Architettura Razionale

March 18, 2019 | Author: monteirolimas | Category: Reason, Thought, Logic, Milan, Italy
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1973-2008...

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 Architettura  Architettu ra Razionale: progetto da compiere Renato Capozz Capozzii

Editing

 Anna Maria Cafiero Cosenza 15 Grafica

…dopo l’Epoca del movimento chiamato Tendenza Tendenza Ivano La Montagna Montagna

Costanzo Marciano 23

Colloqui - R acconti di un’esperienza un’esperienza di Tendenza Ivano La Montagna Montagna

24 38 52 66 78 104 126 142

C  arlo Aymonino Salvatore Bisogni  Gianni Braghieri   Antonio Monestiroli  Monestiroli  Valeria Pezza Uberto Siola  Daniele Vitale Teoria e Progetto. Un nesso di reciproca necessità Federicaa Viscont Federic Viscontii

150 160

 Bibliografia  Indici

 Architettura Razionale: progetto da compiere

 Architettura Razionale: progetto da compiere*  Renato Capozzi «Bisogna che si segua ciò che è universale, cioè comune a tutti (concatenato); e solo la Ragione (lógos) è comune; ma i più vivono come se ciascuno avesse una sua mente privata» Eraclito, Frammenti del Περι φυσεως 1

«Il metodo è necessario alla ricerca della verità» Descartes, regle IV 2

Perché un libro dal titolo  Architettura Razionale3 > 1973_2008 >? Perché ragionare ancora, dopo sette lustri, sulla Triennale di Milano del 1973, sulla figura di Aldo Rossi, sulla nostra disciplina? E soprattutto perché farlo oggi? Partirei dall’ultimo quesito, ossia dal vero ‘movente’ di questa operazione e di questo sforzo. In realtà questo libro non vuole per nulla essere una commemorazione o un’agiografia di quella stagione e della figura di Aldo Rossi, bensì una testimonianza e una descrizione di quegli anni ‘eroici’ dell’architettura italiana: però con una chiara opzione di fondo sullo stato presente dell’architettura. Proprio da questo stato bisogna partire per spiegare perché, con il sostegno della Fondazione Internazionale per gli Studi Superiori di Architettura presieduta da Uberto Siola4 e l’attenzione di Gianni Cosenza e della CLEAN che edita il volume, tre giovani architetti, impegnati nel progetto e nella Scuola, certamente spinti da un’insolita e demodè ‘ansia di certezze’ più che da un improponibile ‘ritorno all’ordine’, ma anche dalla necessità di riannodare i fili con la tradizione disciplinare ed i suoi fondamenti, interroghino i loro ‘maestri d’elezione’ su quella stagione, sugli esiti che ha avuto e che soprattutto può ancora avere quel ‘movimento razionale’ chiamato Tendenza 5. Questo accade per la semplice ragione che l’attuale destino dell’architettura sembra a noi tutti sempre più oscuro nelle motivazioni, nel futuro e nel ruolo che questa antichissima disciplina può ancora avere per la costruzione della scena fissa della vita degli uomini . Le pseudo-teorie architettoniche di questi anni, o semplicemente il rifiuto o l’assenza della loro costruzione, l’ansia dell’inedito, la ricerca dell’informe, del liquido, del programmaticamente in-fondato hanno condotto noi ed altri a ri-cominciare a riflettere sulla necessità di ritrovare dei fondamenti al nostro operare, di ri-conoscere la specificità della nostra disciplina, di re-cuperare a tutti i costi quel ruolo civile che l’architettura ha sempre avu-

to nel mettere in scena una collettività consapevole. Oggi sempre di più si assiste, come denuncia Calvino6 ad una moltiplicazione incessante delle immagini, ad «una perdita di forma (…) nella vita» cui poter opporre solo «un’idea di letteratura (leggi architettura)».  Alle forme consuete, convenzionali, necessarie ed intelligibili che l’architettura e la città hanno sempre proposto si sono sostituite le in-formi ed auto-referenti ‘figure’ 7 della post modernità 8 o surmodernità 9 che fanno perdere alle ‘pure immagini accattivanti’ che si propongono una qualsivoglia dignità di costruzione, sia sintattica, sia teoretica. Gli oggetti ‘alieni’, privi di materialità pensati solo per la contingenza e per il transitorio, che popolano le nostre città sono determinati da una mera ragione mercantile 10 e speculativa che ha trasformato l’architettura e la sua potenziale carica icastica e comunicativa in facile veicolo di consenso etero-diretto e di rapido consumo e logorìo. Anche le tematiche di questi anni sull’ecocompatibilità, l’ecosostenibilità, la provvisorietà, come pure un ritorno ad un certo sociologismo pseudo-partecipativo, sono diventate spesso il pretesto per la rinuncia a qualunque costruzione logica e materiale dell’architettura, della città e del territorio. Per realizzare questa condizione attuale dell’architettura progammaticamente ‘aperta’11, ‘debole’12 e ‘destrutturata’ si sono operate non poche indebite trasposizioni di riflessioni eteronome: dalla filosofia alla scienza (o tecnoscienza)13, dall’economia al  marketing commerciale, con interessanti analogie con il professionalismo ‘ingenuo’ degli anni Settanta. Da questa condizione e dalle conseguenze disastrose sui destini di tutti noi che essa fa intravedere muove la nostra necessità di recuperare i  nessi 14, le relazioni tra le cose: in una, la razionalità del nostro mestiere. Credo che questa necessità abbia a che vedere, come alcuni hanno proposto, con una complessiva ‘condizione generazionale’15 e con la perdita progressiva ed irragionevole delle ragioni di fondo, dei principî e dei fondamenti. Qualcuno, ‘seguace’ della cosiddetta ‘estetica della constatazione’16, potrebbe opporre a tali tesi l’accusa di conservatorismo o di inattualità affermando che questa è la nostra condizione, questa è la nostra ‘complessa’ 17 società e che queste sono le forme ‘complesse’ che meglio la rappresentano, per il semplice fatto che sono pervasivamente simili a se stesse. Rispondiamo che la costruzione dell’architettura ha un ‘fiato’ ben più lungo 18 dell’attualità, della novità a tutti i costi e che la semplice ‘ri-flessione neutra’ e l’inconsapevole trasposizione del tempo presente non sono altro che una rinuncia alla possibilità/necessità di esercitare un’interpretazione critica e progressiva della realtà e del suo inevitabile mutamento. Riguardo alla ineluttabilità della moltiplicazione delle forme, sempre più virtuali19, ir-razionali, individualiste, arbitrarie e senza costrutto, determinate dalla sintonia con l’infinita, smisurata densità e moltitudine delle immagini ‘pubblicitarie’ incessantemente prodotte dal nostro mondo globalizzato, obiettiamo che ben altro è la corrispondenza delle forme dell’architettura e della città con la collettività che le esprime. Il problema è che, nella attuale ‘condizione postmoderna’20 si è semplicemente smarrita ogni idea di ‘collettività pensante’ o di ‘cittadinanza consapevole’ e cosciente del proprio ruolo, sostituita da una sommatoria di individualismi che si ipostatizza in una ‘massa plastica uniformata’, facilmente orientabile e deformabile di consumatori determinati nei bisogni e nel pensiero da fatti esterni alla propria natura sostanziale, da immagini ‘attraenti’ riprodotte dai Media21 e dalla società dell’informazione22, da simulacri23 più che da forme, paradigmi e tradizioni riconosciute e riconoscibili. L’architettura di questi esordi di nuovo secolo, muovendo da un’esasperata ricerca espressiva e sperimentale, da una sorta di ‘neo-organicismo mimetico’ delle for-

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me della natura, si costruisce pregiudizialmente sul rifiuto di qualsivoglia riferimento teorico, di qualsivoglia capacità di mostrare il perché delle scelte, la ragione delle forme, la ragione degli edifici, dalla scelta rovinosa di abbandonare lo studio e la costruzione condivisa della città puntando viceversa alla moltiplicazione di ‘de-architetture pseudoespressive’ che esibiscono solo la cifra autobiografica del proprio autore, la caratteristica ricerca della sorpresa, dell’inedito e dell’ammaliante che le confuse circonvoluzioni delle sue forme liquide24 e/o aggressive25 possono incessantemente riprodurre.  Tutto ciò dimenticando il monito di Jorge Luis Borges quando fa dire ad Averroè: «L’immagine che un solo uomo può formare non tocca nessuno» 26. Questa ‘anti-architettura’ del ‘continuo’ e dell’indifferenziato non consente alcuna possibilità di studio delle sue parti costitutive ed elementarizzabili per la ovvia circostanza che il tutto indifferenziato non è analizzabile e quindi diviene costitutivamente, nel suo essere privo di rapporti interni e di misure27, in-conoscibile ed in-motivabile. È da questa analisi amara dell’architettura ‘nichilista’28 contemporanea che prende le mosse il nostro sforzo e la scelta di partire da un momento particolare e specifico della vicenda architettonica italiana. L’occasione è stata quella di una tesi di dottorato 29 che si intendeva condurre sull’architettura italiana del dopoguerra e che opportunamente venne ri-orientata su uno specifico e nodale ‘momento’ della sua complessa, a volte inestricabile, ed insolita vicenda30: la Triennale di Milano del 1973 appunto. A noi tutti parve che invece di occuparsi di un’ennesima, generica e forse impossibile ‘storia dell’architettura italiana’, bisognasse concentrarsi su una singola e significativa questione, su un particolare ‘fatto’ che avesse due caratteristiche principali: fosse circoscritto e documentabile attraverso fonti dirette ed indirette; fosse uno di quei ‘nodi problematici’ dal quale si sono determinate le condizioni a seguire. La scelta cadde su quella Triennale non solo e non tanto perché fosse, da più parti, ri conosciuta come uno dei più importanti contributi italiani alla costruzione del dibattito architettonico, ma anche e soprattutto perché ritenevamo che i temi, le questioni di fondo, le ipotesi, i progetti, e le teorie che quella esperienza conteneva, quei  giacimenti ancora aperti di cui parla George Kubler31, fossero quanto mai attuali e carichi di conseguenze ancora oggi. Quella esperienza, quel progetto unico, che come tutti sanno ruotò attorno alla figura carismatica di Aldo Rossi e da questi fu dominato, rappresentò e rappresenta ancora uno dei pochi momenti di sintesi di una feconda tradizione di pensiero sull’architettura e sulla città. Una sintesi che muove dall’architettura classica fino al Rinascimento (Alberti, Palladio), dagli architetti della Rivoluzione (Boullée) ai maestri del Movimento Moderno (Loos, Mies, Le Corbusier, May, Hilberseimer, Tessenow e Schmidt) ed è contraddistinta da un costante atteggiamento rifondativo della disciplina, da una scelta razionale sulla costruzione dell’architettura e della città, dalla ricerca e dal riconoscimento dei principî essenziali, degli archetipi di riferimento e da un rinnovato interesse nello studio dei suoi specifici caratteri formali, dalla necessità di ri-costruire un corpus teorico32 cui riferirsi quale condizione necessaria per una trasmissibilità del sapere, dalla ricerca continua e dalla riduzione a principî, a regole conoscibili con la conseguente costruzione ed individuazione di un metodo33 enunciabile, descrivibile, intelligibile e verificabile nel progetto di architettura. In altre parole quel momento, come tanti altri nel lungo e non transitorio spessore storico dell’architettura, è strettamente interno a quella ricerca e ‘tensione’ verso l’elementarità, la chiarezza, l’adeguatezza delle forme, la selezione dei tipi, l’adozione di riferimenti, di exempla e quindi la

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ricerca della riproducibilità e della variazione del già noto contro l’invenzione  ab nihilo34 ed il riconoscimento di maestri vicini e lontani, che alcuni hanno definito come  aspirazione al  classico35 o futuro del classico36. Per dirla con Queneau 37: «Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quello che gli passa per la mente ed è schiavo di altre regole che ignora». Ma come raccontare quella vicenda senza cedere all’agiografia o peggio al rammarico, alla nostalgica e melanconica apologia di quegli anni che, come i nostri, erano pieni di contraddizioni, di equivoci e di tentennamenti38, ma forse proprio per questo così potenzialmente fertili? Ma soprattutto, come evitare quella equivoca degenerazione della cultura architettonica contemporanea che tende ad identificare la costruzione teorica con le varie, ‘maledette’, ‘vite al limite’ 39 e le nutrite biografie e poetiche personali di alcuni autori 40? La scelta è stata quella di individuare, in corpore viri , alcuni protagonisti di quella stagione e di quella Mostra e di ciò che essa ha rappresentato in seguito in Italia, nel mondo41 e soprattutto nella Scuola. La scelta è stata quella di interrogare, di incalzare i nostri ‘recenti maestri’, non avendo timore e vergogna di riconoscerli come tali, per capire quali erano allora i presupposti di quel movimento e di quel modo di intendere l’architettura e la città e soprattutto quali di quei presupposti fossero ancora utili per la costruzione di un progetto collettivo e di una ipotesi rinnovata di tendenza, nel senso rogersiano, di termine mediano tra coerenza e stile42. Coloro che hanno risposto al nostro invito, necessariamente escludente e parziale a fronte di molti altri personaggi non meno importanti, sono stati: Aymonino, Bisogni, Braghieri, Monestiroli, Pezza, Siola e Vitale, che qui ringraziamo per la disponibilità ed il tempo che hanno voluto dedicarci e soprattutto per aver raccolto questa sfida caricando noi tutti della responsabilità di questa impresa. Sette ‘protagonisti’ a vario titolo 43 di quella stagione e di quella esperienza, sette architetti italiani, sette docenti ordinari dell’Università Italiana, sette interviste, sette colloqui differenti nella forma, nella dimensione e nei caratteri ma molto meno nei contenuti e nelle questioni di fondo. In non pochi casi vi è una evidente coincidenza di punti di vista di opzioni teoriche, di analisi sulla condizione attuale, una sostanziale unità pur nella inevitabile articolazione linguistica ed operativa. Non è questa la sede, né vi è l’intenzione, di descrivere nel dettaglio i contenuti specifici dei vari colloqui effettuati a più riprese da Ivano La Montagna spesso in compagnia mia e di Federica Visconti: mi pare più utile delineare una sorta di ‘istruzioni per l’uso’ del libro nella speranza che possa essere condiviso da molti altri nei presupposti ma anche negli esiti e nei possibili sviluppi. Non vuole essere solo un libro di storia o peggio di cronaca, non vuole solo raccontare come sono andati quei fatti o darne una mera interpretazione, non vuole soffermarsi sugli aspetti autobiografici o peggio aneddotici che pur evidentemente ci sono. Il libro vuole o vorrebbe proporsi, nella sua articolazione generale, come un contributo alla costruzione di un complessivo progetto stilistico, al rinnovamento della teoria della progettazione architettonica e alla definizione ancor più precisa dello studio dei fatti urbani e della conoscenza dell’architettura della città. Questo libro si propone, inoltre, di provare a definire e chiarire alcune questioni centrali che allora si posero: la necessità di una costruzione teorico-disciplinare condivisa44; il rapporto tra analisi e progetto o se si vuole tra architettura e città; il rapporto con l’ideologia o se si vuole con la realtà e la politica; la necessità e i caratteri di un possibile progetto collettivo. Al tempo stesso il libro tende costantemente a proiettare quelle tematiche sulla condizione contemporanea verificandone la capacità

