lui inammissibile per qualunque direttore di accademia – che la pittura, come ogni cosa umana, è soggetta alla moda14. Questa nuova concezione dell’arte si afferma dappertutto anche nelle opere: l’arte diventa piú umana, piú accessibile, meno pretenziosa; non è piú destinata a semidei e superuomini, ma a comuni mortali, a creature deboli, sensuali, avide di piaceri. Essa non esprime piú grandezza e potenza, ma la bellezza e il fascino della vita; non vuol piú imporsi e soggiogare, ma attrarre e dilettare. Nell’ultimo periodo del governo di Luigi XIV persino a corte si formano circoli in cui gli artisti trovano nuovi protettori, e spesso piú generosi e sensibili del re, già assediato dalle difficoltà economiche e dominato dalla Maintenon. Il duca d’Orléans, nipote del re, e il duca di Borgogna, figlio del Delfino, sono l’anima di tali circoli. Il futuro reggente si ribella fin d’ora all’arte favorita da Luigi XIV, e ai propri artisti richiede un tono piú leggero e scorrevole, uno stile piú sensuale e delicato di quello in uso a corte. Spesso gli stessi artisti lavorano per il re e per il duca, adattando volta a volta lo stile al committente, come Coypel ad esempio: correttamente aulico al castello di Versailles, nella decorazione della cappella, al Palais Royal invece dipinge le

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dame in civettuolo négligé e per l’Académie des Inscriptions disegna medaglie classicheggianti15. La grande manière e in genere le forme d’arte auliche decadono durante la Reggenza. Il quadro sacro, che già ai tempi di Luigi XIV si era ridotto a un puro pretesto per ritrarre il seguito del re, e il grande quadro storico, che serviva soprattutto alla propaganda monarchica, vengono trascurati. Al paesaggio eroico subentra l’idillio pastorale, e il ritratto, finora destinato soprattutto al pubblico, diventa un genere comune, popolare, per lo piú di uso privato; ora ognuno se lo concede, appena può. Al Salon del 1704 sono esposti duecento ritratti, contro i cinquanta del 169916. Largillière dipinge ormai di preferenza borghesi, anziché cortigiani, come i suoi predecessori; vive a Parigi, non a Versailles, e anche questo è un segno della vittoria della «città» sulla «corte»17. Il favore del pubblico piú evoluto va alla scenetta galante di Watteau, non piú al quadro di cerimonia, sacro o storico; e nulla meglio esprime il mutamento del gusto alla fine del secolo di questo passare da Le Brun al maestro delle fêtes galantes. La cultura del nuovo pubblico, composto dall’aristocrazia piú illuminata e dall’alta borghesia meglio sensibile all’arte, il dubbio con cui si guarda ormai alle autorità artistiche finora accettate, l’infrangersi della vecchia, angusta cerchia di soggetti, tutto contribuisce a rendere possibile l’apparizione del massimo pittore francese anteriore all’Ottocento. Il genio pittorico, che l’epoca di Luigi XIV non era riuscita a suscitare, pur con gli incarichi statali, gli stipendi e le pensioni, con l’Accademia, la scuola di Roma e la Regia manifattura, nasce invece con la Reggenza, fallimentare, sventata, frivola, indisciplinata e irreligiosa. Watteau, nato in Fiandra, erede della tradizione rubensiana, è per altro, dopo l’età gotica, il primo maestro veramente «francese». Nei due secoli precedenti la sua apparizione l’arte francese era stata soggetta all’in-

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flusso straniero: Rinascimento, Manierismo e Barocco erano stati fenomeni di importazione dall’Italia e dai Paesi Bassi. In Francia, dove tutta la vita di corte da principio si era modellata su esempi stranieri, anche l’arte destinata al prestigio e alla propaganda regia si espresse in forme venute di fuori, soprattutto italiane. E queste forme, cosí intimamente concresciute con l’idea della monarchia e della corte, assunsero un valore stabile di istituzioni, tanto che si poterono sradicare solo quando la corte cessò di essere il centro della vita artistica. Watteau dipingeva una società in cui egli poteva gettare uno sguardo solo dal di fuori: l’ideale di vita che rappresentava, solo esteriormente poteva collimare con le sue aspirazioni, e l’utopia della libertà cui dava figura solo vagamente doveva corrispondere all’idea di libertà ch’era sua propria; ma quelle visioni egli le creava da elementi di sue esperienze dirette, da schizzi degli alberi del Lussemburgo, da scene di teatro ch’egli poteva vedere e certo vedeva ogni giorno, e da tipi caratteristici del suo tempo, anche se magicamente travestiti. La profondità dell’arte di Watteau è dovuta all’ambivalenza dei suoi rapporti col mondo, al fatto che essa esprime ciò che la vita promette e insieme quel che nega, al sentimento sempre presente di una perdita ineffabile e di una meta irraggiungibile, alla consapevolezza di una patria perduta e dell’utopica lontananza della vera felicità. Quel ch’egli dipinge è pieno di malinconia, nonostante la sensualità e la bellezza, la gioiosa dedizione alla realtà e l’amore dei beni terreni che ispirano la sua arte. In tutto egli dipinge la segreta tragedia di una società che si perde nel pieno appagamento dei suoi desideri. Non si tratta ancora però di un sentimento alla Rousseau, dell’aspirazione allo stato di natura, ma al contrario di un desiderio di perfetta civiltà, di tranquilla e sicura gioia di vivere. Nella fête galante, nella

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festosa riunione di coppie amorose e Corti d’amore, Watteau scopre la forma adeguata al suo nuovo senso della vita, che è fatto insieme di piacere mondano e di dolore universale, del tedio e della gioia dell’ora. L’elemento bucolico è prevalente in questa fête galante che è sempre una fête champêtre, e rappresenta gli svaghi di giovani che, fra musica, danze e canti, menano la vita spensierata dei pastori e delle pastorelle teocritee. Rappresenta la pace dei campi, che è insieme fuga dal gran mondo e oblio di sé nella felicità amorosa. Ma non si tratta di una semplice esistenza idillica, contemplativa e paga; si tratta piuttosto dell’ideale arcadico della coincidenza di natura e civiltà, bellezza e spiritualità, senso e intelletto. Veramente anche questo ideale da gran tempo non è piú nuovo; è solo una variante di un tema poetico dell’età augustea, che aveva accomunato la leggenda dell’età dell’oro con l’idea dell’Arcadia. La sola novità, rispetto alla versione romana, è che il mondo bucolico assume parvenze di bel mondo, che i pastori e le pastorelle portano ora l’elegante costume del tempo e della situazione pastorale non resta che il colloquio amoroso, la cornice naturale e la lontananza dalla vita di corte e dalla città. Ma forse nemmeno questo è nuovo. Infatti cosa fu fin dalle origini la poesia pastorale se non una finzione, una giocosa finzione, cioè un semplice civettare con l’idillico stato d’innocenza e di semplicità? È difficile ammettere che, da quando esiste poesia pastorale, cioè da quando esiste una vita urbana e di corte altamente evoluta, ci sia mai stato chi davvero volesse condurre la semplice, modesta vita dei pastori e dei contadini. L’Arcadia fu sempre un sogno poetico in cui gli elementi negativi, la fuga dal gran mondo e il disprezzo dei suoi costumi, costituivano il momento determinante; un gioco della fantasia, in sostanza, che consentiva di evadere in una regione dove si sarebbero avuti i vantaggi della civiltà senza però i suoi vincoli. Si

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rendevano piú seducenti le dame dipinte e profumate immaginandole, pur con belletto e profumi, come fresche, sane e innocenti contadinelle, cosí che la natura esaltasse il fascino dell’arte. Fin da principio la finzione conteneva in sé le premesse che, in ogni cultura complessa e raffinata, ne hanno fatto un simbolo di libertà e di felicità. Non per nulla la poesia bucolica, sorta nell’età ellenistica, presenta una tradizione quasi ininterrotta di oltre duemila anni. Ad eccezione dell’alto Medioevo, in cui mancò ogni cultura urbana e di corte, non c’è secolo che non offra esempi di tale poesia. Se si prescinde dai temi del romanzo cavalleresco, si può dire che non c’è materia che abbia occupato cosí a lungo la letteratura occidentale e abbia cosí tenacemente resistito agli assalti del razionalismo. Questo lungo e quasi ininterrotto dominio mostra che la poesia «sentimentale», nel senso che Schiller dà alla parola, è incomparabilmente piú importante nella storia letteraria della poesia «ingenua». Anche gli idilli di Teocrito nascono, non già da uno schietto legame con la terra e da un rapporto diretto con la vita del popolo, ma da un naturalismo di riflesso e da un’immagine romantica degli umili, cioè da affetti che hanno la loro origine in un desiderio di cose lontane, estranee ed esotiche. Il contadino e il pastore non si entusiasmano né per la natura né per il loro lavoro quotidiano. E si sa che l’interesse per la vita semplice non è da cercare nell’ambiente campagnolo; non sorge fra il popolo, ma fra i ceti piú elevati; non in campagna, ma in città e alle corti, in una vita agitata, in una società ormai troppo civile e sazia. Già quando Teocrito scriveva i suoi idilli il motivo e la situazione bucolica non erano piú nuovi; avevano dovuto ricorrere già nella poesia dei primitivi popoli pastori, ma spogli di sentimentalismo e compiacimento, e probabilmente senza alcun tentativo di ridurre a motivi di genere le circostanze

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esteriori della vita pastorale. Scene pastorali, senza però l’accento lirico degli Idilli, si potevano comunque trovare anche prima di Teocrito, nel mimo. E non ne mancavano, s’intende, nel dramma satiresco; la stessa tragedia, come sappiamo, conosceva i quadri campestri18. Ma scene pastorali e bozzetti di vita campagnola non bastano a fare poesia bucolica, di cui l’elemento essenziale è il contrasto latente fra città e campagna e il senso di un disagio che incrina la civiltà. Ma se a Teocrito bastava ancora la semplice rappresentazione della vita pastorale, Virgilio, che ne è il primo imitatore non pedissequo, non si accontenta piú della descrizione realistica, e l’ecloga assume quella forma allegorica che costituisce nella storia del genere il mutamento piú importante19. Già prima la poesia bucolica era stata solo un modo per sottrarsi alla vita attiva e il desiderio di vivere come pastori non era mai stato da prendere alla lettera; ora però il tema si fa ancora piú irreale, poiché non è fittizio solo il desiderio della vita pastorale, ma tutto il quadro diventa finzione. In essa il poeta presenta sé e i suoi amici travestiti da pastori, in una poetica distanza, ma subito riconoscibili per gli iniziati. Il fascino di questa formula, nuova anche se già preannunziata da Teocrito, fu cosí grande che le ecloghe virgiliane non soltanto divennero la piú celebre fra tutte le opere del poeta, ma nessun’altra, si può dire, nella letteratura mondiale ha avuto una efficacia cosí persistente e profonda. Dante e Petrarca, Boccaccio e Sannazzaro, Tasso e Guarini, Marot e Ronsard, Montemayor e d’Urfé, Spenser e Sidney, e anche Milton e Shelley, direttamente o indirettamente, ne dipendono nei loro componimenti d’intonazione bucolica. A Teocrito, a quanto sembra, bastava per sentirsi spaurito la vita di corte, con le continue lotte per il successo, e la gran città con il suo ritmo agitato. Virgilio aveva motivi già piú reali per fuggire il proprio tempo. La secolare guerra

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civile era appena finita, il poeta aveva visto in giovinezza le lotte piú cruente, e la pace augustea, quando egli scriveva le sue ecloghe, era piú una speranza che una realtà20. La sua fuga nell’idillio coincide con il movimento reazionario promosso da Augusto, tendente a esaltare il passato della patria come l’età dell’oro, e a stornare l’attenzione dagli avvenimenti politici del presente21. In fondo, nella sua nuova concezione del poema pastorale, Virgilio fondeva il proprio sogno di pace con la propaganda per una politica di pacificazione. All’allegoria virgiliana si riconnette direttamente la poesia bucolica del Medioevo. Veramente, i secoli fra la rovina del mondo antico e il sorgere della civiltà feudale e comunale ce ne hanno lasciato scarsi vestigi, ma quel che ne sopravvive, che si rivela prodotto di pura erudizione, è reminiscenza di antichi poeti, anzitutto di Virgilio. Anche le ecloghe dantesche sono una dotta imitazione; e nello stesso Boccaccio, autore del primo idillio pastorale moderno, sussistono tracce dell’antica allegoria bucolica. Con il romanzo pastorale che segna una nuova svolta nella storia del genere, motivi bucolici entrano anche nella novella del Rinascimento italiano, ma perdendo i caratteri romantici che di solito li accompagnano nell’idillio, nel romanzo e nel dramma pastorale22. È un fenomeno, del resto, facilmente comprensibile, se si riflette che la novella è per eccellenza letteratura borghese e come tale tende al naturalismo; la poesia pastorale invece costituisce un genere aulico-aristocratico incline al romanticismo. E questa tendenza è preponderante nei componimenti pastorali di Lorenzo de’ Medici, Jacopo Sannazzaro, Castiglione, Ariosto, Tasso, Guarini, Marino; e dimostra che nelle corti dell’Italia rinascimentale, a Firenze, a Napoli, a Urbino, a Ferrara, a Bologna, si segue la stessa moda letteraria. La poesia bucolica è dappertutto lo specchio della vita di corte e serve al lettore come modello di rapporti galanti. Nes-

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suno piú prende alla lettera l’Arcadia; il carattere convenzionale degli elementi pastorali è evidente; e mentre passa in secondo piano il significato originario di questa poesia, cioè il suo rifiuto di una vita troppo civile, il costume di corte viene ora avversato solo per la schiavitú che impone, non per la raffinatezza e l’artificio. È comprensibile che con le sue sottigliezze e le sue allegorie questa poesia pastorale che mescola il remoto e il prossimo, l’immediato e l’inconsueto, sia tra i generi prediletti dal Manierismo; e che in Spagna, la terra classica dell’etichetta di corte e del Manierismo, sia coltivata con speciale amore. Anche qui dapprima ci si attiene ai modelli italiani, che il costume aulico diffonde in tutto l’Occidente; ma ben presto i caratteri originali del paese hanno il sopravvento dando luogo a un’unione, d’ora in poi esemplare, di elementi cavallereschi e elementi arcadici. Quest’ibrida forma spagnola, romantico-bucolica, sarà il tramite per cui il romanzo pastorale italiano si evolverà in quello francese. In Francia gli inizi della poesia arcadica risalgono al Medioevo e si presentano nel secolo xiii in una forma di origine complessa, dipendente dalla lirica cortese. Come in parte già negli idilli e nelle ecloghe antiche, anche nelle pastourelles francesi la situazione bucolica esprime fantasticamente un desiderio di liberazione dalle forme ormai troppo rigide e convenzionali della poesia erotica23. Quando il cavaliere dichiara il suo amore alla pastora, si sente esonerato dalle leggi dell’amor cortese, dalla fedeltà, dalla castità e dalla discrezione. Il suo desiderio non ha nulla di ambiguo e, pur cosí impulsivo, pare innocente accanto alla forzata purezza dell’amore ideale. Ma in sé la scena del cavaliere che sollecita la pastorella è del tutto convenzionale e non ha piú traccia della spontaneità teocritea. Oltre i due protagonisti e, talvolta, il pastore geloso, la scena esige al massimo qualche pecora; manca affatto l’atmosfera del prato

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e della selva, della mietitura e della vendemmia, il profumo di latte e di miele24. Certi elementi dell’ecloga classica possono esser penetrati anche nelle pastourelles attraverso semplici reminiscenze classiche, ma un influsso diretto dell’antica poesia bucolica sulla letteratura francese, anteriormente alla diffusione del Rinascimento italiano e della cultura di corte borgognona, non è possibile affermarlo. E quest’influsso si approfondisce soltanto con la moda generale dei romanzi pastorali italiani e spagnoli e con la vittoria del Manierismo25. L’Aminta del Tasso, Il Pastor fido del Guarini e la Diana del Montemayor sono i modelli dei francesi, specialmente di Honoré d’Urfé che con l’Astrée volle dare, sull’esempio degli Italiani e degli Spagnoli, anzitutto un manuale delle forme internazionali di mondanità e uno specchio di raffinato costume. L’opera è ritenuta a ragione la scuola che trasformò i rozzi feudatari e soldati del tempo di Enrico IV in una raffinata società di corte. Essa nasce dallo stesso fermento da cui uscirono i primi salotti e da cui scaturí il preziosismo secentesco26. Senza dubbio, nell’Astrée culmina il processo iniziatosi con le pastorali del Rinascimento. Davanti alla raffinatezza di dame e cavalieri che, travestiti da pastori e pastorelle, conversano spiritosamente e discutono capziose questioni d’amore, a nessuno ormai può venir in mente la semplicità del popolo. La finzione ha perduto ogni rapporto con la vita reale, diventando puro gioco di società. L’Arcadia non è piú che una mascherata che per un istante sottrae l’uomo alla realtà consueta e al suo io quotidiano. A ogni modo le fêtes galantes di Watteau hanno scarse affinità con questa poesia. Nel romanzo pastorale le scene d’amore campestri con il loro rituale e il loro scioglimento erotico rappresentano già la condizione ideale, mentre nei quadri di Watteau tutta la materia amorosa non è che una tappa verso la meta vera, il preludio

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al viaggio verso quella Cythère sempre avvolta nelle nebbie di una misteriosa lontananza. Del resto, proprio quando Watteau dipinge i suoi quadri, la poesia pastorale in Francia è ormai in declino; il maestro non ne riceve impulsi diretti. E fino al Settecento non appaiono nella pittura scene di vita pastorale come soggetti autonomi. È vero che non sono rari i motivi bucolici come accessori nelle scene bibliche e mitologiche, ma hanno altra origine, indipendente dall’ideale arcadico. La tradizione «giorgionesca» ricorda fortemente Watteau per l’atmosfera elegiaca27, ma le manca l’accompagnamento erotico e il tormentoso senso di tensione fra natura e civiltà. Anche Poussin ha con Watteau affinità solo apparenti. Poussin dipinge ispirate scene d’Arcadia, ma senza diretto rapporto con la vita pastorale; il soggetto gli è sempre suggerito dalla mitologia classica ed è trattato in modo essenzialmente eroico, secondo lo spirito del classicismo romano. Nell’arte francese del Seicento le scene pastorali compaiono come soggetti autonomi soltanto nell’arazzo, che, com’è noto, ha sempre raffigurato con predilezione temi di vita campestre. Naturalmente questi non si adattano al carattere ufficiale della grande arte barocca. Sono ammissibili in quadri decorativi – come, d’altra parte, nel romanzo, nel melodramma o nel balletto – ma in un gran dipinto di carattere solenne sarebbero fuor di posto come in una tragedia: «Dans un roman frivole aisément tout s’excuse... Mais la scène demande une exacte raison»**28. Tuttavia, appena la pittura se ne impadronisce, la materia pastorale acquista una sottigliezza e una profondità che mai ha avuto nella poesia, dove è sempre stata un genere di second’ordine. Come genere letterario, fin dall’inizio aveva avuto un carattere quanto mai artificioso, proprio di generazioni che non avevano con la realtà se non un rapporto di riflesso. Anche la situazione bucolica era stata sempre un pretesto, non mai l’oggetto vero,

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e aveva avuto quindi un carattere piú o meno allegorico, non mai simbolico. In altri termini, il poema pastorale aveva un senso troppo chiaro e lasciava poco agio all’interpretazione. Era presto esaurito, non riserbava alcun segreto; e persino un poeta come Teocrito non riusciva a ricavarne che un’immagine piuttosto uniforme della realtà, anche se eccezionalmente attraente. L’idillio cioè non era mai riuscito a superare i limiti dell’allegoria restando un gioco privo di tensione e di profondità. Solo Watteau riesce a dargli una profondità simbolica, soprattutto escludendone ogni carattere che non possa anche venir considerato semplice e immediata riproduzione del vero. Il Settecento per sua natura doveva portare a una rinascita del motivo pastorale. Per i letterati la formula era ormai troppo angusta, ma i pittori non l’avevano ancora logorata e potevano con essa rifarsi da capo. Negli alti ceti la vita era regolata da forme sociali straordinariamente artificiose intese a sublimare in vario modo i rapporti quotidiani; ormai però non si credeva piú al loro senso profondo, sicché erano mantenute come semplici regole del gioco. Per l’amore la regola del gioco era la galanteria, come l’Arcadia era una forma giocosa dell’arte erotica. Entrambe si proponevano di padroneggiare l’amore, spogliandolo della sua selvaggia immediatezza e passionalità. Quindi nulla di piú naturale che l’Arcadia giungesse alla piena fioritura nel secolo della galanteria. Ma come i costumi indossati dalle figure di Watteau solo dopo la morte del maestro divennero di moda, cosí anche il genere della fête galante solo nel tardo Rococò trovò un vasto pubblico. Lancret, Pater e Boucher godettero i frutti dell’invenzione, e altro non fecero che divulgarla. Quanto a Watteau, egli rimase per tutta la vita il pittore di una cerchia relativamente ristretta: i collezionisti julienne e Crozat, l’archeologo e mecenate conte Caylus, il mercante d’arte Gersaint

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furono gli unici sostenitori veramente fedeli della sua arte. La critica contemporanea di rado si occupò di lui e per lo piú solo in tono di biasimo29. Neppure Diderot ne riconobbe il valore e lo pospose a Teniers. L’Accademia, è vero, non gli si oppose, se pure, attenendosi alla tradizionale gerarchia dei generi, ne disdegnò l’arte, annoverandola fra i petits genres***. Per altro non era piú dogmatica del pubblico colto in generale, che, almeno in teoria, si teneva sempre fedele alla dottrina classica. In tutte le questioni pratiche del resto l’Accademia si comportava con la massima liberalità. Il numero dei membri era illimitato, e l’ammissione non era vincolata all’accettazione della sua dottrina. Forse tanta condiscendenza non veniva da un impulso spontaneo; è certo comunque che l’Accademia seppe rendersi conto che in un’epoca di inquietudine e di rinnovamento come questa solo una simile larghezza poteva tenerla in vita30. Watteau, Fragonard e Chardin furono senz’altro suoi membri, come in quel secolo tutti gli artisti di grido, a qualunque corrente appartenessero. L’Accademia continuò a rappresentare il grand goût, ma solo un piccolo gruppo dei suoi membri si teneva in pratica a quel criterio. Gli artisti che non potevano contare su ordinazioni pubbliche e avevano i loro acquirenti fuor dell’ambiente, di corte, non si curavano gran che del riconoscimento ufficiale e coltivavano i petits genres che, se pur meno apprezzati in teoria, erano tanto piú ricercati in pratica. Tra questi figuravano anche le fêtes galantes, fin dall’inizio destinate a un ambiente piú liberale di quello di corte, benché chi si interessava di simili quadri ancora per poco avrebbe rappresentato il pubblico piú evoluto in fatto d’arte. Ma la pittura continuò a coltivare a lungo il soggetto erotico, anche dopo che la letteratura, e specialmente il romanzo (il genere piú mutevole e, anche per motivi economici, piú popolare), già si era rivolta a soggetti

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d’interesse piú generale. Veramente anche in letteratura il libertinaggio del secolo trovò i suoi esponenti in Choderlos de Laclos, in Crébillon figlio e in Restif de la Bretonne; ma non ebbe alcun influsso decisivo sugli altri romanzieri. Marivaux e Prévost, nonostante l’audacia dei loro soggetti, non cercano mai effetti grossolanamente erotici. Così, mentre la pittura si mantiene per ora legata all’alta società, il romanzo si viene avvicinando allo spirito delle classi medie. Il primo passo in questa direzione è segnato dal passaggio dal romanzo cavalleresco a quello pastorale, che significa almeno l’abbandono di certi elementi avventurosi medievali. Il romanzo pastorale, sebbene in una cornice del tutto fittizia, tratta problemi della vita reale e pur sotto un travestimento fantastico rappresenta la gente del tempo; sono questi, per la storia dell’evoluzione, segni importanti e premonitori. E del resto per il fatto che in esso l’azione, specie in d’Urfé, viene storicamente localizzata, il romanzo pastorale si avvicina al realismo moderno31. Ma ciò che è piú significativo per l’ulteriore sviluppo è che d’Urfé scrive il primo vero romanzo d’amore. Il tema erotico ricorreva naturalmente anche prima nei romanzi, ma prima di d’Urfé non c’è nessun’opera letteraria di una certa mole che abbia come suo tema centrale l’amore. Solo con lui, nel romanzo come nel dramma, l’amore, diviene il movente vero dell’azione e tale resterà per oltre tre secoli32. La letteratura narrativa e drammatica dall’età barocca in poi è essenzialmente poesia d’amore; solo negli ultimi tempi si potranno osservare indizi di un mutamento. È, vero che già nell’Amadis l’amore prevale sull’eroismo, ma Céladon e il primo eroe dell’amore nel senso moderno, il primo inerme schiavo della passione, estraneo a ogni eroismo, il precursore del cavaliere Des Grieux e l’antenato di Werther.

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Il romanzo pastorale del Seicento francese è la lettura di una generazione stanca; la società esausta per le guerre civili si riposa delle sue traversie nelle belle e ornate conversazioni dei pastori innamorati. Ma appena essa si riprende e le guerre di conquista di Luigi XIV svegliano nuove ambizioni, comincia a reagire contro il romanzo prezioso, reazione che va di pari passo con gli assalti di Boileau e Molière contro il preziosismo. Il romanzo pastorale di d’Urfé viene soppiantato da quello eroico e amoroso di La Calprenède e di Mademoiselle de Scudéry, un genere che riannoda le fila strappate del ciclo di Amadigi. Il romanzo riprende a trattare grandi fatti, descrive paesi lontani e popoli stranieri, presenta grandi, impressionanti figure e caratteri imponenti. L’eroismo in esso non è piú l’ardire temerario dei romanzi cavallereschi, ma la severa coscienza del dovere della tragedia corneliana. Il romanzo eroico di La Calprenède, come il dramma aulico, voleva essere una scuola di forte volontà e di grandezza d’animo; ma lo stesso ideale umano alla Corneille, la stessa etica tragico-eroica si esprimeva anche nella Princesse de Clèves di Madame de la Fayette. Anche qui si trattava del conflitto fra onore e passione, e anche qui il dovere vinceva l’amore. In quest’età tutta tesa all’eroismo troviamo dappertutto la stessa chiara analisi dei moventi della volontà, la stessa dissezione razionalistica delle passioni, la stessa rigorosa dialettica delle idee morali. Forse in Madame de la Fayette si scopre qua e là un tratto piú intimo, una sfumatura piú personale, certi lati piú fuggevoli dello sviluppo dei sentimenti; ma anche qui tutto appare nella cruda luce della coscienza e dell’analisi razionale. Gli amanti non sono mai preda inerme della passione, il loro male non è incurabile, non sono irrimediabilmente perduti, come René e Werther, o come Des Grieux e Saint-Preux.

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Accanto a queste forme bucolico-idilliche ed eroicoamorose già nel Seicento si notano fenomeni che precorrono il romanzo borghese. Anzitutto il romanzo picaresco, che si distingue dalla letteratura mondana principalmente per i suoi temi che sono temi di genere e per la sua predilezione per gli aspetti piú bassi della vita. Gil Blas e Le diable boiteux appartengono ancora a questo genere, e anche nei romanzi di Stendhal e di Balzac ci sono elementi che ricordano il variopinto mosaico della vita picaresca, I romanzi preziosi si continuano a leggere per un pezzo nel Seicento, anzi fin nel Settecento inoltrato, ma dopo il 1660 non se ne scrivono piú33. L’elocuzione spiritosa, ricercata, aristocraticamente affettata cede a modi piú naturali e borghesi. Furetière chiama già esplicitamente roman bourgeois il suo romanzo antieroico, antiromantico, di gusto picaresco; qualifica che d’altronde è giustificata soltanto dagli argomenti, poiché anche qui si tratta semplicemente di una raccolta di episodi, schizzi e caricature accostati, e non c’è ancora lo sviluppo concentrato e «drammatico» del romanzo moderno che si impernia sul destino di un protagonista e provoca l’interesse del lettore secondo una visuale ben precisa. Il romanzo che nel Seicento, benché molto in voga, è una forma minore e per molti aspetti arretrata, diventa nel Settecento il genere letterario dominante che non solo produce le opere di piú alto valore, Ma costituisce anche un decisivo passo avanti sulla via del progresso. Il Settecento è l’età del romanzo, perché è l’età della psicologia. Lesage, Voltaire, Prévost, Laclos, Diderot, Rousseau sono fonti inesauribili di osservazioni psicologiche, che per Marivaux diventano una vera mania; egli spiega, analizza e commenta senza posa il comportamento psichico delle sue figure. Ogni manifestazione di vita è un buon pretesto per le sue analisi ed egli non tralascia occasione per mettere a nudo i suoi personag-

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gi. La psicologia di Marivaux e dei suoi contemporanei, specialmente di Prévost, è assai piú ricca, fine, complessa di quella del Seicento; i personaggi non sono piú soltanto tipi, si fanno piú complicati e contraddittori, tanto che i caratteri della letteratura classica, pur con tutta la loro acutezza risultano al confronto un po’ schematici. Lesage ci dà ancora quasi esclusivamente dei tipi, per lo piú tipi eccentrici o caricature, e solo con Marivaux e Prevost abbiamo veri ritratti con i contorni mobili e i colori smorzati e sfumati della vita. Se mai è possibile una linea di confine tra il romanzo moderno e quello piú antico, è a questo punto che deve cadere. D’ora in poi il romanzo è storia d’anime, analisi psicologica, spietata introspezione; finora era stato semplice rappresentazione di avvenimenti esterni o di processi psichici ma in quanto si riflettevano in azioni concrete. Veramente neppure Marivaux e Prévost escono dai limiti della psicologia analitica e razionalistica del Seicento, e rimangono piú affini a Racine e a La Rochefoucauld che ai grandi romanzieri dell’Ottocento. Anch’essi, come i moralisti e i drammaturghi dell’età classica, scompongono i caratteri nei loro elementi e li svolgono partendo da un astratto principio psicologico invece di svilupparli dall’intera realtà in cui sono immersi. Il passo decisivo verso questa psicologia impressionistica capace di rappresentare in modo indiretto, attraverso forme mutevoli e sfumate, lo farà soltanto l’Ottocento, e con questo darà vita a una concezione della verosimiglianza psicologica che farà apparire antiquata tutta la precedente letteratura. Tuttavia negli scrittori del secolo xviii c’è un aspetto moderno: ed è la diseroicizzazione dei loro eroi, che si fanno cosí piú umani. Le loro dimensioni si riducono, avvicinandosi a noi; e consiste in questo il sostanziale progresso del naturalismo psicologico, rispetto alla rappresentazione dell’amore che aveva fatto Racine. Prévost mostra già l’altra faccia delle grandi

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passioni, anzitutto la condizione umiliante e vergognosa dell’uomo innamorato. L’amore, come già per i poeti romani, torna ad essere una disgrazia, una malattia, una vergogna. Si avvia cioè verso quello che sarà l’amour-passion di Stendhal e assume gli aspetti patologici che saranno propri della letteratura amorosa dell’Ottocento. Marivaux non conosce ancora la violenza dell’amore che assale come una belva ingorda le sue vittime e non le abbandona piú; ma in Prévost esso ha già preso possesso delle anime. L’età dell’amore cavalleresco è alla fine; comincia la lotta contro la mésalliance. La degradazione dell’amore serve qui come meccanismo di difesa sociale. La società feudale del Medioevo come anche la società di corte del Seicento non aveva ancora a temere dall’amore; non aveva ancora bisogno di una automatica difesa contro gli eccessi di un figliol prodigo. Ma ora che i confini fra le caste vengono sempre piú spesso violati, e non solo la nobiltà, ma anche la borghesia, ha privilegi da difendere, comincia la scomunica della passione amorosa sfrenata, irresponsabile, che minaccia l’ordine costituito; e sorge una letteratura che infine condurrà alla Signora delle camelie e ai film della Garbo. Senza dubbio Prévost è ancora lo strumento inconscio dei conservatori, che un Dumas figlio servirà con piena coscienza e persuasione. L’esibizionismo di Rousseau già si preannunzia in Manon Lescaut. L’eroe del romanzo non ha indulgenze verso di sé nella descrizione del suo misero amore e anzi dimostra un certo masochistico piacere nel confessare la propria debolezza. D’altronde, la predilezione per figure del genere, «a un tempo piccole e grandi, spregevoli e pregevoli», secondo la formula coniata dal Lessing per il Werther, si trova già in Marivaux. L’autore della Vie de Marianne conosce già le piccole debolezze delle anime grandi, e non solo disegna il suo Monsieur de Climal come una natura in cui si mescolano tratti seducenti e

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repulsivi, ma descrive l’eroina come un carattere di cui non è facile venire a capo. È una fanciulla onesta e sincera, ma non è mai cosí incauta da dire o fare cosa che possa danneggiarla. Conosce il suo gioco, e gioca bene. Marivaux è il tipico rappresentante di un’epoca di transizione e di ricostruzione. Come romanziere egli aderisce interamente alla corrente borghese progressista, ma come commediografo, riveste ancora le sue osservazioni psicologiche delle vecchie forme del dramma d’intrigo. Tuttavia anche qui c’è un elemento nuovo, ed è che l’amore – finora secondario nella commedia – è adesso il centro dell’azione34. Così, con la conquista di quest’ultimo caposaldo, esso conclude la sua marcia vittoriosa nella letteratura moderna. Ed il mutamento è possibile in quanto ormai le figure si complicano anche nella commedia e l’amore stesso acquista una forma cosí differenziata, che i tratti comici che mantiene nella commedia non distruggono il suo carattere serio e sublime. Ma in Marivaux commediografo soprattutto è nuova la preoccupazione di disegnare i suoi personaggi come legati a una precisa condizione sociale e dalla dinamica di questa far derivare l’azione drammatica35. I personaggi di Molière sono, sì, innamorati, ma non è questo il tema su cui s’impernia il dramma; e la loro condizione sociale determina palesemente la loro natura, ma non diventa mai l’origine del conflitto drammatico. Invece nel Jeu de l’amour et du hasard**** di Marivaux tutta l’azione s’impernia su un gioco di apparenze sociali, cioè sulla questione se i protagonisti siano effettivamente i servi come fingono di essere, o i signori che non vogliono rivelarsi. Spesso si è paragonato Marivaux a Watteau, e l’analogia del loro modo di esprimersi, spiritoso e piccante, suggerisce il paragone. Ma essi ci propongono anche lo stesso problema sociologico, poiché entrambi si esprimono in forme raffinatissime, ligie alle convenzioni della

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buona società e tuttavia né l’uno né l’altro ebbero il successo che sarebbe lecito attendersi. Per tutta la sua vita Watteau fu apprezzato veramente solo da pochi, e si sa che i drammi di Marivaux caddero piú di una volta. I contemporanei trovavano complicato, ricercato e oscuro il suo linguaggio, e bollarono quel suo dialogo scintillante, tutto guizzi e freschezza con l’epiteto di marivaudage, il che, come sappiamo, non voleva essere una lode, benché Sainte-Beuve affermi con ragione non esser piccola cosa che il nome di un poeta passi in proverbio. E se anche si volesse accettare per Watteau la spiegazione che per il suo tempo egli era troppo grande e che la grande arte «va contro gli istinti umani», questa spiegazione – che poi non spiega nulla – non si adatta a Marivaux, che non era un grande poeta. Erano entrambi rappresentanti di un’epoca di transizione e rimasero incompresi; ma questo non riguardava il loro valore artistico, ma la loro funzione storica di precursori e battistrada. Simili artisti non trovano mai un pubblico adeguato. I contemporanei non li comprendono, la generazione successiva conosce di solito le loro concezioni artistiche nella forma annacquata degli epigoni, e la posterità, che forse è in grado di apprezzare meglio le loro opere, non riesce piú a superare la distanza storica. Sia Watteau sia Marivaux vengono scoperti solo nell’Ottocento dal gusto educato all’Impressionismo, in un tempo che sentiva già molto antiquati i temi dell’arte loro. Il Rococò non è l’arte della monarchia come era stato il Barocco, ma l’arte dell’aristocrazia e dell’alta borghesia. All’attività edilizia del re e dello stato subentra quella dei privati: invece di castelli e palazzi si costruiscono hôtels e petites maisons; al freddo marmo e al pesante bronzo dei grandi ambienti di rappresentanza si preferiscono l’intimità e la leggiadria dei boudoirs e dei gabinetti; i colori severi e solenni, il bruno e la porpora, il turchino e l’oro vengono sostituiti da

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chiare tinte di pastello, grigio e argento, verde-reseda e rosa. Di fronte all’arte della Reggenza, il Rococò presenta maggior preziosità ed eleganza, una leggiadria vivace e capricciosa, ma insieme anche un tono delicato e intimo; se si sviluppa come arte mondana per eccellenza, d’altro canto risponde al gusto borghese per le piccole dimensioni. Si sostituisce cosí al Barocco massiccio, statuario, realisticamente corposo, un’arte decorativa da virtuosi, piccante, delicata, nervosa; tuttavia basta pensare ad artisti come La Tour o Fragonard per ricordarsi che la leggerezza, la fluidità, e la vivacità di quest’arte sono anche un trionfo dell’osservazione e dell’efficacia naturalistica. Accanto alle visioni dell’arte barocca, agitate, sfrenate, soverchianti tumultuosamente l’ordine consueto, l’arte del Rococò appare sempre debole, minuta e gretta, ma in tutta la pittura barocca non c’è un pennello piú leggero e sicuro di quelli di Tiepolo, Piazzetta e Guardi. Il Rococò rappresenta l’ultima fase del processo iniziatosi col Rinascimento e realizza l’affermazione definitiva di quel principio dinamico, di soggettiva libertà, con cui il processo era cominciato e che sempre aveva dovuto riaffermarsi contro il principio della stasi, della costrizione e della norma. Soltanto con il Rococò si impone definitivamente il principio fondamentale dell’arte rinascimentale; e con esso la rappresentazione obiettiva delle cose raggiunge quella precisione e quella scioltezza che è la meta del naturalismo moderno. L’arte borghese nata dopo il Rococò e, in parte, ancora in pieno Rococò, è già qualcosa di sostanzialmente nuovo, completamente diverso dal Rinascimento e dai periodi immediatamente successivi. Comincia allora quell’epoca della cultura che è ancora la nostra, epoca determinata dal pensiero democratico e dal soggettivismo e che, se come evoluzione storica è direttamente connessa con le culture d’élite del Rinascimento, del Baroc-

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co e del Rococò, in quanto a principî ne è l’opposto. Alle antinomie del Rinascimento e degli stili che ne conseguono, al contrasto fra rigorismo formale e naturalistico dissolvimento della forma, visione strutturale e pittorica, tendenza statica e dinamica, subentra ora il conflitto tra razionalismo e sentimentalismo, materialismo e spiritualismo, classicismo e romanticismo. Le precedenti antitesi perdono in gran parte il loro significato, poiché le acquisizioni dell’arte rinascimentale in entrambe le direzioni sono diventate indispensabili: tanto la fedeltà al vero quanto la composizione sono ormai cose ovvie. Il vero problema adesso è se si debba dar la preferenza all’intelletto o al sentimento, al mondo obiettivo o all’io, alla conoscenza razionale o all’intuizione. Il Rococò stesso, disgregando il classicismo tardo-barocco, prepara la nuova alternativa: il suo colorismo, la sua sensibilità al pittoresco e la sua tecnica «impressionistica» creano uno strumento che, assai meglio del linguaggio formale del Rinascimento e del Barocco, è atto a esprimere l’anima dell’arte borghese. Ma questo suo vigore espressivo finirà col distruggere il Rococò, che propriamente è l’antitesi piú recisa di tutto ciò che è sentimentale e irrazionale. Senza questa dialettica tra gli intenti originari e il successivo sviluppo piú o meno automatico dei mezzi è impossibile comprendere il senso del Rococò; solo considerandolo come il risultato di questo contrasto, che riflette l’antagonismo della società contemporanea e fa sí che il Rococò si ponga come intermediario fra l’arte aulica barocca e il preromanticismo borghese, se ne intende la complessa natura. La cultura edonistica del Rococò, con il suo sensuale estetismo, sta fra la solennità barocca e la sensibilità romantica. Alla corte di Luigi XIV la nobiltà glorificava ancora un ideale eroico e razionale, sebbene in realtà seguisse per lo piú il suo piacere. Al tempo di Luigi XV

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quella stessa nobiltà professa un edonismo che corrisponde del resto alle opinioni e al costume della ricca borghesia. Il detto di Talleyrand: «Chi non ha vissuto prima del 1789 non conosce la dolcezza della vita» può darci un’idea di come vivessero quelle classi. Per «dolcezza della vita» s’intende naturalmente la dolcezza delle donne; come in ogni civiltà edonistica, esse sono il passatempo prediletto. L’amore ha perduto, insieme alla sua natura «sanamente» istintiva, anche la sua drammatica passionalità; è raffinato, divertente, trattabile, da passione è diventato abitudine. Si vogliono vedere nudità sempre e dappertutto; il nudo diventa il tema prediletto dell’arte figurativa. Dovunque si guardi, negli affreschi delle sale di rappresentanza, negli arazzi dei salotti, nei quadri dei boudoirs, nelle incisioni dei libri, nelle porcellane e nei bronzi dei caminetti, non si vedono che donne nude, cosce e fianchi tondeggianti, seni scoperti, braccia e gambe intrecciate in amplessi, donne con uomini e donne con donne, in variazioni e ripetizioni infinite. Ci si è tanto abituati alla nudità nell’arte, che le ingénues di Greuze risultano eccitanti solo per il fatto che sono vestite. Anche l’ideale della bellezza femminile muta, facendosi piú piccante e raffinato. Nell’età barocca si amava ancora la bellezza matura e opulenta, ora si dipingono tenere giovinette, sovente quasi ancora bambine. Il Rococò è un’arte erotica destinata a gaudenti ricchi e ormai sazi, un mezzo per esaltare la facoltà di godere dove la natura ha posto un limite al godimento. Solo con l’arte dei ceti medi, con il classicismo di David e il romanticismo di Géricault e Delacroix tornerà di moda il «normale» tipo della donna in pieno rigoglio. Si assiste col Rococò a una forma estrema de «l’art pour l’art»; il suo sensuale culto della bellezza, indifferente all’espressione spirituale, il suo studiato virtuosismo, il suo garbato e melodioso linguaggio formale supe-

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rano qualunque alessandrinismo. Qui «l’art pour l’art» è in certa misura piú schietto e spontaneo che nell’Ottocento, perché non è soltanto un programma e un atteggiamento polemico, ma è il naturale orientamento di una società frivola, stanca e passiva, che nell’arte vuol trovare un riposo. Il Rococò è l’ultima fase di una cultura mondana dove il principio della bellezza domina assoluto, l’ultimo stile in cui bello e artistico sono ancora sinonimi. In Watteau, Rameau e Marivaux, e ancora in Fragonard, Chardin e Mozart tutto è «bello» e melodioso. Ma in Beethoven, David e Delacroix non è piú così. L’arte diventa attiva, agonistica, e l’«espressivo» violenta la forma. Inoltre il Rococò è l’ultimo stile universale dell’Occidente; non solo in quanto la sua validità è generale e, in tutti i paesi d’Europa, si svolge nell’ambito di un sistema formale che si può dire omogeneo, ma in quanto è patrimonio comune di tutti gli artisti di talento che lo possono accettare senza contrasti. Dopo il Rococò non si avrà piú un canone formale, né un orientamento stilistico di una validità ugualmente universale. Dall’Ottocento in poi l’intento di ogni singolo artista diventa cosí personale, che egli deve conquistarsi da solo i suoi mezzi espressivi e non può piú attenersi a soluzioni bell’e pronte; per lui ogni forma prestabilita è un intralcio, anziché un aiuto. È vero che con l’impressionismo si ha di nuovo uno stile che presenta un suo valore generale, ma anche in questo caso il rapporto fra lo stile e il singolo artista è sempre un problema e non c’è, qui, una formula come per il Rococò. Nella seconda metà del secolo xviii è avvenuto un mutamento rivoluzionario: è sorta la moderna borghesia che con il suo individualismo e la sua ricerca dell’originalità ha distrutto l’idea di stile come consapevole e deliberata comunità culturale, portando il concetto di proprietà intellettuale al suo significato odierno.

