[ARCHITETTURA eBook] Storia Dell'Arte Einaudi - Rudolf Wittkower - Idea e Immagine, Studi Sul Rinascimento Italiano
May 2, 2017 | Author: pedro41 | Category: N/A
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Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano
da
di Rudolf Wittkower
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
da Rudolf Wittkower, Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano, trad. it. di Augusto Roca de Amicis e Caterina Volpi, Einaudi, Torino 1992 Titolo originale:
Idea and Image. Studies in the Italian Renaissance © 1978 Margot Wittkower
Storia dell’arte Einaudi
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Indice
I. La Biblioteca Laurenziana di Michelangelo La sopraelevazione del vestibolo L’iter progettuale della biblioteca e del vestibolo Lo scalone Progetti per una sala di lettura aggiuntiva Le porte, il soffitto, i banchi, il pavimento Aggiunte moderne e modifiche Il vestibolo e il problema del Manierismo
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appendice i Problemi costruttivi appendice ii L’elaborazione del foglio Casa Buonarroti 48 appendice iii Le discussioni sul sito e l’inizio dei lavori
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II. Michelangelo e la cupola di San Pietro
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VII. Il giovane Raffaello
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VIII. Giorgione e l’Arcadia
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IX. I Sacri Monti delle Alpi italiane
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Capitolo primo La Biblioteca Laurenziana di Michelangelo
La Biblioteca Laurenziana dev’essere senz’altro considerata come l’edificio profano piú importante e ricco di ripercussioni dell’intero xvi secolo: tanto piú sorprendente, quindi, è il fatto che non esista un’analisi storica esauriente della sua architettura. Questo studio è un tentativo di colmare tale lacuna, sulle basi sia dei disegni e dei documenti rimasti, sia di un attento esame del monumento stesso. Ma anziché procedere in modo rigorosamente cronologico, è sembrato piú opportuno iniziare con la descrizione e la spiegazione del piú importante cambiamento occorso durante la costruzione della biblioteca: un cambiamento che serve a fare chiarezza su una grande quantità di premesse e di sviluppi successivi.
La sopraelevazione del vestibolo. Il visitatore che oggi osserva il lato ovest del chiostro di San Lorenzo noterà, sopra il loggiato del primo piano, il lungo corpo di fabbrica della Biblioteca Laurenziana. L’unica fila di finestre termina a destra con un blocco piú alto a due livelli, che contiene l’anticamera d’ingresso alla biblioteca, il celebre vestibolo. L’attuale facciata del vestibolo è d’epoca recente: Michelangelo completò solo le finestre e le fasciature del piano inferiore,
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lasciando l’intero livello superiore allo stato del rustico. Il completamento moderno, assieme ad alcune lievi modifiche all’interno, venne intrapreso all’inizio di questo secolo e terminato nel 19041. L’aspetto della facciata del vestibolo prima del completamento moderno è un’eloquente testimonianza delle originarie intenzioni di Michelangelo, e rappresenta quindi un eccellente punto di partenza per il nostro studio. Coloro che attesero al restauro, tuttavia, non hanno lasciato alcuna documentazione su quanto venne compiuto, e cosí dobbiamo fare affidamento solo su due fonti attendibili: una descrizione di Geymüller pubblicata nel 19042 e due foto d’epoca di Brogi3. Su tali basi potremo esaminare in dettaglio alcuni elementi della facciata, cosí come si presentavano prima del rifacimento (vedi Appendice i). Iniziamo osservando due elementi di difficile interpretazione. In primo luogo, a metà della fasciatura sud della facciata del vestibolo, all’altezza del cornicione della biblioteca, si trova una tozza pietra che aggetta fortemente dal piano della fasciatura. L’altezza alla quale la pietra è collocata, la sua larghezza (che corrisponde esattamente a quella delle mensole della biblioteca) e infine la sua distanza dall’ultima mensola del cornicione della biblioteca (identica alla distanza tra le mensole del cornicione) non lasciano dubbi sul fatto che si tratta della parte superiore a voluta di una mensola. In secondo luogo, sul lato opposto, lo spigolo nord del vestibolo è articolato da venti conci che si innalzano a partire dal tetto del chiostro. Questi conci però non raggiungono il tetto del vestibolo, ma si fermano a circa due terzi dell’altezza: al di sopra lo spigolo viene realizzato in mattoni. Non può essere un puro caso il fatto che i conci siano stati impiegati solo fino all’esatta altezza del cornicione della biblioteca. Mettendo insieme questi due dati possiamo senz’altro concludere che il cornicio-
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ne della biblioteca doveva in origine continuare lungo il fronte del vestibolo, e che in una fase in cui la costruzione era già a buon punto, il muro del vestibolo non doveva risultare piú alto di quello della biblioteca. Biblioteca e vestibolo dovevano apparire come un unico blocco, sotto lo stesso cornicione e lo stesso tetto4. Ma allora perché i conci angolari non vennero continuati sopra il livello del cornicione quando il vestibolo venne sopraelevato? Evidentemente perché i conci avevano senso per Michelangelo solo se l’intenzione era quella di trattare biblioteca e vestibolo come un corpo unico. In quella fase Michelangelo aveva progettato di unificare la lunga facciata per mezzo di conci angolari ad ogni lato. Se tale interpretazione è giusta, dovremmo aspettarci di trovare tracce di conci anche all’angolo sud della biblioteca, come di fatto avviene5. Il mutamento nel progetto, che portò alla sopraelevazione del vestibolo conferendogli l’aspetto di un blocco a parte, privava di senso la scelta dei conci angolari. L’altezza in piú dell’angolo nord venne completata con dei semplici mattoni, mentre i conci, avanzo della prima idea, erano destinati a sparire sotto uno strato d’intonaco. Nessuno sembra avere notato che, cosí come si presenta oggi la costruzione, non ci sono spiegazioni ragionevoli per la scelta di continuare le finestre della biblioteca lungo il prospetto del vestibolo, con una serie di finestre identiche a quelle, ma cieche. All’epoca della costruzione, l’interno del vestibolo non consentiva l’apertura di finestre piú di quanto lo possa consentire il suo stato attuale (fig. 1): l’articolazione dell’esterno è totalmente indipendente rispetto a quella dell’interno. La sola spiegazione per questa rinuncia di «verità» dev’essere stata la volontà di unificare le facciate della biblioteca e del vestibolo6. Ma nel nuovo schema la «scatola» del vestibolo era nettamente differenziata rispetto al corpo prolungato e basso della biblioteca, e il contrasto
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tra i due elementi divenne subito cospicuo. Due blocchi di altezze tanto differenti non erano certo stati realizzati per apparire nella forma di un singolo corpo di fabbrica: se Michelangelo avesse concepito tale differenza sin dall’inizio l’avrebbe in qualche modo espressa in facciata. L’avere accolto nella versione finale le tre finestre cieche è un fatto che può essere inteso solo come un compromesso, una sopravvivenza della prima soluzione basata su criteri differenti. Anche osservazioni di altra natura ci portano alle stesse conclusioni. La biblioteca doveva essere costruita sopra gli antichi alloggi dei monaci e i nuovi muri, per ragioni di economia, dovevano collocarsi sopra i vecchi. Furono necessari prolungati esami e scambi di pareri per essere certi della stabilità dei nuovi muri (vedi Appendice i e fig. 2). L’ingresso al vestibolo è al livello del primo piano, mentre la biblioteca è situata ad un livello piú alto, estendendosi sopra gli alloggi ai quali si acce-
1. Sezione longitudinale della biblioteca e del vestibolo (da Geymüller)
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de dal primo piano. Anche nel caso in cui biblioteca e vestibolo avessero avuto una sola copertura, l’altezza totale del vestibolo sarebbe stata maggiore di tre metri rispetto a quella della biblioteca. Da un punto di vista puramente tecnico, quindi, Michelangelo non doveva essere favorevole ad innalzare le mura del vestibolo piú di quanto non fosse strettamente necessario, ossia ad una quota piú alta della copertura della biblioteca: solo dei motivi di grande peso potevano indurlo a prendere una tale decisione. La configurazione attuale dell’interno del vestibolo, inoltre, non può essere valutata come l’approdo naturale di un progetto. Il rapporto tra la pianta e l’alzato è cosí inconsueto che risulta difficile accettarlo senza problemi, o intenderlo come il risultato di una libera scelta artistica. È concepibile che Michelangelo avesse deli-
2. La Biblioteca Laurenziana inserita nell’ambiente urbano (da Limburger)
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beratamente scelto di costruire un ambiente alto 14,6o metri su una pianta di 9,51 x 10,31 metri? Certamente l’intenzione piú logica dev’essere stata quella originaria; ossia che il vestibolo e il salone della biblioteca dovessero avere in comune una copertura alla stessa altezza. Ancora: motivazioni d’ordine estetico avrebbero necessariamente comportato, per la visuale dall’esterno, un assetto unitario dei due blocchi. La serie di costruzioni circostanti, infatti, segue una disposizione regolarmente orizzontale: era chiaramente auspicabile che il profilo della navata centrale della chiesa, a nord, avesse come controparte un profilo consimile ad ovest, in accordo con le regolari arcate del chiostro. La tranquilla armonia dell’intero chiostro si sarebbe inevitabilmente infranta con l’inserzione di corpi di fabbrica differenti per altezza ed articolazione. Tutte queste considerazioni sembrano comprovare la conclusione che in origine il vestibolo non doveva essere piú alto della biblioteca, e che il cambiamento venne attuato solo ad una fase avanzata della costruzione, nelle sue linee generali. Perché allora Michelangelo abbandonò all’ultimo momento un progetto che appariva il piú ragionevole dal punto di vista statico, spaziale e topografico? Forse questo problema non si potrebbe risolvere una volta per tutte in mancanza di prove documentarie, ma fortunatamente una tale prova esiste. Ci è infatti pervenuto un disegno che raffigura con esattezza l’alzato della parete interna del vestibolo, secondo la versione originaria che ho cercato di ricostruire. Il disegno (fig. 3) mostra la parete del vestibolo posta di fronte all’ingresso, che non è suddivisa in tre livelli, come è oggi, ma in quattro. Sopra l’alto basamento con le sue due porte si trova il livello principale; sopra questo c’è l’attico e infine la volta7. Nonostante sia stato correttamente iden-
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tificato con il vestibolo, questo disegno non è stato finora interpretato appropriatamente: iniziamo dunque con l’esaminare l’articolazione del piano principale. Le partizioni con i tabernacoli sono inquadrate da paraste8 e da una trabeazione continua, e sono inframmezzate da coppie di colonne collocate entro dei rincassi, come nell’edificio effettivamente realizzato. Nel vestibolo costruito mancano tuttavia le paraste, e le partizioni con i tabernacoli divengono semplicemente ristrette porzioni di muro. Nel disegno quindi compaiono tre coppie di paraste che non vennero realizzate, e ognuna di queste paraste ha una larghezza equivalente al diametro di una colonna. Sono possibili due spiegazioni: o il disegno presuppone una pianta di dimensioni maggiori dell’edificio attuale, complessivamente 6 x 54 centimetri (il
3. Il disegno tradotto in scala, con la sezione del muro est (a destra).
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diametro delle colonne) in piú; oppure, assumendo la pianta del vestibolo come un dato fisso, tutte le membrature mostrate nel disegno sono piú piccole di quelle effettivamente eseguite. La prima alternativa è chiaramente insostenibile. La larghezza del vano da est a ovest era fissata sin dall’inizio in 10,31 metri, dato che i muri est e ovest dovevano essere eretti sopra la serie di ambienti destinati ai monaci. Se prendiamo in considerazione le dimensioni maggiori per le pareti est e ovest (12,75 metri invece di 9,51), si ottiene un vano di proporzioni totalmente differenti, dove le pareti nord e sud sono piú corte di 2,44 metri di quelle est e ovest, invece di essere più lunghe di 1,20 metri. Ovviamente non si poteva in tal caso impiegare per le due coppie di pareti uno stesso tipo di articolazione. Inoltre alcune piante sicuramente precedenti all’epoca di questo disegno mostrano un’area approssimativamente quadrata. Non c’è bisogno di intrattenerci oltre su quest’argomento: le dimensioni dei singoli elementi del disegno debbono essere calcolate in base alle dimensioni attuali della parete, 9,51 metri. Naturalmente schizzi a mano libera come quello esaminato non sono disegnati secondo una scala precisa: si può anzi dimostrare che in questo caso si verificò un imprevisto cambio di scala proprio durante l’elaborazione del disegno (vedi Appendice ii). Michelangelo in un primo tempo deve aver tracciato una linea di perimetrazione a sinistra e una a destra. Le due porte, che vennero inserite prima di definire meglio i livelli del piano principale e dell’attico, sono equidistanti rispetto a quelle linee. Ma agli altri livelli il perimetro viene oltrepassato a destra. Senza questo ampliamento della scala, la nicchia di destra sarebbe stata in asse con la porta, come avviene con la nicchia di sinistra. Michelangelo non si preoccupò di apportare correzioni, siccome era evidente che la porta doveva essere collocata in
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asse9: questo cambiamento di scala pertanto non influisce in modo sostanziale sulle conclusioni che esporremo. La larghezza, una volta fissata, può essere usata per stabilire una scala in base alla quale dedurre approssimativamente l’altezza complessiva e le singole misure, anche se tale scala è soggetta a leggere variazioni a seconda del punto in cui si prende la misura. Partendo dalle linee perimetrali originarie (vedi Appendice ii), l’altezza totale arriva a 12,25 metri; assumendo la linea esterna aggiunta dopo, l’altezza è di 11,oo metri. L’altezza del vestibolo effettivamente realizzato, compresa la cornice (moderna), è di 14,63 metri: misura che non trova affatto riscontro in questo disegno. Il piano della biblioteca si trova, come è giusto, a 3 metri circa (3,039, per la precisione) sopra quello del vestibolo. L’altezza totale della biblioteca è di 8,43 metri. Se il tetto del vestibolo procedesse in continuità con quello della biblioteca, il vestibolo dovrebbe avere un’altezza di 11,47 metri (3,04 + 8,43): non c’è dubbio che questa sia la misura verticale ipotizzata per il nostro disegno, dato che costituisce la dimensione quasi esatta deducibile in base alla linea perimetrale esterna. Sembra inoltre molto probabile che il disegno non rappresenti una semplice fase intermedia del primo progetto, ma la sua formulazione definitiva. Tra questo tipo di articolazione e quello realmente eseguito si può riscontrare una linea di sviluppo chiara e inequivocabile. Quando Michelangelo, per ragioni che dobbiamo ancora esaminare, decise di sopraelevare il vestibolo, divenne necessario trovare un’articolazione per le pareti che fosse confacente alle nuove proporzioni. Ma l’aggiunta di un secondo livello in alto non bastava: bisognava aumentare anche l’altezza del livello principale e di quello sottostante. Aumentare l’altezza dei singoli elementi comportava anche un aumento in larghezza che, di conseguenza, doveva essere compensato da una cor-
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rispondente riduzione da qualche altra parte. Accrescere l’altezza delle colonne di circa 1,35 metri (da 4,1o a 5,46 metri) significava aumentare i loro diametri, di modo che lo spazio occupato dalle nicchie doveva necessariamente ridursi. Così, le paraste che inquadravano le nicchie vennero soppresse. O meglio, non del tutto soppresse, ma traslate ad occupare la profondità dei rincassi murari grazie ad una rotazione di 90 gradi che le rendeva ortogonali alla superficie esterna dei tabernacoli, e le poneva in posizione frontale ai lati delle coppie di colonne annicchiate. Il risultato è quello di una trasposizione del primitivo progetto in una nuova dimensione. Il fatto che il vestibolo realizzato segua le linee generali del disegno con cosí grande aderenza non è il solo elemento che porta ad identificare in tale progetto la versione definitiva della prima soluzione: anche la raffigurazione dei singoli elementi è molto vicina a quanto realizzato. Le porte in basso, ad esempio, sono sormontate da un coronamento identico a quello impiegato per le finestre esterne della biblioteca, sotto il frontespizio. Queste finestre erano in parte già costruite all’epoca del disegno, e Michelangelo si limitò ad adattare all’interno un motivo impiegato all’esterno. Anche nel caso dei tabernacoli, l’indicazione schizzata nel disegno rispecchia essenzialmente la soluzione poi realizzata. Le parti che li costituiscono si possono ritrovare in special modo nel tabernacolo disegnato a sinistra: la mostra interna rettangolare, le paraste laterali a forma di erma, dai capitelli fortemente retrocessi, il ripiano sporgente della soglia, il frontespizio arcato di coronamento in alternanza col frontespizio triangolare, tutto è qui già definito. E ancora, il livello dell’attico, nel disegno, torna nella versione finale, con una trasposizione rilevante ma logica. I riquadri originari dell’attico vengono infatti incorporati nel nuovo livello principale, e nella realizzazione mantengono pressoché invariata la
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primitiva collocazione, dato che, grazie alla crescita in altezza del livello basamentale e di quello principale, le sezioni con i tabernacoli raggiungono la quota dei riquadri. I pannelli circolari che si alternavano con i riquadri del vecchio attico su un piano arretrato, vengono poi spostati sopra le finestre dell’attuale secondo livello, anche se solo al termine di vari tentativi. Nessuno degli elementi che compaiono nel disegno è sacrificato, ma vengono tutti riproposti, secondo una nuova logica, nell’edificio effettivamente realizzato. Bisogna però anche ammettere che questo disegno differisce per molti aspetti dalla soluzione definitiva. Nel disegno, il livello principale, riccamente articolato, è posto su un basamento piano ed uniforme, mentre il movimento di piani arretrati e aggettanti che lo caratterizza non trova una continuità verticale con l’attico: infatti le parti dell’attico poste sopra le paraste che inquadrano i tabernacoli sono spinte su un piano arretrato10. Nell’edificio realizzato, invece, la stessa articolazione verticale corre ininterrotta per tutti e tre i livelli. Nel disegno prevalgono le linee orizzontali: dal pavimento alla volta, i piani aggettanti e quelli arretrati occupano le stesse posizioni verticali. Questo mutamento, tuttavia, è il logico risultato dell’introduzione di un secondo livello, e questo a sua volta è conseguenza dell’accresciuta altezza. Se i due livelli superiori dovevano essere integrati visivamente, la conclusione logica era quella di includere anche il livello inferiore nella nuova sistemazione. L’innalzamento del livello basamentale e di quello principale, assieme all’aggiunta del secondo livello superiore, non solo comportò la totale ristrutturazione dell’articolazione parietale ma ebbe rilevanti conseguenze anche per il progetto dello scalone, come vedremo più avanti. Nella prima versione, come risulta dal disegno, la distanza dal pavimento del vestibolo alla base dei
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tabernacoli è di tre metri. In altri termini, la nicchia doveva iniziare esattamente all’altezza della porta della biblioteca: un’idea decisiva per l’articolazione della parete in questa fase. Ma con l’accresciuta altezza di tutti e tre i livelli, l’idea di un allineamento tra porta e tabernacoli doveva essere accantonata. A causa della nuova altezza dei tabernacoli la porta non è piú in relazione con questi: cercherò poi di analizzare le ripercussioni di questo mutamento sugli aspetti stilistici del progetto. Tutti i cambiamenti di vasta portata ora esaminati ci riportano alla scelta di sopraelevare il vestibolo, ed è quindi giunto il momento di ricercare i motivi che portarono a tale cambiamento. Nella nostra analisi del primo progetto non è stato finora affrontato un problema di fondamentale importanza: da dove riceveva luce il vestibolo11? Una finestra rettangolare, di circa un metro per sessantacinque centimetri, è indicata nella volta. Una finestra di questo tipo poteva essere collocata solo in due delle quattro pareti: quella ovest, mostrata nel disegno, e quella nord, contigua alla chiesa. La parete sud confinava con la biblioteca, mentre il muro est non doveva essere interrotto da bucature, per uniformarsi a quello della biblioteca. Due finestre di tali dimensioni non sarebbero però bastate a dare luce al vestibolo. Possiamo ricavare informazioni sulle idee di Michelangelo per l’illuminazione in questa fase da alcune lettere che è necessario intendere correttamente se vogliamo scoprire la ragione di questa sopraelevazione. Michelangelo aveva intenzione di dare luce al vestibolo dall’alto. Ciò risulta con chiarezza nelle lettere che Michelangelo ricevette da Fattucci, il 29 novembre del 1525, e da P. P. Marzi, il 23 dicembre dello stesso anno12. Un dettagliato passo del Marzi indica senza possibilità di dubbio che qui non ci si riferisce né alla «piccola libreria» né alla biblioteca, ma al vestibolo13. Prima di interpretare questo difficile passo occorre riportarlo
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per esteso: «La presente è per farvi intendere come N. S. re alli giorni passati hebbe la vostra de 714 col disegno a piedi della libreria, gli mandasti... Et dice, che gli ochi disegnati per dare li lumi si pensa habbino ad essere una cosa bella; ma che non sa, se la polvere, (che) riceveranno, sarà maggiore che ’l lume rendere poteranno? Et che alzando il muro duo braccia per fare le finestre, come advisate, et essendo parte del tecto posta su, et haverlo hora ad diffarlo et tramutare legnami, se ’l reggera el peso et15 fara danno alla fabrica?» I lucernari, in altri termini, erano concepiti per una parte dell’edificio il cui tetto era già in costruzione: abbandonare tale soluzione per delle consuete finestre parietali avrebbe comportato la demolizione di quanto era stato già realizzato e l’innalzamento del perimetro murario16. Questo passo non può riferirsi alla biblioteca, le cui finestre erano state già iniziate nell’aprile del 152517, né alla «piccola libreria», che non sarebbe mai stata realizzata: deve quindi riferirsi al vestibolo, e il suo significato diviene chiaro solo alla luce del mutamento di progetto ora analizzato. Ne consegue che questa lettera dovrebbe costituire la piú chiara testimonianza di tale cambiamento. Per comprendere a fondo la lettera del Marzi dobbiamo cercare di ricostruire il senso complessivo della discussione tra il papa e Michelangelo. Il passo nella lettera di Fattucci del 29 novembre suona così: «N. S. a preso piacere, quando lesse, che voi vi eri risoluto a fare il ricetto, siche sollecitatelo. Ora circa alle finestre sopra tetto con queli ochi di vetro nel palco dice N. S., che gli pare cosa bella et nuova; niente di manco non ci risolve a fare, ma disse, che e’ bisognerebbe saldare dua frati delli Jesuati, che non attendessino ad altro che a nettare la polvere». Da ciò risulta con chiarezza che, poco tempo prima, Michelangelo era pronto a realizzare il vestibolo: bisogna poi ritenere che a quell’epoca i muri
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fossero per buona parte già eretti, e che con l’espressione «fare il ricetto» ci si riferisse alla realizzazione della decorazione18. Ora, all’ultimo momento, Fattucci scrive per riferire che il papa si opponeva alla costruzione dei lucernari. Nella risposta a questa lettera, Michelangelo deve aver spiegato che delle normali finestre avrebbero reso necessaria la sopraelevazione dei muri, sulla cui stabilità non si sentiva di dare garanzie, oltre alla demolizione della copertura del vestibolo, che era già in sito. Tale lettera è andata smarrita, ma la missiva del Marzi del 23 dicembre ne deve costituire la risposta. Qui vengono discusse entrambe le soluzioni, anche se la decisione ultima appare affidata a Michelangelo. Ma, a quanto sembra, la faccenda non era stata ancora risolta. Evidentemente solo con grande riluttanza e dopo un ulteriore e dettagliato scambio di lettere col papa Michelangelo venne persuaso ad abbandonare l’idea dei lucernari. E solo il 23 febbraio 1526 apprendiamo che il vestibolo doveva essere costruito secondo quanto proposto («in modo avisata»)19. Passarono quindi due buoni mesi dalla lettera del Marzi prima che la forma definitiva della sopraelevazione fosse concordata in dettaglio. La datazione del disegno esaminato deve collocarsi dopo il 12 aprile 1525, poiché la rampa di scale vi appare staccata dal muro, e prima del 29 novembre, data che segna l’inizio della proposta di innalzare il vestibolo. Il disegno è poi congruente con l’idea di una copertura piana con i lucernari («occhi»). Appare quindi con chiarezza dai documenti riportati e dagli indizi al riguardo presenti nel monumento stesso, che Michelangelo prese controvoglia la decisione di modificare il progetto. La richiesta di papa Clemente di adottare delle normali finestre al posto dei lucernari era evidentemente dettata da considerazioni di ordine pratico piú che estetico: egli non era in grado di seguire le audaci ed eterodosse idee michelangiolesche. Per quanto ne so, questi lucer-
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nari sarebbero stati i primi concepiti per un edificio profano. Sulle prime Michelangelo oppose resistenza alle richieste del papa, per salvaguardare la logica interna della propria idea. In seguito, invero, tale idea avrebbe fornito lo spunto iniziale per una concezione del tutto nuova, ma c’era bisogno di una «pausa creativa» di vari mesi perché delle intuizioni ancora sotterranee e indistinte prendessero definitivamente corpo. Prima che questo processo interno di mutamento avesse luogo, Michelangelo cercò di formulare una proposta di compromesso, presto abbandonata. Tale proposta di compromesso la si può desumere in base alla lettera del Marzi. Cercando di salvaguardare quanto possibile dello schema originario, Michelangelo aveva proposto di sopraelevare il vestibolo di due braccia (1,15 metri). Non è difficile indovinare le sue intenzioni: il livello principale nel progetto originario era alto 5,10 metri, mentre la parete soprastante era di 3,75 metri. Aggiungendo a quest’ultima porzione altri 1,15 metri Michelangelo sarebbe arrivato ad un totale di 4,90 metri. Questo spazio doveva essere occupato dalle nuove finestre e quindi doveva essere articolato come un singolo livello, ma la sua altezza sarebbe rimasta di poco inferiore a quella del livello principale. Questa fase intermedia, con il mantenimento del livello principale raffigurato nel disegno da una parte, e l’introduzione di un secondo livello della stessa altezza dall’altra, può avere rappresentato una necessaria fase di sviluppo per il progetto finale del vestibolo, ma non poteva certo costituire una soluzione definitiva al problema. Prendendo in considerazione i piú importanti dati, l’altezza delle finestre non poteva superare 1,50 metri, misura non certo sufficiente a fornire un’adeguata illuminazione. Inoltre la finestra avrebbe occupato una posizione spiacevolmente alta all’interno del secondo livello, a
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2,25 metri dalla sua base. Una posizione cosí distanziata sarebbe stata difficile da sistemare in modo artistico, e la forma schiacciata della finestra, allo stesso modo, si sarebbe inserita con difficoltà entro un’incorniciatura rettangolare, né avrebbe armonizzato con i tabernacoli del livello principale. Solo con un’ulteriore sopraelevazione del vestibolo, che avrebbe comportato una crescita in altezza anche del livello basamentale e di quello principale, si sarebbero potuti aggirare questi problemi. Un altro fattore, tuttavia, avrebbe esercitato una decisiva influenza a sfavore di questo progetto intermedio. Abbiamo già visto che Michelangelo era preoccupato della stabilità dei muri, se questi fossero stati innalzati oltre i limiti definiti nel primo progetto. In realtà tale apprensione era giustificata solo per il muro est (di facciata): quello nord si appoggiava alla chiesa, quello sud confinava con la biblioteca e quello ovest (retrostante) si poteva consolidare agevolmente. Ora, quasi sicuramente Michelangelo pensava che l’apertura delle finestre pregiudicasse la stabilità dei muri: una convinzione che oggi può sembrare assurda ma che è confermata dall’autorità dell’architetto settecentesco G. I. Rossi20, che era stato educato nella tradizione fiorentina. Il principale inconveniente di questa soluzione intermedia era costituito dalle finestre che si dovevano necessariamente realizzare tanto nella parete est quanto in quella ovest. Infatti non potevano essere utilizzati a tal fine né il muro sud, confinante con la biblioteca, né quello nord, adiacente ad una cappella del lato sud del transetto di San Lorenzo. Se invece Michelangelo avesse innalzato ancor più i muri, cosí da rendere possibile l’inserimento di finestre a nord, si potevano evitare le finestre ad est. Che questa potesse essere una preoccupazione di Michelangelo è confermato in modo decisivo dal fatto che, prima del rifacimento moderno, la facciata est era priva di finestre.
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Credo che si possano ravvisare tracce del progetto intermedio in alcuni schizzi di finestre oggi conservati in Casa Buonarroti. Uno di questi raffigura una mostra di finestra affiancata a destra da paraste binate: anche ipotizzando per questo progetto la scala definitiva, la posizione della finestra è ancora troppo alta. Altri disegni21 mostrano la forma definitiva delle finestre, ma senza l’intelaiatura architettonica circostante22. Può sembrare azzardato basare una ricostruzione cosí elaborata del progetto intermedio solo in base al rapido accenno sulla sopraelevazione di due braccia dei muri. Tuttavia Michelangelo non avrebbe fatto questa proposta senza motivazioni molto concrete: ci dev’essere un’idea dietro tale accenno, e quest’idea non sembra dare adito ad interpretazioni diverse da quella ora avanzata. Dopo aver delineato, per quanto possibile, la storia costruttiva del vestibolo, dovremmo porci una domanda: la facciata incompiuta è stata poi completata correttamente? La facciata relativa al primo progetto può essere concepita senza alcun dubbio come la prosecuzione del prospetto della biblioteca così come oggi si presenta: invece le idee di Michelangelo per la facciata del progetto definitivo sono di problematica ricostruzione. Nondimeno è possibile osservare che il restauro effettuato attorno al 1900 mostra evidenti manchevolezze. Tali manchevolezze derivano in sostanza dal fatto che i restauratori interpretarono erroneamente la facciata incompiuta come un progetto unitario, invece che come una fase intermedia tra una soluzione e un’altra. Il primo problema era rappresentato dal muro sud del vestibolo, posto sopra il tetto della biblioteca: era proprio in questo punto che la rottura dell’unità tra biblioteca e vestibolo aveva causato la difficoltà maggiore. Nel progetto originario il muro che separava la biblioteca dal vestibolo non veniva segnalato all’esterno, mentre nella nuova versione era chiaramente visibile, e quindi richie-
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deva d’essere condotto fino a terra, con tutta l’importanza che gli spettava e non alla stregua di una semplice fasciatura della biblioteca. Michelangelo non ha lasciato indicazioni su come volesse superare tale difficoltà. Un secondo problema era rappresentato dallo spigolo nord della facciata del vestibolo, con i suoi conci angolari, e qui il maestro non ha lasciato dubbi circa le proprie intenzioni: i conci dovevano sparire sotto uno strato d’intonaco. In altri termini lo spigolo doveva essere tenuto in sottordine, senza la sottolineatura della prima soluzione. Nella ricostruzione moderna, insensatamente, la fila di conci è stata prolungata sino al tetto, mentre il problema del muro sud del vestibolo sopra la biblioteca è rimasto totalmente irrisolto. Sembra che i restauratori abbiano semplicemente mirato a distogliere l’attenzione da tale problema, e di conseguenza non hanno proseguito in questa zona il cornicione che compare sul fronte est. Anche il muro nord ricevette lo stesso trattamento, per ottenere un insieme coerente, ma in tal modo, limitando il cornicione alla sola facciata, l’unico risultato fu quello di conferire al monumento un effetto di piatto fondale scenico, con l’enfatica sottolineatura dei conci angolari a nord che risalta come un’aggiunta non organica. L’idea di escludere i lati nord e sud dall’impianto della facciata era ovviamente intesa a conferire omogeneità a quest’ultima, ma tutto ciò ha solo l’effetto di far apparire il tetto come un elemento privo di connessioni. L’operazione successiva dei restauratori (del tutto ingiustificata, se si pensa a come si presentava allora la parete) fu quella di aprire tre finestre sul prospetto est, creando delle mostre che sono un pastiche ottenuto combinando elementi delle finestre interne ed esterne della biblioteca. Queste finestre almeno sono coerenti con le intenzioni di Michelangelo, ma il modo in cui vennero realizzate contraddice alcuni dei principî fondamentali
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della costruzione. All’esterno le dimensioni delle bucature vennero aumentate di 30 centimetri in altezza rispetto all’interno. La costruzione poi è piú alta di 1,6o metri rispetto a quanto venne realizzato da Michelangelo, e proprio questo conferisce al piano superiore una preponderanza cosí marcata su quello inferiore. La sopraelevazione moderna aveva lo scopo di aumentare la distanza tra i frontespizi delle mostre e il cornicione, accentuando cosí la distinzione tra la scatola del vestibolo e la biblioteca. Stesso effetto sortisce la conformazione del tetto: Michelangelo aveva lasciato un semplice tetto a due falde sopra i muri rustici del vestibolo, la cui inclinazione seguiva gli stessi angoli del tetto della biblioteca: un chiaro segno che denunzia la comunanza dei due corpi di fabbrica. Il nuovo tetto è invece a piramide (ossia con una configurazione centrica) e rende piú pronunciata la separazione: un tetto di tale forma si adatta male ad un impianto asimmetrico e per questa sola ragione non avrebbe mai dovuto essere impiegato qui. Nondimeno bisogna ammettere che il completamento moderno della facciata ha avuto miglior riuscita di quanto non accada solitamente per restauri di questo tipo: infatti molti dotti studiosi hanno creduto che la nuova facciata fosse quella originale23. Riassumendo: prima del restauro d’epoca moderna la facciata era il risultato di due (o tre, se contiamo anche la fase intermedia) differenti progetti. La costruzione non offre alcun indizio di come si sarebbe presentata la facciata nella sua versione definitiva. Certamente, prima che il progetto definitivo potesse realizzarsi, si sarebbero dovute apportare alcune modifiche alla costruzione. Il mantenimento della fila uniforme di finestre cieche, a prosecuzione di quelle della biblioteca, rappresenta una soluzione di compromesso. Ma in fondo Michelangelo aveva veramente intenzione di portare a termine la facciata? Sia le fonti scritte che i disegni tacciono su que-
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sto punto. Il 18 febbraio 1559 Ammannati scrisse a Cosimo I, riferendo che sperava di ricevere da Michelangelo un modello per la facciata24: non sapremo mai cosa avesse in mente l’anziano maestro.