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interpretativa e strumentale per la costruzione di una opzione razionale condivisa sulla disciplina. Tutte le interviste, differenti nella dimensione, nello stile e nell’articolazione, sono accomunate da alcune costanti, da alcune permanenze, che ne legittimano un’interpretazione unitaria e complementare. Nel loro complesso i colloqui si configurano, da un lato, certo come dei racconti, delle storie personali; dall’altro, come ‘lezioni magistrali’ sul mestiere, ma anche lezioni di teoria nel senso più puro del termine45, come parti di un ragionamento unitario che allora si avviò con forza dirompente e che, a nostro parere, aspetta solo di essere rilanciato, precisato, forse in alcune parti emendato, ma sostanzialmente continuato ed approfondi to. Nelle varie conversazioni ritorna ed aleggia la figura di Aldo Rossi46 ed il suo insostituibile ruolo di guida di quel movimento che in pochi anni a partire dall’Università dominò in maniera del tutto ‘organica’, in senso gramsciano, la cultura architettonica italiana ed internazionale della seconda metà del Novecento. A partire dagli scritti di Rossi sotto l’ègida e con la fiducia di Ernesto Nathan Rogers sulle pagine di “Casabella”, dai Quaderni dei corsi di Caratteri  distributivi degli edifici  (1964-65-66), alla raccolta di saggi coordinata da Giuseppe Samonà nel libro Teoria della progettazione architettonica47, con il saggio  Architettura per   i musei (1966-68), a L’architettura della città (1966) con la sua enorme diffusione e influenza, e poi nell’Introduzione a Boullée (1967), agli Scritti scelti sull’architettura e sulla città (1975), sino  all’Autobiografia scientifica (1982) e a quegli scritti da egli ispirati o condivisi come La costruzione logica dell’architettura (1967) di Giorgio Grassi e L’architettura della  realtà (1977) di Antonio Monestiroli, quel movimento fece uno sforzo rifondativo che oggi sembra incredibile nella sua portata scientifica e nel suo valore complessivo ampiamente riconosciuto come uno dei fondamentali contributi alla cultura architettonica internazionale. Quella storia come sappiamo è andata avanti nel bene e nel male con altri scritti, con altri studi, con altre ricerche e soprattutto con altri progetti che hanno approfondito e rivelato con chiarezza alcune questioni e tematiche che allora erano contenute  in nuce, ma allo stesso tempo vi sono stati anche parecchi tradimenti, travisamenti e banalizzazioni di quelle fondamentali lezioni. È per queste ragioni che ogni colloquio si conclude con una domanda apparentemente banale: Se un Rossi analogo, le chiedesse una o più opere per  una mostra analoga, quale/i opera/e le piacerebbe esporre? L’intento di questo quesito non è quello semplicemente di provare a verificare nei progetti la consistenza con le opzioni teoriche di fondo, o quello di raccogliere materiale iconografico che possa completare l’apparato discorsivo, ma quello di porre di nuovo e sempre, come viene chiarito nel saggio conclusivo da Federica Visconti, al centro del nostro interesse scientifico la ri-flessione sulle Opere, sui progetti attraverso la loro continua osservazione critica e la loro capacità di sostanziare ed allo stesso tempo di nutrire, tra-durre ed a volte tra-dire la Teoria per rinnovare la costruzione di un metodo e realizzare la necessità conoscitiva del mondo e della realtà che ci circonda che il nostro mestiere continuamente si pone e ci impone. Tutto questo allora fu possibile, come si è detto, pur tra mille contraddizioni e difficoltà, in buona parte grazie alla figura ed allo spessore di Aldo Rossi, non ‘ingenuo’, ‘esaltato’ quanto si vuole, ma pur sempre razionalista. Ma oggi sarebbe ancora possibile senza quella guida? Noi speriamo ovviamente di sì e con questo lavoro confidiamo di andare in quella direzione e contribuire per parte nostra a quel progetto, provando a rinnovare quella tensione ideale e quelle conquiste di lunga durata. Ma è ancora possibile, tornando al primo interrogativo di questo scritto, pensare ad una architettura razionale oggi? Riteniamo che non

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solo sia possibile ma necessario, ineludibile, irrinunciabile. Questa necessità è avvertita per varie ragioni che provo ad elencare. Rinunciare ad una ipotesi di architettura razionale, ovvero di una architettura che sa dare spiegazione della sua costruzione e che si fonda sul riconoscimento di paradigmi e sulla selezione di forme adeguate, significa rinunciare alla necessità di un suo riconoscimento nel mondo 48, significa l’impossibilità di costruire una teoria, un insieme strutturato di tecniche specifiche e quindi rendere possibile una reale e positiva trasmissione del sapere, significa la rinuncia programmatica a ricercare nell’architettura quei nessi, quelle rationes, quei rapporti reali e di senso che la raccordano indissolubilmente alla realtà e alla vita dell’uomo, significa la rinuncia ad ogni autonomia della disciplina. Tale rinuncia non solo apre il fianco a infondate intrusioni eteronome esterne e a snaturamenti indebiti - dalle arti figurative, agli avanguardismi 49 di ogni tipo, ai sociologismi, alla mercificazione, al dominio della tecnica50 e della tecnologia rispetto alla specifica ricerca delle forme necessarie - ma addirittura prelude alla sua possibile estinzione51 come necessità specifica dell’agire e del pensiero dell’uomo nel mondo. Negare l’ipotesi razionale sull’architettura significa, in altri termini, affidandosi ad un incessante divenire della  realtà fenomenica52, rinunciare a riconoscere nella città e nella storia un patrimonio di forme e di insegnamenti che guidino e ‘misurino’ il nostro operare consapevole nel nostro tempo, significa rinunciare alla necessità di comprendere l’architettura ed il suo farsi, le sue ragioni essenziali e le sue immutabili regole per poi riprodurle e rinnovarle. Significa, infine, per dirla con Summerson, rinunciare al ‘fine del classico’ ovvero alla ricerca di una rinnovata «armonia delle parti passibile di dimostrazione»53. A questo punto, cosa vogliamo intendere positivamente per ‘architettura razionale’? Sembra più utile nel rispondere a questa domanda usare ‘parole di altri’, a partire dal ‘saggio portante’, Architettura e Ragione54, in cui Uberto Siola e Rosaldo Bonicalzi, anche lì usando a sostegno le parole di Aldo Rossi, scrivono: «L’affermazione quindi di una prima discriminante fonda mentale: il ruolo conoscitivo dell’architettura, e più in generale dell’arte (e la coincidenza quindi, in ultima istanza, del momento analitico e momento progettuale nella coin cidenza degli obiettivi e dei momenti applicativi rispetto appunto al fine conoscitivo), pur nella singolarità delle esperienze, rappresenta quindi il segno più preciso di una unità strutturale dei progetti presenti in Triennale, un segno ben più concreto delle inevitabili affinità linguistiche che si possono ritrovare. L’assunzione dell’atteggiamento razionalista appare allora in tutta la sua evidenza come momento specifico di scelta». Citando Rossi: «Un discorso rigoroso sulla progettazione architettonica deve basarsi su dei fondamenti logici. Ed è questo, nella sua forma più generale, l’atteggiamento razionalista rispetto all’architettura ed alla sua costruzione: credere nella possibi lità di un insegnamento che è tutto compreso in un sistema e dove il mondo delle forme è tanto logico e pre cisato quanto ogni altro aspetto del fatto architettonico e considerare questo come significato trasmissibile dell’archi tettura come di ogni altra forma di pensiero»55. Ed ancora, Salvatore Bisogni, nel medesimo numero di “Controspazio” del 1973 dedicato alla T15 affermava: «[…] l’architettura si propone come un fatto notevolmente definibile e razionale ed in quanto tale conoscibile, trasmissibile e perciò tale da essere costruita mediante un preciso campo di analisi: la città, le sue forme, la sua storia; assunta quest’ultima come materia stessa dell’architettura […]» 56 e poi in altri colloqui ha più volte sottolineato che «L’architettura razionale è quell’architettura che espone con chiarezza la sua costituzione, mostrando non solo le scelte costitutivo-stilistiche, ma

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anche le ragioni della forma linguistico-espressiva […] L’architettura razionale riesce a trovare e risolvere le di fficoltà del rapporto stile-linguaggio, riesce a trovare e raggiungere il senso ultimo degli edifici». Lo stesso Antonio Monestiroli in suoi vari scritti su questa ‘necessità razionale’57 e nell’intervista che segue afferma che «l’architettura deve avere caratteri di razionalità perché, altrimenti, il suo significato ‘rimane nascosto’». Queste ed altre definizioni e posizioni, contenute in quella esperienza e nei suoi sviluppi, sostanziano cosa si vuole qui intendere per “architettura razionale”, per “architettura logica” o, se si vuole, per “architettura fondata”. In conclusione di questo saggio ed in apertura dei colloqui, si riporta uno scritto di Giulio Carlo Argan apparso su “Metron”, particolarmente attuale, anche con alcuni passaggi ‘critici’ ma chiaro ed esaustivo: forse il modo migliore per orientarsi nella lettura di questo ‘piccolo libro’ ancora una volta di Tendenza e ancora una volta alla ricerca di uno Stile adeguato al nostro tempo. * Molte le possibili alternative per il titoli di questo saggio introduttivo: Architettura Razionale: progetto in corso / progetto operante / ipotesi necessaria . Si è infine scelto di riferirsi in maniera esplicita alle tesi del discorso tenuto da J. Habermas nel 1980 in occasione del conferimento del premio Adorno dal titolo appunto: Die Moderne. Ein unvollendetes Projekt (La modernità. Un progetto incompiuto) , tradotto parzialmente in italiano con il titolo Moderno, postmoderno e  neoconservatorismo, in “Alfabeta”, n. 22, 1981, pp. 15-17.

1. Tratto da, Eraclito di Efeso, Frammenti, in H. Diels, W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratker , 3 vol., 1934-37, Berlino 1971, 22 B2 DK. Sul termine “concatenato” si veda G. Colli, La sapienza greca , vol. 3, Adelphi, Milano 1980, pp. 30-31,180-188, 197. 2. Tratto da R. Descartes, Discours de la méthode pour bien conduire sa raison et chercher la vérité dans les sciences , 1637. Ringrazio Ilario Boniello per avermi segnalato questa regola ‘aurea’ contenuta nel Discorso sul Metodo di Cartesio. 3. Il riferimento evidente è al titolo del libro-catalogo della XV triennale: E. Bonfanti, R. Bonicalzi, G. Braghieri, F. Raggi,  A. Rossi, M. Scolari, D. Vitale (a cura di), Architettura Razionale, FrancoAngeli, Milano 1973. 4. Si veda, in relazione ai temi di questo volume, U. Siola, L’architettura della ragione a trentacinque anni dalla XV Trien nale, in R. Capozzi e F. Visconti (a cura di), Fabio Reinhart. Architetture per la città , ESI, Napoli 2007. 5. Sul termine e sui caratteri di quel movimento si veda oltre alle interviste nel volume, il saggio di I. de Solà-Morales, «Tendenza»: neorazionalismo e figurazione , in Id., Decifrare l’architettura. «Inscripciones» del XX secolo (a cura di M. Bonino), Allemandi, Torino-Londra-Venezia 2001. Si veda inoltre il saggio di G. D’Amato, L’architettura del protoraziona lismo, Laterza, Roma-Bari 1987, in cui si propone l’afferenza della tendenza al codice-stile protorazionalista, individuato per la prima volta da E. Persico e poi precisato da R. De Fusco. 6. I. Calvino, Lezioni Americane, Garzanti, Milano 1988, ora Oscar Mondadori, Milano 2000, p. 67. 7. Sull’equivoco concetto di ‘figura’, oltre a numerosi editoriali di Phalaris, si vedano di F. Rella, Miti e figure del moder no, Pratiche, Parma 1981, et Id., Pensare per figure , Fazi editore, Roma 2004. 8. Si veda anche per i rimandi bibliografici specifici, G. Chiurazzi, Il Postmoderno , Bruno Mondadori, Milano 2002. 9. M. Augè, Non-Lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité , Le Seuil, Paris 1992; (ed. it. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. di D. Rolland, Elèuthera, Milano 2005). 10. Si veda in tal senso l’articolo sulla Biennale di Architettura 2008 di Venezia di V. Gregotti, Ma l’architettura non è un’arteornamentale, pubblicato su “Repubblica” il 15 settembre 2008, in cui tra l’altro si legge: «[…] noi siamo oggi nell’epoca dell’impero del mercato, della finanza e dei consumi globali, siamo nel tempo della politica, del marketing e della pubblicità a cui una gran parte degli artisti, che confondono bizzarria e creatività, si adeguano, rispecchiando così fedelmente lo stato e le volontà dei poteri per i quali inoltre le proteste estetiche sono benvenuti ornamenti. Altro che “motivazioni proprie”, il nostro problema è di lottare per mezzo dell’architettura contro tutto questo e contro il fatto che dopo i rispecchiamenti ideologici, ciò che trionfa è il rispecchiamento dei mercati; compreso il mercato degli architetti». 11. Si veda U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1968 et Id., Opera aperta , Bompiani, Milano 1962. 12. Si vedano G. Vattimo e P.A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole , Feltrinelli, Milano, 1983, et G. Vattimo, La fine del la modernità, Garzanti, Milano 1985. 13. Cfr. I. Prigogine, G. Nicolis, La complessità, Einaudi, Torino 1991; E. Morin, Introduction à la Pensèe Complexe, ESF, 1990 (trad. it. Introduzione al pensiero complesso , Sperling & Kupfer, Milano 1993), et Id. Science avec conscience , Fayard, Paris 1982 (trad. it. Scienza con coscienza , FrancoAngeli, Milano 1984). 14. Aldo Rossi, Gianni Braghieri e Franco Raggi aprono il film “Ornamento e delitto” presentato alla XV Triennale con la