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Al costituirsi delle formule del Rococò e di quel virtuosismo tecnico che dà all’arte di un Fragonard e di un Guardi una sicurezza d’esecuzione da sonnambuli, si collega anzitutto il nome di Boucher. Egli è il rappresentante, magari poco significativo personalmente, di una convenzione artistica significativa invece in grado eccezionale, e la rappresenta in modo cosí perfetto da esercitare un influsso non raggiunto da alcuno dopo Le Brun. È il maestro senza rivali del genere erotico, la pittura piú ricercata dai fermiers généraux, dai nouveaux riches e dagli ambienti liberali di corte; è il creatore di quella mitologia galante che, oltre alle fêtes galantes di Watteau, comprende i soggetti piú importanti della pittura rococò. Egli trasferisce i motivi erotici dalla pittura nell’incisione e in tutta l’arte minore, e della «peinture des seins et des culs» fa uno stile nazionale. Naturalmente non tutta la Francia interessata all’arte vede in Boucher il suo pittore; c’è già nel paese una media borghesia colta, che da un pezzo nel campo della letteratura ha voce in capitolo e ormai anche in arte segue una propria via. Per questo pubblico Greuze e Chardin dipingono i loro quadri didattici e di genere. Se pure i loro clienti non sono solo nel ceto medio, ma anche fra il pubblico di Boucher e di Fragonard. Del resto quest’ultimo si adegua spesso al gusto che i pittori borghesi cercano di soddisfare e persino in Boucher si trovano motivi non troppo lontani dal loro mondo. La colazione del Louvre, per esempio, può essere indicata come una scena di vita borghese, sia pure dell’alta borghesia; in ogni caso è un quadro di genere, non piú di cerimonia. La rottura di principio con il Rococò avviene nella seconda metà del secolo; l’abisso fra l’arte aristocratica e quella delle classi medie è evidente. La pittura di Greuze segna l’inizio non solo di un nuovo orientamento nella vita e di una nuova morale, ma anche di un

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gusto nuovo – se si vuole, del «cattivo gusto». Le sue sentimentali scene di famiglia, con padri che maledicono i figli traviati o benedicono quelli buoni e riconoscenti, sono pittura di scarso valore. Non hanno originalità di composizione, né forza di disegno, né bellezza di colore, e, di piú, la tecnica ne è sgradevolmente liscia. Le sentiamo fredde e vacue nonostante il pathos eccessivo, false nonostante l’insistito sentimentalismo. Sono esigenze quasi del tutto estranee all’arte quelle ch’esse cercano di soddisfare; e rappresentano i loro soggetti, che non sono pittorici, ma per lo piú puramente narrativi, in modo affatto rozzo, gretto e visivamente inefficace. Diderot le loda, perché illustrano fatti che in germe contengono interi romanzi36; ma forse si potrebbe affermare con piú ragione ch’esse non contengono se non quel che può stare in un racconto. Sono pittura «letteraria» nel peggior senso della parola, pittura volgare e moraleggiante, di aneddoti, archetipo dei cattivi prodotti dell’Ottocento. Ma non è il loro «carattere borghese» che le fa cosí prive di gusto, benché il mutare dei gruppi che determinano il gusto si accompagni naturalmente a un sovvertimento degli antichi criteri che, benché schematizzati, non mancavano di una loro provata validità. I quadri di Chardin, pur con la loro modestia borghese, appartengono al meglio dell’arte settecentesca. E sono arte borghese assai piú schietta e onesta che non le opere di Greuze, il quale, con la sua idea convenzionale del popolo semplice e costumato, la sua apoteosi della famiglia borghese, l’idealizzazione della fanciulla ingenua, esprime i sentimenti e le idee dei ceti superiori piuttosto che di quelli medi o umili. L’importanza storica di Greuze non è tuttavia minore di quella di Chardin; nella lotta contro il Rococò dell’aristocrazia e dell’alta borghesia le sue armi si rivelano, anzi, le piú efficaci. Diderot può averlo sopravvalutato come pittore, mo lo ha giustamente apprezzato come propagandi-

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sta politico. Comunque, egli aveva coscienza che con Greuze era «l’art pour l’art» del Rococò che si metteva in discussione; e quando dichiarava che l’arte deve «onorare la virtú e smascherare il vizio», quando della grande ruffiana voleva fare una maestra di virtú, quando condannava Boucher e Vanloo per la loro artificiosità, la loro destrezza vacua, frivola e sventata, per il loro spirito libertino, era alla «punizione dei tiranni» che pensava o, piú concretamente, pensava a introdurre la borghesia nell’arte, e cosí condurla a conquistarsi un posto al sole. La sua crociata contro l’arte rococò non era che una tappa nella storia della Rivoluzione già in corso.

* Gusto aulico. 1 paul hazard, La crise de la conscience européenne, 1935, I, pp. i-v [trad. it., La crisi della coscienza europea, Torino 1946]. 2 Cfr. bédier-hazard, Histoire de la littérature française, II, 1924, pp. 31-32. 3 germain martin, La grande industrie en France sous le règne de Louis XV, 1900, p. 15. 4 f. funck-brentano, L’Ancien régime, 1926, pp. 299-300. 5 alexis de tocqueville, L’Ancien régime et la Révolution, 4a ed., 1859, p. 171. 6 henri SÉE, La France économique et sociale au XVIIIe siècle, 1933, p. 83. 7 albert mathiez, La Révolution française, I, 1922, p. 8 [trad. it., La Rivoluzione francese, 3 voll., Torino 1950]. 8 karl kautsky, Die Klassengegensätze im Zeitalter der Französischen Revolution, 1923, p. 14. 9 franz schnabel, Das XVIII. Jahrhundert in Europa, in Das Zeitalter des Absolutismus, in Propyläen-Weltgeschichte, VI, 1934 p. 277. 10 joseph aynard, La bourgeoisie française, 1934, p. 462. 11 f. strowski, La Sagesse française, 1925, p. 20. 12 j. aynard, La bourgeoisie française cit., p. 250. 13 Ibid., p. 422. 14 andré fontaine, Les doctrines d’art en France, 1909, p. 170. 15 pierre marcel, La peinture française au début du XVIIIe siècle, 1906, pp. 25-26.

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte louis réau, Histoire de la peinture française au XVIIIe siècle, I, 1925, p. x. 17 louis hourticq, La peinture française au XVIIIe siècle, 1939, p. 15. 18 wilhelm von christ, Geschichte der griechischen Literatur, nello Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft di müller, VII, 2/1, 1920, p. 183. 19 francesco macri-leone, La bucolica latina nella letteratura italiana del secolo XIV, 1889, p. 15. walter w. greg, Pastoral Poetry and Pastoral Drama, 1906, pp. 13-14. 20 t. r. glover, Virgil, 7a ed., 1942, pp. 3-4. 21 m. schanz - c. hosius, Geschichte der römischen Literatur, nello Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft di müller, II, 1935, p. 285. 22 w. w. greg, Pastoral Poetry ecc. cit., p. 66. 23 j. huizinga, Herbst des Mittelalters, 1928, p. 183 [trad. it., L’autunno del Medioevo, Firenze 1942]. 24 m. fauriel, Histoire de la poésie provençale, 1846, II, pagine 91-92. 25 mussia eisenstadt, Watteaus Fêtes galantes, 1930, p. 98. 26 g. lanson, Histoire de la littérature française, 1909, 11a ed., pp. 373-74. 27 Cfr. albert dresdner, Von Giorgione zum Rokoko, in «Preussisches Jahrbuch», vol. CXL, 1910. werner weisbach, Et in Arcadia ego. Die antike, VI, 1930, p. 140. ** «In un romanzo frivolo tutto si scusa facilmente... ma la scena esige un’esatta giustificazione». 28 boileau, L’art poétique, III, vv. 119 sgg. 29 pierre marcel, La peinture française ecc. cit., p. 299. *** Generi minori. 30 nikolaus pesvner, Academies of Art, 1940, p. 108. 31 g. lanson, Histoire de la littérature française cit., p. 374. 32 Cfr. petit de julleville, Histoire de la littérature française, IV, 1897, p. 419. 33 Ibid., IV, p. 459, V, p. 550. 34 emile faguet, Dixhuitième siècle, 1890, p. 123. 35 arthur elösser, Das bürgerliche Drama, 1898, p. 65. **** Il gioco dell’amore e del caso. 36 diderot, Œuvres, 1821, VIII, p. 243. 16

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Capitolo secondo Il nuovo pubblico della letteratura

Nel Settecento la funzione di guida intellettuale passa dalla Francia all’Inghilterra, piú progredita nel campo economico, sociale e politico. Di qui verso la metà del secolo parte il grande movimento romantico, ma già l’illuminismo riceve di qui l’impulso decisivo. Gli scrittori francesi dell’epoca scorgono nelle istituzioni inglesi la quintessenza del progresso, intessendo intorno al liberalismo inglese una leggenda a cui la realtà corrisponde solo in parte. Il prevalere dell’Inghilterra sulla Francia nell’egemonia culturale va di pari passo con la decadenza della monarchia francese dal primato politico in Europa: cosí la storia del secolo xviii è dominata dall’ascesa dell’Inghilterra nel campo politico, come in quello artistico e scientifico. L’indebolirsi dell’autorità regia, che in Francia si conclude con la caduta della monarchia, si risolve, in Inghilterra, in un fattore di potenza, in quanto qui ceti intraprendenti, che intuiscono le linee maestre dello sviluppo economico e vi si adeguano, sono già pronti ad assumere il potere. Il Parlamento, che ora è libera espressione delle aspirazioni politiche di questi ceti, e costituisce la loro arma piú forte contro l’assolutismo, aveva appoggiato i Tudor nella lotta contro la nobiltà feudale, il nemico straniero e la Chiesa romana, poiché le classi medie commercianti e industriali rappresentate in Parlamento, come anche la nobiltà liberale, ormai coinvolta nell’attività commerciale della bor-

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ghesia, avevano riconosciuto in quella lotta un aiuto per giungere ai loro propri scopi. Fin verso la fine del Cinquecento, fra la monarchia e questi ceti durò una stretta comunione d’interessi. Il capitalismo inglese era ancora in una fase primitiva, avventurosa, e volentieri i mercanti partecipavano a imprese di pirateria insieme con uomini di fiducia della Corona. Le vie si divisero solo quando il capitalismo cominciò a seguire metodi piú razionali e la Corona non ebbe piú bisogno dell’aiuto della borghesia contro la nobiltà ormai piegata. Gli Stuart, incoraggiati dall’esempio dell’assolutismo continentale e confidando nell’alleanza del re di Francia, si giocarono con leggerezza la fedeltà delle classi medie e l’appoggio del Parlamento. Riabilitarono l’antica nobiltà trasformandola in nobiltà di corte e assicurando nuova potenza a questo ceto a cui erano legati da sentimenti piú forti e interessi piú costanti che non alla borghesia e alla nobiltà liberale, antico sostegno dei loro predecessori. Fino al 1640 la nobiltà feudale godette notevoli privilegi e lo stato non solo curava la stabilità dei possessi fondiari, ma cercava di assicurare ai grandi proprietari terrieri parte dei profitti nelle imprese capitalistiche, per mezzo di monopoli e di altre forme di protezionismo. Ma appunto questa prassi tornò a danno del sistema. Le classi economicamente produttive, nient’affatto disposte a dividere i loro utili con i favoriti della Corona, protestavano contro l’intervento statale e lo facevano in nome della libertà e della giustizia, continuando poi a strombazzare tali parole d’ordine anche quando si furono assicurati i maggiori privilegi economici. Come osserva Tocqueville, non c’è quasi problema politico che non sia connesso con la richiesta o l’approvazione d’imposte. In Inghilterra queste dominavano la vita pubblica fin dal Medioevo, e nel Seicento furono la causa immediata dei moti rivoluzionari. La stessa bor-

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ghesia che aveva senz’altro acconsentito alle imposte richieste dai Tudor, e negli anni della guerra civile s’era mostrata disposta a ulteriori aggravi, le negò a Carlo I per opposizione alla sua politica reazionaria, dannosa al ceto medio. Quando poi Giacomo II, una generazione piú tardi, richiese ai magistrati della City di proteggerlo da Guglielmo d’Orange, la borghesia di Londra gli negò il suo aiuto e preferí mettere a disposizione dell’invasore i mezzi necessari per la vittoria. Cominciò cosí quell’alleanza fra monarchia e ceti mercantili, che assicurò in Inghilterra il trionfo del capitalismo e la stabilità della Corona1. Gli ultimi resti del feudalesimo, che la Francia spazzerà via solo cent’anni piú tardi, in Inghilterra vengono distrutti già all’epoca della Rivoluzione, fra il 1640 e il 1660; ma anche qui la rivoluzione fu una lotta di classe, in cui i ceti legati al capitale difendevano anzitutto i loro interessi economici contro l’assolutismo, contro la proprietà esclusivamente terriera e contro la Chiesa2. Ma se il grande conflitto che dominò la vita politica inglese del Sei e Settecento fu combattuto tra due blocchi contrapposti, Corona e nobiltà di corte da un lato e classi piú o meno interessate all’attività capitalistica dall’altro, in realtà erano in lizza almeno tre gruppi diversi, economicamente antagonistici: i latifondisti, la borghesia alleata con quella parte della nobiltà orientata verso il capitalismo, e il gruppo eterogeneo dei piccoli imprenditori, dei salariati urbani e dei contadini. Ma di quest’ultima categoria nel secolo xviii non si parlava gran che, né al Parlamento né in letteratura. Il Parlamento che si riuní dopo il 1688 non era certo una «rappresentanza popolare» nel senso odierno; la sua funzione fu quella di costruire un ordinamento capitalistico sulle rovine di quello feudale, e di assicurare il predominio degli elementi economicamente produttivi sui ceti parassitari, simpatizzanti con l’assolutismo e la

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gerarchia ecclesiastica. La rivoluzione non ebbe come conseguenza una nuova distribuzione dei beni economici; creò tuttavia certi diritti di libertà, che si risolsero alla fine in un vantaggio per l’intera nazione e per tutto il mondo civile. Infatti questi diritti, anche se da principio erano scarsamente fruibili, pure significano la fine della monarchia assoluta e l’inizio di un’evoluzione che portava in sé il germe della democrazia. Il Parlamento volle agire soprattutto in senso conservatore, e cosí fece in modo che le elezioni restassero in mano di quella parte della proprietà terriera che era legata a interessi commerciali e dei ceti capitalistici ad essa associati. L’antagonismo tra Whigs e Tories era di secondaria importanza; i comuni interessi delle classi rappresentate in Parlamento erano comunque prevalenti. Ma qualunque fosse il partito al governo, la vita politica era guidata dall’aristocrazia, che influiva in modo decisivo sulle elezioni e riduceva la borghesia alla condizione di satellite. Quando il potere passava dai Tories ai Whigs, ciò significava soltanto che l’amministrazione favoriva il commercio e le sette dissidenti, piuttosto che la proprietà terriera e la Chiesa anglicana; ma, pur nel regime parlamentare, non si usciva dall’oligarchia. I Whigs non volevano un Parlamento senza re né privilegi nobiliari, piú di quanto i Tories volessero una monarchia senza Parlamento. Ma nessuno di loro intendeva il Parlamento come rappresentanza popolare; lo consideravano semplicemente come la garanzia dei loro privilegi di fronte alla Corona. E per tutto il secolo xviii esso mantenne questo carattere di classe. A vicenda governavano il paese poche dozzine di famiglie tory o whig, che, mandando il primogenito alla Camera Alta e i cadetti ai Comuni, monopolizzavano la politica. Due terzi dei deputati erano semplicemente nominati dall’alto e il resto era eletto da non piú di 160 000 elettori, i cui voti, per giunta, si potevano in parte comprare. Il censo, che

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legava il diritto di voto soprattutto alla rendita fondiaria, assicurava senz’altro il predominio in Parlamento alla classe dei proprietari terrieri. Ma, nonostante le limitazioni del suffragio, il commercio dei voti e la venalità dei parlamentari, l’Inghilterra già nel Settecento era una nazione moderna, che si liberava a poco a poco dai residui del Medioevo. I suoi cittadini comunque godevano di una libertà personale ancora sconosciuta nel resto d’Europa; e gli stessi privilegi sociali, qui legati soltanto al possesso della terra e non, come in Francia, a mistici diritti del sangue3, erano piú atti a riconciliare i ceti piú umili con le distinzioni di classe, già in sé e per sé piú elastiche. L’ordinamento della società inglese nel secolo xviii è stato spesso confrontato con le condizioni di Roma nell’ultimo periodo della repubblica, ma il fatto che la struttura della società romana con la sua classe senatoria, gli equites e i plebei si ripeta, in certo modo, in Inghilterra con le categorie dell’aristocrazia parlamentare, dei capitalisti e dei «poveri», non sarebbe in sé e per sé molto significativo: questa tripartizione è uno dei tratti distintivi di ogni società già evoluta ma non ancora livellata. Ciò che assicura speciale significato al parallelo fra l’Inghilterra e Roma è il dominio che l’aristocrazia esercita sul Parlamento, e il fatto che siano del tutto fluidi i confini tra patrizi e capitalisti. Ma il rapporto di queste classi con la plebe è abbastanza diverso nei due paesi. È, vero che gli autori romani dell’epoca, come quelli inglesi del Settecento non fanno mai cenno dei poveri4, ma a Roma il proletariato occupa continuamente l’attenzione pubblica, mentre è quasi del tutto trascurato nella politica inglese. Un’altra particolarità che distingue la società inglese dalla romana – e non soltanto da essa – è che la nobiltà, che altrove in circostanze analoghe s’impoverisce, in Inghilterra accresce la propria ricchezza e rimane il ceto piú influente5. È prova

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della sua saggezza politica non solo ch’essa consenta ai borghesi attività di grande profitto ed essa stessa vi partecipi, ma che rinunzi spontaneamente ai privilegi fiscali, a cui l’aristocrazia francese si attacca piú che mai6. In Francia soltanto la povera gente paga tasse, in Inghilterra soltanto i ricchi7, il che non migliora sostanzialmente la condizione dei poveri, ma assicura l’equilibrio al bilancio dello stato, mentre abolisce il privilegio piú odioso della nobiltà. L’aristocrazia mercantile che domina in Inghilterra non ha certo sensi e pensieri piú umani di quelli dell’aristocrazia in genere, ma, grazie all’esperienza degli affari, è dotata di maggior realismo e comprende a tempo che i suoi interessi s’identificano con quelli dello stato. La generale tendenza al livellamento, che si arresterà soltanto di fronte alla differenza tra ricco e povero, assume in Inghilterra forme piú radicali che altrove e qui per la prima volta crea rapporti sociali moderni, fondati essenzialmente sulla proprietà. Forti disparità nella gerarchia sociale vengono qui evitate non solo mediante una serie di gradi intermedi, ma anzitutto grazie all’indeterminatezza delle singole categorie. L’alta nobiltà inglese – la nobility – è indubbiamente una nobiltà di sangue, ma il titolo di pari è trasmesso esclusivamente al primogenito; i cadetti quasi non si distinguono dal resto della gentry. Ma i confini della piccola nobiltà sono fluidi anche verso il basso. In origine la gentry s’identificava con i gentiluomini di provincia – con la squirearchy – ma a poco a poco venne comprendendo non soltanto i notabili locali, ma anche tutti gli elementi che per ricchezza e cultura si distinguessero dagli esercenti, dai mercantucci e dai «poveri». Il concetto di gentleman perdette quindi ogni significato giuridico e il suo valore divenne incerto perfino nel riferirsi a un determinato modo di vita. Il criterio dell’appartenenza alla classe signorile venne limitandosi quasi esclusivamente a un certo livello culturale e all’orientamento

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ideologico. Questo spiega anzitutto un fenomeno veramente notevole e cioè che in Inghilterra il trapasso dall’aristocratico Rococò al borghese romanticismo avvenga senza la violenta scossa dei valori culturali che si verifica in Francia e in Germania. Il livellamento intellettuale in Inghilterra si manifesta nel modo piú chiaro nel sorgere di uno stabile pubblico di lettori: una cerchia relativamente ampia, in cui regolarmente si comprano e si leggono libri, e viene cosí assicurata a un certo numero di scrittori una vita libera da vincoli personali. La nascita di questo pubblico si deve anzitutto all’importanza che assume la borghesia agiata, che rompe il privilegio aristocratico della cultura e mostra un vivo e sempre crescente interesse per le lettere. Non ci sono in questo nuovo pubblico individui abbastanza ambiziosi e ricchi da farsi mecenati; ma esso è sufficientemente numeroso da garantire lo smercio di libri necessario a mantenere gli scrittori. La teoria secondo cui l’esistenza di questo pubblico si deve alla presenza di un ceto medio economicamente e politicamente influente viene non di rado contraddetta e in particolare si obietta che già nel Seicento la borghesia aveva raggiunto una sua importanza e che pertanto la funzione culturale che essa acquista nel Settecento non si può semplicemente spiegare con la sua migliorata condizione sociale8. È agevole ribattere in questo caso che la cultura artistica del Seicento, soprattutto per il puritanesimo della borghesia, rimase esclusiva della nobiltà di corte. Gli altri ambienti rinunziarono alla funzione che avevano avuto nell’età elisabettiana; quindi piú tardi dovettero prima riconquistarsi il loro posto nella cultura, cioè ripercorrere una via sulla quale non potevano procedere se non piú lentamente che su quella dell’ascesa economica e sociale. Il loro benessere dovette diffondersi e consolidarsi, perché la cultura borghese vi fondasse la sua egemonia. Infine la nobiltà stessa dovet-

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te far propri certi aspetti della mentalità borghese per formare con la borghesia un ceto intellettualmente omogeneo e rafforzare cosí il nuovo pubblico della letteratura; e questo poté avvenire solo quando essa entrò nella vita degli affari. L’antica aristocrazia di corte non dava luogo a un vero pubblico letterario; provvedeva in qualche modo ai suoi poeti, che non considerava produttori di beni indispensabili, ma servi alle cui prestazioni in certe circostanze si poteva anche rinunziare. Essa li sosteneva piú per motivi di prestigio che per il reale valore dell’opera loro. La lettura alla fine del Seicento non era un passatempo molto diffuso; la letteratura profana, fatta in gran parte di storie ormai antiquate d’amori e di avventure, non si rivolgeva che a nobili sfaccendati; e i libri eruditi non li leggevano che i dotti. La cultura delle donne, che doveva avere una parte cosí importante nella vita letteraria del secolo successivo, lasciava molto a desiderare. È noto, ad esempio, che la figlia maggiore di Milton non sapeva scrivere, e la moglie di Dryden, che pur veniva da una famiglia nobile, era sul piede di guerra con la grammatica e l’ortografia della sua lingua materna9. Gli unici libri che nel Seicento e agli inizi del Settecento avessero un largo pubblico erano quelli di edificazione; la letteratura amena d’argomento profano costituiva ancora una parte insignificante della produzione libraria10. Il volgersi del pubblico dai libri di devozione alla letteratura brillante profana, che del resto fin verso il 1720 trattava ancora soprattutto argomenti morali, e solo piú tardi cominciò a imperniarsi su altri piú leggeri, si può, contrariamente all’ipotesi di Schöffler11, attribuire solo indirettamente al carattere politico assunto dalla Chiesa per opera di Walpole e all’attività illuministica del clero anglicano. La politica liberale del governo e l’orientamento mondano della Chiesa Alta non erano che sintomi dell’illuminismo, che a sua

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volta era semplicemente l’espressione ideologica del disgregarsi del feudalesimo e dell’avvento delle classi medie. Ma l’aver chiarito la funzione del clero protestante nel diffondere la letteratura profana e nella formazione intellettuale del nuovo pubblico12 è tuttavia uno dei piú importanti risultati della moderna sociologia. In effetti senza la propaganda dal pulpito i romanzi di Defoe e di Richardson non avrebbero raggiunto tanta popolarità. Verso la metà del secolo il numero dei lettori cresce a vista d’occhio; si pubblicano libri in numero sempre maggiore e, a giudicare dalla prosperità del commercio librario, debbono trovare compratori. Sullo scorcio del secolo, la lettura è ormai fra le necessità vitali dei ceti superiori ed è stato osservato che il possedere libri è tanto naturale negli ambienti descritti da Jane Austen, quanto sarebbe stato strano nel mondo di Fielding13. Lo sviluppo del nuovo pubblico è favorito in primo luogo dai periodici, la grande invenzione del tempo, che si diffondono dal principio del secolo. La borghesia compie su di essi la sua educazione letteraria e mondana, ancora orientata essenzialmente secondo i criteri dell’aristocrazia. Anche questa, d’altronde, è molto cambiata dai tempi del suo predominio, e ha tratto insegnamento dalla vittoria dello spirito cittadino e borghese su quello di corte. Tuttavia la tensione fra i due modi di pensare e sentire, aristocratico e borghese, durerà ancora a lungo. La mentalità freddamente intellettualistica, la scettica superiorità dell’aristocratico non scompare da un giorno all’altro; si fa ancora sentire in molti modi nello stile ricercato e nella morale stoica dei periodici borghesi. Nella letteratura il gusto classicheggiante si mantiene anche piú a lungo che nei giornali: fino alla metà del secolo sono considerate qualità letterarie per eccellenza l’ingegnosità e l’arguzia, l’acutezza delle trovate e il virtuosismo tecnico, la chiarezza di pensiero e

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la purezza di linguaggio, le qualità insomma che troviamo nei seguaci di Pope e nei wits. Del resto nulla è piú indicativo del carattere transitorio di questa cultura, fra aulica e borghese, che quest’esiguo gruppo di letterati e dilettanti, impegnati a distinguersi dai comuni mortali per la cultura classica, il gusto difficile, il frizzo scherzoso e fatuo. La graduale scomparsa di questi intellettuali, di cui certe peculiarità vengono acquisite come naturale premessa della cultura letteraria, e altre invece appaiono sempre piú ridicole, e soprattutto il fatto che la loro futile arguzia cede al sano buon senso e la loro eleganza formale all’immediatezza del sentimento, sono tutti fenomeni che rientrano in una fase successiva dello sviluppo storico in cui si compie la completa emancipazione del gusto borghese in letteratura. Finalmente cessa del tutto la tensione fra le due correnti e alla letteratura borghese non si oppone piú nulla che possa indicarsi come aulico. Ciò non vuol dire che cessi ogni tensione, o che domini un gusto unico e unanime. Piuttosto si prepara un nuovo contrasto, che al gusto di una élite intellettuale opporrà quello dei lettori comuni; e già da ora si verificano certe deviazioni in cui si possono riconoscere quelle che saranno piú tardi le debolezze della letteratura amena. Il Tatler di Steele, pubblicato a partire dal 1709, lo Spectator di Addison che lo sostitui due anni dopo, e i successivi «settimanali morali» creano un collegamento letterario fra il dotto e il lettore comune, piú o meno istruito, fra l’ingegno brillante dell’aristocratico e il buon senso del borghese; rappresentano quindi una letteratura non aulica né veramente popolare, in cui il severo razionalismo, il rigore morale e l’ideale di rispettabilità stanno tra la visione cavalleresca dell’aristocrazia e quella della borghesia puritana. In questi periodici le brevi trattazioni pseudo-scientifiche e le discussioni di filosofia morale offrono la miglior introduzione alla lettura dei

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libri e dànno al pubblico il gusto della letteratura seria; essi fanno della lettura una consuetudine e una necessità per ceti relativamente larghi. Ma a loro volta i periodici sono una conseguenza diretta della nuova posizione sociale dello scrittore. Dopo la Gloriosa Rivoluzione questi non trova piú appoggio alla corte, che ormai non è piú quella d’un tempo e non riavrà mai piú la sua primitiva funzione culturale14. La parte di protettori delle lettere passa al partiti politici e al governo legato all’opinione pubblica. Al tempo di Guglielmo III e di Anna il potere è diviso fra Tories e Whigs e i due partiti, costretti a una perpetua gara per l’egemonia politica, non possono rinunziare alla letteratura come arma di propaganda. Gli scrittori stessi, volenti o nolenti, debbono prestarsi a questo compito; poiché è quasi scomparsa l’antica forma di mecenatismo e il libero mercato librario non può contare ancora su un pubblico sufficiente, essi non hanno fonti sicure di guadagno al di fuori della propaganda politica. Così, se Steele e Addison diventano giornalisti che direttamente o indirettamente rappresentano gli interessi dei Whigs, Defoe e Swift si dànno a scrivere libelli politici e fini politici perseguono anche nei romanzi. L’idea de «l’art pour l’art», se pur fossero stati tali da concepirla, sarebbe apparsa loro qualcosa di irresponsabile e in sé immorale. Robinson è uno scritto a tesi, di pedagogia sociale, e Gulliver una satira contro la società dell’epoca; entrambi sono nel piú stretto senso della parola propaganda politica, e quasi nulla piú. Certo non è il primo caso di letteratura militante, intesa a immediati fini sociali; ma le «bombe cartacee» di Swift e dei suoi contemporanei sarebbero state inconcepibili prima che si affermassero la libertà di stampa e la pubblica discussione dell’attualità politica. Solo ora lo scrittore che fa della sua penna un’arma adatta a ogni necessità, posta al servizio del miglior offerente, appare come normale fenomeno sociale.

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Il fatto che davanti a lui non stia piú una sola forza compatta, ma due partiti diversi, lo rende in certo modo indipendente, potendo egli scegliersi il padrone, piú o meno secondo le proprie inclinazioni15. Ma che l’uomo politico lo consideri semplicemente come alleato, questa è per lo piú una finzione utile e lusinghiera per le due parti. Quanto ai due massimi pubblicisti del tempo, Defoe in sostanza è persuaso di quanto sostiene e, nella passione di Swift, l’odio è schietto. Il primo, un whig, è profondamente ottimista, l’altro invece, com’è naturale per un tory del tempo di Walpole, è amaramente pessimista; l’uno è l’araldo di una borghese e puritana filosofia della vita, che ha fede in Dio e nel mondo; l’altro ostenta sarcastica superiorità, misantropia e disprezzo del mondo. I due campi politici in cui è divisa l’Inghilterra, hanno in loro i massimi esponenti letterari. Defoe è figlio di un macellaio di Londra che appartiene ai dissenzienti; il puritanesimo dei padri, oppresso ma inflessibile, echeggia nei suoi scritti. Egli stesso fu perseguitato sotto il governo tory, ligio alla Chiesa Alta. La vittoria dei Whigs giustificherà infine le speranze della sua classe e dei suoi compagni di fede; ed è proprio grazie a lui che l’ottimismo di questa borghesia avrà per la prima volta voce nella letteratura. Robinson Crusoe che, con le sole sue forze, vince la natura riluttante e crea dal nulla benessere, sicurezza, ordine, legge e costume, è il classico rappresentante del medio ceto. La storia delle sue avventure è tutto un inno alla solerzia, alla perseveranza, all’inventiva, al buon senso vittorioso di ogni difficoltà, insomma alle virtù pratiche della borghesia; è l’atto di fede di una classe sociale che tende ad elevarsi, conscia della propria forza, e a un tempo è il programma di una giovane e intraprendente nazione tesa a conquistare il mondo. Swift non vede di tutto questo che il rovescio della medaglia; non solo perché egli parte da un altro punto di vista sociale, ma anche perché ha

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ormai perduto la fede ingenua di Defoe. Egli è uno dei primi a sentirsi deluso dell’illuminismo, e questa sua esperienza esprime in una sorta di Candide iperbolico. È di quegli spiriti che l’odio rende geniali, e vede cose che gli altri non sanno vedere, perché odia piú intensamente degli altri e perché, com’egli scrive a Pope, vuol tormentare, non dilettare il mondo. Cosí comporrà il libro piú crudele di questo secolo, che pure non è certo povero di libri crudeli, benché cosí umano e sensibile. È impossibile immaginare qualcosa di piú contrario alla filantropia del Robinson di quest’altro grande «romanzo per giovinetti» della letteratura inglese, che in crudeltà può venire superato soltanto dal terzo esempio del genere, il Don Quijote. Tuttavia certi caratteri sono comuni al Gulliver e al Robinson. Anzitutto, da un punto di vista storico-letterario, entrambi risalgono a quei fantastici romanzi di viaggi e a quelle utopiche storie meravigliose cosí care al Rinascimento, di cui gli autori piú noti sono Cyrano de Bergerac, Campanella e Tommaso Moro. Inoltre essi hanno al loro centro gli stessi problemi filosofici, in particolare quelli sull’origine e il valore della civiltà umana. Solo in un tempo in cui le basi sociali della civiltà cominciavano a vacillare questi problemi potevano acquistare l’importanza che hanno per Defoe e per Swift, e solo perché furono diretti testimoni dell’assurgere di una nuova classe alla direzione della cultura essi poterono giungere a una formulazione cosí netta dell’idea che le diverse civiltà sono strettamente condizionate dai fattori sociali. Con lo sviluppo della letteratura di propaganda, si trasforma radicalmente la posizione economica e sociale dello scrittore. Ora che, in premio dei suoi servigi, gli sono concessi alti uffici e ricchi compensi, cresce agli occhi del pubblico anche il suo valore morale. Addison sposa una contessa di Warwick, Swift è in rapporti amichevoli con personalità come Bolinbroke e Harley, e al

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Kitcat Club un conte di Sunderland e un duca di Newcastle trattano alla pari Vanbrough e Congreve. Ma non dobbiamo mai dimenticare che questi scrittori sono apprezzati e rimunerati unicamente per i loro servigi politici e non per le loro qualità letterarie o morali16. E poiché sono gli uomini politici ora a disporre delle ricompense agli scrittori, soprattutto sotto forma di alti impieghi, i partiti e il governo assumono, nella letteratura, la posizione che un tempo avevano i circoli di corte e il re. Ma il prezzo ch’essi pagano è piú alto e i premi che toccano agli autori sono maggiori del compenso che una volta si concedeva a un poeta. Locke è commissario della Corte d’Appello e della Camera di Commercio, Steele esercita una funzione analoga presso l’Ufficio del Bollo, Addison diventa segretario di stato e quando lascia l’ufficio gli viene assegnata una pensione di milleseicento sterline; Granville è membro della Camera dei Comuni, diventa ministro della guerra e tesoriere della casa reale, Prior ottiene una legazione e Defoe viene incaricato di varie missioni politiche17. Mai e in nessun luogo come nell’Inghilterra del Settecento tanti scrittori vennero insigniti di cosí alti uffici e dignità. Questa situazione di eccezionale favore per gli scrittori giunge all’apogeo negli ultimi tempi della regina Anna e cessa del tutto con il ministero, Walpole, nel 1721. Con l’avvento al potere dei Whigs si creano condizioni per cui i letterati diventano inutili al governo, e finisce bruscamente il mecenatismo politico. L’egemonia del partito al governo appare cosí solida da poter fare a meno di ogni propaganda; e d’altronde l’influsso dei Tories è cosí scarso ch’essi non possono ricompensare gli scrittori per i loro servigi. Walpole, personalmente estraneo alla letteratura, non ha certo denaro superfluo né impieghi disponibili per gli autori. I posti piú lucrativi debbono esser concessi ai deputati, il cui appoggio è necessario in Parlamento, o a elementi di quei collegi

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elettorali, che si vogliono gratificare. D’altronde si è giunti al punto che, per quanti scrittori si soddisfino, ce n’è sempre di malcontenti, e nessuno ha tra loro tanti avversari come Halifax, il generosissimo mecenate18. Si fa il silenzio intorno ai poeti e ai letterati. Pope, Addison, Steele, Swift, Prior si allontanano dalla capitale e dalla vita pubblica, e tutt’al piú continuano a scrivere nella solitudine della campagna. La situazione economica dei giovani peggiora rapidamente. Thomson è cosí povero che deve vendere un canto delle sue Seasons* per comprarsi un paio di scarpe, e anche Johnson agli inizi deve lottare con la piú amara indigenza. Il letterato non è piú un gentleman; con la sicurezza economica, tramontano reputazione e dignità. Egli acquista cattive maniere, conduce una vita sregolata, diventa infido; e si finisce con tipi come Savage, impossibili al tempo della cultura di corte, e in certo modo precursori della moderna bohème. Per fortuna il mecenatismo privato non cessa cosí all’improvviso come quello politico. L’antica tradizione aristocratica non si era mai del tutto interrotta, e, adesso che gli scrittori possono e debbono volgersi nuovamente ai privati, essa rifiorisce. Il nuovo mecenatismo, in verità, non è diffuso come l’antico, ma in generale sa orientarsi con maggior competenza, sí che presto o tardi ogni scrittore di talento trova un mecenate, purché ci si metta d’impegno19. Comunque, in questa fase di passaggio dalla propaganda politica alla libera professione letteraria, erano pochi gli scrittori che potevano fare a meno dell’appoggio privato. Le recriminazioni contro i sistemi del patronato erano continue, ma non si sa di nessuno che abbia avuto il coraggio di affrancarsene. Eppure era meno scomodo dipendere da un mecenate che da un editore, sebbene il carattere piú personale del vincolo lo rendesse spesso in apparenza piú umiliante. Infatti anche Johnson, che per tutta la vita rifiutò di pro-