L’iter progettuale della biblioteca e del vestibolo. Le discussioni iniziali tra il papa e Michelangelo per la scelta del sito e per dare avvio alla costruzione sono ben documentate (vedi Appendice iii). Inoltre, ciò che è piú importante, i pochi disegni rimastici possono essere utilizzati, come già nel paragrafo precedente, per gettare nuova luce sullo sviluppo delle concezioni artistiche di Michelangelo. Il primo progetto della biblioteca è un disegno in alzato conservato in Casa Buonarroti (Firenze, Casa Buonarroti, 42). Frey e Thode25 credevano si trattasse di un progetto per il vestibolo; Tolnay26 invece pensava ad uno schizzo per l’interno della biblioteca. Tolnay è di sicuro nel giusto: difatti il disegno è uno dei primi progetti per la biblioteca, databile ad una fase che precede qualsiasi decisione presa riguardo al vestibolo27. Ma l’interpretazione di questo schizzo è resa piú complessa da un particolare che non dev’essere trascurato. Il disegno era stato tracciato in un primo tempo con un gessetto rosso e poi Michelangelo lo aveva ripassato a penna, ma non interamente, evitando di continuarlo a destra (la successiva finestra cieca è visibile solo in rosso) e ignorando un terzo livello indicato all’estrema sinistra. In senso orizzontale una prosecuzione del ripasso a penna era superflua, dato che lí il disegno era una semplice ripetizione. Poiché soltanto due livelli sono stati ridisegnati a penna, siamo autorizzati a credere che il debole contorno rosso del terzo livello sia semplicemente un’idea transitoria, abbandonata durante l’elaborazione del disegno28. Quindi, solo
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prescindendo da questo terzo livello possiamo mettere in relazione con sicurezza il disegno con la biblioteca: non è infatti concepibile che Michelangelo potesse aver seriamente pensato a un alzato dell’interno a tre livelli. A parte ogni considerazione d’ordine estetico, bastavano solo i problemi di statica per obbligare Michelangelo a tenere l’altezza della biblioteca entro limiti prefissati. Dobbiamo quindi iniziare la nostra analisi del disegno avanzando un’ipotesi: bisogna supporre che l’altezza della parte di disegno tracciata a penna debba corrispondere all’attuale altezza della biblioteca: verificheremo poi se l’alzato sia rispondente a tale assunto. Il livello principale corrisponde con buona precisione al disegno per a vestibolo precedentemente esaminato. Le finestre in basso sono cieche (la tamponatura è indicata con un tratteggio a penna), mentre delle vere finestre sono previste solo per il livello superiore. Tenendo conto del basamento e del parapetto, le finestre cieche sono poste ad un’altezza di circa 1,50 metri. In effetti l’ubicazione del tetto del chiostro impediva l’apertura di finestra ad un’altezza inferiore a 2,50 metri dal pavimento della biblioteca: questo può spiegare perché le finestre del disegno siano cieche, e può dare maggior peso all’ipotesi che il disegno si riferisca alla biblioteca. È inoltre possibile dimostrare che le prime idee di Michelangelo per l’articolazione della biblioteca si siano mosse in questa direzione. Nel progetto in esame l’altezza del basamento è di circa 75 centimetri. Questo elemento cosí basso, unitamente al movimento di piani arretrati e aggettanti dell’articolazione parietale, avrebbe reso impossibile la sistemazione dei banchi a ridosso del muro, come sarebbe poi avvenuto. Michelangelo, quindi, deve aver concepito gli spazi attigui ai muri come corridoi aperti per il passaggio, assieme ad un altro corridoio ricavato al centro. In una lettera del 3 aprile 1526 Fattucci riferisce che il papa desiderava che
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il soffitto venisse scompartito in modo da riprendere la suddivisione del pavimento, ossia in modo «che come in tera sono tre vie, che mettono in mezo due ordini di banchi, cosí vorebe fussi nel palco»29. All’epoca di questa lettera, tuttavia, la forma definitiva della biblioteca era stata già decisa da tempo, da circa due anni, e la soppressione dei percorsi accanto alle finestre è un elemento decisivo del programma definitivo. Bisogna ancora dire qualcosa circa l’articolazione dell’interno. Nell’edificio realizzato Michelangelo trattò come un episodio a parte un piano basamentale neutro alto 1,49 metri che corre per tutta la biblioteca, eccezion fatta per le mostre delle porte alle due estremità. Sopra questa zona neutra si imposta l’ordine. Tale basamento può essere stato concepito solo in funzione della collocazione dei banchi a ridosso della parete. Ma come funziona il progetto d’insieme? Entrando nella biblioteca il visitatore può osservare ancor oggi dal corridoio centrale l’ambiente nella sua intera altezza, dal pavimento al soffitto. Ma il visitatore percepisce anche la superficie superiore dei banchi, che in una visuale fortemente scorciata assume il valore di un secondo livello su cui s’imposta l’ordine. In tal modo diviene possibile collocare le finestre a 2,50 metri da terra (ossia la quota minima consentita dalla posizione del tetto del chiostro) senza che si avverta alcuno scompenso visivo. Inoltre in questo modo si è potuto impiegare un ordine gigante, per conferire all’ambiente il carattere uniforme e severo confacente alla quiete di una biblioteca, senza però farlo apparire esageratamente alto, dato che, dal corridoio centrale, si è sempre consapevoli dell’altezza effettiva dell’ordine. Eliminando, infine, i passaggi laterali Michelangelo acquistò spazio per la collocazione dei libri, elemento sempre di primaria importanza in ogni discussione. Questa geniale risoluzione, che assolveva sia a requisiti pratici che estetici, era certamente il frutto di un’am-
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pia riflessione da parte di Michelangelo: di sicuro egli dovette tener conto della sistemazione dei banchi nel corso della progettazione, ma la lettera del papa datata 3 aprile 1526 rivela che i suoi propositi non erano compresi appieno a Roma. Quando il papa parla di due file di banchi intervallati da tre passaggi, si riferisce ad uno schema che Michelangelo aveva abbandonato già nell’aprile del 1524. Il disegno (Casa Buonarroti 42) mostra gli elementi determinanti che compongono il progetto della biblioteca nella sua prima versione. Ulteriori approfondimenti ci permetteranno di collocare meglio tale disegno all’interno dell’iter progettuale, ma da questo punto in poi dovremo basarci piú su ipotesi che su deduzioni, dato che non ci sono pervenuti altri alzati dell’interno della biblioteca. Il disegno cronologicamente successivo, conservato ad Haarlem, raffigura l’articolazione parietale del vestibolo. La sua autenticità è stata messa in dubbio da Tolnay30, ma penso che tale problema si chiarirà da sé quando avremo identificato ciò che il disegno rappre senta; operazione che finora non è stata seriamente tentata. A tal fine si rivela importante solo la parte sinistra del foglio e non le piante a destra, che devono essere state disegnate piú tardi. Il lato sinistro si compone di due parti. In quella inferiore compaiono tre elementi: in basso un basamento con una scala; sopra, un episodio intermedio, che ha la funzione di un ulteriore e piú corto basamento; infine il livello superiore, intervallato da un’ordinanza. Questo livello è ripreso nella parte superiore ad una scala di poco maggiore, di modo che il quarto interasse a destra (una ripetizione di quello all’estremità sinistra) non viene replicato nel disegno. Se supponiamo che la larghezza dell’alzato inferiore corrisponde alla misura effettiva di 9,51 metri, ne risulta un’altezza di 2,50 metri per il basamento, che corri-
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sponde approssimativamente alla corrispettiva quota del disegno di Casa Buonarroti prima esaminato. Tale altezza è anche quella della scala, che ha tredici gradini alti 19 centimetri e profondi 29. Malgrado il carattere di schizzo di questo disegno, la scala di misure adottata è impiegata coerentemente in ogni parte: evidentemente il disegnatore doveva proprio avere il «sesto nell’occhio». L’altezza dell’elemento intermedio si aggira intorno a 1,8o-2 metri, mentre l’altezza del livello principale, dalla base alla soglia delle finestre (desunta dal piú dettagliato disegno in alto) è di circa un metro. La distanza totale dal pavimento alla soglia delle finestre si aggira quindi sui 5,30 - 5,50 metri. Ora, quella di 5,50 metri è esattamente l’altezza minima alla quale le finestre della biblioteca potevano essere sistemate. Questa non può essere una coincidenza, ma deve costituire la prova che la prima intenzione di Michelangelo era di aprire delle finestre nel vestibolo alla stessa altezza di quelle della biblioteca: l’idea di articolare l’interno e l’esterno del vestibolo in sintonia con le corrispettive parti della biblioteca rappresenta infatti una logica premessa da cui partire. Se questo è il nostro caso, dovremmo essere in grado di desumere questa fase del progetto di Michelangelo per la biblioteca in base all’articolazione mostrata nello schizzo di Haarlem per il vestibolo. La ragione per tenere alte in modo cosí poco pratico le finestre del vestibolo può essere solo stata quella di allinearle alle finestre della biblioteca. A quest’epoca, quindi, le finestre della biblioteca dovevano essere già state progettate nella loro posizione definitiva, a 2,50 metri dal pavimento di quell’ambiente: dovremmo supporre, alla luce delle conclusioni ora esposte, che l’alzato dovesse essere già suddiviso in una zona neutra inferiore e in un ordine gigante superiore. Ciò che invece non dovremmo supporre è che la siste-
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mazione uniforme della biblioteca effettivamente realizzata fosse stata già decisa allora. Al contrario, lo schizzo di Haarlem indica uno stadio intermedio tra la prima soluzione e quella definitiva. Il primo progetto, va rammentato, presentava nel livello superiore un ritmo a-b-a-b di mostre di finestre (una piú alta a terminazione semicircolare e una piú bassa e coronata da un frontespizio). Nella fase testimoniata dal disegno di Haarlem (nell’ipotesi che si possa applicare lo stesso schema alla biblioteca e al vestibolo), il ritmo è invece mutato in una sequenza a-bb-a-bb. Gli interassi ai due lati sono piú avanzati rispetto alle parti centrali: queste ultime sono inframmezzate da colonne e risultano separate dalle parti laterali, che sono invece inquadrate da paraste31. Le finestre ai lati, inoltre, sono a terminazione piana, con un frontespizio spezzato e una mostra simile a quella realizzata all’esterno della biblioteca. Le finestre centrali hanno dei frontespizi semicircolari e mostre con dei risalti verticali ai lati32. In altri termini, gli stessi due tipi di finestre con cui era articolato il primo progetto sono stati in pratica riproposti, e disposti secondo un ritmo differente. Se Michelangelo tentava di articolare il vestibolo in questo modo al fine di disporre le finestre alla stessa quota e con lo stesso ritmo delle finestre della biblioteca, la costruzione dei due livelli inferiori raffigurati nello schizzo di Haarlem diviene automaticamente necessaria. Unire entrambi i livelli in un singolo piano alto circa 4,50 metri era impossibile, visti i requisiti necessari per le porte, la scala e le proporzioni delle pareti. Ma questa soluzione, per quanto potesse sembrare logica, non era destinata a venire realizzata. Forse rappresenta un tentativo che convinse il maestro che i problemi della biblioteca e quelli del vestibolo erano talmente differenti da rendere impraticabile un trattamento unitario di entrambi. Michelangelo, su tali basi, dovette rendersi
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conto che le finestre del vestibolo non potevano essere realizzate allo stesso livello di quelle della biblioteca, e che se si doveva conservare un assetto unitario all’esterno egli doveva inevitabilmente rassegnarsi ad operare una totale separazione tra il prospetto esterno e l’alzato interno del vestibolo. È importante appurare l’epoca in cui Michelangelo era arrivato alla temporanea soluzione del problema della biblioteca, raffigurata nello schizzo di Haarlem. Il 29 aprile 1524 Fattucci scrive da Roma: «et circa alle scale gli (al papa) piace assaj la salita di dua scale». Ciò fornisce un termine ante quem per il disegno di Haarlem. Il primo progetto di Michelangelo per la biblioteca giunse a Roma il 21 gennaio 1524 (vedi Appendice iii), e le ricevute per altri progetti vennero accusate da Roma il 10 marzo e il 13 aprile del 1524. Lo schizzo del primo progetto per la biblioteca, se venne realizzato per il papa, dev’essere stato tra questi, e di lí a poco sarebbe stato seguito dal disegno di Haarlem. Sulla base dello schizzo di Haarlem, un altro disegno di Casa Buonarroti può essere individuato e messo in relazione all’articolazione del vestibolo (e questo, di converso, comprova l’autenticità dello schizzo di Haarlem): disegno che testimonia di un decisivo passo avanti verso la separazione tra prospetto interno ed esterno, anche se vi si possono ravvisare con chiarezza elementi desunti dal progetto di Haarlem. In entrambi i casi la parete è suddivisa in quattro interassi: la partizione a sinistra non è disegnata, ma dev’essere presupposta per simmetria con quella di destra. Il risultato è che al centro non compare piú una finestra (o, per la precisione, una nicchia) ma una colonna. Questa caratteristica inconsueta fece credere a Geymüller che lo schizzo di Casa Buonarroti fosse un progetto di Michelangelo per la facciata di Santo Spirito, ma non appena si comprende il legame con il pro-
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getto di Haarlem33 tale ipotesi appare manifestamente errata. Il secondo disegno è infatti, con buona evidenza, uno sviluppo del primo. Il livello intermedio dello schizzo di Haarlem, tra la sommità della scala e le colonne, è ora logicamente incorporato nel livello principale34, cosicché l’ordine ora si impianta direttamente sul basamento al quale lo scalone è addossato. Delle paraste giganti unificano in verticale il nuovo livello principale, ma la sua grande altezza (piú di 7 metri) richiedeva anche una scansione in senso orizzontale. Le colonne occupano circa quattro settimi dell’intera altezza, lasciando lo spazio superiore libero per sistemarvi delle nicchie: spazio che acquista quasi il carattere di un secondo livello35. Come nel progetto di Haarlem, i due interassi mediani sono intervallati da paraste, ma se in quella soluzione gli interassi esterni risultavano aggettanti, ora appaiono in posizione arretrata rispetto al centro che avanza. Solo in questo modo si può spiegare perché tutte le linee orizzontali degli interassi esterni (o, per la precisione, di quello di destra, l’unico effettivamente disegnato) sono piú basse di pochi millimetri rispetto agli interassi centrali. Un basamento rettangolare sotto i due interassi centrali indica che le due paraste giganti appartengono alla sezione aggettante». Ogni interasse ha eguale ampiezza, come nel progetto di Haarlem, di modo che il centro aggettante è largo esattamente il doppio di un interasse laterale. Tutti questi caratteri mettono in stretta relazione reciproca i due progetti. Ma la versione di Casa Buonarroti presenta anche elementi totalmente nuovi. Ad esempio non ci sono finestre: le aperture indicate nei due interassi centrali, sotto le nicchie arcate a tutto sesto37, sono porte. Nei suoi schizzi per il vestibolo Michelangelo raffigura solitamente la parete ovest, ma in questo caso è mostrata la parete sud, che divide il
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vestibolo dalla biblioteca. In un impianto a quattro interassi la biblioteca sarebbe risultata in asse con una sezione di muro e non con una apertura: in tal modo bisognava aprire dal vestibolo un doppi0 fornice d’ingresso alla biblioteca. Questo duplice ingresso è nuovamente disegnato a scala ridotta a sinistra, dove compaiono accenni di ulteriori idee per conferire alle porte una maggiore individualità, inserendo nei pannelli superiori dei motivi circolari o apponendo archi superiori a tutto sesto. Il rettangolo in cima doveva probabilmente essere occupato da un’iscrizione. La mancanza di finestre rende possibile un’articolazione parietale che non si sarebbe potuta realizzare nella fase del progetto di Haarlem, dove la quota sia delle porte che delle finestre era prefissata, e non era possibile trattare questi due elementi in un’armoniosa relazione reciproca. Ora invece l’apertura delle porte non solo determina l’altezza del piano basamentale, ma la loro altezza di 3 metri determina quella delle nicchie laterali, che riprendono la forma delle porte38. L’idea di far corrispondere le nicchie alle porte quanto a livello e ad altezza era un passo decisivo verso la soluzione definitiva39. Non ci sono indicazioni di finestre nello schema di Casa Buonarroti, né era possibile realizzarle: dobbiamo quindi concludere che era già prevista l’illuminazione dall’alto. Tra l’alzato di Haarlem e questo sono quindi state adottate due innovazioni radicali e strettamente complementari: l’indipendenza dell’articolazione interna del vestibolo dalla facciata e la sua illuminazione per mezzo di lucernari. Siamo cosí arrivati alla versione definitiva del primo progetto con la quale ho aperto questo studio. Partendo dal progetto di Haarlem, Michelangelo ha sviluppato la versione poc’anzi esaminata, e con il grado di libertà cosí ottenuto ha potuto svolgere il progetto illustrato in fig. 10, adattando un impianto che era stato originariamente progettato per la biblioteca, con alcune sintomatiche modifiche40. Questo, dunque, era il
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progetto definitivo fin quando Michelangelo non fu costretto a sopraelevare il vestibolo per volere del papa. Un’approssimativa datazione per il disegno di Casa Buonarroti si può desumere in base ai seguenti dati. Il termine post quem dev’essere il 29 aprile 1524. Da allora fino all’aprile del 1525 i problemi del vestibolo perdettero d’importanza, per poi tornare preminenti solo in relazione allo scalone. Dato che lo schizzo di Haarlem non costituisce una soluzione pratica, il disegno di Casa Buonarroti dev’essere datato alla primavera o all’estate del 1525: con questo progetto si prepara il terreno per la separazione tra gli impianti della biblioteca e del vestibolo, anche se tale separazione non vi viene esplicitata. Ciò che la sequenza qui proposta rivela è una progressiva chiarificazione di temi che portano alla versione definitiva del primo progetto. Il passaggio da questo punto d’arrivo della prima soluzione al progetto realmente eseguito si può tracciare non solo considerando gli studi per i particolari di finestre del livello superiore, già menzionati, ma anche un foglio ora conservato nel British Museum, che mostra un’importante fase della progettazione del livello basamentale. Il foglio presenta disegni su entrambi i lati: tra questi il piú importante non è uno schizzo di una prima idea, ma è un’accurata elaborazione di una proposta che aveva già preso forma definitiva. Sul verso del foglio ci sono altre due serie di disegni, una realizzata prima del disegno sul recto e l’altra dopo. La prima è una serie di sette varianti di modanature inferiori per il basamento (in alto al centro e a destra); la seconda consiste in cinque studi per le modanature alla base delle colonne del livello principale (in alto a destra e a sinistra; al margine sinistro; in basso al centro)41. Tra il disegno sul recto e quanto realizzato l’unica differenza è la sistemazione di nicchie nel basamento, sotto i tabernacoli: idea piú tardi abbandonata. Gli schizzi di questo foglio di Londra si possono datare
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con esattezza all’epoca del mutamento del progetto, ossia la fine di febbraio del 1526. A quest’epoca appartengono anche i profili di basamento a grande scala di Casa Buonarroti, che vennero aggiunti su dei fogli già impiegati da Michelangelo per la stesura del progetto per lo scalone, nell’aprile del 152542. E con questo siamo giunti al termine dei disegni che illustrano lo sviluppo della biblioteca e del vestibolo43.
Lo scalone. Negli studi sulla Biblioteca Laurenziana l’interesse maggiore si è sempre incentrato sullo scalone. Il lavoro di Panofsky44 ha risolto importanti problemi concernenti la sua storia piú tarda; ma il numero dei problemi aperti è ancora tale che sarà bene esporre nuovamente l’intera successione dei fatti. Fase 1. Nel progetto spedito a Roma e ricevuto da Fattucci il 10 marzo 152445, Michelangelo ha esplicitamente lasciato in sospeso il problema di come intendesse trattare il dislivello tra il vestibolo e la biblioteca, ed evidentemente deve aver promesso di spedire un disegno raffigurante la scala in un secondo momento. Fase 2. Questo disegno venne richiesto il 3 aprile 1524 e la relativa ricevuta venne accusata il 29 aprile46. Lo scalone qui raffigurato ha due rampe («la salita di dua scale») e possiamo, d’accordo con Tolnay47, ravvisare tale progetto in uno schizzo dell’Archivio Buonarroti. Credo si possa inoltre dimostrare che lo schizzo di Haarlem rappresenti lo stesso scalone, dato che i due progetti sono quasi esattamente coincidenti nelle misure del pianerottolo, nella lunghezza del gradino e nello spazio libero ai piedi della scala48. La forma qui adottata da Michelangelo è quella solitamente impiegata nella terminazione orientale di una
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chiesa: una rampa a destra e una a sinistra, addossate alle pareti, che portano ad un coro sopraelevato e che inquadrano al centro l’ingresso ad una cripta49. Questa somiglianza con una soluzione tipica di una chiesa appare con maggiore evidenza in disegni posteriori, dove è inserito un ingresso tra le due rampe. Lo scalone di Buontalenti per Santa Trinita (ora in Santo Stefano a Firenze) deriva dai progetti di Michelangelo per la Laurenziana e dimostra che tali soluzioni potevano adattarsi egregiamente in un impianto di chiesa. Fase 3. Per un anno circa (dal 29 aprile 1524 ai primi di aprile del 1525) i problemi connessi allo scalone restano sullo sfondo, mentre viene stipulato il contratto, gettate le fondamenta, costruita la struttura muraria e si inizia la realizzazione dei particolari della biblioteca. Successivamente, il 12 aprile 1525, Fattucci scrive a Michelangelo: il papa desidera che egli abbandoni l’idea di uno scalone doppio, in favore di una singola rampa di scale che occupi l’intera larghezza del vestibolo50. Questo rinnovato interesse per lo scalone da parte del papa è probabilmente dovuto al fatto che Michelangelo aveva spedito poco prima alcune nuove proposte, con idee autonomamente elaborate e che erano maturate nel corso del precedente anno. Esistono difatti due disegni di scale che si possono datare, molto plausibilmente, ad un’epoca di poco precedente alla lettera di Fattucci: la pianta del vestibolo (Casa Buonarroti 89) ed il relativo alzato (Casa Buonarroti 92). Questa ipotesi di datazione viene rafforzata dalla stretta affinità tra questi due disegni e altri schizzi per lo scalone che possono essere stati realizzati solo poco dopo il 12 aprile51. Inoltre è possibile dimostrare che un altro disegno sullo stesso foglio di Casa Buonarroti 89, che raffigura un prolungato vano con pilastri angolari, sia stato eseguito poco prima di allora. In questi due disegni non sono state apportate modifiche sostanziali allo scalone previsto nella primavera del
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1524. La doppia scala addossata alle pareti viene mantenuta, ma diviene piú monumentale52. La lunghezza delle singole rampe si aggira tra i 2,5o e i 3 metri, rispetto ai due metri di prima, e la pedata di ogni gradino aumenta di conseguenza in profondità. L’ampio ripiano, maggiore di quello progettato nella primavera del 1524, è ora suddiviso in tre pianerottoli: quello al centro, davanti all’ingresso alla biblioteca, risulta innalzato tramite tre o quattro scalini rispetto ai ripiani posti al termine delle due rampe. Fino a questo punto il numero totale di gradini è di dodici o tredici. Non c’è dubbio che in tal modo si può raggiungere il livello della cimasa che corona il livello basamentale del vestibolo. Nella pianta sono inoltre raffigurati tre gradini piú piccoli che, partendo dal ripiano centrale, raggiungono la porta della biblioteca. Questo ripiano maggiore deve quindi essere posto ad una quota di poco inferiore a tre metri da terra, poiché tale è la differenza tra la quota del vestibolo e quella della biblioteca. Il disegno (Casa Buonarroti 89) è sull’altro lato dello stesso foglio: Tolnay credeva che pianta e alzato si riferissero ad uno stesso progetto, ma non può essere così. La pianta mostra solo un ingresso alla biblioteca, mentre l’alzato, come abbiamo visto, ne mostra due. Né si può far concordare la lunghezza dello scalone rappresentato in pianta con l’articolazione dell’alzato53. Abbiamo anche dimostrato che tale disegno deve risalire all’estate del 1524. L’alzato che corrisponde molto meglio a questa pianta è il Casa Buonarroti 48: questo disegno presenta la stessa partizione della parete in cinque settori che la pianta presuppone, e un livello basamentale la cui altezza corrisponde molto bene alla quota del ripiano collocato in pianta. Fase 4. Sul verso del disegno Casa Buonarroti 92 (al centro a sinistra) compare una pianta che soddisfa la richiesta del papa per una scala che occupasse l’intera
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larghezza del vestibolo54. Tale disegno mostra un evidente legame con la pianta che abbiamo prima esaminato. L’unica differenza è che qui lo spazio tra le due rampe è occupato da una scalea concava. L’alzato corrispettivo va rinvenuto sul recto dello stesso foglio55, dove sono indicati non solo i gradini concavi ma vengono anche aggiunti, in via sperimentale, dei gradini convessi. I gradini concavi avrebbero però dato luogo a difficoltà insormontabili se si voleva raggiungere con questi il ripiano56. Fase 5. Si tratta di tentativi sperimentali in cui Michelangelo inizia ad affrontare il problema in modo nuovo. Abbandonando l’idea delle due rampe addossate alle pareti, Michelangelo passa ad elaborare l’idea di due scale gemelle che si protendono, completamente libere, entro il vano. Lo sviluppo di quest’idea si può dapprima vedere nel disegno Casa Buonarroti 92 recto, vicino al centro del foglio. Le due rampe che prima erano addossate alle pareti ora vengono ruotate verso l’interno e portate in posizione convergente. Se in tal modo gli scalini inferiori vengono a toccare, o quasi, il perimetro murario, quelli in cima ora distano tra loro solo 2 metri invece di 457. Questo è evidentemente un tentativo nuovo per secondare i desideri del papa e per far occupare alla scala l’intera ampiezza del vano. Ma neppure questa soluzione si rivela piú pratica della precedente. Non solo si viene a creare uno sgraziato spazio di risulta negli angoli tra scala e parete, ma la connessione tra i ripiani laterali ribassati e quello centrale rilevato avrebbe costituito un problema di difficile risoluzione58. Tutto questo gruppo di disegni è in stretta relazione reciproca, e la prima formulazione dello scalone libero deriva direttamente dai primi progetti per le due rampe gemelle addossate alle pareti, con il triplice ripiano.
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Fase 6. Solo nel progetto in fondo al disegno Casa Buonarroti 92 verso, Michelangelo si affranca completamente dall’idea di collocare la scala a ridosso delle pareti. Questo schizzo mostra che il triplice scalone liberamente aggettante era considerato come una possibilità praticabile. Il problema dell’impianto tripartito è tutto nel rapporto tra rampe laterali e rampa centrale: in un modo o nell’altro questi tre elementi devono formare un’unità, e Michelangelo consegue questo risultato facendo iniziare le rampe laterali piú avanti di due gradini rispetto a quella centrale. In ogni punto, quindi, le scale laterali saranno piú alte di due gradini rispetto al punto corrispettivo della rampa centrale. Le giunzioni tra elementi centrali e laterali sono contrassegnate da blocchi rettangolari delle stesse dimensioni di un gradino. Tale disposizione determina la soluzione alla sommità dello scalone. L’ultimo gradino della rampa centrale si salda con i blocchi rettangolari posti ai lati del gradino sottostante, formando con quei risalti laterali, che giacciono sullo stesso piano, una pianta ad U. Gli ultimi gradini delle due rampe laterali vengono invece triplicati in profondità e si congiungono in cima alla scala, divenendo parte del pianerottolo59. Sopra questa soglia ci sono poi due gradini che formano una singola rampa, raggiungendo la porta della biblioteca. Una tale soluzione è ancora strettamente imparentata ai progetti delle fasi iniziali. Come in precedenza le rampe laterali, che serrano come in una morsa la rampa centrale, sono l’elemento determinante. La rampa centrale arretrata è una variante della sperimentazione della scala concava. Questo disegno è stato oggetto di notevoli fraintendimenti. Thode60 riteneva che Michelangelo avesse presentato due alternative, dato che la rampa sinistra è raffigurata con sei gradini e quella destra solo con cinque. In realtà il disegno della rampa di sinistra è completo mentre a destra non lo è: il primo gradino in
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4. Ricostruzione delle idee di Michelangelo per lo scalone, fasi 6-8.
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basso non è disegnato affatto e quello in cima è solo accennato. Anche Tolnay sbaglia nell’affermare che «la rampa centrale è piú bassa di un gradino rispetto a quelle contigue»: infatti il dislivello è di due gradini. Osservazioni di questa natura portano ad interpretazioni altrettanto erronee. Secondo Tolnay la scala centrale ribassata doveva ascendere in modo piú lento e maestoso, mentre quelle laterali salivano piú rapidamente e con minore imponenza. Ma in realtà, come abbiamo visto, era stato dapprima conferito maggior rilievo alle rampe laterali, e solo piú tardi a quella centrale. Fase 7. Per tale fase disponiamo solo di un piccolo schizzo in pianta sullo stesso foglio di Casa Buonarroti (92 verso, in alto a destra). Per quanto possa apparire enigmatico, questo schizzo può essere messo in relazione con alcune copie di Antonio da Sangallo il Giovane da Michelangelo: possiamo cosí fare luce anche su questa fase dello scalone. Questa serie di copie è composta da tre fogli, ora conservati agli Uffizi (disegni 816A, 817A e 1464A): sotto uno di questi Sangallo ha scritto «schala della libreria già ordinata Michelagniolo»61. Tali copie, considerate insieme, illustrano due varianti della stessa fase di sviluppo: (a) uno dei due progetti presenta una rampa centrale convessa, che converge approssimandosi alla porta della biblioteca; (b) l’altro mostra una rampa centrale rettangolare che prosegue oltrepassando quelle laterali. Le affinità tra le due versioni sono maggiori delle differenze, che riguardano solo la forma della rampa centrale: in entrambe si tenta di trattare la giunzione tra le due rampe laterali e quella centrale in modo analogo ma piú complesso di quello impiegato nella fase 6. Un’annotazione scritta sul foglio 816 si riferisce allo scalone con i gradini convessi al centro, e dà una descrizione estremamente precisa della nuova soluzione: «chi sale in mezo» – ma questo vale anche per le rampe laterali –
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«sale uno tertio alla volta e chi sale nelli angoli sale 1/6 e tutti li schaloni sono simili alti uno tertio di bracio ecceto lo primo di mezo qual e 1/6 di braci»62. Questo innesto a coda di rondine tra la rampa centrale e le laterali, dove ogni gradino è sempre sormontato dalla metà di un altro gradino, è raffigurato, in modo perfettamente congruente a questa descrizione e con estrema chiarezza, in un altro schizzo del foglio 1464 (in alto). La soluzione con la rampa centrale aggettante a pianta rettangolare (b) è piú complessa. Come si può osservare nel foglio 817, in alto le scale laterali dovevano essere piú alte di metà gradino di quella centrale, con due innesti a coda di rondine analoghi a quelli della versione (a). Il disegno mostra come ciò si verifica, sia nel caso dello spigolo anteriore che dell’angolo retrostante, e la scritta è un’ulteriore con ferma di tale intenzione: «modo d’un angolo fuoro come dentro». Il foglio 816 ci mostra le piante delle due versioni: (a) in alto a destra e (b) in alto a sinistra63. Parte della pianta (a) compare anche nel foglio 1464, a sinistra. Ma a questo punto dobbiamo tornare a quel frammento abbastanza oscuro (Casa Buonarroti 92, in alto a destra) che è la sola testimonianza originale di Michelangelo rimastaci per questa fase. Il tipo di innesto a coda di rondine è chiaramente lo stesso, e questo conferma l’accuratezza delle copie di Sangallo. Ma se si cerca di rendere in prospettiva tale pianta si comprenderà che questa è una versione piú complessa (c) del rettangolo aggettante al centro che appare schizzato in una versione più semplice (b) nel foglio 817. In (c) l’attenzione si sposta dalla semplice forma rettangolare alla complessa configurazione degli spigoli. L’intenzione sembra quella di creare degli angoli rientranti non solo in fondo ma anche sul versante anteriore: questo si può realizzare solo prolungando i lati fino ad oltrepassare la rampa centrale aggettante e confe-
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rendo loro il carattere voluto. Questa complessa soluzione presuppone necessariamente l’esistenza di un semplice rettangolo centrale. Gli innesti a coda di rondine in tutte e tre le varianti, (a), (b) e (c), seguono gli stessi principî, e il passaggio dalla rampa mediana convessa (a) al corpo centrale rettangolare (b), agli angoli acuti aggettanti (e), può essere interpretato in termini di continua evoluzione: (a) ha un solo innesto a coda di rondine; in (b) l’innesto separa i lati e il fronte anteriore del rettangolo; in (c) si arriva a due innesti a coda di rondine. Tutte e tre le varianti, se comparate ai progetti iniziali, mostrano una significativa caratteristica comune: il minor valore conferito alle rampe laterali per dare maggiore rilievo al centro. Fase 8. Da questi tre progetti, caratterizzati dagli ingegnosi innesti a coda di rondine, ne deriva ancora un altro, che mantiene lo stesso sistema ma con l’introduzione di due nuovi elementi. Anche questo impianto è conservato solo in copia, nel taccuino di schizzi di Oreste Vannocci della Biblioteca Comunale di Siena64. Michelangelo qui ritorna alla rampa centrale convessa del foglio 1464, ma al posto delle rampe laterali diritte (ultima reminiscenza delle originarie rampe addossate alle pareti) ora viene ripetuta la configurazione convessa centrale. In tutte le varianti della fase 7 i lati esterni delle rampe laterali formano un angolo retto con la parete di fondo, mentre qui i gradini confluiscono direttamente in essa. Con questa innovazione viene eliminata l’ultima traccia delle originarie rampe adiacenti alle pareti, e si viene a formare un nuovo tipo di scalone, che nasce dalla parete di fondo ed è in diretta relazione con la porta. C’è poi un altro elemento significativo: viene a mancare la separazione tra la rampa centrale e quelle laterali, e l’intera struttura risulta unificata. I gradini pari corrono ininterrotti per l’intero scalone, e invece di tre
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rampe si percepisce un solo schema geometrico, composto sostanzialmente da un quadrato con i lati intersecati da archi di cerchio. È molto istruttivo ripercorrere l’intero processo che ha portato a tale risultato. Nella prima concreta proposta di una scala libera (fase 6) la rampa centrale, nonostante i cubi inseriti tra questa e le rampe laterali, resta essenzialmente un episodio a sé: possiamo immaginare di toglierla e rimetterla a posto senza causare alterazioni ai lati. Questo carattere separato è eliminato nella fase successiva, 7 (a), dove le rampe laterali e quella centrale si intrecciano: un effetto ottenuto disponendo i gradini a quote differenti. Nella fase 7 (b), Michelangelo conserva tale intreccio, ma fa in modo che le rampe laterali e quella centrale salgano con gradini disposti alla stessa quota: solo i lati perpendicolari del rettangolo centrale ora assolvono a quella funzione di collegamento che prima era affidata all’elemento convesso centrale. Nella fase 7 (c), continuando la sequenza, la sconnessione tra i lati e il fronte anteriore del rettangolo centrale è ricomposta trasformando i lati in una sorta di morsa che connette le due componenti dello scalone. Ora il. problema è sostanzialmente risolto. La singolare forma dello scalone è il conseguente risultato di un processo logico: si può anche immaginare che i gradini delle rampe laterali e di quella centrale si incontrino proseguendo al di sotto di tale morsa. Nella fase 8, l’ultima, questo carattere diviene esplicito, e nello stesso tempo la «morsa», che sortiva l’effetto di un elemento estraneo, diviene parte integrante dello scalone. In questa soluzione l’innesto a coda di rondine viene mantenuto, ma i lati e il centro ascendono con dei gradini posti alla stessa quota, e dove sono gli innesti a coda di rondine non c’è bisogno di introdurre un ritmo a parte. Fase 9. In tal modo, tuttavia, non siamo ancora giunti al termine della vicenda. L’unione tra rampe laterali
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e rampa centrale, come abbiamo visto, è un processo al termine del quale è l’effetto d’insieme, non piú le singole rampe, a divenire determinante. Ma le rampe restano ancora delle entità distinte: se le tre componenti dello scalone fossero completate, formerebbero tra loro degli angoli retti. A questo punto ci si può figurare un ultimo passaggio, dove la suddivisione delle rampe risulta soppressa. Ed è proprio quello che fece Michelangelo, come viene riportato, ancora una volta, solo da alcune copie: una pagina del taccuino di Battista da Sangallo, conservato a Lille, e un particolare del taccuino di Oreste Vannocci, concordante col primo disegno65. Qui lo scalone è divenuto un organismo unitario a pianta ovale, anche se l’idea di un’interruzione tra centro e lati, come è evidente, non è ancora del tutto abbandonata66. È questa la soluzione piú matura al problema di far divenire la porta il punto focale della scala, ed è il logico approdo di un processo che mirava a fondere in un’inscindibile unità organica scalone, ripiano superiore e porta67. Dopo aver seguito questo aspetto del problema fino al suo naturale compimento, possiamo passare ad esaminarne un altro. Nelle fasi 8 e 9 dobbiamo presupporre l’esistenza di un pianerottolo intermedio, dopo circa 7 gradini68: la scala poi prosegue con una singola rampa. Questa sistemazione è chiaramente visibile nello schizzo di Lille. La scala delle fasi 8 e 9 può avere solo un impianto di questo tipo, per un preciso motivo: siccome i lati dello scalone, e non solo il fronte centrale, sono composti da gradini, tanto maggiore è il numero dei gradini tanto piú la base dello scalone deve risultare larga ai lati, espandendosi all’interno del vano. In questo modo uno scalone con due rampe laterali, ciascuna formata da quattordici gradini profondi 30 centimetri, richiederebbe una base larga due volte 14 x 30 cm: a questa grandezza bisogna poi aggiungere i due metri
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dell’ampiezza della porta per ottenere un totale di 10,40 metri, che è una misura maggiore della larghezza dell’intero vestibolo! D’altro canto, se ipotizziamo un pianerottolo a metà della scala (dopo il settimo gradino) e sopra di questo una rampa singola larga quanto la porta otterremo alla base una larghezza minima di due volte 7 x 30 cm, piú due metri: 6,20 metri in tutto. Se aggiungiamo qualcos’altro per dare al pianerottolo una larghezza maggiore della porta arriviamo ad un ordine di grandezza abbastanza vicino a quanto realizzato: 6,55 metri. L’idea del pianerottolo intermedio ha una storia a sé. Anche se Michelangelo poteva non essersi curato, come sovente gli accadeva, di indicare il numero esatto dei gradini nei suoi schizzi, ci deve pur essere una spiegazione per il fatto che questi siano invariabilmente cosí pochi. Non appena Michelangelo prese in considerazione l’idea di uno scalone libero, dovette sicuramente prevedere un’interruzione dopo il sesto o il settimo gradino e la prosecuzione della scala con un’unica rampa sopra il ripiano. Tale ripiano, inoltre, nella sezione Casa Buonarroti 48 è segnato esattamente a mezza altezza: e infine anche il ripiano della successiva fase 10, che esamineremo tra breve, può essere ricostruito in una posizione a mezza altezza. È pur vero che nelle prime fasi Michelangelo si era riproposto di trattare in modo unitario le tre rampe e l’ingresso alla biblioteca: si veda ad esempio la fase 7 (a), in basso a sinistra nel disegno Uffizi 816A, dove la rampa centrale convessa sale, unitamente a quelle laterali, fino ad uno spazioso ripiano adiacente alla parete della biblioteca. Un altro esempio è il profilo dello scalone di Casa Buonarroti 4869. E vedremo che, ancora allo stadio avanzato della fase 12, Michelangelo poteva prendere in considerazione l’idea di tre rampe che ascendevano senza essere interrotte da un pianerottolo.