 Architettura Razionale: progetto da compiere

citazione «Io però sono deformato dai nessi con tutto ciò che qui mi circonda. Come un mollusco abita il suo guscio, così dimoravo nel diciannovesimo secolo il quale ora mi sta davanti come un guscio disabitato. Lo accosto all’orecchio...» di W. Benjamin, in Id., Il dramma del barocco tedesco (prima ed. 1928), Einaudi, Torino 1999. 15. Si vedano gli atti del convegno promosso da F. Purini a Roma, “Generazioni e progetti culturali”, in F. Purini, D. Nencini (a cura di), Generazioni e progetti culturali,  Atti della giornata di studio, Gangemi, Roma 2007. 16. «È vero, “ci serve un’architettura che interroghi la realtà” come Betsky afferma, ma aggiungo io, che sappia, attraverso alla risoluzione che essa propone, assumere anche una distanza critica da essa, cioè proporre un nuovo possibile. E per far questo non vanno proprio incoraggiate “quelle visioni effimere” che quasi sempre non sono affatto oggi “prove tangibili di un mondo migliore” ma consolazioni puramente seduttive attorno allo stato delle cose e riduzione delle pratiche delle arti a pura comunicazione», da V. Gregotti, articolo cit., “la Repubblica”, 15 settembre 2008. 17. Si vedano I. Prigogine, Perché non può esserci un paradigma di complessità, in G. Bocchi, M. Ceruti, La sfida del la complessità, Feltrinelli, Milano 1985, et I. Prigogine, G. Nicolis, op.cit ., Einaudi, Torino 1991. 18. Ibidem , V. Gregotti, cit., “la Repubblica”, 15 settembre 2008. 19. Cfr. T. Maldonado , Reale e Virtuale , Feltrinelli, Milano 1992. 20. Si vedano in generale G. Chiurazzi, op.cit. , Milano 2002, ed in particolare J.F. Lyotard, La condition Postmoderne, Minuit, Paris 1979, trad. it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere , (trad. it. di C. Formenti), Feltrinelli, Milano 1985, ed in contrasto J. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne.  Zwölf Vorlesungen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1985; (ed. it., Il discorso filosoficodella modernità , Laterza, Bari 1982); F. Jameson, Postmodern, or  the Cultural Logic of Capitalism, in “New Left Review”, n. 146, luglio agosto 1984, (ed. it. a cura di S. Velotti, Il postmoderno e la logica culturale del tardo capitalismo), Garzanti, Milano 1989). 21. J. Sinclair, Images incorporated: advertisingas industryand ideology , Croom Helm, London 1987, (ed. it., La società dell’immagine, FrancoAngeli, Milano 1991). 22. Si noti la non casuale analogia e sovrapponibilità etimologica tra i termini in-formazione ed in-forme; cfr. F. Fimiani, Forme informi. Studi di Poetiche del visuale , Il Melangolo, Genova 2006 et, ivi, P. Valèry, Degas Danse Dessin (1933), in Id., Œuvres, Gallimard, Paris 1960, p. 1194. 23. Cfr. J. Baudrillard, Simulacres et simulation (1981), Galilée, Mayenne 1991. 24. Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002; L. Prestinenza Puglisi, Hyperarchitettura , testo&immagine, Torino 1999, et H. Ibelings, Supermodernismo , Castelvecchi, Roma 2001. 25. Si veda la raccolta di saggi di C. Martí Arís, Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza , Christian Marinotti Editore, Milano 2002. 26. J.L. Borges, La ricerca di Averroè , in L’Aleph, in Id., Tutte le opere, Buenos Aires 1960, trad. it., Mondadori, Milano 1984, p. 844, citato in C. Martí Arís, op.cit ., p. 23. 27. Sulla commensurazione Platone afferma: «Che due cose si compongano bene da sole, prescindendo da una terza, in maniera bella, non è possibile. Infatti, deve esserci in mezzo un legame che coniuga l’una con l’altra. E il più bello di tutti i legami è quello che di se stesso e delle cose legate fa una cosa sola in grado supremo» Platone, Timeo, 31c; ed analogamente Aristotele: «Principio è quel che di necessità non deve essere dopo altro (…) Ciò che è bello, sia una “figura” sia ogni altra cosa costituita di p arti, deve avere non soltanto queste parti ordinate al loro posto, ma anche una grandezza che non sia casuale; il bello, infatti, sta nella grandezza (misura) e nell’ordinata disposizione delle parti (…)»  Aristotele, La Poetica, 1450b (7), 26-27, 34-37. 28. Su nichilismo e architettura si vedano: M. Cacciari, Architecture and Nihilism: On the Philosophy of Modern Architecture, Yale University Press, New Haven 1993; E. Severino, Tecnica e Architettura (a cura di R. Rizzi), Raffaello Cortina, Milano 2003, et R. Rizzi, Il «Daímon» di Architettura, Pitagora, Bologna 2006. 29. I. La Montagna, 1973 - Aldo Rossi e la XV Triennale di Milano, tesi di dottorato in Storia dell’Architettura e della Città,  XVII ciclo, Dipartimento Storia e Restauro, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, anno 2007; relatore: prof. arch. B. Gravagnuolo; co-relatore: prof. arch. L. Di Mauro; co-relatore di area progettuale: prof. arch. R. Capozzi. 30. Si vedano in tal senso, oltre al fondamentale testo di M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana, 1944-1985 , Einaudi,  Torino 1986 (ed. ampliata del saggio in Storia dell’arte italiana. Il Novecento , Einaudi, Torino 1982) il video realizzato per il Padiglione Italiano alla Biennale di Venezia, da G. De Finis e M. Francocci,MODERNiTALIA, su testo di F. Purini ed inoltre il catalogo Italia-y-26. Invito a Vema (a cura di F. Purini, N. Marzot, L. Sacchi), in particolare il D.A.I. Dizionario Architettonico Italiano, voci: “Memoria” e “Teorie” (a cura di D. Nencini), Editrice Compositori, Bologna 2006. 31. G. Kubler, The Shape of Time: Remarks on the History of Things , Yale University Press, New Haven 1962 (ed. it., La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose , Einaudi, Torino 1976). 32. Si vedano V. Gregotti, Necessità della teoria , in “Casabella”, n. 494, 1983, p. 12, et A. Monestiroli, Necessità della teoria, in AA.VV., Il progetto di architettura (a cura di P. Portoghesi, R. Scarano), Newton & Compton, Roma 1999. 33. Si veda, in tal senso, A. Monestiroli, Questioni di metodo, in Id., La metopa e il triglifo , Laterza, Roma-Bari 2002. 34. Come afferma P. Valery: «L’opera d’arte non è una creazione è una costruzione in cui l’analisi, il calcolo, la pianificazione svolgono il ruolo principale». 35. Cfr. A. Monestiroli, Il classico come aspirazione , in La modernità del classico (a cura di R. Neri, P. Vigano), Marsilio,  Venezia 2000 et G. Fusco, Il classico del moderno , Aion, Firenze 2007. 36. Cfr. S. Settis, Futuro del “classico”, Einaudi, Torino 2004.

 Architettura Razionale >1973_20 08 >

37. Tratto da R. Queneau, Batons, chiffres et lettres , 1950, trad. it. di G. Bagiolo, pref. di I. Calvino, Segni, cifre e lette re, Einaudi, Torino 1981, citato in I. Calvino, op.cit. , Mondadori, Milano 2000, p. 134. 38. Devo questa appropriata espressione al prof. Salvatore Bisogni. 39. Cfr. G. Contessi, Vite al Limite. Giorgio Morandi, Aldo Rossi, Mark Rothko , Christian Marinotti Editore, Milano 2004. 40. Si vuole qui criticare la conclusione della voce “Teoria dell’architettura” di A. De Poli contenuta nella recente Enciclo pedia dell’Architettura per i tipi Federico Motta nel 2008 e la coincidenza o riduzione, come in una certa critica d’arte, dei  principia e degli exempla ai dati autobiografici dei singoli autori ed anche una certa ‘moda’ di contro tendenza a sostenere che il contributo teorico aldorossiano sarebbe da ricercare esclusivamente nell’ Autobiografia scientifica o nei Quaderni azzurri , e non nei suoi saggi a carattere progammaticamente scientifico. 41. Alla mostra furono invitati oltre a numerosi giovani architetti italiani provenienti da varie città del paese anche un nutrito gruppo di stranieri da Stirling a Ungers sino ai Five Architects capeggiati da Eisenman. In tal senso si rileggano le sue dichiarazioni in D. Lama, Eisenman: «Architettura, il futuro è dietro di noi» , in “Corriere del Mezzogiorno”, sabato 18 novembre 2006, citato di seguito a p. 21. 42. Si veda il saggio di R. Bonicalzi e U. Siola, Architettura e Ragione, in “Controspazio”, n. 6, 1973, pp. 16-22. 43. Gli intervistati sia per ragioni generazionali, sia per i rispettivi ruoli (alcuni già docenti ed altri appena laureati), parteciparono tutti, se pur con rilievo differente, alla Mostra o al catalogo “Architettura Razionale” alla T15. In particolare  Aymonino (Roma)e Bisogni (Napoli) nella III sezione Proposte, progetti o realizzazioni di sistemazioni urbanistiche su città campione (secondo Rossi la prima parte concettuale della mostra); Siola con L. Pisciotti, Braghieri con R. Bonicalzi, Monestiroli con P. Rizzatto e A. Di Leo nella IV sezione Progetti su temi diversi elaborati da architetti o gruppi di   lavoro/Maestri (secondo Rossi la seconda parte concettuale della mostra); Siola come caposcuola (Napoli), Monestiroli, come relatore, Braghieri, Vitale, laureati e Pezza laureanda, con le loro tesi, sempre nella IV sezione Progetti su temi  diversi… / Scuole d’architettura ; Braghieri e Vitale con E. Bonfanti (solo catalogo), R. Bonicalzi, F. Raggi (solo allestimento), A. Rossi (responsabile) e M. Scolari alla elaborazione ordinamento, allestimento della mostra e catalogo; U. Siola con R. Bonicalzi agli scritti successivi e ad essa correlati (supra in “Controspazio”, n. 6, 1973) ed Aymonino e Siola, con R. Krier, M. Scolari, Castro/Duval/Driss/Maggio, A. Rossi, J. Sawade, G. Grassi, L. Pisciotti, Semerani-Tamaro, V. Gregotti, Reinhardt/Reichlin/Helfenstein, J. Stirling, L. Krier, Aachen group, O.M. Ungers alla successiva mostra itinerante “Rational Architecture. The Architecture of the City” (promossa dall’Architectural Association-London e da Art Net, a cura di L. Krier e con il contributo dell’Ambasciata di Germania) che sancì a livello internazionale il riconoscimento e l’affermazione di quel movimento. Si veda in tal senso la locandina della mostra in retrocopertina. 44. Cfr. A. Monestiroli, op.cit ., in AA.VV. , Il progetto di architettura (a cura di P. Portoghesi, R. Scarano), Newton & Compton, Roma 1999. 45. Qui si riferisce al significato originario di Theoria come ‘osservazione’ e critica della realtà al tempo stesso ideale e fenomenica. 46. Sulla complessa figura di Aldo Rossi si vedano gli atti del recente convegno internazionale di Studi “La lezione di  Aldo Rossi” promosso dalla facoltà di Architettura “Aldo Rossi” di Cesena dell’Alma Mater Studiorum dell’Università di Bologna, in A. Trentin (a cura di), La lezione di Aldo Rossi, Bononia University Press, Bologna 2008. 47  AA.VV., Teoria della progettazione architettonica , introduzione di G. Samonà, Dedalo, Bari 1968, con scritti di G. Canella, M. Coppa, V. Gregotti, A. Rossi, A. Samonà, G. Scimemi, L. Semerani, M. Tafuri. 48. Si vedano in tal senso il colloquio con A. Monestiroli in questo volume, pp.66-75, ed il suo scritto:Lo stupore delle cose elementari , Baesi. Ogni uomo è tutti gli uomini, Milano 2007. 49. «Ancor meno condivisibile appare poi nella mostra il richiamo al mondo immaginario dei film e dell’arte (e aggiungerei della letteratura). Da essi credo la cultura dell’architettura dovrebbe prendere le distanze, non per negarne i valori importantissimi per il progetto ma a causa dell’insistente ed artificiosa confusione tra le diverse pratiche (una specie di “Gesamtkunstwerk” della multimedialità) che invece, proprio al fine di discutere utilmente, devono mantenere chiare le proprie identità» da V. Gregotti, articolo cit., “la Repubblica”, 15 settembre 2008. Si veda inoltre, in tal senso P. Virilio, L’arte dell’accecamento , Raffaello Cortina, Milano 2007. 50. Si vedano, M. Heidegger, The Question Concerning Technology and Other Essays (a cura di W. Lovitt), Harper & Row, New York 1977; E. Severino, op.cit .; R. Rizzi, op.cit ., et V. Gregotti, Architettura, Tecnica e Finalità, Laterza, Bari 2002. 51. Si veda il recente saggio di V. Gregotti, Contro la fine dell’architettura, Einaudi, Torino 2008, in aperta contrapposizione a F. La Cecla, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 52. Si veda in tal senso l’introduzione di A. Monestiroli alla mostra-catalogo: M. Landsberger (a cura di), Architetti italia ni a confronto, EDICIT, Foligno 2008, pp.6-7. 53. Tratto da: J. Summerson, The Classical Language of Architecture, London 1963, trad. it. Id., Il linguaggio classico dell’architettura. Dal Rinascimento ai maestri contemporanei, Einaudi, Torino 1970, p. 4. Devo il ricordo di questa citazione al prof. Gino Malacarne che la riprese in una sua recente lezione a Napoli. 54. R. Bonicalzi e U. Siola, op.cit., in “Controspazio”, n. 6, 1973. 55. A. Rossi, Architettura per i musei, in AA.VV., op.cit . (a cura di G. Samonà), Dedalo, Bari 1968, p. 137. 56. S. Bisogni, Discussione sulla Triennale, in “Controspazio”, n. 6, 1973, p. 89. 57. Cfr. A. Monestiroli, Necessità della teoria, in AA.VV., op.cit ., Newton & Compton, Roma 1999.

…dopo l’Epoca del movimento chiamato Tendenza Ivano La Montagna «Le idee sono meno interessanti degli esseri umani che le inventano»1 François Truffaut 

Il contenuto delle interviste pubblicate in questo libro, è stato per la prima volta oggetto di discussione nel febbraio del 2007 come parte integrante della mia tesi di dottorato2; più precisamente, di quella stessa ricerca, l’insieme dei colloqui costituiva il quarto ed ultimo capitolo, sign ificativamente intitolato ‘Incontro con i protagonisti. Racconto di un’esperienza di Tendenza ’3. Necessario dunque, per comprendere meglio finalità e contesto delle ‘testimonianze’ raccolte, almeno un breve passaggio sul più ampio ma specifico oggetto della speculazione: Aldo Rossi e la XV Triennale di Milano; ovvero sulle ragioni che hanno condotto alla sua individuazione e sul metodo di studio adoperato.  Tra le tante motivazioni che si possono rintracciare alla base di una ricerca (storica o progettuale che sia), le più forti sono, probabilmente, quelle di carattere ‘personale’, autobiografico. Sono quelle motivazioni cioè in grado di stabilire un profondo legame con la sfera emotiva e razionale della nostra stessa esistenza.  Tanto più questo corrisponde al vero, quanto più ci si sente coinvolti, ‘appassionati’ al proprio lavoro; Boullée prima, Aldo Rossi come e dopo di lui, adoperavano il termine ‘esaltato’. Ed è sicuramente a quella passione o a quell’esaltazione che è possibile far risalire alcuni dei nostri irrinunciabili bisogni: il bisogno di confrontarsi con il pensiero e l’opera dei maestri, il bisogno di sistemare e ordinare le esperienze e le riflessioni maturate in certo intervallo temporale, il bisogno infine di scavare e individuare le più profonde ragioni del proprio ‘mestiere’ soprattutto quando, alla fine di un difficile percorso di formazione, ti si parano davanti poche e non di rado velenosissime prospettive - costruite tra l’altro con grande forza, fondatezza e sottigliezza intellettuale.

Carlo Aymonino

Carlo Aymonino*

La prima questione è teorica e può dirsi ‘prima’ anche in senso cronologico. Nel libro Teoria della Progettazione è stato da molti individuato il momento in cui la cosiddetta Tendenza si manifesta ‘concretamente’ per la prima volta. Giuseppe Samonà nell’introduzione al testo scriveva così: «La possibilità o meno di fondare una teoria della progettazione architettonica dipende essenzialmente dalle convinzioni culturali e filosofiche di chi si propone di trattare questo tema; e, più particolarmente, dal tipo di logica a cui egli fa riferimento nel definire il problema ontologico». Lei professore è d’accordo con questa scelta interpretativa oppure preferisce individuare come ‘iniziale’ un altro momento, un’altra occasione, un altro oggetto?  A quell’epoca, e negli anni immediatam ente precedenti, lei è stato prima professore incaricato e poi vincitore di concorso per i Caratteri distribuitivi degli edifici  - l’insegnamento dove molti di voi, come mi ricordava Siola, si erano ‘annidati’ presso lo IUAV. Nell’elenco degli autori del testo risalta l’assenza del suo nome, cosa sta ad indicare? Come mai non ha partecipato a quel progetto? Devo confessare che non ricordo questo testo…e questo vuol dire che sicuramente non è uno di quei libri che ho consultato negli anni. Ma chi è l’editore? È edito dalla Dedalo di Bari…con scritti di Rossi, Gregotti, Tafuri, Semerani, Coppa, Canella,…In ogni caso questa per me può valere come risposta. Il fatto che io non l’abbia presente non significa niente…anzi, per i nomi che mi hai elencato, mi sembra vada benissimo. Dunque, perché io non ci sono?