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curarsi un mecenate, e aveva poca stima del mecenatismo come istituzione, ammetteva che si potesse esser protetti da un gran signore, pur conservando la propria indipendenza. In questo senso i rapporti di Fielding con il suo protettore costituiscono una prova innegabile. Gli scrittori senza appoggi privati per lo piú dovevano lavorare a giornata, assumendosi traduzioni, compendi, revisioni, correzioni di bozze, collaborando a riviste e a enciclopedie popolari. Anche Johnson, il futuro arbitro della letteratura inglese, cominciò cosí la sua carriera, da povero coolie. Non si può includere in nessuna di queste categorie Pope, che apparentemente resta libero da ogni vincolo esterno, ma in realtà è al servizio di quell’aristocrazia che acquista i suoi libri per sottoscrizione e lo considera a buon diritto come suo. Col risorgere del mecenatismo privato, torna a diminuire la considerazione per lo scrittore di professione, e lo prova l’atteggiamento di uomini come Horace Walpole e lord Chesterfield, pur dotati di vasta cultura letteraria. La nota frase di quest’ultimo: «We, my lords, may thank Heaven that we have something better than our brains to depend upon»** caratterizza ottimamente l’opinione dominante. Ma anche una parte degli autori la pensano cosí e si dànno l’aria di scrivere per signorile diletto. A questa categoria appartiene Congreve, che vuol essere considerato da Voltaire soprattutto come gentleman e non come scrittore. Il mecenatismo cessa dopo la metà del secolo e verso il 1780 non c’è piú scrittore che conti su appoggi privati. Il numero dei poeti e dei letterati indipendenti, che vivono della loro penna, aumenta di giorno in giorno, come il numero di coloro che leggono e comprano libri fuori d’ogni rapporto personale con l’autore. Johnson e Goldsmith ormai scrivono solo per costoro. Al mecenate subentra l’editore; la sottoscrizione, che molto giustamente è stata detta una specie di mecenatismo col-

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lettivo, costituisce la forma di passaggio20. Il mecenatismo è la forma schiettamente aristocratica del rapporto fra scrittore e pubblico; la sottoscrizione, pur allentando il legame, ne conserva in parte il carattere personale; solo il libro stampato per il gran pubblico affatto sconosciuto all’autore corrisponde alla struttura della società borghese, fondata sulla circolazione anonima delle merci. La funzione dell’editoria come mediatrice fra autore e pubblico comincia quando il gusto borghese si viene emancipando dai canoni aristocratici, anzi di questo fenomeno essa è un chiaro sintomo. Solo allora si sviluppa una vita letteraria in senso moderno, di cui, oltre la regolare pubblicazione di libri, giornali e riviste, fa parte anche l’esperto di letteratura, in particolare il critico che rappresenta il livello medio del gusto e l’opinione pubblica. Ai precursori dei letterati settecenteschi, specialmente agli umanisti del Rinascimento, questa funzione era negata, anche solo per la mancanza della stampa periodica, cioè del mezzo veramente idoneo per influenzare il pubblico. Fino a mezzo il secolo xviii gli scrittori non erano vissuti dei proventi diretti dell’opera loro, ma di pensioni, prebende, sinecure, spesso indipendenti sia dall’intrinseco valore, che dalla popolarità dei loro scritti. Solo ora il prodotto letterario diventa merce, il cui valore dipende dalla richiesta sul libero mercato. Si può salutare questo mutamento con soddisfazione o con rammarico; comunque è certo che la trasformazione della professione di scrittore in attività indipendente e regolare sarebbe stata inconcepibile, nell’epoca del capitalismo, senza la metamorfosi della prestazione personale in merce impersonale. Solo per questa via i letterati hanno potuto conquistarsi una salda base economica e quella dignità che l’epoca moderna riconosce alla loro professione; infatti chi compra un libro pubblicato in un’edizione di mille esemplari non fa, almeno direttamente,

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una grazia all’autore, mentre il compenso per un manoscritto ha sempre l’aria di un’elemosina. Al tempo delle corti e dell’aristocrazia la rispettabilità di un uomo dipendeva dal rango del suo protettore; ora, in epoca liberale e capitalistica, egli gode tanto maggior prestigio quanto piú è libero da vincoli personali e quanto piú è fortunato in rapporti fondati unicamente sulla reciprocità delle prestazioni. La manovalanza letteraria non scompare affatto, ma la richiesta di scritti ameni e istruttivi, specialmente di enciclopedie storiche, biografiche e statistiche, è cosí grande che qualunque mediocre autore può contare su un provento sicuro21. In imprese come «La fabbrica letteraria» di Smollett, dove si lavora contemporaneamente a una traduzione del Don Quijote, a una storia d’Inghilterra, a un compendio di viaggi e a una traduzione delle opere di Voltaire, c’è lavoro per chiunque sappia tener la penna22. Si parla molto dello sfruttamento degli scrittori a quell’epoca, e certo gli editori non erano filantropi: ma Johnson afferma a loro lode che erano soci corretti e generosi, e sappiamo che gli autori noti e in voga ottenevano per l’opera loro somme che appaiono considerevoli anche riferite alle condizioni odierne. Hume, ad esempio, con la sua Storia di Gran Bretagna (1754-61) guadagnò tremilaquattrocento sterline, e Smollett con la sua opera storica (1757-65), duemila. Sono cambiate le cose dai tempi di Defoe, che per il manoscritto del Robinson dapprima non riuscí a trovare editori e finalmente ne ricavò dieci sterline. Con la conquista dell’indipendenza economica il prestigio dello scrittore sale a un’altezza finora ignota. Nel Rinascimento il poeta o l’umanista celebre era, sì, onorato ed esaltato, ma i mediocri venivano confusi con gli scrivani e i segretari privati. Solo adesso lo scrittore in quanto tale gode la stima che spetta al rappresentante di una sfera superiore; e il Dorat fa dire a un filosofo in una sua commedia: «Nous protégeons les

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grands protecteurs d’autrefois»***23. Soltanto ora nasce l’ideale della personalità creatrice, del genio artistico con una sua originalità e una sua gelosa soggettività, cosí come lo caratterizza Edward Young nelle sue Conjectures on Original Composition**** (1759). Questo motivo del carattere geniale della creazione artistica per lo piú non è che un’arma contro la concorrenza, e il soggettivismo dell’espressione è spesso una semplice forma di autopubblicità. In ogni modo, il soggettivismo dei poeti preromantici è, almeno in parte, una conseguenza del crescente numero degli scrittori, della loro situazione strettamente legata al mercato librario ed alla reciproca concorrenza, proprio come il movimento romantico, in quanto espressione spiccatamente passionale del nuovo modo di sentire borghese, è il prodotto di una concorrenza intellettuale e un’arma della borghesia contro la mentalità aristocratica, classicheggiante e incline alle regole e ai canoni generali. Finora la classe media si sforzava di far proprio il linguaggio artistico dei ceti superiori; ora invece, che è giunta a un grado di ricchezza e influenza che le consente di avere una sua propria letteratura, vuole imporre le proprie concezioni e parlare la sua lingua: e non sarà piú la semplice negazione dell’intellettualismo aristocratico, ma il linguaggio della sensibilità. La rivolta del sentimento contro il freddo intelletto rientra, come del resto l’insorgere del «genio» contro la costrizione di regole e formule, nell’ideologia dei ceti ambiziosi e progressivi nella loro lotta contro lo spirito conservatore e convenzionale. L’ascesa della moderna borghesia, come quella dei ministeriales nel Medioevo, è legata a un movimento romantico; il sovvertimento sociale, oggi come allora, finisce col dissolvere i vincoli formali, maturando una piú profonda sensibilità. Si è spesso parlato dell’evoluzione che dall’intellettualismo della cultura classicheggiante porta al senti-

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mentalismo romantico come di un cambiamento di gusto provocato dal tedio degli ambienti piú elevati per un’arte raffinata e decadente. Giustamente però si è obiettato che il desiderio di novità in sé è un fattore relativamente secondario nel mutare degli stili, e che una tradizione di gusto, quanto piú è antica ed evoluta, tanto meno è incline di suo ai cambiamenti. Un nuovo stile quindi si fa strada a fatica, quando non si rivolge a un pubblico nuovo24. L’aristocrazia del Settecento, comunque, forse non avrebbe avuto fondati motivi per rinunziare al proprio gusto, se la classe media non si fosse impadronita dell’iniziativa culturale. Essa difatti non era per nulla disposta a sottomettersi senz’altro a questa iniziativa, né a condividere il sentimentalismo dei ceti inferiori. Ma sappiamo che spesso la tendenza predominante di un’epoca ottiene l’adesione anche di quei ceti, ch’essa minaccia di distruggere. E proprio per questo fenomeno il Settecento è esemplare. Si sa che l’aristocrazia contribuí in modo eminente a preparare la Rivoluzione e se ne spaventò soltanto quando fu chiaro che cosa significasse la sua vittoria. Una funzione analoga l’alta società ebbe nello sviluppo della cultura anticlassica. Nell’assimilare e nel propagare le idee dell’illuminismo essa gareggiò con il ceto medio, spesso superandolo; soltanto la tempra di Rousseau, francamente plebea e irriverente, l’indusse a riflettere e a reagire. E di questa reazione è già un segno l’ostilità di Voltaire verso Rousseau. Ma per lo piú nelle personalità piú eminenti fin dall’inizio si ritrovano intrecciati elementi razionalistici e sentimentali; la loro finezza intellettuale le rende in certo modo insensibili ai loro propri interessi di classe. L’evoluzione dell’arte, già scarsamente unitaria nel Seicento, si fa, in quest’epoca preromantica, ancora piú complicata e, per certi riguardi, presenta un quadro persino piú oscuro che nel periodo successivo. L’Ottocento è ormai interamente dominato dalla

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borghesia in cui sono ben nette le distinzioni economiche, ma non troppo quelle culturali; l’unica divisione veramente profonda è quella che separa i ceti che godono del privilegio della cultura da quelli che ne sono esclusi. Invece nel Settecento sia l’aristocrazia, sia la borghesia sono divise in due campi: all’interno di ognuno di questi ceti si ha un gruppo conservatore e uno innovatore che, pur incrociandosi in molte guise, conservano il proprio carattere. Per l’origine, il romanticismo è un movimento inglese; come del resto la borghesia moderna, che in Inghilterra per la prima volta arriva a creare una sua espressione letteraria indipendente dall’aristocrazia, è un prodotto della situazione inglese. La poesia della natura di Thomson, i canti notturni di Young e le elegie ossianiche di Macpherson, come il sentimentale romanzo di costume di Richardson, Fielding e Sterne non sono che l’espressione letteraria dell’individualismo, di cui altre espressioni sono il laissez-faire e la rivoluzione industriale. Sono fenomeni di quell’epoca di guerre commerciali, con cui termina il trentennio di pacifico governo whig, e che alla Francia costa l’egemonia sull’Europa. Alla fine della contesa, l’impero britannico non soltanto è la prima potenza mondiale, non solo nel commercio internazionale ha lo stesso posto di Venezia nel Medioevo, della Spagna nel Cinquecento, della Francia e dell’Olanda nel Seicento; ma, contrariamente a quanto era accaduto a queste ultime, conserva all’interno la sua forza25 e le conquiste tecniche della rivoluzione industriale gli permettono di proseguire la lotta per l’egemonia economica. Le vittorie militari, le scoperte geografiche, i nuovi mercati e le nuove vie marittime, i capitali relativamente cospicui in cerca d’investimenti: ecco le premesse di quella rivoluzione. Il rapido susseguirsi delle invenzioni non si può spiegare soltanto con lo sviluppo delle scienze esatte e l’improvviso sorgere di doti

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tecniche. Le invenzioni si fanno perché si sanno utilizzare, perché c’è una richiesta di prodotti industriali che non può venir soddisfatta con gli antichi metodi, e perché si dispone dei mezzi materiali per il rinnovamento tecnico. Finora nella storia della scienza si era prestata scarsa attenzione alle possibili applicazioni industriali; solo a partire dall’ultimo terzo del Settecento la ricerca è dominata dall’indirizzo tecnologico. Tuttavia la rivoluzione industriale non apre un’era completamente nuova. Piuttosto essa continua uno sviluppo iniziatosi sin dalla fine del Medioevo. Non è una novità la scissione tra capitale e lavoro, né l’organizzazione industriale della produzione; da secoli c’erano macchine, e, da quando esisteva un’economia orientata in senso capitalistico, continuo era il progresso dei metodi razionali nella produzione. Ma ora questa si meccanizza e si razionalizza in modo decisivo, entrando in una fase che liquida affatto il passato. L’abisso tra capitale e lavoro si fa incolmabile e sia il dominio del capitale, sia l’oppressione e la miseria del lavoratore crescono fino a mutare tutto il colore della vita. Quindi, per quanto antichi siano gli inizi di quest’evoluzione, è pur vero che alla fine del Settecento sorge un mondo nuovo. Solo adesso scompare il Medioevo con tutti i suoi residui – lo spirito corporativo, i suoi modi di vita particolaristici, i sistemi di produzione irrazionali e tradizionali – per far posto a un’organizzazione di lavoro unicamente fondata sul metodo e sul calcolo, e a uno spietato individualismo nella concorrenza. Con la grande industria cosí organizzata secondo criteri di rigorosa razionalità, si apre l’età moderna nel vero senso della parola, l’età della macchina. Con essa sorge una nuova forma di azienda determinata dai mezzi meccanici, dalla rigida divisione del lavoro, dall’adattamento alla produzione in massa. Dal carattere impersonale del lavoro, che prescinde ormai dalle particolari attitudini del lavo-

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ratore, deriva la sempre piú fredda obiettività del rapporto fra imprenditore e prestatore d’opera. L’accentrarsi degli operai nelle città industriali, in balia delle oscillazioni sul mercato del lavoro, introduce condizioni piú dure e forme di vita meno libere. Il capitalista, legato a una solida impresa, si forma un nuovo, piú rigido ethos professionale; invece l’operaio, che non si sente legato in alcun modo alla fabbrica, smarrisce il senso etico del lavoro. Sorge infine una nuova struttura sociale: un nuovo ceto capitalistico (gl’imprenditori moderni), un nuovo ceto medio urbano dall’esistenza precaria (gli eredi dei piccoli commercianti e artigiani), e una nuova classe di lavoratori (il moderno proletariato industriale). Si perdono le antiche distinzioni di mestiere e il livellamento è spaventoso, specialmente nei gradi piú bassi. Artigiani, giornalieri, contadini senza terra e inurbati, operai provetti e inesperti, uomini, donne, fanciulli, tutti diventano semplici manovali in una grande industria che funziona macchinalmente, con regolamenti da caserma. La vita perde stabilità e continuità, ogni sua forma e ogni suo ordinamento vengono sconvolti, senza ricomporsi in un nuovo equilibrio. Un primo fattore di sconvolgimento sociale è rappresentato dall’urbanesimo. Mentre le «recinzioni» e la commercializzazione dell’economia agricola producono disoccupazione, le nuove industrie per contro offrono nuove occasioni di lavoro: si spopola quindi il villaggio e si sovrappopola la città industriale, che con le sue proporzioni e il suo affollamento rappresenta per le masse degli spostati un ambiente affatto insolito e sconcertante. Le città assomigliano a grandi campi di lavoro o a prigioni, sono scomode, sporche, malsane e incredibilmente brutte26. La vita della classe lavoratrice vi scende a un livello cosí basso, che in confronto quella del servo medievale sembra perfino idillica.

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Per condurre un’industria in modo da poter sostenere la concorrenza occorre un capitale cospicuo; e questo provoca una radicale scissione del lavoro dai mezzi di produzione e quindi quella lotta fra capitale e lavoro che è caratteristica della vita moderna. Poiché soltanto il capitalista può disporre dei mezzi di produzione, al lavoratore non rimane che offrire sul mercato le sue braccia, esponendosi al rischio di continue fluttuazioni dei salari e della disoccupazione periodica. La fabbrica con la sua concorrenza non travolge soltanto il proletariato operaio, ma anche le piccole aziende artigiane, che perdono l’indipendenza e ogni sicurezza. Del resto, il nuovo modo di produzione annienta anche la tranquillità e la sicurezza delle classi possidenti. La principale forma di ricchezza era stata finora la proprietà terriera che soltanto lentamente e con molte esitazioni si trasformava in capitale commerciale e bancario; per altro anche il capitale mobile interveniva nell’industria solo in piccola parte27. Solo dopo il 1760 l’impresa industriale diventa la forma preferita d’investimento. L’esercizio di una fabbrica con i suoi impianti di macchine, il suo consumo di materiale e il suo esercito di operai, esige tuttavia mezzi sempre piú grandi e provoca un’accumulazione di capitale piú forte che le forme precedenti di produzione. Con la concentrazione ormai sempre crescente della ricchezza e con gl’investimenti industriali comincia il grande capitalismo28. Ma cosí il processo capitalistico entra nella fase della grande speculazione. Prima l’economia rurale non conosceva né il rischio del capitale né la speculazione, e perfino nel commercio e nella finanza l’audacia non era frequente; a poco a poco le nuove industrie prendono la mano ai capitalisti e spesso gli imprenditori giocano poste troppo forti per poterne sopportare agevolmente la perdita. Una vita cosí precaria genera, pur nell’effettiva prosperità, uno

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stato d’animo da cui scompare irrimediabilmente l’antico ottimismo. Il nuovo tipo del capitalista – il capitano d’industria – con la sua nuova funzione sviluppa nella vita economica nuove attitudini, ma anzitutto una nuova disciplina e una nuova valutazione del lavoro. Egli in certo modo fa passare in seconda linea gli interessi commerciali, dedicandosi tutto all’organizzazione interna della sua impresa. Il principio della convenienza, del metodo e del computo, importante fin dal secolo xv nell’economia dei maggiori paesi, ora diventa esclusivo. L’imprenditore vi si sottomette non meno inesorabilmente dei suoi operai e impiegati, e diventa schiavo dell’officina al pari dei suoi dipendenti29. L’idealizzazione del lavoro come forza etica, l’esaltazione e il culto di cui lo si fa oggetto non sono, in fondo, che la trasfigurazione ideologica della brama di successo e di guadagno, e un mezzo con cui si tenta di spronare a una cooperazione entusiastica anche quegli elementi che meno partecipano ai frutti del proprio lavoro. Nell’ambito della stessa ideologia rientra anche l’idea di libertà. Per il rischio connaturato alla sua attività, l’industriale deve godere di completa indipendenza e libertà di movimento, cosí da non essere impedito da alcuna ingerenza dall’esterno, né danneggiato rispetto ai concorrenti da alcun provvedimento statale. Nel trionfo di questo principio sull’antica legislazione medievale e mercantilistica consiste essenzialmente la rivoluzione industriale30. Solo con il principio del laissez-faire comincia l’economia moderna, e l’idea della libertà individuale si afferma soltanto come ideologia del liberismo. Il che veramente non impedisce che l’idea del lavoro, e quella stessa della libertà, si evolvano successivamente in valori etici autonomi e vengano spesso intese in senso veramente idealistico. Ma per non dimenticare quanto poco di idealistico vi fosse all’origine del liberismo, basta tener presente che

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la rivendicazione di libertà per l’industria era anzitutto rivolta contro l’artigiano qualificato, che cosí veniva a essere privato dell’unico vantaggio ch’egli avesse di fronte all’imprenditore. Lo stesso Adam Smith era ancora ben lontano dal ricorrere a motivi ideali per giustificare la libera concorrenza: egli scorgeva anzi nell’egoismo e nell’interesse personale la miglior garanzia per un perfetto funzionamento dell’organismo economico e per il pubblico bene. Per questa fede nell’autodisciplina dell’economia e nell’automatico equilibrio degli interessi ci voleva tutto l’ottimismo illuministico; appena questo cominciò a languire, divenne sempre piú difficile identificare la libertà economica con l’interesse generale e scorgere nella libera concorrenza una benedizione per tutti. Il distacco dell’autore dalle sue figure, la sua posizione severamente intellettualistica di fronte al mondo, il suo ritegno nei rapporti con il lettore, insomma il suo riserbo classico-aristocratico cessa appunto quando si fa strada il liberismo. Il principio della libera concorrenza e il diritto all’iniziativa personale hanno il loro parallelo nel desiderio dell’autore di esprimere i suoi propri affetti, di affermare la sua personalità, facendo del lettore un testimonio diretto di un’intima lotta dell’anima e della coscienza. Non si tratta soltanto di una versione letteraria del liberismo, ma anche di una protesta contro quel meccanico, impersonale livellamento della vita proprio dell’economia abbandonata a se stessa. L’individualismo traduce il laissez-faire nella vita morale, ma nello stesso tempo protesta contro una società in cui gli uomini, avulsi dalle loro inclinazioni personali, non sono piú che esponenti di funzioni indifferenti, compratori di merci standardizzate, comparse in un mondo sempre piú livellato. Le due forme fondamentali della causalità sociale, l’imitazione e l’opposizione, si uniscono per creare il clima del romanticismo. Il suo individualismo

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è una protesta delle classi progressiste contro l’assolutismo e l’intervento statale, ma anche una protesta contro i fenomeni concomitanti e le conseguenze di quella rivoluzione industriale, che pure segna la definitiva emancipazione della borghesia. Il romanticismo palesa il suo carattere polemico, soprattutto nel fatto che non solo assume forme individualistiche, ma fa dell’individualismo un programma. Il suo ideale della personalità, come la sua visione generale, si formula dapprima come contraddizione e negazione. Individui forti e ostinati c’erano sempre stati e fin dal Rinascimento l’uomo occidentale è conscio della propria individualità; ma un individualismo come rivendicazione e protesta contro una forma di civiltà che spersonalizza l’uomo si dà soltanto dalla metà del secolo xviii. Anche nella letteratura, naturalmente, già in epoche anteriori si erano espressi conflitti tra l’io e il mondo, l’individuo e la società, il cittadino e lo stato; ma l’antagonismo non era mai sentito come conseguenza dell’urto fra il carattere del personaggio e la collettività. Nel dramma, per esempio, il conflitto non risultava dal tema del singolo che si isola per principio dalla società, o di una cosciente rivolta contro i vincoli sociali, ma da un concreto, personale contrasto tra i vari personaggi. La teoria che interpreta la tragicità del dramma antico partendo dall’idea d’individuazione, teoria del tutto arbitraria, si rivela, a ben considerare, una costruzione dell’estetica romantica, insostenibile, per quanto suggestiva. Prima dell’età romantica l’individualismo come comportamento non era mai diventato un problema, e quindi non poteva neppure diventare tema di un conflitto drammatico. Come l’individualismo, anche il sentimentalismo serve alle classi medie anzitutto come un mezzo per esprimere la loro indipendenza spirituale dall’aristocrazia. Si affermano e si accentuano i propri sentimenti non perché d’un tratto siano divenuti piú forti e piú intimi;

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si esagerano attraverso l’autosuggestione, in quanto essi rappresentano un atteggiamento opposto al contegno aristocratico. Il borghese cosí a lungo disprezzato si specchia nella propria vita psichica e si vede tanto piú importante quanto piú seriamente considera i suoi sentimenti, stati d’animo, impulsi. Certo fra la media e la piccola borghesia, dove questo sentimentalismo ha le piú profonde radici, il culto dei sentimenti non è solo un premio d’assicurazione per il successo, ma insieme un indennizzo per l’insuccesso nella vita pratica. Ma appena trovata la sua espressione artistica, il nuovo indirizzo si affranca piú o meno dalla sua origine e va per la sua strada. Il sentimentalismo, che all’inizio era espressione della coscienza di classe della borghesia ed era da intendere come un rifiuto dell’alterigia aristocratica, si sviluppa poi in un culto della sensibilità e della spontaneità, che sempre meno ha a vedere con lo spirito antiaristocratico. Da principio ci si abbandona all’esuberanza del sentimento, proprio per contrasto all’aristocrazia contegnosa e padrona di sé; ben presto però la ricchezza affettiva e il calore espressivo assurgono a valori artistici e come tali l’aristocrazia li accetta. Deliberatamente si ricercano le forti commozioni e a poco a poco si giunge a un vero virtuosismo sentimentale; ci si strugge di compassione e alla fine l’arte sembra non aver altro scopo che di muovere gli affetti e svegliare le simpatie. Il sentimento diventa il veicolo piú sicuro fra artista e pubblico, e il mezzo piú efficace per l’interpretazione della realtà; respingere l’espressione dei sentimenti significa ormai rinunciare senz’altro all’effetto artistico, ed essere insensibile equivale ad essere ottuso. L’austerità del costume, come l’individualismo e il sentimentalismo, è per la borghesia un’arma contro la mentalità di corte. Ma piú che di una semplice continuazione delle antiche virtú borghesi della semplicità, dirittura e pietà, si tratta di una protesta contro la fri-

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volezza e lo spreco di un ceto della cui leggerezza gli altri devono fare le spese. Specie in Germania, la borghesia ostenta la propria morigeratezza soprattutto contro l’immoralità dei principi, ch’essa osa attaccare soltanto in questo modo indiretto. Ma non è neppur necessario parlare apertamente della loro corruzione; basta lodare i costumi del borghese, perché ognuno capisca il riferimento31. Del resto si verifica anche qui il solito fenomeno del Settecento: l’aristocrazia accetta le vedute e i criteri borghesi; anch’essa segue la moda della virtú, come già quella della sensibilità. Ad eccezione di alcuni specialisti del genere osceno, neppure i romanzieri francesi ci tengono, ormai, ad aver fama di frivolezza. Adesso il pubblico desidera l’esaltazione della virtú e la condanna del vizio. Forse anche Rousseau avrebbe dedicato meno spazio alle prediche morali, se non avesse saputo che Richardson doveva gran parte del suo successo a tali excursus32. Ma se la tendenza all’individualismo, al sentimentalismo, al moralismo, era in certa misura connaturata alla mentalità borghese, la letteratura preromantica comunque valse a suscitare altre tendenze, affatto estranee a questo primitivo orientamento: anzitutto, in contrasto con l’ottimismo di un tempo, l’inclinazione alla malinconia, allo stato d’animo elegiaco, anzi a un deciso pessimismo. Questo fenomeno non si spiega con un naturale mutamento intimo, bensí con spostamenti e sovvertimenti dell’equilibrio sociale. Anzitutto gli esponenti del movimento romantico non appartengono piú ai medesimi ceti che nella prima metà del secolo fornivano il contingente borghese al pubblico letterario. Si fanno avanti ora i ceti piú umili, che non hanno alcun contatto intellettuale con l’aristocrazia e hanno meno ragioni di ottimismo della borghesia, che ormai appartiene ai ceti economicamente privilegiati. Ma anche l’antico pubblico, quei borghesi cosí vicini alla nobiltà, avevano assunto un

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nuovo atteggiamento spirituale. L’euforia della vittoria, la sicurezza, la fiducia in sé, quasi illimitate all’epoca dei primi successi, ristagnano e alla fine si volatilizzano. Ci si avvezza ai beni acquistati, si comincia a prender coscienza di quanto manca, e forse si sente già la pressione, carica di minaccia, dei ceti inferiori. Certo la miseria degli sfruttati diventa inquietante e opprimente. Una profonda malinconia afferra gli animi; si vedono tutte le ombre e le manchevolezze della vita; la morte, la notte, la solitudine, il desiderio struggente di un mondo lontano, ignoto, sottratto al presente diventano i temi maggiori della poesia; e ci si inebria di dolore, come, un tempo, di voluttuosa sensibilità. Nei primi cinquant’anni del secolo la letteratura borghese aveva ancora un carattere schiettamente pratico e realistico; la sostenevano un sano buonsenso e un vivo amore dell’immediata realtà. Ma dopo la metà del secolo, ci accorgiamo che i suoi motivi essenziali sono mutati, che quelli ora prevalenti sono motivi di evasione; soprattutto si cerca di evadere dal rigore della ragione e della coscienza nel campo dell’emotività irresponsabile, dalla cultura e dalla civiltà nel libero stato di natura, dalla precisa realtà del presente nell’indefinito del passato interpretabile a piacere. Spengler ha fatto notare una volta la stranezza senza precedenti del culto settecentesco delle rovine33; ma ricordiamo che altrettanto strana era nell’uomo colto la nostalgia del primitivo stato di natura e altrettanto senza precedenti era l’impulso suicida della ragione a dissolversi nel caos del sentimento. E tutte queste tendenze si avvertono nella letteratura inglese anche prima di Rousseau. A differenza della nostalgia per il passato storico, che nacque solo col romanticismo, l’aspirazione alla natura come rifugio dalle convenzioni della civiltà, aveva già lontani precedenti. Come sappiamo, essa ricompare piú volte, nelle forme della bucolica, all’apogeo delle civiltà urbane e

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auliche, e anche indipendentemente dal naturalismo artistico, anzi spesso in contrasto con esso. Anche nel Settecento l’amore della natura ha carattere piú morale che estetico e non ha, si può dire, nulla di comune con il verismo posteriore. Per i poeti preromantici vi è un diretto rapporto fra «l’innocenza della natura» e il probo, semplice, modesto borghese che ora per la prima volta appare nella letteratura – in Goldsmith, per esempio – come una figura ideale; essi considerano lo sfondo agreste come il piú adatto e intonato alla condotta di un tal uomo. Ma nell’intendere e nel descrivere la natura non vanno piú in là di quanto loro consenta lo sviluppo normale e continuo dei mezzi espressivi. Il loro culto per la natura è diverso da quello dei loro predecessori solo nelle premesse morali. Anche per loro la natura è ancora espressione dell’idea divina ed essi appunto l’interpretano ancora secondo il principio del «Deus sive natura»; una visione piú diretta e spregiudicata l’avrà soltanto l’Ottocento. Tuttavia la generazione preromantica – e in questo si differenzia dalle epoche precedenti – sente già la natura come manifestazione di forze morali, operanti secondo concetti umani. Il mutare delle ore e delle stagioni, il silenzio della notte lunare e l’infuriare della tempesta, il misterioso paesaggio montano e il mare insondabile, sono un dramma sublime, uno spettacolo che traduce in proporzioni grandiose le vicende del destino umano. La natura anzitutto occupa ora nella poesia uno spazio assai maggiore; e anche in ciò il romanticismo apre una via nuova rispetto al classicismo che guardava unicamente all’uomo; tuttavia non si ha una rottura con l’antropocentrismo della poesia precedente, ma solo un trapasso dall’umanesimo illuministico al naturalismo moderno. La concezione preromantica della natura rivela il suo carattere eterogeneo nel giardino inglese, il gran simbolo dell’epoca, in cui elementi naturali e artificiali si tro-

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vano appunto fusi insieme. Esso è una protesta contro la linea retta, contro tutto ciò che è rigido e geometrico, e insieme l’adesione all’ideale dello sviluppo organico, irregolare, pittoresco; ma con le sue collinette artificiali, i gruppi d’alberi, gli stagni, le isole, i ponticelli, le grotte e le rovine, costituisce un complesso innaturale quanto il parco francese, benché si ispiri a un gusto diverso. Del resto che si sia ancora lontani da un netto rifiuto del classicismo, lo mostra il fatto che gli stessi artisti, che disegnano i giardini romanticamente pittoreschi, si ispirano poi al manierismo palladiano, quando hanno da costruire palazzi. Lo stile neogotico, che ora viene di moda, è usato soltanto in opere di minor importanza, come ville e castelli che arieggiano la casa di campagna34. In arte l’alta società distingue chiaramente tra funzioni di rappresentanza e funzioni private, e a queste sole ritiene appropriata la forma anticlassica. Un Horace Walpole, che fa costruire in stile gotico il suo castello di Strawberry Hill, e con il suo Castle of Otranto introduce la moda del romanzo d’argomento medievale, è tutt’altro che uno spirito romantico; quando si tratta della grande arte ufficiale, egli professa sempre gli ideali classici tradizionali. Tuttavia, anche se i suoi esperimenti medievali sono, come è stato giustamente affermato35, solamente l’espressione di un superficiale amore di novità, il loro gusto romantico non è perciò meno indicativo, come segno dei tempi. Per movimenti storico-stilistici come il romanticismo è quasi impossibile determinare l’inizio; spesso risalgono a tendenze che sono emerse all’improvviso in passato e poi sono cadute per non aver incontrato alcun favore; e sono rimaste, cioè, dei tentativi individuali senza speciale rilievo sociologico. Manifestazioni di tipo «romantico» si incontrano fin dal Seicento, e nella prima metà del Settecento ne troviamo a ogni passo. Tuttavia di romanticismo in senso proprio non si può

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parlare prima di Richardson; egli è il primo a presentare tutti i tratti essenziali dello stile romantico. E sa trovare per il nuovo gusto una formula cosí felice che tutta la letteratura romantica con il suo soggettivismo e sentimentalismo sembra derivare da lui. Certo, mai un artista cosí mediocre ha esercitato un influsso tanto profondo e duraturo; in altre parole, mai l’importanza storica di un artista ha avuto cause cosí completamente estranee all’arte. Per l’influsso di Richardson fu decisivo il fatto che egli per primo mise al centro di un’opera letteraria l’uomo nuovo delle classi medie, con la sua vita privata, la sua cornice casalinga, le sue faccende famigliari, fuori d’ogni falsa avventura o vicenda meravigliosa. Le sue sono storie di borghesi comuni, non di bricconi o d’eroi; non gli importano gli atti patetico-eroici, ma le semplici, intime ansie del cuore. Egli rinunzia ad accumulare pittoreschi e fantastici episodi e si concentra unicamente sul dramma spirituale dei suoi eroi. La materia dei suoi romanzi è una tenue favola, un puro pretesto all’analisi dei sentimenti e all’esame di coscienza. Le sue figure sono in tutto romantiche, ma scevre di tratti romanzeschi o picareschi36. Egli è anche il primo che crei tipi non piú esattamente definibili; quel che egli rappresenta è lo sgorgare e il fluttuare dei sentimenti e delle passioni; i personaggi come tali non lo interessano. Con il restringersi del romanzo alla vita privata del ceto medio, discreta e spesso idillica, con la limitazione dei temi ai semplici, essenziali fatti della vita famigliare, e la predilezione per destini e personaggi umili e modesti; insomma, con il ridursi del romanzo alle scene domestiche dell’ambiente borghese, si afferma anche qui un proposito morale. Questo processo non dipende soltanto dal mutamento sociale del pubblico e dall’ingresso del ceto medio nella letteratura, ma anche dal nuovo puritanesimo, che verso la metà del secolo si diffonde in tutta la società inglese, fornendo a questa

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letteratura un piú vasto pubblico37. Il romanzo famigliare e di costume ha principalmente un fine didattico, e le opere di Richardson non sono in sostanza che trattati morali in forma di commoventi storie d’amore. L’autore si assume il ruolo di curatore d’anime, discute i grandi problemi della vita, costringe il lettore a un esame di coscienza, chiarisce i suoi dubbi e lo assiste con paterni consigli. Lo si è chiamato a buon diritto «confessore protestante» e non per nulla i suoi libri vennero raccomandati dal pulpito. Se ne può capire l’efficacia solo quando se ne tenga presente il duplice scopo, di divertimento e di edificazione, e si rifletta che non solo, in quanto lettura famigliare del medio ceto, essi rispondevano a un’esigenza nuova, ma anche che ne eliminavano una vecchia, soppiantando la lettura della Bibbia e di Bunyan38. Oggi, che già da lungo tempo il soggettivismo è consolidato nella letteratura, è difficile spiegare che cosa in quei romanzi potesse tanto avvincere e commuovere i contemporanei; ma non dobbiamo dimenticare che fino ad allora nei libri non c’era stato ancora nulla che si potesse paragonare all’intima e nervosa sensibilità di quella pittura dei sentimenti. La ricchezza passionale di quei romanzi era una rivelazione, e l’immediatezza con cui i loro personaggi confessavano se stessi sembrava insuperabile, per quanto artefatto e impacciato ne possa apparire oggi il tono. Ma allora esso era nuovo, veniva dal profondo dell’anima cristiana, malsicura nella lotta per la vita e in cerca di un nuovo appoggio. La borghesia intese immediatamente l’importanza dello studio psicologico e comprese che nell’intensa affettività, nell’interiorità di quei romanzi si rivelava qualcosa di ben suo. Sentí che solo di qui poteva nascere una cultura propriamente borghese e giudicò i romanzi di Richardson non già secondo il gusto tradizionale, ma esclusivamente secondo i principî della propria ideologia. Dalla sua stessa natura sociale sviluppò nuovi

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canoni estetici, anzitutto quelli della verità soggettiva, della sensibilità e dell’intimità, dando cosí l’avvio all’estetica del moderno lirismo. Ma anche gli aristocratici erano consci dell’importanza sociale di questa letteratura di confessione e da principio ne respinsero ostilmente l’esibizionismo plebeo. Horace Walpole giudica i romanzi di Richardson storie lamentose e noiosissime, che descrivono la vita come la vede un libraio o un predicatore metodista. Voltaire tace su Richardson e persino un d’Alembert ne parla con molto riserbo. La buona società accoglie il soggettivismo romantico solo quando se n’è ormai cancellata l’origine e in parte mutata la funzione sociale. Come il soggettivismo, cosí anche la morale di Richardson è estranea all’alta società. Le sue raccomandazioni e i suoi ammonimenti, che additano all’ambizioso borghese la via del successo, costituiscono un’etica di cui nobiltà e alta borghesia non sanno che farsi. In fondo è la morale del solerte garzone di Hogarth, che sposa la figlia del suo principale, o della virtuosa fanciulla del romanzo di Richardson, che alla fine è sposata dal padrone, un tema che nella letteratura moderna diverrà uno dei piú popolari. Pamela è il prototipo di tutte le moderne storie di questa specie, in cui sogni e desideri sono il motivo di fondo. Da Richardson il tema si svilupperà sino ai film dei nostri giorni, in cui l’irresistibile segretaria che resiste a ogni seduzione, alla fine conduce a giuste nozze l’insolente principale. I romanzi moraleggianti di Richardson contengono il germe dell’arte piú immorale che mai sia esistita: in particolare essi segnano l’inizio di quelle fantasie in cui l’onestà è solo un mezzo adatto allo scopo, e incoraggiano ad abbandonarsi a pure illusioni, anziché a sforzarsi di risolvere gli effettivi problemi della propria vita39. Anche per ciò essi costituiscono una delle piú importanti fratture nella storia della letteratura moderna: finora le

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opere dei poeti erano veramente morali o immorali; d’ora in poi i libri che vogliono apparire morali per lo piú non sono che moraleggianti. Nella lotta con i ceti superiori, il borghese perde la sua innocenza e, poiché deve accentuare troppo spesso la sua virtú, diventa un ipocrita. La forma autobiografica del romanzo moderno, sia la narrazione in prima persona, sia la forma epistolare o di diario, serve soltanto ad accrescere l’intensità espressiva ed è un mezzo per sottolineare il volgersi dell’attenzione dall’esterno all’interno. Ridurre la distanza fra il soggetto e l’oggetto sarà d’ora in poi il fine ultimo di ogni fatica letteraria. Con la ricerca dell’immediatezza psicologica mutano tutti i rapporti tradizionali fra l’autore, il protagonista e i lettori: non solo cambia il rapporto dell’autore con il pubblico e con i personaggi dell’opera sua, ma anche l’atteggiamento del lettore verso quest’ultimi. L’autore fa del lettore un confidente e gli si rivolge in forma diretta, quasi col vocativo. Il suo tono è imbarazzato, nervoso, oppresso, come s’egli parlasse sempre di sé. Egli s’identifica con il suo eroe e cancella i limiti fra finzione e realtà. Per sé e per i suoi personaggi crea un limbo, ora lontano dal mondo del lettore, or confuso con esso. Di qui specialmente nasce l’atteggiamento di Balzac verso le figure dei suoi romanzi, di cui egli soleva parlare come di conoscenze personali. Richardson s’innamora delle sue eroine e versa lacrime amare sul loro destino; ma anche i suoi lettori parlano e scrivono di Pamela, Clarissa e Lovelace come di persone vive40. Sorge un’intimità, finora ignota, fra il pubblico e gli eroi dei romanzi; il lettore non solo presta loro una vita che trascende i confini dell’opera, non soltanto li immagina in situazioni che con essa nulla hanno in comune, ma li mette continuamente in rapporto con i problemi e le mete, le speranze e i disinganni della propria vita. Il suo interesse si fa puramente personale ed