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Ho già dimostrato che l’evoluzione delle idee per lo scalone si può suddividere in due fasi, separate tra loro all’incirca da un anno. La fase 2 appartiene ad un’epoca che precede di poco il 29 aprile 1524. Le fasi 3-9 debbono considerarsi relativamente ravvicinate nel tempo, poco prima o poco dopo il 14 aprile 1525. Lo si può provare osservando che le ultime due fasi (8 e 9) presuppongono una parete il cui livello inferiore si presenta come una superficie omogenea e ininterrotta: tali versioni non sarebbero state praticabili se quel livello avesse presentato una qualche articolazione. E, come abbiamo già visto, tale superficie ininterrotta venne mantenuta fino alla versione definitiva del primo progetto (Casa Buonarroti 48), che dev’essere datata prima del 29 novembre 1525. A tali argomentazioni si potrebbe però muovere un’obiezione in apparenza grave. L’ultima pianta con la scala ovale 6 (taccuino di Lille) mostra il vestibolo nella sua forma definitiva e non nella sua prima fase. Ma questo disegno può essere considerato una fedele copia di un originale di Michelangelo? Heydenreich pensava di sì, e spiegava la totale concordanza tra i disegni di Battista da Sangallo e di Vannocci supponendo la loro derivazione da uno stesso originale. Ma io penso di no. È molto strano che Michelangelo indicasse lo scalone in modo cosí sommario all’interno di una pianta talmente dettagliata. Qui si possono contare solo nove invece dei quattordici o quindici gradini necessari, mentre il formato dello scalone, in relazione alle dimensioni del vano, è completamente errato: la scala è troppo piccola. Misurato in base alla scala della pianta del vestibolo, lo scalone è complessivamente molto inferiore ai tre metri, pianerottolo escluso. La profondità di un gradino dovrebbe quindi essere di 20 centimetri al massimo, dimensione quasi inconcepibile. Uno scalone approssimativamente abbozzato come questo in una pianta accuratamente quotata può rappresentare al mas-
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simo un tentativo per evidenziare il rapporto tra scalone e vano: rapporto in cui, però, si può subito notare la discrepanza delle dimensioni. Alla luce di queste osservazioni risulta sicuramente impossibile che lo schizzo e il disegno quotato possano derivare da un solo originale di Michelangelo. È molto piú probabile che un semplice schizzo di Michelangelo per lo scalone sia stato inserito in un progetto quotato per il vestibolo, senza considerare che lo schizzo era stato concepito per un vano articolato in modo differente. Solo questa ipotesi può spiegare una tale combinazione di elementi diversi tra loro quanto a dimensioni ed intenti: ne consegue che Vannocci deve in qualche modo aver preso visione del taccuino di Sangallo, facendone uso70. Fase 10. L’adozione della soluzione definitiva per il vestibolo, con il suo basamento articolato, richiedeva necessariamente una completa revisione del progetto per lo scalone. Una scala addossata alla parete verso la biblioteca era incompatibile con tale basamento. Michelangelo era quindi obbligato a tornare nuovamente all’idea di una scala libera. Questa decisione, unitamente al mutamento generale del progetto, dev’essere stata presa all’inizio del 1526, ma nella seconda metà di quell’anno i lavori subirono una battuta d’arresto per mancanza di fondi che lasciò irrisolto il problema dello scalone. Per sette anni non si fece nulla e la costruzione venne ripresa non prima del 1533. Il 20 agosto di quell’anno venne steso un contratto tra Michelangelo e cinque scalpellini, Antonio e Simone di Jacopo di Berto, Francesco d’Andrea Luchesini e i nipoti di quest’ultimo, Michele e Leonardo di Giovanni Luchesini, per la lavorazione di due porte e dello scalone della biblioteca. I lavori dovevano essere terminati alla fine di marzo del 1534. La scala doveva essere eseguita «nel modo, forma e misura, siccome è disegnato tutto non tanto in sul chiostro, ma per il
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modino fatto di terra dal nostro Michelagnolo, come ciascuno de’ sopra detti maestri veduto apresso anno. In che però si dichiara expresso che li scaglioni della scala anno a essere 14, tutti d’un pezzo l’uno e massime li primi 7 colle rivolte, senza che si dimostri alcun convento»71. L’ultima frase sembra contraddittoria, e per la sua comprensione bisogna indubbiamente sottintendere una premessa chiarificatrice: ogni gradino doveva essere composto da un solo pezzo, ma se questo non era possibile, almeno i primi sette gradini in ogni caso dovevano essere di un solo pezzo, mentre negli altri le connessure non dovevano essere visibili. Nel testo i sette scalini piú bassi sono contraddistinti da quelli superiori per mezzo del termine «rivolte»72: termine che può essere interpretato solo nell’accezione originaria di «rigiro» o «voluta»73, e che si deve porre in riferimento alle curvature che si vedono ai lati dei gradini della rampa centrale74. Senza una qualche interruzione questi scalini dalle terminazioni ricurve non potevano continuare con scalini che ne erano privi: quindi bisogna ipotizzare l’esistenza di un pianerottolo intermedio. Questa soluzione è diversa sia dalle prime proposte, sia dai progetti di venticinque anni prima, ma presenta anche legami con entrambi. I ripiani intermedi ricorrono nei primi schemi ma non in quelli piú tardi. I gradini con le «rivolte» non si ritrovano affatto in precedenza ma solo nella versione realizzata, dove, come si può vedere occupano l’intera lunghezza della rampa mediana eccezion fatta per i gradini prima del pianerottolo: piú avanti dimostrerò che il progetto del 1533 venne evidentemente riveduto quello stesso anno, in modo da fornire di «rivolte» tutti i gradini centrali. La forma dei gradini tra le «rivolte» era probabilmente convessa. Non credo di sbagliare supponendo che i sette gradini centrali con le «rivolte» erano affiancati da rampe diritte che accompagnavano la rampa centrale nella sua ascesa al pianerottolo: dopo, la
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rampa mediana doveva proseguire da sola con gradini dalla semplice forma convessa. In tal modo si può ricostruire con un ottimo grado di approssimazione un progetto che si rifà alla fase 7 (a). Questa versione del 1533 è inoltre d’importanza decisiva, poiché alcuni gradini dello scalone poi realizzato vennero effettivamente compiuti durante questa fase dei lavori. I gradini convessi con le «rivolte» denunziano una combinazione di spunti derivati da precedenti progetti. Nella fase 6 l’ultimo gradino della rampa centrale si collega ai blocchi angolari in modo sostanzialmente analogo. Ma ora due elementi originariamente introdotti per ragioni funzionali vengono fusi insieme, e viene loro conferito un compito puramente estetico, entro una sistemazione che si basa sulle curve convesse della fase 7 (a)75. Fase 11. Tra il 1533, l’anno del contratto, e il 1559, data della fine dei lavori, figura un tentativo fallito di portare a termine lo scalone76 ad opera dello scultore Nicolò Tribolo: tentativo per molti aspetti rivelatore. Vasari ne riferisce ampiamente, in due versioni che però contrastano tra loro: una nella vita di Michelangelo e un’altra in quella del Tribolo. Nella prima77 Vasari riferisce che Tribolo venne mandato a Roma da Cosimo I durante il pontificato di Paolo III (1534-1550), con il compito di persuadere Michelangelo a tornare a Firenze. Avendo fallito in tale missione, Tribolo cercò almeno di apprendere quali fossero le intenzioni finali di Michelangelo per lo scalone, dato che i disegni e i modelli in terracotta allora disponibili non chiarivano «la propria ed ultima risoluzione». Michelangelo rispose che non ricordava niente al proposito. Nella vita del Tribolo la storia è alquanto differente78. Tribolo aveva ricevuto dal duca Cosimo l’incarico di completare lo scalone, ma, dopo aver messo in opera i primi quattro gradini, non sapeva come andare avanti: cosí venne mandato a Roma per ricevere delucidazioni da Michelange-
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lo e persuaderlo a tornare a Firenze. Michelangelo rifiutò di intraprendere il viaggio, «e quanto alle scale, mostrò non ricordarsi piú né di misure né d’altro». Questa seconda versione sembra piú verosimile: Vasari non avrebbe riportato la significativa notizia della messa in opera di quattro gradini se ciò non fosse realmente accaduto. In ogni caso Vasari era la persona piú qualificata a raccontare tale episodio, dato che non solo egli viveva a Firenze a quell’epoca, ma pochi anni dopo avrebbe lavorato proprio per la realizzazione dello scalone. Vasari non riporta una datazione precisa per il tentativo fallito del Tribolo: tale episodio si può però datare con precisione in base a due documenti. Il 20 gennaio 155o Lelio Torelli scrive al maggiordomo di Cosimo, Pier Francesco Ricci. Dato che la scala «che hora si disegnava non riusciva», Torelli spedisce, per conoscenza, una lettera scritta da Michelangelo a Fattucci riguardante lo scalone: documento già in possesso dello stesso Fattucci79. Questa lettera, andata smarrita, non doveva essere di data recente, e poteva addirittura risalire agli anni venti del Cinquecento, quando Fattucci curava a Roma gli interessi di Michelangelo e i due intrattenevano una fitta corrispondenza sulle vicende della biblioteca. Il secondo documento è dell’estate del 1550. Dopo il tentativo fallito del Tribolo a Roma, ne vennero probabilmente effettuati degli altri per ottenere informazioni da Michelangelo riguardo allo scalone, e uno dei suoi amici piú stretti, Donato Giannotti, scrive per chiedergli un disegno della scala80. Anche se il nome del Tribolo non è menzionato nella lettera di Giannotti né in quella di Torelli, i tentativi di costoro devono essere messi in relazione a questa fase della costruzione dello scalone. Su tali basi si può pensare che il 1549 sia l’anno dei lavori del Tribolo, e che il suo viaggio a Roma avesse luogo probabilmente alla fine di quell’anno, o all’inizio del 155081.
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Il tentativo di portare a termine lo scalone effettuato dal Tribolo sarebbe di scarso interesse se non fosse la chiave che ci permette di fare luce su un capitolo della storia dello scalone rimasto finora inspiegato. Sul muro di fondo, ai lati dell’attuale scalone, appaiono chiare tracce di una scala che era stata lí costruita. La grigia pietra di «macigno», impiegata per le parti decorative del vestibolo, è stata rimossa in tre luoghi: nel basamento orizzontale, a partire da 1,20 metri dall’angolo, e in due tratti verticali di cornice ai lati dei mensoloni; uno ad un’altezza di poco superiore al metro, l’altro ad un’altezza di 1,77 metri82. Anche alcune parti delle mensole sono poi state segate via. L’aspetto del muro mostra che un tempo il rivestimento era completo e che poi era stato rimosso a forza. La superficie della parete cosí liberata reca le impronte di alcuni gradini: il piú basso era alto 20,5 cm e il secondo 22, con una profondità di 32 cm. Sopra appaiono impressi i segni di altri due gradini83. Da ciò risulta con chiarezza che erano in costruzione due rampe addossate a questa parete, che salivano convergendo al centro. Come abbiamo già spiegato, una volta presa la decisione di articolare il livello inferiore del vestibolo, si poteva sistemare nel vano soltanto una scala libera ai lati. Eppure le tracce che abbiamo esaminato sono un’irrefutabile prova di un progetto che prevedeva dei gradini addossati alla parete. La decisione di combinare le modanature definitive per il basamento con una scala siffatta non poteva essere stata presa sotto la supervisione di Michelangelo. Questo errore può essersi verificato solo perché Michelangelo era assente e nessuno aveva compreso le sue intenzioni. E dato che tale errore non poteva essere insorto durante la fase finale di costruzione, solo il Tribolo ne dev’essere reputato responsabile. Ne consegue necessariamente che le tracce dei gradini sul muro sono da mettere in relazione alla
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descrizione fatta da Vasari dei quattro gradini realizzati dal Tribolo: con ciò si spiega non solo l’aspetto della parete, ma anche il comportamento del Tribolo. Le cornici e i mensoloni della parete rendevano impossibile la realizzazione del suo scalone: per questo egli andò a Roma, spiegò la situazione al maestro e per tutto compenso... non ebbe neppure una parola d’aiuto. Michelangelo non si era completamente dimenticato dello scalone: anni dopo era ancora in grado di ricordare perfettamente le sue idee originarie. Il suo ostinato silenzio era dovuto all’irritazione causata dallo sconsiderato modo di procedere del Tribolo: quest’ultimo non poté andare avanti e morì pochi mesi dopo, ai primi di settembre del 1550. L’erronea interpretazione del Tribolo si può spiegare agevolmente alla luce dell’analisi finora condotta. Egli aveva pensato che lo stadio finale del primo progetto, con i gradini addossati alla parete di fondo, fosse l’ultima parola di Michelangelo al riguardo, e probabilmente arrivò a tale conclusione basandosi su precisi progetti di Michelangelo allora esistenti. Non è impossibile che tali progetti fossero i disegni fatti «in sul chiostro» menzionati nel contratto del 1533 e che non vennero utilizzati, mentre al posto loro doveva essere usato un modello. Se questo è vero, i disegni appartenevano ad una fase d’elaborazione precedente84. Le copie di Battista da Sangallo e Vannocci del progetto a pianta ovale di Michelangelo (fasi 8 e 9) e il progetto che Tribolo iniziò a realizzare sono prove che si sostengono reciprocamente. Il progetto rafforza la nostra convinzione che le copie riproducano effettivamente degli originali michelangioleschi, mentre le copie confermano il fatto che Tribolo poteva basarsi su progetti di quel tipo (anche se, naturalmente, non gli stessi). In ogni caso sia i copisti che il Tribolo non si erano accorti che Michelangelo aveva preparato varie piante
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per lo scalone, che si adattavano a vari alzati. Solo cosí si spiega perché Tribolo si imbarcò in questa impresa alla cieca, partendo da un progetto che aveva senso solo nel caso di un’articolazione totalmente diversa della parete del vestibolo. Quando, dieci anni piú tardi, vennero ripresi i lavori per lo scalone, i gradini costruiti dal Tribolo dovettero essere rimossi. A quell’epoca non venne fatto alcun tentativo per riparare ai danni arrecati alla parete, e i gradini, che non servivano più a nulla, vennero semplicemente lasciati a terra nel vestibolo. Le vicende successive dei gradini si possono seguire con buona precisione per circa tre secoli. Bottari ne parla (nel 1759 circa) nella sua edizione del Vasari85. Egli, avendo trovato alcuni gradini completamente rifiniti nel vestibolo, afferma esplicitamente che questi stavano originariamente là dove erano le impronte nella parete: non è qui il caso di esaminare o confutare le arbitrarie conclusioni che Bottari trasse da tali dati. Anche Domenico Moreni86, che scrive nel 1816, era a conoscenza dei gradini e, come Bottari, credeva che avessero avuto quella sistemazione sotto la direzione di Michelangelo: egli riporta che i gradini vennero rimossi dal vestibolo il 21 marzo 1811, fatti a pezzi e impiegati per le fondamenta di un edificio a Poggio Imperiale. Tale fu la fine ingloriosa del contributo del Tribolo. Fase 12. Dieci anni dopo l’episodio del Tribolo venne effettuato un nuovo tentativo per sapere da Michelangelo quale fosse la sua intenzione finale, e questa volta con successo. Il duca Cosimo affidò a Vasari il compito di persuadere Michelangelo a parlare. E Vasari ebbe da Michelangelo quella famosa lettera del 28 settembre 555 che venne per tanto tempo erroneamente interpretata87. L’enigma venne infine risolto da Panofsky88. Per ricostruire il progetto del 1555 Panofsky fece ricorso alla minuta della lettera, conservata nel codice vaticano, e prestò
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attenzione a due trascurabili schizzi a margine, di ridotte dimensioni. Dando per scontate le conclusioni di Panofsky, basterà qui descrivere l’aspetto di questo schema. Tre rampe (quella centrale con gradini ovati e le laterali con gradini diritti) convergono in un pianerottolo comune ai piedi della porta: l’ultimo gradino della rampa centrale è largo quanto la porta, ma la rampa si allarga scendendo. Il pianerottolo fa da ponte tra il muro e il corpo scala: in altri termini, c’è un passaggio libero inferiore grazie al quale l’intero basamento della parete rimane inalterato. L’esplicita indicazione di Michelangelo di lasciare intatto il basamento della parete89 porta ovviamente a scartare la soluzione del Tribolo. Michelangelo afferma di non fare una descrizione del suo vecchio progetto: «ma non credo che sia apunto quello che pensai allora». Ma qual è il vecchio progetto cui fa riferimento? Senza dubbio quello del 1533: la versione del 1555 concorda largamente con quella del 1533, ma differisce in due soli punti. Invece di introdurre la spaziatura di un pianerottolo intermedio, lo scalone sale senza interruzioni; e invece dell’ulteriore rampa singola che sale a partire dal pianerottolo, le rampe laterali ricoprono l’intero tragitto. Nella notazione prima menzionata, Michelangelo sembra confondere il suo progetto del 1533 con alcune idee precedenti. Come abbiamo visto, nei progetti del 1525 Michelangelo aveva preso in considerazione sia la possibilità di uno scalone interrotto da un pianerottolo sia quella di una rampa ininterrotta per tutta la salita. La sezione indicata nel disegno Casa Buonarroti 48 poteva riferirsi ad entrambe le soluzioni. La scala ininterrotta era tuttavia realizzabile solo nel caso di una parete non articolata nella zona inferiore, altrimenti sarebbe entrata in conflitto con i mensoloni90. Questo dilemma può rendere ragione del lungo ritardo nella realizzazione dello scalone.
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Fase 13. Passarono altri tre anni, e nel dicembre del 1558 il dibattito sullo scalone riprese nuovamente91: incaricato dei lavori era stavolta Ammannati. Nel gennaio del 1559 Michelangelo mandò un piccolo modello in terracotta in una scatola, con una lettera di spiegazione. Come nella lettera del 1555, il maestro si esprime negativamente riguardo ai tentativi del Tribolo e cerca di spiegare cosa avesse in mente a quell’epoca. Egli dice di ricordarsi che nel suo progetto originario (e indubbia-
5. Ricostruzione del progetto per lo scalone del 1555, fase 12 (da Panofsky).
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mente si riferisce ancora alla versione del 1533)92 una sola rampa giungeva all’altezza della porta: con questo Michelangelo si riferisce ad una singola rampa che parte da un ampio pianerottolo. Questo fatto, di fondamentale importanza, e l’ulteriore osservazione che solo la rampa centrale necessita di una balaustrata mentre quelle laterali devono essere fornite di un posto dove sedersi («un sedere») ogni due scalini, mostrano con evidenza il riferimento allo scalone cosí come oggi si presenta. Il maestro affida poi l’esecuzione di tutti i particolari al giudizio dell’architetto supervisore dei lavori. Panofsky ha risolto le difficoltà d’interpretazione che il testo presentava, spiegando le connessioni tra il progetto del 1558-59 e quello del 1555 e la congruenza, nel suo complesso, tra lo scalone realizzato e le intenzioni ultime di Michelangelo. Resta qui da aggiungere, a complemento dello studio di Panofsky, una descrizione precisa e analitica dello scalone: le seguenti osservazioni non erano state in precedenza riportate, né correttamente valutate. 1. Tutti i gradini centrali sono alti 18,5 cm, e quelli laterali 17 cm (fig. 6). 2. La profondità dei gradini centrali oscilla tra 41,8 e 43 cm (la maggior parte è di 42 cm); quella dei gradini laterali è di 43-44 cm.
6. Sezione di confronto tra i gradini della rampa centrale (a tratto e punto) e quelli delle rampe laterali (linea continua).
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3. I gradini al centro hanno alla base una modanatura alta 2 cm e profonda 0,3 cm, che manca ai gradini laterali. 4. Le estremità dei gradini centrali hanno una forma che impedisce di fatto un’organica connessione con la modanatura basamentale della balaustrata, o con quella dei plinti posti all’inizio e al termine della balaustrata. 5. I gradini centrali devono quindi adattarsi a forza a tali modanature, secondo le seguenti modalità: a) Nei punti di giunzione con i plinti sono state asportate piccole parti dei tre gradini piú bassi (il primo di questi presenta una curvatura meno accentuata). b) All’altezza dell’ottavo gradino è stato asportato un frammento di 5,5 cm per fare spazio al basamento aggettante del plinto superiore. c) Anche il nono gradino è interrotto per i cm su entrambi i lati. d) L’undicesimo gradino, il primo della rampa superiore, è coperto per 4,4 cm dal plinto posto sopra il pianerottolo. e) Il gradino ovato in cima alla scala risulta accorciato ai due lati per 4,5 cm per far posto ai plinti sommitali: il gradino viene resecato sul lato sinistro, mentre a destra è ricoperto sul versante anteriore e tagliato in fondo. 6. Il decimo gradino delle rampe laterali, che rigira ad angolo retto per collegare i ripiani laterali con quello centrale, mostra le seguenti peculiarità: a) La sua altezza è di 18,5 cm, ossia è uguale a quella dei gradini centrali e non a quella dei gradini laterali. b) Ha una modanatura inferiore uguale a quella dei gradini al centro (vedi sopra, 3). c) Il suo lato anteriore aggetta di poco rispetto al
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filo dei plinti: la sua superficie abbozzata e non rifinita su questo punto mostra che è stato ricavato da un gradino piú lungo, poi adattato all’attuale collocazione. 7. Il terzo gradino forma un ovale quasi completo, perimetrato da una scanalatura profonda 2,5 mm, a distanza di 6,5 cm dal bordo, che si interrompe sul versante posteriore, lasciando priva di scanalatura una distanza di 1,325 m. Il fatto che questo gradino forma un ovale quasi completo, che fa le veci di una sorta di pianerottolo supplementare, determina di conseguenza due piccoli triangoli di risulta compresi tra i lati del perimetro posteriore dell’ovale, l’attacco del gradino successivo e la base della balaustrata: questi triangoli sono stati riempiti con pezzi di marmo bianco che contrastano con il grigio-verde del macigno di cui è fatto il gradino. 8. Il quarto e il quinto gradino al centro (il primo e il secondo con le «rivolte») presentano degli intagli a forma di chiocciola entro le «rivolte», che non compaiono altrove. 9. Tra il gradino ovato in cima alla scala e la porta appaiono dei rappezzi di marmo bianco, simili a quelli del terzo gradino (vedi sopra, n. 7). Considerate complessivamente, queste osservazioni portano alle seguenti conclusioni: i. I gradini al centro sono stati eseguiti prima di quelli delle rampe laterali. Ciò si può dedurre dal fatto che i gradini laterali sono meno alti e piú profondi di quelli centrali (vedi sopra, n. 1), che rappresentano una fase precedente dell’elaborazione progettuale. Inoltre i gradini laterali, assieme alla balaustra e ai plinti, si adattano solo con difficoltà ai lati dei gradini centrali. ii. I gradini al centro, più antichi, appaiono collocati in
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una sistemazione che si adatta bene alla loro forma (nn. 4, 7, 9). iii.Tali gradini appaiono manifestamente in una veste non del tutto rifinita. Probabilmente solo il quarto e il quinto gradino, con i loro intagli a forma di chiocciola, si possono considerare completati. È anche probabile che la scanalatura del terzo gradino (n. 7) dovesse essere intagliata negli altri tre gradini ovati. iv.I gradini delle rampe laterali erano stati predisposti per lo scalone effettivamente realizzato, ma per il collegamento con la rampa centrale venne impiegato su ogni lato un gradino proveniente dal vecchio materiale e ridotto per adeguarsi alla nuova collocazione (n. 6). v. Tale considerazione concorda pienamente con una notizia riportata da Vasari ed altri, e finora trascurata: che, all’epoca della costruzione della scala, nel vestibolo si trovava una grande quantità di gradini già sbozzati93. vi.È chiaro che i gradini oggi in sito appartengono a due fasi distinte. Tutti i gradini centrali debbono essere datati al 1533-1534, e quindi bisogna considerarli realizzati secondo le dettagliate istruzioni di Michelangelo94, anche se questi sono proprio gli elementi la cui autenticità è stata messa in dubbio. Se il progetto di quell’epoca fosse stato eseguito, lo scalone sarebbe risultato nel suo insieme meno sporgente rispetto alla soluzione realizzata e si sarebbe presentato piú ripido e compatto. Non possiamo dire con certezza se l’idea di trasformare il terzo gradino in un pianerottolo risalga o no a Michelangelo. È comprensibile che dopo venticinque anni Michelangelo potesse non aver presente ogni dettaglio dell’opera: infatti sembra essersi dimenticato che alcuni gradini erano già stati realizzati, e comunque non aveva previsto di utilizzarli, dato che aveva anche proposto di realizzare in legno lo scalone. Ammannati tuttavia fece uso di questi elementi, affrontando in tal modo
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un compito non molto semplice. Egli doveva adattare i gradini già realizzati entro una sistemazione affatto nuova: questo spiega il completamento in marmo degli angoli dei gradini ovati, come pure tutte le altre difficoltà già esposte in dettaglio. A questo punto possiamo valutare con esattezza l’entità del contributo di Ammannati: suoi sono i balaustri e suoi i plinti95, come pure le volute decorative in cima alle rampe laterali, che convogliano lo sguardo verso il centro. Chi ha seguito questa esposizione dello sviluppo delle idee di Michelangelo per lo scalone noterà, nella costruzione portata a termine, elementi appartenenti ad ognuna delle fasi esaminate. L’idea del triplo scalone libero venne elaborata nell’aprile del 1525 (fase 6) e mantenuta nel corso di tutti i successivi sviluppi. Il triplice pianerottolo che dapprima doveva essere addossato alla parete di fondo, occupandola interamente (fase 3), portò all’irrealistica proposta della fase 5 per poi arrivare al pianerottolo esistente. L’idea dei gradini ovali al centro, che si protendono nel vano oltrepassando le rampe laterali, appare in un primo momento in forma di un vago accenno nella fase 4, mentre, dopo la fase 7, l’idea di far avanzare il centro rispetto ai lati resta costante. La prosecuzione della scala sopra il pianerottolo, con una sola rampa, appare già in nuce nella fase 3. Dopo la fase 6 il pianerottolo occupa una posizione approssimativamente intermedia, ma l’idea di una scala che arriva alla porta con tutte e tre le rampe resta ancora un’alternativa praticabile (fase 12). L’origine delle «rivolte» nella fase 6 è stata già analizzata. Tutti questi elementi, dalle origini lontane nel tempo, e che derivano da differenti concezioni dello scalone, appaiono alfine fusi in un magnifico insieme. Si potrebbe scrivere un capitolo d’estremo interesse sull’influenza esercitata dallo scalone: possiamo qui limi-
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tarci ad affermare che le varie fasi preparatorie alla soluzione definitiva ebbero un’eco piú vasta della stessa versione realizzata. In particolar modo le prime fasi del vestibolo ricorrono continuamente come un punto di partenza nei progetti di Buontalenti. Ancor piú rivelatori sono i casi in cui lo stesso Michelangelo torna inconsapevolmente ad alcune idee che avevano preso forma durante l’elaborazione dello scalone. Gli sviluppi piú notevoli ed imprevedibili di quella ricerca sono le fasi 7 e 8, dove le istanze d’ordine pratico vengono mano a mano assoggettate all’urgente affermarsi di idee astratte, perseguite nel loro autonomo valore. La stessa passione per configurazioni geometriche complesse e astrusi giochi di forme viene affermata in altri progetti realizzati da Michelangelo quello stesso anno, anche se con finalità totalmente differenti: le fortificazioni. Nel 1529 Michelangelo infatti ebbe l’incarico di sovraintendere alle opere difensive di Firenze: il criterio che lo guidava nella progettazione dei bastioni era quello di fornire un reciproco riparo per le varie linee di fuoco. Alcuni di questi progetti michelangioleschi possono essere confrontati solo con quelli per lo scalone: in entrambi i casi compaiono le stesse forme come gli angoli acuti della fase 7 (c) e le varianti delle «rivolte» dei gradini centrali. A volte la somiglianza è tale che, in mancanza di altre prove, non si saprebbe dire di quale progetto si tratti. Non è un caso che le stesse forme si trovino impiegate in ambiti architettonici tanto diversi come le scale e le fortificazioni: è infatti impossibile riscontrare altrove un grado cosí elevato di astrazione senza negare totalmente le ragioni funzionali di una costruzione. Ma in entrambi i casi Michelangelo seppe impiegare queste forme astratte come un punto di partenza per elaborare nuove forme, adatte a specifiche finalità pratiche.
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Progetti per una sala di lettura aggiuntiva. L’idea di creare dei piccoli ambienti, separati dalla biblioteca vera e propria, per custodirvi i più preziosi tesori della raccolta ed offrire un tranquillo luogo di studio, era presente sin dalle prime battute dell’impresa. Tra il 1524 e il 1526 tale idea andò incontro ad una serie di vicissitudini che possono essere qui ricostruite, anche se nulla di quanto previsto venne mai realizzato. Il 10 marzo 1524 risulta che doveva già esistere un progetto. In una lettera a Michelangelo, Fattucci si esprime infatti in questi termini: «Rimandovi la pianta della Libreria che s’à a fare, ed in capo della Libreria v’è segniato dua studietti, che mettono in mezzo la finestra, che si riscontra coll’entrata della Libreria; ed in quegli studietti (il papa) vole mettere certi libri piú secreti; e ancora vole adoperare quelli che mettono in mezo la porta»96. Gli «studietti» quindi dovevano inquadrare «in mezzo» da una parte la finestra in fondo alla sala e dall’altra il portale d’ingresso. Ciò può solo significare che si dovevano ricavare, in ognuna delle due terminazioni del prolungato rettangolo, due piccoli ambienti (per un totale di quattro, uno per ogni angolo). Questi avrebbero conferito al vano la forma di una croce greca, anche se le braccia della croce sarebbero state molto piú ampie dell’asse longitudinale, di modo che tale forma non sarebbe risultata evidente. La lunghezza della sala, sempre secondo la lettera del 10 marzo, è di 96 braccia (55,68 metri), mentre da un’altra lettera del 3 aprile 1524 risulta che gli «studietti» dovevano avere una lunghezza di sole 6 braccia (3,45 metri)97. Questo progetto venne senza dubbio abbandonato già ai primi di aprile del 1524, in favore dell’idea di una «crociera», ossia di un impianto cruciforme: idea che doveva apparire in un disegno di Michelangelo menzionato in una lettera di Fattucci spedita il 13 aprile da
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Roma98. Per quattro mesi la pianta cruciforme rimase parte integrante del progetto. Ma, il 2 agosto 1524, Fattucci scrisse una lettera riportando i voleri del papa: «Perrora non vole, che voi faciate la crociera, ma lasiate in modo che quando (si) lavora, fare si possa»99. Questo decretò di fatto la fine dell’impianto a croce. La documentazione rimastaci non è sufficiente per una ricostruzione del progetto a croce, che viene menzionato solo in un promemoria di Michelangelo antecedente al 3 aprile 1525 (forse dell’estate del 1524) nel seguente passaggio: «La croce facendo diciotto braccia (10,44 metri) per ogni verso e ’l vano d’ogni lato vi va di muro della medesima altezza e grossezza». Questa «croce» probabilmente non dev’essere immaginata, come riteneva Carl Frey100, al centro della sala, ma collegata al lato opposto all’ingresso. Si potrà valutare correttamente tale questione se si osserva l’edificio circolare progettato nel 1821 da Poccianti, che interrompe la Biblioteca nel senso della lunghezza come fosse il braccio di una croce, e che ne altera la continuità in modo cosí infelice. Tale tesi è convalidata dal fatto che all’idea della «crociera» seguí poi quella della «piccola libreria» che, senza alcun dubbio, doveva essere collegata al lato della biblioteca opposto all’ingresso. La terza fase è annunciata in una lettera di Fattucci del 12 aprile 1525, nella quale egli scrive: «circa la capella in capo la libreria (il papa) dice, non vi vole cappelle, ma vole, sia una libreria secreta per tenere certi libri piú pretiosi che gli altri»101. Cosí, prima del 12 aprile 1525 a Roma doveva esserci un progetto di Michelangelo dove la stretta parete sud della biblioteca si apriva in un vano denominato «capella», al posto del quale il papa voleva una «libreria secreta». Una traccia del progetto per la cappella è conservata in uno schizzo di Michelangelo. Nell’angolo in alto a sinistra del disegno Casa Buonarroti 89 compare la pianta di un ambiente rettangolare articolato da paraste e
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pilastri angolari, molto simile a ciò che potremmo definire una cappella. In precedenza, altri studiosi non erano riusciti ad accordarsi sul significato di questo progetto102, ma le linee che vengono prolungate in basso richiamano con forza alla mente i muri della biblioteca, e tale impressione è confermata dal fatto che nelle altre due piante vengono ripresi gli stessi muri: la pianta di destra mostra il vestibolo con la parte nord della biblioteca, e quella di sinistra presenta la stessa zona, ma senza divisioni tra vestibolo e biblioteca103. Dato che la pianta rettangolare in alto non può essere riferita al vestibolo, deve trattarsi dell’altra terminazione della biblioteca. Il foglio mostra quindi l’intero complesso progettato ai primi dell’aprile del 1525: le tre piante ovviamente debbono considerarsi contemporanee, dato che mostrano gli stessi muri perimetrali ripetuti tre volte piú o meno alla stessa scala. (Questo argomento, tra l’altro, ci permette di datare l’intero foglio, che è un documento fondamentale per la storia dello scalone, prima del 12 aprile 1525, poiché dopo quella data Michelangelo fu obbligato a rivedere il progetto per la cappella rettangolare). La versione definitiva della «piccola libreria» deve situarsi dopo il 12 aprile e prima del 10 novembre 1525, poiché in quella data Fattucci informava Michelangelo, scrivendo: «Io ebbi una (lettera) di Giovanni di Spina con certi disegni della pichola libreria, la quale mostrai a N. S., et dice, che vole, che la si facia, come avete disegniato»104. Tale versione dev’essere identificata in due fogli di Casa Buonarroti nei quali è raffigurato un vano in forma di triangolo isoscele: Non ci sono dubbi sul fatto che tale vano dovesse essere costruito oltre la stretta terminazione sud del salone, in quanto: 1) la «capella» prima descritta doveva porsi «in capo della libreria»; 2) una delle piante mostra un ingresso che mette in comunicazione la «piccola libreria» con la sala princi-
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pale, e presenta l’inizio dei muri est e ovest, dove compare la scritta di Michelangelo «e ’l vano della libreria»; 3) la scala in braccia in alto a sinistra nella stessa pianta c’informa che la larghezza dell’ambiente è di circa 17 braccia (9,86 metri), che è la larghezza pressoché esatta della biblioteca105. Il problema della priorità tra queste due versioni si può risolvere sia in base al grado di compiutezza dei disegni che alla natura della sistemazione dell’interno. La pianta allo stato di abbozzo è la prima, per le seguenti ragioni. I lati del triangolo sono suddivisi per mezzo di due paraste in tre rincassi poco profondi, dove il rincasso centrale è di poco piú largo di quelli ai lati, creando un tenue ritmo a-b-a. La semplicità dell’articolazione si accorda bene con quella del salone della biblioteca. Anche l’idea di includere i banchi con i libri nel progetto d’insieme è ripreso dal salone: questi sono disposti in modo da formare un passaggio che converge sulla nicchia centrale, in asse con la biblioteca. La «piccola libreria», in tal modo, è concepita come una naturale estensione del salone principale, il cui lungo asse mediano trova il suo logico culmine nel vertice del triangolo. Ma, proprio come avevamo visto per il vestibolo, un’idea che parte affermando un principio di unità organica si sviluppa poi in modo da produrre una differenziazione e separazione fra le parti. Questo stadio successivo, e probabilmente definitivo, è mostrato nel disegno piú rifinito106. Qui si possono notare, nel confronto con lo schizzo precedente, tre elementi trasformati. La ricca, plastica articolazione della parete ora crea un notevole contrasto con la sistemazione delle pareti nella sala maggiore; l’arredo, anche se continua ad essere allineato con i muri, non tiene conto della loro articolazione; e infine l’idea di una continuità assiale è abbandonata in favore di un ambiente indipendente, centralizzante e in sé concluso. Se, dalla biblioteca, si entrasse in tale
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ambiente non ci si sentirebbe piú condotti in avanti, lungo un asse ininterrotto: si arriverebbe subito contro il «banco tondo» in mezzo, che invece afferma un’idea di centralità, e dove l’asse si arresta bruscamente. Nel progetto precedente ogni lato del triangolo viene concepito come un’entità separata, mentre le nicchie semicircolari che arrotondano gli angoli sono chiaramente dissociate dai lati, e la nicchia di fronte all’ingresso esercita una sorta di attrazione magnetica sull’asse principale. Nella versione piú tarda i lati presentano nicchie simili a quelle agli angoli, rendendo impossibile una lettura separata di queste ultime. Dell’alzato proposto per le pareti abbiamo scarse nozioni. Solo nella prima versione esiste un piccolo schizzo di un interasse angolare, in alto a destra nel foglio. Tale progetto è un’evidente riproposizione del primo progetto del vestibolo nella sua versione finale, che può essere verosimilmente datato dopo il 12 aprile 1525. Sopra la nicchia del livello principale, inquadrata da un’ordinanza aggettante, si trova, come nel progetto del vestibolo, un alto attico con un’apertura circolare. Anche qui, come nel vestibolo, è prevista un’illuminazione indiretta: i piccoli triangoli di risulta, ricavati dai vertici del triangolo maggiore, dovevano servire da fonti di luce. Le scritte negli angoli della pianta successiva, «lume per di sopra», mostrano che le coperture di questi minuscoli spazi dovevano essere delle vetrate. La luce sarebbe passata per le aperture circolari sopra le nicchie per giungere nell’ambiente. Ma, come indica un’altra scritta sullo stesso foglio, doveva anche esserci un grande «occhio» vetrato nel mezzo della copertura del vano. Sia dal punto di vista artistico che da quello pratico, la «piccola libreria» avrebbe costituito il culmine dell’intero complesso. Il vestibolo con il suo scalone conduceva alla parte pubblica della biblioteca, e da quella si sarebbe potuto proseguire fino a entrare nello studiolo
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privato. La sequenza di forme (quadrato, rettangolo, triangolo) avrebbe dato luogo ad una progressione di geometrie. Due piccoli ambienti dall’articolazione fortemente rilevata avrebbero contenuto il vasto ambiente intermedio, scandito senza forti accentazioni. L’articolazione del vestibolo, dalla pianta approssimativamente quadrata, è basata sulla concentrazione di ogni parete sul proprio intervallo intermedio (a-b-a, a-ba, a-b-a). La vasta sala rettangolare presenta, in antitesi, una semplice alternanza che si potrebbe replicare all’infinito. Infine, nell’impianto centralizzante della «piccola libreria» tutte e tre le pareti sarebbero state collegate insieme, in una continua alternanza senza principio né fine (a-b-a-c-a-b-a-c-a-b). La «piccola libreria» non venne mai realizzata. Nella primavera del 1526, nel corso della costruzione del vestibolo, Michelangelo ebbe ancora una volta il placet del papa per il nuovo episodio, già concordato con Clemente VII il 10 novembre 1525. Ma il 3 aprile 1526 Fattucci riferí a Michelangelo che il papa desiderava che i lavori alla «piccola libreria» venissero intrapresi solo dopo il completamento del vestibolo. Tale dilazione presto si tramutò in un completo abbandono dell’idea. Già in quell’estate i fondi per la biblioteca vennero considerevolmente ridotti, e alla fine dell’anno iniziò una lunga fase di totale cessazione dei lavori108. Quando si riprese a lavorare, vennero presi in considerazione per il completamento solo gli episodi già iniziati, e dell’intenzione del papa di realizzare uno studiolo non venne piú fatta menzione. La necessità di un tale ambiente, nondimeno, continuò a sussistere, fin quando l’edificio circolare costruito da Poccianti all’inizio del xix secolo non offrí una soluzione al problema. A quell’epoca si era persa ogni traccia della tradizione connessa all’originario progetto, e Poccianti non aveva idea delle intenzioni di Michelangelo.