Si tratta forse di un fatto generazionale…saranno stati coinvolti i più giovani. No! Però se hai detto che ci sono anche Gregotti e Canella allora non può essere questo il motivo. Una cosa è certa…(sorride) da un lato in quell’elenco sono contento di non esserci, così mi posso defilare da questa questione della Tendenza!  Ah, guardi professore, questa non è una novità…ognuno a suo modo, oggi quasi tutti tentano di fare lo stesso!  Anche se non h o presente il libro è chiaro che si tratta di una di quelle operazioni intelligenti su cui si proietta nettamente l’ombra del grandissimo Giuseppe Samonà. Era un trascinatore senza paragoni, era lui che ci coinvolgeva in queste lezioni quasi senza tempo e senza luogo, nel senso che eravamo tutti presenti e c’era una grandissima partecipazione. Si ascoltava prima la lezioni di uno e poi di un altro e poi si andava nell’aula a fianco a sentirne un’altra ancora - molti di questi fanno parte di quell’elenco - e poi se ne discuteva finché ce n’era bisogno…una cosa strepitosa. Samonà era tutto. Era un filosofo che aveva fatto la Scuola di Palermo e poi quella di Venezia!  A lui devo molto, e non solo dal punto di vista culturale. Non è un segreto che all’inizio della mia carriera ho attraversato delle difficoltà. È stato proprio grazie a lui che sono arrivato a Venezia! Lo incontrai all’uscita di un cinema, lui mi si avvicinò, mi diede un pizzicotto sulla guancia e mi disse « Ti piacerebbe venire a Venezia?» Puoi immaginarti l’emozione che provai in quel momento…una cosa…da fare i salti! …Dunque il libro esce nel 1966. Quell’anno mi pare sia uscito anche il mio libro sulle origini e lo sviluppo della città moderna insieme a quello di Aldo Rossi L’architettura della città. Anzi il mio esce nel 1965, è il primo, che poi influenza e viene in un certo senso ripreso da Rossi. Nasce da una richiesta specifica di “Critica marxista” che mi chiese un intervento di analisi marxista sullo sviluppo delle città, per cui io feci questo piccolo saggio che poi diventerà il libro Origini e Sviluppo della città moderna1; però nasce da lì, da “Critica Marxista”. Perché una lettura marxista, fatta da un architetto, sull’origine dei problemi che caratterizzano lo sviluppo e le trasformazioni delle città, non c’era. Era uscito, molto importante, il libro di Samonà2, ma non c’era molto altro; c’era quel libro fatto da Benevolo 3, rispetto al quale poi… Si crea un botta e risposta - attraverso le prefazioni - sull’interpretazione del rapporto fra la politica e l’urbanistica! Esatto! E quindi Origini e sviluppo della città moderna , per quanto mi riguarda, può essere l’inizio di un percorso che poi si articola con i libri successivi…quello di Rossi e poi La città di Padova. Anche quello è un libro importantissimo dove siamo insieme io e Aldo…ma anche tanti altri come Brusatin, Lovero, Fabbri. Ma in quegli anni per me è stato fondamentale anche il progetto per “Roma Est”.  Anche quello ha svolto un ru olo importante. Una di quelle cose che ti segnano per sempre: tanto è vero che durante il periodo dell’Assessorato io me lo ricordavo bene, e ho cercato di ricavarne moltissime indicazioni. Non avremmo, Panella e io,

 Architettura Razionale > 1973_ 2008 >

mai potuto realizzarlo, è chiaro, ma tutto lo studio e i ragionamenti che stavano alla base di quella proposta costituirono per noi e per Dardi, che chiamammo come collaboratore, riferimenti essenziali! E in tutto questo  mare magnum di fatti non ci scordiamo di Rogers. Rogers è uno che ha condizionato tutto e tutti! Da Aldo Rossi a Guido Canella, a me, ma anche Gregotti, come no! e De Carlo. Anche De Carlo recalcitrando… insomma Rogers ci ha influenzati tutti. Proprio non mi aspettavo di affrontare questo tema così presto, ma visto che l’ha tirato in ballo…anticipo la domanda sui suoi lavori presenti alla mostra e in particolare appunto su “Roma Est”. Sentiamo. « Al centro della mostra si trova una grande tela intitolata “La città analoga”4. Questa tela rappresenta una città, attraverso una visione prospettica singolare, formata da architetture diverse riunite tra loro in un’unica composizione. Il concetto di città analoga, che ho formulato altrove come quello di un sistema compositivo costituito dall’insieme di diversi fatti architettonici, è qu i mostrato al pubblico in modo spettacolare. Esso indica anche il carattere positivo della città costruita dall’uomo nel tempo e il valore dei monumenti come riferimento della memoria collettiva». Queste le parole di Aldo Rossi nella presentazione della mostra per il catalogo ufficiale della Triennale 15.  Alla mostra lei espone molti lavori. In uno stesso ambiente su due pareti contrapposte da un lato c’è “Roma Est” (progetto di Carlo Aymonino, Costantino Dardi, Raffaele Panella: plastico, planimetria in bianco e nero, pannello in trasparenza del PRG di Roma e disegni a colori) e dall’altro disegni e plastici di vari progetti e concorsi: l’Università degli studi di Cagliari, l’Unità insediativa “Monte Amiata”, la Galleria d’Arte contemporanea a Milano, il Padiglione italiano all’Esposizione di Osaka, l’Unità psichiatrica a Venezia-Murano, il Liceo scientifico di Pesaro, il progetto dell’ospedale a Venezia e il convento La Tourette di Le Corbusier.  Analizzando i contenuti di quell’evento mi sono reso c onto che “Roma Est” è quasi una mostra nella mostra, ma soprattutto rappresenta la più chiara e coraggiosa materializzazione di quella città analoga che Rossi, pur descrivendola ed evocandola ripetutamente, non ha mai ‘realizzato’! Secondo lei cosa accomunava e cosa invece distingueva il vostro progetto per “Roma Est” dalla quella ‘città analoga’ che il suo ‘amico carissimo’ andava elaborando? Questa domanda è difficile! Cerchiamo di arrivarci piano piano… È difficile perché “La città analoga” di Rossi per me è rimasta sempre una formulazione indefinita, quasi un sogno che evocava e io non sono mai riuscito ad afferrarla; tanto è vero che gli mandavo delle cartoline in cui provavo a capire, con le quali cercavo di trovare o proporre spunti. Era una cosa tutta sua, e lui stesso, credo, la rielaborava continuamente nella sua testa. Mi diceva…di queste cartoline spedite a Rossi. Erano cartoline sulla messa in scena dell’Aida, potete immaginare che cos’è l’Aida

Carlo Aymonino

nell’arena di Verona, costumi, luci, scene, un vero spettacolo strabiliante. E perché, in effetti, non mi è mai capitato di parlarne criticamente certo, perché parlavamo di tutto, naturalmente. Non saprei dirti quale distanza c’è tra la mia proposta per “Roma Est” e “La città analoga” di Rossi, perché, ripeto, non sono mai riuscito a comprenderla e a capirla bene. Perché “La città analoga” mi dava ‘fastidio’! Era tutto un insieme risolto in qualche modo - secondo la mia interpretazione - cioè di fatto era un progetto totale. Mentre “Roma Est” era un progetto per punti, era un’interpretazione dei diciotto punti che ho trattato nell’Assessorato al Centro Storico di Roma (naturalmente non sono gli stessi) e resta il fatto che ho sempre scelto di intervenire per parti risolutive e non avevo, né mai l’ho avuta, l’intenzione di intervenire sulla città intera, probabilmente perché non ne sono capace. Non sono capace di avere una visione totale della città. La conosco naturalmente, l’ho studiata, ne ho scritto…e però non sono un progettista di una città intera. Beh! Non posso nasconderle che sono abbastanza sorpreso della risposta, perché capovolge totalmente le mie previsioni e la mia interpretazione. Nel senso che laddove in Rossi io ho visto e vedo una volontà abbastanza netta di lavorare sul frammento, inserendo ‘pezzi’ nel tessuto urbano che poi, per forza e chiarezza interna (che sono anche misura della loro monumentalità) sono capaci - al limite - di ricostituirsi in una ideale unità, appunto analogico-metafisica (penso alla lezione di Palladio a Venezia e alla ricostruzione che ne fanno sia Rossi che Tafuri); in Aymonino  autem ho sempre visto una volontà progettuale pervasa da uno spirito più concreto, più fisico, ‘romano’ nelle fondamenta, appunto una volontà di fondazione. A fronte di qualche anno in più, meno disillusione. Rossi, aveva una visione di insieme e lavorava sul pezzo in quanto pezzo di architettura, sull’edificio in sé che poi però sapeva e poteva benissimo mettere uno accanto all’altro. La mia attenzione era rivolta alla scelta di quelle parti che per il loro valore non tanto dimensionale quanto strategico erano capaci di relazionarsi ad un sistema più ampio. Ma si tratta comunque di parti. Probabilmente l’inizio, ma proprio l’inizio - al quarto anno di Università - fu Piacentini che insegnava urbanistica facendo delle lezioni strepitose. Erano lezioni su Parigi, Berlino,Vienna ed erano tutte idee e immagini dove scoprivi quale era la struttura, scoprivi dove era l’intenzione strutturale della città. Voi lo sapete che Piacentini era il cugino di mio padre? Sì. Eh sì. Lo scopro adesso dopo 64 anni! Però, in effetti, è cominciato tutto da lì. Da mio zio. Che poi ho rifiutato perché sono diventato comunista. Lui è andato pure da mio padre a lamentarsi dicendogli: «che vergogna, un figlio comunista!», cose che succedono, è la vita! Dunque è da lì che parte quel discorso che poi confluisce nel progetto per “Roma Est”? Ma no, per carità! Insomma non c’è una relazione diretta con quel progetto, però è vero che, me lo ricordo, quelle sue lezioni per me sono state molto importanti.

 Architettura Razionale > 1973_ 2008 >

La seconda questione: il ‘lavoro collettivo’. Nella lettera apparsa su “Controspazio” (il n. 6 del 1973) intitolata Perché ho fatto la Mostra di Architettura Interna zionale, Aldo Rossi punta l’indice su questo aspetto. Nell’introduzione al testo  l’Architettura Razionale, ancora scrive: «Questo libro, come ogni progetto, si preoccupa soprattutto delle relazioni che si stabiliscono tra i fatti; è pensabile che queste relazioni rendano il materiale più omogeneo nella prospettiva di costruire un unico progetto. Per la costruzione di questo progetto abbiamo raccolto materiale c oncreto: progetti di architettura, scritti o disegnati, formulazioni, critiche etc.etc...». Rosaldo Bonicalzi e Uberto Siola nell’articolo  Architettura e Ragione (nello stesso numero di “Controspazio”) riportano un’espressione meno ‘impegnativa’, ma comunque inequivocabile, quella di ‘progetto collettivo’. ‘Coerenza’, ‘tendenza’ e ‘stile’ - per dirla con Ernesto Nathan Rogers - che fine ha fatto il  progetto stilistico? Come si è sviluppato? E infine in che termini oggi potrebbe riproporsi una scelta di Tendenza? Io trovo che collettivo sia il termine sbagliato. Collettivo era un termine che si usava molto negli anni Sessanta/Settanta. Era abusato. Non mi piace e tra l’altro io non ho mai voluto adoperarlo proprio perché mi dava quella fastidiosa sensazione della cosa fatta in ‘comune’, tutti insieme. Progetto unico invece va bene. Mi va bene perché significa che c’è una scelta del singolo, rimanda al fatto che ognuno fa la sua scelta. Collettivo è una cosa un po’ da Soviet, mentre unico mi va bene perché è legato al concetto dell’obiettivo, dell’ unico obiettivo. Unico certo, perché no? La posizione assunta su questo specifico aspetto terminologico è importante per quei legami, sottintesi nella domanda, che si stabilirono nelle successive polemiche su entrambe le definizioni. E cioè, credo di non allontanarmi troppo dal vero dicendo che nella sua risposta la scelta così netta del termine ‘unico’ insieme all’interpretazione che ne ha fornito, coincida con il proposito di sgomberare il campo da qualsiasi equivoco di tipo linguistico. Certo! I linguaggi sono molto diversi. Sono diversissimi. Anche fra me e Aldo. Guarda il Gallaratese. Sono due cose assolutamente differenti. Qui la domanda vien fuori da sola: ma, al di là del colore, li c’è stata proprio carta bianca? Sì. (ride) Quando poi scoppiò il caso internazionale del Gallaratese e mi invitarono dappertutto a tenere conferenze, naturalmente l’ultima domanda era quella. Si alzava lo studente di turno e mi chiedeva: «Scusi ma perché Aldo Rossi?»  Allora io rispondevo con un a battuta, che però contiene sempre delle verità. Proiettavo l’immagine e dicevo: «Quando ho fatto il progetto nella parte finale c’era rimasta questa stecca lunga circa 150 metri, larga 10 metri, alta tre piani, che non sapevo come risolvere. Era totalmente fuori dal mio linguaggio! E siccome Aldo Rossi non aveva lavoro e poteva essere utilissimo a Milano per tutti i rapporti con il Comune - così è stato, ho ancora gli scritti, le lettere che lo testimoniano - gli diedi l’incarico!» L’amor sacro e l’amor profano! (ride)

Carlo Aymonino

È stato mettere insieme due mondi no? E molti pensano che stia proprio in questo connubio la ricchezza di quell’intervento. Da un lato le sue cose cariche di geometrie e di colori e dall’altra questo ‘giovanotto’ con un edificio tutto bianco. …Sì, sì. Poi tutto ripetuto…  Appunto senza variazioni. Certo. Due cose assolutamente diverse. Dunque, riprendendo il filo della domanda, analizzato il problema della duplice definizione ‘progetto unico’ e ‘progetto collettivo’ in relazione agli o biettivi di una certa Tendenza ci rimane in buona sostanza da capire se e in che termini - realistici? - oggi potrebbero riproporsi alcune di quelle scelte. No. Non c’è possibilità. Intanto perché l’architettura è diventata un’altra cosa. Basta vedere Massimiliano Fuksas o Zaha Hadid.  Alieni. Diversi. La prima è stata Gae Aulenti, nessuno ha insegnato all’Università! Noi, invece, c’eravamo tutti quanti, avevamo le riviste, naturalmente l’architettura e poi i libri. Avevamo cioè un’unitarietà di cultura che questi non hanno. C’erano tra noi delle differenze enormi che però erano unite dall’unitarietà della cultura, mentre questi attuali non hanno nulla che li unisca. Tra Fuksas e Zaha Hadid non esiste relazione! Ma cosa implica questo? Può implicare e indicare uno smarrimento anche delle strutture e dei percorsi formativi? E infine, dove per noi sarebbe la cosa peggiore, può implicare e indicare anche lo smarrimento dei maestri? Certo, e infatti non a caso oggi ognuno corre per i fatti suoi. E corre il più possibile per farsi notare. Ha iniziato Renzo Piano, diciamocelo francamente! Tra l’altro con una capacità di lavoro enorme, pazzesca (ride di gusto). Non l’ho ritagliata, ma è stata pubblicata una sua foto, nel suo studio, dove lui è al centro di ottanta persone e sembra proprio il viceré dell’India quando lasciò l’India (ride ancora) e si fece fotografare con tutto il suo personale. Erano ottanta, quindi era proprio perfetta. E così è Renzo Piano. E il punto è che quando hai ottanta persone non puoi seguirli ogni giorno tutti e di conseguenza, per forza, qualcuno o ognuno ‘inventa’. Giusto Norman Foster, ma perchè è ingegnere, è riuscito a lasciare il timbro su tutte o quasi le sue opere. Negli altri casi ci sono forti variazioni, a seconda di chi elabora il progetto. Come Passarelli… Questo riferimento a Passarelli mi fa pensare: Ma non è - domando - che potrebbe riproporsi quella situazione alla quale si reagì nel 1973? Vale a dire, a quel tipo di professionalismo invadente e destrutturate il sistema della cultura e della speculazione? No. È completamente diversa. In effetti qui ci troviamo di fronte a degli architetti. Questi sono tutti architetti, compresa la Zaha Hadid, ma anche Fuksas, e le loro architetture si riconoscono.