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egli finisce col pensarli solo in rapporto al proprio io. Naturalmente, anche prima si prendeva esempio dagli eroi del grande romanzo cavalleresco e d’avventura che assumevano valore ideale in quanto idealizzazioni di uomini veri, o loro modelli ideali. Ma al lettore comune non sarebbe mai venuto in mente di paragonarsi con loro e di attribuirsi i loro diritti. Gli eroi si movevano in tutt’altra sfera: erano figure mitiche, sovrumane nel bene e nel male. La distanza del simbolo, dell’allegoria o della fiaba li divideva dal mondo del lettore, evitando un contatto troppo diretto. Ora invece è come se l’eroe del romanzo non facesse che dar compimento alla vita insoddisfatta di chi legge, attuandone le possibilità mancate. Chi mai infatti, almeno una volta, non è stato sul punto di vivere un romanzo, di diventare un eroe del romanzo? Di tali illusioni si fa forte il lettore per equipararsi al protagonista, reclamandone per sé nella vita la posizione eccezionale, i diritti d’immunità. Richardson lo invita appunto a sostituirsi all’eroe del romanzo, a romanticizzare la propria vita, e lo incoraggia ad esimersi dall’adempire i prosaici doveri quotidiani. Cosí autore e lettore divengono protagonisti del romanzo, civettano continuamente fra loro, in una relazione illegale, contraria alle regole del gioco. L’autore parla al pubblico dalla ribalta, e spesso i lettori lo trovano piú interessante dei suoi personaggi. Essi ne gustano le osservazioni personali, le riflessioni, le «didascalie» e, ad esempio, concedono a uno Sterne di non uscir mai dalle glosse marginali per affrontare il racconto vero e proprio. Sia per l’autore, sia per il pubblico l’opera è soprattutto espressione psicologica, e il suo valore consiste nell’immediatezza e nel carattere personale dell’esperienza descritta. Il lettore è conquistato soltanto se quel che viene raccontato prende l’apparenza di un evento che sconvolge nell’intimo ed è decisivo per il destino

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individuale. Per impressionare, l’opera dev’essere un dramma coerente e completo, che si compone però di tanti piccoli «drammi» ognuno dei quali si acuisce in un particolare effetto di chiusa. Un’opera veramente efficace si svolge come un continuo crescendo, da una punta all’altra, da un’acme all’altra. Di qui l’espressione affettata, forzata e spesso spasmodica delle nuove opere d’arte e di letteratura. Tutto vi tende all’effetto immediato, tutto mira alla sorpresa e allo stupore. Si vuole il nuovo per amor del nuovo, si cerca quel che è piccante e strano, perché solletica i nervi. Da quest’esigenza nascono i primi racconti paurosi e i primi romanzi «storici» con la loro atmosfera misteriosa, piena di falso pathos. Tutto ciò porta a un abbassamento del livello culturale e segna il principio di una decadenza. La cultura artistica dell’Ottocento per molti aspetti è superiore a quella settecentesca, ma ha un difetto ignoto al Rococò: le manca il gusto sicuro ed equilibrato, se pur non sempre molto agile, dell’arte aulica. Naturalmente, anche prima del movimento romantico non mancavano nell’arte produzioni deboli e insignificanti, ma tutto quel che non era puro dilettantismo aveva una certa dignità; e come nelle opere letterarie non si incontrava nulla di simile alla psicologia da strapazzo e al deteriore sentimentalismo che piú tardi invasero la letteratura amena, cosí l’arte figurativa ignorava il cattivo gusto che rese possibili manifestazioni come il neogotico. Questi fenomeni compaiono soltanto col passaggio dell’iniziativa culturale dall’alta società al medio ceto, benché non sempre nascano da quest’ultimo. Del resto, per giudicare un tal mutamento, il criterio del gusto si rivela troppo ristretto e sterile, perché convenga insistervi. Il «buon gusto» non solo è un concetto storicamente e sociologicamente relativo, ma anche come termine di valutazione estetica ha un’importanza limitata. Le lacrime versate nel Settecento su romanzi, drammi, opere musicali non

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solo indicano un mutamento di gusto e uno spostarsi dei valori estetici dalla squisitezza e dal ritegno all’effetto drastico e sforzato, ma segnano anche l’inizio di una nuova fase nello sviluppo di quella sensibilità occidentale che già aveva trionfato nell’età gotica e raggiungerà l’apogeo nell’arte dell’Ottocento. Questa svolta significa una rottura col passato assai piú radicale dell’illuminismo stesso, che in sé rappresenta soltanto la continuazione e il compimento di un processo in atto sin dalla fine del Medioevo. Di fronte a un fenomeno come questo nuovo orientamento sentimentale della cultura, che sfocia in un’idea affatto nuova della poesia, non vale il semplice punto di vista del gusto. «La poésie veut quelque chose d’énorme et sauvage»*****, diceva già Diderot41 e, se anche quest’audacia selvaggia non trova pronta espressione, essa è sempre presente al poeta come un ideale, come l’esigenza assoluta di commuovere, di soggiogare, di sedurre e straziare i cuori. I «difetti di gusto» dei preromantici sono all’origine di una vasta corrente che include opere fra le piú alte dell’arte ottocentesca. Senza di essi l’irruenza di Balzac, la sottigliezza di Stendhal, la sensibilità di Baudelaire sarebbero altrettanto inconcepibili che il sensualismo di Wagner, la spiritualità di Dostoevskij e la nervosa penetrazione di Proust. Le tendenze romantiche affioranti in Richardson trovarono in Europa una formulazione di generale validità per opera di Rousseau. L’irrazionalismo, che in Inghilterra solo a rilento poté farsi strada, trovò altrove un piú ampio sviluppo e proprio grazie a quello svizzero, che Madame de Staël definiva giustamente come il rappresentante dello spirito nordico, cioè tedesco, nella letteratura francese. Le nazioni dell’Europa occidentale erano cosí profondamente permeate delle idee dell’illuminismo razionalista e materialista, che la tendenza sentimentale e spiritualistica incontrò dapprima un’energi-

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ca opposizione e persino un Fielding, che pure, come Richardson, era un esponente del ceto medio, l’avversò accanitamente. Nell’affrontare i problemi del tempo, Rousseau era assai piú spregiudicato degli esponenti dell’illuminismo occidentale. Non solo egli apparteneva alla piccola borghesia quasi priva di tradizioni, ma era uno spostato, senza piú legami con le convenzioni della sua classe. Queste del resto, nella Svizzera immune da tradizioni di corte e da influssi aristocratici, erano di per sé meno rigide che in Francia o in Inghilterra. Il sentimentalismo che in Richardson e negli altri preromantici inglesi non sempre si poneva in antitesi diretta al razionalismo illuministico, e, se mai, lo faceva in modo latente, in Rousseau assunse il carattere di un’aperta ribellione. In ultima analisi, il suo «Torniamo alla natura!» aveva un unico movente: rafforzare la resistenza contro un’evoluzione che aveva condotto alla disuguaglianza sociale. Egli si opponeva alla ragione, perché entro al processo di crescente intellettualizzazione ritrovava quello della degenerazione sociale. Il primitivismo di Rousseau in realtà non era che una variante dell’ideale arcadico, uno di quei sogni di redenzione, che si incontrano in tutti i tempi ormai stanchi di civiltà42; ma in lui questo «disagio d’esser civili», che già prima tante generazioni avevano avvertito, si fa per la prima volta cosciente, ed egli è stato il primo che da questa sazietà della cultura abbia sviluppato una propria filosofia della storia. La vera originalità di Rousseau consiste nella tesi, mostruosa per l’umanesimo illuminista, che l’uomo civile è un fenomeno di degenerazione, e tutta la civiltà storica è un tradimento dell’originario destino umano, cosí che la dottrina fondamentale dell’illuminismo, la fede nel progresso, a un esame piú profondo si rivela una superstizione. Un tale sovvertimento di valori non poteva compiersi se non per un radicale mutamento delle tendenze sociali, e può spiegarsi solo col fatto che i ceti

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di cui Rousseau è interprete non ritenevano piú possibile combattere l’artificio e le convenzioni della cultura aulica con i mezzi dell’illuminismo, e cercavano perciò armi che non provenissero piú dall’arsenale dei loro nemici. Nella sua critica della cultura rococò e illuministica, di cui egli metteva a nudo il formalismo meccanico e spesso senza vita e a cui contrapponeva la spontaneità dello sviluppo organico, Rousseau esprimeva non soltanto la consapevolezza della crisi in cui l’Occidente si trovava fin da quando era tramontata l’unità cristiana del Medioevo, ma anche il concetto moderno di civiltà, che includeva l’antagonismo di anima e forma, spontaneità e tradizione, natura e storia. Per la scoperta di questa tensione, Rousseau imporrà la sua impronta su tutta l’epoca. La sua dottrina tuttavia conteneva in sé un grosso pericolo ed era che, parteggiando per la vita e contro la storia, rifugiandosi nello stato di natura, il che non era se non un salto nel buio, egli apriva la via a quelle nebulose «filosofie della vita» che, disperando di fronte all’apparente impotenza del pensiero razionale, propugnano il suicidio della ragione. Le idee di Rousseau erano nell’aria; egli non faceva che esprimere quel che sentivano molti dei suoi contemporanei; cioè che s’imponeva una scelta ed essi dovevano risolversi se tenersi al volterrianesimo con la sua ragionevolezza e la sua rispettabilità, oppure rinunciare alle tradizioni storiche e ricominciare da capo. La storia della cultura europea non conosce confronto piú profondamente simbolico di quello fra Voltaire e Rousseau. Questi due contemporanei, se pur non proprio della stessa generazione, che erano uniti da innumerevoli rapporti pratici e personali, che avevano comuni amici e seguaci, che erano entrambi collaboratori di un’impresa letteraria ideologicamente cosí caratteristica come l’Enciclopedia, e che sono da considerare entrambi come i piú autorevoli, precursori della Rivoluzione,

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in realtà stavano sui due opposti versanti del crinale che divideva la moderna Europa, individualista e anarchica, da un mondo ancora in parte irretito nell’antica civiltà formalistica. Il naturalismo di Rousseau è la negazione di tutto ciò che appare a Voltaire la quintessenza della civiltà; soprattutto nega ogni limite a un soggettivismo ancora tollerabile e compatibile con le regole della decenza e della dignità. Prima di Rousseau un poeta, tranne in certe forme della lirica, parlava di sé solo indirettamente; dopo di lui i poeti non parlarono piú d’altro e senza il minimo ritegno. Proprio a questo punto nasce quell’idea della letteratura come esperienza e confessione, che anche Goethe mostrava di considerare valida norma quando dichiarò che le sue opere non erano che «frammenti di una grande confessione». La mania di contemplarsi e specchiarsi nella letteratura, il concetto che l’opera sia tanto piú vera e persuasiva quanto piú direttamente vi si dà a conoscere l’autore, appartengono all’eredità di Rousseau. Per cento o centocinquant’anni tutto ciò che vale nella letteratura dell’Occidente starà sotto il segno di questo soggettivismo. Non soltanto Werther, René, Obermann, Adolphe, Jacopo Ortis, discendono da Saint-Preux, ma anche gli eroi di romanzi piú tardi, da Lucien de Rubempré di Balzac, Julien Sorel di Stendhal, Frédéric Moreau ed Emma Bovary di Flaubert, fino al Pierre di Tolstoj, al memorialista di Proust e al Castorp di Thomas Mann. Tutti soffrono del dissidio fra sogno e realtà e sono vittime del conflitto tra le loro illusioni e la pratica, prosaica vita borghese. Il tema si realizza, per la prima volta, pienamente nel Werther (e si deve tener presente la prima impressione di una tal conquista per comprendere l’effetto inaudito dell’opera sui contemporanei); ma il dissidio esiste già, latente, nella Nouvelle Héloïse. Già qui l’eroe non si contrappone piú ad avversari individuali, ma a una sorta di generale necessità, ch’egli

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però non considera ancora totalmente estranea allo spirito e spoglia di ogni senso, come faranno i delusi eroi del romanzo piú tardo, ma nemmeno la innalza piú al disopra di sé, come l’eroe tragico innalzava il destino che lo annientava. Senza il pessimismo storico-filosofico di Rousseau e senza la sua teoria di un presente depravato, il romanzo ottocentesco della delusione sarebbe inconcepibile, quanto la concezione tragica di Schiller, Kleist e Hebbel. Vastissimo e profondo è stato l’influsso di Rousseau. Come Marx e Freud, egli è di quegli spiriti che, nello spazio di una generazione, mutano il pensiero di milioni di uomini, anche di molti che non li conoscono neppur di nome. E comunque è certo che, al termine del Settecento, erano pochi gli uomini pensanti che fossero rimasti insensibili alle idee di Rousseau. Un influsso cosí vasto è possibile soltanto quando uno scrittore è la vera espressione e il piú profondo interprete del suo tempo. Con Rousseau per la prima volta giunge alla letteratura la voce degli strati piú larghi della società: la piccola borghesia e la massa indistinta dei poveri, degli oppressi e dei paria. I «filosofi» illuministi avevano parteggiato spesso per il popolo, ma sempre come suoi avvocati e protettori. Rousseau è il primo che si esprima come uno del popolo stesso e parlando per esso parli anche per sé; è il primo che non solo incita alla ribellione, ma è egli stesso un ribelle. I suoi predecessori erano filantropi, che volevano riformare, migliorare il mondo; egli è il primo vero rivoluzionario. Quelli odiavano il «dispotismo», predicavano contro la Chiesa e la religione positiva, si entusiasmavano per l’Inghilterra e la libertà, ma conducevano la vita delle classi dirigenti, a cui sentivano di appartenere, nonostante le loro simpatie democratiche; Rousseau invece, non solo sta a fianco dei piú poveri e dei piú umili, non solo si dichiara per l’assoluta eguaglianza, ma per tutta la vita rimane,

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com’era nato, un piccolo borghese, anzi un decaduto, come l’hanno ridotto le circostanze. Da giovane conosce la vera miseria, che nessuno dei signori «filosofi» conosceva per diretta esperienza, e anche piú tardi conduce la vita degli strati piú umili del ceto medio, e di quando in quando addirittura quella dei contadini. Prima di lui gli scrittori, per quanto bassa ne fosse l’origine, erano annoverati fra la gente distinta; e anche se nutrivano un profondo affetto per il popolo, cercavano sempre di tacere i propri natali piuttosto che ostentarli. Rousseau invece, in ogni occasione, sottolinea di non aver nulla di comune, in nessun modo, con l’alta società. Sia o non sia, questo, semplice «orgoglio plebeo» e puro risentimento, non muta il valore del fatto che tra Rousseau e i suoi avversari esistono non solo differenze di opinioni, ma vitali contrasti di classe. Voltaire diceva che Rousseau voleva ridurre l’uomo civile a trascinarsi di nuovo a quattro zampe, e tale dev’essere stata l’opinione di tutta l’alta società colta e conservatrice. Per costoro Rousseau non era soltanto un pazzo e un ciarlatano, ma un avventuriero pericoloso, un delinquente. Tuttavia nell’opposizione di Voltaire non si esprimeva soltanto la protesta del ricco borghese, del signore, contro la passionalità plebea di Rousseau, il suo entusiasmo fanatico e la sua incomprensione per la storia; ma anche la reazione del pensatore oggettivo, scettico, realistico di fronte agli abissi dell’irrazionale che Rousseau veniva spalancando e che minacciavano d’inghiottire l’edificio illuministico. Quanto grande in realtà fosse il pericolo, e quanto giustificate le apprensioni di Voltaire, lo mostra il destino dell’illuminismo in Germania. Ma in Francia Voltaire sottovalutava i frutti della sua azione: le conquiste del razionalismo e del materialismo qui non si potevano piú annullare. Inquadrare sociologicamente Rousseau, che pure è di sentimenti cosí schiettamente democratici, è tutt’altro

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che facile. Le condizioni sociali sono all’epoca sua ormai tanto complicate, che non sempre i principî e le intenzioni dello scrittore sono elementi sufficienti per formulare un giudizio sulla parte da lui avuta nel processo sociale. Il razionalismo di Voltaire per molti aspetti si rivelò piú innovatore e fecondo dell’irrazionalismo di Rousseau. È vero che questi assume una posizione piú radicale di quella degli enciclopedisti, e politicamente rappresenta ceti piú larghi di quelli per cui scrivono Voltaire e Diderot; ma è piú arretrato nelle sue concezioni religiose e morali43. E come il suo sentimentalismo è profondamente borghese e popolaresco, mentre il suo irrazionalismo è reazionario, cosí anche la sua filosofia morale contiene un’intima contraddizione: da un lato, essa ha forti caratteri plebei, ma dall’altro cela il germe di una nuova tendenza aristocratica. Il concetto di «bell’anima», se presuppone il completo dissolvimento dell’ideale di kalokagathìa, e significa il trasferimento di ogni valore umano alla sfera dell’interiorità, implica, d’altra parte, un certo trapasso della morale in estetica e tende a considerare il valore etico come un dono di natura. Si ammette cosí un’aristocrazia spirituale, che certo non si riceve che per diritto di natura, ma che viene a porre in questo modo, in luogo degli irrazionali diritti del sangue, una genialità etica altrettanto irrazionale. La «bellezza interiore» di Rousseau conduce sia a personaggi simili al My\kin di Dostoevskij, l’idiota, l’epilettico in cui si cela il santo, sia all’ideale dell’individuo moralmente perfetto, superiore a ogni responsabilità e utilità sociale. Il Goethe olimpico, pensoso unicamente del proprio intimo perfezionamento, è un discepolo di Rousseau non meno del giovane ribelle in lotta contro ogni convenzione che scriveva il Werther. Il mutamento di stile, prodotto nella letteratura dal preromanticismo inglese e dall’opera di Rousseau, per cui a forme obiettive e ligie a una norma se ne sono sosti-

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tuite altre piú soggettive e libere, trova forse la sua espressione piú decisa nella musica, che ora per la prima volta diventa un’arte storicamente rappresentativa e preminente. In nessun altro campo il mutamento fu cosí forte e improvviso; e già i contemporanei parlavano di «grande catastrofe»44. L’aspro antagonismo tra la generazione di Johann Sebastian Bach e quella dei suoi immediati successori, specialmente l’empietà con cui la giovane generazione si fa beffe della fuga che appare una forma ormai antiquata, testimonia non solo del trapasso dal tardo stile barocco, patetico e convenzionale, a quello intimo e semplice dei preromantici, ma anche il passaggio da una composizione aggiuntiva, ancora sostanzialmente medievale – che le altre arti avevano già superato col Rinascimento – a una forma accentrata, a sviluppo drammatico, in cui l’unità è data dal sentimento. Non solo Bach era un artista conservatore, ma tutta la musica del suo tempo risulta arretrata in confronto con le altre arti. Già la generazione successiva poté con ragione definire «scolastico» lo stile del maestro, poiché – per quanto esso sia intimamente commosso e prenda proprio per la profondità del suo sentimento – la forma rigida e solenne, il pedantesco contrappunto e tutti i convenzionalismi della composizione bachiana dovevano apparire antiquati ai rappresentanti del nuovo soggettivismo, che prendevano a criterio di giudizio le loro idee di semplicità, immediatezza e intimità. Per essi in sostanza, come per i letterati preromantici, il sentimento nell’arte doveva esprimersi in forma di un processo coerente, con un’ascesa e un’acme e, se possibile, un conflitto e una soluzione, invece di essere la descrizione di un affetto costante, ugualmente diffuso in tutta la composizione45. La loro sensibilità non era né piú profonda né piú intensa di quella dei predecessori, ma per essi aveva un peso maggiore, volevano farla apparir piú importante, e perciò la drammatizza-

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vano. In questa tendenza alla drammatizzazione sta la vera differenza fra le nuove forme conchiuse del Lied e della sonata e i vecchi tipi «a trama continua»: fuga, passacaglia, ciaccona e altre forme di sequenza e d’imitazione46. La musica piú antica, già per la trattazione uniforme del contenuto emotivo, appariva dominata e moderata, mentre la nuova musica, con il continuo ascendere e ricadere, l’avvicendarsi di tensione e liberazione, esposizione e sviluppo, già di per sé inquieta e commuove. L’espressione «drammatica», che punta sul finale eccitante, trova una spiegazione anzitutto nel fatto che il compositore si trovava davanti a un pubblico di cui doveva destare e incatenare l’attenzione con mezzi piú efficaci di quelli che un tempo erano richiesti. Proprio il timore di perdere il contatto con gli uditori lo induceva a sviluppare la composizione in una serie di impulsi sempre rinnovati e ad esaltarne di volta in volta l’intensità espressiva. Fino al Settecento, ogni musica aveva avuto piú o meno una sua immediata destinazione: veniva scritta per incarico del principe, del Comune o della Chiesa e doveva intrattenere una corte, aumentare lo splendore di una solennità pubblica, o rendere piú profonda la devozione del servizio divino. I compositori erano musici al servizio della corte, di una chiesa o della città; la loro attività artistica si limitava ad assolvere i doveri del loro ufficio e certo molto di rado pensavano a comporre spontaneamente. Fuor che ai balli, in chiesa e nelle festività, i borghesi avevano rare occasioni di ascoltare musica; e ai trattenimenti musicali che si tenevano in casa dei nobili e a corte solo eccezionalmente potevano accedere. Verso la metà del Settecento questo cominciò a essere sentito come una lacuna, e nelle città sorsero le prime società musicali47. Dai primi collegia musica, ancora a carattere privato, si sviluppò l’uso dei concerti pubblici, e con essi un’autonoma vita musicale della bor-

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ghesia. Le società affittarono sale sempre piú grandi e diedero concerti a pagamento per un pubblico sempre piú numeroso48. Si creò cosí un libero mercato anche per le produzioni musicali, corrispondente al mercato letterario con i suoi giornali, i periodici, le case editrici. Ma se la letteratura, come del resto anche la pittura, già da lungo tempo era riuscita a sottrarre i suoi prodotti alla destinazione immediata, la musica invece fino al termine del Seicento rimase musica d’uso. Non ci fu musica autonoma prima d’allora, e solo a partire dal Settecento sorse la musica puramente concertistica, con l’unico fine di esprimere un sentimento. I frequentatori dei concerti pubblici si distinguevano dall’uditorio di corte per alcuni tratti essenziali: erano meno esperti nel giudicare le opere in genere; erano un pubblico che pagava di volta in volta, quindi sempre da riconquistare e da soddisfare; si riunivano unicamente per godersi la musica, senza altri fini come avveniva in chiesa, al ballo, a una festa cittadina o anche in un ricevimento a corte. Furono soprattutto queste caratteristiche del pubblico a provocare quella lotta per il successo che spingeva a moltiplicare gli effetti, a farli sempre piú acuti e forzati, fino a determinare quello stile caricato, inteso a sempre maggiore intensità espressiva, che caratterizza la musica dell’Ottocento. La borghesia diventa il principale cliente della musica, è questa l’arte prediletta della borghesia, che non conosce altra forma che esprima in modo cosí immediato e libero la sua vita interiore. Ma, mentre la musica diventa arte pura, il compositore comincia non solo a rifuggire da qualsiasi opera scritta per fine pratico o per incarico, ma a disprezzare addirittura il comporre per motivi d’ufficio. Philipp Emanuel Bach ritiene che i suoi pezzi migliori siano quelli ch’egli scrive per sé. Si annunzia cosí un conflitto di coscienza e una crisi, là dove prima non appariva il minimo contrasto. Notissi-

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mo e palmare esempio dei dissidi a cui porta il nuovo soggettivismo è la rottura fra Mozart e il suo protettore, l’arcivescovo di Salisburgo. Il contrasto che comincia a delinearsi fra il musicista stipendiato e l’artista che segue una libera ispirazione si riflette perfettamente nel differenziarsi del virtuoso dal compositore e del comune membro di un’orchestra dal direttore. È un’evoluzione straordinariamente rapida, ed è sorprendente che già in Haydn sia dato notare il difetto tipico del compositore moderno, cui manca la perfetta padronanza anche di un solo strumento49. Il nuovo pubblico borghese dei concerti non provoca soltanto la trasformazione del linguaggio musicale e della posizione sociale del compositore, ma dà alla creazione un diverso orientamento in modo che l’opera singola assume un senso nuovo nel corpus di un compositore. Fra il comporre per un gran signore o per qualsiasi altro committente e il creare per l’anonimo pubblico dei concerti, c’è una differenza essenziale, ed è che l’opera su commissione per lo piú è destinata a un’esecuzione unica, mentre il pezzo da concerto attende il piú gran numero possibile di repliche. Ciò spiega, non soltanto la maggior cura della composizione, ma anche il modo piú ambizioso di presentarla. Ora che il compositore non è piú costretto ad opere condannate a un rapido oblio, vuol crearle imperiture. Haydn è già molto piú attento e lento nel comporre che i suoi predecessori. Ma egli scrive ancora quasi cento sinfonie; Mozart ne scrive soltanto la metà e Beethoven soltanto nove. La svolta decisiva tra la tradizionale composizione obiettiva, scritta su ordinazione, e la nuova forma soggettiva, di confessione musicale, si situa fra Mozart e Beethoven o, piú esattamente, all’inizio della maturità di Beethoven, un po’ prima dell’Eroica: in un’epoca cioè in cui l’organizzazione di concerti era ormai pienamente sviluppata e la vendita delle opere, connessa con l’esigenza di ripe-

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tute esecuzioni, costituiva la principale fonte di guadagno del compositore. D’ora in poi per Beethoven ogni grande opera non è solo l’espressione di un’idea nuova, ma anche di un nuovo stadio nella sua evoluzione d’artista. Naturalmente un’evoluzione si può constatare anche in Mozart, ma in lui il movente primo di una sinfonia non è sempre da cercare in una nuova fase della sua maturazione artistica; egli scrive una sinfonia per qualche impegno o quando sorge nella sua mente un’idea nuova, ma quanto a stile non è necessariamente diversa dalle precedenti. Arte e mestiere, non ancora ben distinti in lui, si dividono ormai del tutto in Beethoven, e l’idea dell’opera d’arte unica, irripetibile, inconfondibile si attua nella musica in modo ancora piú puro che nella pittura, benché questa già da secoli si fosse affrancata dal mestiere. Certo nella poesia l’emancipazione dell’intento artistico da quello pratico era già assoluta al tempo di Beethoven, e ormai cosí ovvia, che Goethe poteva nuovamente affermare, con un certo orgoglio di virtuoso e di artigiano, che le sue erano tutte poesie d’occasione. Beethoven, diretto allievo di quello Haydn che era stato al servizio di principi, non ne sarebbe stato cosí fiero.

paul mantoux, La révolution industrielle au XVIIIe siècle, 1906, p. 78. 2 The English Revolution. 1640. Three Essays, a cura cristopher hill, 1940, p. 9. 3 r. h. gretton, The English Middle Class, 1917, p. 209. 4 w. warde fowler, Social Life at Rome in the Age of Cicero, 1922, pp. 26 sgg. j. l. e b. hammond, The Village Labourer (1760-1832), 1920, pp. 306-7. 5 a. de tocqueville, L’Ancien régime et la Révolution cit., p. 146. j. aynard, La bourgeoisie française cit., p. 341. 1

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte g. lefèbvre, g. guyot, p. sagnac, La Révolution française, 1930, p. 21. 7 a. de tocqueville, L’Ancien régime et la Révolution cit., pp. 174-75. 8 herbert schöffler, Protestantismus und Literatur, 1922, p. 181. 9 alexandre beljame, Le public et les hommes de lettres en Angleterre au XVIIIe siècle, 1881, p. 122. 10 h. schöffler, Protestantismus und Literatur cit., pp. 187-88. 11 Ibid., p. 192. 12 h. schöfler, Protestantismus und Literatur cit., pp. 59, 151 sgg. e passim. 13 a. s. collins, The Profession of Letters, 1928, p. 38. 14 g. m. trevelyan, English Social History, 1944, p. 338 [trad. it., Storia della società inglese, Torino 1948]. 15 a. beljame, Le public ecc. cit., pp. 236, 350. 16 leslie stephen, English Literature and Society in the 18th Century, 1940, p. 42. 17 a. beljame, Le public ecc. cit., pp. 229-32. 18 Ibid., p. 368. 19 a. s. collins, Authorship in the Days of Johnson, 1927, p. 161. * Le stagioni. ** «Noi, signori miei, ringraziamo il Cielo di aver qualcosa di meglio del nostro cervello su cui poter contare». 20 levin l. schücking, The Sociology of Literary Taste, 1944, p. 14. 21 a. s. collins, Authorship ecc. cit., pp. 269-70. 22 leslie stephen, English Literature ecc.. cit., p. 148. george sampson, The Concise Cambridge History of Literature, 1942, p. 508. *** «Noi proteggiamo i grandi già nostri protettori». 23 Citato da f. gaiffe, Le Drame en France au XVIIIe siècle, 1910, p. 80. **** Congetture sulla composizione originale. 24 l. l. schücking, The Sociology of Literary Taste, pp. 62 sgg. 25 j. l. e b. hammond, The Rise of Modern Industry, 1944, 6a ed., p. 39. 26 id., The Town Labourer (1760-1832), 1925, pp. 37 sgg. 27 paul mantoux, La révolution industrielle ecc. cit., pp. 376 sgg. john a. hobson, The Evolution of Modern Capitalism, 1930, p. 62. 28 werner sombart, Der moderne Kapitalismus, II, i, 1924, 6a ed. Cfr. otto hintze, Der moderne Kapitalismus als historisches Individuum, in «Hist. Zschr.», vol. CXXXIX, 1929, p. 478. 29 Cfr. l. mumford, Technics and Civilisation, 1934, pp. 176-77. 30 arnold toynbee, Lectures on the Industrial Revolution of the 18th Century in England, 1908, p. 64. 31 leo balet - e. gerhard, Die Verbürgerlichung der deutschen Kunst, Literatur und Musik im 18. Jahrhundert, 1936, pp. 116-17. 6

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte daniel mornet, La Nouvelle Héloïse de J.-J. Rousseau, 1943, pp. 43-44. 33 oswald spengler, Der Untergang des Abendlandes, I, 1918, pp. 362-63. 34 geoffrey webb, Architecture and Garden, in Johnson’s England, a cura di A. S. Turberville, 1933, p. 118. 35 w. l. phelps, The Beginnings of the English Romantic Movement, 1893, pp. 110-11. 36 Cfr. joseph texte, J.-J. Rousseau and the Cosmopolitan Spirit in Literature, 1899, p. 152. 37 h. schöffler, Protestantismus und Literatur cit., p. 180. 38 w. l. cross, The Development of the English Novel, 1899; p. 38. h. schöffler, Protestantismus und Literatur cit., p. 168. 39 Cfr. q. d. leavis, Fiction and the Reading Public, 1932, p. 138. 40 w. l. cross, The Development of the English Novel cit., p. 33. ***** «La poesia vuol qualcosa d’immane e selvaggio». 41 diderot, De la poésie dramatique, in Œuvres complètes, ed. J. Assézat, 1875-77, VII, p. 371. 42 Cfr. i. babbitt, Rousseau and Romanticism, 1919, pp. 75 sgg. 43 Cfr. jean luc, Diderot, 1938, pp. 34-35. 44 j. s. petri, Anleitung zur praktischen Musik, 1782, p. 104; citato da hans joachim moser, Geschichte der deutschen Musik, II, i, 1922, p. 309. 45 Per l’unità di struttura e d’ispirazione dei prezzi, cfr. hugo riemann, Handbuch der Musikgeschichte, II, 3, pp. 132-33. 46 Sulla differenza fra il tipo «a trama continua» e il tipo del Lied, cfr. wilhelm fischer, Zur Entwicklung des Wiener klassischen Stils, in «Beihefte der Denkmäler der Tonkunst in Österreich», iii, 1915, pp. 29 sgg. Per la differenza tra fuga e sonata cfr. august hahn, Von zwei Welten der Musik, 1920. 47 h. j. moser, Geschichte der deutschen Musik cit., pp. 314-15. 48 l. balet - e. gerhard, Die Verbürgerlichung ecc. cit., p. 403. 49 h. j. moser, Geschichte der deutschen Musik cit., p. 312. 32

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Capitolo terzo Gli inizi del dramma borghese

Di fronte alle varie forme del romanzo eroico, pastorale, picaresco predominanti nella letteratura amena fino a mezzo il Settecento, il romanzo borghese, di soggetto famigliare e di costume, era un’assoluta novità; ma non si contrapponeva cosí consapevolmente e sistematicamente alla letteratura precedente come farà invece il dramma borghese, nato dall’opposizione programmatica alla tragedia classica e portavoce della borghesia rivoluzionaria. L’esistenza di uno spettacolo di stile elevato in cui i protagonisti erano dei borghesi, già di per sé esprimeva l’ambizione delle classi medie di esser prese sul serio quanto i nobili, che fornivano gli eroi alla tragedia. Fin dall’inizio il dramma borghese spogliando le virtú aristocratico-eroiche del loro carattere assoluto, le svalutò e fu l’araldo di una nuova morale e della parità dei diritti. Nella sua nascita dalla coscienza di classe della borghesia era già implicita tutta la sua storia. È, vero che esso non fu la prima e unica forma drammatica sorta da un conflitto sociale, ma fu il primo esempio di un dramma che di un simile conflitto facesse il suo diretto argomento, ponendosi apertamente al servizio della lotta di classe. Da tempi immemorabili il teatro aveva sempre diffuso l’ideologia dei ceti che lo finanziavano, ma finora i contrasti di classe vi erano sempre stati come un elemento sottinteso e latente, mai come contenuto esplicito. Mai si era osato dire, ad esempio:

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aristocratici ateniesi, i precetti della vostra etica tribale contrastano con i principî del nostro stato democratico; i vostri eroi, oltre che fratricidi e matricidi, sono anche colpevoli di alto tradimento. Oppure: baroni inglesi, la vostra condotta faziosa minaccia la pace delle nostre industri città; i vostri pretendenti al trono e i vostri ribelli non sono che solenni delinquenti. O anche: mercanti di Parigi, usurai, giuristi, sappiate che se noi, nobiltà francese, periremo, con noi perirà un mondo che è troppo grande per venire a compromessi con voi. Ma ora si dice senza perifrasi: noi, onesti borghesi, non vogliamo né possiamo vivere in un mondo dominato da parassiti quali voi siete, e se anche noi dovessimo soccombere, i nostri figli vinceranno e vivranno. Il nuovo dramma, per il suo carattere polemico e programmatico, fin dall’inizio portò il peso di una problematica ignota alle forme precedenti. Infatti, anche se queste erano «tendenziose», le opere che ne nascevano non erano a tesi. La forma drammatica infatti ha caratteri particolari: per la sua natura dialettica, si presta alla polemica, ma in quanto forma «obiettiva» preclude all’autore ogni aperta parzialità. L’ammissibilità di una tesi nell’opera d’arte per nessun’altra forma artistica fu contestata quanto per il dramma. Ma il problema sorse soltanto dopo che l’illuminismo ebbe trasformato il palcoscenico in un pulpito laico e in una tribuna, praticamente rinunziando al kantiano «disinteresse» dell’arte. Solo un’epoca di cosí ferma fede nella possibilità di educare e migliorare l’uomo poteva risolversi per un’arte apertamente tendenziosa; ogni altro tempo avrebbe dubitato dell’efficacia di una morale espressa in modo cosí scoperto. Tuttavia il dramma borghese differisce da quello precedente, non tanto perché la tendenza politico-sociale, prima nascosta, ora si esprime chiaramente, quanto perché il conflitto drammatico, anziché tra singoli individui, si svolge tra l’eroe e le istituzioni, e quin-

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di l’eroe, che del resto non è che l’esponente di un gruppo sociale, combatte contro forze anonime e deve formulare il suo punto di vista come un’idea astratta, come una denuncia contro l’ordine sociale esistente. Le grandi tirate e le invettive ora cominciano di solito con un «voi» al posto del «tu». «Voi punite in altri, – declama Lillo, – quel che fate voi stessi, o almeno avreste fatto nelle loro condizioni; voi condannate il povero che ha rubato, e avreste rubato anche voi, se foste stati poveri»1. In questo modo mai si era parlato in un dramma. E Mercier va anche piú lontano: «Io sono povero, perché ci son troppi ricchi», dice uno dei suoi personaggi. È quasi il tono di Gerhart Hauptmann. Ma il dramma borghese del Settecento, nonostante questo tono, non ha in sé gli elementi di un teatro popolare piú di quanto li abbia il dramma sociale nell’Ottocento; sono entrambi frutto di un’evoluzione che da lungo tempo ha perduto il contatto con il popolo, e si appoggiano a convenzioni teatrali d’origine classica. In Francia il teatro popolare, che poteva vantare capolavori come il Maître Pathelin, era stato escluso completamente dalla letteratura per opera del teatro aulico; il dramma sacro e la farsa erano stati sostituiti dalla solenne tragedia e dalla commedia ormai tutta intellettuale e stilizzata. Non sappiamo bene che cosa si fosse mantenuto dell’antica tradizione medievale sui palcoscenici di provincia al tempo del dramma classico, ma nel teatro letterario della capitale e della corte è certo che nulla ne rimase, se non quello che ne passò nelle opere di Molière. Il dramma si sviluppò in un genere poetico in cui gli ideali della società di corte al servizio della monarchia assoluta s’imposero nel modo piú diretto e impressionante. Esso divenne il genere poetico ufficiale, già per il solo fatto che si prestava ad esser presentato nella solenne cornice dell’alta società, e gli spettacoli teatrali offrivano un’ottima occasione per osten-

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tare la grandezza e lo splendore della monarchia. I suoi soggetti divennero il simbolo di una concezione di vita feudale ed eroica, retta dall’idea dell’autorità, del servigio, della fedeltà, e i suoi eroi furono l’idealizzazione di una classe sociale che, libera da ogni volgare cura quotidiana, poteva vedere in quel servigio e in quella fedeltà il piú alto ideale morale. Quanti non erano in condizione di dedicarsi al culto di questo ideale, vennero considerati personaggi indegni dell’arte drammatica. La tendenza all’assolutismo e lo sforzo di ridurre la cultura aulica strettamente conforme al modello francese, condusse anche in Inghilterra alla distruzione del teatro popolare che, sullo scorcio del Cinquecento, era ancora perfettamente amalgamato con la letteratura dei ceti superiori. Dal regno di Carlo I in poi, i drammaturghi producono sempre piú esclusivamente per il teatro di corte e per l’alta società, cosí che la tradizione popolare dell’epoca elisabettiana si perde ben presto. Quando i Puritani procedettero alla chiusura dei teatri, il dramma inglese era già in profonda decadenza2. La peripezia fu sempre considerata un elemento essenziale della tragedia, e fino al Settecento ogni critico fu d’avviso che la catastrofe è tanto piú impressionante, quanto piú elevata è la posizione da cui precipita l’eroe. In un’epoca di assolutismo come il Seicento quest’opinione doveva essere particolarmente forte, e cosí anche la poetica barocca definisce la tragedia semplicemente come il genere letterario i cui protagonisti sono principi, generali e simili personaggi d’alto rango. Per quanto pedantesca possa parerci oggi una tal definizione, essa coglie un tratto essenziale e forse indica l’origine della vicenda tragica. Fu dunque effettivamente una svolta decisiva quando il Settecento fece di semplici borghesi i protagonisti di azioni drammatiche serie e importanti, le vittime di un tragico destino e i rappresentanti di un alto ideale. Prima a nessuno sarebbe pas-

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sato per la mente nulla di simile, benché non risponda ai fatti l’affermazione che i personaggi borghesi sulla scena piú antica fossero sempre e soltanto figure comiche. Mercier calunnia Molière, quando lo accusa di aver «voluto abbassare e rendere ridicola la borghesia»3. Molière caratterizza il borghese in generale come onesto, aperto, intelligente, e anche arguto, e per lo piú lo fa con una punta contro le classi piú elevate4. Nel dramma piú antico, tuttavia, un personaggio di origine borghese non aveva mai avuto un destino esaltante e commovente, né compiuto un’azione nobile ed esemplare. Ora i creatori del dramma borghese si affrancano a tal punto da queste limitazioni e dal pregiudizio che la tragedia diventi volgare assumendo un borghese a protagonista, ch’essi non riescono nemmeno piú a intendere il valore teatrale e drammatico dell’alta posizione sociale dell’eroe rispetto alla media degli uomini. Essi giudicano tutto il problema da un punto di vista umanitario e pensano che l’alto rango dell’eroe diminuirebbe la simpatia dello spettatore, poiché questa si può sviluppare schietta soltanto fra uomini della stessa condizione5. Questo punto di vista democratico è già accennato nella dedica di The London Merchant* di Lillo, e i drammaturghi borghesi per lo piú vi si attengono. Veramente essi debbono sostituire l’alto rango, che esaltava l’eroe dell’antica tragedia, con una maggiore profondità e ricchezza della figura; il che porta a un sovraccarico di psicologia e crea una serie di altri problemi, prima affatto ignoti ai drammaturghi. L’ideale umano perseguito dai precursori della nuova letteratura borghese era inconciliabile con l’idea tradizionale della tragedia e dell’eroe; perciò essi sottolineavano che il tempo della tragedia classica era passato e consideravano i suoi maestri, Corneille e Racine, come vuoti parolai6. Diderot esigeva che si sopprimessero le tirate, che riteneva false e innaturali; e Lessing nello stile