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Si può infine affermare che una muta testimonianza della «piccola libreria» esista tuttora. Alcune scritte nella seconda delle due piante in esame riportano che la parete ovest avrebbe sfruttato il muro della casa di Ilarione Martelli109. Era proprio questa casa ad aver determinato la forma triangolare dello studiolo, dato che traversava a sito in senso diagonale. Quel muro è tuttora esistente, ad eloquente testimonianza degli inevitabili condizionamenti e delle casuali necessità tramutate in logica architettonica da una fenomenale agilità mentale.
Le porte, il soffitto, i banchi, il pavimento. A partire dal 23 febbraio 1525 i lavori per il vestibolo procedettero secondo i progetti definitivi di Michelangelo. Questo vuol dire che tutti i restanti particolari architettonici vennero elaborati e messi a punto in quel mentre. Porte. Ci sono due portali principali: uno è l’ingresso al vestibolo dal chiostro e l’altro è posto tra il vestibolo e la biblioteca. Per conferire a quest’ultimo la forma definitiva, sul lato della biblioteca, Michelangelo doveva sapere che tipo di ambiente avrebbe fronteggiato il portale all’altra estremità della sala. Dopo il 3 aprile 1526, quando ricevette precise assicurazioni circa la realizzazione della «piccola libreria»110, Michelangelo poté iniziare a progettare il portale d’ingresso. Da una lettera di Fattucci apprendiamo che un disegno di Michelangelo per la porta pervenne a Roma il 17 aprile. Tale disegno probabilmente rappresentava solo il lato sul vestibolo, quello che doveva mostrare l’iscrizione. Il papa si professò ammirato del disegno, ma dovette esserci un ulteriore scambio di lettere per la targa commemorativa. Il 6 giugno Michelangelo ricevette indietro il disegno, anche se l’iscrizione non era ancora
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stata messa a punto111. Nell’autunno del 1526 i lavori si fermarono, senza che la porta fosse stata iniziata, e la situazione restò invariata fino al 1533. Nel contratto già menzionato, stipulato il 2o agosto di quell’anno tra Michelangelo e Simone di Jacopo di Berto assieme ai vari Lucchesini, vengono menzionate due porte da eseguire entro il marzo del 1534112. Si tratta senza dubbio delle due porte in esame, anche se solo una, quella d’ingresso alla biblioteca, venne realmente eseguita in quell’epoca. Per questo portale esistono vari schizzi di Michelangelo dalle ridotte dimensioni, oltre a dei progetti esecutivi completi per entrambi i prospetti. Tali disegni non sono stati realizzati l’anno del contratto, il 1533, ma all’epoca dell’originario progetto del 1526, come si può dimostrare esaminando alcuni profili del disegno Casa Buonarroti 53. I seguenti profili disegnati su questo foglio trovano riscontro nel prospetto del portale sulla biblioteca: 1) a sinistra del recto e in fondo al verso del foglio appaiono dei profili, pressoché identici, per gli angoli esterni del frontespizio triangolare che toccano la cornice; 2) a sinistra sul recto c’è una sezione praticata lungo la mostra del portale, nella versione poi realizzata; 3) in cima al verso c’è una sezione praticata lungo il frontespizio arcato. Tanto i profili del frontespizio triangolare che quelli della mostra concordano con quanto realizzato113. Solo il profilo del frontespizio arcato è differente. Il disegno è molto simile al corrispettivo profilo delle finestre subito sotto la volta della Cappella Medici, che serví come spunto per la ricca modanatura progettata in un primo tempo per il frontespizio in esame, anche se questo venne poi considerevolmente semplificato. Un appunto autografo di Michelangelo sul recto di Casa Buonarroti 53 rivela che questi disegni di profili dovevano essere dati al Ceccone come modelli. Francesco di Corbignano, detto il Ceccone, era alle
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dipendenze di Michelangelo in qualità di scalpellino durante gli anni venti del Cinquecento, specie nella Cappella Medici, anche se non figura tra le maestranze assunte nel 1533 per le porte. Il portale realizzato nel 1533, quindi, era stato disegnato nel 1526. Quali sono le sue peculiarità? Su un foglio di schizzi ora a Londra Michelangelo raffigurò entrambi i prospetti del portale. Sul recto figurano quattro studi per il lato sul vestibolo114 e sul verso un disegno in fase avanzata per il lato sulla biblioteca. Sin dall’inizio era evidente la volontà di creare un contrasto tra i due prospetti e i rispettivi ambienti su cui il portale si affacciava: il prospetto sul vestibolo doveva presentare un’incorniciatura piana e simile ad una fascia che faceva contrasto con le colonne del vano, mentre nel prospetto sulla biblioteca l’incorniciatura dava l’impressione di due colonne, in contrasto con le paraste. Michelangelo poi fa sporgere in alto la mostra su entrambi i lati, inserendola tra l’architrave e il frontespizio e formando un motivo che si potrebbe definire a «orecchie alzate». Tale motivo resta dominante nel prospetto sul vestibolo, mentre nel prospetto sulla biblioteca ricorre solo nel disegno in scala, ma scompare quando la porta viene realizzata. Lo schizzo preliminare del prospetto sul vestibolo preannunzia già in larga misura il disegno in scala Casa Buonarroti 98, e questo è a sua volta molto vicino a quanto realizzato115. Le differenze, anche se ovvie, sono comunque da segnalare. L’incorniciatura esterna presenta un profilo molto piú ampio nel disegno che nella realizzazione. La superficie compresa tra l’incorniciatura esterna e la mostra interna è quindi maggiore e piú marcata in realtà che nel disegno, e ciò acquista un particolare significato. La mostra del portale ha una propria cornice modanata, il cui effetto complessivo è di separare la mostra interna da quella esterna.
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Nel portale realizzato tale effetto di separazione è accresciuto rendendo l’incorniciatura esterna molto sottile e non piú uguale a quella interna. La funzione della superficie delimitata da queste modanature diviene chiara solo nella costruzione. Come abbiamo visto le «orecchie alzate» conferiscono uno slancio verticale alla mostra: sopra queste, sempre bordate dall’incorniciatura, si imposta il frontespizio, ma le piane superfici delle orecchie ostacolano con efficacia l’unione tra due elementi (mostra e frontespizio) che invece dovrebbero essere connessi. La relazione tra lo schizzo di Londra per il prospetto sulla biblioteca e il disegno in scala di Casa Buonarroti116 per lo stesso elemento non è stata finora riconosciuta. Nel disegno, come nello schizzo, la mostra del portale, dalle grandi mensole e dalle «orecchie alzate», è addossata ad una retrostante edicola con colonne. Nello schizzo è già accennato il duplice frontespizio, dove l’elemento arcato è inserito in quello triangolare. Il disegno in scala mostra solo il frontespizio arcato, mentre nel portale realizzato è il frontespizio triangolare ad essere inserito in quello arcato, con un rovesciamento dell’«armoniosa» combinazione dello schizzo che suggerisce un’idea di conflitto. La mostra realizzata nel prospetto sulla biblioteca concorda sostanzialmente con il disegno in scala, ma risulta ulteriormente elaborata per molti riguardi. L’attuale mostra è formata dalla seguente scansione di quattro piani in successivo aggetto: (a) un’edicola con colonne e un frontespizio arcato; (b) a ridosso dell’edicola, coprendo in parte le colonne, si trova un blocco massiccio che, possiamo immaginare, occupa idealmente l’intero spazio tra il frontespizio e il pavimento; (c) sulla parte superiore di tale elemento è posto un tratto di trabeazione che non ricopre l’intera larghezza del blocco e quindi non risulta organicamente connesso a questo. Il
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sovrastante frontespizio triangolare non sembra insistere sulla trabeazione, ma è piuttosto quest’ultima che sembra pendere dal frontespizio; (d) la bucatura, con la sua stretta cornice, sembra perforare il blocco. I primi tre strati, (a), (b) e (c), sono collegati fra loro tramite una modanatura che corre lungo il piano inferiore del frontespizio e rigira agli angoli di ciascuno strato. Gli strati (b) e (d), il blocco e la bucatura, vengono riuniti in questo modo: un rincasso verticale simile a un pannello, che arriva all’altezza dell’architrave, si fonde con la mostra interna, formando una piú ampia modanatura e rivelando la sua «vera» natura solo all’altezza dell’architrave, dove invece di proseguire in senso orizzontale si interrompe bruscamente. La separazione tra incorniciatura interna ed esterna, affermata in entrambi i disegni in scala e portata alle estreme conseguenze nel prospetto sul vestibolo, viene realizzata anche nel prospetto sulla biblioteca, ma con una differente finalità: la stretta cornice esterna della porta ricorre anche sopra l’architrave, come facesse parte del blocco in cui è inserita la porta. L’idea di una separazione tra le incorniciature compare ancora nelle piccole nicchie di forma approssimativamente quadrata poste sopra i tabernacoli, nel livello principale del vestibolo, stabilendo in tal modo un vitale nesso tra la porta e le partizioni con i tabernacoli117. Si era pensato che il portale d’ingresso al vestibolo dal chiostro fosse stato realizzato conformemente al contratto del 2o agosto 1533, ma non è cosí. La mostra sul versante interno era stata completata unitamente al livello inferiore del vestibolo (vedi oltre), mentre la mostra collocata fuori ha una storia sorprendente, che può essere ricostruita in dettaglio. Queste le fonti, in ordine cronologico: (a) Un disegno in scala di Michelangelo, Casa Buonarroti 95, databile tra la primavera e l’estate del 1526118. (b) Un disegno in scala agli Uffizi, 1925A, da attribuire
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con sicurezza a G. A. Dosio in base alla tecnica, e databile al 1550 circa119. (c) Un disegno accompagnato da uno scritto dell’architetto G. B. Nelli in una raccolta in vari volumi di disegni quotati del vestibolo conservata agli Uffizi, 3696A-3739A, con il seguente titolo: Opere d’Architettura di Michelangelo Buonarroti fatte per S. Lorenzo di Firenze misurate e desegnate da Giovan Batista Nelli al Serenissimo Ferdinando Principe di Toscana, con una dedica a folio 5 in data 10 aprile 1687120. (d) Il libro di Giuseppe Ignazio Rossi, La Libreria Mediceo Laurenziana, architettura di Michelagnolo Buonarruoti, Firenze 1739, a pagina 31 e alle tavole xx-xxii121. In base a tali fonti le trasformazioni della mostra posta all’esterno possono essere accuratamente ricostruite. Gli elementi che compongono la mostra vennero quasi tutti realizzati in conformità al contratto del 1533, ma non vennero messi in opera e rimasero a terra nel vestibolo. La concordanza del disegno di Dosio e della tavola xxii di Rossi con il disegno in scala di Casa Buonarroti indica che quest’ultimo riproduceva esattamente quanto stabilito da Michelangelo. Nel 1687 non era ancora stato fatto nulla, ma dopo poco tempo l’architetto Pier Maria Baldi venne incaricato dal Duca Cosimo III (1670-1723) di dare compimento alla porta122. Per qualche ragione a noi ignota Baldi non si serví del materiale già lavorato né del disegno in proprietà alla famiglia Buonarroti, ma si limitò, nel modo piú banale, a copiare la mostra presente all’interno coronandola con un frontespizio arcato. Dopo questo completamento del Baldi le parti lavorate del 1533, secondo Ricci si trovavano ancora nel vestibolo: poi, forse, condivisero la sorte degli scalini del Tribolo e vennero portate nel 1811 a Poggio Imperiale. Nelli e Rossi, che erano bene a conoscenza dello stile di Michelangelo, criticarono con ragione tale copia, che è in stridente contrasto con la propensione a differen-
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ziare gli elementi tipica di Michelangelo, e quindi sembra un affronto alla sua inesauribile immaginazione. La forma della porta nel disegno di Casa Buonarroti è in stretta relazione a quella delle finestre della facciata: in entrambi i casi predomina il motivo di una consistente fascia a forma di U rovesciata che recinge la parte superiore della mostra: un modo particolarmente efficace di separare la mostra vera e propria dal frontespizio. Tale soluzione è in contrasto con i due prospetti della porta della biblioteca dove l’unità tra mostra e frontespizio veniva spezzata da una poderosa spinta verticale nel lato del vestibolo, e da una zona neutra nel lato della biblioteca. Nel portale d’ingresso, invece, il fattore decisivo è rappresentato dal frontespizio, il cui peso schiacciante viene assorbito e deviato dal coronamento a morsa che isola la mostra. E, nonostante la sua sostanziale somiglianza con la conformazione delle finestre, questo portale presenta non solo dei nuovi elementi che esprimono la sua particolare funzione (paraste, gradini, targa con l’iscrizione) ma anche dei caratteri che mostrano un ulteriore sviluppo di idee rispetto alla fase delle finestre. Nelle finestre, già completate nella primavera del 1525, almeno un anno prima del disegno del portale, le mostre, le fasce a U e i frontespizi figurano come entità totalmente separate: risultato di una tendenza alla scansione in distinti piani orizzontali. Nel portale, invece, l’aggetto della fascia a U sopra i piedritti dà luogo ad una fusione verticale e ad un nuovo tipo di contrasto. Come abbiamo già visto, Michelangelo aveva preso in considerazione a un certo punto l’idea di impiegare la fascia a U rovesciata delle finestre della biblioteca anche per le porte all’interno, nel livello inferiore del vestibolo: lo si può riscontrare nella versione definitiva del primo progetto, completata tra la primavera e l’autunno del 1525. In un secondo tempo Michelangelo sviluppò una differente concezione. Le porte sono organi-
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camente correlate all’articolazione del livello basamentale e a quella dei tabernacoli (i capitelli, ad esempio, sono gli stessi), ma viene affermata l’idea di una separazione tra incorniciature interne ed esterne (già notata per quanto riguarda il portale della biblioteca e i pannelli sopra i tabernacoli) in modo affatto nuovo. Nel portale della biblioteca Michelangelo aveva introdotto una stretta cornice modanata tra le due mostre, per sottolinearne la separazione. Nel portale in esame un analogo effetto di separazione è ottenuto per mezzo dei piedritti ai due lati della porta: tali elementi irrompono a viva forza entro la mostra costringendo l’incorniciatura interna e quella esterna a disgiungersi. La cornice della porta della biblioteca e questi piedritti giocano lo stesso ruolo. Se si immagina di eliminare tali elementi il contrasto sparisce; se li si mantiene, le due porte divengono fortemente apparentate. Quando Baldi si limitò a replicare la mostra del portale all’interno sul fronte esterno, capovolse il processo del pensiero creativo di Michelangelo. La nostra analisi ha mostrato con quanta cura il portale all’interno fosse stato elaborato in relazione al resto del vestibolo: trasferire tale elemento all’esterno, con l’arbitraria aggiunta di un frontespizio arcato, comportò una totale perdita di significato. Il soffitto. Lo splendore che promana dall’ampia sala della biblioteca è in gran parte dovuto ai magnifici intagli del soffitto ligneo: un elemento che è dotato di un’autonoma vicenda storica. Sin dall’inizio, prima che i progetti fossero decisi in dettaglio, il papa richiese un soffitto speciale, di nuova concezione: il papa non voleva un normale cassettonato, ma «qualche fantasia nuova»123. Tale desiderio, espresso il 10 marzo 1524 e ribadito il 3 aprile, dev’essere stato immediatamente esaudito, poiché il 13 aprile Fattucci riporta che un disegno per il soffitto era piaciuto al papa124. Esattamente un anno piú tardi,
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quando i lavori per la biblioteca erano già in fase avanzata, il problema del soffitto si propose nuovamente. Come in precedenza, papa Clemente richiese un soffitto intagliato in bassorilievo di grande bellezza. Se non era stato preparato un qualche nuovo progetto, la prima soluzione dovette essere riproposta125. Dopo un altro intervallo di un anno, il 3 aprile 1526 il papa rese noti, ancora una volta, i propri desideri126. In giugno apprendiamo che si stava per iniziare il soffitto anche se il legname di tiglio non era ancora stagionato127, ma a metà luglio i finanziamenti vennero drasticamente tagliati e, con l’interruzione generale dei lavori nell’autunno del 1526, si smise di pensare alla costruzione del soffitto ancor prima che venisse iniziato128. Non si ebbero novità al riguardo prima del 23 agosto 1533, quando Sebastiano del Piombo scrisse da Roma che il papa voleva che si riprendessero in esame il soffitto e i banchi129: cosí il 1533 può essere fissato come il termine post quem, ma il soffitto realizzato mostra dei caratteri che fanno pensare ad una data ancora piú tarda. Ognuno dei lacunari maggiori al centro del soffitto ha una cornice ovale all’interno, con quattro crani di stambecco raccordati l’un l’altro da festoni. Agli angoli, gli spazi di risulta esterni tra l’ovale e a rettangolo maggiore sono occupati da coppie di delfini decorativi. I crani di stambecco e i delfini sono gli elementi che dominano la decorazione del soffitto e hanno, com’è prevedibile, un significato simbolico: sono infatti le insegne del duca Cosimo I, che iniziò a regnare nel 1537. Pertanto il termine post quem dev’essere spostato in avanti di quattro anni130. L’idea di conferire un senso simbolico al soffitto risaliva a Clemente VII («qualche sua fantasia overo Livrea»)131, ma dopo la sua morte l’idea continuò evidentemente a sussistere, e non deve sorprendere che le insegne di Cosimo I prendessero il posto di quelle del papa.
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Se i fatti stanno cosí, quanta parte del progetto spetta a Michelangelo? Nel 1534 Michelangelo partí per Roma e non fece piú ritorno a Firenze. Secondo Vasari132 il soffitto venne realizzato dagli intagliatori fiorentini Carota e Del Tasso133 sulla base degli elaborati di Michelangelo, e in effetti un disegno autografo di questo genere, in gessetto rosso ripassato in parte a matita, è conservato in Casa Buonarroti. Tale disegno mostra una fase preliminare del progetto ma fornisce una prova decisiva del fatto che la forma dell’attuale soffitto è, in grande misura, quella messa a punto da Michelangelo. Il disegno tuttavia differisce da quanto realizzato per alcuni dettagli. Invece dei delfini, agli angoli compaiono dei pannelli rettangolari incorniciati, che riprendono nuovamente il motivo delle nicchie poste tra le finestre. Ma il fatto di maggior rilievo è che, nel disegno, le proporzioni del soffitto sono totalmente differenti. Entro un’intelaiatura tracciata con la riga appaiono due modelli di lacunari, di modo che il disegno mostra il lacunare laterale e quello centrale inframmezzati dalle fasciature, mentre è sottinteso che l’altro lacunare laterale debba trovarsi sotto134. Ma in questo schema il lacunare centrale, invece di essere un rettangolo con il lato maggiore disposto in senso orizzontale come nel soffitto realizzato, è di forma quasi quadrata e di fatto è piú lungo in senso longitudinale. I bordi, poi, sono piú larghi e i lacunari ai lati presentano tre motivi decorativi, al posto dei due consimili poi realizzati. È impossibile cercare di accordare tale sistemazione all’articolazione delle pareti laterali della biblioteca. Se ipotizziamo, come sicuramente si deve, che l’ampiezza dei lacunari laterali e di quello centrale debba corrispondere alla triplice articolazione delle corte pareti terminali135, allora la loro profondità è la metà circa degli interassi dei lati lunghi della biblioteca. Secondo la logica del disegno, quindi, il ritmo dei
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lacunari del soffitto corrisponderebbe a quello dell’architettura solo alle due estremità della sala. Questo fu un fattore decisivo per cambiare tali proporzioni, e per coordinare la scansione del soffitto con quella delle pareti maggiori. Il soffitto realizzato costituisce un tutto unico con l’architettura, come raramente era avvenuto in precedenza. I consueti soffitti a lacunari di norma offrivano una copertura all’ambiente senza tener conto della sua articolazione, e lo schizzo michelangiolesco, con la sua intelaiatura fortemente accentuata, i suoi lacunari centrali pressoché quadrati e la sua dissociazione dalle pareti lunghe, appartiene ad un mondo molto piú vicino a quella tradizione se confrontato con il soffitto effettivamente realizzato136. Resta ora da determinare quanto tempo dopo il 1537 il soffitto venne costruito. Nell’analisi dello scalone avevamo notato che dopo un periodo di stasi iniziato nel 1537, i lavori ripresero solo nel 1549-1550. E sappiamo anche (vedi oltre) che il pavimento della biblioteca venne sistemato solo tra il 1547 e il 1554. Alla fine degli anni quaranta del Cinquecento si ebbe quindi una ripresa dell’attività costruttiva, e pertanto questa sembra un’epoca verosimile anche per la realizzazione del soffitto137. Tale lavoro deve situarsi poco prima della sistemazione del pavimento, non solo per motivi d’ordine pratico, ma soprattutto perché gli intarsi del pavimento in terracotta ripetono esattamente il disegno dei lacunari centrali del soffitto. Banchi. Sempre a quest’epoca, ossia intorno al 1550, potremmo datare i banchi, realizzati dagli altrimenti poco noti Battista del Cinque e Ciapino138. Già il 2 settembre 1524139 il papa chiedeva quanti banchi potevano essere sistemati nella biblioteca e quanti libri potevano essere collocati in ognuno di essi, ed aveva indicato nella Biblioteca Marciana l’esempio da seguire per la distanza tra un banco e l’altro. Nella primavera del
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1526140, quando si stava discutendo la realizzazione del soffitto, il papa aveva chiesto che i banchi fossero realizzati in noce, e il 6 giugno di quell’anno141 il legname era già messo a stagionare, anche se si trattava di tiglio e pino, e non di noce. Di nuovo, il 17 luglio 1533142, dopo un intervallo di sette anni, Sebastiano del Piombo rendeva noto il desiderio del papa di impiegare legno di noce di prima qualità, mentre il 23 agosto giunse, tramite Sebastiano, l’ordine di iniziare i lavori per i banchi143. Ma anche se il contratto fosse stato stipulato a quella data, difficilmente i lavori potevano essere iniziati prima della fine del 1534. Ho già detto che la stretta connessione tra i banchi e l’architettura della biblioteca è una delle piú felici idee dell’intero complesso. Questa intuizione era già pienamente figurata all’inizio del 1524, anche se non è stato conservato nessun disegno appartenente alle fasi iniziali. Tuttavia un disegno originale per l’alzato laterale di un banco esiste, e mostra l’impianto generale poi effettivamente eseguito144. Nella realizzazione vennero apportati solo dei cambiamenti di poco conto: gli intagli del fronte dei sedili non sono di grande qualità, e la loro concezione è mediocre145. Evidentemente la realizzazione dei banchi, a differenza di quella del soffitto, non venne affidata alle migliori maestranze disponibili. Pavimento. Senza dubbio l’area da decorare venne determinata dopo che era stata fissata la posizione dei banchi: grazie alle ricerche di A. Marquand146 si è potuto datare con sicurezza il pavimento intarsiato in un periodo compreso tra il 1547 e il 1554. L’opera venne interamente affidata a Santi di Buglione che, secondo Vasari147, si basava su disegni del Tribolo. Lo schema del pavimento rispecchia quello della volta, con alcuni motivi ornamentali in piú. Al centro, racchiusi in serti d’alloro, figurano gli anelli medicei intrecciati; dalle teste di
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stambecco pendono dei nastri, mentre altri emblemi di Cosimo sono sistemati lungo i bordi148. Vetrate. Per il completamento della biblioteca era prevista anche la decorazione delle finestre, che presentano vari emblemi di Cosimo I e Clemente VII realizzati con delle vetrate dai colori delicati e chiari, e distribuiti con mano leggera. Queste vetrate recano la data del 1568. La paternità del disegno viene generalmente ascritta a Giovanni da Udine, ma le vetrate, anche se di tipo molto simile alle opere di quell’artista, di certo appaiono troppo modeste per essere sue149. Dato che la biblioteca era stata completata in tutte le sue parti per iniziativa di Cosimo I, concordemente, per quanto possibile, con le intenzioni del maestro lontano, il duca poteva legittimamente lasciare memoria della sua impresa alla posterità per mezzo di un’iscrizione sopra il portale d’ingresso. E cosí fece, anche se adoperò per questo un cartiglio tipico del gusto «moderno» del 1570, che è l’unico elemento nell’ambiente a disturbare l’assoluto dominio delle concezioni formali di Michelangelo: BIBLIOTECAM HANC COS: MED: TUSCORUM MAGNUS DUX I PERFICIENDAM CURAVIT AN: DNI MDLXXI III ID: IUN
Aggiunte moderne e modifiche. Nel 1571 la biblioteca venne inaugurata e aperta al pubblico in una solenne cerimonia: in quello stesso giorno venne coniata una medaglia con l’immagine del duca Cosimo I su un verso e una porta (il portale d’ingresso alla biblioteca) sull’altro, con il motto PUBLICAE UTILITATI.
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Come abbiamo visto all’inizio di questo studio, la facciata del vestibolo rimase allo stato del rustico fino alla fine del xix secolo, mentre all’interno del vestibolo solo l’alzato del lato sud venne terminato fino alla sommità. All’epoca dell’inaugurazione, inoltre, il vestibolo venne completato con una gran quantità di pietre sbozzate, rimosse solo nel 1811. All’inizio del xix secolo, il granduca Ferdinando III era seriamente intenzionato a completare le parti non finite del vestibolo. Vennero innalzati i ponteggi e radunata la pietra necessaria, ma si dovette abbandonare l’impresa, a causa del non favorevole momento storico150. Passò quasi un secolo prima che i lavori potessero essere effettuati, e abbiamo già esaminato il loro esito non troppo felice per quanto riguarda la facciata. Due aspetti dei lavori realizzati nel 1904 meritano d’essere menzionati. La parete sud all’interno del vestibolo, l’unica portata a termine da Michelangelo, era priva di un cornicione. Rossi151 spiega nel suo testo che non esisteva alcun progetto per tale coronamento, ma suppone che dovesse essere simile a quello della biblioteca. Geymüller152 pensava che il cornicione mancante fosse stato completato «in base a dei frammenti conservati nel vestibolo, che non erano stati rimossi», ma era in errore. L’attuale cornicione è moderno, anche se è riuscito abbastanza bene: si tratta di una libera combinazione tra il cornicione della biblioteca e quello sopra il primo livello del vestibolo, che assume al suo interno integralmente le soluzioni di Michelangelo, con le stesse profilature principali raccordate dalle stesse ridotte modanature. La nuova cornice venne dapprima provata in legno e fotografata dalla Soprintendenza per documentare l’opera, e solo successivamente venne realizzata in base al modello. Restava poi da completare la copertura, per la quale non era rimasta alcuna indicazione di Michelangelo, né all’epoca della costruzione si
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avevano notizie più precise. Nel 1559 Ammannati sperava di avere da Michelangelo dei disegni sia per la copertura del vestibolo che per la facciata153, e non sappiamo se ebbe successo o no. Oggi, invece di un soffitto vero e proprio, c’è una copia su tela del soffitto della biblioteca: un vacuo sotterfugio che affievolisce in modo sostanziale l’energico impatto dell’architettura. Bisogna poi prendere in esame le costruzioni aggiuntive sorte accanto a quelle di Michelangelo. L’idea di ampliare la biblioteca doveva esistere già ad una data precoce. Nell’angolo nord-est del chiostro, quasi di fronte all’ingresso del vestibolo, si trova un portale in pietra di macigno sopra tre gradini, il cui stile mostra un’evidente affinità con il vestibolo. Nel libro di Ruggiero154 compare un’illustrazione del portale, con la didascalia «Architectura di Michelangelo Buonarroti». A chiunque abbia familiarità con lo stile di Michelangelo apparirà subito evidente che tale porta non esprime le idee del maestro. Qualcuno ha semplicemente ripreso il disegno del tabernacolo dell’interno semplificandolo: le membrature nettamente scandite dell’originale sono tradotte in uno stile morbido e privo di asperità. Tutto sembra indicare un architetto da individuarsi tra i seguaci di Michelangelo. Agli Uffizi è conservato un disegno di questa porta155, che si può assegnare con sicurezza al Dosio in base allo stile e alla grafia. Dosio fece molti disegni di parti del vestibolo: qui però non si tratta di una semplice riproduzione, ma di un progetto alternativo. Le scanalature della parasta di sinistra arrivano ad oltre metà altezza, come nei tabernacoli del vestibolo, mentre l’altezza delle scanalature a destra è molto minore. L’inevitabile conclusione è che la porta è stata progettata ed eseguita da Dosio, e non è azzardato attribuire a questi anche l’intero progetto, del quale il portale è solo una componente. La porta infatti dà adito ad una sala con uno scalone
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dagli ampi gradini nitidamente lavorati in macino: questo ambiente evidentemente non venne completato, e i lavori vennero presto abbandonati. Ma per quale scopo era stata concepita questa fastosa sala? Uno sguardo d’insieme all’intero complesso può fornirci la risposta. Sopra questo angolo del chiostro si trova una struttura che può essere interpretata solo come l’inizio di un piano aggiuntivo, che avrebbe interamente occupato a lato est. Senza dubbio, nella seconda metà del xvi secolo Dosio era in procinto di costruire un’altra biblioteca, parallela a quella di Michelangelo, sull’altro lato del chiostro. Un ampliamento della biblioteca divenne indispensabile nel 1792, quando il conte Angioli d’Elci fece omaggio a Ferdinando III della sua raccolta di ottomila volumi. Bisogna però aspettare trent’anni prima che Pasquale Poccianti venisse incaricato della costruzione dell’attuale Rotonda, che si apre a metà della lunga parete della biblioteca, sul lato ovest. Questo episodio rappresenta in realtà solo una piccola parte del progetto, ed è lo spazio minimo per ospitare la collezione d’Elci. Il ben piú grandioso progetto di Poccianti prevedeva un’altra biblioteca parallela (proprio dove doveva sorgere quella di Dosio), anch’essa con una rotonda che si apriva sul suo lato lungo, e un corpo di fabbrica che connetteva le due rotonde traversando il chiostro a metà156. La costruzione di Poccianti, per quanto eccellente in sé, è priva di relazione con l’originario progetto michelangiolesco. La teoria di paraste lungo la parete della biblioteca non tollera alcuna sorta d’interruzione. Oggi, invece, non solo è stato introdotto un ingiustificabile asse trasversale con l’ingresso alla Rotonda, ma sono state tamponate cinque finestre, con una forte diminuzione dell’originaria luminosità dell’ambiente, requisito primario per l’intero progetto. Infine l’interruzione nella scansione degli scrittoi altera la pianta, che era stata concepita con tanta accuratezza.
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Dopo il 188o le vecchie idee d’ampliamento di Poccianti vennero nuovamente prese in considerazione. Il nuovo corpo di fabbrica non fu però costruito sopra il corridoio est del chiostro, ma all’estremità sud, occupando il sito che Michelangelo aveva destinato alla «piccola libreria», ed utilizzando come ingresso la stessa porta della terminazione in fondo alla biblioteca. Questi nuovi ambienti, il cui innesto con la biblioteca taglia via senza alcun riguardo il suo angolo sud-est, non hanno fortunatamente alcuna conseguenza sull’interno, ma rappresentano un assemblaggio mediocre ed inorganico, e sono un duro colpo alle aspettative di chi proviene dalla biblioteca. Le conseguenze di tali ambienti moderni sulla costruzione di Michelangelo sono l’esatto opposto della Rotonda di Poccianti: brutti se considerati in sé, non alterano però l’aspetto della biblioteca.