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Mentre quelli degli anni Sessanta e Settanta erano più anonimi? Sì, dipendeva molto da chi ci lavorava, ma oggi è un’altra cosa; l’unico oggi che è così mi pare proprio sia Renzo Piano. Mentre gli altri sono abbastanza riconoscibili…anche se il loro Io è basato sulla sorpresa. Altrimenti chi li chiamerebbe se non fossero capaci di sorprendere continuamente? È cambiato totalmente il mestiere. Insomma fra me, Aldo Rossi, Guido Canella e questi qua c’è… C’è una ‘voragine strutturale’ che riguarda anche la strutturazione del mondo del lavoro! Si potrebbe addirittura dire che tra di voi e loro c’è forse una distanza analoga a quella che maturò fra l’organizzazione della bottega di tipo medievale e quella di tipo rinascimentale. Ovviamente senza voler stabilire in questo momento nessun altro tipo di corrispondenza. Eh sì! Ma forse si sente pure la mancaza di figure, come lo è stata quella di Aldo Rossi, capaci di mettere insieme, di riunire molte teste a ragionare? Sì, certo…certamente che è importante. Però da quel punto di vista anche Guido Canella ha fatto un gran lavoro. Con “Zodiac” è stato bravissimo, ha fatto un lavoro formidabile, altroché, adesso tocca a voi, vi passo la fiamma! Ma deve essere bella forte viste le premesse… Ossidrica! Un’altra cosa…devo confessare che non ho mai capito cosa fosse tendenza…(ride) Sicuramente Braghieri la userà moltissimo! Speriamo!...In merito alla tendenza che alla Mostra si intendeva manifestare, è necessario un passaggio su quello che è stato da molti definito come il ‘peccato originale’: la questione ideologica. Rossi dopo aspre polemiche taglia corto e dice: «per un cattivo progetto non esiste copertura ideologica»; ma questo che significa? In che termini era posta allora la questione, o meglio in che senso veniva percepita da maestri e allievi, al punto da scatenare una così netta reazione? Non ignoriamo - perché oggi invece lo si ignora completamente - che noi eravamo tutti comunisti. Non è uno scherzo! Tutti! Nino Dardi, Aldo Rossi, io, Guido Canella,  Vittorio Gregotti - tranne Gae Aulenti. Semerani era socialista! Eh sì…Polesello pure era comunista, ed anche Samonà figlio. E questo fatto ha profondamente segnato tutti quanti! Secondo me - poi dopo torniamo sull’argomento della tua domanda - sarebbe invece interessante analizzare, e anch’io non l’ho mai fatto, molto dettagliatamente gli ultimi anni di Aldo Rossi. Scoppia, diventa assolutamente internazionale e però poi, tranne tre o quattro esempi molto belli, compresi quelli di Berlino, e quell’albergo… Forse si riferisce a quello di Tokyo, il Fukuoka?

Carlo Aymonino

Sì,…ma altri progetti, visti da fuori, almeno per me, sembrano molto tirati via, ecco. E questa ‘rivalutazione’ di Aldo Rossi, n ella sua interezza diciamo, mi pare non l’abbia mai fatta nessuno. Si dovrebbe fare più attenzione sugli ultimi anni. Ne sono pienamente convinto! Da un certo punto in poi (credo già dalla prima metà degli anni Ottanta) sembra verificarsi uno spostamento d’asse di Aldo Rossi. Uno spostamento d’asse che è forse uno spostamento anche teorico? Non so se fosse teorico. Credo si tratti più di un problema di indifferenza; e infatti, dal punto di vista teorico, in sostanza non ha più prodotto niente. Non è più riuscito a fare, per e sempio, neppure quella “Città Analoga” , il libro che da molti anni aveva in mente di organizzare e portare a termine (e forse proprio dal 1973 più concretamente). Sì!... Ma in particolare io mi riferisco proprio ai suoi ultimi dieci anni, al periodo dal 1987 al 1997. Non ha prodotto nulla a livello teorico, perché era ‘disperso’! (lunga pausa). Lo incontrai all’aeroporto di Venezia, oppure a quello di Roma - questo non me lo ricordo - ma mi è rimasta impressa la sua espressione e ciò che mi disse, lui scendeva da un aereo per risalire su un altro per andare chissà dove e mi disse: «Carlo, non ce la faccio più!» Era stato risucchiato dal gigantesco ingranaggio dello  star system? Eh sì, questo anche perché, anzi proprio per come era fatto, per come Aldo era architetto intendo, non poteva reggere a quel sistema. Di questi anni ci sono solo pochi progetti, e molto belli, ma molto belli in cui Rossi, diciamo così, riemerge! Mentre, ma quello è molto prima, l’exploit è Modena, il cimitero, quello è l’inizio anche del successo. Beh! Anche quella del concorso per il Cimitero di Modena potrebbe essere una storia a sé. E anche lì mi pare lei abbia qualche responsabilità!  Assolutamente…(ride) e non c’è che dire: sono stati dei bei pasticci. Io e Portoghesi. Dunque eravamo rimasti al «non ignoriamo che eravamo tutti comunisti»…  Ah, sì! Questo per dire che era un mondo con una forte coerenza in terna…Perché poi facevamo capo anche a Bianchi Bandinelli, l’archeologo,…cioè era un mondo di comunisti con gli attributi…che non ha niente a che vedere con quello attuale… compreso Alicata che era un ‘mostro’. E a questo si aggiungevano dei riferimenti forti come Rogers che non era comunista, ma era di sinistra, proprio nella mente. I giovani erano comunisti e il mondo in cui si muovevano era di sinistra, ma di una sinistra avanzata. Niente a che vedere con l’oggi. Ma rispetto alle polemiche…voglio dire in fondo non vi si accusava tanto di essere comunisti, quanto di calare queste vostre scelte politiche nell’architettura e cioè di fare dell’architettura ideologica.

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No! Questa cosa non l’abbiamo mai accettata né discussa perché alla fine non c’era e non c’è mai stata. Nella sua omogeneità culturale era tra l’altro un mondo molto ricco e con forti differenziazioni. E rispetto a quel ‘grillo parlante’ che era Bruno Zevi non c’è mai stato, non so, un ripensamento, un ritorno analitico su certe scelte sulla scorta delle sue osservazioni. Non c’è mai stato un dubbio, un’incertezza di fronte ai continui attacchi di questa personalità - da tutti indistintamente poi ne è stato riconosciuto il valore - che annoverava le vostre architetture un giorno tra quelle fasciste e un giorno tra quelle staliniste? (ride) Cosa fu quando, ospiti, andammo insieme, io e Aldo, a Berlino Est5. Eravamo ospiti perché avevamo fatto un patto con la Scuola di Architettura di Weimar per poter fare entrare i professori in Italia, visto che da lì, non per colpa nostra, non si poteva entrare. Ma quando a Berlino Est vedemmo la Stalinallee…applausi tra Aldo e me strepitosi…strepitosi! Perché? Perché lì c’è proprio la nostra architettura, nella sua differenza totale, che era quella di capire che non era lo stile a determinare il consenso, era anche un modo di intervenire nella città! Il rapporto tra architettura e città era fondamentale nello IUAV e noi ci siamo formati proprio in questo: nel voler e dover capire questo rapporto tra architettura e città. Poi, anche lì, Aldo poteva essere un po’ più disponibile rispetto a me all’architettura della Stalinallee, ma in fondo anche lui non aveva nulla a che vedere con quell’architettura. Quello che avevamo capito è che si trattava di un pezzo di città strepitoso e che infatti tale è rimasto! Soprattutto rispetto all’Ovest che era tutto così, era tutto…

Interbau.

(con la penna fa uno schizzo, uno piccolo disegno sintetico dei due sistemi a confronto) Questo (a destra) era a Est e questo (a sinistra) era a Ovest 6. C’era un’enorme differenza! …Poi questa (a Est) aveva le colonne e tutto il resto…ma chi se ne frega! Questa cosa qua (indica la cortina sfalsata) stava nella storia di Berlino…e la determinava anche! Torniamo all’architettura, un’altra citazione da Rossi (catalogo ufficiale): «L’attenzione al razionalismo, le correnti surrealiste, un rigoroso tecnicismo si possono trovare dal punto di vista stilistico nei diversi progetti; ma ciò che li riunisce è la volontà di vedere in termini d’architettura quello che oggi è possibile fare…Un progetto per diventare un fatto urbano ha bisogno di questa dialettica; ma esso deve suscitarla ponendosi con una propria realtà». La realtà urbana e la realtà del progetto di architettura. Il rapporto fra analisi e progetto era un’altra questione decisiva sulla quale si sono delineate posizioni differenti e caratterizzanti nell’ambito delle tesi e delle metodologie sviluppate dalla Tendenza . Quale ritiene sia stato allora l’atteggiamento di fondo, se c’è stato, assunto rispetto alla questione di cui sopra? Ma soprattutto: quanto quel rapporto può ancora oggi ritenersi

Carlo Aymonino

importante, fertile, parafrasando Samonà, nel «passare dal processo costitutivo delle idee intorno ad un oggetto architettonico da realizzare alle immagini disegnate e alla forma visualizzata nello spazio»? La miseria! Qui c’è tutto, è l’architettura! C’è tutta l’architettura. Mamma mia…da dove cominciamo? Dunque…com’è quel passaggio fra analisi e progetto? Certo è determinante! Ma anche qui torna quello che dicevamo prima e cioè che le cose sono cambiate. È cambiato tutto totalmente! L’architettura adesso è un’altra cosa… Con Uberto Siola abbiamo fatto questo…(si alza e va a chiudere la finestra del suo studio, quella che si vede alla sua sinistra nella foto di apertura. Sul vetro dell’anta alle pareti non c’è più spazio - c’è il disegno di progetto per un edificio a Secondigliano) che non è brutto…e tutti subito a dire: «il Colosseo, il Colosseo!». Va bene chiamatelo come vi pare, però nel quadro generale diventeremo più riconoscibili… Ma allo stesso tempo siamo diversi, totalmente diversi! Questo è molto importante analizzarlo e confermarlo, altrimenti diventa tutta una architettura il più stilisticamente differente e che non basta perché è anche strutturalmente differente. Quanto detto però racconta più delle differenze e del rapporto fra ‘voi’ e ‘loro’. Oltre a questo mi interessa sapere anche, sul nodo ‘analisi-progetto’, quali erano invece le differenze fra ‘voi’, se c’erano naturalmente. …E non posso non pensare, per esempio, anche alle energie profuse nelle matte e disperate campagne di rilievo che si sono condotte in quegli anni. Quelle erano delle ‘stupidaggini’…e quello fa parte di qualsiasi altra stupidaggine che uno può fare nella vita, però… Con questo lei scardina un pilastro del discorso…definire una stupidaggine, un errore… No, non è un errore. Attenzione! È una stupidaggine usarlo come unico sistema.  Tutto tipologico, tipologico, tipologico…io ho fatto Caratteri distributivi, so bene che cos’è la tipologia. Tuttavia questa diffusione, e anche nella superficialità, era dovuta al fatto che poi, tutto sommato, non si analizzava quasi nulla! Una cosa invece che ritengo fondamentale e caratterizzante la mia generazione, che caratterizzava diciamo il ‘gruppo’ - quello che ha origine con Samonà e Rogers - è che tutti quanti disegnavamo benissimo! Eravamo tutti bravi. E poi ognuno ha trovato il suo strumento, ha trovato appunto un suo modo di esprimersi a differenza di oggi…adesso con il computer sono tutti uguali! I rendering sono tutti uguali. Ridolfi si è ammazzato perché non muoveva più le mani. È entrato in un ruscello, e quando l’acqua gli è arrivata al cuore è morto! È una cosa agghiacciante, da antico romano! Che però testimonia tutta l’importanza e la necessità di questo strumento nel nostro mestiere. Il disegno è importantissimo anche solo come esercizio! Anche nelle piccole cose, quasi come un gioco. Io ne faccio ancora di ‘follie’; adesso le faccio vedere proprio

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la mia ultima follia…(scompare nell’altra stanza studio e ritorna con u n enorme foglio di carta lucida disegnato a china, delle dimensioni di circa un metro per due metri e mezzo)…Questo è il tempio di Giove Capitolino, quello dove è stato sistemato il Marco Aurelio, ed è l’ultimo disegno che ho fatto. Una settimana di lavoro circa.  Aldo Rossi a modo su o era molto riconoscibile, era direttamente inventivo. Del resto c’è una lunga e consolidata tradizione ‘romana’ sul versante degli architetti non solo disegnatori, ma anche proprio pittori…lei, Dardi, Purini… Sì certo…Libera, Ridolfi, Quaroni… Ecco professore, rispetto alla questione del colore in architettura vorrei un chiarimento su quanto ha detto in una precedente intervista7, perché ne sono rimasto sorpreso e non poco. In quella circostanza, alla domanda su che importanza hanno i colori in architettura lei ha detto per prima cosa i colori «mi piacciono», poi che «sono importanti ma non determinanti» e infine «trovo quasi un imbroglio, se così si può dire, colorare gli edifici, perché tutto sommato non è poi così importante». Chi lo dice…Lo dico io? Eh sì! Di fronte al coloratissimo panorama delle sue opere ho pensato si trattasse di una dissimulazione, come dire ‘un po’ british’, per proteggere o distaccarsi da qualcosa di troppo intimo! È un’ipotesi plausibile questa mia oppure le cose stanno veramente così, proprio come le ha esposte in precedenza? No, lo posso anche spiegare. In molte delle mie opere c’è colore, è vero, ma se fossero tutte bianche sarebbe uguale! Il colore ‘può essere’ un imbroglio. Ecco, questo volevo dire; che poi invece un colore dato bene…per esempio a Villa Medici quando era tutta gialla, invece di quella ‘brutta cosa’ che hanno fatto adesso che è quasi bianca, dove il colore aiutava a vederla nel paesaggio…così va benissimo! In ogni caso il colore rimane escluso dalle fasi fondamentali del progetto, e non esercita alcun ruolo - penso per estremi a quello svolto nella poetica neoplastica - nel calibrare il peso di un volume all’interno di una composizione complessa. Esatto! Assolutamente. Il colore è l’ultima cosa da aggiungere. Il colore è una cosa aggiunta. Bene professore, abbiamo toccato tutte le questioni che ero venuto a sottoporle e la ringrazio per la disponibilità e la pazienza che mi ha dimostrato. Tuttavia per chiudere, spero in bellezza, questo incontro mi rimane un’ultima domanda: Se un Rossi analogo, le chiedesse una o più opere per una mostra analoga a quella del 1973, quale o quali opere porterebbe oggi? Oggi? (lunga pausa) È dura! Durissima! Mi piacerebbe portarne una sola, intanto! Mi piacerebbe l’ultima, quella del Campidoglio. Naturalmente quella là sopra (indica la planimetria sopra la porta) completata dal tempio di Giove che è quell’enorme ‘qua-