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artificioso della tragédie classique combatteva anche il dissimulato carattere di classe. Si scopre ora il valore della verità artistica come arma nella lotta sociale. Ci si accorge che la fedele riproduzione dei fatti porta di per sé alla distruzione dei pregiudizi sociali e alla fine dei soprusi; che lottando per la giustizia non si deve temere la verità in nessuna forma, che, insomma, fra l’idea della verità artistica e quella della giustizia sociale esiste una certa armonia. E in quest’epoca nasce quell’alleanza fra radicalismo e naturalismo che è cosí nota nell’Ottocento: quella solidarietà che gli elementi progressivi sentivano con i naturalisti, anche quando costoro, come Balzac, avevano altre idee politiche. Già in Diderot troviamo formulati gli elementi fondamentali della teoria naturalistica del dramma. Egli esige infatti non solo la motivazione naturale, psicologicamente vera, del processo interiore, ma anche l’esattezza nella descrizione dell’ambiente e il verismo degli scenari. Egli auspica, presumibilmente in omaggio allo spirito del naturalismo, che l’azione, anziché in un finale di grande effetto scenico, si risolva in una serie di quadri impressionanti per l’occhio, e pare che egli immagini qualcosa come dei «quadri viventi», nello stile di Greuze. Evidentemente per lui il fascino dell’elemento visivo è piú forte, in un dramma, dell’efficacia puramente intellettuale della dialettica drammatica. Anche nel campo della parola e del suono preferisce effetti naturali, sensibili. Egli vorrebbe limitare l’azione alla pantomima, e la dizione a frasi ed esclamazioni staccate. Ma soprattutto egli vuol sostituire al verso – al rigido, pomposo alessandrino – il linguaggio quotidiano scevro di retorica e di pathos. Sempre egli cerca di smorzare la sonorità della tragedia classica, di attenuarne i colpi di scena. Senza dubbio lo guida la predilezione del gusto borghese per tutto quel che è intimo, immediato, sentimentale. La visione artistica borghese, che soprat-

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tutto mira a rappresentare la vita come fine a se stessa, tende a conferire anche alla scena l’aspetto del microcosmo in sé conchiuso. Per questa via s’intende l’idea di quella fittizia «quarta parete», che viene anch’essa indicata per la prima volta da Diderot. La presenza di spettatori sul palcoscenico disturbava, veramente, anche prima; ma Diderot auspica addirittura che i drammi vengano recitati come se non ci fosse pubblico affatto. Di qui s’inizia il dominio del totale illusionismo sul teatro, che mira a nasconderne e negarne il carattere di finzione. La tragedia classica vede l’uomo isolato e lo rappresenta come un’entità spirituale a sé stante, autonoma, solo esteriormente in contatto con la realtà materiale, ma nell’intimo affatto indipendente da essa. Il dramma borghese invece lo pensa come parte e funzione dell’ambiente e lo descrive come un essere che, invece di dominare la realtà delle cose, come nella tragedia, ne viene dominato e assorbito. L’ambiente non è piú solo sfondo e cornice, ma contribuisce attivamente a foggiare il destino umano. I confini fra il mondo intimo e l’esterno, fra spirito e materia, diventano fluidi e a poco a poco si cancellano: alla fine ogni atto, ogni decisione, ogni sentimento contiene in sé qualcosa di estraneo, di estrinseco, di materiale, qualcosa che non viene dal soggetto e fa apparire l’uomo come il prodotto di una realtà priva di mente e d’anima. Soltanto una società che non crede piú che le differenze sociali siano necessarie e volute da Dio né che siano in rapporto con virtú e meriti personali, una società che esperimenta il potere sempre crescente del denaro e intorno a sé altro non vede, se non che gli uomini diventano quel che ne fanno le circostanze; ma tuttavia consente a questa dinamica sociale, perché o le deve la propria ascesa o se la ripromette; solo una società come questa poteva lasciar maturare il dramma nelle categorie dello spazio e del tempo reali, e

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sviluppare il carattere dei personaggi dal loro ambiente materiale. Quanto forti fossero le cause sociali di questo naturalismo e materialismo mostra chiaramente la teoria di Diderot sui personaggi del dramma: egli pensa che la loro condizione sociale sia piú reale e importante della loro psicologia individuale e il fatto che esercitino la professione di giudice, o di funzionario, o di mercante abbia maggior peso che non la somma delle caratteristiche personali. Il nocciolo di tutta la dottrina è costituito dalla supposizione che lo spettatore possa piú difficilmente sottrarsi all’effetto del dramma, se vede rappresentata sulla scena la sua stessa condizione, ch’egli deve logicamente riconoscere, piuttosto che il suo speciale carattere, ch’egli può, volendo, rinnegare7. Nell’intento di costringere lo spettatore a identificarsi con gli elementi della sua stessa classe, ha la sua vera origine la psicologia del dramma naturalistico, che interpreta i caratteri come fenomeni sociali. Per quanto ricca di obiettiva verità possa essere una simile interpretazione, tuttavia, elevata a principio esclusivo, essa porta alla falsificazione dei fatti. L’assunto che l’uomo sia semplicemente un essere sociale ci porta a costruirci dell’esperienza un’immagine non meno arbitraria di quella offerta da chi non vede nell’uomo che l’individuo, unico e incomparabile. Nei due casi si stilizza e si romanticizza la realtà. È indubbio che l’immagine, che un determinato tempo si foggia dell’uomo, dipende da fattori sociali; e si tende a rappresentarlo ora come personalità autonoma, ora come esponente di una classe, secondo l’orientamento sociale e i fini politici dei promotori della cultura. Se il pubblico vuole che si accentui sulla scena l’origine sociale e il carattere di classe, è sempre segno che, aristocratico o borghese, quel pubblico ha ormai acquistato una coscienza di classe. E qui il problema, se l’aristocratico sia soltanto aristocratico e il borghese soltanto borghese, è del tutto indifferente.

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La concezione sociologica e materialistica per cui l’uomo appare come semplice funzione dell’ambiente, determina una nuova forma drammatica, del tutto distinta dalla tragedia classica. Non solo essa degrada l’eroe, ma pone in discussione la possibilità del dramma nel senso tradizionale, poiché toglie all’uomo l’assoluta autonomia e quindi, in parte, anche la responsabilità delle azioni. E invero, che cosa può ancora venirgli attribuito come azione reale, se la sua anima non è che il campo di battaglia di forze anonime? La valutazione morale degli atti necessariamente perde ogni significato, o almeno diviene assai dubbia, e l’etica del dramma deve risolversi in pura psicologia e casistica. Infatti in un dramma in cui regna esclusiva la legge di natura non si può fare ormai che un’analisi dei moventi e ricostruire lo sviluppo psicologico per cui l’eroe giunge all’azione. A questo punto è l’intero problema della colpa ad essere rimesso in discussione. I fondatori del dramma borghese avevano negato la tragedia, per introdurre nel dramma l’uomo con la sua umile colpa, determinata dalla realtà consueta; i loro successori negano la colpa, per salvare la tragedia. Il romanticismo elimina il problema persino nell’interpretare la tragedia antica e cosí l’eroe viene scaricato d’ogni colpa diventando una specie di superuomo, che manifesta la sua grandezza consentendo al proprio destino. L’eroe della tragedia romantica vince anche soccombendo e supera il destino avverso, facendone la vera, perfetta soluzione del suo contrasto con la vita. Così, in Kleist, il principe di Homburg vince la paura della morte e insieme abolisce l’apparente assurdità e incongruenza del suo destino, appena può decidere della propria vita. Egli si condanna a morte da sé, riconoscendo in ciò l’unica possibile soluzione. L’accettazione del destino, il non volerlo diverso, la prontezza, anzi la letizia del sacrificio sono la sua vittoria, pur nella rovina: la vittoria della libertà sulla necessità. Che poi alla

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fine egli non debba piú morire, risponde al processo di ulteriore sublimazione e interiorizzazione che la tragedia ha subito. Il riconoscimento della colpa o di quel tanto che ne è rimasto, il passare dall’accecamento alla luce della ragione, basta per espiare e ristabilire l’equilibrio. In sostanza nella tragedia romantica la colpa si riduce alla pertinacia dell’eroe, alla sua volontà puramente personale, alla sua esistenza individuale che rinnega l’unità originaria. Cosí Hebbel dichiara che per il drammaturgo è affatto indifferente che l’eroe cada per un’azione buona o per un’azione cattiva. Quest’interpretazione romantica della tragedia, culminante nell’apoteosi dell’eroe, è ormai profondamente lontana dalle opere commoventi di Lillo e di Diderot, ma sarebbe inconcepibile senza la revisione del problema della colpa dovuta ai primi drammaturghi borghesi. Hebbel era pienamente conscio del pericolo che la mentalità borghese costituiva per la struttura del dramma; invece, contrariamente ai neoclassici, non disconobbe le nuove possibilità drammatiche che la vita borghese in sé poteva presentare. Erano chiari gli inconvenienti formali del dramma fondato sulla psicologia. Per i greci, per Shakespeare e, in certa misura, ancora per i classici francesi, l’azione tragica era un fenomeno sinistro, inspiegabile, irrazionale; il suo effetto sconvolgente dipendeva soprattutto dal suo essere incomprensibile. La motivazione psicologica la ridusse a una misura umana e cosí riuscí piú facile, come del resto volevano i rappresentanti del dramma borghese, riviverla sentimentalmente. Ma i loro avversari, quando deplorano che nella tragedia si sia perduto quel senso di tremendo, di immane e di ineluttabile, dimenticano che questo non è stato provocato dalla introduzione della psicologia; se mai il contrario, la motivazione psicologica a un certo punto è diventata necessaria proprio perché il contenu-

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to irrazionale della tragedia non produceva piú alcun effetto. Il maggior pericolo che, con lo sviluppo psicologico e l’interiorizzazione dei temi, minacciava il dramma come forma teatrale, era la perdita di quell’evidenza palmare, di quell’immediatezza brutalmente impressionante, senza cui era impossibile qualsiasi effetto scenico, come un tempo lo si concepiva. La struttura drammatica si faceva sempre piú intima, spirituale, sempre piú lontana dal teatro di massa, sempre piú rispondente al godimento privato individuale. Ma per questa via perdevano la loro nitidezza i personaggi, oltre che l’azione e la sceneggiatura; divenivano piú ricchi, ma meno evidenti, piú veri, ma meno facilmente comprensibili, meno presenti allo spettatore, e meno facilmente riducibili a schemi da tenere a mente. Tuttavia proprio in questa difficoltà stava l’attrattiva precipua del nuovo dramma, che si allontanò sempre piú dal teatro popolare e dal gran pubblico. Il carattere sfumato dei personaggi richiedeva che anche i conflitti fossero imprecisi, le situazioni tali che non vi fossero ben definiti né i personaggi in contrasto, né i problemi in discussione. Questo tono non deciso, senza contrapposizioni marcate, era particolarmente dovuto all’etica borghese, psicologicamente comprensiva e conciliante, sempre in cerca di spiegazioni e di attenuanti, secondo la norma del «tutto comprendere e tutto perdonare». Finora nel dramma aveva dominato un’unica misura dei valori morali, ammessa anche dai malvagi e dai bricconi8; ora che il rivolgimento sociale ha provocato un generale relativismo etico, spesso il drammaturgo oscilla fra due diversi orientamenti e lascia insoluto il vero problema, come fa Goethe nel contrasto fra il Tasso e Antonio. Discutere gli impulsi e la loro giustificazione indeboliva, certo, l’ineluttabilità del conflitto, ma ravvivava la dialettica del dramma; cosí che

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non si può affermare che il relativismo etico del dramma borghese abbia avuto solo un effetto di disgregazione formale. Tutto sommato, la nuova morale borghese non fu meno feconda per il dramma di quella aristocratico-feudale. Questa non conosceva altri doveri che quelli verso il signore e verso la propria casta: offriva cosí lo spettacolo imponente di conflitti in cui possenti e violente personalità infierivano contro se stesse e contro gli altri. Invece il dramma borghese scopre i doveri verso la società9 e descrive la lotta per la libertà e la giustizia di uomini, che, se pur piú costretti esteriormente, non sono nell’intimo meno liberi e arditi: una lotta forse meno teatrale di quelle cruente della tragedia eroica, ma in sé altrettanto drammatica. Qui l’esito non è cosí ineluttabile come in quelle, dove l’etica elementare della fedeltà feudale e dell’eroismo, cavalleresco non permetteva scampo, né compromessi, né terze soluzioni. Il nuovo atteggiamento morale è perfettamente caratterizzato dalle parole di Lessing in Nathan il saggio: «Nessun uomo deve dovere», parole che, naturalmente, non significano che l’uomo è libero da doveri, ma che è intimamente libero, cioè libero di scegliersi i mezzi, e responsabile dei suoi atti solo verso se stesso. Nell’antico dramma si accentuavano i legami interiori, nel nuovo quelli esterni; ma questi, per quanto opprimenti, lasciano libero corso all’azione drammatica. «La tragedia di un tempo si fonda su un dovere inflessibile, – dice Goethe nel suo scritto Shakespeare und kein Ende: – Ogni dovere è dispotico... Il volere invece è libero... è il dio del tempo... Il dovere fa grande e forte la tragedia, il volere la fa debole e meschina». Goethe assume qui un atteggiamento conservatore e giudica il dramma secondo lo schema dell’antica, quasi religiosa espiazione, e non già come un conflitto di coscienza e di volontà, qual esso è ormai divenuto. Egli rimprovera al dramma moderno di lasciare troppa libertà all’eroe; piú tardi i cri-

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tici cadranno nell’errore opposto pensando che non si possa parlare di libertà, e quindi neppure di conflitto, dato il determinismo del dramma naturalistico. Essi non comprenderanno che, ai fini dell’effetto drammatico, non ha alcuna importanza l’origine della volontà né il movente che la guida, né quanto in esso vi può essere di «materiale» o di «spirituale», purché sfoci in un conflitto drammatico10. Del resto, il principio che questi critici contrappongono alla volontà dell’eroe è tutt’altra cosa da quello goethiano; si tratta di due specie di necessità totalmente diverse. Goethe pensa alle antinomie del dramma tradizionale, al conflitto tra dovere e passione, lealtà e amore, moderazione e orgoglio e deplora che nel dramma moderno sia diminuita la forza dei principî obiettivi di fronte alla soggettività. Piú tardi invece, per necessità s’intendono, per lo piú, le leggi empiriche, specie quelle dell’ambiente fisico e sociale, la cui ineluttabilità fu appunto scoperta dal Settecento. Quindi si parla propriamente di tre cose distinte: volontà, dovere e costrizione. Cioè nel dramma moderno all’impulso individuale sono due e differenti gli ordini obiettivi che contrastano: uno etico-normativo e uno fisico-effettuale. L’idealismo filosofico afferma che è puramente accidentale che l’esperienza, in contrasto con l’universale validità delle norme etiche, risulti pienamente conforme alla legge; e, nello spirito di questo idealismo, la moderna teoria classicista ritiene corruttore nel dramma il dominio delle condizioni materiali della vita. Ma è solo un pregiudizio romantico-idealistico affermare che la dipendenza dell’eroe dall’ambiente materiale vanifica ogni manifestazione di volontà, ogni conflitto drammatico, ogni effetto tragico e mette persino in gioco la possibilità del dramma. Il mondo moderno, data la morale conciliante e il senso della vita essenzialmente alieno da ogni tragicità, propri del mondo borghese,

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offre naturalmente alla tragedia meno materia della vita di un tempo. Il pubblico borghese preferisce i lavori a lieto fine alle grandi tormentose tragedie e non sente, come osserva Hebbel nella prefazione alla Maria Magdalena, alcuna vera differenza fra tragico e triste. Semplicemente, non capisce che la tristezza non implica la tragedia, né la tragedia implica la tristezza. Il Settecento amava il teatro e arricchí straordinariamente la storia del dramma; ma non fu un’epoca tragica, che si rappresentasse i problemi dell’esistenza umana sotto forma di inesorabili alternative. I grandi periodi della tragedia sono quelli in cui si compiono radicali sovvertimenti sociali e una classe dominante perde a un tratto potere e prestigio. I conflitti tragici per lo piú s’imperniano sui valori che costituiscono le basi morali di quel predominio, e la rovina dell’eroe simboleggia e trasfigura la rovina che minaccia tutta la classe. Sia la tragedia greca, sia il dramma inglese, francese, spagnolo dei secoli xvi e xvii sorgono in momenti di crisi e simboleggiano il tragico destino delle aristocrazie dell’epoca. Il dramma ne eroicizza e idealizza la rovina, intonandosi al sentire di un pubblico che appartiene in gran parte alla classe soccombente. E anche nel caso del dramma shakespeariano, se il suo pubblico non appartiene alla classe ormai sconfitta, e il poeta non parteggia per essa, tuttavia la tragedia attinge la sua ispirazione, il suo concetto dell’eroismo e – la sua idea della necessità proprio dallo spettacolo che offre il destino degli antichi signori. Invece, quando nella società prevale una classe che crede nella propria vittoria e nella propria ascesa, non fiorisce il dramma tragico. L’ottimismo, la fede nella vittoria della ragione e del diritto evitano la soluzione tragica dell’intreccio drammatico, o cercano di ridurre la necessità a tragico accidente e della colpa fanno semplicemente un tragico errore. Shakespeare e Corneille differiscono da Lessing e da Schiller

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in quanto il loro eroe soccombe a una necessità superiore, invece che a una pura necessità storica. Non si può pensare alcun ordine sociale in cui Amleto o Antonio non siano votati alla rovina; invece gli eroi di Lessing e di Schiller, Sara Sampson ed Emilia Galotti, Ferdinando e Luisa, Carlos e Posa, potrebbero esser felici e contenti in ogni altra società, in ogni altro tempo, fuor che nel loro, cioè in quello del poeta. Ma un’epoca per cui l’infelicità dell’uomo è determinata da condizioni storiche, e non viene concepita come inevitabile e inesorabile destino, può produrre tragedie, anche importanti, ma non dirà certo nella tragedia la sua ultima e piú profonda parola. Può ben darsi che «ogni tempo esprima le necessità sue proprie, e quindi un suo proprio senso tragico»11, ma è innegabile che il genere tipico dell’illuminismo non fu la tragedia, bensí il romanzo. Nelle epoche in cui fiorisce la tragedia, sono i rappresentanti delle antiche istituzioni che combattono l’ideologia e le aspirazioni della nuova generazione; nei tempi propizi a una forma di dramma non tragico è, per lo piú, la nuova generazione che attacca le vecchie istituzioni. Naturalmente, queste possono stroncare il singolo, che può soccombere del resto anche di fronte ai rappresentanti di un mondo nuovo. Tuttavia una classe che creda al suo futuro trionfo considererà il proprio sacrificio come prezzo della vittoria; mentre l’altra, che sente avvicinarsi irresistibilmente la sua fine, scorge nel tragico destino dei suoi eroi il segno di un mondo in declino, di un crepuscolo degli dèi. Per una borghesia ottimistica, fiduciosa nel trionfo della propria causa, i colpi della cieca sorte non sono i motivi di esaltazione né di abbattimento; solo i ceti agonizzanti delle epoche tragiche trovano conforto nel pensiero che in questo mondo ogni cosa grande e nobile è votata alla rovina e questa rovina vogliono porre in una luce trasfigurante. Forse la filosofia romantica della tragedia con la sua apoteosi del-

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l’olocausto è già un segno del decadere della borghesia. In ogni caso, una forma di dramma veramente tragico che nuovamente metta al suo centro il destino non nascerà dalla borghesia prima che essa si senta minacciata nella sua stessa vita; allora soltanto, come avviene in Ibsen, il destino batterà alla sua porta nel minaccioso aspetto della trionfante gioventú. L’esperienza tragica dell’Ottocento si distingue da quella di tempi piú lontani soprattutto perché la moderna borghesia, a differenza delle antiche aristocrazie, non si sentiva minacciata soltanto dall’esterno. Era una classe di composizione cosí varia, cosí eterogenea nei suoi elementi, che fin dall’inizio pareva sul punto di disgregarsi. Comprendeva non solo elementi che aderivano ai gruppi reazionari, e altri che si sentivano legati agli umili, ma, specialmente, quegli intellettuali socialmente sradicati, che civettavano ora con i ceti superiori ora con gli inferiori, e quindi rappresentavano in parte le idee del romanticismo reazionario e antilluminista, in parte peroravano la causa della rivoluzione permanente. Comunque fu per opera loro, se la borghesia cominciò a dubitare del proprio diritto all’esistenza e della solidità del proprio ordine sociale. Furono essi a dare origine a un modo di sentire antiborghese o «sovraborghese», alla convinzione cioè che la borghesia aveva tradito la propria idea originaria e doveva ormai superare se stessa, sforzandosi verso un ideale umano di valore universale. Veramente queste tendenze «sovraborghesi» per lo piú avevano un’origine antiborghese e antidemocratica. L’evoluzione di Goethe, di Schiller e di molti altri scrittori, specie in Germania, dagli inizi rivoluzionari all’atteggiamento degli anni maturi, conservatore e spesso reazionario, corrispondeva a un generale movimento reazionario nel seno della stessa borghesia e al suo tradimento dell’illuminismo. Gli scrittori non erano in questo caso che interpreti del loro pubblico; ma non di rado

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avvenne che essi sublimassero lo spirito reazionario dei lettori e, con la loro coscienza meno salda e con la loro maggior capacità di fingere, simulassero alti ideali «sovraborghesi», quando in realtà erano ricaduti a un livello preborghese e antiborghese. Questa psicologia della rimozione e della sublimazione, assunse spesso una struttura cosí complicata da non lasciare piú distinguere in molti casi le diverse tendenze. Si è potuto chiarire che, ad esempio, in Cabala e amore di Schiller s’incontrano tre generazioni, quindi tre diverse mentalità: quella preborghese degli ambienti di corte, quella borghese della famiglia di Luisa e quella «sovraborghese» di Ferdinando12. Ma quest’ultima si distingue da quella borghese soltanto perché piú larga e spregiudicata. I rapporti sono già assai piú complicati in un’opera come il Don Carlos, dove Posa, con il suo spirito sovraborghese, riesce a comprendere Filippo e, in certo modo, perfino a simpatizzare con l’«infelice» sovrano. Insomma, diventa sempre piú arduo stabilire se l’ideologia «sovraborghese» del drammaturgo risponda a una tendenza progressista o reazionaria, e se qui si tratti di un autosuperamento del borghese o semplicemente di una diserzione. Comunque, gli attacchi alla borghesia diventano un tratto essenziale del dramma borghese e il ribelle alla morale e al costume borghesi, il derisore delle convenzioni e della meschinità filistee, è ormai una figura stereotipa. Per seguire il graduale sottrarsi della letteratura moderna allo spirito borghese, sarebbe grandemente illuminante un’indagine sulle successive metamorfosi di questo personaggio dallo Sturm und Drang fino a Ibsen e a Shaw. Infatti qui non si tratta semplicemente del tradizionale ribelle contro l’ordine costituito, che è una delle figure originarie del dramma, né di una variante di quella ribellione contro i potenti che costituisce una delle fondamentali situazioni drammatiche, bensí dell’attacco deliberato e sistematico alla bor-

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ghesia, alle basi della sua vita spirituale e alla sua pretesa di rappresentare una morale universalmente valida. In breve, siamo di fronte a una forma letteraria che è stata l’arma piú efficace della borghesia e si è mutata in pericoloso strumento che la estrania da se stessa e la deprime.

george lillo, The London Merchant or the History ot George Barnwell, 1731, IV, 2. 2 leslie stephen, English Literature ecc. cit., p. 66. 3 mercier, Du Théâtre ou Nouvel essai sur l’art dramatique, 1773; citato da f. gaiffe Le Drame en France ecc. cit., p. 91. 4 clara stockmeyer, Soziale Probleme im Drama des Sturmes und Dranges, 1922, p. 68. 5 beaumarchais, Essai sur le genre dramatique sérieux, 1767. 6 rousseau, La Nouvelle Héloïse, II, Lettera xvii, 7 diderot, Entretiens sur le Fils naturel, in Œuvres, VII, p. 150. * Il mercante di Londra. 8 g. lukács, Zur Soziologie des modernen Dramas, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. XXXVIII, 1914, pagine 330 sgg. 9 arthur elösser, Das bürgerliche Drama cit., p. 13. paul ernst, Ein Credo, 1912, I, p. 102. 10 Cfr. g. lukács, Zur Soziologie ecc. cit., p. 343. 11 a. elösser, Das bürgerliche Drama cit., p. 215. 12 fritz brüggemann, Der Kampt um die bürgerliche Welt- und Lebensanschauung in der deutschen Literatur des 18. Jahrhunderts, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», iii, 1925, i. 1

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Capitolo quarto La Germania e l’illuminismo

Dal punto di vista sociologico, il romanticismo settecentesco fu in tutta Europa un fenomeno pieno di contraddizioni. Da un lato continuò, intensificandolo, il processo di emancipazione della borghesia iniziatosi con l’illuminismo, e diede espressione a un sentimentalismo e a un’esuberanza plebea, che venivano a opporsi all’aristocratico e sostenuto intellettualismo dei ceti superiori; dall’altro rappresentò la reazione di questi ultimi contro il razionalismo «disgregatore» e il riformismo illuministico. La sua fortuna cominciò fra quella classe media che l’illuminismo aveva appena sfiorata, e quella parte della borghesia che riteneva il pensiero illuministico ancor troppo legato alla cultura classica; ma a poco a poco se ne impadronirono quei ceti che intendevano valersi delle inclinazioni sentimentali del tempo per i loro fini ostili all’illuminismo, reazionari in religione e in politica. Tuttavia, mentre in Francia e in Inghilterra la classe borghese fu sempre conscia della sua posizione e non rinunziò mai del tutto alle conquiste dell’illuminismo, in Germania si abbandonò alla corrente del pensiero romantico irrazionale prima di aver vissuto a fondo l’esperienza razionalistica. Il che non vuol dire che il razionalismo, come dottrina accademica, non avesse esponenti in Germania: anzi, nelle università tedesche la teoria era forse piú fortemente rappresentata che altrove; ma rimaneva appunto dottrina accademica, spe-

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cialità di eruditi e di poeti convenzionali. Mai il razionalismo era riuscito a permeare di sé la vita pubblica, il pensiero politico-sociale di larghi strati, il costume della borghesia. Certamente non mancarono in Germania figure di grandi illuministi, come Lessing, forse la figura piú schietta e umanamente attraente di tutto il movimento; ma i seguaci sinceri, chiaroveggenti e fermi delle idee illuministiche vi furono sempre fenomeni isolati, e rappresentarono delle eccezioni anche fra gli intellettuali. I piú fra costoro e fra i borghesi erano incapaci di comprendere l’importanza dell’illuminismo in rapporto ai loro interessi di classe; era facile travisare ai loro occhi il carattere del movimento, facile mettere in caricatura i limiti e le insufficienze del razionalismo. Certo, non bisogna immaginare questo fenomeno come una congiura in cui gli scrittori fossero mercenari e complici dei dirigenti politici. Probabilmente neppure i veri manovratori dell’opinione pubblica ammettevano nel loro intimo che qui si compiva una falsificazione ideologica dei fatti; in ogni caso è certo che gli intellettuali araldi della borghesia erano ben lungi dall’esser consci di un inganno o di un tradimento. Ma come sorse negli intellettuali questa erronea visione, questa imprevidenza politica, che finì col portare la Germania alla tragedia? Come spiegare che la borghesia tedesca non abbia mai veramente accolto l’illuminismo, e che sia mancato del tutto un ceto compatto d’intellettuali progressisti, con una viva coscienza di classe? L’illuminismo rappresentò la prima educazione politica della moderna borghesia, la sua scuola primaria, senza la quale sarebbe inconcepibile la parte da essa avuta nella storia intellettuale degli ultimi due secoli. Per sua sventura, la Germania a suo tempo trascurò questa scuola e la perdita fu irreparabile. Quando in Europa venne l’ora dell’illuminismo, in Germania il ceto colto non era abbastanza maturo per intenderlo; e dopo, non fu piú

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cosí facile sorvolare sulle sue ingenuità e sui suoi pregiudizi. Ma il ritardo degli intellettuali tedeschi in sostanza non spiega niente; è anch’esso un fenomeno da spiegare. Nel corso del Cinquecento la borghesia tedesca aveva perduto il suo influsso economico e politico, che era venuto aumentando dalla fine del Medioevo, e con esso la sua importanza culturale. Il commercio internazionale si spostò dal Mediterraneo verso l’Atlantico, le città anseatiche e della bassa Germania vennero soppiantate dagli Olandesi e dagli Inglesi; e quelle meridionali, come Augusta, Norimberga, Ratisbona e Ulma – capitali della cultura tedesca – decaddero insieme con le città mercantili d’Italia, a cui i Turchi tagliarono, col tempo, le vie del commercio mediterraneo. La decadenza delle città tedesche significò il tramonto della borghesia; i principi non ebbero piú nulla da sperarne, né da temerne. L’assolutismo, già nell’ultimo Cinquecento, si era sostanzialmente rafforzato anche all’Ovest, dando luogo a una restaurazione aristocratica. Ma le monarchie occidentali non cessarono mai del tutto di appoggiarsi ai ceti medi nella loro lotta contro la fronda nobiliare; quanto alla nobiltà, o lasciò alla borghesia tutto il campo dell’industria e del commercio, come avvenne in Francia, o le si associò nello sfruttamento della congiuntura economica, come in Inghilterra. Invece i principi tedeschi, che dopo la repressione delle rivolte contadine erano rimasti padroni incontrastati del paese, vedevano un pericolo nei contadini e nei borghesi, non certo nella nobiltà, di cui facevano parte, e di cui rappresentavano la politica di fronte all’imperatore. In Germania i signori, a differenza dei re di Francia e d’Inghilterra, erano latifondisti con prevalenti interessi feudali, e piú o meno indifferenti al benessere della borghesia e delle città. Queste furono annientate, economicamente e politicamente, dalla guerra dei Trent’anni, che completò la rovina del commercio tedesco1. La

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pace di Westfalia venne a suggellare il particolarismo tedesco, consolidando la sovranità dei principi maggiori e minori; con ciò si sanzionarono situazioni, al cui confronto si può considerare progredito l’Occidente, dove in certo modo il re rappresentava l’unità della nazione e talvolta ne difendeva gli interessi anche contro l’aristocrazia. Tra il re e l’insubordinata nobiltà rimase sempre in Occidente una certa tensione, benché le due parti si fossero riconciliate e la borghesia ne traesse un netto vantaggio; in Germania invece principi e nobili erano sempre uniti, quando si trattava di spogliare le altre classi di qualche diritto. Nelle monarchie occidentali la borghesia si era insediata nell’amministrazione, e non fu piú possibile escluderla del tutto; ma in Germania, dove la lealtà dell’esercito e della burocrazia costituí la base di un nuovo feudalesimo, le cariche, ad eccezione degli impieghi subalterni, erano riservate all’alta nobiltà e ai signorotti di provincia. Il popolo subiva l’oppressione dei funzionari della Corona, alti o bassi che fossero, proprio come un tempo aveva subito quella degli amministratori feudali, e anche piú duramente. In Germania i contadini non avevano mai conosciuto altro che la servitú della gleba, ma ora anche la borghesia perdette tutto quello che si era conquistata nel corso dei secoli xiv e xv. Cominciò con l’impoverirsi e fu spogliata dei suoi privilegi, poi smarrí anche la fiducia in se stessa e la stima di sé. Infine sviluppò dalla sua miseria quegli ideali di sudditanza, quella lealtà e fedeltà che permetteva a ogni borghesuccio strisciante nella polvere di sentirsi al servizio di una sublime idea. Come lo sviluppo dal mercantilismo alla libertà del commercio e dell’industria in Germania procede con grande lentezza e non si conclude che nel 18502, cosí solo nella seconda metà dell’Ottocento il potere centrale riesce a imporsi stabilmente sui vari principi. L’interregno, come osserva uno storico francese, dura in

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pratica fino al 18703. Nel Cinquecento l’impero riguadagna momentaneamente terreno e, portato dalla corrente del tempo incline all’assolutismo, Carlo V riesce a consolidarne l’autorità, ma non a fiaccare la potenza dei principi. Troppi sono i problemi, perché possa dedicarsi a modificare le condizioni della Germania. Del resto, in vista dei suoi piú ampi interessi europei, egli deve senz’altro sacrificare la causa della Riforma tedesca a un riguardo per il papa, e così perde irrimediabilmente l’occasione di unificare la Germania, grazie a un vero movimento popolare4. Egli lascia che siano i principi tedeschi ad approfittare dei vantaggi che si possono trarre da un appoggio alla Riforma, e ad essi infatti Lutero prontamente consegna lo strumento del potere ecclesiastico, preponendoli alle Chiese locali e conferendo loro l’autorità di guidare, d’ora in poi, la vita dei sudditi anche in questo campo e di assumersi la cura della loro salute eterna. I principi s’impadroniscono dei beni della Chiesa, decidono delle nomine ecclesiastiche, prendono in mano l’educazione religiosa, e cosí non fa meraviglia che le Chiese locali diventino sostegni fidatissimi del loro potere. Esse predicano il dovere dell’obbedienza all’autorità, confermano il favore divino all’augusto signore e creano cosí quello spirito ottuso, meschino, conservatore, che sarà tipico del luteranesimo tedesco del Seicento. Lo staterello dispotico, a cui nel paese non vi è ormai forza che si opponga, estrania anche dalla Chiesa i ceti progressisti. Lo spirito borghese del Quattro e del Cinquecento sparisce dall’arte e dalla cultura tedesche, se possiamo ancora dirle tedesche dopo la pace di Westfalia. Ora infatti, non soltanto ci si ispira come discepoli e seguaci allo stile aulico-aristocratico di Francia, ma lo si fa proprio importando direttamente artisti e opere, o imitando servilmente modelli francesi. Tutti i duecento staterelli vorrebbero emulare il re di Francia e la corte

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di Versailles. Cosí nella prima metà del Settecento sorgono gli splendidi castelli dei principi tedeschi: Nymphenburg, Schleissheim, Ludwigsburg, Pommersfelden, lo Zwinger di Dresda, l’Orangerie di Fulda, le residenze di Würzburg, Bruchsal, Rheinsberg, Sanssouci – tutti costruiti con una grandiosità e decorati con un lusso affatto sproporzionati alla forza e ai mezzi del paese, in genere assai piccolo e povero. Grazie a tale sfarzo si sviluppa nell’arte una varietà tedesca del Rococò francese e italiano. Ma la letteratura poco si giova dell’ambizione dei principotti e i poeti ne ricevono scarso incoraggiamento, se si eccettuano alcune corti delle Muse, che tuttavia sorgono soltanto verso la fine del secolo. «La Germania brulica di principi, che per tre quarti mancano affatto di buonsenso, e sono la vergogna e il flagello dell’umanità – scrive un contemporaneo. – Per quanto piccoli siano i loro paesi, essi s’immaginano che l’umanità sia fatta per loro»5. C’erano tuttavia varie specie di principi: piú e meno colti, piú e meno dispotici, illuminati e retrogradi, amanti dell’arte e avidi soltanto di sfarzo; ma certo non ce n’era uno che non fosse pienamente convinto che per un semplice mortale il senso della vita consistesse nel lasciarsi dominare e sfruttare. Il denaro che non veniva consumato nel lusso pazzesco, nelle presuntuose costruzioni, nelle spese di corte e nelle amanti del principe, si usava per l’esercito e per la burocrazia. L’esercito, naturalmente, aveva solo compiti di polizia e costava relativamente poco; tanto piú pesava la burocrazia sulla nazione. Il particolarismo di questi stati già di per sé determinava il moltiplicarsi dei funzionari, e il fenomeno si aggravava ancor piú per la generale burocratizzazione dello stato, per il passaggio delle funzioni un tempo proprie delle corporazioni all’apparato statale, per la predilezione per rescritti e ordinanze e per la generale tendenza a regolamentare la

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vita pubblica e privata. Anche in Francia dominava lo stesso sistema politico, economico e sociale, anche là l’intervento e la cattiva amministrazione statale inceppavano gli affari e l’attività del borghese e lo danneggiavano, e, come in Germania, egli era spogliato dei suoi diritti e trascurato; ma nei piccoli principati tedeschi tutto ciò opprimeva e umiliava assai di piú. Nell’immediata vicinanza della corte, sotto la pressione di un gretto apparato statale e di un principe esigente e prodigo, sotto gli occhi di funzionari meno influenti, ma ugualmente inumani, il borghese in Germania ha una vita ancor piú travagliata e precaria. È vero che il servizio di stato assorbe nelle funzioni subalterne una parte notevole del ceto medio, ma corrompe i piccoli impiegati, perché l’impiego statale è per la maggior parte di loro l’unica possibilità di vita decorosa. Per un borghese che non si occupi di commercio o d’industria non resta che diventare funzionario dello stato, legale dell’amministrazione, sacerdote della chiesa locale o insegnante in un istituto pubblico. L’impotenza della classe borghese, esclusa dal governo e, si può dire, da ogni attività politica, genera una passività che si estende a tutta la vita culturale. Il ceto intellettuale, composto d’impiegati subalterni, maestri di scuola e poeti estraniati dal mondo, si abitua a tracciare una linea divisoria tra la vita privata e la politica, e a rinunziare senz’altro a ogni influsso pratico. Se ne compensa aumentando il proprio idealismo e accentuandone il disinteresse, e abbandona il timone dello stato ai potenti. In tale rinunzia si manifesta non solo una completa indifferenza verso la situazione sociale, apparentemente immutabile, ma anche un netto disprezzo della politica come professione. In tal modo l’intellettuale borghese perde ogni contatto con la realtà sociale, riducendosi sempre piú isolato, eccentrico, stravagante. Il suo pensiero diventa puramente contemplativo e specu-

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lativo, irreale e irrazionale; la sua espressione si fa bizzarra, presuntuosa, incomunicabile, senza alcuna considerazione per gli altri e riluttante ad ogni correzione dall’esterno. Egli si ritrae su un piano «genericamente umano», al disopra delle classi, dei ceti e dei gruppi, fa una virtú del proprio difetto di senso pratico, e lo chiama idealismo, interiorità, trionfo sui limiti spaziali e temporali. Dall’involontaria passività si sviluppa un ideale di vita idilliaca, dalla costrizione esteriore l’idea dell’intima libertà e della sovranità dello spirito sulla comune realtà empirica. Si giunge cosí in Germania alla completa scissione della letteratura dalla politica e scompare quel rappresentante dell’opinione pubblica, ben noto all’Occidente, che è insieme scrittore e uomo politico, pubblicista e studioso, buon filosofo e buon giornalista. L’evoluzione sociale, che dalla fine del Medioevo era venuta dividendo la borghesia tedesca in vari ceti nettamente graduati, si arrestò nel Cinquecento. S’iniziò una nuova integrazione, che fu in sostanza un processo involutivo, che riportò a una classe borghese piuttosto indifferenziata, quale ci appare nel Seicento. Gli strati piú larghi di essa avevano rinunziato alle loro esigenze culturali e l’alta borghesia si era cosí diradata, che non contava piú gran che come fattore di cultura. Di un elevato stile di vita proprio del ceto medio e di una sua particolare visione che si esprimesse nell’arte o nella letteratura non si poté piú parlare. Piuttosto si diffuse un livello medio molto modesto, che ricordava le primitive condizioni dell’alto Medioevo. I rivolgimenti del Cinquecento, specie lo spostarsi dei centri dell’economia mondiale e il rafforzarsi dell’assolutismo, distrussero i frutti di quelle che erano state epoche auree della borghesia, il tardo Medioevo e il Rinascimento. Nulla rimase di quella cultura che si fondava sulla concezione borghese della vita; nulla dei suoi principî né del suo idea-