Il vestibolo e il problema del Manierismo. All’inizio di questo studio ho mostrato come il cambiamento del progetto, che aveva comportato la sopraelevazione del vestibolo, doveva essere stato accettato controvoglia da Michelangelo. Ma, ad un livello piú profondo, credo che le osservazioni del papa avessero sospinto Michelangelo verso orizzonti che aveva già iniziato ad esplorare: una pressione esterna aveva dato via libera a idee che, nella fase del primo progetto, erano già nella mente del maestro. Il vano ha una pianta dall’approssimativa forma quadrata, e tale quadrato è quasi interamente occupato dallo scalone. Attorno a questo sono lasciati solo stretti passaggi. Al livello del piano inferiore è la massa dello scalone a dominare l’ambiente: il vano si presenta come un semplice involucro che racchiude la scala, la cui forma scultorea è inserita come un oggetto prezioso in
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una scatola, o una reliquia in una teca. Di solito le stanze sono create in funzione degli uomini: qui è stata creata una stanza in funzione di uno scalone. La concezione di uno scalone entro una scatola esclude la possibilità di un’unità organica tra scala e parete. La scala è semplicemente disposta a ridosso della parete: a quel livello tutte le modanature proseguono dietro lo scalone senza interrompersi, e tra i plinti superiori della balaustrata e la mostra del portale c’è un’interruzione tanto larga che vi si può far passare una mano. Se l’uomo e il vano fossero i veri protagonisti di questa scena, lo scalone sarebbe organicamente connesso alla parete. Se però guardiamo piú in alto, passando dal livello inferiore ai due superiori, non troviamo piú alcuna indicazione della funzione propria del vano di contenere uno scalone. Uno spazio di 11,50 metri s’innalza sopra di noi, senza che si possa cogliere la sua connessione con il nucleo scultoreo della scala. In altri termini, al livello inferiore le pareti sembrano avere la funzione di racchiudere la scala; sopra, l’ambiente sembra sussistere in modo autonomo. Sotto, la configurazione della scala determina quella del vano; sopra, l’ambiente segue leggi proprie157. C’è una dicotomia, ma l’architettura non fa niente per risolverla. L’articolazione parietale del vestibolo forma un’unità, cosí che i due differenti caratteri dell’ambiente non possono essere concepiti separatamente. L’osservatore avverte un incessante conflitto tra i due principî (le pareti intese come involucro di un nucleo scultoreo oppure come limite di uno spazio vuoto), dove non è possibile alcuna risoluzione. Il significato di quest’opera, quindi, risiede nel fatto che nessuna risoluzione è possibile: l’architettura è in perpetuo disaccordo con se stessa. Nella prima versione del progetto il sistema orizzontale dell’articolazione parietale consentiva ancora di concepire i singoli livelli dell’ambiente come entità separa-
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te. Le due opposte concezioni dell’ambiente sono qui già presenti, ma la scansione separata dei livelli, uno sopra l’altro, impediva ancora che questi entrassero in aperto conflitto. Prima dello scalone del vestibolo, tutte le sale consimili del Rinascimento italiano formavano un’assoluta unità spaziale. Le scale erano sempre a ridosso delle pareti, e l’idea di uno scalone libero non si era ancora presentata: tali soluzioni non dànno luogo a problemi di sorta. Il vestibolo della Laurenziana, affrontando una situazione del tutto nuova, si apre invece su nuove dimensioni. Questa è la prima vera sala con scalone, ed è all’origine di tutti gli analoghi ambienti del Barocco. Se in questo modo possiamo collocare tale episodio in una sequenza storica, non arriviamo però a definire il significato proprio di questa architettura. Michelangelo creò un tipo che venne ripreso dal Barocco, e per molti aspetti fu decisivo per il suo sviluppo: ma tale tipo si può definire di per sé Barocco? Abbiamo visto che un conflitto inconciliabile, un’incessante oscillazione tra estremi opposti è il principio guida dell’intera costruzione, e ciò che è vero per il tutto è anche vero per le singole parti. Ad esempio, è stato spesso notato158 che l’aggetto delle porzioni di muro è in contraddizione con le funzioni che sono proprie alle colonne e alle paraste. L’autentico compito degli ordini è infatti quello di sostenere il carico e articolare le superfici murarie: gli ordini, quindi, stanno solitamente davanti ad una parete. Ma qui è il muro che si pone davanti all’ordine. Questo fatto ha portato ad una lettura in termini di espansione del muro entro il vano: quelli che hanno dato una tale interpretazione hanno avvertito uno schiacciante senso di massa159. A mio giudizio, una piú autentica interpretazione di tale architettura deve partire dal fatto che l’abituale rapporto tra parete e ordine è qui semplicemente inverti-
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to. L’osservatore viene gettato, senza esserne consapevole, in uno stato di dubbio ed incertezza: egli avverte che pareti e ordini si sono scambiati le parti, e la sua immediata reazione istintiva è di ritenere ciò impossibile. L’intera articolazione parietale quindi mostra un conflitto che l’architettura non fa niente per risolvere. Questo non avviene nel primo progetto, dove il conflitto è ancora evitato. Le partizioni con i tabernacoli sono inquadrate da paraste, di modo che i rincassi con le colonne sembrano interrompere un piano parietale aggettante. Un’analisi della scala porta alle stesse conclusioni. Le rampe laterali sembrano inerpicarsi verso l’alto, mentre la rampa centrale presenta un moto inverso: i gradini scendono dalla porta della biblioteca, come in una cascata160. Nei punti di connessione tra le tre rampe le due direzioni cozzano. Salendo per una delle rampe laterali e giungendo al ripiano dove queste si riuniscono a quella centrale, si ha la sensazione di essere nuovamente sospinti in giú. Scendendo dalla rampa centrale sembra invece di sfidare la corrente contraria, verso l’alto, delle rampe laterali. Non c’è risoluzione: si è continuamente dilaniati tra il moto ascendente e quello discendente. Questo elemento di ambiguità viene introdotto solo dopo il mutamento del progetto: anche se la strada che porta in tale direzione è già preparata, Michelangelo evita di suggerire un contrasto tra la rampa centrale e quelle laterali. Dopo tale disamina è facile riscontrare lo stesso insanabile conflitto in ogni dettaglio161. La distinzione tra le mostre interne e quelle esterne può essere interpretata solo in questi termini. Alla fine siamo consapevoli che ad ogni elemento sono stati conferiti due differenti e inconciliabili significati. Nell’articolazione generale la sommatoria di livelli giustapposti uno sull’altro è rimpiazzata da una sistemazione verticale piú inten-
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sa e unitaria, e proprio lo stesso tipo di sviluppo conduce dalle prime finestre della biblioteca ai piú tardi portali. Resta ancora da dire qualcosa sui tabernacoli. Anche qui la funzione di ogni elemento architettonico è rovesciata. Le nicchie sono inquadrate da paraste rastremate verso il basso e sormontate da frontespizi triangolari o arcati. I relativi capitelli però non sembrano avere niente a che fare con tali paraste: infatti sono di gran lunga piú piccoli del dovuto e giacciono su un piano arretrato. Un capitello, di norma, si trova nel punto in cui la spinta verticale dell’elemento portante e la pressione verso il basso del peso sovrastante si incontrano: il cari-
7. Pianta del vestibolo che mostra la relazione tra scalone e pareti ( da Geymüller).
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co schiaccia e sospinge ai lati la sommità del sostegno. In questo caso, tuttavia, invece di sorreggere la trabeazione del frontespizio, i capitelli pendono da quest’ultima. Dato che i capitelli sono in quella posizione, si propende a priori a conferire ad essi il ruolo consueto: ma poi ci si rende conto che quella che si sta osservando è solo una forma svuotata del suo contenuto. E ancora: i triglifi, componenti della trabeazione dorica, pendono come gocce di rugiada sotto le paraste. Parte della nicchia vera e propria è cinta da una sottile modanatura, che viene proiettata sul piano di fondo della nicchia, poco sotto la sua sommità. In basso la nicchia prosegue sotto la modanatura, cosí da dare l’impressione di una scatola più piccola inserita m una più grande. Si ha la sensazione di poter tirare fuori dalla nicchia la scatola incorniciata lasciando al suo posto la nicchia piana. Ma se si osserva con piú attenzione ci si accorge che la superficie di fondo della nicchia in alto è complanare alla nicchia incorniciata: ovvero, l’impressione che vi siano due scatole l’una dentro l’altra è errata. Cosí, anche stavolta, un elemento ne smentisce un altro162. Se volessimo stabilire con piú precisione la posizione della Biblioteca Laurenziana nella storia dell’architettura dovremmo allargare il discorso, al di là dello stesso Michelangelo. Quell’ambivalenza che abbiamo indicato come carattere decisivo del vestibolo è un’individuale espressione del solo Michelangelo o può essere rinvenuta altrove? Siamo in grado di distinguere tale architettura in interno conflitto e contraddizione da un’architettura priva di tale carattere163? Esaminiamo pochi, semplici esempi164. In primo luogo l’altare a parete della cappella Gondi in Santa Maria Novella a Firenze, opera di Giuliano da Sangallo del 15o6. Il suo impianto è modellato su quello di un arco trionfale. Ogni parasta sorregge una propria porzione di trabeazione in aggetto. Le paraste interne sono
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chiaramente collegate a quelle esterne per mezzo di modanature continue all’altezza della base, dei capitelli e dell’architrave. Ma tali paraste, in modo altrettanto chiaro, sono anche collegate tra loro: inquadrando l’altare al centro e coronate da un frontespizio triangolare, queste formano un’edicola in sé compiuta. Un’intenzione evidenziata anche dall’echino decorato ad ovoli che corre lungo la cornice che aggetta al centro. In tal modo le paraste interne sono investite di un ruolo ambiguo. La scansione degli interassi ne risulta confusa, e l’osservatore non sa a quale di essi le paraste interne appartengano. Ogni tentativo di leggere questa architettura in base ad uno dei due sistemi conduce immediatamente all’altro. L’ambivalenza che qui notiamo è quindi sostanzialmente la stessa della Laurenziana: si viene a creare la stessa tensione, l’osservatore è lasciato con gli stessi dubbi. Questo tipo di architettura stimola l’occhio a muoversi, a vagare qua e là senza posa165: per esprimere questo fenomeno in una parola ho usato il termine «ambiguità». È importante comprendere che l’impressione di ambiguità suggerita dalla cappella Gondi e il duplice ruolo degli ordini che la compongono si distinguono sia dalla concezione rinascimentale che da quella barocca dell’architettura. Esaminiamo un tipico esempio rinascimentale, la disposizione degli ordini nella facciata di palazzo Rucellai, iniziata nel 1446166. Qui ogni interasse di ciascun piano e equivalente agli altri quanto ad altezza, larghezza e delimitazione. La completa identità di tutti gli interassi è una caratteristica fondamentale del progetto. Eccezion fatta per quelle agli angoli, ogni parasta può essere correlata ugualmente e indifferentemente ad uno dei due interassi che la affiancano. La ripetizione di tali accenti è essenzialmente autosufficiente, stabile. Non c’è ambiguità né movimento, e l’impianto si palesa a
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prima vista, mentre invece nella cappella Gondi richiede un’osservazione prolungata. Prendiamo ora in esame, come tipico modello barocco, la facciata di Santa Susanna a Roma, del 1597-1603. È questo forse il migliore esempio di facciata composta di piani parietali in successivo aggetto, con gli ordini che sottolineano tale movimento. Ogni interasse coincide con un piano della facciata. Laddove un piano (ossia un interasse) entra in contatto con il successivo, questo punto viene articolato con due ordini posti fianco a fianco. Invece della meccanica iterazione di palazzo Rucellai, la facciata di Santa Susanna si basa su un dinamico, vitale procedere verso il centro. Gli interassi che divengono piú ampi mano a mano che si approssimano alla sezione centrale, il trapasso dalla parasta alla colonna, la parete che presenta una quantità sempre maggiore di episodi, tutto segnala un crescendo, un accumulo di energie verso il centro. L’indubbio senso di moto è coadiuvato dalla chiara suddivisione in sezioni distinte. Un’indifferenza per questo aspetto, che a palazzo Rucellai non contava, è qui impensabile: ogni interasse dev’essere esattamente definito. In entrambi i casi (palazzo Rucellai e la facciata di Santa Susanna) interasse e ordine sono comunque chiaramente distinti: nel primo caso grazie alla completa identità tra unità indefinitamente ripetute, nel secondo per l’assoluta differenziazione di unità concluse e isolate. Gli ordini statici di palazzo Rucellai godono di un identico rango; quelli della dinamica facciata di Santa Susanna seguono un inequivocabile assetto gerarchico. La particolare ambiguità della cappella Gondi, con il suo dualismo di funzioni, è quindi ben distinguibile tanto dall’autosufficienza del Rinascimento quanto dal movimento del Barocco. Tale dualismo di funzioni, qui illustrato con un esempio piuttosto semplice, è una delle leggi fondamentali dell’architettura manierista. Da ciò
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dipende in grande misura l’effetto conseguito da Michelangelo nella Laurenziana. Tale principio può essere impiegato, in relazione agli ordini, secondo molteplici modalità, molte delle quali ben piú complesse che nella cappella Gondi: si può menzionare al riguardo la volta della loggia del casino di Pio IV nei giardini Vaticani, realizzata nel 1561 secondo i progetti di Pirro Ligorio167. Oppure lo stesso principio può essere impiegato in altri elementi architettonici, ordini a parte. Le mostre di porte e le nicchie del vestibolo sono esempi di primaria importanza al riguardo. Un esempio estremo delle possibilità cui può pervenire questa idea è l’articolazione parietale della Sala Regia del Vaticano, il cui progetto risale all’allievo di Michelangelo Daniele da Volterra, dopo il 1547168. In tutti questi casi i singoli elementi sembrano rivestire una duplice funzione, spezzando unità apparentemente coerenti e intrigando mente e occhi dell’osservatore con ambiguità e movimento. Come punto di partenza per chiarire un’altra legge fondamentale dell’architettura manierista possiamo prendere in esame la facciata di San Giorgio de’ Greci a Venezia, costruita dopo il 1536 secondo un modello di Sante Lombardi. Il piano inferiore segue l’impianto di un arco trionfale: in altri termini, le paraste laterali sono coronate da un proprio risalto, mentre una trabeazione aggettante e continua collega tra loro le due paraste al centro. Nel piano superiore le due paraste interne sono collegate a quelle esterne in modo da formare due edicole, mentre la zona centrale appare come una porzione muraria (con un rosone all’interno) priva dell’inquadramento degli ordini: una zona che potremmo definire «aperta». Nel terzo livello, che consiste della sola sezione centrale, le paraste sono, ancora una volta, collegate in alto. In tal modo, delle paraste poste l’una sull’altra risultano accoppiate secondo direzioni contrastanti, di modo che sopra le sezioni chiuse (ossia
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inquadrate dall’ordine) si trovano le sezioni aperte (delimitate solo dagli ordini delle sezioni adiacenti) e viceversa. Sezioni dello stesso tipo non si trovano mai l’una sull’altra. Ogni tentativo di trovare un asse verticale di partizioni equivalenti viene frustrato, dato che le paraste cambiano di senso ad ogni livello. Credo che questo si possa definire principio di inversione. L’inversione impedisce un’univoca lettura in verticale della facciata: l’occhio è condotto a vagare in alto e in basso, a destra e sinistra, e anche questo moto indotto può essere definito ambiguo. Il dualismo di funzioni produce un effetto di movimento ambiguo in un edificio di un solo livello, e un fenomeno di inversione in edifici di piú livelli. Spesso entrambi i principî ricorrono nella stessa costruzione. I due esempi di architettura rinascimentale e barocca mostrano con chiarezza che il principio d’inversione è estraneo ad entrambi i periodi. Sia a palazzo Rucellai che nella facciata di Santa Susanna gli ordini disposti l’uno sull’altro sono di eguale valore, cosí che la lettura delle facciate in senso verticale è priva di ambiguità. Nei due esempi manieristi, la cappella Gondi e San Giorgio de’ Greci, l’ambiguo movimento espresso negli ordini è relativamente indipendente dalla parete. Dualismo di funzioni e inversione hanno luogo su una superficie muraria continua: se si rimuovono gli ordini resta una parete integra e priva di articolazione. Questo però non significa che la parete non possa di per sé esprimere un movimento ambiguo. La facciata della biblioteca (una parte della costruzione che non è stata ancora approfondita) può servire da esempio in tal senso. La serie di finestre giace su un piano di poco arretrato rispetto all’uniforme superficie muraria sovrastante. Osservando il livello delle finestre si è portati a ritenere che il loro piano sia la parete vera e propria. Le «paraste» tra le finestre si presentano come una semplice arti-
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colazione di membrature che possono essere rimosse dal muro, come un telaio. Ma queste stesse «paraste» in realtà formano una superficie unica con il muro superiore, e questo ci porta a valutare le «paraste» come il residuo di un piano parietale avanzato, entro il quale sono stati ritagliati dei rettangoli per le finestre che lasciano solo lo spazio per queste sottili strisce. Il prevalere di una delle due interpretazioni dipende da come viene letta la facciata: se dal basso verso l’alto o viceversa. Si può quindi affermare che è la stessa parete a suggerire un’impressione di movimento ambiguo169: quello che sembrava il muro acquista l’effetto di un piano arretrato, e quella che sembrava una fila di paraste dà l’impressione di una parete. Come i principî di dualismo di funzioni e d’inversione rendono impossibile una chiara idea degli interassi se questi sono letti in senso orizzontale o verticale, allo stesso modo si resta incerti sull’autentica natura della parete in aggetto. Il dualismo di funzioni che è proprio della parete può essere definito permutazione170. Torniamo ad esaminare palazzo Rucellai e Santa Susanna. La parete di palazzo Rucellai è formata da un piano unitario, mentre quella di Santa Susanna è scandita da piani successivi, ma ogni piano è chiaramente definito e si estende ininterrotto per l’intera altezza dell’edificio. Quando si riscontra negli ordini o nella parete un tale conflitto interno, l’impressione è quella di un ambiguo movimento: dualismo di funzioni, inversione e permutazione costringono l’occhio a muoversi incessantemente avanti e indietro. La tensione connaturata a tale architettura è irriducibile: non c’è possibilità di equilibrio, di uno stato di quiete finale. Gli architetti italiani del xvi secolo trovarono infiniti modi di elaborare, variare e combinare tali principî. Un esempio particolarmente ingegnoso di tutti e tre i principî si trova nel modello di
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Bernardo Buontalenti del 1587 per la facciata del Duomo di Firenze. In nessun altro esempio, tuttavia, l’idea di conflitto è stata portata a compimento con altrettanta capacità inventiva, individualità e inesorabile coerenza che nel vestibolo della Laurenziana: idea che pervade tutta la costruzione, tanto nel suo insieme quanto nei dettagli. Nondimeno, se il vestibolo è un caso a sé, entra anche a far parte di una corrente artistica: è l’immagine suprema di uno stile che in quegli anni aveva fatto ovunque la sua comparsa; uno stile distinto tanto dal Barocco quanto dal Rinascimento. Questa corrente è il Manierismo, la cui origine, storia e significato non è qui il caso di approfondire171. Nell’accezione comune, il termine è impiegato per definire lo stile del periodo compreso tra il 1520 e il 1600. Nella letteratura piú antica sull’argomento, il termine è stato applicato esclusivamente alla pittura172. Ma in realtà gli stessi concetti sono egualmente validi sia per la pittura che per l’architettura. La «figura serpentinata» e l’oscillazione tra superficie e profondità si possono agevolmente assimilare ai principî di ambiguità, inversione e permutazione: l’identità dell’idea è evidente. Dopo aver insistito sulla distinzione tra architettura rinascimentale, manierista e barocca, bisogna però fare attenzione a non sottolineare troppo questo aspetto. Malgrado tali differenze, l’intero periodo che va dall’inizio del xv secolo alla metà del xix può con ragione essere concepito in termini unitari, e distinto tanto dal Gotico, che lo precedette, quanto dall’architettura moderna. Ciò che contraddistingue e unifica questi cinque secoli è uno specifico modo di concepire la struttura. Le strutture del Gotico si basano sull’intelaiatura dei sostegni verticali; i muri sono un semplice riempitivo degli intervalli tra i sostegni, e se si rimuovessero la struttura rimarrebbe in piedi per conto proprio. Nella
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seconda metà del xix secolo, il ferro, l’acciaio e il cemento cominciarono a cambiare la nostra concezione degli edifici. Ancora una volta, come nell’architettura gotica, troviamo qui essenzialmente una gabbia strutturale priva di muri. Ma durante il periodo in esame, compreso tra il sistema gotico e quello moderno, i muri costituiscono l’elemento principale: se li si rimuove l’edificio crolla. A loro è affidata la solidità della struttura: possono essere suddivisi e articolati dagli ordini (ossia dal sistema di colonne, semicolonne e paraste ripreso dall’antico), ma se tali elementi fossero rimossi il muro non rimarrebbe indebolito nel suo ruolo strutturale. Sia i muri che gli ordini possono naturalmente essere trattati nei modi piú diversi, ma sostanzialmente rientrano in due categorie: la prima rigida, inflessibile, conclusa in sé e statica; la seconda flessibile, tesa e dinamica. Nessuno ha mai scritto un’esauriente storia dell’architettura in questi termini, ma siamo abituati a immaginare tali categorie secondo una sequenza cronologica, con le opere d’architettura statiche del Rinascimento che portano a quelle dinamiche del Barocco. Certo, gli edifici statici si presentano agli inizi di quel periodo e quelli dinamici non prima della fine del xvi secolo, ma la concezione statica continua a convivere a fianco di questi ultimi, e alla fine del periodo torna nuovamente a prendere il sopravvento. L’architettura statica (palazzo Rucellai) non conosce alcun conflitto. Quella dinamica (Santa Susanna), con le sue masse che si compenetrano, l’inesausto moto, il cozzare di energie vitali, presenta incertezza e conflitto, ma reca anche in sé la risoluzione di quel conflitto. Entrambi i tipi di costruzione possono essere dotati di ambiguità, se muri e ordini sono configurati in modo da recare in sé due possibilità in contrasto, cosicché l’intelletto si trova di fronte a problemi cui non può dare risposta.
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Il concetto di ambiguità manierista può essere applicato sia a opere d’architettura statiche che dinamiche. Può essere limitato agli ordini senza investire la parete e viceversa (interno della biblioteca); può comparire in mostre di porte o finestre senza rapporto con la parete o gli ordini e in particolari decorativi. Oppure, come nel caso del vestibolo, può informare l’intera struttura. Ne risulta che esistono costruzioni che recano l’impronta del Manierismo in minore o maggiore misura, passando dai primi segni di dualismo di funzioni, appena percepibili, in Santa Maria di Loreto a Roma, per arrivare al modello di Buontalenti per il Duomo di Firenze. Per ogni costruzione manierista si pone un interrogativo: si tratta, in sostanza, di architettura statica o dinamica? Per quanto riguarda la Laurenziana, la risposta al quesito è che si tratta di un’opera fondamentalmente statica: nel vestibolo troviamo infatti un sistema di quattro pareti, e ognuna di queste è articolata in modo strettamente autonomo. A causa del rilievo, molto marcato in profondità, dei piani della parete, si è preteso di riconoscere nella Laurenziana un edificio barocco. È vero che a partire dal xvi secolo si verifica una tendenza generale ad emancipare la massa scultorea: una linea di sviluppo che raggiunge il suo punto piú alto nel Barocco romano, attorno al 1650, per poi dare luogo ad una tendenza inversa. Già negli anni venti del Cinquecento si registra uno sforzo per una disposizione di masse liberamente plastica (come nel palazzo Caffarelli di Raffaello, del 1515). Il vestibolo non è, quindi, un caso isolato, ma l’anello di una catena, anche se nessuno in precedenza aveva osato riversare una tale quantità di movimento in uno spazio cosí ristretto. Gli elementi fortemente plastici nell’architettura degli anni venti e trenta del Cinquecento sono in piena sintonia con quanto allora si verificava in pittura e scul-
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tura. Un tempo per descrivere tali fenomeni si era usato il termine di «protobarocco», cosa che ha portato all’errore di valutare il primo Barocco, affermatosi intorno al 16oo, come uno sviluppo diretto del protobarocco. In realtà tra questi due fenomeni c’è un solco profondo, anche se non è possibile in questa sede esaminare la questione in dettaglio. In architettura il problema è di operare una distinzione tra la struttura essenzialmente statica del protobarocco e quella fondamentalmente dinamica del Barocco vero e proprio. Abbiamo cosí stabilito le peculiarità, la posizione stilistica e l’importanza della Laurenziana. Riassumendo: 1) Il tipo del vestibolo è una creazione nuova, e in esso viene elaborata per la prima volta l’idea di uno scalone barocco. 2) L’inesausta tensione insita nell’edificio, tanto nell’insieme quanto nei dettagli, ci obbliga a distinguerlo sia dall’architettura del Rinascimento (priva di tensione, statica) che da quella Barocca (dinamica, ma che ha in sé la possibilità di offrire una risoluzione alla tensione). La Laurenziana appartiene ad un vasto insieme di edifici dotati di simili principî comuni tra il 152o e il 16oo, che possono essere definiti propriamente manieristi. 3) Gli elementi di conflitto nella Laurenziana, fondamentalmente, sono sviluppati partendo da un sistema rigido e statico. Non sembrano esserci, prima del 1550, opere d’architettura dalla struttura dinamica, dove pareti e ordini esprimano principî di movimento. Le concezioni che caratterizzano la Laurenziana sono applicate ad un’intelaiatura di base sostanzialmente rinascimentale, anche se 4) il gioco delle masse e il forte rilievo di tutte le componenti avvicina l’edificio al primo Barocco173. Ma sarebbe sbagliato trarre la conclusione che la Laurenziana presenta caratteri barocchi, mentre è chiaramente in linea con le costruzioni del primo Rinascimento. 5) Il carattere peculiare del vestibolo deriva dal fatto che un cosí forte rilievo e pareti articolate in
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modo talmente differenziato vengono impiegate in un ambiente cosí ridotto. È questo che produce l’effetto di schiacciante oppressione e la predominante impressione di energie in ambiguo conflitto. La Laurenziana si pone all’inizio di un modo totalmente nuovo di intendere l’architettura. Le idee qui formulate ed elaborate oltrepassarono di gran lunga quanto gli altri architetti avevano mai osato immaginare. E qui si trova la chiave per comprendere un vasto settore della storia dell’architettura inesplorato o male interpretato, e la spiegazione di molte cose che sarebbero avvenute nei due secoli seguenti e oltre.
appendice i Problemi costruttivi. La scelta del sito per la biblioteca non dipendeva solo dal numero di abitazioni dei monaci che doveva essere sacrificato (vedi Appendice iii), ma anche dai costi di costruzione. Il 13 aprile 1524 (Frey, Briefe..., p. 224) apprendiamo che il papa si sarebbe dichiarato soddisfatto solo «quando voi non abbiate arrifondare; perche non vole fare una libreria per avere arrifondare quasi tutto un convento». Il 29 aprile 1524 (ibid., p. 226) il papa non volle approvare il progetto presentato da Michelangelo di rafforzare i muri accrescendo il loro spessore di oltre un braccio, dato che quei muri dovevano sorreggere solo il tetto. Dopo tale episodio, la discussione sul consolidamento proseguí e Baccio Bigio venne chiamato per un parere. Il 13 maggio (ibid., p. 227) Michelangelo propose di aggiungere delle paraste sia fuori che dentro, per l’intera altezza della costruzione. Baccio Bigio, d’altra parte, propose di consolidare i muri della nuova costruzione
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aumentandoli della quarta parte verso l’interno, senza toccare affatto i vecchi muri e facendo gravare il quarto eccedente sulle volte. Fattucci suggerí che Michelangelo dovesse consultare degli specialisti sull’argomento. In seguito, Michelangelo elaborò un modo non troppo costoso per fornire di nuove fondazioni il retro dell’intero edificio (il lato est, fig. 2): Michelangelo addossò lungo tutto il muro alcune arcate sostenute da pilastri, che in tal modo assumevano il carico della costruzione soprastante. Il «disegno de’ pilastri» per cui Fattucci accusò ricevuta il 7 luglio 1524 (ibid., p. 232) va indubbiamente riferito a tali pilastri sul retro dell’edificio. Il papa approvò questa soluzione, e Michelangelo dette inizio ai lavori di fondazione. Il 17 settembre apprendiamo che l’esecuzione è affidata a Baccio Bigio (ibid., p. 236), lasciando Michelangelo libero di dedicarsi alle sculture della Cappella Medicea. Il 6 novembre (ibid., p. 240) alcuni pilastri risultano già realizzati. Come nella facciata, anche nella biblioteca le finestre giacciono su un piano arretrato, che è evidentemente il piano dei muri antichi. In riferimento a questo progetto il malevolo priore di San Lorenzo, Gigiovanni, irritato dalla sporcizia e dagli incomodi causati dai lavori, disse al papa che Michelangelo stava riducendo «la libreria in colombaia» 1° ottobre 1524, ibid., p. 237). In facciata (lato est), i chiostri facevano da contrafforte ai muri antichi e a quelli nuovi. Tanto nel lato ovest che in quello est la relazione tra interno ed esterno è chiaramente espressa. La gabbia strutturale della nuova costruzione è formata da pilastri collegati fra loro da muri piú sottili, e quindi piú leggeri. All’esterno questi sostegni appaiono in forma di piloni e all’interno di paraste. Con tale soluzione del problema costruttivo, il carico dei nuovi muri risulta considerevolmente diminuito.
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Sia fuori che dentro, le finestre sono poste su un piano arretrato. All’esterno, il muro continuo sopra le finestre fa blocco unico con i pilastri che separano queste ultime, mentre all’interno quella stessa porzione muraria risulta scavata, e quindi alleggerita, dai rincassi dei tabernacoli di forma quasi quadrata. Il 12 aprile 1525 Fattucci scrisse a Michelangelo (ibid., p. 250), riferendo che il papa aveva apprezzato le mostre interne ed esterne delle finestre, e anche i tabernacoli superiori all’interno: evidentemente Michelangelo aveva mandato a Roma un resoconto finale sui particolari dell’articolazione della biblioteca. Le finestre sul fronte esterno a quel tempo erano già in corso di costruzione (Ricordo del 3 aprile 1525. Vedi Milanesi, Lettere..., p. 597). In base alla lettera del Fattucci si può anche dedurre che la facciata, cosí come oggi si presenta, era considerata compiuta da Michelangelo, e che la porzione piana di muro sopra le finestre non doveva essere in alcun modo ornata. Sin dall’inizio si erano presentate delle particolari difficoltà per la stabilità dei muri del vestibolo. Sotto quest’ultimo infatti si trova la cappella del monastero, e dato che il vestibolo doveva essere piú largo della cappella, era senza dubbio necessario erigere un muro nella stanza adiacente alla cappella: muro sul quale attualmente poggia il lato sud del vestibolo. Sul retro del vestibolo (lato ovest) il rinforzo del muro aggetta di 34 centimetri oltre il filo esterno della biblioteca. Tale rinforzo poggia sopra le volte di una loggia quattrocentesca: su questa, all’epoca della costruzione di Michelangelo, si trovava una terrazza aperta, dalla quale si accedeva al tetto del vestibolo per mezzo di una scala a chiocciola (visibile sul disegno di Battista da Sangallo, e nel rilievo quotato del vestibolo di G. B. Nelli, Uffizi 3712A). Attualmente la terrazza è chiusa da una vetrata e da un tetto.
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Michelangelo consolidò anche il muro est, dandogli uno spessore maggiore rispetto al contiguo lato della biblioteca. Questo muro, tuttavia, aggetta solo di 11 centimetri rispetto al filo della biblioteca. Quando Michelangelo iniziò ad affrontare il problema del consolidamento del vestibolo, fu costretto a raddoppiare i pilastri nel punto in cui il filo del vestibolo sporge rispetto alla biblioteca. Questo raddoppio era anche necessario (come si può notare osservando la pianta) alla conformazione dell’interno. Tanto il lieve aggetto della facciata del vestibolo quanto la giustapposizione dei due pilastri, che interrompe la regolare scansione delle finestre in facciata, devono essere stati ben accetti a Michelangelo: questi elementi, infatti, rafforzavano l’effetto generale della facciata nella sua prima versione. Grazie a tale concezione della biblioteca e del vestibolo si è pienamente consapevoli della distinzione tra i due edifici, ma non al punto da compromettere l’unità del tutto. In questo modo veniva evitata la brusca sorpresa di scoprire dietro una sola facciata un interno suddiviso in due ambienti differenziati. L’omogeneità tra interno ed esterno raggiunta nella biblioteca risultava sin dall’inizio impossibile nel vestibolo, come si può osservare nella sezione di fig. 1. L’inevitabile discrepanza tra interno ed esterno comporta una relativa sottigliezza dei muri in alcuni punti. Fu evidentemente in considerazione di questo fatto che Michelangelo evitò di creare una massiccia struttura superiore. La maggiore sezione dei pilastri, nella parte superiore della costruzione, era concepita per sorreggere le pesanti travi del tetto. La piccola finestra al centro della facciata, visibile prima del rifacimento del xix secolo, necessita di una spiegazione. Si tratta di un’apertura piú tarda, praticata evidentemente in un’epoca in cui, per ragioni ancora oscure, le finestre dei muri nord e ovest vennero par-
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zialmente tamponate con mattoni. Questa finestra è posta troppo in alto per essere messa in relazione al progetto intermedio, ma d’altra parte è troppo in basso per il progetto definitivo. Per quanto riguarda il secondo livello dell’interno, solo la parete sud venne completata sotto la direzione di Michelangelo. Le altre tre pareti rimasero al rustico, e vennero terminate solo all’epoca del rinnovo del 1904. Solo cosí si può comprendere perché la finestra fosse stata aperta senza tenere conto dell’articolazione di quel livello: tale finestra, quindi, non può affatto essere associata alla costruzione originaria.
appendice ii L’elaborazione del foglio Casa Buonarroti 48. Le varie fasi dell’elaborazione di questo foglio si possono seguire passo passo. Michelangelo inizialmente tracciò il contorno formato dai lati e dalla sommità della parete. Quindi iniziò ad aggiungere in cima le linee della volta: tuttavia non continuò con l’attico ma definí il livello basamentale, entro il quale sistemò subito le due porte a distanza eguale dai lati della parete. Contemporaneamente alla porta di sinistra, venne aggiunta la sezione della scala. Solo a questo punto Michelangelo iniziò ad occuparsi dello spazio compreso tra la volta e il basamento, a partire dall’attico. Egli iniziò a tracciare l’articolazione dell’attico con eccessiva ampiezza di proporzioni, cosicché la partizione che doveva risultare in asse con la piccola finestra rettangolare nella volta venne a trovarsi un po’ troppo a destra. Il primo tentativo di segnare la partizione centrale è indicato da quella linea verticale che interseca il pannello circolare di sinistra. Il seguente interasse di
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destra, col suo pannello circolare, è molto piú largo, di modo che l’ultima partizione aggettante rettangolare doveva risultare in compenso piú ridotta per poter essere compresa entro il perimetro originario. Sebbene Michelangelo abbia efficacemente compresso tale elemento per farlo entrare in quel contorno, viene comunque a mancare metà della partizione arretrata con cui l’attico termina nel corrispondente lato di sinistra. Questa parte mancante viene poi aggiunta oltre il perimetro originario, e, per evitare difficoltà nello scandire il livello principale, Michelangelo prolunga fino in fondo la nuova linea di contorno. Si dovette poi aggiungere un simile prolungamento anche sul lato di sinistra, ma qui, logicamente, Michelangelo non disegnò la nuova linea perimetrale parallela alla vecchia, come aveva fatto a destra, ma secondo un angolo acuto. Da quel punto fino in fondo si acquistò uno spazio tale da rendere ancora una volta le mostre delle porte equidistanti dai nuovi contorni. Nel livello principale, disegnato da ultimo, si verificò ancora un cambiamento di scala in relazione all’attico. L’asse del tabernacolo centrale è slittato a destra rispetto alla corrispondente parte dell’attico, e la coppia di colonne che segue è spostata in modo ancor piú marcato rispetto alla partizione con il pannello circolare, che dovrebbe trovarsi esattamente al di sopra. Un netto restringimento dell’ultimo interasse con il tabernacolo poté ristabilire almeno in parte l’assialità con la corrispettiva sezione dell’attico, ma una parasta di quell’interasse e la colonna estrema dovettero essere disegnate oltre la linea perimetrale.
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appendice iii Le discussioni sul sito e l’inizio dei lavori. La discussione sul sito si pone all’inizio della progettazione della biblioteca. In questa appendice è stato raccolto tutto quello che, allo stato attuale, si può ricavare al riguardo dalle fonti documentarie. 1. Prima del 3o dicembre 1523 giunse a Roma un progetto per la biblioteca eseguito dall’aiuto di Michelangelo, il miniaturista Stefano di Tomaso (Frey, Briefe…, p. 201). Questa proposta prevedeva una suddivisione in due biblioteche, una per i libri in greco e una per quelli in latino (lettera di Fattucci del 2 gennaio 1524. Ibid., p. 204): il papa però richiese un disegno di mano di Michelangelo. Che questo primo progetto non fosse di Michelangelo e venisse spedito a sua insaputa è provato da una lettera autografa del maestro al Fattucci, del gennaio 1524 (Milanesi, Lettere..., p. 431, che è chiaramente in risposta alla lettera di Fattucci del 2 gennaio). In questa lettera Michelangelo afferma di non sapere niente della costruzione della biblioteca, ma che avrebbe cercato di saperne qualcosa al ritorno di Stefano da Carrara. Ciò porta alla conclusione che il primo disegno sia da ascrivere a Stefano di Tomaso, che poi avrebbe preso parte alle vicende della biblioteca. 2a. Il primo progetto di Michelangelo pervenne a Roma il 21 gennaio 1524 (lettera di Fattucci a Michelangelo del 30 gennaio, vedi Frey, Briefe..., p. 209). Dalla lettera di Fattucci si può arguire che Michelangelo aveva scelto per la biblioteca l’attuale ubicazione. Ciò è provato dall’espressione «... volta a mezodi», ossia orientata in senso nord-sud, come è ora la biblioteca. Il papa richiese, per evitare pericoli d’incendio, di creare delle volte nei due piani inferiori, e anche questo si può mettere in relazione solo con il sito attuale. Nella lette-
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ra di Fattucci del 9 febbraio (ibid., p. 211) viene esplicitamente affermato che il progetto doveva essere sistemato sopra il monastero. Dietro richiesta del papa, Michelangelo spedí a Roma delle piante accurate di entrambi i piani del monastero. Ne risulta che tale soluzione comportava la distruzione di sette ambienti al piano terreno e sette al primo piano. b. Clemente VII, sebbene avesse apprezzato il progetto, secondo la lettera di Fattucci del 9 febbraio, chiese egualmente che fossero elaborati dei progetti per un altro sito, dato che l’adozione di quella proposta avrebbe comportato la distruzione di troppe stanze del monastero. Apprendiamo dalla lettera alcune notizie circa il nuovo progetto: il papa «vorrebbe, che voi facessi intendere da Stefano o a chi vi paressi di quella libreria che va in sula piaza e inverso il borgo Santo Lorenzo, et vedessi per l’apunto quello che c’avano e preti o altri di pigione di quelle bottege et chase». Bisognava inoltre stabilire il prezzo che l’acquisto avrebbe comportato. Al fine di conservare integro il monastero il papa qui prevede di sistemare la biblioteca fuori dalle proprietà della chiesa, in quella strada che collega il Duomo a piazza San Lorenzo e che ancor oggi si chiama Borgo San Lorenzo. Il disegno Casa Buonarroti 81 (Frey 235; Thode, ii, p. 12, iii, n. 43) venne probabilmente concepito in relazione a tale progetto. Il disegno fornisce una pianta del sito con i nomi dei proprietari. Questa è la lista dei nomi dall’alto in basso: «l’osteria – di san Lorenzo – meser andrea martelli – una chapella in santo stefano – del bechuto – di san lorenzo – del bechuto – san Lorenzo». Vengono qui segnate, come era stato richiesto nella lettera del papa, le proprietà che appartenevano agli ecclesiastici e quelle dei privati. Di una chiesa di Santo Stefano in quei paraggi non si è trovata traccia. «Del Bechuto» è il nome di un’antica famiglia fiorentina (Orlandini del Beccuto), che possedeva
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già prima del 1432 un palazzo in quel quartiere (oggi Palazzo Vai: vedi Limburger, Gebäude von Florenz, 1910, n. 706; su Andrea Martelli vedi Frey, Briefe...,). I nomi sul foglio non forniscono indicazioni utili all’identificazione del sito. Thode vede in questo foglio la pianta delle case adiacenti al lato ovest della biblioteca e ritiene che la lista dall’alto in basso indichi un orientamento da sud a nord, ma entrambe le idee sono prive di fondamento. E altrettanto inverosimile è il tentativo di Frey di mettere in relazione il disegno con un passo di una lettera del 10 marzo 1524: «Circa le case che sono verso via della Stufa (il papa) dice che le vole gittare in terra...» Via della Stufa va in direzione nord, in linea con la facciata di San Lorenzo (tav. 2). La frase va quindi riferita alle abitazioni, ancor oggi esistenti, situate a ridosso del muro nord della chiesa, e che non hanno niente a che vedere con la costruzione della biblioteca. Questo chiarimento non sarebbe tanto importante se non si trattasse di una pianta del sito autografa di Michelangelo. Il 18 febbraio non era ancora giunto a Roma quanto aveva inviato Michelangelo. In una lettera di quel giorno Fattucci chiede a Michelangelo di inviare una missiva con i costi delle «bottege, case, camere che s’abino a guastare sotto et sopra» (Frey, Briefe..., p. 212). È lecito interpretare questo accenno come un confronto tra i costi dei rispettivi progetti? c. Alla fine di febbraio Fattucci accusa ricevuta di una lettera di Michelangelo (ibid., p. 213), ma dichiara di non volerla mostrare al papa, dato che non vi è riportato il numero delle stanze da distruggere: Michelangelo deve scrivere al riguardo ed eventualmente inviare degli schizzi. Dato che poche settimane prima si era parlato della distruzione di sette stanze sopra e di altrettante sotto, un nuovo progetto di Michelangelo doveva essere preso in esame a quel tempo: un progetto che comportava la distruzione di un minor numero di stan-
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ze. Michelangelo in tal modo tentava di venire incontro al papa per quanto riguarda la distruzione di parte del monastero, poiché era riluttante ad abbandonare il sito che gli pareva il piú opportuno per la biblioteca. Se la biblioteca fosse stata ubicata tra la piazza e Borgo San Lorenzo, a giudizio di Michelangelo la facciata della chiesa sarebbe stata sopraffatta dall’eccessiva altezza della biblioteca. Questo parere di Michelangelo può forse spiegare le parole di Fattucci: «piacegli (al papa) assai la vostra consideratione rispetto alla facciata di S. Lorenzo». Fattucci aveva prima affermato che Michelangelo poteva costruire la biblioteca dove desiderava. d. Michelangelo spedí due progetti a Roma, ricevuti il 10 marzo 1524 (Gotti, Vita di Michelangiolo Buonarroti, I, Firenze 1875, p. 165; vedi anche l’inizio della lettera in Frey, Briefe..., p. 216). Venne approvata una soluzione che prevedeva una biblioteca lunga 96 braccia (55,68 metri: l’attuale lunghezza è 58,40), cui si contrapponeva un dislivello di 6 braccia (3,48 metri: misura attuale, 3,04) per l’ingresso, e dove, infine, gli appartamenti dei monaci, che il papa voleva coprire con delle volte per renderli sicuri dagli incendi, si trovassero sotto la biblioteca. Tutti questi elementi portano a concludere che venne scelto un progetto concepito per l’attuale sito: un progetto che nella sua basilare suddivisione tra ingresso con scalone e biblioteca e, con buona approssimazione, nelle sue misure generali già concorda con quanto effettivamente realizzato.