Carlo Aymonino

drato’ di 53x63 metri, completato, anche solo con qualche segno, anche solo con una traccia per terra del Tempio. Io mi ricordo, ancora sotto il fascismo, che c’era il tempio di Venere e Roma, quello di fronte al Colosseo; aveva tutte le colonne sagomate in alloro e si leggeva chiaramente come era fatto…non è che voglio fare la stessa cosa…ma noi abbiamo consegnato un plastico bellissimo al Campidoglio con le parti marroni che sono le fondazioni che fanno capire quanto siamo più in basso rispetto all’altezza che aveva. Eccolo lì, (indica una stampa sulla parete di fronte con un disegno del tempio di Giove) quel disegno è di Luigi Canina, e aveva quell’altezza! Mi piacerebbe portare questo progetto. Sì! Lo porto lì…e vado fra gli applausi! * Carlo Aymonino, romano, ha partecipato alla XV Triennale con diversi progetti, il più importante dei quali è stato sicuramente la Proposta architettonica per Roma Est. All’epoca dell’esposizione aveva 47 anni. Fondamentali per il dibattito architettonico in Italia sono stati i suoi Origini e sviluppo della città moderna, Padova 1965, Lo studio dei fenomeni urbani, Roma 1977. È professore ordinario di Composizione architettonica dal 1967, è accademico dell’Accademia Nazionale di San Luca dal 1976, della quale è stato presidente dal 1995 al 1996. Dal 1963 al 1981 ha insegnato presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, di cui è stato Preside dal 1974 al 1979. Tra il 1980 e il 1985 è stato assessore al Centro Storico di Roma. Ha insegnato Composizione architettonica presso la Facoltà di Architettura di Roma fino al 1994 per poi tornare a insegnare Composizione architettonica presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Tra le sue realizzazioni principali figurano: il complesso abitativo “Monte Amiata” al Gallaratese (1967/72), il Campus scolastico e il Centro Civico a Pesaro (1970/84). Ritiratosi dall’insegnamento continua a svolgere la sua attività di progettista, il suo ultimo lavoro lo ha visto impegnato nel Progetto per la sistemazione del Giardino Romano nei Musei Capitolini. L’intervista è stata realizzata a Roma la mattina del 17 giugno 2006, nello studio del professore Carlo Aymonino, in via Mormorata 169. Erano presenti alla discussione anche gli architetti Renato Capozzi e Federica Visconti. 1. C. Aymonino, Le origini dell’urbanistica moderna , in “Critica marxista”, n. 2, 1964, poi ampliato in Id., Origini e sviluppo della città moderna , Marsilio, Padova 1965. 2. G. Samonà, L’urbanistica e l’avvenire delle città, Laterza, Bari 1959. 3. L. Benevolo, Le origini dell’urbanistica moderna , Laterza, Bari 1963. 4. Si tratta del dipinto omoni mo di Arduino Cantàfora presente nella sala centrale della mostra, tra la III e la IV sezione. Si veda in questo volume la foto a p. 149 e la ricostruzione dell’organizzazione della mostra di Ivano La Montagna nel bottello di retrocopertina. Successivamente durante la sua breve ma fertile permanenza all’ETH di Zurigo Rossi con E. Consolascio, B. Reichlin e F. Reinhart realizza il famoso col lage intitolato “Città analoga”, cfr. Fabio Reinhart. Architettura della coerenza (a cura di F.S. Fera, L. Conti), CLUEB, Bologna 2007, p. 38. 5. Nel 1961 Aldo Rossi è stato invitato nella RDT da Hans Schmidt (1893-1972), direttore della Deutsche Bauakademie di Berlino. Schmidt viene a mancare appunto nel 1972, ragione in più per entrare a far parte della prima ‘Sala degli Omaggi’ della XV Triennale al fianco di Rogers scomparso nel 1969 e Bottoni morto proprio nel 1973. 6. Lo schizzo, non riportato, rappresentava, a destra, un sistema  a redant , e, a sinistra, uno schema isorientato di stecche parallele. 7. M.D. Morelli (a cura di), Venticinque domande a Carlo Aymonino , CLEAN, Napoli 2002.

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Carlo Aymonino

> 1973

Carlo Aymonino con C. Dardi e R. Panella. Proposta architettonica per Roma Est.  XV Triennale, “Architettura Razionale”, III sezione: Proposte, progetti o realizzazioni di sistemazioni urbanistiche su città campione.

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Carlo Aymonino con R. Castrignanò, G. Hanssen, A. Michetti, M.L. Tugnoli, G. Zambon. La copertura del Giardino Romano e la sistemazione dei Musei Capitolini a Roma (1994-1999).

Salvatore Bisogni

Salvatore Bisogni*

La prima questione è teorica e può dirsi ‘prima’ anche in senso cronologico. Nel libro Teoria della Progettazione è stato da molti individuato il momento in cui la cosiddetta Tendenza si manifesta ‘concretamente’ per la prima volta. Giuseppe Samonà nell’introduzione al testo scriveva così: «La possibilità o meno di fondare una teoria della progettazione architettonica dipende essenzialmente dalle convinzioni culturali e filosofiche di chi si propone di trattare questo tema; e, più particolarmente, dal tipo di logica a cui egli fa riferimento nel definire il problema ontologico». Lei professore è d’accordo con questa scelta interpretativa oppure preferisce individuare come ‘iniziale’ un altro momento, un’altra occasione, un altro oggetto? Prima della Triennale e di Architettura per i Musei , Rossi scrive L’architettura della città : questo è forse uno dei pochi libri che sopravvive, che si continua a studiare, è un libro serio che io ho visto nascere quando con Agostino Renna, durante la preparazione della nostra tesi di laurea 1, andammo nel grande studio dove Rossi lavorava con Luca Meda.  Apparentemente, come voi dite, l’atto di nascita della cosiddetta Tendenza è la XV   Triennale di Milano e, prima ancora, Teoria della progettazione promosso da Giuseppe Samonà che con alcune sue formulazioni interne tratta di alcuni momenti significativi ma, per me, rimane il fatto che la cosa più importante è il rapporto con i progetti e con le prime esperienze sul campo che furono fatte in Italia in quegli stessi anni, alcune veramente eccellenti. Allora che cosa e chi ha interrotto quelle esperienze e perché Rossi in quegli anni propone il problema della città, con la teoria dei fatti urbani, come conditio sine qua non della formulazione razionale sull’architettura? A mio avviso il pro-

blema di fondo, la base di tutto, è il manufatto o meglio la sua costituzione, sia esso dentro la città o fuori ed è razionale solo quell’architettura che espone con chiarezza la sua costituzione, mostrando non solo le scelte costitutivo-stilistiche, ma anche e soprattutto la ragione della sua forma linguistico-espressiva. L’architettura razionale, in altri termini, riesce a trovare e risolvere le difficoltà del rapporto stile-linguaggio, riesce a trovare e a raggiungere il senso ultimo degli edifici, ben sapendo che la maggioranza degli edifici non riescono a trovare questa insostituibile coerenza affinché la razionalità, l’architettura razionale emerga! Ad esempio il Gallaratese di Carlo Aymonino, di quegli anni, pone questioni formative di nuove ipotesi architettoniche o è più semplicemente una interpretazione linguistica non solo della città ma proprio delle forme architettoniche punto è basta? Il problema in tal senso si essenzializza ed è molto interessante discuterne a partire dal confronto che può sollecitare un’altro singolare progetto, quello di Segrate, in cui da un lato c’è Canella con la sua interpretazione “razionale” nell’edificio del Municipio - esemplificativo di una sorta di triade linguistica formata da rigore strutturale, “emozioni” linguistiche, ma anche articolazioni e proposizioni stilistiche molto interessanti che arrivano a negare la base costituitiva del manufatto per privilegiarne la componente espressiva - e dall’altro c’è Rossi, c’è la sua piazza metafisica con la famosa Fontana ed i rocchi di colonna che in realtà possono sembrare tutto il contrario di quello che voleva fare Canella. Rossi a quei tempi aveva ancora realizzato pochissimo, ma è molto significativo che il ‘professionista’ Canella gli faccia fare la fontana e il ‘professore’ Aymonino gli faccia fare il pezzo del Gallaratese: entrambi stimavano Rossi e ne avevano colto le singolari doti. E difatti il Gallaratese è assai più noto per il pezzo di Rossi che non per quelli di Aymonino. Il progetto di  Aymonino cambia registro rispetto alle case del Tuscolano fatte da studente per Quaroni e Ridolfi; quando Aymonino mette in discussione la tipologia a mio avviso confonde il tema, mentre, quasi per contrappunto, escono fuori la chiarezza ed il rigore di  Aldo Rossi. Pensando a quegli anni mi viene anche da dire che poco in effetti sapevamo di quello che si faceva all’estero, in Italia certo c’era stato Terragni; a Napoli, in particolare,  Vaccaro e Franzi e lo straordinario esempio del monumentale Palazzo delle Poste, capace di mettere insieme la razionalità di questa forma che si dilata, aperta ma sempre rigorosa, con all’interno certe “emozioni/inflessioni” o meglio certe interpretazioni metafisiche. Rispetto a questa doppia natura dell’architettura sono pochi quelli che sono riusciti a mantenere un binario di razionalità e molti quelli che hanno inteso proporre una uscita emozionale: in tal senso emerge la figura di Rossi che al contrario di  Vaccaro, che quasi nasconde questa singolarità espressiva con quella fabbrica tirata e senza sbavature, mette in scena i solidi, propendendo verso forme pure (gli archetipi) e la loro composizione. Quindi lei professore guarda non tanto e non solo alle formulazioni teoriche, ma innanzitutto ai progetti di quegli anni come lo Zen o il Monza San Rocco? Ora il problema è che si tratta di vedere quali sono le opere assunte dal mestiere: Zen o Monza San Rocco o le Rinascenti che Gregotti riusciva a fare a Palermo e a Torino? Lo Zen, per la verità, viene dopo ma si pone il problema di riproporre fuori dalla città consolidata il ‘grumo’ ed alcune questioni che sono presenti nella città della storia.

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Sono convinto che Gregotti oggi non rifarebbe quel progetto, Purini forse rimarrebbe ancora legato a quella esperienza. Quelle  insulae erano uno stadio intermedio di un lavoro che di lì a poco avrebbe portato al progetto per Vienna Sud. Un progetto ‘sconcertante’ a cui lavorai parecchio con degli schizzi che poi Nicolin definì e precisò nella soluzione finale. Una grande piazza di 7-800 metri di lato con quattro ‘entità’ solo apparentemente differenti: uno spazio in cui irrompe la spina di Gregotti delle attrezzature civili. Il tessuto di Vienna Sud era composto dall’alternanza di Hofe e Superblock  in omaggio, da un lato, alla linea di ricerca sovietica e, dall’altro, alla tradizione europea. E fu proprio per lo Zen che studiai un sistema di superblock molto strutturati con servizi e botteghe al di sotto delle residenze a cui furono preferite poi le  insule - una sorta di isolato olandese - che si ripetono cercando al loro interno un sistema di gerarchie. La radicalità sulla residenza di Rossi e Grassi del Monza San Rocco e chi l’ha più ripetuta? Se chiedi - e non solo agli studenti attuali - ti diranno tutti che quello era un progetto tutto utopico però, d’altro canto, io dico che era un progetto chiaro e tutto controllato architettonicamente: la misura della sua corte dipende dagli appartamenti e dai soggiorni. Il San Rocco è un sistema, un paradigma che poi, messo a confronto con lo Zen, è tutto il contrario. Zen è una visione di accettazione dell’esistente e il tentativo di dare consistenza e dignità alla periferia, mentre Monza San Rocco rifiuta tutto. Lei quindi ritiene che ciò che contò allora furono questi progetti e queste sperimentazioni? Si appunto, molto più degli scritti. Ieri, mentre pensavo a questa intervista e alle questioni che mi avevate anticipato avremmo trattato, ebbi un’intuizione, cioè di provare a parlare solo di questioni di progettazione. La seconda questione: il ‘lavoro collettivo’. Nella lettera apparsa su “Controspazio” (il n. 6 del 1973) intitolata Perché ho fatto la Mostra di Architettura Internazionale ,  Aldo Rossi punta l’indice su questo aspetto. Nell’introduzione al testo  l’Architettu ra Razionale, ancora scrive: «Questo libro, come ogni progetto, si preoccupa soprattutto delle relazioni che si stabiliscono tra i fatti; è pensabile che queste relazioni rendano il materiale più omogeneo nella prospettiva di costruire un unico progetto. Per la costruzione di questo progetto abbiamo raccolto materiale concreto: progetti di architettura, scritti o disegnati, formulazioni, critiche etc.etc...». Rosaldo Bonicalzi e Uberto Siola nell’articolo  Architettura e Ragione (nello stesso numero di “Controspazio”) riportano un’espressione meno ‘impegnativa’, ma comunque inequivocabile, quella di ‘progetto collettivo’. ‘Coerenza’, ‘tendenza’ e ‘stile’ - per dirla con Ernesto Nathan Rogers - che fine ha fatto il  progetto stilistico? Come si è sviluppato? E infine in che termini oggi potrebbe riproporsi una scelta di Tendenza? Mi ricordo che quando arrivai alla Triennale rimasi molto meravigliato per il fatto che c’era questa sezione internazionale nella quale comparivano fra gli altri i progetti di Stirling e di Krier. Il progetto collettivo è da intendere proprio come la possibilità di mettere insieme delle persone che, pur nelle loro puntuali differenze, possono lavorare e produrre delle cose. Io mi ricordo che Aldo Rossi era molto attento quando arrivavano le cose degli altri. Rossi faceva una descrittiva di quello che si stava producendo. Da ‘furbo napoletano’ potrei dire che Aldo aveva invitato gli stranieri per sottrarsi all’i-