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le artistico; nulla dell’atmosfera intellettuale di un’epoca in cui gli indirizzi generali, le piú avanzate tendenze artistiche e filosofiche, si esplicavano nelle forme del pensiero e dell’esperienza borghesi, e le personalità di maggior rilievo, come Dürer e Altdorfer, Hans Sachs e Jakob Böhme, erano esponenti di esse. La borghesia, che con lo sviluppo dell’economia monetaria, il rigoglio delle città e la decadenza del feudalesimo aveva acquistato ricchezza e prestigio, col denaro e con la lotta si era assicurata l’autonomia delle maggiori città, assumendone l’amministrazione, e aveva occupato importanti posizioni anche nel governo dello stato, nel consiglio privato del principe e nella magistratura. Ma per il declino delle città tedesche, che implicò la decadenza della borghesia, e la progressiva rovina economica della nobiltà, già alla fine del Cinquecento gli elementi borghesi vennero rimossi dagli uffici dello stato e della corte, dove li sostituirono i nobili6. La guerra dei Trent’anni, peggiorando anche la condizione delle classi feudali, rinnovò e affrettò l’assalto alle cariche da parte della nobiltà e precluse alla borghesia i gradi piú alti della carriera burocratica. In Francia la nobiltà di toga, per lo piú d’origine borghese, si sviluppò accanto alla nobiltà di campagna e di corte; in Germania invece fu la nobiltà terriera e cavalleresca a trasformarsi in casta burocratica, e nel Settecento la borghesia venne respinta a uffici subalterni assai piú radicalmente di quanto avveniva altrove. La vittoria dei principi significò la fine degli «stati» come forze politiche, cioè spodestò nobiltà e ceto medio. Da allora, il potere politico fu uno solo: quello del principe. Ma avvenne ciò che suole avvenire in questi casi: i principi compensarono la nobiltà e lasciarono a mani vuote la borghesia. Il quadro della società tedesca è ormai dominato da due gruppi: gli alti funzionari del governo e della corte, che intorno ai principi costitui-

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scono quasi un nuovo vassallaggio, e la burocrazia subalterna, composta dei loro servi piú docili. Del servilismo verso i superiori gli uni si rivalgono con una sfrenata brutalità verso gl’inferiori, gli altri con un culto della disciplina che fa del capo un «intimo censore», e dell’adempimento del dovere burocratico una religione. Ma il progresso del commercio e dell’industria, nonostante gl’impedimenti che la piccolezza degli stati, i loro interessi particolaristici e le loro finanze trascurate, oppongono allo sviluppo economico, alla lunga non si può trattenere. La borghesia torna ad arricchirsi e ricomincia a differenziarsi a seconda del patrimonio. Dapprima spicca sul ceto medio una borghesia che può pagarsi la protezione dei funzionari di corte e adottare anch’essa la moda di Francia. Unica fonte di cultura nel paese, accanto alla nobiltà di corte, essa diffonde fra gli intellettuali il gusto francese e il disprezzo delle tradizioni locali. La letteratura francese acquista il predominio nelle università e trova in Gottsched, il dotto poeta, tipico del tempo, il suo piú ardente fautore; l’arte borghese del Rinascimento tedesco e le scarse tracce che ne sono rimaste come tradizione viva, gli sembrano, in confronto con l’ideale dell’arte francese, rozze, poco sviluppate e di cattivo gusto. Eppure Gottsched non può affatto esser considerato il portavoce letterario dell’aristocrazia; piuttosto egli è l’esponente della borghesia che, del resto, non ha ancora un suo ideale artistico e non possiede né uno spiccato carattere nazionale, né una chiara coscienza di classe. Non bisogna dimenticare, è vero, che anche la cultura dell’aristocrazia, presa a modello dai borghesi, e persino quella della nobiltà di corte non è che pseudocultura, messa insieme sulla falsariga di luoghi comuni, spesso vacui7. La letteratura amena d’argomento profano che, si può dire, costituisce l’unica esigenza culturale di quei ceti, intorno al 1700 si limita ancora ai generi in voga alla corte e fra la

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nobiltà di Francia, e soprattutto al romanzo eroico, pastorale, amoroso, e alla tragedia eroica. Ma gli autori, a differenza di quel che accade in Francia e in Inghilterra, sono in Germania per lo piú uomini di cultura accademica, cioè docenti universitari, giuristi e funzionari di corte, e in gran parte appartengono all’alta borghesia. Fra loro ci sono anche aristocratici come il barone von Canitz, Friedrich von Spee e Friedrich von Logau, ma quasi nessun rappresentante dei ceti inferiori8. A parte i grandi signori, che scrivono per diletto personale e passatempo, tutti questi autori dipendono direttamente o indirettamente dalle corti, o perché al servizio dei principi, o perché insegnanti in qualche università. Klopstock è il primo tedesco che sia poeta di professione nel senso europeo del termine, sebbene neppure lui riesca ad affrancarsi del tutto da protettori privati. Prima di Lessing e dello sviluppo della letteratura dal grembo fertile della grande città, non ci sono in Germania scrittori liberi. Per molto tempo l’alta borghesia resta fedele alla moda di Francia e alle forme della poesia aulica. Sappiamo che perfino in una città mercantile come Lipsia, il gusto del Rococò dominava ancora quando Goethe vi era studente. Tuttavia furono proprio le città mercantili, anzitutto Amburgo e Zurigo, a liberarsi per prime dalla dittatura del gusto aulico, dando asilo alla letteratura borghese. Dopo la metà del secolo, c’è ancora qualche residenza principesca in cui la poesia trova protezione (Weimar ne è l’esempio classico); ma la poesia di corte vera e propria scompare. Non solo per l’origine e le simpatie, ma anche per le forme della sua attività letteraria (egli è principalmente critico e giornalista) Lessing è il rappresentante della borghesia e della vita urbana. Berlino ha già i caratteri della grande città, quando egli vi si stabilisce. Ha centomila abitanti e gode – effetto, in parte, della guerra dei Sette

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anni – di una certa libertà di discussione e di critica. Certo Federico II interviene non appena la critica sconfina dall’argomento religioso9. A questi limiti piuttosto significativi della libertà di discussione accenna anche Lessing in una lettera a Nicolai: .«Codesta libertà berlinese, – egli scrive, – si riduce... alla libertà di portare al mercato quante sciocchezze si vogliono contro la religione... Vada a Berlino uno che voglia elevare la sua voce per i diritti dei sudditi, contro lo sfruttamento e il dispotismo... e presto farà l’esperienza del paese piú schiavista d’Europa». Eppure Lessing sapeva benissimo perché andava a Berlino: in quella gran città si respirava un’aria diversa da quella delle anguste corti di provincia e delle università segregate dal mondo, i soli luoghi che si offrissero a uno scrittore per esplicarvi la sua attività10. È vero che Lessing faceva la vita del letterato che lavora a giornata, ordinando biblioteche, disimpegnando funzioni di segretario, facendo traduzioni; ma in complesso era indipendente. Che cosa quell’indipendenza gli costasse, lo si può immaginare dalla sua risposta a chi gli domandava perché la sua scrittura fosse cosí minuta: i suoi onorari non avrebbero coperto le spese di carta e d’inchiostro, s’egli avesse scritto in caratteri piú grandi. Alla fine, passata la quarantina, non gli rimase che piegarsi al giogo, contro cui fino allora aveva recalcitrato. Egli entrò al servizio di un principe e passò gli ultimi tormentosi anni della sua vita a Wolfenbüttel, come bibliotecario del duca di Brunswick. Tuttavia migliorano le sorti della letteratura tedesca. Cresce il numero degli scrittori (nel 1773 in Germania ne esistevano circa tremila, il doppio nel 1787) e negli ultimi decenni del secolo molti potevano già vivere del loro lavoro letterario11. Ma i piú, ancora nell’età romantica, dovevano esercitare anche un’altra professione. Gellert, Herder, Lavater erano teologhi; Hamann, Winckelmann, Lenz, Hölderlin, Fichte, precettori;

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Gottsched, Kant, Schiller, Görres, Schelling e i fratelli Grimm, professori universitari; Novalis, A. W. Schlegel, Schleiermacher, Eichendorff, E. T. A. Hoffman, impiegati statali. Con lo Sturm und Drang la letteratura tedesca diventa interamente borghese, sebbene i giovani ribelli siano tutt’altro che riguardosi verso la borghesia. Ma in loro la protesta contro i soprusi dei despoti e l’entusiasmo per la libertà sono genuini e sinceri, come è sincera la loro ostilità all’illuminismo. E sebbene essi costituiscano soltanto un gruppo non molto coerente di esaltati ignari del mondo e di stravaganti, tuttavia le loro radici borghesi sono profonde ed essi non possono rinnegare la propria origine. In Germania tutta la cultura dello Sturm und Drang fino al romanticismo è un portato della borghesia; le guide spirituali del tempo pensano e sentono da borghesi, e soprattutto di elementi borghesi è composto il pubblico a cui si rivolgono. Anche se non comprende, veramente, tutti gli strati della borghesia, anzi spesso si limita a un’élite non molto numerosa, tuttavia rappresenta una tendenza progressista e segna la fine della cultura aulica. La borghesia si sviluppa cosí in classe colta, che si distingue non solo dalla nobiltà, ma anche dagli ambienti accademici, e costituisce un collegamento fra il mondo della prassi e quello dello spirito, come pure fra gli intellettuali piú autorevoli e la massa della nazione. Ora la Germania diventa quel «paese del ceto medio» in cui l’aristocrazia si rivela sempre piú improduttiva, mentre la borghesia, benché politicamente debole, s’impone intellettualmente e con il suo razionalismo va scalzando ogni altra forma di cultura. Il razionalismo settecentesco è di quei movimenti, che possono venir rallentati, ma non arrestati dalle controcorrenti reazionarie. Nessun gruppo sociale può rifiutarlo del tutto, e tanto meno il ceto intellettuale tedesco, incline all’irrazionale solo perché fraintende i suoi veri interes-

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si. In breve, questa è la situazione in Germania: la vita dei ceti responsabili della cultura s’imborghesisce, le forme del loro pensiero e della loro esperienza si razionalizzano, e subiscono un profondo rivolgimento. Nasce un nuovo tipo d’intellettuale, intimamente libero da tradizioni e convenzioni, ma che nella realtà politicosociale non può, e spesso non vuole, esercitare un adeguato influsso. Egli cosí finisce per opporsi al razionalismo, di cui è l’involontario portatore, e in parte sostiene quelle tendenze conservatrici, che egli crede di combattere. Qui, tratti conservatori e reazionari dappertutto si confondono con quelli progressisti e liberali12. Lessing sapeva che il «superamento» del razionalismo per opera dello Sturm und Drang era un’aberrazione della borghesia; per questo si mantenne cosí riservato anche di fronte alle opere giovanili di Goethe, specialmente di fronte al Gœtz e al Werther13. Le critiche della nuova generazione alla razionalistica filosofia popolare erano senza dubbio giustificate, ma in quelle condizioni sorvolare sulle insufficienze era piú intelligente che insistervi. L’illuminismo, nella sua lotta contro la Chiesa alleata dell’assolutismo, si era fatto insensibile a tutto ciò che si connetteva con la religione e con le forze irrazionali della storia: ora gli esponenti dello Sturm und Drang, alla realtà «disincantata» con cui essi non sentivano alcun legame contrapposero proprio queste forze irrazionali. Ma con ciò essi non facevano che assecondare i desideri delle classi dominanti, che cercavano di stornare l’attenzione da quella realtà, di cui tenevano saldamente il possesso. Queste classi favorivano ogni concezione che rappresentasse come inesplicabile e imprevedibile il significato del mondo, e incoraggiavano ogni tendenza a trasferire i problemi in una sfera interiore, cosí da deviare l’inclinazione sovversiva della nuova cultura e portare la borghesia a contentarsi di una soluzione ideologica anziché pratica14. Sotto l’azione di

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questa droga, l’intellettuale tedesco perdette il gusto della conoscenza positiva e razionale, cui venne sostituendo l’intuizione e le visioni metafisiche. L’irrazionalismo fu certamente un fenomeno paneuropeo, ma dappertutto altrove si manifestò essenzialmente come una delle forme particolari del sentimentalismo; solo in Germania assunse una speciale impronta idealistica e spiritualistica, solo qui esso divenne una metafisica spregiatrice del mondo empirico e volta all’infinito, all’eterno, all’assoluto. In quanto esaltazione del sentimento, il movimento romantico aveva ancora un rapporto immediato con le tendenze rivoluzionarie della borghesia, per i suoi aspetti idealistici e trascendenti invece si allontanò sempre piú dal pensiero progressista borghese. È vero che l’idealismo tedesco prese le mosse dalla teoria kantiana della conoscenza, teoria antimetafisica e profondamente radicata nell’illuminismo, ma il soggettivismo proprio di questa teoria venne sviluppato in un’assoluta rinunzia alla realtà obiettiva fino a posizioni opposte a quelle del realismo illuministico. Già a partire da Kant la filosofia tedesca si estraniò dal pubblico dei profani colti, anzitutto per il suo gergo, semplicemente incomprensibile ai non iniziati, e nel quale profondità e difficoltà si confondono. Il linguaggio scientifico tedesco assunse a poco a poco quel carattere spesso vago, ricercato, trascolorante in allusioni, che lo divide cosí nettamente dal linguaggio scientifico dell’Occidente europeo. Nello stesso tempo i Tedeschi smarriscono anche il gusto delle semplici, sicure, sobrie verità cosí apprezzate nell’Europa occidentale, e la loro preferenza per le costruzioni e le complicazioni mentali diventa una vera passione. L’abito intellettuale che noi indichiamo come «pensiero tedesco», «scienza tedesca», «stile tedesco» non può, veramente, considerarsi manifestazione di un costante carattere nazionale, ma solo un modo di pensa-

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re e di esprimersi sorto in un determinato periodo della cultura tedesca, cioè nella seconda metà del Settecento, e per opera di un determinato ceto, quello degli intellettuali esclusi dal governo e praticamente privi di ogni influenza. Questo ceto ebbe, nello sviluppo della classe colta, una parte non meno importante di quella dei letterati illuministi per il pubblico dei lettori francesi. Quel che afferma Tocqueville sull’origine della mentalità francese, cioè ch’essa deve allo straordinario influsso della letteratura illuministica la propria inclinazione alle idee razionali, astratte, generali15, si può affermare, mutatis mutandis, anche di quella tedesca, con la sua stravaganza amante di sorprese e di complicazioni. Sono entrambe frutto di un’epoca in cui letterati in via d’emancipazione agiscono in modo decisivo sullo sviluppo intellettuale del paese. In tutto l’Occidente, in Francia e in Inghilterra come in Germania, il Settecento vide nascere il moderno pensiero scientifico e certe impostazioni di cultura complessivamente valide anche oggi. Queste sorsero con la moderna borghesia e ad essa debbono la loro tenacia. Così, ad esempio, ancora Thomas Mann nella Montagna incantata giudica l’illuminismo secondo i criteri dello Sturm und Drang. Anch’egli parla di «superficiale ottimismo» del secolo pedagogico e nella figura di Settembrini caratterizza l’illuminista dell’Europa occidentale, retore vanitoso, compiaciuto filantropo. L’irrealismo che si manifesta nel pensiero astratto e nel linguaggio esoterico dei poeti e dei filosofi tedeschi, si esprime anche nell’esaltato individualismo e nella smania di originalità. Questa, come il loro gergo, non è che una manifestazione della loro indole asociale. Le parole di Madame de Staël, «trop d’idées neuves, pas assez d’idées communes»*, costituiscono la diagnosi piú concisa dello spirito tedesco. Quel che mancava ai tedeschi non era la torta domenicale, ma il pane quotidiano. Mancava loro la sana, vigile guida dell’opinione pubbli-

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ca, che nei paesi dell’Europa occidentale fin da principio pose dei limiti e diede un comune indirizzo alle aspirazioni individuali. Già Madame de Staël riconobbe che la libertà individuale o, come diceva Goethe, il «sanculottismo letterario» dei poeti tedeschi non era che una compensazione della mancata attività politica. Anche l’ermetismo e l’«amore della profondità», il culto del difficile e del complicato, risalivano a quest’origine. Tutto tradiva un’aspirazione a rifarsi della situazione che li escludeva da ogni influenza in campo politico e sociale mediante l’indirizzo esoterico ed eccentrico del pensiero, e a crearsi nelle piú elevate forme della vita spirituale una sorta di dominio riservato che fosse un equivalente del privilegio politico. L’intellettuale tedesco era incapace di comprendere che il razionalismo e l’empirismo erano i naturali alleati di un ordine sociale incompatibile con l’oppressione. Egli non poteva rendere miglior servigio alle forze conservatrici che partecipando alla loro manovra per screditare la «fredda cultura della ragione». A confondere e distogliere gl’intellettuali dai loro obiettivi contribuirono da parte loro i principi tedeschi, che apparentemente fecero proprio l’illuminismo e seppero ammodernare il razionalismo dell’antico regime assoluto sulle nuove formule illuministiche; ma anche, le tradizioni religiose della famiglia piccolo-borghese tanto piú vincolanti quando (e il caso non era infrequente) il padre era un pastore. I piú fra gli intellettuali tedeschi erano eredi di queste tradizioni, allora, per opera del pietismo, avviate a un promettente risveglio. Nella loro campagna contro l’illuminismo gli intellettuali, naturalmente, si tennero essenzialmente in quei campi in cui i motivi irrazionali potevano avere piú gioco, e trassero le loro armi di preferenza dalla sfera estetica e religiosa. L’esperienza religiosa era di per sé irrazionale, quella artistica lo diveniva via via che ci si allontanava dai criteri del gusto

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aulico. Dapprima, richiamandosi al modello neoplatonico, si fusero le due sfere, poi però il primato, nella nuova immagine del mondo, venne assegnato alle categorie estetiche. I caratteri per cui l’opera d’arte si sottrae all’indagine razionale e alla definizione logica non erano una scoperta del tempo; già il Rinascimento li aveva rilevati e messi in evidenza. Ma solo col Settecento l’irrazionalità e l’assenza di regole furono indicati come tratti essenziali della creazione artistica. Solo quest’epoca antiautoritaria, consapevolmente e programmaticamente avversa all’accademismo aulico, seppe contestare che le facoltà della riflessione e del raziocinio, la perizia e l’intelligenza del giudizio critico contribuiscano alla nascita dell’opera d’arte. L’affermazione dell’irrazionalismo fu meno contrastata qui che nel campo propriamente filosofico. Le tendenze antilluministiche si ritirarono dunque sulla linea estetica e di qui conquistarono il mondo intellettuale. L’armonica struttura dell’opera d’arte fu estesa a tutto il cosmo e al Creatore si attribuí – come nel neoplatonismo – una specie di intento artistico. «Il bello è una manifestazione di occulte forze naturali», giunse ad affermare Goethe, di solito affatto alieno dal misticismo; e su quest’idea s’impernia tutta la filosofia della natura dei romantici. L’estetica divenne scienza fondamentale, organo della metafisica. Già nella teoria della conoscenza di Kant l’esperienza era creazione del soggetto conoscente, analogamente all’opera d’arte, considerata sempre un prodotto dell’artista che opera legato alla realtà e tuttavia di questa realtà è dominatore. Lo stesso Kant credeva di non poter dire quasi nulla sulla natura dell’oggetto in sé, moltissimo invece sulla spontaneità del soggetto; e trasformò la conoscenza, che tutta l’antichità e il Medioevo avevano sempre concepito come l’immagine di una realtà, in un’attività della ragione. Col tempo, la resistenza dell’obiettività all’arbitrio del soggetto andò

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diminuendo e l’oggetto della conoscenza finí col diventare dominio assoluto dell’io creatore. Come poté maturare un simile mutamento nell’immagine del mondo? I sistemi filosofici si mettono in carta nelle biblioteche e negli studi, ma non nascono qui; o, se mai ciò avviene – come effettivamente avvenne per l’idealismo tedesco – anche questo ha un suo reale significato, determinato dalla vita pratica. Gli studi dei filosofi tedeschi erano ermeticamente chiusi e l’esperienza da cui essi svilupparono i loro sistemi era appunto l’isolamento, la solitudine, l’assenza di ogni influsso pratico. La loro visione estetica era in parte un segregarsi dal mondo, in cui lo «spirito» si rivelava impotente; in parte, la via indiretta per giungere a un ideale umano che non si poteva attuare per la via maestra dell’educazione politica e sociale. Voltaire e Rousseau furono d’attualità in Germania quasi contemporaneamente; ma l’influsso di Rousseau fu incomparabilmente piú profondo e vasto di quello del rivale. Neppure in Francia Rousseau trovò seguaci così numerosi e fervidi come in Germania. Tutto lo Sturm und Drang, Lessing, Kant, Herder, Goethe e Schiller ne dipendono e vi si riconoscono. In lui Kant vedeva «il Newton del mondo morale» e Herder lo chiamò «santo e profeta». E su scala minore lo stesso accadde per Shaftesbury, la cui autorità fu in Germania assai maggiore che in patria. In Inghilterra gli esperti del Settecento non gli attribuiscono particolare importanza e trovano addirittura incomprensibile che quell’autore «di second’ordine» sia giunto, in Germania, a tanta celebrità16. Ma, conoscendo meglio la situazione tedesca, non fa gran meraviglia che un irrazionalista come Shaftesbury, con il suo spiritualismo apertamente polemico contro Locke, con il suo entusiasmo per Platone e la sua plotiniana idea della bellezza come intima essenza del divino, abbia fatto cosí profonda impressione sui tede-

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schi. Shaftesbury era il tipo dell’aristocratico whig, e la sua mentalità si espresse nel modo piú chiaro in quella kalokagathìa che è alla base del suo ideale pedagogico e della sua morale estetizzante. Il suo self-breeding non fa che applicare alla mente e all’anima l’idea di un’aristocratica selezione del sangue. L’origine sociologica del suo ideale della personalità si riflette inconfondibile, sia nell’identificazione del vero e del bene con il bello, sia nel pensiero che il conflitto fra impulsi egoistici e altruistici, corruttore degli strati piú bassi dell’umanità, trovi un equilibrio armonico nei ceti alti affinati dalla cultura. L’idea che la vita sia un’opera d’arte, a cui si lavora guidati da un istinto infallibile (moral sense), come l’artista nell’opera sua è guidato dal genio, era un’idea aristocratica, che gli intellettuali tedeschi poterono accogliere con tanto entusiasmo, solo perché essa si prestava ad essere del tutto fraintesa e il suo carattere aristocratico poteva interpretarsi come consapevolezza di una nobiltà spirituale. Per l’illuminismo il mondo era perfettamente intelligibile, tale da potersi e doversi spiegare; per lo Sturm und Drang, invece, era qualcosa di essenzialmente oscuro, misterioso e, dal punto di vista della ragione, privo di senso. Tali opposte concezioni non nascono semplicemente dalla meditazione e dall’elaborazione logica. L’una nasce dalla persuasione di poter conquistare e dominare la realtà, l’altra da un sentimento di smarrimento e abbandono. Ceti e generazioni intere non rinunziano spontaneamente al mondo; e, quando vi son costrette, inventano spesso splendide filosofie, favole, miti, attraverso le quali riescono a sublimare la costrizione a cui soggiacciono nella sfera interiore della libertà e della spiritualità. Per questa via è sorta anche la teoria dell’idea che si realizza nella storia, dell’imperativo categorico, dell’artista creatore che impone a se stesso la sua propria legge, e altre. Ma nulla rispecchia cosí niti-

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damente e da tanti lati i motivi da cui lo Sturm und Drang sviluppa la sua visione, come il concetto del genio artistico, che ora viene posto al vertice dei valori umani. Anzitutto il genio è irrazionale e soggettivo, caratteri che il preromanticismo sottolinea nella sua polemica contro l’illuminismo dogmatico e generalizzatore; il genio converte la costrizione esteriore in libertà interiore, ribelle e dispotica a un tempo, e afferma infine il principio dell’originalità che, affiorando proprio nel momento in cui nasce la classe dei letterati indipendenti e si acuisce d’ora in ora la concorrenza, diventa l’arma piú importante dell’intellettuale nella lotta per la vita. La creazione artistica, sia per il classicismo aulico che per l’illuminismo, era una attività intellettuale chiaramente definibile, fondata su regole di gusto spiegabili e apprendibili; ora invece si configura come un processo misterioso, derivato da fonti imperscrutabili, quali l’ispirazione divina, la cieca intuizione, l’imprevedibile inclinazione dell’animo. Per il classicismo e l’illuminismo il genio era un’intelligenza superiore, disciplinata dalla ragione, dalla teoria, dalla storia, dalla tradizione e dalla convenzione; per i preromantici e per lo Sturm und Drang esso diventa la personificazione di un ideale caratterizzato anzitutto dall’assenza di tali vincoli. Il genio si sottrae alla miseria quotidiana rifugiandosi nel mondo fantastico dell’arbitrio illimitato. Qui non soltanto è libero dai ceppi della ragione, ma è in possesso di virtú mistiche, per cui può fare a meno della comune esperienza sensibile. «Il genio è presago, cioè il suo sentimento precorre l’osservazione. Il genio non osserva. Egli vede, sente», dice Lavater. Nel suo aspetto irrazionale, inconscio, creatore, il genio è concetto già noto ai preromantici dell’Europa occidentale, e illustrato anzitutto nelle Conjectures on original Composition di Edward Young (1759); ma qui il genio sta al semplice talento come un «mago» a un buon «architetto»; nel-

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l’estetica dello Sturm und Drang esso diventa invece un titano in rivolta, sovrumano e simile a Dio. Non è piú il negromante, dalle pratiche oscure, ma non certo innaturali, bensí il custode di una misteriosa sapienza, colui che «dice l’ineffabile», il legislatore di un mondo suo proprio da lui stesso legittimato17. Questo concetto si distingue da quello di Young anzitutto per il soggettivismo estremo, determinato dalle speciali condizioni tedesche. Gli aspetti personali della creazione artistica erano già noti all’ellenismo e al Rinascimento; mai tuttavia si era giunti a un concetto dell’arte il cui soggettivismo fosse paragonabile a quello del Settecento18. Ma, anche allora, solo in Germania esso giunse a quell’ansia di originalità, che non si può spiegare del tutto con la protesta contro il dogmatismo illuministico e l’esibizionismo pubblicitario di ciascuno dei letterati in gara. Per ben capirlo, si deve anche tener presente la smodata venerazione che qui si tributava all’uomo forte, al tipo splendido d’energia virile. Naturalmente questo soggettivismo esasperato, che non senza motivo è stato definito «frenesia borghese»19, poteva sorgere solo in un mondo borghese, relativamente libero, indipendente dalla morale di casta e dalla solidarietà di classe dell’aristocrazia, e dominato dallo spirito di libera concorrenza; ma senza l’intimo dissidio dell’intellettuale tedesco, conculcato e intimidito, sempre in cerca di compensazioni e oscillante fra soggezione e orgoglio, pessimismo ed energia virile, non avrebbe assunto la forma patologica propria dello Sturm und Drang. Senza questo contrasto interiore e questa tendenza all’ipercompensazione, sarebbe impensabile non solo il soggettivismo, ma anche la dissoluzione formale del preromanticismo tedesco, la sua fuga nell’eccessivo e nell’informe, la sua dottrina della fondamentale falsità e insufficienza di ogni forma. Il mondo, fatto estraneo e nemico, non voleva comporsi in una forma chiusa. E il preromanti-

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cismo in questa sua visione di un mondo disgregato e nella frammentarietà della sua esperienza vide il simbolo della vita. Il detto di Goethe sulla falsità di ogni forma discende appunto dal modo di sentire di questa generazione e in sostanza corrisponde alle parole di Hamann, che ogni sistema «già di per sé è impedimento alla verità»20. Lo Sturm und Drang nella sua struttura sociologica fu ancor piú complicato del preromanticismo occidentale; e non solo perché in Germania borghesi e intellettuali non furono mai profondamente partecipi del moto illuministico, cosí da vederne nettamente gli scopi e fermamente perseguirli; ma perché la loro lotta contro il razionalismo del regime assoluto fu anche una lotta contro le correnti progressiste dell’epoca. Essi non compresero mai che il razionalismo dei principi costituiva per il futuro un pericolo minore del loro proprio irrazionalismo. Così, da nemici del despota, essi divennero strumenti della reazione e con i loro attacchi contro il centralismo burocratico non fecero che favorire gli interessi di casta. Naturalmente, del sistema accentratore essi non combattevano la tendenza al livellamento sociale, contro cui cozzavano gli interessi della nobiltà e dell’alta borghesia, ma il suo effetto generalizzatore, che violava le diversità di cultura e d’ingegno. Al rigido formalismo dell’amministrazione razionalizzata essi opponevano i diritti della vita vera, della crescita naturale, dello sviluppo organico; e con ciò non intendevano soltanto negare lo stato burocratico con la sua tendenza a regolare tutto meccanicamente e quindi tutto uguagliare, ma anche il riformismo, incline ai piani e ai regolamenti degli illuministi. E benché quest’idea della vita spontanea, irrazionale fosse ancora non ben definita e, per quanto ostile all’illuminismo, non avesse ancora mire esplicitamente conservatrici, tuttavia conteneva in

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germe la filosofia dei conservatori. Infatti non ci volle molto per giungere ad attribuire a questo principio della «vita» un mistico aspetto soprarazionale, di fronte a cui il razionalismo illuministico appariva artificioso, rigido e dottrinario, e per rappresentare il sorgere delle istituzioni sociali e politiche dalla vita storica come qualcosa di «naturale», cioè superiore all’uomo e alla ragione, cosí da proteggerle contro ogni arbitrario intervento e assicurare lo statu quo. A prima vista sorprende che la tendenza conservatrice, che di solito noi associamo all’idea della continuità e della stabilità, qui sottolinei il valore della vita e del divenire, mentre il liberalesimo, che noi siamo avvezzi a collegare con l’idea del movimento e del dinamismo, afferma le sue esigenze in nome della ratio. Si è voluto spiegare questo apparente paradosso dicendo che, dato che il pensiero rivoluzionario della borghesia era «esplicitamente» alleato del razionalismo, la contro-corrente anche solo «per pura contraddizione» ha fatto propria l’ideologia contraria21. Ma la difficoltà del problema sta appunto in questo, che il rapporto dei vari gruppi sociali e delle varie correnti politiche con il razionalismo settecentesco è piuttosto ambiguo, e anche la tendenza conservatrice dell’epoca ha un carattere piú o meno razionalistico. La peculiare posizione dello Sturm und Drang fra illuminismo e romanticismo è determinata appunto dal fatto che razionalismo e irrazionalismo non si possono identificare semplicemente con progresso e reazione, e il razionalismo nell’era moderna non è un fenomeno univoco e specifico, ma piuttosto un carattere generale di tutta l’epoca. Dal Rinascimento in poi esso è presente in tutti i tempi e in tutti i ceti, e mostra ora una tendenza all’elasticità mentale e al dinamismo, ora un’aspirazione all’universalità e alla stasi. Il razionalismo del Rinascimento italiano era diverso da quello del classicismo francese, e a sua volta quello dell’illumi-

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nismo era tutt’altro da quello dell’aristocrazia di corte e della monarchia assoluta. C’è stato un razionalismo borghese e progressista, ma anche un razionalismo conservatore dei privilegi di casta. La borghesia del Rinascimento aveva da combattere contro tradizioni e abitudini paralizzanti, quindi il suo razionalismo assunse un carattere dinamico, antitradizionale e una tendenza al massimo rendimento. La nobiltà allora era cavalleresca, romantica, irragionevole e priva di senso pratico; ma piú tardi, specialmente sotto la pressione dello sviluppo economico, dalla fine del Cinquecento in poi essa si adeguò sempre piú al razionalismo della borghesia, non senza modificarlo in certi aspetti sia della teoria che della pratica. Cosí essa lasciò cadere anzitutto l’antitradizionalismo borghese, eliminando però, in compenso, tutto quel che di fantastico e romanzesco c’era nella sua visione medievale, e nel corso del Seicento giunse a sviluppare un sistema di valori dell’ordine e della disciplina, che sostanzialmente era altrettanto statico che «ragionevole». La borghesia illuministica da principio subí l’influsso di questa nobiltà razionalistica nel pensiero e nell’azione e da essa derivò l’ideale di una condotta severamente disciplinata ed esemplare, sebbene per altro verso si attenesse al razionalismo piú antico, di ceppo rinascimentale, e nell’economia sviluppasse coerentemente la dottrina della produttività e della concorrenza. Ma nella seconda metà del Settecento il medio ceto disertò in parte il razionalismo, lasciandolo per il momento nelle mani della nobiltà e dell’alta borghesia; esso si volse invece agli ideali roussoviani, sentimentali e romantici, mentre l’alta società disprezzava tutti quei fumi sentimentali e restava fedele al suo intellettualismo. Nonostante questo la borghesia progressista conservò un suo modo di sentire antitradizionale, e quindi dinamico, proprio come i ceti conservatori, pur con il loro razionalismo etico ed estetico, restavano fermi nel

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fondo al tradizionalismo della loro filosofia sociale. A un’indagine piú accurata il dinamismo, che si suole attribuire alla mentalità progressista e liberale, si rivela una metafora quanto la stasi, attribuita ai conservatori. Entrambe le tendenze sono dinamiche e razionalistiche a un tempo, né potrebb’essere altrimenti in questa fase, che liquida definitivamente il Medioevo. Irrazionalisti, ora, sono soltanto i poeti e i filosofi, disorientati dalla complessa situazione sociale. Nella letteratura tedesca del Settecento, Herder è forse la figura piú caratteristica. Egli unisce in sé le piú importanti tendenze dell’epoca ed esprime chiarissimo quel conflitto ideologico, quella mescolanza di correnti progressiste e reazionarie che domina la società del tempo. Egli disprezza l’illuminismo, «fredda cultura della ragione», ma parla del suo tempo come di un «secolo veramente grande», e crede di poter conciliare quel suo disprezzo con l’entusiasmo per la Rivoluzione francese, a cui per lo piú gli intellettuali e gli scrittori tedeschi – fra gli altri Kant, Wieland, Schiller, Friedrich Schlegel, Fichte – dapprima aderiscono appassionatamente, per staccarsene soltanto al tempo della Convenzione. L’evoluzione di Herder è la stessa della cultura tedesca, dalla ribellione dello Sturm und Drang, infatuata del «genio» fino all’atteggiamento piú consapevole, sebbene borghesemente piú rassegnato, del periodo classico. Il suo esempio mostra ottimamente che cosa significasse Weimar per la letteratura tedesca. In lui l’influsso di Goethe soppianta quello di Hamann e di Jacobi, avvicinandolo al razionalismo. Egli scrive un’entusiastica commemorazione di Lessing, l’impavido campione della verità, e non soltanto supera l’ortodossia d’un tempo, ma colora di estetismo tutto il suo mondo religioso, e applica ai documenti della religione la sua teoria della lirica popolare, fino a considerare la Bibbia null’altro che un prototipo di tale poesia. Vera-

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mente egli non può rinnegare del tutto il suo passato; l’impegno religioso dalla sua gioventú si muta in grettezza moraleggiante, la sua filosofia della storia ha profonde radici nel pensiero conservatore, e presenta innegabilmente molti punti di contatto con le idee di Burke. Anch’egli, come Burke, anziché dominare, mutare, soverchiare le forme della vita storica, vuol comprenderle, interpretarle, abbandonarvisi22. La sua concezione morfologica della storia, che considera l’evoluzione come un ciclo vegetativo, dal germe al fiore e dalla fioritura alla morte, nonostante l’amorosa pietà dell’indagine, rivela una visione pessimistica in cui è già contenuta l’idea fondamentale del declino, che Spengler svilupperà nella sua teoria23. Il classicismo di Herder, di Goethe e di Schiller è stato considerato un Rinascimento tedesco in ritardo, un parallelo del classicismo francese. Tuttavia è un movimento che si distingue da ogni altro analogo fuori di Germania, anzitutto perché rappresenta una sintesi di tendenze classiche e romantiche e, specialmente se visto dalla Francia, appare decisamente romantico24. I classici tedeschi, quasi tutti in gioventú seguaci dello Sturm und Drang, e comunque inconcepibili senza l’evangelo roussoviano della natura, tuttavia rinunziano alla romantica ostilità di Rousseau per la vita civile e ne rifiutano il nichilismo. Dai tempi degli umanisti nessuna generazione di poeti era vissuta in una simile orgia di civiltà e di cultura, che per loro non è opera dell’individuo, per quanto dotato, ma proprio della società civile25. L’ideale di cultura di Goethe solo nella cultura di società può trovare la sua attuazione e il grado di adeguamento all’ordine borghese diventa per lui proprio un criterio per valutare l’opera individuale. Questo è appunto il concetto che della cultura si fanno letterati ormai giunti al successo e al prestigio, soddisfatti dei loro allori e liberi da ogni risentimento verso la società. Ma questo

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non significa affatto che i classici tedeschi fossero popolari; i loro scritti non hanno avuto fra il popolo neppure la diffusione delle opere classiche della letteratura francese o inglese. E Goethe era il poeta meno popolare di tutti. Da vivo, la sua fama non uscí da un ambiente innegabilmente ristretto, e anche piú tardi non furono che gli intellettuali a leggerne gli scritti. Egli deplora piú volte la propria solitudine, essendo, come dice Schiller, «il piú socievole degli uomini», avido di simpatia e di comprensione, bramoso di esercitare un suo influsso. Il gran numero di lettere e di colloqui tramandati per iscritto ci dimostra che cosa significassero per lui la comunione intellettuale, lo scambio delle idee e lo svilupparle in comune. Eppure Goethe era pienamente consapevole dell’inefficacia del suo lavoro; e spiegava il particolare carattere non solo di tutta la letteratura tedesca, ma anche quello della propria poesia con la mancanza di una vita intellettuale collettiva. Il suo momento di popolarità lo ebbe da giovane, pubblicando il Gœtz e il Werther. Quando si trasferí a Weimar e iniziò la sua attività ufficiale, in certo modo egli scomparve dalla vita letteraria26. A Weimar il suo pubblico erano mezza dozzina di persone – il duca, le due duchesse, la signora von Stein, Knebel e Wieland – a cui egli leggeva le sue opere nuove, non certo numerose né di gran mole: singoli capitoli e frammenti di opere. E non s’immagini che fosse un pubblico particolarmente intelligente27. Il caso dell’ammaestratore di cani che, malgrado l’energica protesta di Goethe, poté esibirsi nel teatro di corte, illustra chiaramente la situazione. Figuriamoci come andavano le cose nelle altre corti! La letteratura tedesca non godeva particolare considerazione a Weimar; anche qui, come in tutti i circoli di corte e della nobiltà, si leggevano per lo piú le novità di Francia28. Fra il gran pubblico (per quanto questo poteva sapere di letteratura seria) durante il viaggio di Goethe in Italia, fu Schil-

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ler ad accentrare l’interesse; il Don Carlos, per esempio, fu accolto con ben piú calore del Tasso. Il massimo successo letterario, tuttavia, non l’ebbero né Goethe né Schiller, ma Gessner e Kotzebue. Solo dopo l’avvento dei romantici e il loro entusiasmo soprattutto per il Wilhelm Meister, Goethe non ha piú rivali nella letteratura tedesca29. Il favore dei romantici per Goethe è il segno piú evidente della comunione profonda e indistruttibile, nonostante ogni contrasto ideologico e personale, che esiste non solo fra classicismo e romanticismo, ma in tutta la cultura tedesca, a partire dallo Sturm und Drang. L’arte è la grande esperienza comune, e non solo come oggetto del piú alto godimento spirituale e unica via ancora aperta al perfezionamento della persona, ma anche come l’organo per cui l’umanità può recuperare l’innocenza perduta e assicurarsi il possesso della natura e della civiltà nello stessa tempo. Per Schiller l’educazione estetica è l’unica salvezza dal male inesorabile scoperto da Rousseau; e Goethe va ancora piú lontano, affermando che l’arte è il tentativo dell’individuo «di resistere alla forza distruttiva del Tutto». L’esperienza artistica assume cioè l’ufficio finora esercitato esclusivamente dalla religione: protegge l’uomo contro il caos. Una frase come questa basta a rivelare la visione goethiana del tutto areligiosa, sebbene forse non proprio irreligiosa. Infatti, pur col suo idealismo «faustiano», il suo estetismo aristocratico e il suo fanatismo per l’ordine, di stampo conservatore, egli era in Germania uno fra i piú intransigenti illuministi; e sebbene non lo si possa certo chiamare un freddo razionalista, si deve scorgere in lui il nemico giurato di ogni oscurantismo e l’appassionato combattente contro tutto quel che è nebuloso e mistico, contro ogni forma di regresso o di ritardo. Benché legato allo Sturm und Drang, egli sentiva una profonda avversione per ogni sorta di romanticismo,