Sono grato al comm. Giovanni Poggi per avermi accordato il permesso di accedere ai documenti. Un resoconto dei lavori allora in atto, in poche frasi generiche, è in «Arte e Storia», xxi (1902), p. 87. 2 H. von Gemüller, Michelagnolo Buonarroti als Architekt, München 1904, p. 26. All’epoca della publicazione il completamento era quasi 1
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano terminato. Nondimeno, Geymüller evita ogni riferimento in meri o, malgrado il fatto che Castellucci, l’architetto che aveva eseguito per suo conto il rilievo della Laurenziana, dirigesse i lavori di completamento in quello stesso periodo. La descrizione fatta da Geymüller della facciata incompiuta è passata finora inosservata. 3 N. 9411: veduta della facciata del vestibolo. La lastra non esiste piú e il numero di catalogo è passato alla fotografia della nuova facciata. N. 8434: veduta dell’intera ala est del chiostro. 4 È degno di nota il fatto che Geymüller, senza sapere nulla delle due fasi costruttive, avesse osservato una divisione orizzontale nel muro, poiché scrive (Michelagnolo cit., p. 26): «An der unvollendeten oberen Mauer des Vestibüls, welche auf eine älteren Mauer aufgesetz ist...» Infatti si possono notare, osservando la fotografia, due diversi tipi di laterizio impiegati, con un tipo di minor spessore nella zona inferiore, fino all’altezza del cornicione della biblioteca. 5 Questo spigolo è stato ricoperto dal moderno blocco costruito alla fine del secolo scorso, all’altezza della terminazione sud della biblioteca. Sopra il tetto della nuova costruzione si possono osservare due conci sommitali: tra questi e il cornicione si trovano sette ricorsi di mattoni. Forse anche su questo lato la costruzione dei conci angolari venne interrotta quando venne presa la decisione di sopraelevare il vestibolo. 6 L’effetto che Michelangelo intendeva conseguire è mostrato nella tav. 7. 7 B. Berenson, The Drawings of the Florentine Painters, London 1903, n. 1423, mette erroneamente in relazione questo foglio con la cappella Medici. Un’attribuzione corretta in Geymüller, Michelagnolo cit., p. 26, foglio 4, n. 5. Successivamente vedi H. Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen über seine Werke, Berlin 1908-1913, 3 voll., II, p. 124; C. Frey, Die Handzeichnungen des Michelangelo Buonarroti, Berlin 1908-1913, 3 voll., n. 234; Ch. De Tolnay, Die Handzeichnungen Michelangelos im Archivio Buonarroti, in «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst», v (1928), p. 402, fig. 20. 8 Si tratta di paraste, e non colonne come Thode afferma sempre. Lo si può riscontrare nelle piante dello stesso foglio; in modo particolarmente chiaro in quella in alto a sinistra. La forma dell’angolo raffigurata nella pianta in alto al centro è invece fuorviante, poiché, se il disegno fosse completo, le paraste sarebbero segnate accanto alle colonne sui due lati. La questione di fondo che pone il disegno è questa: le colonne binate che articolano la parete proseguono fin dentro l’angolo (e l’ultima colonna completa l’articolazione di ciascuna parete) o questa colonna terminale è sostituita da un pilastro? Questo disegno mostra con chiarezza che Michelangelo aveva già deciso in favore della seconda alternativa. In tal modo ogni parete forma un’entità separata e non una porzione di una sequenza ritmica continua.
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano Tolnay, Die Handzeichnungen cit., p. 402, suppone che in questa fase Michelangelo stesse prendendo in considerazione l’ipotesi di due porte disposte asimmetricamente al livello basamentale. Non c’è niente nella costruzione che giustifichi una tale ubicazione della porta di destra: dietro tutto il muro est si trova un terrazzo posto sopra una loggia quattrocentesca, che lasciava Michelangelo perfettamente libero di collocare le sue porte dove voleva. 10 Ibid., pensa che l’articolazione del livello principale prosegua nell’attico, ma non è cosí: infatti la diversa ampiezza delle sezioni aggettanti e arretrate che si alternano può solo generare un effetto di orizzontalità. 11 Geymüller, Michelagnolo cit., p. 26, l’unico autore che ha preso in considerazione il problema, scambia erroneamente i rincassi circolari dell’attico per finestre. Questo è impossibile, poiché dietro i rincassi circolari del muro est si trovano dei pilastri sul fronte esterno, mentre per i muri sud e nord delle aperture a quell’altezza sarebbero irrrealizzabili. 12 C. Frey, Briefe an Michelangiolo, Berlin 1899, pp. 268 e 270 sg. 13 Id., Die Handzeichnungen cit., p. 82, pensa alla «piccola libreria», che infatti doveva essere illuminata dall’alto (cfr. p. 45). Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., II, pp. 116 e 119, non prende una posizione chiara al riguardo. 14 Ci si riferisce chiaramente alla lettera di Michelangelo del 2 dicembre. Vedi Frey, Briefe cit. 15 Nell’edizione del testo a cura di Frey qui compare «et»: il senso richiede che la congiunzione debba essere «o». 16 Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., II, p. 116, riportando che il lucernario rappresenta la causa della sopraelevazione, offre una traduzione totalmente erronea di questo passo. 17 Vedi G. Milanesi, Lettere di Michelangelo, Firenze 1875, p. 597. 18 Dai resoconti, sommari al confronto, pubblicati da G. Gronau, Dokumente zur Entstehungsgeschichte der neuen Sakristei und der Bibliothek von S. Lorenzo in Florenz, in «Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen», xxxii (1911), Behieft, pp. 68 sgg., non si può ricavare molto circa il procedere dei lavori. Cfr. Appendice i. 19 Frey, Briefe cit., p. 274. 20 G. I. Rossi, La Libreria Mediceo Laurenziana, Firenze 1739, p. vii: «sarebbe la muraglia restata molto interrotta de’ vani, e conseguentemente priva del suo bastevol sostegno». 21 Frey, Die Handzeichnungen cit., tav. 21o; e Tolnay, Die Handzeichnungen cit., fig. 40. 22 Non è impossibile che i ricorsi in pietra grezza che si notano sulla facciata incompiuta costituiscano una testimonianza del progetto intermedio, ma questa interpretazione può essere proposta solo come un’i9
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano potesi di lavoro. Si dovrebbe supporre che Michelangelo, per alleggerire il carico della parte superiore della facciata del vestibolo nel primo progetto, avesse riempito gli spazi liberi tra i pilastri con pietra grezza invece di continuare a murare in mattoni. Questo riempimento in pietra grezza doveva arrivare fino all’altezza della cornice, per piú di due metri. Il fatto che il pietrame nella facciata incompiuta arrivi solo a metri 0,55 potrebbe sempre dipendere dal progetto intermedio. Le finestre sarebbero state aperte proprio dove finisce il pietrame negli scomparti centrale e di destra: si dovette pertanto iniziare a rimuovere il pietrame che riempiva gli scomparti fino all’altezza della biblioteca. Quando questi lavori si stavano attuando, intervennero i mutamenti dovuti all’ultima versione del progetto, cosicché nello scomparto sud è rimasto piú pietrame che negli altri due. 23 H. Wölfflin, Renaissance und Barock, nuova edizione a cura di Hans Rose, München 1926, p. 127, fig. 69. Nell’edizione del 19o8 questa facciata non era menzionata. Tolnay analizzò la facciata come fosse opera di Michelangelo in «Repertorium für Kunstwissenschaft» (1927), pp. 192 sgg., fig. 23, ma poi si corresse in Die Handzeichnungen cit., p. 433. Il completamento moderno della facciata non è stato notato né da Tolnay in U. Thieme, F. Becker, Allgemeines Lexicon der Bildenden Kunst, Leipzig 1907 sgg., xxiv, p. 25o, né da M. Marangoni, La Basilica di S. Lorenzo in Firenze, Firenze 1922, p. 79. 24 G. Gaye, Carteggio inedito d’Artisti nei secoli xiv, xv, xvi, Firenze 1839-40, 3 voll., III, p. 12. 25 Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., II, p. 124; III, n. 173. 25 Tolnay, Die Handzeichnungen cit., p. 402. 27 Il disegno venne eseguito tra il gennaio e l’aprile del 1524. Tolnay conclude, basandosi su questo progetto, che Michelangelo in un primo tempo aveva pensato di creare una libreria simile al vestibolo: in tal modo, però, inverte la successione dei progetti, che pure è documentata. 28 Su questa indicazione di un terzo livello la letteratura al riguardo non fornisce commenti. 29 Frey, Briefe cit., p. 279. 30 Tolnay, Die Handzeichnungen cit., p. 402. L’autografia del disegno non è mai stata messa in dubbio nella letteratura precedente. Vedi Marquard, Die Zeichnungen Michelangelos im Teyler-Museum zu Haarlem, tav. 12; e H. Wölfflin in «Repertorium für Kunstwissenschaft» (1927), p. 37. L’altro lato del foglio, con studi di gambe, non è di Michelangelo. La metà sinistra del foglio è quella che ci interessa maggiormente. Sul verso c’è una piccola pianta e l’alzato di una singola partizione della parete: disegni correlati tra loro e, sembra, collegati in qualche modo col disegno di sinistra.
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano La pianta in alto a destra non appartiene all’alzato aggiunto: venne disegnata piú tardi e mostra il progetto realmente costruito. Il fatto che nell’alzato le paraste siano sul versante esterno e le colonne su quello interno risulta evidente in base all’intera genesi progettuale della biblioteca e del vestibolo: le paraste sono sempre in posizione avanzata rispetto alle colonne. Vedi anche la nota 65. 32 Nel progetto molto piú tardo per le finestre del livello superiore, realizzato dopo la fase intermedia, Michelangelo riprese il motivo di mostra di questa fase. Va poi sollevato il problema se nel disegno di Haarlem siano previste finestre solo negli interassi esterni e nicchie in quelli al centro. Questa possibilità sembrerebbe convalidata dalle cornici diritte che tagliano la terminazione semicircolare sovrastante. È tuttavia piú verosimile che queste linee rappresentino dei pentimenti che riducono le finestre centrali ad un formato corrispondente a quello delle due esterne. Tale modifica non solo è congruente con gli sviluppi successivi, ma solo in questa fase la biblioteca può essere ricostruita supponendo una ravvicinata scansione di finestre. Lo stesso papa aveva richiesto il maggior numero possibile di finestre: vedi la lettera di Fattucci del 30 gennaio 1524 (Frey, Briefe cit., p. 209). 33 Sebbene vi siano alcune notevoli coincidenze tra le misure di Santo Spirito e quelle di questo alzato (che Geymüller però non menziona), il basamento rettangolare sotto la doppia partizione rende in realtà improponibile ogni riferimento a Santo Spirito. Se misurato secondo la scala di Santo Spirito, tale basamento sarebbe alto otto metri circa! 34 L’altezza della base secondaria, aggiunta a quella del livello principale del foglio di Haarlem, corrisponde approssimativamente a quella del livello gigante di Casa Buonarroti 89. 35 Thode e Frey parlano sempre di colonne giganti, e non di paraste giganti, ma si deve trattare di un errore. Vedi l’impiego piú tardo degli stessi motivi nei palazzi Capitolini. 36 Frey credeva, erroneamente, che sul foglio di Casa Buonarroti la parete giacesse tutta su un solo piano. L’analisi di Tolnay si può comprendere solo supponendo che anch’egli abbia commesso lo stesso errore (Die Handzeichnungen cit., p. 402, fig. 19). Vedi oltre la nota 53. 37 Non finestre, come credeva Thode, che qui sarebbero irrealizzabili. 38 Il basamento è qui lievemente piú alto in confronto con quello del foglio di Haarlem. Il tabernacolo della partizione esterna è chiaramente contrassegnato come tale dalle linee che lo completano in basso, e che non vengono replicate per le porte. 39 Una lieve diminuzione dell’altezza del basamento venne piú tardi tracciata sulle porte a sinistra e sul tabernacolo liberamente aggettante sulla superficie muraria. 31
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano Invece dell’ampio spazio assegnato a ogni colonna nella prolungata sala, le colonne qui vengono fortemente ravvicinate. Invece della serie di singole paraste aggettanti, l’effetto di concentrazione è qui conseguito riunendo le paraste in coppie, mediante la cornice aggettante posta sopra ogni tabernacolo. 41 Si confrontino questi studi con le basi delle colonne nel disegno Casa Buonarroti 48, con una sola ridotta modanatura concava. 42 Per il soggetto di questo disegno vedi p. 36. Il disegno casa Buonarroti 92 (tav. 2o), con schizzi per la scala, venne rovesciato e vi furono aggiunti non solo i due grandi disegni di modanature a sinistra, ma anche una porzione di basamento con una nicchia simile a quella del disegno British Museum 1895-9-15-5o8 (tav. 16). 43 Il foglio British Museum 1895-9-15-507, che un tempo si credeva riferito al vestibolo, è stato giustamente respinto da A. E. Popp, Unbeachtete Projekte Michelangelos, in «Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst», iv (1927), p. 405, nota 9. 44 E. Panofsky, Die Treppe der Libreria di S. Lorenzo. Bemerkungen zu einer unveröffentlichen Skizze Michelangelos, in «Monatshefte für Kunstwissenschaft» (1922), pp. 262-274. 45 Per la lettera del 10 marzo cfr. Appendice iii, 2d. La lettera riporta che il papa restava con «un poco di dubbio, e questo si è la scala per salire le sei braccia». Il dislivello tra vestibolo e biblioteca è infatti solo di poco superiore a cinque braccia. 46 Vedi Frey, Briefe cit., p. 226. 47 Tolnay, Die Handzeichnungen cit., p. 400, fig. 17. 48 Tolnay, siccome esclude l’autografia del disegno di Haarlem, trascura di conseguenza la connessione tra pianta e alzato. 49 Tolnay rammenta al riguardo la singola rampa di ripide scale che ricorre nelle corti d’epoca medievale (come nel palazzo del Bargello), e coglie la novità dell’idea di Michelangelo nel raddoppiamento di tale schema. Ma non è possibile considerare tale esempio come origine genetica della soluzione di Michelangelo. 50 Frey, Briefe cit. p. 250. 51 Frey, Die Handzeichnungen p. 71, considera incerto il riferimento della pianta al vestibolo. Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., II, pp. 121-22; III, n. 135, data correttamente la pianta all’aprile del 1525. Tolnay, Die Handzeichnungen cit., p. 407, nota 28, fig. 18, situa questa pianta, come anche quella dell’Archivio Buonarroti (ii), prima del 29 aprile 1524. Tolnay è stato il primo a cogliere la connessione tra la pianta Casa Buonarroti 89 e l’alzato Casa Buonarroti 92 (tavv. 18 e 29, in alto), ma data in blocco i disegni del secondo foglio «12 aprile 1525 circa», e in tal modo frappone un intervallo di circa un anno tra pianta e alzato, D’altra parte, nel suo articolo in Thieme-Becker, Allgemeines Lexicon cit., Tolnay afferma che l’alzato 40
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano di Casa Buonarroti 92 (tav. 19) sia stato eseguito, contemporaneamente alla pianta, prima del 29 aprile 1524, distinguendo cosí questo alzato dagli altri schizzi del foglio che vengono datati all’aprile del 1525. 52 Cfr. Tolnay, Die Handzeichnungen cit. 53 Il problema di come si presentasse la scala da associare all’alzato di tav. 15 è destinato a rimanere aperto. Mettendo erroneamente in relazione la pianta di tav. 18 e l’alzato di tav. 15, Tolnay, ibid., giunge a conclusioni di rilevante entità per quanto riguarda le concezioni architettoniche di Michelangelo. Secondo Tolnay l’effetto delle due partizioni centrali è quello di un raddoppiamento delle partizioni laterali, anche se (sempre secondo lui) il duplice interasse centrale è largo solo la terza parte di quelli ai lati (in effetti l’alzato di tav. 15 è articolato secondo un ritmo a. b (a + a). a, mentre nella pianta di tav. 18 il rapporto tra scalone e parete è a. b (a + 1/3a). a). Tolnay procede nelle sue conclusioni affermando che lo scalone posto a ridosso dell’interasse centrale sarebbe apparso piú largo del reale. Modificare una forma oggettiva con un tale accorgimento d’illusionismo ottico appare (a prescindere da questo caso, che può essere confutato su altre basi) in totale contrasto con le concezioni architettoniche di Michelangelo. Anche un’altra conclusione, a pagina 398 dello stesso articolo, giunge a conseguenze di portata altrettanto ampia basate su un’erronea analisi dei fatti. 54 Questa indicazione è già in Tolnay, Die Handzeichnungen cit., p. 405, fig. 22. In Frey, Die Handzeichnungen cit., figg. 164 e 165, e Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., II, p. 129, e III, n. 138, i disegni sono descritti in modo alquanto impreciso e disposti in un ordine errato. 55 Tolnay, Die Handzeichnungen cit., p. 4oo, interpreta l’alzato, già correttamente messo in relazione alla pianta da Panofsky, Die Treppe cit., pp. 262 sgg., come un triplice scalone libero che supera la concezione dello scalone doppio della fase 5. Contro questa interpretazione sta il fatto che l’ampiezza delle rampe laterali ha quasi lo stesso rapporto con lo spazio centrale che appare in pianta, mentre, dopo il progetto dello scalone libero, la distanza tra le rampe laterali diminuisce considerevolmente. 56 La soluzione dev’essere simile a quella usata da Buontalenti a Santo Stefano. 57 Tali misure sono ricavate, con una certa approssimazione, in base ai circa 3o cm di profondità dei gradini. 58 I ripiani esterni avrebbero avuto la forma di un trapezio, dal quale la scala che porta al ripiano centrale avrebbe tagliato via un triangolo scaleno su ogni lato. 59 Due gradini servono a pareggiare la profondità degli ultimi gra-
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano dini della rampa centrale, e uno serve a collegare tra loro gli ultimi gradini delle rampe laterali. 60 Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., III, n. 138. Vedi, al contrario, le corrette conclusioni di Frey in Die Handzeichnungen cit., p. 8o del testo. Per la comprensione dello schizzo di Michelangelo è necessario rilevare che, durante la stesura del disegno, si verificò un aumento di scala verso il centro. In conseguenza di tale cambiamento la rampa di destra non venne completata, per non far apparire l’intero scalone sbilanciato da una parte. Inoltre non dobbiamo trascurare il fatto che solo nell’atto di disegnare le idee dell’architetto giunsero ad una chiara formulazione: idee che si possono considerare nuove nella storia dello scalone. Il particolare del collegamento tra rampe laterali e rampa centrale raffigurato in alto a sinistra testimonia a sufficienza degli sforzi di Michelangelo per giungere a tale concezione. 61 Solo questo foglio, il n. 816, è pubblicato da Geymüller, Michelagnolo cit., p. 48, fig. 38; ibid., foglio 1464. Vedi Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., II, pp. 129-30; III, n. 244a. Frey, Die Handzeichnungen cit., nota a p. 8o, avrebbe poi fatto uso di questi fogli per ricostruire i progetti di Michelangelo, ma avanzando forti riserve nei loro confronti pur senza motivare tale opinione. 62 Vedi Geymüller, Michelagnolo cit., ivi; Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., ivi; Panofsky, Die Treppe cit., p. 265. 63 Sotto questo particolare appare la scritta «pianta». Queste due piante, come anche le altre, sono sempre disegnate come fossero viste dalla porta. Cosí anche la pianta originale di Michelangelo a tav. 21. 64 Folio 65r. Pubblicato da L. H. Heydenreich in «Mitteilungen des Kunsthistorisches Instituts in Florenz», iii (1931), p. 440, fig. 5. Vannocci annota «Scala di Michel Ango Buonarroti per la Libraria di San Lorenzo». 65 Il disegno di Lille venne pubblicato per primo da Geymüller, Michelagnolo cit., p. 47, fig. 37, che fa menzione anche del foglio di Vannocci. Vedi anche Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., II, p. 122; III, n.281. Il disegno di Vannocci a folio 3ov del taccuino è pubblicato da Heydenreich, in «Mitteilungen des Kunsthistorisches Instituts in Florenz», fig. 4. Questa fase della progettazione è illustrata con chiarezza nella pianta sul foglio di Haarlem, al centro a destra (tav. 15). Qui la scala ovale è situata contro il muro della biblioteca, mentre la parete del vestibolo è articolata secondo cinque interassi, con dei cerchi concentrici che probabilmente rappresentano l’oculo del lucernario. Tuttavia non insistiamo sull’autografia di questa pianta, né dell’altra pianta presente nel foglio. 66 Come nella pianta precedente, il rapporto tra la rampa mediana e le due laterali è di 2 a 1. È estremamente probabile che la giunzione tra rampa mediana e rampe laterali dovesse essere qui realizzata impie-
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano gando lo stesso principio dei giunti angolari della fase 8. È degno di nota il fatto che la rampa centrale reca scritto il rapporto di 1/3 mentre nella rampa destra è segnato 1/4, ma non è necessario concludere che la rampa mediana e le laterali ascendessero con ritmi differenti. 67 La soluzione ovale in realtà non è cosí praticabile come appare nella copia. Si è qui evitato di formulare una ricostruzione (anche se non sarebbe impossibile farlo), dato che le esatte intenzioni di Michelangelo non sono note. 68 Siccome doveva esistere un collegamento tra le due ali della scala (com’è stato segnalato anche per le fasi 3 e 5), le parti esterne del ripiano dovevano trovarsi all’altezza di circa due metri. Possiamo arrivare a proporre questa altezza anche partendo dal fatto che il ripiano centrale è posto al livello della cimasa del basamento, ossia a 2,6o metri, meno tre gradini di circa 20 cm l’uno: quindi a due metri. Il numero di gradini disegnato in queste piante mostra che Michelangelo non era solito precisare il numero esatto degli scalini, ma si contentava di indicarli sommariamente. 69 Michelangelo tralasciò di raffigurare nella sezione della scala la necessaria continuazione della pendenza sopra il ripiano. Questo conferma il fatto che Michelangelo, in certo qual modo, teneva distinti nella sua mente il triplice, complesso impianto inferiore e la singola rampa soprastante. 70 Quando Vannocci nacque, Battista da Sangallo era già morto da otto anni (1552). 71 G. Milanesi, Le lettere di Michelangelo Buonarroti, Firenze 1875, p. 707. Curiosamente, questo importante contratto è stato trascurato dagli studiosi di Michelangelo: lo troviamo citato (e non interpretato) solo in un’oscura opera di Gaetano Guasti, Bibl. Medicea Laurenziana, in Raccolta delle migliori Fabbriche antiche e moderne di Firenze disegnate e descritte da R. ed E. Mazzanti e T. del Lungo, Firenze 1876, pp. 22-23. Il termine «convento» è definito «Spazio tra due cose commesse come pietre, mattoni, legni»: vedi N. Tommaseo, Dizionario della lingua italiana, 1929, II, p. 619. 72 Nel testo del contratto non viene fatta esplicita menzione di tre rampe: una tale menzione sarebbe stata superflua. È evidente che le richieste specificate nel contratto riguardano la rampa centrale. 73 L’interpretazione del termine data da Panofsky, «tavole intagliate» corretta per altri contesti, sarebbe qui priva di senso. Die Treppe cit., 262 sgg. 74 «Rivolta» è un termine che ricorre spesso in senso simile nel xvi secolo. Vedi Tommaseo, Dizionario cit., V, p. 429. 75 Panofsky, Die Treppe cit., come anche altri, crede che questa forma di gradino risalga ad Ammannati. Tolnay, d’altra parte, ravvisa giustamente il legame tra la configurazione definitiva del gradino e la
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano fase 6 e avalla quindi la sua autenticità, anche se ritiene tale forma un’invenzione dell’ultima fase progettuale del 1559. 76 La fase 9 è stata analizzata in un manoscritto inedito in Festschrift für Adolph Goldschmidt, 1933. 77 G. Vasari, Le Vite de’ piú eccellenti architetti pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, ed. a cura di G. Milanesi, 9 voll., Firenze 1878-1895, VII, p. 236. 78 bid., VI, p. 92. 79 Milanesi, Le lettere cit., p. 550, nota 2. Vedi Thode, Michelangelo: Kritiscke Untersuchungen cit., II, p. 117, e C. Frey, Der literarische Nachlass des Giorgio Vasari, München 1923-1940,3 voll., I, p. 416. 80 Lettera di D. Giannotti a Lorenzo Ridolfi in data 8 agosto: «... sono addosso a Michelangelo, e ... spero fargli fare un disegno per quella scala...» Vedi E. Steinmann, Michelangelo im Spiegel seiner Zeit, Leipzig 1930, p. 4, n. 81. 81 La datazione di questa parte dell’edificio è rimasta finora incerta. Solo Thode propone una datazione corretta (Michelangelo: Kritische Untersuchun en cit., II, p. 117): il 1549. Frey, Der literarische Nachlass cit., I, p. 402, nota, data il viaggio del Tribolo a Roma al 1545 circa, mentre A. E. Popp, Die Medici-Kapelle Michelangelos, München 1922, p. 118, crede che sia avvenuto molto prima, tra il marzo e il dicembre del 1538. 82 Nella recente letteratura si può trovare un riferimento alle condizioni della parete solo in Panofsky, Die Treppe cit., p. 272, senza che venga offerta una spiegazione al riguardo. 83 Tuttavia, nella fotografia di tav. v dell’opera di Geymüller si può vedere in questo punto un’ampia cavità (almeno sul lato sinistro della scala che è nell’illustrazione). Alcune persone anziane affermano che, da entrambi i lati, le due impronte superiori dei gradini sul muro vennero create quando furono riempiti dei grandi buchi. Forma e dimensioni dei buchi indicano che dovevano esserci stati proprio due gradini su ogni lato. 84 Torelli, nella sua lettera del 1550 prima menzionata, era in grado di affermare che il modello di Michelangelo per i gradini era nella stanza dove sarebbe morto Andrea Sansovino. Dato che Sansovino morí nel 1529, bisogna fare riferimento a un modello del 1525-26 e non al piú tardo modello del 1533. 85 Vita di Michelagnolo Bonarroti, stampata in parti separate nel 1759-6o, p. 53, nota. 86 D. Moreni, Continuazione delle memorie istoriche... di S. Lorenzo, Firenze 1816, I, p. 252. 87 La lettera di Michelangelo è in Vasari, Le Vite cit., VII, p. 237, e poi Milanesi, Le lettere cit., pp. 548-49, con l’inesatta data del 1558. Il frammento della minuta di questa lettera è in Cod. Vat. 3211, folio
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano 87v, pubblicato per primo da C. Frey, in «Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen», iv (1883), p. 40. Lo scritto era allegato ad una lettera a Lionardo Buonarroti, che doveva leggerlo e poi trasmetterlo a sua volta. Pubblicato in Milanesi, Le lettere cit., p. 312 (con la corretta data del 1555) e in Frey, Der literarische Nachlass cit., I, pp. 415-17, con esaurienti annotazioni filologiche. 88 Panofsky, Die Treppe cit., p. 262, per il confronto tra il frammento e la lettera. Anche in Frey, Der literarische Nachlass cit., I, pp. 419 sgg. 89 «... che l’imbasamento del Ricetto non sia occupato in luogo nessuno et resti libera...» 90 Vedi anche Panofksy, Die Treppe cit., p. 271. 91 Del carteggio su tale argomento si sono conservate le seguenti lettere: 16 dicembre 1558, Michelangelo a Lionardo Buonarroti a Firenze (Milanesi, Le lettere cit., p. 344). Riguarda la preparazione e la spedizione del piccolo modello in terracotta dello scalone: si fa anche riferimento ad una lettera perduta di Ammannati. 23 dicembre 1558, Ammannati a Michelangelo (Frey, Briefe cit., pp. 358-9). Ammannati ringrazia Michelangelo per il modello che sta per spedire tramite suo suocero, G. A. Battiferro. 7 gennaio 1559, Michelangelo a Lionardo Buonarroti (Milanesi, Le lettere cit., p. 348, con data inesatta). La domenica successiva Michelangelo spedirà da Roma il modello. 13(?) gennaio 1559, Michelangelo ad Ammannati (ibid., p. 550, senza data). Importante lettera di spiegazione allegata al modello. 14 gennaio 1559, Michelangelo a Lionardo B. (ibid., p. 349, con data inesatta). Il modello è partito da Roma a giorno prima. 29 gennaio 1559, Ammannati a Michelangelo (Frey, Briefe cit., p. 359). Ammannati ha ricevuto il modello. 18 novembre 1559, Ammannati da Firenze al duca Cosimo (Gaye, Carteggio cit., III, pp. 11-12; Panofsky, Die Treppe cit., p. 268). Ammannati manda il modello a Pisa richiedendo l’approvazione di Cosimo. 19 novembre 1559, Francesco di Ser Jacopo da Firenze a Cosimo (Gaye, Carteggio cit., pp. 12-13). Spiega la lettera di Ammannati del giorno prima. 22 novembre 1559, Cosimo manda una risposta, da Pisa, ad Ammannati (ibid., p. 13). La scala va costruita seguendo il modello. Un’eguale informazione perviene lo stesso giorno a Francesco di Ser Jacopo (ibid., pp. 13-14). La proposta di Michelangelo, avanzata in una lettera del 13 gennaio, di costruire lo scalone in legno di noce è respinta da Cosimo. Vedi anche Frey, Der literarische Nachlass cit., I, p. 418. 92 La spiegazione di Panofksy, Die Treppe cit., p. 270, è inesatta in quanto l’autore non era a conoscenza della fase del 1533. 93 Vasari, Le Vite cit., VII, p. 236: «... scala, della quale Michelagnolo aveva fatto fare molte pietre». Si legge poi nella lettera di Torelli del 1550: «... et intendo ch’erano lavorate tutte le pietre, excetto il primo scaglione».