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solamento e alle critiche che avrebbe ricevuto per aver esposto i progetti per la Stalinallee. Ho scritto che siamo stati tutti ‘rossiani’, in un’altra occasione ho detto che lui mi è piaciuto, in quel momento, proprio per il suo coraggio. Ricordo bene, quando andammo a Berlino con Giulio De Luca (quello dell’Arena Flegrea), mi feci fare una lettera di presentazione da Luigi Cosenza che conosceva Kurt Macritz, uno dei costruttori della Stalinallee. Allora si combinò la cosa in modo tale che a Monaco di Baviera io spedii la lettera di Cosenza. Dopo un’ora che eravamo a Berlino, ancora in albergo, mi ricordo che arrivò un assistente di Macritz con una Vespa e mi portò via e io dormii a casa di questo signore vicino ad un cimitero ebraico di Berlino per due, tre giorni. Poi Macritz ci parlò molto di Cosenza e di quello che stava facendo. Cosenza godeva di un grande prestigio presso la DDR e non solo presso gli architetti comunisti occidentali. Io detti loro le notizie su Cosenza, un pomeriggio intero a discutere. Poi tornai con questa Vespa in un posto dove incontrai qualcuno dell’Ensemble del gruppo teatrale di Brecht. Mi ricordo quando al suo corso ci raccontò l’aneddoto della scatola di fiammiferi lanciata sul tavolo e di quell’architetto tedesco che disse: ecco questa è l’urbanistica di Le Corbusier. Fu proprio a Berlino, alla mostra su Le Corbusier, era un architetto della DDR, la mostra si fece proprio sulla Kurf üsterdamme Strasse (Strasse des 17.Juni), quella strada che porta alla colonna con l’angelo (quella di Wenders) e poi alla Porta di Brandeburgo. E questo architetto che mi accompagnava fece questa cosa della scatola di fiammiferi che voi avete ricordato. Che poi in fondo era un modo di dire una falsa verità… che a noi che venivamo dallo sfacelo delle città italiane di quegli anni sembrava che quella città sovietica e accademica tutto sommato fosse una ‘risposta’. Ritornando alla domanda iniziale, che significa oggi fare una scelta diTendenza? Secondo me oggi una scelta di Tendenza, tenuto conto di quello che è successo, si può riproporre solamente nel chiarimento di quelle materie e questioni che crebbero e vennero fuori in quel momento. Per cui l’approdo dovrebbe essere quello di riprendere i temi che erano presenti nei maestri italiani del dopoguerra…meno plasticismo alla Le Corbusier e più dimostrazione della costruttibilità e della convenienza. Il linguaggio deve cioè piegarsi all’ipotesi stilistico-costruttiva, allo stile inteso come costituzione del fatto architettonico: ogni epoca ha uno stile non tanto per l’apparenza ma per come affronta, anche in maniera innovativa rispetto alle epoche precedenti, i vari temi di architettura, come una biblioteca o una casa. Lo stile riguarda cioè la costituzione dei manufatti che ovviamente hanno poi pure un’apparenza e quindi un linguaggio. La mancata distinzione tra stile e linguaggio, la loro sovrapposizione, ha generato molti equivoci e nemmeno l’opera Rossi ne è poi stata immune. Ma tornando alla Triennale io credo che Rossi avesse un obiettivo preciso, fosse mosso da una voluta faziosità: secondo me cercava una verità costitutiva rispetto al linguaggio, voleva dimostrare come linguaggi differenti potessero venire sviluppati a partire da una costituzione condivisa in assenza della quale qualsiasi espressione linguistica è fasulla. In questa ricerca di una costituzione condivisa per i manufatti contemporanei, nella ricerca di temi costitutivi, nella necessità di trovare figure

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appropriate per questi temi sta la differenza tra linguaggio e stile ed anche il rapporto con la città, dal momento che queste nuove ‘figure appropriate’ hanno, nella città appunto, un ruolo fondamentale. Un esempio: l’idea del teatro contemporaneo che viene proposta da Mies quando non solo propone di aprire l’edificio all’esterno, ma soprattutto lavora sulla sua organizzazione secondo particolari disposizioni degli spazi destinati al pubblico e a gli attori, traducendo in architettura un dato fondamentale del teatro contemporaneo che concerne appunto un nuovo rapporto pubblico/attori. Ho notato che nel Mannheim fra la cavea, che appare una citazione vera e propria, e il teatro piccolo vi sono delle necessarie differenze. Mi pare particolarmente adeguata, per il teatro delle commedie, la soluzione di un palcoscenico che è una piccola stanza rispetto ad un grande terrazzo e come si impone il teatro piccolo che è tutta la scena, attorno alla quale ci sono pareti dietro cui gli attori vanno e vengono, un grande spazio che è come un grande appartamento che si affaccia su un terrazzo. Invece il teatro grande è esattamente il contrario, ha la retorica giusta che deve esserci per i luoghi destinati ai grandi spettacoli: non solo i balletti e non solo la lirica, ma le tragedie e il teatro drammatico. Più ci ragiono e più mi convinco che la questione centrale è lo Stile e che si tratta di una questione malamente trascurata: si è studiato poco lo stile, cioè come devono essere fatte oggi le case, come devono essere fatti, ad esempio, gli edifici ad Aula2. Io credo che più che porre il problema e affannarsi a discutere di ideologia dell’architettura, bisognerebbe - solo in apparenza semplicemente - chiedersi quali siano i “palazzi” (i temi di architettura) ragionando sui quali di volta in volta si sono prodotti degli avanzamenti. E proprio lavorando su questi riferimenti, su queste architetture certe, si potrà costruire il nuovo per l’oggi. Io sto lavorando per esempio sul progetto di una Biblioteca che, partendo dall’incubo e/o dalla bellezza della Biblioteca di Boullée, prova a mettere insieme i tre elementi costitutivi del tema: l’aula, i libri e gli studiosi come gli elementi costitutivi e inscindibili del manufatto. Quindi a suo giudizio la questione del ‘progetto collettivo’ lei la rintraccia proprio nell’aspirazione allo Stile. Si certo. Secondo me la questione di tendere allo Stile rimane una necessità e bisogna continuare a lavorare al progetto stilistico senza cedere al linguaggio, cercando di trovare nuove pulsioni non solo espressive, ma adeguate alle nuove esigenze contemporanee, al nuovo senso ed alla nuova costituzione possibile del manufatto. Io pongo la questione anche in termini quasi pedagogici; queste esperienze hanno significato molto per chi vi ha partecipato, hanno formato una generazione successiva che ha cercato di continuare il lavoro nella direzione tracciata. Oggi pare che ci sia piuttosto un’assenza di riferimenti… Insisto che la questione centrale è sempre quella dello stile. Affrontare questa questione nasce come necessità quando ci si rende conto che altrimenti non si va in nessun posto. È allora che chi ha ambizione si deve porre il problema di confrontarsi con gli altri per raggiungere lo stile, o almeno per fissare alcuni punti certi…anche se apparentemente non ci sono progetti e propositi comuni.

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In merito alla tendenza che alla Mostra si intendeva manifestare, è necessario un passaggio su quello che è stato da molti definito come il ‘peccato originale’: la questione ideologica. Rossi dopo aspre polemiche taglia corto e dice:«per un cattivo progetto non esiste copertura ideologica»; ma questo che significa? In che termini era posta allora la questione, o meglio in che senso veniva percepita da maestri e allievi, al punto da scatenare una così netta reazione? Io sono stato stalinista e quando poi mi ritrovai a chiedermi perché il Partito non intervenisse sulle questioni dell’architettura, Luigi Cosenza mi fece capire che era giusto che il rapporto tra politica e architettura fosse di distanza e autonomia. Su Rossi, nello specifico, è indubbio che egli fosse pervaso di questa questione ideologica, ma in un senso positivo: ecco perché mi piacque la Stalinallee, perché in certi momenti si avverte la necessità che le cose vadano in una direzione comune e che vi siano pochi elementi condivisi in grado di dare un ordine alle questioni. Probabilmente la questione ideologica ha influito molto sul progetto per Montecalvario che presentai alla Triennale, al pari di quanto accadde per Vienna Sud. In quel progetto - che è il primo di tre versioni - il problema era quello di riuscire, con l’avallo dell’ideologia, con l’avallo della critica alla città esistente, “scandalosamente esistente”, rovinata dalla non controllata super-crescita su se stessa, ad aprire una nuova prospettiva alla città a scala territoriale. Le tre soluzioni vengono fuori proprio per rispondere con tre gradazioni differenti a chi proponeva atteggiamenti marcatamente conservatori, selezionando quello che a tutti i costi doveva rimanere e creando una sorta di  passepartout al vecchio con nuove modalità. La prima versione assume come riferimento il cortile del Belvedere al Vaticano di Bramante e irrompe nel tessuto lavorando per senso e dimensione alla scala dell’intera città; la seconda soluzione riduce la radicalità della prima collocando sopra al nucleo originario del quartiere strutture collettive, conservando i conventi a monte ed eliminando le addizioni successive che amplificarono la maglia originaria; la terza soluzione deriva dalla composizione dei due atteggiamenti precedenti. Del resto quei vicoli, nel momento del primo impianto del quartiere, si aprivano alla natura verso il colle e sono certo che gli stessi spagnoli avrebbero collocato lì delle architetture di una certa forza. L’ipotesi di fondo era quella di collocare delle nuove  agorai di servizi ed infrastrutture civili proprio nel cuore della città della storia, quali elementi capaci di rendere intelligibile e conoscibile la storia stessa. Quindi non c’è la copertura ideologica ma l’ideologia serve… E come se serve... Torniamo all’architettura, un’altra citazione da Rossi (catalogo ufficiale): «L’attenzione al razionalismo, le correnti surrealiste, un rigoroso tecnicismo si possono trovare dal punto di vista stilistico nei diversi progetti; ma ciò che li riunisce è la volontà di vedere in termini d’architettura quello che oggi è possibile fare…Un progetto per diventare un fatto urbano ha bisogno di questa dialettica; ma esso deve suscitarla ponendosi con una propria realtà». La realtà urbana e la realtà del progetto di architettura. Il rapporto fra analisi e progetto era un’altra questione decisiva sulla quale si sono delineate posizioni differenti e caratterizzanti nell’ambito delle tesi e delle metodologie sviluppate dalla Tendenza .

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Quale ritiene sia stato allora l’atteggiamento di fondo, se c’è stato, assunto rispetto alla questione di cui sopra? Ma soprattutto: quanto quel rapporto può ancora oggi ritenersi importante, fertile, parafrasando Samonà, nel «passare dal processo costitutivo delle idee intorno ad un oggetto architettonico da realizzare alle immagini disegnate e alla forma visualizzata nello spazio»? In Rossi è forte questa triade - razionalismo, surrealismo, tecnicismo - che però mi appare non sempre risolta anche perché, nel suo essere insieme surreale e metafisico, esprime due realtà differenti. Di cosa ha bisogno un progetto per diventare fatto urbano? Mies riesce a fare grandi spazi urbani con sagome che non ti aspetti dalla pura geometria cartesiana ma che hanno il loro realismo nella costruzione. Secondo me la questione urbana deve essere oggi posta con nuovo slancio ed interesse, facendo i conti con la realtà come oggi ci si presenta. Nelle mie recenti ricerche provo a comporre vari edifici, a formare luoghi, che io chiamo zolle, che non vogliono essere ripetute - anche se potrebbero essere ripetibili - che vogliono in qualche modo assolutizzare la loro singolarità. Due o al più tre edifici collettivi che siano congeniali e reciprocamente necessari e staccati dalla città. E questa operazione di costruzione di fatti urbani la faccio non solo con miei progetti, ma anche con i progetti dei Maestri come nel caso del Mannheim ‘giustapposto’ all’Accademia dello Spettacolo di Porro a Cuba. Rispetto al rapporto Analisi/Progetto che informazioni trae dai contesti? Io parto dalla forma delle architetture per creare un contrasto nel quale però ciascun manufatto è necessario all’altro: se avessi trovato un Mendelsohn o uno Scharoun gli avrei proposto di fare un pezzo di fronte al Mannheim. Questa è la mia idea di architettura e progetto stilistico per la città, è costruzione di un luogo fatto di ‘differenze pure’ che si contrappongono, come al Campo dei Miracoli di Pisa in cui avviene qualcosa di simile con tre edifici che, nelle loro sottili differenze, sono però analoghi: il campanile, il battistero e la chiesa con la sponda del Cimitero. È importante sottolineare che questo insieme di edifici non è mai stato assorbito o raggiunto dalla città e dalla sua espansione recente. Le zolle si confrontano poi con i vari contesti in cui ne sono ipotizzate le realizzazioni: come nel caso della zolla della conoscenza (Museo e Biblioteca) ove, dialetticamente, si confrontano a distanza la Monteruscello di Agostino Renna, gli scavi archeologici di Cuma ed i tessuti esistenti.  Torno a dire che nel rapporto analisi-progetto c’è anche la questione stilistica; non tanto come modo della forma ma, come dice Monestiroli, come lavoro sullo stile come interpretazione del proprio tempo, che dà risposta al problema di rappresentazione del tempo presente. Questo è il problema stilistico, poi ognuno lo interpreta in un certo modo. Si parte da presupposti che sono stati dati perché c’è una condivisone non solo tecnico-economica che porta a quelle cose in cui la tecnica e la costituzione si sintetizzano, certe cose non sono interpretabili, o stai in una linea o non ci stai. Il progetto stilistico può creare o è già un fatto collettivo; è e deve essere un fatto di larga condivisione che certamente non è imposta da parte del costruttore. Lo stile quando c’è, ed è vero, sta nel tempo e non c’è avanguardia che possa tenere…non è solamente l’epidermide delle cose, la mera apparenza, che magari uno può variare o imitare come fanno Gehry ed altri. Secondo me sono pochi quelli che riescono ad usci-

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re da queste maglie e che alla fine stanno alla scommessa: stare dentro al progetto stilistico e trovare un’innovazione possibile che a sua volta sta dentro un sistema; non è il sistema stesso come costruzione che si può improvvisare, tutto questo porta ancora una volta a parlare di progetto collettivo. Quelli che ‘vanno avanti’, i vari Terragni, Cattaneo ecc. sono i grandi innovatori perché vanno in avanscoperta e trovano nuovi rapporti con tecniche che sembrano una scommessa, il che significa usare materiali e tecniche normali, per riuscire a far ‘cantare’3 gli edifici. Pochissimi ci riescono. Per esempio certe cose che fa Antonio Monestiroli sono belle, però è come se arrivato ad un certo punto lui si bloccasse su delle questioni, non va più avanti. Io per mio conto faccio una chiesa a croce sbagliata e poi la rifaccio quadrata, lui la fa buona, però gli manca quella forza che magari sta già là dentro nascosta. Allo stesso modo i lavori di Purini sono interessanti, intriganti perché cercano di aprire delle strade come la chiesa che ha realizzato in Puglia 50x50 m…è quadrata e pare che sia bella. Forse non è un caso che tre architetti italiani, tra i pochi che ancora ragionano di composizione - cioè lei, Monestiroli e Purini - si misurano col progetto di una chiesa e tutti e tre partendo dalla pianta quadrata (affinità). Forse. Quella tonda è la più difficile. Giorgio Grassi ha provato a farla circolare. Il Pantheon è sacrale solo per le cose che di cono i preti, per tutte le immagini che lo snaturano, perché il Pantheon è un edificio che non doveva essere sacrale…Il Pantheon non si può dire che è una piazza di mercato, ma è di una forza laica straordinaria. Ho discusso molto di questo problema del tema della chiesa con Pasquale Belfiore che venne a vedere il mio progetto e rimase perplesso per la sua eccessiva trasparenza. Certo c’è un problema tecnico da risolvere per mitigare la troppa luce che entra. È evidente che serve una sottograta, ma il problema è con che cosa e di che cosa vada fatta, tale che non sembri una parete di un ufficio ma che si avvicini al senso del manufatto. La trasparenza da fuori genera un senso di rifiuto. Questa trasparenza all’esterno è ‘sbagliata’, mentre dall’interno funziona in rapporto alla natura. Questo è un problema a cui sto ancora lavorando. Nel libro Care Architetture4 , in chiusura del suo pezzo lei ha operato un accostamento importante. Ha detto che il grande lavoro di Rossi è stato quello di aver posto degli «antemurali alle nostalgiche rievocazioni dei recenti quanto deboli passati, fino alle maniere intorno alla tradizione del nuovo». Poi proseguendo dice: «quegli antemurali posti attraverso L’architettura della città e la selezione dei progetti redatti per la Triennale di Milano del 1973, ci ricordano di essere stati rossia ni». Perché proprio questi due momenti? È interessante notare che mentre il primo, L’architettura della città, è indistintamente riconosciuto come uno dei prodotti scientifici nel campo della teoria dell’architettura più alti del secolo scorso, il secondo, la Triennale del 1973, ha prodotto in senso opposto quasi il massimo della polemica e la necessità di forti distinguo. Quando comincia e quando finisce il periodo in cui siete stati rossiani ? Ma soprattutto cosa è successo dopo? Quando incontrai Aldo Rossi avevo con me uno schizzo di Montecalvario su un foglio extrastrong, mi presentai e gli chiesi che ne pensasse e Rossi mi disse: «Perché non