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per ogni negazione radicale della ragione, e una simpatia altrettanto profonda per le virtú borghesi: il solido realismo, la disciplina, l’ethos del lavoro, la tolleranza. Certo, lo slancio rivoluzionario del tempo del Werther, l’infiammata protesta contro l’ordine dominante e la morale convenzionale, si placano con gli anni; ma Goethe rimane l’avversario di ogni oppressione e di ogni ingiustizia diretta contro lo spirito della cultura borghese. Solo tardi egli ne riconobbe il reale valore, e solo nel Wilhelm Meister l’apprezzò. Non è il caso di negare né di tacere le inclinazioni aristocratiche del pensiero goethiano, né le sue ambizioni mondane, il suo egocentrismo olimpico e l’indifferenza politica, e nemmeno l’infelice frase «meglio l’ingiustizia del disordine»; eppure, Goethe rimase un uomo della libertà e del progresso, e non solo per il realismo dell’arte sua, per la sua «ristrettezza innamorata del reale». Ci sono modi diversi di combattere contro la reazione e per il progresso. Chi odia il papa e i preti, chi i principi e i loro vassalli, chi gli sfruttatori e gli oppressori del popolo; ma c’è anche chi, nella reazione, sente soprattutto la confusione mentale e l’impedimento alla verità, ed è specialmente sensibile all’ingiustizia sociale in quanto «peccato contro lo spirito», e lottando per la libertà di coscienza, di pensiero, di parola, combatte per la libertà una e indivisibile in ogni aspetto della vita. Goethe non aveva molta simpatia per i tirannicidi, ma era sensibilissimo a ogni minaccia contro la libertà di pensiero e non si prestò mai ad aiutare chi voleva limitarla. Nel 1794, quando la parte conservatrice chiese agli intellettuali tedeschi, e specialmente a Goethe, di porsi al servizio della nuova federazione dei principi per salvare il paese dalla minaccia dell’«anarchia», Goethe rispose di ritenere impossibile una simile unione fra principi e scrittori30. Tutto quel che concorse all’educazione del giovane Goethe – l’origine, le impressioni infantili, Francofor-

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te città imperiale, Lipsia mercantile e universitaria, la gotica Strasburgo, l’ambiente renano, Darmstadt, Düsseldorf, la casa della Klettenberg e della Schönemann – tutto questo era borghese, magari in parte d’alta borghesia e addirittura spesso già vicino alle sfere aristocratiche, ma non mai senza un intimo rapporto con lo spirito del ceto medio31. Tuttavia questo intimo sentire borghese non si tradusse in un atteggiamento militante, né mai si rivolse contro la nobiltà come tale, neppure nella giovinezza, neppure nel Werther32. Gli sembrava piú importante proteggere il costume borghese dall’oscurantismo e dall’irrealismo, che dall’influsso dei ceti superiori. L’aspetto piú interessante e originale nella concezione goethiana della vita borghese è che esso si riflette nello spirito dell’artista moderno, che accoglie pienamente l’ethos borghese del lavoro nei riguardi della produzione artistica. Goethe non si stanca di sottolineare la natura artigiana della creazione poetica e prima d’ogni altra cosa richiede all’artista una provata abilità tecnica. A partire dal Rinascimento furono per lo piú borghesi a coltivare l’arte e la poesia. La loro qualità di gente del mestiere appariva cosí naturale che non avrebbe avuto senso insistervi. Era, se mai, il caso di incitare artisti e poeti a innalzarsi oltre quel livello. Soltanto nel Settecento, quando la borghesia acquistò una piú forte coscienza di classe, e, d’altra parte, lo sfrenato soggettivismo del genio ribelle a ogni regola e norma venne prendendo l’aspetto di forma aberrante dell’emancipazione borghese, di una specie di sleale concorrenza, allora apparve necessario ricordare l’origine borghese e artigiana della professione. Non era certo piú il caso di accentuare l’alto rango del poeta, anzi era urgente proteggere i letterati dal soverchiare del dilettantismo e della ciarlataneria. Al tempo della emancipazione degli scrittori, le pose geniali erano mezzi pubblicitari nella lotta per la vita; proteste con-

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tro tali metodi si levarono soltanto quando non se ne ebbe piú bisogno. Poter essere «geniale» era un sintomo della raggiunta indipendenza; non volere né dovere piú esserlo è il segno di una condizione in cui la libertà dell’artista è ormai naturale. La dignità di rispettabile borghese e di artista onorato è già cosí forte in Goethe, che nell’arte e nella vita egli cerca di evitare ogni stravaganza e prova una singolarissima avversione contro tutto quel che manca di solidità e di schiettezza, contro l’inclinazione al caotico e al patologico, caratteri in certa misura propri di tutti i gruppi artistici33. Con ciò egli precorre una tendenza dell’Ottocento e dell’artista moderno che, giunto al successo, reagisce con un’esagerata cautela agli eccessi della bohème e, per timore di apparire infido, adotta le forme del costume borghese, spesso anzi piccolo-borghese. L’ideale artistico del classicismo tedesco, che, in accordo con le tendenze dei ceti piú fortunati, avversa ogni forma di capriccio e di anarchia, mostra una chiara tendenza al tipico e all’universale, al regolare e al normativo, al durevole e all’eterno. In contrasto con lo Sturm und Drang, la forma è sentita in esso come espressione dell’essenza, del contenuto ideale dell’opera, cessa di essere identificata con l’esteriore armonia dei rapporti, con l’eufonia e con la bellezza della linea. Per forma ormai s’intende «forma interiore», l’equivalente microcosmico della vita universale. Goethe alla fine supera anche questa formulazione della visione estetica e si avvia a una filosofia della vita affatto realistica, secondo lo spirito della società borghese. Il contenuto del Wilhelm Meister non è che questa evoluzione dall’arte alla società, dalla concezione estetico-individualistica all’esperienza della comunità spirituale, da un rapporto col mondo di tipo estetico-contemplativo a una vita-attiva, socialmente utile34. Negli ultimi anni, Goethe si allontana dalla posizione puramente perso-

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nale di fronte alla letteratura, avvicinandosi a una concezione sovraindividuale, sovranazionale, diretta a compiti universali di civiltà. Viene da lui, com’è noto, il nome e in parte il concetto di «letteratura universale»; ma la cosa esisteva ancor prima che se ne avesse coscienza. La letteratura illuministica, le opere di Voltaire e di Diderot, di Locke e di Helvetius, di Rousseau e di Richardson erano già letteratura universale nel vero senso della parola. Fin dalla prima metà del Settecento si era avviato un «colloquio europeo» a cui partecipavano tutte le nazioni civili, sebbene per lo piú passivamente. La letteratura del tempo era un fatto comune a tutta l’Europa, espressione di una comunità spirituale, quale in Occidente non era piú esistita dopo il Medioevo. Ma era cosa diversa dalla letteratura medievale come era diversa dai movimenti internazionali della letteratura moderna. La letteratura del Medioevo doveva la sua universalità al latino, quella del Barocco e del Rococò al francese; la prima era limitata ai dotti ambienti ecclesiastici, la seconda al gran mondo e alla corte. Entrambe erano indifferenziate, prodotti di un atteggiamento intellettuale piú o meno unitario, non già un concerto di voci diverse, come voleva Goethe, e come l’illuminismo seppe far sorgere fra le letterature delle grandi nazioni europee. La teoria e la prassi della letteratura universale furono creazione di una civiltà condizionata dagli scopi e dai metodi del commercio mondiale. Le parole stesse di Goethe, che paragona al commercio lo scambio di beni intellettuali fra le nazioni, toccano questo nesso e accennano all’origine del concetto. Quando poi Goethe parla del carattere «velociferico» della produzione spirituale e materiale e del ritmo accelerato con cui si scambiano i beni spirituali e materiali, si vede quanto diretto sia il rapporto di queste idee con l’esperienza della rivoluzione industriale35. Meraviglia soltanto che i Tedeschi, che fra le grandi

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nazioni meno di ogni altra avevano contribuito a questa letteratura universale, fossero i primi ad afferrarne e svilupparne il significato.

karl biedermann, Deutschland im 18. Jahrhundert, 1880, 2a ed., I, pp. 276 sgg. 2 w. sombart, Der Bourgeois, 1913, pp. 183-84. 3 jacques bainville, Histoire de deux peuples, 1933, p. 35. 4 Cfr. geoffrey barraclough, Factors in German History, 1946, p. 68. 5 Il conte Manteuffel in una lettera al filosofo Wolf; citato da k. biedermann, Deutschland im 18. Jahrhundert cit., II, i, p. 140. 6 Ibid., p. 23. 7 Ibid., p. 134. 8 w. h. bruford, Germany in the 18th Century, 1935, pagine 310-11. 9 wilhelm dilthey, Leben Schleiermachers, I, 1870, pp. 183 sgg. id., Das Erlebnis und die Dichtung, 1910, p. 29. 10 id., Das Erlebnis und die Dichtung cit., p. 30. 11 johann goldfriedrich, Geschichte des deutschen Buchbandels, 1908-909, pp. 118 sgg. 12 Cfr. g. lukács, Fortschritte und Reaktion in der deutschen Literatur, in «Internationale Literatur», xv, 1945, 8-9, p. 89. 13 franz mehring, Die Lessing-Legende, 1893, p. 371. 14 Cfr. karl mannheim, Das konservative Denken, I, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. LVII, 1927, p. 91. 15 a. de tocqueville, L’Ancien Regime et la Revolution cit., pp. 247-48. Cfr. k. mannheim, Das Konservative Denken cit. * «Troppe idee nuove, troppo poche idee comuni». 16 christian friedrich weiser, Shaftesbury und das deutsche Geistesleben, 1916, pp. ix, xii. 17 Cfr. rudolf unger, Hamann und die Aufklärung, 1925, 2a ed., I, pp. 327-28. 18 Cfr. b. schweitzer, Der bildende Künstler und der Begriff des Künstlerischen in der Antike, 1925, p. 130; alfred stange, Die Bedeutung des subjektivistischen Individualismus für die europäische Kunst von 1750-1850, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», ix, i, p. 94. 19 l. balet - e. gerhard, Die Verbürgerlichung ecc. cit., p. 228. 20 Hamann’s Leben und Schriften, a cura di c. h. gilden-meister, 1857-73, V, p. 228. 21 k. mannheim, Das Konservative Denken cit., p. 470. 1

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte friedrich meusel, Edmund Burke und die französische Revolution, 1913, pp. 127-28. 23 hans weil, Die Entstehung des deutschen Bildungsprinzips, 1930, p. 75. 24 julius petersen, Die Wesensbestimmung der deutschen Romantik, 1926, p. 59. 25 h. a. korff, Die erste Generation der Goethezeit, in «Zeitschrift für Deutschkunde», vol. XLII, 1928, p. 641. 26 viktor hehn, Gedanken über Goethe, 1887, p. 65. 27 Ibid., p. 74. 28 Ibid., p. 89. 29 heine, Die romantische Schule, I, 1833. 30 thomas mann, Goethe als Repräsentant des Bürgertums, 1932, p. 46 (trad. it., Goethe quale esponente dell’età borgbese, in Saggi, Milano 1946). 31 Cfr. alfred nollau, Das literarische Publikum des jungen Goethe, 1935, p. 4. 32 georg keferstein, Bürgertum und Bürgerlichkeit bei Goethe, 1933, pp. 90-91. 33 Ibid., pp. 174-75. 34 Cfr. h. a. korff, Geist der Goethezeit, II, 1930, p. 353; ludwig w. kahn, Social Ideals in German Literature (1770-1830), 1938, pp. 32-34. 35 Cfr. fritz strich, Goethe und die Weltliteratur, 1946, p. 44. 22

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Capitolo quinto La Rivoluzione e l’arte

Il Settecento è pieno di contraddizioni. Non solo la sua filosofia oscilla fra razionalismo e irrazionalismo, ma anche il suo intento artistico è dominato da due correnti opposte, e si volge ora a un severo classicismo, ora a uno sfrenato pittoricismo. Come il razionalismo del tempo, anche il classicismo è un fenomeno difficilmente definibile e variamente interpretabile dal punto di vista sociologico; i suoi esponenti li trova ora nei ceti aulico-aristocratici, ora in quelli borghesi, per svilupparsi infine in stile tipico della borghesia rivoluzionaria. Che la pittura di David diventi l’arte ufficiale della Rivoluzione può apparire strano o addirittura incomprensibile solo se si ha un’idea ristretta del classicismo e lo si riduce al gusto dell’alta società conservatrice. L’arte classicheggiante è, sì, incline all’atteggiamento conservatore e si adatta benissimo a rappresentare ideologie autoritarie, ma il senso aristocratico della vita di per sé trova nella sensualità e nell’esuberanza barocca un’espressione piú diretta che nel ritegno e nella freddezza del classicismo. Invece la borghesia razionalista, moderata, disciplinata preferisce le forme semplici, schiette e chiare dell’arte classicheggiante, e di fronte all’inflazione indiscriminata e informe della realtà si sente cosí poco attratta come di fronte alla sfrenata arte fantastica dell’aristocrazia. Il suo naturalismo si muove entro confini relativamente angusti e, di regola, si attiene al

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razionalismo, cioè a una rappresentazione che non presenti intime contraddizioni. Naturalezza e disciplina formale qui son quasi la stessa cosa. Soltanto col classicismo aristocratico il principio d’ordine dell’arte borghese si trasforma in rigida obbedienza alla norma, l’aspirazione alla semplicità e alla sobrietà in disciplina e costrizione, la sana logica in freddo intellettualismo. Nella classicità dei Greci o di Giotto la fedeltà al vero non è mai inconciliabile con la sintesi formale; soltanto nell’arte dell’aristocrazia aulica la forma domina a spese della naturalezza, soltanto qui essa viene concepita come limitazione e barriera. Ma in sé e per sé il classicismo non rappresenta né una tendenza espansiva, naturalistica, né uno stile tipicamente borghese1, benché spesso cominci come movimento borghese e sviluppi i suoi canoni formali nel senso della naturalezza. In ogni caso, esso va oltre i limiti del gusto borghese e le premesse del naturalismo. L’arte di Racine e di Claudio Lorenese è classicheggiante, senz’essere borghese o naturalistica. La moderna storia dell’arte trae il suo carattere dal coerente e quasi ininterrotto progresso del naturalismo; le correnti di rigorismo formale vi affiorano piuttosto di rado e sempre per breve tempo, sebbene ne accompagnino sotterranee tutta l’evoluzione. La perfetta unione di naturalismo e classicità formale raggiunta da Giotto si dissolve già nel Trecento e l’arte dei due secoli successivi, sostanzialmente borghese, sviluppa il naturalismo a spese della forma. Il primo Cinquecento si preoccupa nuovamente dei principî formali, ma non vede piú, come Giotto, nella composizione un mezzo per chiarire e semplificare, bensì, seguendo la sua tendenza aristocratica, un modo per esaltare e idealizzare la realtà. Non si tratta certo di un’arte anti-naturalistica; è soltanto un’arte piú scarsa di particolari naturalistici e meno preoccupata di differenziare il materiale dell’esperienza, ma non per questo meno vera e giusta. Invece nel

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Manierismo, la cui visione risponde all’ulteriore progresso della restaurazione aristocratica, il classicismo si accompagna a una serie di convenzioni antinaturalistiche determinando un influsso cosí profondo sul gusto dell’alta società, che il suo modo di concepire la bellezza rimarrà piú o meno canonico per tutta l’arte aulica. Nella seconda metà del Cinquecento, il Manierismo è lo stile predominante in Francia, come in Italia e in Spagna. In Francia tuttavia il suo sviluppo subisce una brusca interruzione, a causa delle guerre civili e religiose del tempo di Enrico IV, e questa interruzione, prolungata nel periodo successivo dalla politica del governo ostile alla nobiltà, permette alla borghesia di esercitare, sia pur per breve tempo, un influsso che sarà decisivo per l’ulteriore sviluppo dell’arte. La tradizione rinascimentale della cultura aulica si spezza, e con l’involuzione della vita di corte vi si diradano anzitutto gli spettacoli teatrali, che alla fine cessano completamente. Invece, anche in quest’epoca di crisi, il teatro popolare continua la sua modesta esistenza. Accanto ai misteri e alle moralités, i teatri popolari rappresentano anche drammi d’argomento classico, che d’altronde debbono adattarsi al dinamismo del teatro medievale e accoglierne le licenze formali. La borghesia, che al tempo di Luigi XIII e di Richelieu, e ancora nei primi anni del regno di Luigi XIV, gode il favore della Corona e impiega i letterati del tempo, riesce a riformare anche questa forma di teatro medievale senza regola né misura. Essa sviluppa un proprio stile letterario, fondamentalmente diverso dal Manierismo dell’aristocrazia; e nel dramma – genere a cui la uniscono i vincoli piú antichi e profondi – fonda il suo nuovo classicismo, che s’impronta di naturalezza e razionalità. La tragédie classique non è dunque il frutto dell’umanesimo aulico e dotto, o dell’aristocratica Pléiade, come è stato detto cosí spesso, ma sorge dal vivo e comune teatro borghese. Le sue restrizioni formali,

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specie la regola delle tre unità, non derivano dallo studio della tragedia antica, o almeno non direttamente, ma si sviluppano come accorgimenti intesi ad esaltare l’effetto scenico e a rendere piú verosimile l’azione. Si trova sempre piú strano che i luoghi in cui si svolgono le scene – case, città e paesi diversi – siano divisi soltanto da un assito, e che la breve pausa fra due atti rappresenti giorni, mesi e anni. Sulla base di simili riflessioni razionalistiche si comincia a considerare tanto piú verosimile un’azione drammatica, quanto piú breve è il tempo e unitario lo spazio in cui essa si svolge. Si riduce quindi la durata degli avvenimenti e l’estensione dei luoghi mirando a un’illusione sempre maggiore; e a poco a poco ci si avvicina al massimo dell’illusionismo, quando il tempo reale della recita equivale al tempo ideale dell’azione. Quindi le unità sorgono proprio da un’esigenza naturalistica, e anche i drammaturghi del tempo le presentano sempre come criteri di verosimiglianza. Ma è certo strano che questi accorgimenti, che portarono alla massima stilizzazione e alla piú violenta alterazione della realtà, in origine significassero il trionfo della visione naturalistica e del pensiero razionalistico sulla sfrenata e confusa curiosità di un pubblico di sensibilità ancor medievale. Come nel dramma, cosí nelle altre arti il classicismo equivale al trionfo del naturalismo e del razionalismo, sia sulla stravaganza e l’indisciplina, sia sull’affettazione e il convenzionalismo della produzione artistica di allora. Alla lirica di Du Bartas, d’Aubigné e Théophile de Viau la borghesia contrappone il dramma di Hardy, Mairet e Corneille, mentre al Manierismo di Jean Cousin e Jacques Bellange succedono il naturalismo di Louis Le Nain e il classicismo di Poussin. Il classicismo naturalistico nelle arti figurative s’impone assai meno che nel dramma, anzitutto perché i legami storici della borghesia francese sono molto meno stretti con la pittura che con

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il teatro, poi perché essa non dispone ancora dei mezzi richiesti per esercitare un tale influsso. Il Manierismo a poco a poco passa di moda anche per la pittura e la scultura, ma qui vi subentra uno stile piú barocco che classicheggiante. Frattanto nel dramma il classicismo borghese vede il trionfo delle tre unità. Il Cid, che Corneille, l’avvocato di Rouen, presenta nel 1636, si può considerare la sua vittoria definitiva. Anch’esso da principio urta contro l’opposizione degli ambienti di corte; ma il razionalismo e il realismo dominanti nell’economia e nella politica del tempo non si arrestano nella loro marcia trionfale. L’aristocrazia, che ancora è dominata dal gusto spagnolo, è costretta dalle cose a vincere la propria inclinazione all’avventuroso, allo stravagante e al fantastico e piegarsi al gusto borghese, schietto e sobrio. Veramente ciò non avviene senza che essa modifichi tale gusto secondo i propri ideali e i propri fini. Essa mantiene l’equilibrio, la regolarità e la naturalezza del classicismo borghese, poiché la nuova etichetta di corte già di per sé rifiuta tutto ciò che è stridente, chiassoso, bizzarro, ma interpreta l’economia artistica di questo stile in un modo suo particolare, intendendo per sintesi e precisione non già rigorosi principî di ordine, ma difficoltose regole del gusto, che vengono contrapposte alla «rozza», indomita e imprevedibile natura come norme di una realtà autonoma e superiore. Cosí il classicismo, che in origine doveva soltanto mantenere e sottolineare l’unità organica e la severa «logica» della natura, viene ad essere un freno all’istinto, un argine all’impeto del sentimento e viene a gettare un velo su quanto è comune e troppo naturale. Nelle tragedie di Corneille, che sono fra le piú mature espressioni del nuovo razionalismo artistico, ma che evidentemente non trascurano le esigenze del teatro aulico, questa nuova interpretazione è in parte già compiuta. In seguito le sobrie, rigorose tendenze del classi-

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cismo andranno scomparendo dall’arte di corte, sia perché acanto al rigorismo – e spesso contro di esso – torna ad affermarsi il desiderio di un maggiore sfarzo; sia perché in generale l’indirizzo estetico del secolo muta, e cosí prendono il sopravvento tendenze barocche meno contenute, anzi piú appassionate e sensuali. Nell’arte e nella letteratura francese appare quindi una strana contiguità e commistione di tendenze classicheggianti e barocche, e ne risulta uno stile in sé contraddittorio: il classicismo barocco. Il Barocco maturo di Racine e di Le Brun è frutto del contrasto – nell’uno completamente risolto, nell’altro tutt’altro che risolto – fra il nuovo stile aulico e il rigorismo artistico che deriva i suoi principî formali dal classicismo borghese. È dunque insieme classico e anticlassico, e si vale della materia e della forma, dell’esuberanza e della contenutezza, della dilatazione e della concentrazione. Verso il 1680 a questo stile aulico e accademico viene a contrapporsi una nuova corrente di opposte tendenze: opposte, sia alle pose grandiose e agli ambiziosi soggetti, sia alla presunta fedeltà ai modelli antichi. Si afferma cosí una concezione piú libera, individualistica e intima, che dirige il suo spirito di libertà soprattutto contro il classicismo, non contro il barocchismo dell’arte aulica. Il successo degli innovatori nella querelle des anciens et des modernes non è che un sintomo di tale evoluzione. La Reggenza determina il trionfo della corrente anticlassica e rinnova il gusto dominante. L’origine sociale della nuova arte non è del tutto chiara. Il rivolgimento è in parte dovuto alla nobiltà, liberale di pensiero e antimonarchica di sentimento, in parte all’alta borghesia. Ma via via che l’arte della Reggenza si evolve nel Rococò, assume sempre piú i caratteri di uno stile aulico-aristocratico, benché fin dall’inizio porti in sé gli elementi disgregatori della cultura aulica. Anzitutto essa perde il carattere sintetico, preciso, saldo del classicismo, si mostra sempre piú

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avversa a ogni aspetto regolare, geometrico, strutturale e sempre piú incline all’improvvisazione, al colpo d’occhio, all’epigramma. «Si quelqu’un est assez barbare – assez classique!»* dice persino Beaumarchais, ben lontano da tendenze auliche. Dal Medioevo in poi, mai l’arte si era allontanata in forma cosí scoperta dagli ideali classici, mai era stata piú complicata e artificiosa. E allora, verso il 1750, in pieno Rococò, s’inizia un’altra reazione. Gli elementi progressisti propugnano, di contro alla moda del tempo, un ideale artistico nuovamente ispirato a un carattere di razionale classicismo. E invero nessuna forma di classicismo fu mai piú severa, piú sobria, piú metodica di questa; mai la riduzione delle forme, la linearità e l’importanza della struttura furono perseguite con maggior coerenza; mai il tipo e la norma furono maggiormente accentuati. Nessun classicismo fu cosí chiaro, perché nessuno ebbe mai un carattere cosí rigidamente programmatico, né una cosí recisa volontà di confutare l’arte del tempo, in questo caso il Rococò. Neppure qui è del tutto evidente da quali ceti sociali tragga origine il nuovo movimento. I suoi primi esponenti, Caylus e Cochin, Gabriele Soufflot, crescono sul terreno della cultura aulico-aristocratica, ma presto si vedrà che dietro di loro sta la forza propulsiva degli elementi sociali piú avanzati. Una definizione sociologica del neoclassicismo è tanto piú difficile in quanto la tradizione del vecchio classicismo barocco non fu mai del tutto interrotta e nell’eleganza di Vanloo o di Reynolds essa è viva quanto nella correttezza di Voltaire o di Pope. Certi schemi classici restano in uso, nella pittura e nella poesia, per tutto il periodo dello stile aulico, che si estende dal secolo xvii al xviii, e, quanto al linguaggio poetico, il seguente passo di Pope2 rappresenta il classicismo del tempo, cosí perfettamente come qualunque testo del secolo di Luigi XIV:

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See, through this air, this ocean, and this earth, All matter quick, and bursting into birth. Above, how high, progressive life may go! Around, how wide! how deep extend below! Vast chain of being! which from God began, Natures ethereal, human, angel, man, Beast, bird, fish, insect, what no eye can see, No glass can reach; from infinite to thee, From thee to nothing**. Il riserbo razionalistico e la forma levigata, cristallina di questi versi si distinguono invece alla prima dal tono vibrante di Andrea Chénier in queste righe, altrettanto ineccepibilmente classiche, ma già pervase da una passione nuova: Allons, étouffe tes clameurs; Souffre, o cœur gros de haine, affamé de justice. Toi, Vertu, pleure, si je meurs***. Quelli sono ancora echi dell’intellettualismo aulicoaristocratico, queste esprimono già il nuovo pathos borghese, e proprio per bocca di un poeta su cui pesa l’ombra della ghigliottina e che cadrà vittima di quella borghesia rivoluzionaria, il cui gusto classicheggiante trova in lui il primo grande se pur involontario interprete. Il neoclassicismo non sorge affatto improvviso, come spesso è stato detto3. Dalla fine del Medioevo la storia dell’arte si evolve fra una concezione rigidamente strutturale e un’altra formalmente piú libera; l’una affine, l’altra opposta alla classicità. Nell’arte moderna non c’è mutamento che apra un’era completamente nuova; ognuno fa capo all’una o all’altra di queste due tendenze che si avvicendano nel predominio, senza mai giungere a una vittoria definitiva. Quegli studiosi che presentano il neoclassicismo come una novità assoluta, di

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solito fanno notare che esso sorge in un modo tutto particolare e cioè la sua apparizione non significa uno sviluppo dal semplice al complicato, cioè dal lineare al pittorico, o dal pittorico al piú intensamente pittorico, ma invece una frattura nel processo di differenziazione, e cioè, in certo modo, rappresenta un «salto indietro». Wölfflin pensa che in questo fenomeno di regressione «la spinta provenga da condizioni esterne piú chiaramente» che non nell’ininterrotto processo di complicazione delle fasi precedenti. In realtà non esiste alcuna differenza essenziale tra i due tipi di sviluppo, solo che l’influsso delle «condizioni esterne» in un’evoluzione discontinua è piú evidente che in una rettilinea. Di fatto queste condizioni hanno sempre un’importanza decisiva. In ogni punto, in ogni momento dell’evoluzione, è sempre aperto il problema dell’indirizzo che la creazione artistica deve prendere. Anche lo sviluppo nella stessa direzione è una forma di processo dialettico e il risultato di «condizioni esteriori» non meno che i mutamenti di direzione. La tendenza a ritardare o interrompere lo sviluppo del naturalismo presuppone fattori non diversi nella sostanza da quelli che determinano il desiderio di continuarlo e affrettarlo. L’arte dell’epoca rivoluzionaria si distingue dai precedenti classicismi anzitutto per il suo rigorismo formale che giunge a un grado di esclusiva intransigenza prima sconosciuto, e poi perché conclude definitivamente quell’evoluzione tre volte secolare che va dal naturalismo del Pisanello all’impressionismo di Guardi4. Eppure non sarebbe giusto negare ogni tensione, ogni dissidio stilistico nell’arte di David: la dialettica delle diverse correnti vi pulsa febbrilmente come nei versi di Chénier e in tutte le opere importanti del periodo rivoluzionario. Il neoclassicismo, che cronologicamente si situa tra la metà del Settecento e la Rivoluzione di luglio, non è un movimento omogeneo, ma si sviluppa in piú fasi esatta-

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mente distinguibili, sebbene senza soluzione di continuità. La prima, che dura press’a poco dal 1750 al 1780, e si suol chiamare del «Rococò classicheggiante» per il suo ibrido carattere, rappresenta la tendenza storicamente piú importante fra quelle che si designano sotto il termine complessivo del Louis-Seize, ma non è in realtà che una sottocorrente nella vita artistica del tempo. L’eterogeneità delle tendenze in gara si rivela crudamente nell’architettura che unisce interni rococò a facciate classicheggianti, senza che tale promiscuità urti i contemporanei. In nessun altro fenomeno come in questo eclettismo si rivela altrettanto chiara l’indecisione del tempo, incapace di scegliere fra le alternative proposte. Tra razionalismo e sensualismo, formalismo e spontaneità, antico e moderno oscillava già il Barocco, che tuttavia cercò ancora di risolvere questo dissidio in uno stile unico, benché non perfettamente omogeneo. Qui invece si tratta di un’arte che non tenta neppure di ridurre a un comun denominatore i vari elementi di stile. Infatti, come vengono immediatamente accostate l’architettura degli esterni e quella degli interni, cosí anche nella pittura e nella poesia stanno l’una accanto all’altra opere di stile affatto diverso: quelle di Boucher, Fragonard e Voltaire accanto a quelle di Vien, Greuze e Diderot. Il tempo produce tutt’al piú forme ibride, ma non giunge a un equilibrio tra gli opposti principî formali. Questo eclettismo corrisponde alla generale struttura della società, in cui i vari strati si mescolano e spesso cooperano, pur rimanendo intimamente estranei l’uno all’altro. Quale sia il rapporto delle forze in arte, lo dimostra anzitutto la persistente fortuna dell’aulico Rococò, favorito dalla gran maggioranza degli acquirenti, mentre il neoclassicismo rappresenta soltanto un atteggiamento polemico e costituisce il programma artistico di un gruppo di amatori relativamente esiguo, insignificante per l’andamento del mercato.

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Piú di ogni analoga tendenza precedente, questo nuovo movimento, detto anche «neoclassicismo archeologico», dipende dalla rinnovata esperienza dell’arte greca e romana. L’interesse teorico per l’antichità classica neppure qui però è l’elemento primario; esso presuppone un mutamento di gusto, e questo, a sua volta, uno spostamento nei valori della vita. Per il Settecento l’arte classica assume tanta attualità, perché, fattasi ormai troppo morbida e fluida la tecnica pittorica, troppo frivoli colori e toni, ci si sente attratti verso un’arte piú aspra, piú severa e piú obiettiva. Verso la metà del secolo, all’apparire delle nuove tendenze classicheggianti, il classicismo del grand siècle è morto da cinquant’anni: l’arte si è abbandonata alla stessa sensualità che domina tutto il secolo. La severità dell’ideale neoclassico che ora si riafferma non è, o almeno non è in prima istanza, questione di gusto e di valutazione estetica; è invece un fatto di costume, esprime un intento di semplicità e di schiettezza. Il mutamento di gusto che fa dimenticare il fascino della sensualità visiva, la varietà e la sfumatura dei colori, l’irruente pienezza e la fuga travolgente delle impressioni e comincia a far dubitare del valore di tutto quel che da mezzo secolo costituisce la quintessenza dell’arte per gli intenditori, questa inaudita semplificazione, questo livellamento dei criteri estetici significa il trionfo di un nuovo ideale di vita, opposto all’edonismo dell’epoca. L’aspirazione di Winckelmann alla pura, chiara, semplice linea, alla regolarità e alla disciplina, alla quiete e all’armonia, alla «nobile semplicità e alla tranquilla grandezza» è anzitutto una protesta contro la finzione e l’artificio, il vacuo virtuosismo e gli orpelli del Rococò, che ora si comincia a considerare abietto e degenerato, morboso e contro natura. Accanto a quelli che, come Vien e Falconet, Mengs e Batoni, Benjamin West e William Hamilton, seguono con entusiasmo in tutta Europa la nuova corrente, ci

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sono innumerevoli artisti e amatori, critici e collezionisti, che si limitano a civettare con la rivolta contro il Rococò e solo esteriormente vanno con la moda neoclassica. Per lo piú non fanno che diffondere un movimento la cui vera origine e il fine ultimo rimangono loro celati. Teoricamente, anche il direttore dell’Accademia, Antoine Coypel, si accosta al classicismo, e il conte Caylus, l’illustre collezionista e archeologo, si mette anzi a capo del movimento. Nel 1748 il surintendant de Marigny, fratello di Madame de Pompadour, intraprende, con Soufflot e Cochin, un viaggio di studio in Italia, dando inizio all’usanza dei pellegrinaggi nel Sud. Con Winckelmann comincia la ricerca archeologica sistematica, per opera di Mengs la corrente neoclassica ha il sopravvento a Roma e in Piranesi l’esperienza archeologica diventa soggetto dell’arte. Il neoclassicismo si distingue dai movimenti classicheggianti piú antichi soprattutto perché concepisce l’antico e il moderno come due tendenze nemiche, inconciliabili5. Mentre tuttavia in Francia si stabilisce un equilibrio fra le tendenze antagonistiche, e il classicismo, specie in David, è anche un progresso del naturalismo, per lo piú negli altri paesi d’Europa il nuovo movimento non produce che un’esangue accademia, senz’altro fine che l’imitazione dell’antico. Generalmente si ritiene che siano stati gli scavi di Pompei (1748) a dare la spinta, decisiva al nuovo classicismo archeologico. Ma quest’impresa ha potuto avere tali conseguenze perché essa stessa era stata promossa da un nuovo interesse e una sensibilità nuova: del resto i primi scavi, condotti a Ercolano già nel 1737, erano rimasti senza effetti di rilievo. Il nuovo orientamento si produce appunto verso la metà del secolo. Di qui comincia l’attività internazionale della scienza archeologica e il movimento, ugualmente internazionale, dell’arte neoclassica, che non sarà piú dominata dai francesi, benché

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la scuola di David abbia propaggini in tutta Europa. Gli scavi sono all’ordine del giorno; tutti gl’intellettuali d’Occidente se ne interessano. La raccolta di antichità è ormai una vera passione; per opere d’arte classica si pagano somme notevoli e dappertutto sorgono gliptoteche, collezioni di vasi e di gemme. Un viaggio di studio in Italia non è piú soltanto un’esperienza mondana, ma lo si considera elemento indispensabile nell’educazione di un giovane della buona società. L’artista, il poeta e chiunque abbia interessi di natura intellettuale si ripromettono il piú gran profitto dall’esperienza diretta dei monumenti antichi. Il viaggio in Italia di Goethe, la sua collezione di antichità, la stanza di Hera nella sua casa di Weimar, con il busto colossale della dea, che minaccia di far scoppiare le pareti di quell’ambiente borghese, tutto questo è come un simbolo di quest’epoca. Ma il nuovo culto dell’antico, proprio come l’entusiasmo, quasi contemporaneo, per il Medioevo, è una manifestazione essenzialmente romantica; ora infatti anche l’antichità classica appare una impareggiabile primavera della civiltà umana, scomparsa per sempre, come lo «stato di natura» di Rousseau. In questa concezione si ritrovano concordi Winckelmann, Lessing, Herder, Goethe e tutti i romantici tedeschi. Tutti scorgono nell’antico una fonte di salute e di rinnovamento, un esempio di genuina e perfetta umanità, quale non sarebbe piú tornata. Non è un caso che il preromanticismo coincida con gli inizi dell’archeologia, e Rousseau e Winckelmann siano contemporanei; lo spirito dell’epoca si esprime in una medesima filosofia nostalgica sia quando guarda all’antichità, sia quando guarda al Medioevo. Il neoclassicismo, come il preromanticismo, si oppongono al Rococò frivolo e raffinato; entrambi sono permeati dello stesso spirito borghese. Il Rinascimento vedeva l’antichità con gli occhi degli umanisti e ne rifletteva le idee antiscolastiche e anticlericali; l’arte del Seicento inter-

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pretava il mondo dei Greci e dei Romani secondo l’etica feudale della monarchia assoluta; il classicismo della Rivoluzione è legato all’ideale repubblicano e stoico della borghesia progressista e vi rimane fedele in tutte le sue manifestazioni. Nel terzo venticinquennio del secolo è ancora vivissimo l’antagonismo degli stili. Il classicismo è ancora impegnato nella lotta ed è la piú debole delle due tendenze rivali. Fin verso il 1780 in realtà si limitò per lo piú a una polemica teorica con l’arte aulica; soltanto piú tardi, specialmente dall’avvento di David, il Rococò si può dire superato. Il successo degli Orazi nel 1785 conclude un trentennio di battaglie e segna il trionfo del nuovo stile monumentale. Con l’arte della Rivoluzione, che all’incirca va dal 1780 fino al 1800, s’inizia per il classicismo una nuova fase. Alla vigilia della Rivoluzione, queste, press’a poco, erano le tendenze della pittura francese: 1) la tradizione del Rococò sensuale e coloristico, viva nell’arte di Fragonard; 2) il sentimentalismo, rappresentato da Greuze; 3) il naturalismo borghese di Chardin; 4) il classicismo di Vien. La Rivoluzione scelse quest’ultimo stile come il piú adeguato, benché si debba ammettere che assai meglio le convenissero le tendenze rappresentate da Greuze e Chardin. Ma occorre tener presente che la scelta non fu fatta in base a criteri di gusto e di forma, non tenendo presente quel principio dell’interiorità e dell’intimità che discendeva dall’ideale dell’arte borghese nel tardo Medioevo e nel primo Rinascimento; ci si chiese invece quale fosse lo stile piú appropriato a rappresentare con la massima efficacia l’ethos della Rivoluzione, i suoi ideali patriottici ed eroici, le sue virtú civili memori di Roma e la sua libertà repubblicana. Amore di libertà e di patria, eroismo e abnegazione, rigore spartano e stoicismo subentrano ora a quei concetti morali, che la borghesia aveva sviluppato nel corso della sua ascesa eco-

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nomica e che infine si erano indeboliti e svuotati a tal punto, che l’alta borghesia aveva potuto diventare uno dei maggiori sostegni della cultura rococò. Quindi i precursori e i campioni della Rivoluzione dovevano opporsi con ugual rigore alle aspirazioni dei fermiers généraux e alla douceur de vivre dell’aristocrazia. Ma non potevano neppure appoggiarsi alla visione amabile, patriarcale, antieroica della borghesia dei secoli precedenti: solo grazie a un’arte militante potevano sperare di giungere ai loro scopi. Ma a questo si prestava, piú che ogni altra tendenza del momento, il classicismo di Vien e della sua scuola. Del resto, anche l’arte di Vien era ancora piena di frivolezza e di civetteria, e legata per tanti aspetti al Rococò, come d’altronde lo era anche la pittura borghese-sentimentale di Greuze. Il classicismo in lui non era che un tributo alla moda, che l’artista seguiva con zelo pedantesco. Nelle sue leziose scene erotiche, classico era soltanto il tema, e pseudoclassica la maniera; ma lo spirito e il gusto erano puro Rococò. Nessuna meraviglia se il giovane David intraprese il suo viaggio in Italia risoluto a non incappare nelle seduzioni dell’antico6. Un proposito che meglio d’ogni altra cosa dimostra quale profonda differenza corra tra il Rococò classicheggiante e il classicismo rivoluzionario della generazione successiva. Se David ha potuto nonostante tutto diventare il propugnatore e il massimo esponente dell’arte neoclassica, ciò si deve al nuovo significato che il neoclassicismo venne assumendo, sí da perdere il suo primitivo carattere estetizzante. Ma David con la sua nuova interpretazione non riuscí subito ad affermarsi. Dapprima nulla faceva prevedere che avrebbe raggiunto quell’autorità assoluta, ch’egli acquistò con gli Orazi e che perse soltanto con la Restaurazione. Insieme con David c’era a Roma tutto un gruppo di giovani artisti francesi, che ebbero uno sviluppo simile al suo. Il Salon del 1781 fu