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano Ci devono essere stati alcuni cambiamenti nel progetto del 1533 prima esaminato, poiché solo sette gradini con le rivolte vennero effettivamente realizzati a quell’epoca. 95 Per questa sola ragione l’identificazione dello schizzo Casa Buonarroti 37Av (Tolnay Die Handzeichnungen cit., p. 433, fig. 39) con un plinto non è sostenibile. 96 A. Gotti, Vita di Michelangiolo Buonarroti, Firenze 1875, I, p. 165. 97 Fattucci a Michelangelo: «... et fate, che in testa della libreria venga una finestra in mezo di due studioli di circa sei braccia l’uno, come è disegniato nell’altra, et dua altri che mettino in mezzo a porta» (Frey, Briefe cit., p. 221). 98 Vedi la lettera di Fattucci a Michelangelo del 13 aprile 1524 (ibid., p. 224). 99 Ibid., p. 234. 100 Frey, Die Handzeichnungen cit., p. 81 del testo. 101 Id., Briefe cit., p. 250. 102 Thode crede che questa pianta sia uno schizzo per una parte del soffitto della biblioteca, mentre Frey la ritiene una pianta per la cappella Medicea. Tali identificazioni sono inesatte, come anche quella di A. E. Popp (Die Medici-Kapelle cit., p. 168), che pensa trattarsi di un ambiente laterale della cappella Medicea, dove Michelangelo per un certo periodo aveva intenzione di collocare la tomba del papa. L’opinione di Popp si basa sulla lettera di Fattucci del 7 giugno 1524 (Frey, Briefe cit., p. 230), ma basta a smentire tale ipotesi il fatto che la pianta dell’«ambiente laterale» è perimetrata a sinistra da un muro che costeggia contemporaneamente anche la presunta cappella Medicea. Vedi anche Popp, Unbeachtete Projekte cit., p. 391, nota 3. 103 Prima del corto muro nord sono indicati nel disegno pochi gradini: si tratta del collegamento che sale al livello superiore del chiostro e che ancor oggi costituisce l’accesso alla Laurenziana. Il chiostro è altresí indicato da alcune linee a destra. Gradini e chiostro compaiono anche, sommariamente accennati, nella pianta con il vestibolo. 104 Frey, Briefe cit., p. 250. Id., Handzeichnungen cit., testo, fornisce già la datazione corretta per questo progetto definitivo. 105 La biblioteca è in realtà piú larga di oltre un braccio. Tale errore non è importante, dato che non si tratta di un disegno in scala ma di uno schizzo a mano libera. 106 Frey riconosce correttamente nel disegno Casa Buonarroti 79 la fase piú avanzata, mentre Thode (Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., II, pp. 120 sg.; III, nn. 141 sg.) non presta attenzione alla successione dei progetti. Una vera analisi del significato dei due fogli non è stata finora tentata. Il foglio Casa Buonarroti 79 è copiato, in incisione, in Rossi, La Libreria Mediceo Laurenziana cit. 94
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano Frey, Briefe cit., p. 279. Fattucci a Michelangelo, 3 aprile 1526: «Et perche dice (il papa), che voi volevi la resolutione della piccola libreria per potere fare il tramezo fra il ricetto et la libreria, dice, che voi lo facciate come se la picola fussi fatta, la quale vole si facia, come sara finito il ricetto». Frey, nel testo per il suo Die Handzeichnungen cit., suppone giustamente che, per costruire il muro che separa la biblioteca dal vestibolo, Michelangelo dovesse avere presente la forma del muro che si trovava dirimpetto (ossia quello che divideva la biblioteca dalla «piccola libreria») e quindi la conformazione stessa della «piccola libreria». 108 Vedi Frey, Briefe cit., pp. 287, 289, 290. 109 Inserita tra le linee del muro contiguo, in Casa Buonarroti 79 (tav. 39), figura la scritta «e l muro dilarion martelli», e sotto, «la chasa dilarion martelli». In riferimento all’illuminazione della «piccola libreria» figura poi la scritta «riducesi in tondo disopra e tucti e lumi si piglion dalla volta perche non si possono aver daltrove». Presso il muro est, ancora da costruire, è scritto: «di qua si puo fare quello che piace perche e de preti». Per l’acquisto della casa di Ilarione Martelli vedi le lettere del 10 e del 29 novembre 1525: il papa ha deciso «di comperare detta casa et di adoperare quello che se n’ara di bisognio et il resto apigionare». E 3o dicembre 1525, Ilarione Martelli ricevette un primo pagamento di L. 42 per a «muro si è comperato da lui per conto della libreria». Vedi Gronau, Dokumente cit., p. 73. 110 Vedi sopra la nota 107. 111 Lettere di Fattucci a Michelangelo del 18 aprile e del 6 giugno. Vedi Frey, Briefe cit., pp. 28°-284; Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., II, p. 116. 112 Vedi Milanesi, Le lettere cit., p. 707. 113 Oltre a queste modanature per le porte, il foglio contiene una sezione di un gradino con la scritta «e modani degli scaglioni dati a cecchone». Tale sezione è molto piú articolata di quella dei gradini realizzati, e risulta congruente in larga misura con i due gradini fuori della porta del vestibolo. 114 Thode identifica parte di questi disegni con studi di finestre, specie il disegno Casa Buonarroti 98, in base all’esame delle modanature disegnate sotto. Ma tali modanature sono state effettivamente realizzate in modo congruente al disegno. 115 La concordanza tra il disegno in scala e la porta realizzata è stata rilevata per primo da Geymüller. 116 Vedi Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., III, n. 161. Thode qui fa riferimento alle tribune di San Pietro: a parte questo accenno il foglio non è stato finora preso in considerazione. 117 La prima raffigurazione che presenta questo tipo di suddivisione di una mostra si può riscontrare nello schizzo di una finestra, Casa 107
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano Buonarroti 3 (tav. 12, febbraio 1525). Tale schizzo, a sua volta, è preceduto dal foglio di Haarlem. 118 La datazione al 1526 proposta per il foglio 95 può essere comprovata dal fatto che il disegno con cornici di porta del 1526 presenta anche una sezione dei gradini esterni del portale d’ingresso al vestibolo, che devono essere stati elaborati unitamente al portale stesso. Solo i gradini oggi in sito risalgono a Michelangelo. Il foglio Casa Buonarroti 95 serví come riferimento di base per il contratto del 1533. Il disegno venne in un primo tempo riprodotto in incisione da Rossi, La Libreria Mediceo Laurenziana cit., tav. xxi; quindi venne pubblicato da Geymüller, Michelagnolo cit., p. 33, tav. 4, fig. 1, e da Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., III, n. 15o, e interpretato correttamente. Popp, Die Medici-Kapelle cit., pp. 45 e 126, vede in questo foglio uno stadio iniziale dei tabernacoli sopra le porte della cappella Medicea. La relazione tra questo disegno e il portale d’ingresso al vestibolo è tuttavia evidente. 119 Questo foglio (penna, 38,5 x 28,4 cm) è contenuto in una cartella di disegni del vestibolo fatti da Dosio. La pianta rende certa l’identificazione del disegno. Dosio ha qui ricostruito la mostra del portale in base ad alcuni elementi realizzati trovati nel vestibolo. Tale ricostruzione concorda con precisione con il disegno Casa Buonarroti 95. Mancano solo l’intera cornice tra mostra e frontespizio e la targa inserita nel frontespizio. Evidentemente queste parti non erano ancora state realizzate. 120 Il foglio 2o di Nelli è una riproduzione del disegno Casa Buonarroti 95. Nella scritta si afferma che le parti lavorate della porta erano nel vestibolo: «Porta cavata da alcuni pezzi di pietre, che sono in terra dentro il Ricetto, e da un disegno di Michelagnolo, che si trova appresso i Buonarroti suoi Eredi, al quale si giudica esser quella, che fù da lui destinata per l’esterno di esso Ricetto, perché, oltre al corrispondere coll’apertura della porta interna, conviene ancora colla Modanatura dell’esterno delle finestre variata dalla Modanatura dell’altre porte conforme allo stile di Michelagnolo di non replicare gli stessi disegni, mostrando egli in ciò la ricchezza de’ suoi concetti». 121 Le tavole per quest’opera vennero disegnate nel 1727. Ecco quanto riporta il libro riguardo alla storia del portale: «Questa porta, non ha gran tempo, fu messa sú per comandamento del Serenissimo Gran Duca Cosimo III, coll’assistenza di Pier Maria Baldi Architetto, e servitore in Corte di S.A.R. il quale non senza qualche grave ragione si sarà indotto a replicare una cosa già posta in opera, anziché secondare il pensiero di Ma., perfezionandone un’altra da lui lasciata imperfetta; se pure vogliamo credere, che gli osservassela. E dal non essere stata fatta quella stima, che far si dovea giustamente d’alcune cose, e quali mancato il Buonarroti abbozzate rimasero in
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano alcuni preziosi frammenti di pietre, le quali si conservano nel Riccetto... Nella tav. xx quella Porta si mostra, la quale si vede posta in opera nello stato presente, nella xxi poi quel Disegno, che da noi si è citato; e finalmente nella xxii uno degli Stipiti, e l’Architrave...» Nell’ultima di queste tavole manca il frontespizio arcato riprodotto da Dosio e che molto probabilmente era scomparso nel frattempo. L’autentico svolgimento dei fatti venne presto dimenticato dopo il completamento della porta. In F. Ruggieri, Studio d’Architettura Civile, Firenze 1722-28, I, tav. 1, è raffigurata questa porta in alzato, sezione e pianta, e presentata come «Architettura di Michel Angelo B.». Il libro di Ruggieri è il piú diffuso repertorio di incisioni per l’architettura di Firenze. 122 Baldi, la cui attività d’architetto non è ancora stata esplorata in modo dettagliato, operò a Firenze alla fine del xvii secolo. Vedi Thieme-Becker, Allgemeines Lexicon cit., II, p. 393. 123 Lettera di Fattucci a Michelangelo del 10 marzo 1524 (Gotti, Vita cit., I, p. 165): «A caro il palco e vorrebbelo bello e non riquadrato, ma con qualche fantasia nuova, e che e’ non vi fussi di sfondato piú che dua o tre dita come voi saprete fare». 124 Frey, Briefe cit., p. 224: «Ancora vide il disegnio del palcho, il quale gli piacque. Pargli, ché quegli andari si riscontrano con que di sotto, che l’a carissimo; solo gli pare, che quello andare dal lato venga a essere piú largo che quello di sotto, che è tre quarti, secondo che v’è scritto. Et se per aventura non fussi in questo modo, come N. S. la ’ntende, fate, a ogni modo, come N. S. la ’ntende lui; et se voi vi potessi acomodare qualche sua fantasia overo livrea, come a fatto in quella camera che fe M.o Giovanni da Udine, credo, l’arebbe caro». 125 Fattucci a Michelangelo, il 12 aprile 1525 (ibid., p. 250): «Ancora vole, faciate uno bellissimo palco alla libreria, come già vi scrissi altra volta, con poco isfondato. Et mandatemi il disegnio, facesti l’autra volta; et se n’avete fatto nessuno altro o avessi altra fantasia mandategli, perche N. S. gli vole vedere». 126 Ibid., p. 279. Questo importante passo è stato già analizzato esaustivamente a pp. 24-25. 127 Sulla minuta della lettera di Michelangelo a Fattucci del 17 giugno vedi sopra. Il passo che fa riferimento al soffitto è stato frainteso da Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., II, p. 117. 128 Fattucci a Michelangelo, il 16 ottobre 1526 (Frey, Briefe cit., p. 289): «Del palco della libreria per ora nonne vole fare niente». 129 Lettera a Michelangelo (Gotti, Vita cit., I, p. 255): «...et dice (Sua Santità) che alogate li banchi e palchi e figure e scale e quello pare a vui, che possino fare senza vui questa invernata, purché si lavori, e che non si abandoni l’opera, e che si faci tutto quello si pol fare senza vui...» Per quanto riguarda lo scalone e le porte, Michelangelo aveva
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano già concluso tre giorni prima (il 2o agosto 1533) il contratto che abbiamo esaminato. 130 Questa idea venne formulata per primo da P. Franceschini, in «Nuovo osservatore fiorentino» (1885-86), p. 412. Vedi ad esempio P. Frankl, Die Entwicklungsphasen der neuren Baukunst, Leipzig 1914, p. 115. Per le «Imprese» di Cosimo vedi G. Ferro, Teatro d’Imprese, Venezia 1623, ii, p. 176: «Capricorno: Questo segno ascendente del Duca Cosimo, pose a Giovio per l’istesso Duca e gli diede motto: Fidem fati virtute sequemur». Ibid., p. 272: «Delfino: Motto: Festina lente (Euripides)». 131 Vedi sopra, nota 123. 132 Vasari, Le Vite cit., VII, p. 203; III, p. 351. 133 Assieme al Caroto e al celebre Battista del Tasso (1500-55) lavorava al soffitto (come asserisce F. Baldinucci, Notizie de Professori del disegno, Milano 1811, vii, p. 605) anche il genero di quest’ultimo, Antonio Crocini (morto nel 1577-78). Thode, Michelangelo: Kritische Untersuchungen cit., II, p. 118, ritiene a torto che parte del lavoro fosse stata assegnata anche al genero di Crocini, il pittore Francesco Pagani (1531-61 circa): un’errata interpretazione del testo di Baldinucci. 134 Thode, ibid., p. 135, credeva erroneamente che questi schizzi rappresentassero un lacunare centrale e due adiacenti lacunari laterali, mostrando la sistemazione poi realizzata. Il disegno Casa Buonarroti 126 in questo senso è fuorviante, dato che il lacunare centrale e quello laterale sono raffigurati separatamente e a scale differenti. Frey, nel suo testo, perviene all’inesatta conclusione che, stando a questo disegno, i lacunari laterali dovessero susseguirsi senza interruzione. 135 Il rapporto tra i lacunari laterali del disegno e il centro corrisponde con buona precisione al rapporto tra gli interassi laterali e quello centrale nei lati corti della biblioteca. 136 F. Schottmüller, Michelangelo und das Ornament, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien», ii (1928), pp. 226 sgg., fa delle importanti osservazioni riguardo al soffitto della biblioteca, senza cogliere tuttavia l’autentica idea alla base del progetto per il soffitto che venne effettivamente realizzato. 137 Dal 1534 fino al 1549 circa non venne fatto alcun lavoro per il vestibolo o la biblioteca: dopo, i lavori iniziarono contemporaneamente in tutte le parti dell’edificio. La proposta di una tarda datazione del soffitto venne avanzata dal solo Franceschini in «Nuovo osservatore fiorentino» (1885-86), p. 412, senza echi successivi. 138 Vasari, Le Vite cit., VI, p. 203. 139 Fattucci a Michelangelo (Frey, Briefe cit., p. 234): «quanti banchi vi va, colla distantia l’uno dallo altro, come quelli di S.o Marco apunto. Et ancora m’avisate, quanti libri andra per banco».
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano Fattucci a Michelangelo, 3 aprile 1526 (ibid., p. 279): «...et dice che troviate o faciate trovare asse d’albero e di noce per e banchi». 141 Fattucci a Michelangelo (ibid., p. 284). 142 Gotti, Vita cit., I, p. 171 «Nostro Signore vuole che siano tutti di noce scielto (in Milanesi e Gotti, “sculto”. Corretto dall’originale nell’Archivio Buonarroti da Frey, Die Handzeichnungen cit., testo, p. 126); non si cura di spendere 3 fiorini più, che non li importano, pure che siano alla cosimesca, cio è si assimigliano le opere del magnifico Cosimo». 143 Gotti, Vita cit., p. 225. 144 Casa Buonarroti 94; Frey, Die Handzeichnungen cit., n. 269. Vedi anche Tolnay, Die Handzeichnungen cit., p. 426, n. 13. 145 Come nota giustamente Schottmüller, Michelangelo und das Ornament cit., p. 228. 146 A. Marquand, Benedetto and Santi Buglioni, Princeton 1921, pp. 196 e 201 sgg. 147 Vasari, Le Vite cit., VI, p. 88, nota 1 e p. 92. 148 Non è però corretto concludere su tali basi che fosse stata prevista una decorazione pittorica per il piú severo e disadorno soffitto, come crede Schottmüller, Michelangelo und das Ornament cit., pp. 226 sgg. 149 Le vetrate vennero restaurate da De Matteis. Vedi P. Franceschini in «Nuovo osservatore fiorentino» (1885-86), p. 415. 150 L. Biadi, Notizie sulle antiche fabriche di Firenze non terminate, Firenze 1824, pp. 134-36. 151 Rossi, La Libreria Mediceo Laurenziana cit., p. vii: «Tralle cose, le quali Michelagniolo in questo Edifizio non solamente lasciò imperfetto, ma incognite ancora, e prive d’ogni memoria, una senza fallo, si è il Cornicione, il quale doveva servire di finimento, e quasi di corona a tutta la stanza». Vedi anche p. xxiii. 152 Michelagnolo cit., p. 26. Geymüller rimanda a Ruggieri, Studio d’architettura civile cit., IV, p. 31, che, tuttavia, si riferisce alle parti del portale esterno ancora da rifinire. Thode credeva (Michelangelo: Kritische Untersuchungen, II; p. 127) che sul foglio 62 di Casa Buonarroti (pubblicato da Tolnay, Die Handzeichnungen cit., fig. 82), dei cinque schizzi per la cornice della biblioteca due andassero riferiti al moderno cornicione del vestibolo, che era stato preso per antico. 153 Lettera di Ammannati a Cosimo I da Firenze, del 18 febbraio 1559 (Gaye, Carteggio cit., III, pp. 11 sgg.): «... se V.E.I. vorrà che per ordine suo io dimandi, quando le parrerà tempo, a lui (Michelangelo) del palco (nella trascrizione di Gaye, dopo questa parola compare una virgola che deve ritenersi uno sbaglio) del ricetto e del modello della facciata, lo farò». Cosimo quindi risponde il 22 febbraio (ibid., p. 13): «Circa il palco del ricetto e del modello della facciata, che non saria fuor di proposito di cavare dal Bon. quel che si può». 154 Ruggieri Studio d’architettura civile cit., IV, tav. 14. 140
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano Uffizi, disegno 1946A, penna, 36,6 x 25,6 cm. Vedi Biadi, Notizie cit., pp. 134-36. Un ampio resoconto di P. Franceschini in «Nuovo osservatore fiorentino» (1885-86), pp. 421 sgg., e in Id., Per l’arte fiorentina: Dialoghi critici, Firenze 1895, pp. 295 sgg. Qui compare anche il materiale documentario per l’ampliamento moderno. Per il resto, nella letteratura su Michelangelo non viene fatto alcun riferimento al significato della costruzione di Poccianti e ai suoi riflessi sulla biblioteca. Oggi la realizzazione di Poccianti serve da sala di lettura (contrariamente al suo scopo originario): dopo il 188o l’ambiente venne attato a tal fine aggiungendo finestre e banchi. L’effetto dell’architettura venne in tal modo alterato. 157 A tale riguardo cfr. Geymüller, Michelagnolo cit., pp. 26 sgg. «Der Treppe gegenüber steben die Wände öde und leer und wie über die eigne Form verlegen da». 158 A. Riegl, Die Entstehung der Barockkunst in Rom, Wien 19o8, p. 44. Vedi anche Geymüller, Michelagnolo cit., p. 26: «Mauerpfeiler treten vor, nicht wie üblich die Säulen». 159 Il problema di un effetto di massa è solo quantitativo. Decidere in che misura un’opera si debba giudicare ancora rinascimentale o già barocca su tali basi non potrà mai essere convincente, dato che gli argomenti addotti dipendono da impressioni individuali e soggettive. 160 Vedi anche Tolnay, Die Handzeichnungen cit., p. 4o8. 161 L’idea di conflitto venne riconosciuta come parte integrante dell’architettura di Michelangelo da Wölfflin per primo, in Renaissance und Barock cit., p. 50 («Komposition nach Kontrasten»), e considerata in dettaglio da Geymüller, Michelagnolo cit., pp. 49 sgg. («Der Pleonasmus als Prinzip und Quelle von Gegensätzen», «Die Vermehrung künstlerischer Gegensätze»). Per le interpretazioni successive vedi principalmente Riegl, Die Entstehung cit., pp. 39, 97, 148 sg., ecc. 162 L’opinione di Popp, Unbeachtete Projekte cit., p. 401 (e anche di autori precedenti), secondo cui questi tabernacoli dovevano ospitare delle statue, non trova alcuna conferma documentaria. 163 Anche se questo effetto di contrasto è stato notato nell’architettura di Michelangelo, la sua figura è stata generalmente collocata all’inizio della serie degli architetti barocchi. 164 Parte di questo capitolo era stata dapprima trattata in un manoscritto inedito, in Festschrift für Walter Friedlädnder, 1933. 165 Wölfflin, Renaissance und Barock cit., p. 50, scoprí che nel vestibolo «unaufhörliche Bewegung entsteht...» Wölfflin non si accorse che tale effetto di movimento è diverso in modo essenziale da quello del Barocco. 166 Ai fini di quanto vogliamo dimostrare è perfettamente appropriato istituire un confronto tra l’articolazione di una cappella, quella di una facciata di palazzo e quella di una facciata di chiesa, anche se 155 156
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano non sarebbe difficile un confronto tra elementi analoghi. La cappella Gondi è stata scelta perché offre il primo esempio noto di duplice funzione, mentre gli esempi rinascimentale e barocco sono stati scelti per la loro particolare pregnanza. 167 W. Friedländer, Das Casino Pius IV, Leipzig 1912, p. 127. 168 Vasari, Le Vite cit., VII, p. 57. 169 Lo stesso tipo di complessità si può osservare all’interno della biblioteca, se si paragonano le pareti tra le paraste alla «classica» semplicità di una fila di colonne. 170 «Permutazione» va intesa nel senso matematico del termine, come inversione di elementi dati. In linguistica il termine è usato quando parti di una frase hanno una funzione differente da quella che è loro propria. Abbiamo fatto nostra questa espressione poiché quel tipo di interrelazione di piani parietali consiste essenzialmente in un rovesciamento di funzioni. 171 Vedi Wiesbach, in «Zeitschrift für bildenden, Kunst», 1919, pp. 61 sgg.; W. Friedländer, in «Repertorium für Kunstwissenschaft», 1925, pp. 49 sgg. 172 Solo negli anni venti sono stati fatti dei tentativi per dare una definizione dell’architettura manierista. H. Voss (Die Malerei der Spätrenaissance in Rom und Florenz, Berlin 1920, pp. 10 sgg.) rimarca l’unità stilistica tra pittura e architettura manieriste. Elementi che connotano l’architettura manierista vengono elencati da Dagobert Frey in «Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte», iii (1924), p. 98, e da Walter Friedländer in «Repertorium für Kunstwissenschaft» (1925), pp. 56 sgg. Il problema viene ora affrontato da varie angolazioni. Gli studi di L. Hagelberg, in «Münchner Jahrbuch der bildenderi Kunst» (1931), pp. 264-8o, e di L. Michalski in «Zeitschrift für Kunstgeschichte» (1933), pp. 88-109 non vanno molto oltre Riegl, che considerò l’idea di conflitto solo in termini di energia e tensione. Due autori, E. Panofsky in «Staedel-Jahrbuch» (1930), pp. 65-72 e H. Sedlmayr, Die Architektur Borrominis, Berlin 1930, pp. 152 sgg., ravvisano, come noi, la caratteristica essenziale dell’architettura manierista in un dualismo di struttura (vedi E. Panofsky, Idea. Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte der alteren Kunsttheorie, Leipzig 1924, p. 43). 173 Vedi Frankl, Die Entwicklungsphasen cit., p. 178: «Die Laurenziana ist in den Körperformen barock, nicht aber in ihrer optischen Erscheinung, noch ist alles flächenhaft ausgebreitet, noch ist alles flächenhaft ausgebreitet, frontal gesehen...»
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Capitolo secondo Michelangelo e la cupola di San Pietro
Da sempre la cupola di San Pietro è considerata il simbolo supremo dell’architettura cristiana. Il magnifico, svettante profilo della struttura domina ancor oggi la città da molti punti. Sedici possenti costoloni sorgono dai poderosi contrafforti del tamburo, quasi come vettori di un’intensa energia: energia che si scarica passando per l’elevata lanterna. Non ci sono diretti antecedenti per questa straordinaria invenzione, ma, una volta eretta, la cupola divenne per tre secoli un riferimento obbligato per tutte le strutture consimili. Nessuna delle imitazioni, varianti e trasformazioni piú tarde (neppure le cupole progettate da architetti del calibro di Hardouin Mansart, Fischer von Erlach, Juvarra, Wren e Soufflot) raggiunsero la grandiosità, la coerenza e la tensione che il prototipo aveva in sé. Certo, noi dobbiamo l’esistenza della cupola ad una combinazione di eventi rara nella storia dell’arte: quando si presentò l’occasione c’era un sommo genio a disposizione, e questi poté avere mano libera. Ma questa cupola, oggetto d’universale ammirazione, è interamente opera di Michelangelo? la struttura che noi osserviamo corrisponde alle sue intenzioni definitive? Durante gli anni venti di questo secolo e all’inizio degli anni trenta il problema venne studiato approfonditamente, e io stesso presi parte al dibattito: nel 1934
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pubblicai un lungo saggio sull’argomento1, tradotto trent’anni dopo in italiano2. Accettando in larga misura le conclusioni di questo mio studio, James Ackerman3 sintetizzò in modo brillante una posizione che sembrava l’unica sostenibile: ossia che l’attuale cupola non corrisponde al progetto definitivo di Michelangelo per alcuni aspetti di fondamentale importanza. Ma la verità storica non si afferma tanto facilmente. Da qualche tempo la cupola di San Pietro ha dato luogo a una certa inflazione di studi, e ancora una volta il problema, nel suo complesso, sembra soggetto a oscillanti valutazioni. Non posso qui menzionare tutti gli studi al riguardo, ma devo fare riferimento almeno a due contributi, e in particolare ad uno di Cesare Brandi, uno studioso che gode di grande autorità in Italia e all’estero. L’interpretazione di Brandi delle testimonianze scritte e di quelle basate su un’osservazione diretta porta lo studioso a sostenere che l’attuale cupola corrisponda in larga parte alle intenzioni ultime di Michelangelo. Malgrado alcune finezze critiche, in tal modo torniamo alle posizioni della scorsa generazione, prima che si affermasse l’attuale metodo di ricerca, dove il cospicuo materiale storico viene meticolosamente vagliato. Cosí dobbiamo ricominciare da capo, tenendo presenti le osservazioni di Brandi e anche quelle del secondo autore cui farò riferimento, ossia Charles de Tolnay, che ha assunto una posizione vicina a quella di Brandi. Sin dal 1930-31 Tolnay ha sostenuto che l’ultimo progetto di Michelangelo per la cupola doveva presentare una curvatura a sesto acuto, e Tolnay è probabilmente l’unico studioso che non abbia cambiato la sua opinione di una virgola per tutto questo tempo. Tolnay è tornato sul tema con nuovi argomenti nel Convegno internazionale di Storia dell’arte tenutosi a Bonn nel 19645. Vorrei iniziare ricordando alcuni fondamentali dati cronologici. Antonio da Sangallo il Giovane, che aveva
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ricoperto per piú di venticinque anni l’incarico di architetto della nuova basilica di San Pietro, iniziata da Bramante, morí il 29 settembre 1546. Michelangelo venne nominato suo successore il primo novembre 1546, e l’incarico venne ratificato il primo gennaio 1547. Per oltre diciassette anni, fino alla sua morte avvenuta il 18 febbraio 1564, la fabbrica di San Pietro costituí l’occupazione piú importante, e spesso frustrante, di Michelangelo. Dopo la morte del maestro la carica di architetto di San Pietro andò in un primo tempo a Pirro Ligorio, che venne però immediatamente allontanato (il 31 ottobre 1565) quando risultò evidente che aveva cercato di alterare il progetto di Michelangelo. A Ligorio subentrò Vignola, che conservò l’incarico fino alla morte, il 7 luglio 1573. Quindi fu il turno di Giacomo Della Porta, che voltò la cupola tra il 1586 e il 159o e finí la lanterna nel 1593. Possiamo apprendere molte cose sui principali problemi all’epoca in cui Michelangelo era in carica interrogandoci sull’entità dei lavori portati avanti in quel periodo, e su quanta parte della cupola era stata realizzata alla morte di Michelangelo. I documenti conservati nell’Archivio di San Pietro ci forniscono una risposta esauriente: tali documenti vennero pubblicati da Karl Frey piú di cento anni fa. L’autorità di cui godeva Frey quale esperto archivista era tale che nessuno osava sollevare dubbi sui metodi di lavoro di questo eminente professore tedesco. Frey, in sostanza, si limitò a pubblicare i contratti e i pagamenti nell’ordine in cui erano stati disposti nei libri mastri. È superfluo rilevare che tale procedimento è del tutto privo di senso. Di fatto tale metodo portò lo stesso Frey, come altri studiosi, a gravi fraintendimenti, dato che sulla base delle migliaia di minuti e frammentari particolari documentari prodotti da Frey non era affatto possibile seguire la costruzione della cupola in modo logicamente coordinato.
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Come altri studiosi prima e dopo di me, anch’io trentacinque anni fa ho combattuto con questi documenti, cercando invano di trovarvi risposte attendibili. Quando, nel 1963, tornai ad esaminarli, giunsi alla conclusione che per dare un senso a tali documenti bisognava sistemarli in modo totalmente diverso. Feci quindi un indice di tutti i pagamenti raggruppandoli secondo i nomi delle singole maestranze e aggiungendo la definizione del lavoro per il quale il pagamento era stato corrisposto. Risultò alla fine che il tempo speso per questa occupazione, non certo esaltante, era stato ben compensato. Vennero cosí alla luce i seguenti dati inoppugnabili: 1. Il 24 febbraio 1552, dato storico da sempre noto, la grande cornice sopra gli arconi della crociera era terminata. Una fase di poco successiva è raffigurata in un disegno di anonimo conservato agli Uffizi. 2. All’inizio del 1556 risultano terminati dodici capitelli e mezzo dell’ordine interno del tamburo, dopo di che si ebbe una completa interruzione dei lavori. Si riprese a lavorare nel settembre del 1561, dopo un intervallo di oltre cinque anni, e nel febbraio 1564 i restanti diciannove capitelli e mezzo vennero terminati (ci sono sedici coppie di paraste, per un totale di trentadue capitelli). In altre parole, nel 1556 solo sei coppie di paraste con i loro capitelli erano poste in opera, mentre all’epoca della morte di Michelangelo, nel 1564, l’intero ordine era stato realizzato, ma senza la trabeazione. L’aspetto del tamburo nel 1562, ossia dopo la ripresa dei lavori, è riportato in due disegni: uno dell’architetto Dosio conservato agli Uffizi; l’altro, forse opera di Ammannati, ad Amburgo. Il disegno degli Uffizi offre una veduta in direzione nord dell’interno della crocie-
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ra. Dei cinque interassi del tamburo qui raffigurati, solo quello sopra il pilone nord-ovest risulta terminato. Il disegno di Amburgo mostra la crociera guardando verso ovest (ossia verso il coro): cinque interassi del tamburo con le loro finestre coronate da frontespizi alternatamente arcati e triangolari (particolare importante) risultano terminati. La finestra dell’ultimo interasse a sinistra è ancora priva della sua mostra. L’interasse di sinistra nel disegno degli Uffizi corrisponde a quello di destra nel disegno di Amburgo. Cosí, a quest’epoca (probabilmente quindici mesi prima della morte di Michelangelo), solo cinque interassi erano sicuramente compiuti. 3. Le colonne dell’ordine esterno erano state lavorate tra l’inizio del 1554 e il maggio del 1556. Ma anche all’esterno i lavori si interruppero per cinque anni. Tra il maggio del 1561 e l’agosto del 1564 l’ordine con i capitelli, anche qui senza trabeazione, venne posto in opera. Nell’ottobre del 1562 venne acquistata una robusta fune per sollevare i rocchi delle colonne: vediamo il marchingegno in funzione nel disegno di Dosio. 4. La trabeazione sopra le coppie di colonne venne pagata tra il 4 gennaio 1565 e il 12 novembre 1568: vale a dire che venne iniziata sotto Ligorio e portata a termine sotto Vignola. Varie immagini ci permettono di seguire il procedere di quest’opera: l’esempio qui riportato, un’incisione del 1565, mostra la trabeazione in statu nascendi nel tamburo in direzione est e nord-est. 5. L’attico sopra la trabeazione venne pagato nel 158889, all’epoca della soprintendenza di Della Porta: dall’attico in su, quanto è stato realizzato appartiene all’ultima fase. All’interno, almeno parte dell’architrave e della cornice vennero pagate nel 1588, men-
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tre i pagamenti specifici per la decorazione architettonica all’interno della cupola datano a partire dal 1589. Questa analisi dei documenti ha messo in luce il fatto straordinario e incontestabile che i lavori alla cupola si interruppero completamente tra la primavera del 1556 e la primavera del 1561. Alla luce di tale scoperta acquistano grande rilievo le informazioni fornite da Giorgio Vasari, amico e biografo di Michelangelo. Vasari narra al lettore che, quando la costruzione di San Pietro andava avanti seppure con lentezza, alcuni intimi di Michelangelo spinsero il maestro a costruire un grande modello della cupola, che avrebbe avuto lo scopo di stroncare sul nascere ogni tentativo di alterare il progetto. Alla fine gli amici ebbero la meglio: nel luglio 1557 Michelangelo fece un piccolo modello preliminare in terracotta, in base al quale venne realizzato un grande modello ligneo. Questo grande modello fortunatamente esiste ancora, almeno in alcune sue parti, e misura circa tre metri fino al vertice della calotta interna, che appartiene al modello originario. Stando ai documenti, il modello venne realizzato tra il novembre 1558 e il novembre 1561 (in realtà, se escludiamo la lanterna, venne finito nel 156o). Ovviamente, il modello venne considerato necessario dopo che i lavori si erano interrotti nella primavera del 1556 e le speranze di porre rimedio alla situazione apparivano scarse. Lo stesso Michelangelo si rifiutava di ammettere il mancato successo dell’impresa («circa l’esser serrata la fabbrica, questo non è vero»), e tre anni e mezzo più tardi cercava di smentire le voci che dovevano correre a Roma, cioè «che la fabbrica di San Pietro non poteva andare peggio di quello che andava». Un modello attendibile si rivelava cosí quanto mai necessario, poiché, come abbiamo appreso dai documenti, nep-
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pure i lavori per il tamburo erano ad uno stadio molto avanzato quando l’attività costruttiva era cessata. Vasari, che era molto vicino a Michelangelo e si riteneva l’esecutore spirituale del suo eroe, voleva assicurarsi che il progetto della cupola non venisse manomesso, e pertanto incluse nell’edizione del 1568 delle Vite (quattro anni dopo la morte di Michelangelo) una descrizione estremamente dettagliata del modello ligneo della cupola. Vasari introduce la sua descrizione affermando che all’epoca del modello preliminare in terracotta (ossia nel 1557) gran parte delle finestre all’interno del tamburo e dell’ordine esterno era stata completata. Gli storici dell’arte non hanno mai posto in dubbio tale informazione, e naturalmente non hanno mai potuto spiegare perché nel modello ligneo tutte le finestre all’interno recano un frontespizio arcato e tutte le finestre esterne ne hanno uno triangolare, dal momento che, stando a Vasari, Michelangelo aveva già realizzato dei frontespizi alternati prima di iniziare il modello. In realtà i documenti indicano che Michelangelo iniziò ad eseguire le finestre solo dopo la ripresa dei lavori del 1561, e fu solo allora che decise di cambiare i frontespizi. La conoscenza del reale svolgimento dei fatti schiude un’interessante prospettiva sul metodo di lavoro di Michelangelo: in una fase in cui si stava realizzando il tamburo, i particolari del progetto erano ancora nel vago. Non c’è quindi da meravigliarsi se il progetto era ammantato da un velo di mistero: un mistero che venne svelato solo quando il grande modello costrinse Michelangelo ad una precisa formulazione. Fino ad allora gli amici di Michelangelo dovevano essere fortemente preoccupati della sua scarsa voglia di impegnarsi in tal senso. I cambiamenti apportati all’ultimo momento per i frontespizi delle finestre del tamburo ci fanno comprendere che anche la cupola e la lanterna sarebbero
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state soggette ad alcuni ritocchi se a Michelangelo fosse stato concesso il tempo di realizzarle. In ogni caso ci sono indicazioni a testimonianza di scelte a lungo ponderate per la lanterna, e sembra anche che Michelangelo abbia inserito nel modello delle indicazioni alternative per certi particolari della lanterna. Ferme restando queste riserve, il modello tramanda il progetto definitivo di Michelangelo per l’interno della cupola. Michelangelo progettò una cupola con una doppia calotta, seguendo in questo una lunga tradizione culminata nella cupola del Duomo di Firenze di Brunelleschi: un modello al quale Michelangelo si era rivolto, come sappiamo di certo, per trarne ammaestramento e ispirazione. Dopo lunghe discussioni tra gli studiosi sembrava unanimemente accettato il fatto che Della Porta avesse rimosso l’originale guscio esterno del modello, posto sopra l’attico, e lo avesse rimpiazzato con la propria cupola e lanterna. Ma Decio Gioseffi6 formulò un’altra spiegazione: che Della Porta avesse utilizzato l’originario guscio esterno di Michelangelo, limitandosi a porlo piú in alto. Questa idea ebbe un certo seguito in Italia: Di Stefano7 accettò sostanzialmente tali conclusioni, e ora Brandi le ha nuovamente riprese. Ma io credo che questi signori siano in errore, e le ragioni di questa mia convinzione sono implicite nelle seguenti considerazioni. Per una ricostruzione dell’originario guscio esterno del modello disponiamo di un’abbondante documentazione. Oltre alla dettagliata e attendibile descrizione di Vasari, siamo a conoscenza di otto studi di Dosio, ora agli Uffizi, tratti dal modello michelangiolesco e probabilmente eseguiti intorno al 1566. Inoltre abbiamo le note incisioni del progetto di Michelangelo per San Pietro dell’architetto francese Dupérac, databili al 1568-69. I disegni originali di Michelangelo per la cupola non corrispondono invece alla versione del modello.
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Questo materiale, noto da tempo e valutato criticamente da piú di una generazione, si è arricchito grazie ad un recente e fortunato rinvenimento compiuto dal professor De Tolnay e da lui succintamente esposto nel già menzionato convegno di Bonn di storia dell’arte. Circa vent’anni fa il collezionista di New York Janos Scholz trovò a Parigi un volume di vari disegni del Cinquecento, e Tolnay riconobbe che dodici di essi si riferivano al progetto di Michelangelo per San Pietro. Grazie alla generosità di Janos Scholz l’intero volume oggi si trova nella Print Room del Metropolitan Museum. Di tutto questo repertorio di testimonianze posso qui menzionare solo pochi punti fondamentali. Secondo la descrizione di Vasari, Michelangelo stabilí la costruzione geometrica della sua cupola a doppia calotta partendo da tre centri: il centro C determina la calotta interna semisferica, e i centri A e B la calotta esterna (il cui spessore diminuisce gradatamente verso l’apice). Come mostra il diagramma (fig. 1), la curvatura esterna sarebbe stata di poco inferiore ad una semisfera. In tale descrizione, per quanto corretta, Vasari passa sotto silenzio l’ubicazione del centro C sull’asse verticale (anche se la posizione di A e B è data in relazione a C).
1. Diagramma che mostra la costruzione della cupola con tre centri.
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Dosio, che, copiando il modello, andava per tentativi, era fortemente interessato ai principî di costruzione geometrica della doppia calotta, compresa la posizione dei centri in rapporto alla configurazione del tamburo. Dosio naturalmente sapeva che l’altezza della cupola e l’andamento della sua curvatura cambiavano a seconda della posizione piú alta o piú bassa dei centri: il mio diagramma, che mostra calotte uguali di raggio ma differenti per la posizione dei centri, chiarisce ampiamente il problema. In uno dei disegni di Dosio le calotte sono costruite a partire da tre centri che corrispondono alla descrizione di Vasari: i fori praticati con il compasso sono visibili nell’originale, ed è anche degna di nota l’indicazione schizzata della lanterna. In un altro disegno la costruzione della cupola è attuata da Dosio per mezzo di quattro centri. Il guscio esterno forma un semicerchio preciso: Dosio ha qui situato troppo in basso i centri. Della lanterna viene segnata solo la struttura interna, assieme ad una singolare copertura a ventaglio. Lungo il margine sinistro del foglio è tracciato il profilo esterno dell’attico a scala maggiore. Le modanature inferiori corrispondono tanto al modello quanto all’esecuzione, mentre la cimasa corrisponde al modello ma non all’esecuzione. La sezione della cupola del disegno Uffizi 2013A è infine costruita da Dosio per mezzo di sette centri, che però sono qui posti troppo in alto. Ancora una volta il disegno mostra la struttura interna della lanterna con la copertura a ventaglio e anche un rapido accenno alla sua struttura esterna. In basso troviamo uno schizzo rovesciato della scala incrociata nella parte inferiore della volta, descritta da Vasari e di cui ancor oggi esiste traccia nel modello: in fondo al foglio compare inoltre un profilo dei costoloni progettati da Michelangelo, assieme a un piccolo schizzo di un abbaino.