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lo presenti alla Triennale?». Da quel momento ho lavorato con molta intensità al progetto, redigendone le diverse versioni e realizzando numerosi plastici.  Alla Triennale ricordo un Rossi sotto pressione, che era stato torturato con critiche frontali, ed io ebbi con lui dei problemi e delle incomprensioni per l’allestimento. Devo ringraziare Bruno Reichlin che mi aiutò nel disporre i pannelli ed i plastici, ma alla fine ad  Aldo piacque il progetto. Siamo stati tutti rossiani perché si capiva ed era chiaro a tutti che Rossi era il primo che invece di parlare stupidamente solo di linguaggio si preoccupava di un progetto comune e, come pochi altri, si poneva il problema di una nuova scala per la città. Rossi nell’accettare quel mio progetto e nel dare fiducia a quello schizzo probabilmente vide con chiarezza quello che cercavo di proporre: cambiare la città esistente non come atto gratuito ma come tentativo di misurarsi a varie scale, con varie gradazioni e con varie questioni della città. In questo mi identifico con l’atteggiamento di Rossi e non credo sia un caso che Samonà e gli altri avvertirono l’importanza della figura di Rossi e di quella Triennale. Quaroni stesso si sorprese quando seppe che vi avevo partecipato. Per quella mostra Rossi si procurò molte inimicizie. L’essere stati rossiani coincise con la famosa ritirata italiana dal movimento moderno?  Allora ci fu una fuga dal moderno, per questo io ho detto  noi tradimmo pure Cosen za perché Cosenza insisteva sul moderno e aveva ragione a farlo. Noi per capire le cose ed i temi di quegli anni: le preesistenze ambientali, la continuità, la città (questa era “Casabella”) ci spingemmo verso una direzione opposta. Un paese socialista paga il prezzo per aprire una strada che abbia decoro ed un tono adeguato, la città moderna non si capiva, ma era per ignoranza perché si conosceva poco il moderno, perché di Moderno di qualità, esemplare non se ne vedeva o non si conosceva abbastanza. Il ragionamento sull’analisi urbana era come a dire: quello che devo fare in periferia me lo studio in città e da lì prendo dei pezzi, delle articolazioni da riportare altrove. Secondo me invece il discorso vero dell’architettura moderna non passa attraverso questo canale artificioso, secondo me il vero problema è nel rapporto con la natura che molti dicono essere perverso, negativo, pernicioso. Io non credo sia così! Che poi in un grande edificio la regola debba essere quella di un tracciato morfologico (cascame morfologia-tipologia)…io non credo più a questo. Io, nelle mie ricerche, ho tentato di mettere insieme tre edifici…e già questo crea grossi problemi…ecco cerco di metterli isolatamente che però si guardino, coesistano…in un primo momento avevo ipotizzato un tracciato, quasi di tipo accademico, però l’insieme ne è risultato debole, senza tensioni reciproche mentre quello che conta principalmente è l’assolutezza del manufatto e, non a caso, mi sono poi inventato questo tema, che forse ho preso da altri: le zolle. Pare che Rossi abbia usato questo termine a un certo punto nei “Quaderni  Azzurri”…

Non saprei, la cosa che mi ricordo di Rossi è che si arrabbiò molto durante un intervento a Trieste al congresso dell’INU. Ma non parlò di zolle. Disse che a fronte delle grandi ipotesi urbane si doveva tornare, per la costruzione della città, a pochi e semplici elementi: un ponte, una strada ed alle loro relazioni reciproche.

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Non c’è l’architettura urbana, per cui sarebbe urbano ciò che ha un tracciato, con i suoi ascendenti nei Greci, Assiro Babilonesi…etc. Se ci sono questi elementi semplici e ben fatti allora si può raggiungere l’equilibrio cercato e la cosa è fatta. Quindi quello che conta sono gli edifici e come sono fatti. È questa la questione! Poi in rapporto alla città questa riuscita compiutezza dell’architettura che cosa stabilisce come rimando all’idea della città nella sua crescita e nel suo complesso? Questa zolla che si viene a formare in maniera quasi autonoma con la sua logica interna cosa diventa? È meccanico dire rimangono le cose…Che cos’è che rimane uguale all’interno e all’esterno, secondo me è solo un aspetto, il resto è determinato da condizionamenti esterni, anche non istituzionali o da autocondizionamenti che un determinato “ambiente” e una determinata condizione urbana stimola.  Alcuni di noi hanno creato involontariamente un equivoco su Rossi e sull’architettura rossiana: quelle sue conformazioni che sono nuove, originali e prendono le mosse da altre fonti e sicuramente non dall’esistente. Rossi parte a suo modo da autori e condizioni particolari. Il pezzo di Bonfanti 5 su come studiare Rossi è bello ma non va a fondo, io mi chiederei ad esempio Che cosa deve Rossi a Breton? bisognerebbe partire da alcuni suoi progetti specifici. Ma di quale periodo? Se è un periodo intermedio (prima che va in America) in cui ci stanno degli accostamenti di corpi che nascono dalla pura geometria, ma che invece secondo me nascono dentro le architetturazioni dei riferimenti (tipo Breton…). Il fatto è che poi questa roba, questi materiali diventano nei progetti di Rossi una cosa bella perché opera delle scelte precise selezionando in specifici momenti all’interno di questa enorme mole di materiali. Lei professore ha avuto alcune importantissime occasioni di lavoro in collaborazione con Vittorio Gregotti più che con Aldo Rossi. Ebbene, Gregotti, in relazione sia all’esperienza della Triennale del 1973, sia più in generale al progetto culturale della ‘cosiddetta Tendenza’ manifestava una sorta di profondo scetticismo. In quelle occasioni di cui sopra, cosa le ha trasmesso quell’atteggiamento di Gregotti? Cosa accomunava e cosa distingueva il vostro pensiero a proposito del ‘progetto’ rossiano? Un esempio per tutti! Nel dibattito su “Controspazio” 6 successivo alla mostra lei usa l’espressione ‘filo conduttore’, mentre Gregotti dice ‘filo ingarbugliato’. Mi piacerebbe avere il suo punto di vista sull’argomento così come sapere se vi è mai capitato di parlarne direttamente, magari, in una fittissima discussione a tre (con Purini intendo). Gregotti, essendo un figlio di lanieri del novarese, si consentiva una attività professionale già allora di alto livello, con Pierluigi Cerri e Emilio Battisti. Gregotti è una persona di livello e capisce immediatamente e prima di altri le questioni di fondo. Gregotti è una persona forte con una notevolissima cultura. Persone come Gregotti se avessero lavorato di meno, ma pur sempre con riconoscimenti seri, avrebbero potuto fare molto di più per la Scuola. Ho ritrovato alcuni studi per una piazza che mi affidò al centro dello Zen, ma ricordo pure che dopo la Triennale mi guardava con sospetto o quanto

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meno con cautela. Del resto Gregotti e Rossi appartenevano al gruppo dei “ragazzi del biliardo”, degli allievi di Rogers e della sua “Casabella”, anche se Gregotti non è rimasto rogersiano. Tra i due c’era una competizione accettabile, un rispetto reciproco. Gregotti ha la forza, non sbaglia mai, non è un irrequieto ed i suoi scritti recenti su “la Repubblica”7 sono degni di grande rispetto. Vittorio mi ha dato molto e nella scuola di Palermo discutevo tanto con gli studenti dello Zen avvertendo loro di approfondire criticamente la conoscenza di quel progetto per non trovarsi dopo cinquanta anni a parlarne male ipocritamente. Ho sempre difeso lo ZEN come una cosa mia personale, anche se ho solo disegnato quella piazzetta…che del resto non fu mai costruita. Come poi è successo all’inverso qualche anno fa a Parma dove alla Pilotta c’erano i disegni del Gallaratese a fianco a quelli dello Zen… Sul Gallaratese Purini sollevava un problema di adeguatezza del pezzo di Rossi rispetto agli edifici di Aymonino. Io risposi con tutta franchezza che non ero d’accordo anche se rimaneva certo un problema di scelta tra le forme di Aymonino ed il rigore di Rossi. Un’espressione forte accomuna due suoi scritti: «momenti eroici». Lei ha attraversato tutta quella stagione ed è stato definito da Monestiroli uno degli ultimi maestri campani. Ecco perché la ricostruzione e l’elenco dettagliato dei suoi ‘momenti eroici’ potrebbe costituire l’indice di una utile ricerca nel campo dell’architettura contemporanea. Vorrebbe provarci? Una di quelle figure che potrebbe e dovrebbe ordinare questi momenti eroici è Renato De Fusco, neo liberty agli inizi, poi allievo di Pane. Questo suo possibile ruolo l’ho capito tardi, sarebbe stato molto utile al dibattito sull’architettura ma forse è stato bloccato dall’ambiente napoletano. Penso che momenti eroici siano stati quei momenti di svolta, quei lavori di Rossi o di Gregotti e tanti altri che hanno cambiato, rinnovato l’architettura con i progetti più che la “Casabella” di Rogers che aveva un taglio ideologico a partire dalla questione delle preesistenze ambientali. Domanda conclusiva: Se un Rossi analogo, le chiedesse una o più opere per una mostra analoga, quale/i opere porterebbe? Il migliore progetto che ho realizzato - perché i progetti sono belli quando si realizzano - è il mercatino di S. Anna di Palazzo. Il mercatino è stato accolto bene, tanto è vero che ebbi all’epoca la copertina di “Casabella”. Se dovessi portare una mia opera porterei quella. Quanto ha dentro il mercatino, secondo lei, del progetto del 1973? Il tentativo di fare l’urlo c’è, ma per certe cose cercai di essere accorto. Il progetto non nacque immediatamente come lo vedete oggi: in un primo momento volevo fare un edificio che sovrapponesse al mercato un volume per i valdesi cha avevano donato alla città il lotto dove in precedenza c’era una loro chiesa crollata. Poi venne fuori l’idea di distinguere il mercato dal centro civico anche se poi le botteghe al piano terra fungevano da elemento unificante. Il mercatino è la mia cosa migliore. Poi ci sono la scuola del Traiano, e quella di via  Aquileia ed alcune case a schiera che feci per Villa di Briano, parte di un progetto più

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ampio per il centro del paese di cui è stato realizzato solo il mercato. Queste case erano simili ad altre che avevo realizzato in un’altra località, ma con la differenza che queste erano accostate a serie chiusa mentre quelle a serie aperta.  Aggiungerei anche il Museo che sto studiando per una ricerca MIUR: ha una valenza quasi espressionista perché per così dire prende la Neue Nationalgalerie di Mies, che a suo modo ha una carica espressionista e la pone al di sopra di uno zoccolo. La difficile scommessa che accetto è quella di studiare un’aula su soli quattro appoggi, e Mies non ha mai fatto un’aula così grande con soli quattro punti; ricordo solo una piccola casa8 con una figura quadrata che ha quattro pilastrini al centro di ogni lato. Quello che può venire fuori è il rapporto tra la base e l’aula alla Mies, cioè il problema, l’avanzamento o se volete la variazione ammissibile è trovare una base adeguata per un aula di Mies: una vera e propria citazione. Nel basamento al centro della sala ipostila ho pensato di collocare il Laocoonte di Polidoro9. Io questa statua la metto sotto perché è ‘buia’ la faccenda del divino, la metto al centro fra le quattro colonne che mantengono i pilastri dell’aula superiore. L’impostazione della figura tiene tutto questo squilibrio che è fusione drammatica. Grazie professore del tempo che ci ha concesso. Grazie a voi. * Salvatore Bisogni, napoletano, è stato allievo di Luigi Cosenza e di Ludovico Quaroni di cui è stato pure assistente a Roma assieme a Manfredo Tafuri, Antonio Quistelli, Sergio Bracco, Lucio Barbera e altri. Ha insegnato Composizione architettonica prima a Palermo con Vittorio Gregotti e poi, dai primi anni Settanta, presso la Facoltà di Architettura di Napoli, dove è stato direttore dell’Istituto di Analisi urbana e metodologia architettonica. Ha fatto parte del collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in Composizione architettonica presso lo IUAV di Venezia ed attualmente di quello del Politecnico di Milano. Ha pubblicato numerosi saggi e ricerche: Montecalvario questione aperta, L’architettura del limite e Periferie tra le altre, ed ha promosso la traduzione e la pubblicazione di Groszstadt Architektur  ed Hallenbauten di Ludwig Hilberseimer. Ha preso parte con Gregotti al progetto per lo Zen di Palermo ed al concorso per Vienna Sud. Tra i suoi progetti realizzati meritano di essere ricordati: la scuola media al Rione Traiano, la scuola materna a via Aquileia ed il mercatino di S. Anna di Palazzo a Napoli. In occasione del suo pensionamento la Facoltà di Architettura di Napoli e quella di Architettura Civile del Politecnico di Milano hanno promosso due mostre sui suoi progetti e sulla sua attività didattica e di ricerca. Nel 2008 è stato insignito di un premio per la sua attività dall’Accademia di S. Luca. L’intervista al professore Salvatore Bisogni è stata realizzata a Napoli presso il suo studio in due riprese, nel 2006 e nel 2008. Erano presenti Ivano La Montagna, Renato Capozzi e Federica Visconti. 1. S. Bisogni, A. Renna, Il disegno della città. Napoli , Coop. Edit. Economia e Commercio, Napoli 1974. 2. Cfr. L. Hilberseimer, Hallenbauten, Edifici ad Aula , prefazione di S. Bisogni, CLEAN, Napoli 1998. 3. Cfr. P. Valéry, Eupalinos, L’anima e la danza, Il dialogo dell’albero , Mondadori, Milano 1947. 4. Cfr. G. Polesello, «Care architetture». Scritti su Aldo Rossi  (a cura di P. Posocco, G. Radicchio, G. Rakowitz), Allemandi, Torino 2002. 5. Cfr. E. Bonfanti, Note sull’architettura di Aldo Rossi. Elementi e costruzione , in “Controspazio”, n. 10, ottobre 1970, poi in Id. Scritti di architettura / [di] Ezio Bonfanti (a cura di L. Scacchetti), CLUP, Milano1981 e recentemente in Id., Nuovo e moderno in architettura (a cura di M. Biraghi, M. Sabatino), Bruno Mondadori, Milano 2001. 6. Cfr. Discussione sulla Triennale, in “Controspazio”, n. 6, dicembre 1973, pp. 89-92. 7. V. Gregotti, Ma l’architettura non è un’arte ornamentale, pubblicato su “la Repubblica” il 15 settembre 2008; Id., Quante discussioni sul moderno , pubblicato su “la Repubblica” il 25 giugno 2008; Id., Milano - L'Architettura che  ama la bizzarria, pubblicato su “la Repubblica” il 2 aprile 2008. 8. Si tratta dello studio per una casa 50x50 piedi del 1951-52. 9. Agesandro, Polidoro e Atanodoro da Rodi, a metà I secolo, “Morte di Laocoonte”, marmo bianco scoperta nel 506 nel Palazzo Nerone a Roma, riproduzione presa dopo il restauro nel 1960 che ha tolto le parti aggiunte.

 Architettura Razionale > 1973_ 2008 >

Salvatore Bisogni

> 1973

Salvatore Bisogni con A. Buonaiuto,  A. Cantone, F. Messina, E. Rizzo. Progetto per il quartiere di Montecalvario a Napoli.  XV Triennale, “Architettura Razionale”, III sezione: Proposte, progetti o realizzazioni di sistemazioni urbanistiche su città campione.

2008 >

Salvatore Bisogni con A. Buonaiuto, L. Nunziante (strutture). Mercatino rionale e centro sociale a Napoli , realizzato 1980.

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