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dominato da questi giovani «romani» orientati verso un piú severo classicismo, che ancora consideravano come loro capo Ménageot. I quadri di David erano troppo rigidi, troppo seri per il gusto del tempo. Solo a poco a poco la critica s’accorse che proprio essi rappresentavano il trionfo di quelle idee, che si cercava di affermare contro il Rococò7. Ma per David i tempi furono presto maturi ed egli ebbe intera soddisfazione. Il Giuramento degli Orazi fu uno dei piú grandi successi della storia dell’arte. Il trionfo di quest’opera cominciò in Italia, dove David l’espose nel suo studio. Si andava in pellegrinaggio a vederla, vi si deponevano fiori, e Vien, Batoni, Angelica Kauffmann, Wilhelm Tischbein, cioè i piú stimati artisti di Roma, erano concordi nel lodare il giovane maestro. A Parigi, al Salon del 1785, il trionfo continuò. Gli Orazi furono detti «il piú bel quadro del secolo» e si considerò l’impresa di David veramente rivoluzionaria. Ai contemporanei l’opera parve quanto di piú ardito e nuovo si potesse immaginare, la perfetta attuazione dell’ideale neoclassico. La scena era ridotta a pochissime figure, quasi senza comparse, senza accessori. I protagonisti del dramma, a dimostrare la loro concordia e la loro risoluzione di morire insieme, se necessario, per il loro fine, erano inclusi in una sola linea, rigida e ininterrotta: intransigenza formale che permetteva al pittore un effetto senza precedenti in tutta l’esperienza artistica della sua generazione. Egli sviluppò il suo classicismo in linearismo puro, rinunziando a ogni effetto sensualmente pittorico e ad ogni concessione che riducesse il quadro a una festa per gli occhi. I mezzi di cui egli si serviva erano rigorosamente razionali, precisi, puritani e subordinavano al principio dell’economia tutta la struttura dell’opera. La precisione e l’obiettività, la riduzione al puro necessario e l’energia spirituale che emanava da tale concentrazione espressiva, rispondevano allo stoicismo della borghesia rivoluzionaria meglio di

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qualunque altra corrente artistica. Qui si univano grandezza e semplicità, dignità e sobrietà. Gli Orazi sono stati giustamente chiamati «il quadro neoclassico per eccellenza»8. L’opera rappresenta l’ideale stilistico del suo tempo, cosí compiutamente come la Cena leonardesca l’estetica del Rinascimento, Se mai è possibile interpretare sociologicamente una pura forma artistica, è questo il caso. Questa espressione chiara, intransigente, netta, indubbiamente ha la sua radice nelle virtú repubblicane; qui davvero la forma non è che un veicolo, un mezzo adeguato allo scopo. Che tuttavia i ceti superiori aderissero a questo classicismo – dopo quanto sappiamo sulla forza di attrazione dei movimenti fortunati – non stupisce, come non stupisce il fatto che il governo lo favorisse. Com’è noto, il Giuramento degli Orazi fu dipinto per il Ministero delle Belle Arti. Di fronte alle tendenze sovversive, non si era in arte meno ignari o irresoluti che in politica. Nel 1789 viene esposto il Bruto, l’opera per cui David giunge al colmo della gloria; ma nel favore con cui il pubblico accoglie l’opera non entrano affatto considerazioni formali. Le fogge e il patriottismo romano sono diventati la moda dominante e un simbolo universale, cui si ricorre tanto piú volentieri, in quanto ogni altra analogia, ogni altro parallelo storico ricorderebbe l’ideale eroico della cavalleria. Ma le premesse vere del moderno amor di patria non hanno nulla a che vedere con i Romani. Le sue radici sono nell’atmosfera di quest’epoca in cui la Francia deve difendere la sua libertà non contro un avido vicino o un sovrano straniero di tipo feudale, ma contro un mondo ostile, diverso da essa in tutta la sua struttura sociale e che nella Francia combatte la Rivoluzione. La Francia rivoluzionaria pone l’arte al servizio di questa lotta con perfetta ingenuità; «l’art pour l’art» è un’invenzione dell’Ottocento. Proprio nell’ambito dell’opposizione romantica all’illuminismo e

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alla Rivoluzione viene formulato per la prima volta il principio dell’arte «pura», «gratuita», e solo quando le classi dominanti temono di perdere il loro influsso sull’arte si comincia ad esigere l’indifferenza dell’artista. Il Settecento continua a servirsi dell’arte per i suoi fini pratici, con la stessa disinvoltura dei secoli precedenti; ma fino alla Rivoluzione questa prassi era stata inconscia negli artisti, e tanto meno essi pensavano di farne un programma. Soltanto con la Rivoluzione l’arte diventa una professione di fede politica, solo allora si dichiara espressamente che essa non deve essere un «semplice ornamento dell’edificio sociale», ma «parte fondamentale» di esso9. L’arte, si dice, non dev’essere un vano passatempo, un vellicamento dei sensi, né un privilegio dei ricchi e degli oziosi ma deve istruire e migliorare, spronare all’azione e servire d’esempio. Dev’essere pura, vera, ispirata ed esaltante, contribuire alla felicità di tutti e diventare patrimonio dell’intera nazione. Era un programma ingenuo, come ogni riforma astratta in campo artistico, e la sua sterilità dimostrò che una rivoluzione deve mutare una società prima di poterne mutare l’arte, benché anche l’arte sia un mezzo per quel mutamento e sia legata al processo sociale da un complicato gioco di interazioni. Del resto, in arte il programma rivoluzionario non mirava a estendere il godimento estetico ai ceti esclusi dal privilegio della cultura, ma appunto a mutare la società, ad approfondire il sentimento di un vincolo comune e a creare la coscienza delle conquiste rivoluzionarie10. La tutela dell’arte costituí d’ora in poi uno strumento di governo, e vi si dedicò un’attenzione che prima si riservava agli affari di stato. Finché la repubblica è in pericolo e combatte per la propria vita, ognuno deve servirla con tutte le sue forze. In un indirizzo di David alla Convenzione è detto: «Ognuno di noi deve render conto alla Nazione del talento che ha ricevuto dalla Natura»11. E Hassen-

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fratz, membro della giuria nel Salon del 1793, cosí formula la corrispondente teoria estetica: «Tutto il talento di un artista è nel suo cuore; ciò ch’egli fa con le mani non ha importanza»12. In questo campo la parte di David è senza precedenti. Egli è membro della Convenzione e, già come tale, esercita un influsso notevole; ma è anche l’uomo di fiducia e il portavoce del governo rivoluzionario in ogni questione d’arte. Dopo Le Brun nessun artista era stato cosí potente; ma il prestigio personale di David è incomparabilmente maggiore della considerazione che circondava il factotum di Luigi XIV. Non solo egli è il dittatore artistico della Rivoluzione e l’autorità da cui dipendono tutta la propaganda artistica, l’organizzazione di tutte le grandi feste e solennità, l’Accademia con tutte le sue funzioni, l’intero complesso dei musei e delle mostre; ma è il promotore di una particolare rivoluzione artistica, quella révolution davidienne da cui, in parte, procede l’arte moderna. È il fondatore di una scuola senza pari nella storia per ampiezza, prestigio e durata. Vi appartengono quasi tutti i giovani d’ingegno; e, nonostante le avversità toccate al maestro, nonostante la fuga, l’esilio e il cedimento della sua forza creativa, essa rimane fino alla Rivoluzione di luglio non solo la scuola piú importante, ma la «scuola» della pittura francese. Anzi, essa diventa la scuola di tutto il classicismo europeo, e il suo fondatore, che è stato chiamato il Napoleone della pittura, esercita per mezzo suo un’autorità che, nella sua sfera, può ben paragonarsi a quella del conquistatore del mondo. L’influsso del maestro va oltre il 9 termidoro, oltre il 18 brumaio e l’avvento di Napoleone al trono; e non perché allora David sia il piú grande pittore di Francia, ma perché il suo classicismo rappresenta la concezione artistica meglio rispondente agli scopi politici del Consolato e dell’Impero. Questo sviluppo, unitario per quanto riguarda i compiti asse-

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gnati all’arte, subisce un’interruzione solo durante il periodo del Direttorio che, diversamente dall’epoca della Rivoluzione e da quella dell’Impero, presenta un carattere straordinariamente frivolo, edonistico, estetizzante e gaudente13. Sotto il Consolato, quando i francesi vengono continuamente esortati all’eroismo romano, e durante l’Impero, che nella propaganda politica si richiama all’Impero romano come un tempo la Rivoluzione si richiamava alla repubblica, il classicismo rimane lo stile ufficiale dell’arte francese. Ma la pittura di David, pur coerente nel suo sviluppo, porta i segni di quella trasformazione che vanno subendo la società e il governo del paese. Già sotto il Direttorio il suo stile – soprattutto nelle Sabine – si mostra piú tenero, piacevole, deviando dall’intransigente severità degli anni rivoluzionari. E sotto l’Impero egli rinunzia di nuovo all’elegante lusinga e all’artificio del suo stile Direttorio, ma devia dalle mete giovanili in un’altra direzione. Lo stile Impero del maestro contiene in realtà, portate in campo artistico, tutte le contraddizioni del potere napoleonico. Questo infatti non rinnega mai del tutto la sua origine rivoluzionaria e distrugge una volta per sempre la speranza di una restaurazione dei privilegi di casta; ma nello stesso tempo continua inesorabilmente la liquidazione del patrimonio rivoluzionario, cominciata il 9 termidoro, e non solo assicura la potenza della borghesia capitalistica e dei contadini ricchi, ma instaura una dittatura politica che limita i diritti di queste classi al Codice civile. Analogamente anche l’arte di David durante l’Impero è una sintesi che non risolve le opposte tendenze, e nella quale a poco a poco il carattere ufficiale prevale sul naturalismo, la convenzione sulla spontaneità. I compiti che David, come premier peintre di Napoleone, deve assolvere, innegabilmente giovano alla sua arte, che ritrova in questo modo l’immediato contatto

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con la realtà storica, e gli offrono l’occasione di cimentarsi con il problema del grande quadro celebrativo; ma nello stesso tempo irrigidiscono il suo classicismo e svelano per la prima volta i segni di quell’accademia che riuscirà fatale a lui e alla sua scuola. Delacroix chiamò David «padre dell’intera scuola moderna», e tale egli fu sotto un duplice aspetto: come creatore del nuovo naturalismo borghese che, specie nel ritratto, esprimeva la dignità di un costume severo, semplice, alieno da ogni teatralità; e come rinnovatore appunto del quadro storico e della pittura di cerimonia. Grazie a questi compiti di corte, David, dopo la superficiale eleganza e i frivoli esercizi formali del tempo del Direttorio, riacquista molto dell’antica obiettività e naturalezza. I problemi ch’egli ora ha da risolvere non sono piú campati in aria come nel caso delle Sabine, ma nascono dall’immediata, attuale realtà. Soggetti come l’Incoronazione (1805-808) o le Aquile (1810) riescono per l’artista piú stimolanti di quanto egli stesso forse si aspettasse. In queste scene manca l’impeto drammatico del Giuramento nella sala della pallacorda, ma in compenso vi è un’impostazione piú semplice, meno teatrale, piú giusta. Cosí David si allontana sempre piú dal Settecento e dalla tradizione del Rococò e, in contrasto con il geniale individualismo delle sue opere giovanili, crea uno stile obiettivo, di cui l’Accademia potrà fare cattivo uso, ma che troverà continuatori. Per altro l’intimo dissidio, che minaccia la sua arte dai tempi del Direttorio, nemmeno in questa fase viene del tutto superato. Accanto alle cerimonie ufficiali per cui trova una soluzione soddisfacente, egli dipinge scene di soggetto classico, come la Saffo (1809) o il Leonida (1812), artificiosi e manierati quanto le Sabine. L’antico ha cessato di ispirare David e anche per lui, come per i suoi contemporanei, diventa pura convenzione. Quando gli si assegnano compiti

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pratici, egli produce ancora opere magistrali; ma quando vuole elevarsi al di sopra della realtà, fallisce. L’intima contraddizione dell’arte davidiana, il contrasto fra l’astratto, esangue idealismo delle composizioni mitologiche e classiche e il succoso naturalismo dei ritratti si acuisce ancora negli anni dell’esilio a Bruxelles. Quando egli riprende contatto con la vita, ogni volta che dipinge un ritratto, continua ad essere il grande maestro d’un tempo; quando invece s’abbandona alle illusioni neoclassiche, prive ormai di ogni rapporto con il presente e ridotte a un gioco artificioso, non solo egli ci appare fuori moda, ma spesso anche di cattivo gusto. Per la sociologia dell’arte il caso di David è di speciale importanza, perché forse nella storia dell’arte non c’è un altro esempio che confuti in modo cosí perentorio la tesi dell’incompatibilità tra fini politici e schietta qualità artistica. Quanto piú intimamente David fu legato alla politica, quanto piú l’arte sua fu al servizio di compiti di propaganda, tanto piú valide furono le sue opere. Al tempo della Rivoluzione, quando ogni suo pensiero faceva capo alla politica, dipingendo il Giuramento della pallacorda e il Marat, egli raggiunse le sue espressioni piú alte. Durante l’Impero, quando almeno egli poteva far propri i fini patriottici di Napoleone e non aveva dubbi su quanto, nonostante tutto, la Rivoluzione dovesse al dittatore, la sua arte rimase, quando si trattava di compiti pratici, viva e creatrice. Ma piú tardi, a Bruxelles, quand’egli perdette ogni rapporto con la realtà politica e non fu piú che un pittore, toccò il livello piú basso della sua carriera. Ora, anche se ciò non prova che un artista debba nutrire interessi politici e sentimenti progressisti per dipinger buoni quadri, prova tuttavia che tali interessi e sentimenti non impediscono affatto i buoni quadri. Spesso si è detto che artisticamente la Rivoluzione è stata sterile e non è uscita dai limiti di uno stile che non

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era se non la continuazione e il perfezionamento del vecchio Rococò classicheggiante. Si è detto e ripetuto che quell’arte si poteva chiamar rivoluzionaria solo per i soggetti e le idee, ma non per le forme e lo stile14. Piú o meno, la Rivoluzione aveva effettivamente trovato il neoclassicismo bell’e pronto, ma gli diede in parte un contenuto e un senso nuovo. Il classicismo rivoluzionario apparirà poco originale e sterile solo nella prospettiva livellatrice dei posteri; i contemporanei erano perfettamente consci della differenza stilistica che correva tra David e i suoi predecessori. Quanto audaci e sovversive apparissero allora le innovazioni davidiane, lo provano meglio di tutto le parole del Pierre, direttore dell’Accademia, che chiamò la composizione degli Orazi un «attacco al buon gusto», perché deviava dal solito schema piramidale15. Ma il vero portato stilistico della Rivoluzione non è questo classicismo, bensí il romanticismo; non l’arte di cui essa si servì, ma quella a cui preparò il terreno. La Rivoluzione in sé non poteva attuare il nuovo stile, perché poteva certo vantare prospettive politiche, nuove istituzioni sociali, nuove norme giuridiche, ma non una nuova società con un suo proprio linguaggio. Per un’arte nuova esistevano soltanto le premesse. Di fronte all’evoluzione politica l’arte non riuscí a tenere il passo e in parte, come già notava Marx, continuò a esprimersi in forme antiquate16. Non sempre scrittori e artisti sono profeti e l’arte ora arranca dietro i tempi, ora li precorre. Anche il romanticismo preparato dalla Rivoluzione si fonda in realtà su un analogo movimento piú antico; ma preromanticismo e romanticismo sono fra loro ancora meno affini delle due forme del neoclassicismo. Non costituiscono affatto le due fasi di un movimento omogeneo, che abbia subito un’interruzione nel suo naturale sviluppo17. Il preromanticismo con la Rivoluzione subisce l’ultima e definitiva sconfitta. L’irrazionalismo

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rinasce poi, ma la sensibilità settecentesca è già definitivamente morta. Il romanticismo che fiorisce dopo la Rivoluzione rispecchia un nuovo senso del mondo e della vita, e matura anzitutto una nuova interpretazione della libertà artistica. Questa non è piú un privilegio del genio, ma il diritto innato di ogni artista e di ogni individuo d’ingegno. I preromantici riconoscevano solo al genio il diritto di scostarsi dalla regola; i romantici negano in generale la validità delle regole. Ogni espressione individuale è unica, insostituibile e ha in sé le sue leggi e la sua misura: questa è nell’arte la grande conquista della Rivoluzione. Il romanticismo diventa cosí lotta per la libertà, condotta non solo contro le accademie, le Chiese, le corti, i mecenati, gli amatori, i critici, i maestri, ma contro il principio stesso della tradizione, dell’autorità e della regola. Questa lotta non è concepibile senza l’atmosfera spirituale creata dalla Rivoluzione da cui essa ebbe inizio ed efficacia. Tutta l’arte moderna, in certa misura, risulta da questo movimento romantico di liberazione. Per quanto ancora si parli di immortali norme estetiche, di valori artistici eternamente umani, della necessità di criteri obiettivi e di convenzioni vincolanti, l’emancipazione dell’individuo, il rifiuto di ogni autorità estranea, l’insofferenza di ogni barriera, di ogni divieto sono e rimangono i principî vitali dell’arte moderna. L’artista del nostro tempo, per quanto possa aderire con entusiasmo a scuole, gruppi, movimenti, partecipando alla loro lotta e al loro destino, appena dipinge, compone musica o poesia, è solo e conscio della sua solitudine. L’arte moderna è l’espressione dell’uomo solitario, dell’individuo che si sente diverso dagli altri come un essere tragico o benedetto. La Rivoluzione e il romanticismo significano la fine di un’epoca in cui l’artista si volgeva ancora a una «società», a un gruppo piú o meno vasto ma in complesso omogeneo, a un pubblico di cui egli riconosceva

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per principio l’autorità assoluta. L’arte non ha piú quel carattere sociale per cui il giudizio si conforma a criteri obiettivi e convenzionali, è ormai un’espressione, che trae da se stessa la misura secondo la quale vuol esser giudicata; insomma, essa diventa il mezzo che permette al singolo di parlare ai singoli. Fino all’età romantica non ebbe mai grande importanza se e in qual misura il pubblico si componesse di veri intenditori; artisti e poeti cercavano comunque di soddisfare i suoi desiderî; invece romantici e postromantici non si sottomettono piú al gusto e alle richieste di alcun gruppo, sempre pronti ad appellarsi contro il giudizio di un foro a un altro foro. C’è una continua tensione, un’eterna polemica fra il pubblico e l’opera loro; si costituiscono sempre nuovi gruppi di esperti e di amatori, ma sempre instabili, sí che rimane distrutta ogni continuità di rapporti fra il pubblico e l’arte. La comune origine rivoluzionaria del classicismo davidiano e della pittura romantica si rivela anche nel fatto che questa non comincia come atteggiamento contrario ai neoclassici, né disgrega dall’esterno la scuola di David, ma nasce proprio fra gli allievi piú dotati e piú vicini al maestro, Gros, Girodet, Guérin. Le due tendenze si separano nettamente solo tra il 1820 e il 1830, quando il romanticismo diventa lo stile dell’avanguardia artistica, il classicismo quello degli elementi conservatori che giurano ancora sull’assoluta autorità di David. Al gusto personale di Napoleone e alla natura dei compiti ch’egli assegnava al suoi artisti rispondeva ottimamente l’ibrida forma classico-romantica trovata da Gros. Nelle opere romantiche Napoleone cercava uno svago dal suo pratico razionalismo ed era incline al sentimentale, appena cessava di veder l’arte come strumento di propaganda. Questo spiega la sua predilezione per Ossian e Rousseau in letteratura e per il pittoresco nell’arte figurativa18. Nominando David suo pittore di corte, egli non

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fece che seguire l’opinione pubblica; le sue, simpatie in realtà andavano a Gros, a Gérard, a Vernet, a Prudhon e ai pittori «aneddotici» del suo tempo19. Tutti del resto, il delicato Prudhon come il robusto David, dovevano dipingere battaglie e vittorie, cerimonie e festeggiamenti. Ma il vero pittore dell’Impero, il pittore napoleonico per eccellenza, era Gros, che dovette la sua fama – riconosciutagli concordemente da aderenti e avversari della scuola davidiana – in parte al suo modo impressionante di rappresentare una scena, spesso con panoramica immediatezza, in parte alla sua nuova concezione morale della scena di battaglia. Com’è noto, egli fu il primo a rappresentare la guerra da un punto di vista umanitario, mostrando anche i lati per nulla eroici dei fatti cruenti. Lo strazio era cosí grande, che non lo si poteva piú dissimulare; la cosa piú ragionevole era non tentarlo neppure. In arte l’ideologia dell’Impero si espresse in un eclettismo che combinava e variava le tendenze stilistiche già esistenti. Le contraddizioni interne di quest’arte corrispondevano alle antinomie politiche e sociali del governo napoleonico. Il gran problema che l’Impero tentò di risolvere era quello di conciliare le conquiste democratiche della Rivoluzione con le forme dell’assolutismo monarchico. Un ritorno puro e semplice all’ancien régime era per Napoleone impensabile, come era impossibile perdurare nell’«anarchia» rivoluzionaria. Occorreva trovare una forma politica che rappresentasse una conciliazione e un compromesso fra il vecchio e il nuovo stato, la nuova e l’antica nobiltà, il livellamento sociale e la nuova ricchezza che si andava costituendo. All’ancien régime erano estranee sia l’idea di libertà che quella di uguaglianza. La Rivoluzione tentò di realizzarle entrambe, ma finí col rinunziare alla seconda. Napoleone volle salvare il principio di uguaglianza, ma vi riuscí solo sul piano giuridico; su quello economico e sociale

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l’antica disuguaglianza prerivoluzionaria finí per prevalere. Politicamente l’uguaglianza si risolse nel fatto che tutti ugualmente erano privati di ogni diritto. Delle conquiste rivoluzionarie non sopravvissero che la libertà civile della persona, l’uguaglianza di fronte alla legge, l’abolizione dei privilegi feudali, la libertà di culto e l’accessibilità delle cariche per ogni cittadino. Il che, certo, non era poco; ma la logica dell’autoritarismo e le ambizioni auliche di Napoleone condussero alla riabilitazione della nobiltà e della Chiesa e, nonostante lo sforzo di tener fede ai principî fondamentali della Rivoluzione, crearono alla fine un’atmosfera antirivoluzionaria20. La conclusione del Concordato e la conseguente rinascita religiosa diedero un potente impulso al romanticismo. Già in Chateaubriand esso appare strettamente connesso con idee di rinnovamento cattolico e inclinazioni legittimistiche. Il Génie du Christianisme, che apparve l’anno dopo il Concordato e fu la prima opera tipica del romanticismo francese, conobbe un successo ignoto a qualsiasi opera letteraria del Settecento. Tutta Parigi lo lesse, e il Primo Console passò molte sere ad ascoltare la lettura di certe parti. La sua pubblicazione segna il sorgere del partito clericale e il tramonto dei «filosofi»21. Con Girodet la reazione romantico-clericale si estende all’arte e affretta la disgregazione del neoclassicismo. Durante gli anni della Rivoluzione non si esponevano quadri di soggetto sacro22. La scuola di David da principio respinse questo genere; ma la diffusione del romanticismo moltiplicò le scene sacre, e questi soggetti finirono col penetrare anche nell’ambiente neoclassico. La rinascita religiosa ha inizio con la reazione politica sotto il Consolato. Anch’essa contribuisce a liquidare la Rivoluzione e viene accolta con entusiasmo dalla classe dominante. Ma presto l’universale giubilo ammutolisce sotto il peso dei sacrifici durissimi, che l’avven-

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tura napoleonica impone al paese; inoltre la creazione della nuova nobiltà militare e i tentativi di riconciliazione con la vecchia aristocrazia smorzano la baldanza dei ricchi borghesi. Ma i giorni aurei per i fornitori dell’esercito, i mercanti di cereali e gli speculatori cominciano appena, e nella lotta per il predominio sociale la vittoria alla fine è della borghesia, benché non sia piú la stessa dei tempi della Rivoluzione. Del resto, anche nella Rivoluzione i suoi fini non erano mai stati cosí altruistici come di solito si pretende. La borghesia facoltosa già da gran tempo era creditrice dello stato e aveva sempre piú ragione di temerne la bancarotta, protraendosi la cattiva amministrazione della corte. Combattendo per un ordine nuovo, essa mirava soprattutto a garantirsi le proprie rendite. Questa circostanza spiega l’apparente paradosso di una Rivoluzione compiuta invece che dai meno abbienti, da una delle classi piú ricche23. Non fu certo la rivoluzione del proletariato e della piccola borghesia povera, bensí dei ceti possidenti e mercantili, cioè di una classe di cui i privilegi nobiliari disturbavano l’espansione economica, ma non minacciavano l’esistenza24. Probabilmente però la lotta rivoluzionaria non sarebbe stata vittoriosa senza l’aiuto dei lavoratori e degl’infimi strati della borghesia. E se è vero che l’alta borghesia non appena ebbe conseguito i suoi fini, si liberò dei suoi alleati e volle esser sola a godere i frutti della lotta comune, pure la vittoria della Rivoluzione finí col giovare a tutti i ceti privi di diritti e oppressi, poiché, dopo tante sommosse e rivolte sfortunate, essa fu la prima a determinare nella società un rivolgimento radicale e durevole. Ma gli effetti immediati dell’evento non furono certo confortanti. La Rivoluzione era appena finita, che un’immensa delusione s’impadroní degli animi, né rimase traccia dell’ottimismo illuministico. Il liberalismo settecentesco partiva dall’identità di libertà e uguaglianza e da questa fede sca-

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turiva il suo ottimismo: il pessimismo dell’epoca postrivoluzionaria nasce appunto quando questa fede viene meno. Il segno piú evidente del trionfo dell’idea liberale si ha nel fatto che solo dopo la Rivoluzione vincoli, limiti e regole nella sfera intellettuale vengono sentiti come paralizzanti. Prima poteva accadere che la piú alta fioritura artistica si accompagnasse al piú rigido assolutismo; d’ora in poi, ogni tentativo di cultura autoritaria urta contro invincibili resistenze. La Rivoluzione ha dimostrato che nessuna istituzione umana è immutabile; ma cosí sono venute a perdere ogni pretesa di superiore necessità anche le idee che venivano imposte all’artista, e invece di confidare nella loro verità si dubita ormai del loro carattere vincolante. In arte i principî di ordine e disciplina hanno perso il loro effetto di stimoli, e da questo momento – da questo momento soltanto – l’idea di libertà diviene fonte d’ispirazione poetica. Napoleone, nonostante i premi, i doni e le onorificenze, che distribuiva ai suoi artisti, non poteva spingerli ad alcun’opera importante. Gli scrittori veramente fecondi, come Madame de Staël e Benjamin Constant, erano dei dissidenti e degli isolati25. Nel campo dell’arte il risultato piú importante dell’Impero fu quello di stabilizzare il rapporto creatosi all’epoca della Rivoluzione fra produttore e acquirente. Il pubblico borghese che si era venuto costituendo nel corso del Settecento si consolidò, e d’ora in poi anche per l’arte ebbe un’influenza veramente decisiva. Il pubblico dei lettori nel Seicento francese comprendeva alcune migliaia di persone; era una cerchia di amatori e di esperti: da due a tremila, secondo Voltaire26. Veramente questo non significa che fosse tutto composto di gente capace di un giudizio proprio, ma solo di gente in possesso di certi criteri di gusto, con cui poteva, entro certi limiti, per lo piú abbastanza ristretti, distinguere il

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buono dal cattivo. Naturalmente il pubblico dell’arte figurativa era ancora piú esiguo, componendosi soltanto di collezionisti e di esperti. Solo al tempo della contesa fra poussinistes e rubénistes il pubblico cominciò ad ampliarsi uscendo un po’ dalla cerchia degli specialisti27, e solo nel Settecento comprese anche gente che s’interessava di quadri senza pensare al loro acquisto. Quest’evoluzione s’accentua sempre piú dopo il Salon del 1699, e nel 1725 il «Mercure de France» annunzia che all’esposizione si vede un foltissimo pubblico, di ogni ceto e di ogni età, che ammira, loda, critica e biasima28. Secondo le fonti contemporanee il concorso è senza esempio, e sebbene i piú vogliano andarvi perché la visita al Salon è diventata di moda, cresce tuttavia anche il numero dei veri amatori. Lo si deduce anzitutto dal moltiplicarsi di pubblicazioni d’arte, riviste e riproduzioni29. Parigi, già da gran tempo centro della vita mondana e letteraria, ora diventa anche la capitale artistica d’Europa, assumendo in pieno la funzione che in Occidente, fin dal Rinascimento, era stata dell’Italia. È vero che Roma rimane il centro e la scuola dell’arte classica; tuttavia per studiare l’arte moderna si va a Parigi30. Ma la vita artistica parigina, che interessa ormai tutto il mondo colto, riceve il piú energico impulso dalle esposizioni, che non si limitano certo ai Salons. Esposizioni ce n’erano state anche prima in Italia e nei Paesi Bassi, ma nella Francia del Sei e del Settecento divennero un fattore essenziale dell’attività artistica31. Mostre d’arte vennero allestite regolarmente a partire dal 1673, cioè da quando, diminuendo gli appoggi statali, gli artisti francesi furono costretti a cercarsi degli acquirenti. Al Salon potevano esporre solo i membri dell’Accademia; gli altri dovevano presentare al pubblico le loro opere nell’«Accademia», assai meno illustre, della Compagnia di san Luca o nell’Exposition de la jeunesse. Queste

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mostre di secessionisti divennero superflue nel 1791, quando la Rivoluzione aprí a tutti il Salon; e la vita dell’arte, che da esse e da numerose altre, personali, di studio e di scuola, derivava il suo carattere inquieto ed eccitante, divenne piú ordinata e piú sana, benché forse meno interessante e varia. La Rivoluzione pose fine alla dittatura dell’Accademia e al monopolio della corte, dell’aristocrazia e dell’alta finanza sul mercato artistico. Si sciolsero gli antichi vincoli che si opponevano al rinnovamento dell’arte in senso democratico e scomparvero insieme con la società e la cultura del Rococò. Non è affatto vero, come invece spesso è stato detto, che tutti i gruppi che dirigevano un tempo la cultura, tutti i rappresentanti del «buon gusto» fossero spariti a un tratto. Poiché la borghesia, già assai prima della Rivoluzione, partecipava in misura sempre maggiore alla vita artistica, una certa continuità di sviluppo poté mantenersi nell’arte, nonostante i profondi rivolgimenti. La vita artistica divenne piú democratica di quanto fosse mai stata, non solo nel senso di una maggior diffusione ma anche in quello di un maggior livellamento, per quanto anche questo fenomeno fosse già avviato prima della Rivoluzione. Il bello è quel che piace ai piú, affermava già Mengs nei suoi Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack**** del 1765. Ma il vero mutamento provocato dalla Rivoluzione consiste in questo, che il pubblico di un tempo rappresentava una classe per cui l’arte aveva ancora una diretta funzione pratica, era una di quelle forme in cui si esprimeva la distanza dai ceti inferiori e la comunanza con la corte e il sovrano; il pubblico d’ora invece è un pubblico di amatori con interessi puramente estetici, per cui l’arte diviene oggetto di libera scelta e di mutevoli inclinazioni. L’Assemblea legislativa fin dal 1791 abolì i privilegi dell’Accademia, estendendo a tutti gli artisti il dirit-

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to di esporre al Salon; e l’Accademia stessa fu soppressa due anni piú tardi. Il provvedimento corrispondeva in campo artistico all’abolizione dei privilegi feudali e all’attuazione della democrazia. Ma anche qui, come già in campo sociale, il processo era cominciato già prima della Rivoluzione. L’Accademia a ogni liberale è sempre apparsa la quintessenza della tendenza conservatrice; in realtà, specie dopo la fine del Seicento, essa non era affatto cosí ristretta e inaccessibile come spesso venne dipinta. Nel Settecento le nuove ammissioni, come è noto, furono decise con spirito molto aperto; però il diritto di esporre al Salon era esclusivamente riservato ai membri dell’Accademia. Ma proprio contro quest’uso si accanirono gli artisti novatori guidati da David. Fu semplice sciogliere l’Accademia, molto piú difficile fu trovare con che sostituirla. Fin dal 1793 David fondò la «Commune des Arts», associazione libera e democratica senza speciali gruppi, classi o membri privilegiati. Ma per il segreto lavorio dei monarchici nel suo seno, già l’anno dopo si dovette sostituirla con la «Société populaire et républicaine des Arts». Questa fu la prima associazione veramente rivoluzionaria degli artisti francesi e fu considerata come l’organo ufficiale che doveva assumersi le funzioni dell’Accademia. Ma non era un’Accademia; era un club, di cui ciascuno poteva esser membro, senza riguardo alla posizione o al mestiere. Nello stesso anno sorse il «Club révolutionnaire des Arts» a cui, fra gli altri, appartennero David, Prudhon, Gérard e Isabey e che, grazie alla celebrità dei suoi membri, godette gran prestigio. Tutte queste associazioni dipendevano direttamente dal Comitato dell’Istruzione pubblica, sotto l’egida della Convenzione, del Comitato di Salute pubblica e del comune di Parigi32. Dapprima all’Accademia fu tolto solo il monopolio delle esposizioni, mentre poté esercitare ancora per qualche tempo la sua funzione

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didattica, conservando buona parte della sua autorità33. Tuttavia ben presto vi subentrò l’«École nationale supérieure des Beaux-Arts», e si prese a insegnar l’arte anche in scuole private e corsi serali. Inoltre l’insegnamento del disegno fu incluso nel piano didattico delle scuole superiori (écoles centrales). Ma forse nulla ha contribuito a rendere democratica l’educazione artistica quanto la costituzione e l’organizzazione dei musei. Fino alla Rivoluzione quegli artisti che non avevano avuto modo d’intraprendere un viaggio in Italia ben poco avevan potuto vedere delle opere dei grandi maestri. Per la massima parte queste si trovavano nelle gallerie del re e dei maggiori collezionisti ed erano inaccessibili al pubblico. Le cose mutarono con la Rivoluzione. Nel 1792 la Convenzione decise di creare un museo al Louvre. Qui, a due passi dal loro studio, d’ora in poi i giovani artisti potevano ogni giorno studiare e copiare i capolavori dell’arte e completare nel modo migliore l’insegnamento dei loro maestri. Dopo il 9 termidoro il principio d’autorità venne restaurato a poco a poco anche in arte, e finalmente l’Accademia delle Arti figurative fu sostituita dalla IV Sezione dell’Istituto. Lo spirito antidemocratico di questa riforma risulta nel modo piú chiaro anche dal semplice fatto che l’antica Accademia aveva centocinquanta membri, la nuova soltanto ventidue. Vi appartenevano tuttavia anche David, Houdon e Gérard ed essa riacquistò ben presto l’autorità di un tempo. Naturalmente, anche il mondo degli artisti fu indotto a rivedere i suoi rapporti con la Rivoluzione, che, del resto, non erano mai stati del tutto unitari. C’erano artisti che fin dal principio erano stati onesti e sinceri rivoluzionari, e non solo gente come David, che grazie alla fortuna della moglie godeva dell’indipendenza economica e poteva quindi non preoccuparsi della momentanea congiuntura sul mercato artistico, ma anche altri come

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Fragonard, che fu rovinato dal corso degli eventi, e che tuttavia rimase fedele alla Rivoluzione. Ma, accanto a costoro, non mancavano naturalmente i contro-rivoluzionari convinti, ad esempio la Vigée-Lebrun, che lasciò il paese insieme con la sua nobile clientela. In realtà i piú, a destra e a sinistra, non erano che compagni di viaggio che, a seconda di quel che ritenevano opportuno, parteggiavano per gli emigrati o per i rivoluzionari. Dapprima gli artisti si sentirono gravemente minacciati dalla Rivoluzione; l’emigrazione li privò dei clienti piú facoltosi e piú esperti34. Il numero degli emigrati cresceva di giorno in giorno, e a chi rimaneva in Francia ormai mancavano i mezzi e la voglia di acquistare opere d’arte. In principio i piú degli artisti conobbero dure privazioni, e quindi non è strano che non sempre fossero entusiasti della Rivoluzione. Se nonostante questo la Rivoluzione trovò fra loro tanti fautori, fu perché l’artista sotto l’antico regime, dove per lo piú era annoverato tra i servi, si sentiva umiliato e sacrificato. Quest’inferiorità cessò con la Rivoluzione, che finí col risarcirlo anche dei danni materiali. Infatti, a prescindere dalla crescente cura del governo per l’arte, ben presto intervennero anche i privati, e quasi inaspettatamente si ebbe un nuovo pubblico, che s’interessava vivamente al lavoro degli artisti di grido35. In quegli anni i Salons furono piú frequentati che mai. Nelle vendite all’asta i prezzi delle opere d’arte raggiunsero ben presto il livello prerivoluzionario, che doveva poi essere superato durante l’Impero36. Crebbe il numero degli artisti e la critica deplorava che ce ne fossero troppi. Presto – troppo presto – la vita artistica si era riavuta dalle scosse della Rivoluzione. L’attività degli artisti si era riordinata prima che ci fosse un’arte nuova. Si rinnovarono le antiche istituzioni senza un criterio originale in fatto di gusto, e senza il coraggio di crearselo. Ciò spiega perché l’epoca postrivoluzionaria abbia

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avuto sostanzialmente solo un’arte di epigoni e perché siano dovuti passare ancora piú di vent’anni, prima che in Francia il romanticismo potesse affermarsi. Come per esempio wilhelm hausenstein, Der nackte Mensch, 1913, p. 151, e f. antal, Reflections on Classicism and Romanticism, in «The Burlington Magazine», vol. LXVI, 1935, p. 161. * «Se qualcuno è abbastanza barbaro – abbastanza classico!» 2 pope, Essay on Man, I, vv. 233 sgg. ** «Vedi attraverso l’aria, l’oceano e la terra | Ogni cosa pregnante e prossima a sbocciare. | In alto, quanto in alto può progredir la vita, | Come si espande intorno, come profonda in basso. | Infinita catena, ch’ebbe principio in Dio, | Essere etereo, umano, angelo, uomo, | Fiera, uccello, pesce, insetto, quel che occhio non vede | Né lente può raggiungere; dall’infinito a te, | Da te al nulla». *** «Su, cheta ogni querela; | soffri, o cuore pien d’odio, di giustizia affamato. | Virtú, piangi, s’io muoio». 3 heinrich wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, 1927, 7a ed., p. 252 [trad. it., Concetti fondamentali di storia dell’arte, Milano 1953]; hans rose, Spätbarock, 1922, p. 13. 4 Cfr. h. wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe cit., p. 35. 5 karl justi, Winckelmann und seine Zeitgenossen, 1923, 3a ed., III, p. 272. 6 maurice dreyfous, Les arts et les artistes pendant la période révolutionnaire, 1906, p. 152. 7 albert dresdner, Die Entstehung der Kunstkritik, 1915, pp. 229-30. 8 walter friedländer, Hauptströmungen der französischen Malerei von David bis Cézanne, I, 1930, p. 8. 9 françois benoit, L’art français sous la Révolution et l’Empire, 1897, p. 3. 10 Ibid., pp. 4-5. 11 jules david, Le peintre David, 1880, p. 117. 12 edmond e jules goncourt, Histoire de la société française pendant la Révolution, 1880, p. 346. 13 louis madelin, La Révolution, 1911, pp. 490 sgg. 14 george plekhanov, Art and Society, 1937, p. 20; louis hourticq, La peinture française. XVIIIe siècle, 1939, pp. 145 sgg.; a. thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours, 1936, p. 5. 15 jules david, Le peintre David cit., p. 57. 16 karl marx, Der 18. Brumaire des Louis Napoleon, 1852. 1

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Arnold Hauser - Storia sociale dell’arte louis hautecoeur, Les origines du Romantisme, in Le Romantisme et l’art, 1928, p. 18. 18 léon rosenthal, La peinture romantique, 1903, pp. 25-26. 19 f. benoit, L’art français ecc. cit., p. 171. 20 louis madelin, La contre-révolution sous la Révolution, 1935, p. 329. 21 Ibid., pp. 162, 175. 22 jules renouvier, Histoire de l’art pendant la Révolution, 1863, p. 31. 23 joseph aynard, La Bourgeoisie française, 1934, p. 396. 24 Cfr. étienne fajon, The Working Class in the Revolution of 1789, in Essays on the French Revolution, a cura di T. A. Jackson, 1945, p. 121. 25 petit de julleville, Histoire de la langue et de la littérature française, VII, 1899, p. 110. 26 henry peyre, Le classicisme français, 1942, p. 37. 27 a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., p. 128. 28 Ibid., pp. 128-29. 29 andré fontaine, Les doctrines d’art en France, 1909, p. 186; f. benoit, L’art français ecc. cit., p. 133. 30 a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., p. 180. 31 Ibid.; p. 150. **** Pensieri sulla bellezza e sul gusto. 32 joseph billiet, The French Revolution and the Fine Arts, in Essays on the French Revolution, a cura di T. A. Jackson, 1945, p. 203. 33 f. benoit, L’art français ecc. cit., p. 180. 34 m. dreyfous, Les arts et les artistes ecc. cit., p. 155. 35 f. benoit, L’art français ecc. cit., p. 132. 34 Ibid., p. 134. 17

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