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I vari tentativi di ricostruzione del Dosio indicano che il modello di Michelangelo presentava una calotta esterna semisferica: per quanto riguarda tale aspetto la descrizione di Vasari e i disegni di Dosio si confermano a vicenda. Pochi anni or sono, facendo delle prove sul modello, ero riuscito a determinare con sufficiente precisione la posizione del centro della semisfera interna: il punto è situato a un’altezza di 6,5 cm sopra la cornice del tamburo, ossia a circa metà dell’attico. Ora, l’unica testimonianza grafica corretta sotto questo aspetto è l’incisione di Dupérac, del 1568-69. Questa sezione ha come pendant un alzato: le due stampe mostrano il progetto di Michelangelo per l’intera basilica e, sebbene contengano alcuni elementi problematici, sono straordinariamente accurate per quanto riguarda la cupola. I particolari rivelano che Dupérac aveva riportato i frontespizi alternati delle finestre del tamburo concordemente a quanto eseguito, mentre per il resto (cupola e lanterna) si era basato su un accurato studio del modello. Lo scopo delle incisioni di Dupérac mi sembra evidente. Non credo che si tratti di un lavoro intrapreso autonomamente e concepito per fini commerciali, anche se le stampe vennero messe in vendita. È invece piú probabile che tali incisioni fossero state commissionate da un gruppo che aveva interesse a dare ampia diffusione ad un’autorevole affermazione delle idee definitive di Michelangelo per San Pietro. Piú avanti cercherò di argomentare meglio questa tesi. La sezione di Dupérac mostra una bassa lanterna all’interno, che corrisponde a quanto indicato in alcuni disegni di Dosio. Un’ampia documentazione sui progetti di Michelangelo per questo singolare elemento era stata raccolta dal professor Koerte, ora scomparso, quasi quarant’anni fa, anche se non tutti hanno accettato le sue conclusioni. Ma ora alcuni schizzi di un foglio con-
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servato al Metropolitan Museum of Art di New York rendono piena giustizia a Dupérac. Il foglio presenta due paraste e due finestre della lanterna all’interno assieme a due travi della copertura, con le misure annotate riprese dal modello, per poter disporre di tutte le dimensioni. La scritta in francese, «La tribune entre le deux volte», conferma tale identificazione. Lo schizzo, nei suoi tratti essenziali, corrisponde alla lanterna raffigurata da Dupérac. Accanto a questo schizzo, al centro del foglio, compare una pianta della copertura, con una «x» di richiamo che mette in relazione i due disegni. Quasi tutti gli altri schizzi del foglio si riferiscono all’esterno. C’è un particolare del frontespizio triangolare delle finestre del tamburo, con la scritta «Les fenestres par dehors», mentre altri dettagli riguardano gli abbaini e l’attico. Infine compare la pianta di un costolone con i suoi scalini al centro, proprio come nella descrizione di Vasari e nella raffigurazione di Dupérac. Per quanto si può verificare, le misure riportate vennero riprese dal modello con accuratezza (porzione di finestra e attico). Ma, come ogni architetto sa, in questi schizzi a mano libera le proporzioni del disegno non corrispondono quasi mai alle misure scritte. Ciononostante, considerando unitamente gli schizzi e le misure, diviene ora possibile un’esatta ricostruzione di molti particolari del modello di Michelangelo, per il quale disponevamo solo di avare indicazioni. Ora, è notevole la stretta corrispondenza tra le incisioni di Dupérac e questi schizzi per quanto riguarda la resa dell’attico, dei costoloni, degli abbaini e, come abbiamo visto, della lanterna interna; e questo vale anche per le misure, per quello che la scala delle incisioni consente di verificare. A mio avviso, pertanto, non sussistono dubbi sul fatto che le incisioni siano fedeli riproduzioni del modello.
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Un altro disegno del Metropolitan Museum rappresenta un’ulteriore conferma in tal senso. Nonostante il suo carattere dilettantistico questo disegno è estremamente importante, dato che mostra la forma e i particolari della lanterna esterna del modello. Il disegno presenta aspetti stranamente incoerenti, e tutta la parte inferiore può essere spiegata solo come un semplice schema che serve a mettere in risalto la lanterna. Nell’attico (e non solo qui) le misure segnate rappresentano un rompicapo, e cosí pure le proporzioni: la lanterna è troppo alta in rapporto alla cupola, e delle grossolane incongruenze si ritrovano anche nelle proporzioni della lanterna. Secondo le misure segnate, le colonne binate sono alte 19 palmi (ossia 4,25 metri) e le volute di coronamento 12 palmi (2,68 metri), ma il disegnatore ha raffigurato le volute come se fossero piú alte delle colonne, mentre nell’incisione di Dupérac le proporzioni sono corrette. Devo subito anticipare che Giacomo della Porta, nella lanterna che ha realizzato, ha seguito queste misure con grande fedeltà, anche se ha alterato alcuni particolari del progetto. Tolnay ritiene che questo disegno, assieme ad un altro proveniente sempre dalla raccolta Scholz e che mostra il modello in sezione, comprovi il suo assunto, che nel modello (queste le sue parole) «il livello della calotta esterna venne innalzato sopra la calotta interna semisferica». In realtà il disegnatore si era semplicemente confuso, come mostrano i fori praticati su entrambi i fogli. Come Dosio, il disegnatore aveva fatto dei tentativi per stabilire i metodi di costruzione della cupola. Credo che la valutazione di Tolnay di questi disegni non trovi prove a sua conferma: la sua opinione è che la veduta dell’esterno sia stata ripresa dal modello, e che la sezione sia stata fatta per il modello. Per Tolnay l’autore di questi disegni dev’essere un tal Giovanni Francese: un falegname d’origine francese, come fa
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intendere il nome, che, secondo Vasari, collaborò all’esecuzione del modello (nel disegno della sezione e in altri disegni appaiono scritte in francese). Ho seri dubbi sul fatto che l’altrimenti sconosciuto Giovanni Francese sia l’autore dei disegni, né posso accettare l’interpretazione offerta da Tolnay. Verso il 196o ho studiato a fondo questi disegni del Metropolitan Museum, che mi davano molto da pensare. Come risultato di una loro lunga frequentazione, mi apparve evidente che dei dodici disegni relativi alla cupola, quattro sono di mano di un aiuto, e che tre di questi sono repliche di altri disegni del gruppo: l’originale del quarto, l’esterno della cupola, non ci è pervenuto. Ho il sospetto che in questo caso l’aiuto abbia eseguito una copia leggibile in base ad abbozzi sommari, simili a quelli sull’altro foglio: schizzi, bisogna supporre, eseguiti dal disegnatore principale in base al modello. Solo in questo modo si possono spiegare le stranezze e il dilettantismo del disegno. La sezione, invece, è di mano del disegnatore principale e venne eseguita in studio, mentre vari particolari vennero poi annotati direttamente dal modello. La mia ripartizione tra diverse mani dei disegni del Metropolitan Museum trovò un’inaspettata conferma in una serie di disegni da me rinvenuti nel Museo Nazionale di Stoccolma: questi disegni finora non sono entrati a far parte della discussione e sono ancora inediti. Anche stavolta l’autore è francese, ma la sua mano sembra differente dalle due che ho distinto nella serie di disegni del Metropolitan, anche se, sorprendentemente, alcuni dei disegni di Stoccolma sono in stretta correlazione con questi. Le filigrane della carta di alcuni disegni di Stoccolma ci consentono di datarli agli anni settanta del xvi secolo. Posso qui riportare solo pochi interessanti esempi a confronto: per primo un rilievo quotato, eseguito con
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accuratezza, di due finestre e mezzo all’interno del tamburo, con le misure segnate che non sono tratte dal modello, ma dalla struttura realizzata. Il disegno è incompiuto e non riporta la trabeazione sopra le finestre del tamburo. Un disegno di Stoccolma mostra precisamente la stessa porzione di tamburo. Qui i capitelli non sono finiti, ma, contrariamente al disegno del Metropolitan Museum, vengono riprodotti l’attico, la trabeazione e i costoloni: queste parti non corrispondono a quanto eseguito, ma al modello. Qualunque sia con precisione il rapporto che intercorre tra questi due disegni, entrambi vanno ricondotti ad un disegnatore che ha lavorato direttamente sui ponteggi della costruzione e ha integrato i suoi rilievi con delle misure riportate dal modello. Altri due disegni che mostrano l’esterno del tamburo sono nello stesso rapporto. Il disegno incompiuto è nel Metropolitan Museum, mentre il disegno quotato del tamburo realizzato, con la trabeazione e l’attico, è a Stoccolma (il disegno reca in basso la scritta «S. Pietro le dehors de la tribune»). Questi disegni vengono integrati da altri, che mostrano alla stessa scala la sezione del tamburo. In questo caso abbiamo un disegno al Metropolitan di mano dell’aiuto, con le misure segnate che sono tratte anche stavolta dalla costruzione realizzata. La trabeazione esterna alla base del tamburo (contrassegnata dalla lettera F) compare a scala piú grande a sinistra. Un disegno incompiuto, sempre al Metropolitan, è opera, a mio avviso, del primo disegnatore, mentre un terzo disegno, a Stoccolma, corrisponde esattamente a quello quotato del Metropolitan, ma ho motivo di credere in base a dati certi che la mano non è la stessa. Mettiamo ora a confronto, per un momento, queste sezioni con una sezione simile, accuratamente disegna-
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ta e quotata da Dosio, conservata agli Uffizi. Senza spingere troppo a fondo il confronto, basta un’occhiata per accertare che il disegnatore francese e Dosio hanno lavorato indipendentemente l’uno dall’altro: troppi sono i particolari che differiscono. La sezione di Dosio non fa che mettere in rilievo, per contrasto, la qualità della sezione nell’incisione di Dupérac, mentre la somiglianza tra l’incisione di Dupérac e il disegno del Metropolitan è tale da non potersi ritenere casuale. Di fatto, a mio avviso, l’autore principale dei disegni del Metropolitan non può essere che lo stesso Dupérac. A parte la stretta affinità tra i disegni e l’incisione, lo stesso modo di procedere del disegnatore (vale a dire, studiare insieme la costruzione e il modello per acquisire una documentazione completa) corrisponde a quanto si usa fare per le incisioni. Inoltre tutte le scritte sono in francese e i disegni, come mostrano le loro repliche, venivano all’epoca considerati come testimonianze autorevoli. Sembra quindi quasi inevitabile concludere che alcuni disegni del Metropolitan vanno considerati degli studi preparatori originali di Dupérac per la sua incisione. Se le mie conclusioni sono, come credo, corrette, il valore documentario delle incisioni, quali attendibili testimonianze della definitiva concezione di Michelangelo per la cupola, aumenta immensamente: sembra anche logico considerare tali incisioni molto piú veritiere dei due disegni del Metropolitan con la cupola in alzato. Appare a questo punto probabile che la stessa cerchia di amici che aveva spinto Michelangelo a realizzare il grande modello, abbia commissionato a Dupérac queste incisioni, subito dopo la morte del maestro. Questa è ovviamente una semplice congettura, ma sembra un’ipotesi ragionevole se consideriamo l’esistenza di un vasto e influente partito avverso a Michelangelo. La scelta di Ligorio dopo oltre cinque mesi di dispute era un compromesso che rivelava il potere della fazione
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antimichelangiolesca, dato che Ligorio era da tempo critico nei confronti di Michelangelo. Tutti i cambiamenti apportati al progetto di Michelangelo vennero effettuati da Giacomo Della Porta. I documenti, considerati unitamente alle parti originali del modello e ai disegni di Dosio e Dupérac, ci permettono di stabilire con esattezza dove iniziano le modifiche di Della Porta. Come ho prima ricordato, le modanature inferiori dell’attico all’esterno sono ancora conformi al progetto di Michelangelo, ma la larghezza dei risalti verticali viene ridotta e di conseguenza aumenta l’ampiezza dei pannelli intermedi con i festoni. L’altezza effettiva dell’attico non risulta alterata, ma viene apposto un ricco e complesso cornicione sommitale in sostituzione della semplice ed energica cimasa di Michelangelo. L’attico, inoltre, sembra piú alto perché Della Porta inserí alla base della cupola una profilatura dalla morbida spanciatura, alta un metro circa: in tal modo i costoloni non si innestano piú direttamente sui risalti verticali dell’attico. Inoltre Della Porta mascherò l’attacco dei costoloni aggiungendo le insegne di Sisto V e ridusse la larghezza dei costoloni, conferendo loro un profilo meno rilevato ed eliminando le scale intermedie. Della Porta modificò anche le mostre degli abbaini, conferendo una propria individualità ad ogni fila di finestre. C’è un crescendo passando dal primo livello, memore del progetto michelangiolesco, alle ridondanti forme tipicamente tardocinquecentesche della seconda fila, mentre il sobrio motivo circolare della fila piú alta ha un effetto di anticlimax. Michelangelo, replicando costantemente abbaini della stessa forma, voleva evitare che l’interesse si incentrasse sui campi neutri degli spicchi compresi tra i costoloni: la drammatizzazione di questi motivi subordinati operata da Della Porta attrae invece l’attenzione proprio su quei settori.
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Inoltre Della Porta sostituí i due anelli gradonati alla sommità della cupola con un singolo anello, modesto al confronto, il cui profilo si connette a quello dei costoloni. In tal modo costoloni e anello delimitano unitamente la superficie di uno spicchio. Michelangelo, al contrario, aveva trattato le superfici neutre degli spicchi, i dinamici costoloni e le delimitazioni orizzontali come elementi inconciliabili fra loro: il suo è un progetto di un rigore senza attenuanti. I costoloni si interrompono contro l’anello che chiude la cupola senza alcuna mediazione, e inoltre risultano nettamente separati dalle superfici neutre degli spicchi: le scale che salgono lungo i costoloni avrebbero esaltato il contrasto tra questi ricorsi verticali increspati e i lisci settori sferici. Un’antitesi che Della Porta eliminò conferendo la stessa qualità di superficie tanto ai costoloni quanto agli spicchi. Anche la lanterna presenta analoghe modifiche: le volute ai piedi della lanterna attenuano il trapasso dalla cupola al giro di colonne binate. Le volute a esse di Della Porta, con l’arricciatura minore in alto e quella piú ampia in basso che rigira verso l’interno, in senso opposto, hanno, per loro stessa natura, un carattere dimesso e opaco. Della Porta aveva impiegato volute simili nella zona dell’attico, laddove Michelangelo aveva previsto delle energiche volute concave che si inflettono verso l’esterno alle due estremità: una forma che conferisce al l’attico un carattere di netta separazione, e si presenta nel contempo come un’energica risposta (com’è nella sua natura) alla spinta del cono sommitale. Gli ornamenti a forma di vaso posti sopra l’attico, la profilatura alla base del cono, la sua configurazione a esse e l’articolazione delle nervature verticali, tutte queste aggiunte di Della Porta ammorbidiscono i trapassi, creano legami mediante ricchi motivi decorativi, laddove Michelangelo aveva previsto di trattare ogni singolo elemento (base, ordine, attico e cono) in modo nettamente distin-
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to dagli altri. Con questa radicale economia di mezzi architettonici sarebbe stata evitata qualsiasi attenuazione di contrasti tra tali elementi. L’interno venne riplasmato da Della Porta in modo non meno drastico. Le modifiche iniziano sopra il cornicione del tamburo. Della Porta innalzò l’attico di un metro, aggiungendo anche degli alti basamenti per le costolature. Queste ultime, di conseguenza, partono da una quota piú alta di 1,8o metri di quella pensata da Michelangelo. Inoltre dai basamenti si impostano delle arcate in rilievo, che sortiscono l’effetto di assottigliare l’ampiezza delle costolature. I risalti ai bordi di queste costolature si connettono alle arcate e sembrano in tal modo far parte degli spicchi neutri, la cui spinta direzionale entra in competizione con quella delle costolature. Infine vi sono delle teste di leone, emblema di Sisto V, che sormontano le basi delle costolature: è evidente che il modo di operare di Della Porta all’interno è strettamente analogo a quanto realizzato all’esterno. Secondo i progetti di Michelangelo, le costolature dovevano impostarsi saldamente sopra la cornice dell’attico, mentre gli spicchi neutri erano nettamente separati dalle costolature. Michelangelo aveva previsto dei semplici pannelli geometrici per gli spicchi: i pannelli rettangolari, caratteristicamente, erano contenuti da due elementi circolari posti in alto e in basso, come a contrastare un’indicazione direzionale. Infine la realizzazione del programma decorativo cristologico a mosaico, sicuramente deciso all’epoca di Sisto V ma iniziato poco piú tardi, rappresentò un colpo di grazia per il gioco di forme puramente architettoniche che Michelangelo aveva previsto. Ancor piú importante di tutti questi cambiamenti fu la soppressione, decisa da Della Porta, della lanterna interna. Questo elemento, che ha una sua lunga vita storica e non è cosí raro e singolare come alcuni studiosi
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credono, era necessario a Michelangelo per evitare una liberazione della tensione dinamica: proprio quello che Della Porta voleva conseguire, sia all’interno che all’esterno. Michelangelo veicolava l’energia insita nella struttura lungo i costoloni, facendola poi passare per l’ordine della lanterna e infine per le sedici travi della calotta interna, in un continuo convergere al centro, senza possibilità di liberazione. All’esterno Michelangelo aveva ottenuto un analogo risultato per mezzo del nitido volume del cono, che grava sulla lanterna come un pesante carico. In pieno accordo con la sua concezione fortemente problematica, Michelangelo aveva progettato una cupola dalla configurazione emisferica conchiusa e compressa, mentre Della Porta, in pieno accordo con i suoi intenti, miranti a offrire una risoluzione ai dati problematici, conferí alla cupola un’elegante curvatura, piú alta e slanciata. Per conseguire questo risultato, egli dovette innalzare i centri della calotta interna e di quella esterna: il primo centro venne innalzato di circa tre metri e mezzo e il secondo di circa 4,57 metri, e ciò conferí alla cupola un profilo verticale piú ripido nella sua parte inferiore. In secondo luogo dovette collocare i due centri a distanza di circa quattro metri dall’asse verticale, cosí da ottenere il sesto acuto tanto fuori che dentro. Possiamo ora quantificare la sopraelevazione effettuata da Della Porta del progetto michelangiolesco. Secondo i calcoli da me compiuti in base al modello, la cupola di Michelangelo, dal cornicione del tamburo all’anello interno al vertice, doveva essere alta 21,8o metri. Della Porta aumentò l’altezza quasi esattamente di un terzo, e la calotta esterna della sua cupola arriva ad oltre otto metri in piú rispetto a quella di Michelangelo. Nessuno può negare che questa sia una considerevole differenza. La cupola rialzata da Della Porta riflette un mutato
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orientamento artistico, che diviene ancora piú chiaro non appena prendiamo in esame il rapporto tra cupola e lanterna. Della Porta diminuí di oltre 1,8o metri l’altezza della lanterna progettata da Michelangelo. La riduzione d’altezza apportata alla lanterna e l’aumento della cupola sono chiaramente complementari: la cupola realizzata (a partire dal cornicione del tamburo) è in rapporto di 3:2 con la lanterna, mentre la proporzione nel progetto di Michelangelo era di 5:4 Questo nuovo rapporto evidenzia l’essenza del cambiamento: l’opprimente pesantezza viene mutata in aerea levità. Si è voluto sostenere che Della Porta ha portato a compimento una tendenza già insita nel progetto di Michelangelo: abbiamo però visto che una tale conclusione non trova conferme. Sappiamo che Michelangelo aveva a lungo esitato tra una cupola semisferica e una a sesto acuto. Infatti, sotto l’influsso della cupola fiorentina di Brunelleschi, aveva dapprima progettato una cupola rialzata nel famoso disegno di Haarlem, che si può datare con sicurezza al 1547, all’inizio della sua attività per San Pietro. E anche dopo piú di dieci anni, probabilmente poco prima di iniziare il modello, Michelangelo esitava ancora tra le due alternative, come mostra uno schizzo conservato a Oxford, incentrato sulla lanterna: un’eloquente testimonianza della sua indecisione fino all’ultimo momento. Ma una volta presa la decisione, il risultato divenne irrevocabile e irreversibile. Un senso di ferrea necessità sembra animare il progetto definitivo: la forza dinamica che sale dalle paraste binate giganti del corpo della chiesa e si trasmette alle coppie di colonne del tamburo fino a raggiungere le colonne della lanterna viene contrastata dalla cupola stessa, che insiste come un pesante carico sulla struttura inferiore, e dall’enorme, schiacciante lanterna, che compendia il senso dell’intero progetto. Della Porta offrí quindi una risoluzione a questi con-
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trasti, dall’immagine d’insieme fino ai più minuti dettagli, ma tali modifiche erano dettate da altre necessità che non fossero di carattere strettamente estetico? Della Porta doveva rispondere del suo operato a una congregazione di ecclesiastici, un organo conservatore per tradizione. Saremo in grado di comprendere perché questi abbiano consentito a Della Porta di allontanarsi dal progetto di Michelangelo solo quando le minute delle riunioni di consulta saranno state trovate. Ma non c’è dubbio che la commissione abbia dato il suo voto ad un progetto infinitamente piú conciliante di quello di Michelangelo, e in questo la congregazione era sicuramente dalla parte dell’opinione corrente, come sempre accade. Ma dopo tutte queste considerazioni, noi riusciamo ancora a percepire la grande forza dell’idea di Michelangelo. Il tamburo, con i suoi poderosi contrafforti, ha stabilito le regole del gioco una volta per tutte, e Della Porta non poté avere del tutto mano libera per quanto riguardava la cupola. Le sue modifiche, per quanto sostanziali, hanno alterato ma non cancellato il progetto di Michelangelo, e noi possiamo ancora scandagliare la profondità della mente del maestro, anche se, forse, come in uno specchio oscuro.
R. Wittkower, Zur Peterskuppel Michelangelos, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», ii (1933), pp. 348-78. 2 Id., La cupola di San Pietro di Michelangelo, Firenze 1964. 3 J. S. Ackerman, The Architecture of Michelangelo, London 1961 [trad. it., L’architettura di Michelangelo, Torino 1968]. 4 C. Brandi, La curva della cupola di San Pietro (conferenza tenuta nella seduta del 21 aprile 1968 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei), in Id., Struttura e architettura, Torino 19722. 5 Ch. De Tolnay, Newly discovered Drawings related to Michelangelo: The Scholz Scrapbook in The Metropolitan Museum of Art, in Stil und Überlieferung in der Kunst des Abendlandes (Akter des international 1
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano Kongress für Kunstgeschichte, Bonn 1964), Berlin 1967, II, pp. 64-68. 6 D. Gioseffi, La cupola vaticana, Trieste 196o. 7 R. Di Stefano, La cupola di San Pietro, Napoli 1963.
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Capitolo settimo Il giovane Raffaello
Come Mozart, Raffaello fu tolto a questo mondo nel pieno della sua giovinezza. Egli era nato ad Urbino il 6 aprile 1483 e morí esattamente trentasette anni dopo, il 6 aprile 1520; visse dunque due anni piú di Mozart. Entrambi condensarono nella loro breve vita l’immenso lavoro di diverse vite di lunga durata; entrambi produssero con estrema facilità; entrambi deliziarono intere generazioni successive con la grazia e l’armonia delle loro creazioni; ed entrambi esercitarono un’incommensurabile influenza sulla loro arte. Ma mentre Mozart all’età di diciotto anni veniva acclamato come il «maggior compositore mai esistito», altrettanto non si può dire alla stessa età di Raffaello, come pittore. È il mistero del primo Raffaello che vorrei ora cercare di chiarire. Quando il giovane Raffaello aveva otto anni la madre morì, il 7 ottobre 14911. Suo padre, il pittore Giovanni Santi, si risposò pochi mesi dopo la morte della prima moglie. Ma la sua nuova felicità non durò a lungo: egli morí infatti il primo agosto 1494. Lo zio di Raffaello, il prete Bartolomeo Santi, fu nominato suo tutore. Questi si rifiutò però di cedere l’eredità della matrigna; la questione fu sottoposta alla corte e il 7 giugno 1495 fu pronunciata una sentenza contro il tutore. Tuttavia la lite continuò a trascinarsi per almeno cinque anni. Al tempo il giovane Raffaello aveva 17 anni. Non sapremo
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mai quanto egli dovette soffrire per la triste situazione familiare, né se passò tutti questi anni ad Urbino. Sembra probabile che egli fosse nella sua città natale nel giugno 1499. Il successivo documento della corte, del 13 maggio 15oo, riferisce del «pro dicto Raphaele absente» – il che può significare sia che non apparve in tribunale, sia che aveva già lasciato Urbino2. Nel xv secolo, e persino in seguito, i bambini venivano ancora introdotti all’apprendistato in giovanissima età: quando suo padre morí Raffaello aveva undici anni e quasi quattro mesi. Malgrado la giovane età egli doveva essere nella bottega del padre già da qualche tempo, studiando, secondo l’uso di allora, procedimenti tecnici come il preparare a mescolare i colori e dare la mestica alle tele, e insieme acquistando i primi rudimenti della sua arte. Nella prima edizione delle Vite, pubblicata nel 1550, Vasari dice che Raffaello, ancora bambino, aiutò il padre già nel pieno delle sue capacità3. Nella seconda edizione revisionata, del 1568, Vasari è ancora piú assertivo: Raffaello da giovane assistette ampiamente suo padre in molte delle sue opere4. Questo cambiamento venne dettato naturalmente dall’immagine ben nota del bambino prodigio il cui genio incomincia a manifestarsi all’età in cui gli altri bambini sono ancora ai loro primi passi. Ma, Vasari continua, l’amorevole padre si rese conto ben presto che il ragazzo non poteva piú trarre profitto dalla bottega paterna. Cosí decise di mandare il figlio a fare apprendistato presso il Perugino, si recò a Perugia e prese gli accordi necessari, e quando il giovane lasciò Urbino, la madre affezionata versò molte lacrime. Sempre che si possa credere a Vasari, questo evento ebbe luogo prima che il giovane avesse compiuto otto anni, e a questa età il ragazzo non solo avrebbe avuto al suo attivo un certo numero di opere come assistente del padre, ma avrebbe addirittura superato l’arte del padre. Sotto
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la guida di Perugino – assicura Vasari – il giovane Raffaello acquisí ben presto una tale abilità che era impossibile distinguere le opere del maestro da quelle dell’allievo. Sebbene questo racconto sugli esordi di Raffaello sia notoriamente leggendario, non dobbiamo dimenticare che Vasari era eccellentemente informato circa il grande maestro dagli allievi ed assistenti dei suoi anni romani, e che anche per il periodo fiorentino precedente Vasari aveva due testimoni di rilievo nei suoi amici Aristotele da Sangallo e Ridolfo Ghirlandaio, associati a Raffaello in questi primi tempi, a partire dal 1504. Sarebbe ingiusto attribuire al Vasari l’invenzione di questo culto dell’eroe in quanto la favola delle prodigiose gesta di Raffaello bambino già circolava, probabilmente, nelle botteghe romane. In ogni caso, una storia essenzialmente corrispondente a quella raccontata da Vasari venne pubblicata già nel 1549 (ovvero 29 anni dopo la morte di Raffaello) nel commentario di Simone Ferrari all’Orlando Furioso5. Da dove abbia avuto origine questa leggenda, non lo sapremo mai. Bisogna comunque tenere presente che a volte furono gli stessi artisti precoci ad aiutare la creazione del mito della loro giovinezza. Bernini per esempio sostenne che egli aveva fatto un ritratto in rilievo del padre all’età di 6 anni e che un anno dopo aveva stupefatto papa Paolo V per la compiutezza di un suo bozzetto6. Che cosa sappiamo di certo a proposito dell’attività di Raffaello tra la sua prima infanzia e i diciassette anni, ovvero prima del 1500? La risposta è niente, assolutamente niente. La nebbia si dirada a partire da un documento del 10 dicembre 1500, il primo contratto per una sua opera di cui siamo a conoscenza. Si tratta del contratto per L’Incoronazione di San Nicola da Tolentino in Sant’Agostino a Città di Castello7.
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Sfortunatamente di quest’opera chiave ci rimangono solo pochi frammenti, e precisamente Dio padre e parte della Vergine, oggi nel Museo di Napoli, e il busto di un angelo nel Museo di Brescia8. Ma una copia parziale a Città di Castello e un numero ristretto di disegni originali – uno schema per l’intera composizione nel Musée Wicar a Lille – ci permettono di ricostruire l’aspetto originale dell’opera. Genericamente, lo stile di questi frammenti è peruginesco ed è significativo che, prima che venisse scoperto il legame con la pala d’altare di Città di Castello, l’angelo di Brescia fosse attribuito a Timoteo Viti, un artista minore umbro fortemente influenzato da Perugino. Anche se i frammenti di questo dipinto, insieme ai suoi disegni preparatori, sono di inestimabile valore per la nostra conoscenza del giovane artista, a prima vista il mistero dei primi anni di Raffaello sembra diventare ancora piú oscuro. Come è possibile che ad un artista di soli diciassette anni senza una fama già affermata venisse commissionata un’importante pala d’altare, alta piú di dieci piedi? Prima di tentare di rispondere a questa domanda bisogna ricordare che il contratto nomina, accanto a Raffaello, un secondo artista: Evangelista di Pian di Meleto. Ricerche meticolose hanno riportato alla luce alcuni fatti legati alla sua personalità9. Al tempo della morte di Giovanni Santi egli lavorava come assistente nella bottega da piú di dieci anni. Nel 1500 circa egli si trovava in buone condizioni finanziarie e possedeva, tra le altre cose, alcuni beni immobili. In seguito, certamente non prima del 1515 e forse non dopo il 1502, egli possedette una bottega in comune con Timoteo Viti, che morí nel 1523. Evangelista morí nel 1549 in tarda età. Sebbene non abbiamo nessuna idea di lui come artista10, la sua buona posizione economica e la sua associazione con Timoteo Viti stanno ad indicare che al suo tempo egli doveva godere di una considerevole reputazione.
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Piú di sessant’anni fa, un rinomato studioso, George Gronau, suggerí che Evangelista avesse impiantato la bottega con Viti immediatamente dopo la morte di Giovanni Santi e che il giovane Raffaello si fosse unito alla bottega come apprendista11. Alcuni critici accettarono questa ipotesi sebbene non vi fossero prove12. Altri, e tra essi un grande studioso di Raffaello come Oskar Fischel, rifiutò decisamente l’ipotesi Evangelista-Viti. Fischel si mostrò in effetti piuttosto esitante nelle sue convinzioni. Egli sostenne, praticamente nella stessa sentenza, che «Raffaello raggiunse la maturità artistica sotto l’influenza di suo padre» (ovvero, come si ricorderà, prima degli undici anni), che il padre lo affidò alle cure del Perugino, e che dopotutto è un problema di scarsa importanza se tutto ciò avvenne oppure no13. Alcuni studiosi piú anziani, tra cui Passavant (autore della grande, fondamentale monografia di Raffaello) e il grande Cavalcaselle, giunsero ad un compromesso facendo muovere Raffaello verso Perugia dopo la morte del padre, nel 1495. Questa ipotesi fu respinta da Roberto Longhi in un saggio su «Paragone» nel 195514, mentre, come altri prima di lui, Sidney Freedberg, nel suo studio dettagliato sul Rinascimento pubblicato nel 1961, datò l’apprendistato di Raffaello presso la bottega di Perugino tra il 15oo e il 150415. La ragione di tale divergenza di opinioni suppongo vada ricercata nello stesso Raffaello, piuttosto che in errori nelle ricerche da parte degli studiosi (in verità gli studiosi non lasciarono nulla d’intentato nel cercare di fare luce sul primo periodo di Raffaello). Di fronte a tanta incertezza la monumentale commissione di Città di Castello sembra costituire un vero e proprio rebus. Abbastanza stranamente, tuttavia, nessuno di questi studiosi ha espresso stupore a questo riguardo, e questo perché proiettando all’indietro la nostra conoscenza del tardo Raffaello, tendiamo solitamente a dare per
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scontato che al giovane fossero date opportunità illimitate. Per una spiegazione della commissione vorrei suggerire la seguente ipotesi. Il fatto che Raffaello ed Evangelista appaiano nel contratto come collaboratori indica che erano considerati come compagni di lavoro. Possiamo supporre che anche dopo la morte di Giovanni Santi, Evangelista rimanesse nel suo precedente impiego presso la bottega, già ben avviata e degna di essere mantenuta per riguardo del figlio. Questa conclusione è avvalorata da una prova eloquente: nel contratto il nome di Raffaello appare per primo e, malgrado la sua giovane età, è lui e non il piú anziano Evangelista a venire chiamato «magister». Magister, o maestro, era l’appellativo dato al capo bottega. Ora Raffaello era l’erede legale dell’impresa paterna, e deve essere per questa ragione che lui, anziché Evangelista, venisse nominato «maestro». Se questa semplice logica vi sembra accettabile potremmo esserci avvicinati alla verità: la commissione venne data ad un’impresa avviata e rinomata nel territorio di Urbino, anziché ad uno sconosciuto giovanotto di diciassette anni. Ma era il giovanotto davvero cosí sconosciuto? Possiamo forse risolvere questo quesito dopo aver analizzato gli eventi che seguirono alla commissione di San Nicola. L’Incoronazione di San Nicola di Tolentino venne portata a termine entro il 13 settembre 1501, data del pagamento finale16. La successiva data certa si riferisce al Cristo crocifisso e santi, oggi alla National Gallery di Londra, dipinto per l’altare Gavari in San Domenico a città di Castello. Raffaello pose la sua firma ai piedi della croce e l’iscrizione ancora esistente sopra l’altare riporta la data 1503 in riferimento al completamento dell’opera17. Ancora una volta si tratta di una grande pala d’altare alta almeno dieci piedi, e Raffaello, senza l’aiuto di collaboratori, fu il solo responsabile della commissione.
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Certamente l’altare di San Nicola doveva aver sancito la sua fama a Città di Castello. Forse la firma orgogliosa, la prima firma di sua mano che noi conosciamo, sta a sottolineare la cessazione di quella tradizione dell’anonimato, ancora in uso all’interno della bottega paterna18. Un anno dopo egli finí il famoso Sposalizio per San Francesco a Città di Castello, oggi al Museo di Brera di Milano, un dipinto di almeno sei piedi di altezza, con numerose figure. Egli lo firmò e datò: «Raphael Urbinas 1504». Sembra allora possibile rintracciare un filo logico. Le prime tre opere documentate di Raffaello vennero eseguite per chiese di Città di Castello: la prima, in collaborazione con il piú anziano collega, lo rese noto cosí che altri committenti della stessa città richiesero i suoi servigi. Se consideriamo le misure di questi tre dipinti, saremmo indotti a concludere che Raffaello non ebbe a che fare con altre commissioni importanti durante questo stesso periodo; che, in altre parole, egli passò la maggior parte del suo tempo, tra il 15oo e il 1504, a Città di Castello, poiché quando il San Nicola venne terminato, nel settembre 1501, egli subito iniziò il Cristo crocifisso e santi per San Domenico, e quando quest’ultimo fu finito, nel 1503, egli incominciò lo Sposalizio per San Francesco. Credo che non sia un caso che Vasari elenchi queste tre opere nel loro corretto ordine cronologico19; per di piú egli evidenzia giustamente come sia il San Nicola che la Crocifissione siano dipinte alla maniera di Perugino e aggiunge che chiunque avrebbe attribuito la Crocifissione a Perugino se non vi fosse stata la firma di Raffaello. Infine egli dichiara che nello Sposalizio Raffaello supera la maniera di Perugino. Un confronto con lo Sposalizio del Perugino, dipinto per la Cattedrale di Perugia quasi contemporaneamente a quello di Raffaello, dimostra che Vasari conosceva ciò di cui stava parlan-
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do; malgrado la somiglianza dei due dipinti, infatti, quello di Raffaello si distingue per una maggiore variazione psicologica e compositiva e per un nuovo senso delle qualità anatomiche e ritmiche dei corpi. Questo ci dimostra fino a che punto fosse informato e che acuto osservatore fosse il Vasari. Possiamo allora accettare la guida di Vasari nel datare L’Incoronazione della Vergine, oggi nella Pinacoteca Vaticana prima del San Nicola?20. Questo grande quadro (alto nove piedi), con molte figure, venne commissionato da Alessandra di Simone degli Oddi per San Francesco a Perugia. Ancora una volta Vasari ci dice che, sebbene a dipinto sia certamente di mano di Raffaello, coloro i quali non hanno esperienza di conoscitori, l’avrebbero fermamente creduto di mano di Perugino. Solitamente si sostiene che, poiché gli Oddi, una delle principali famiglie di Perugia, vennero esiliati dopo la caduta di Cesare Borgia, nell’agosto 1503, il dipinto vada datato a questo anno21. La logica non è del tutto convincente. Se Vasari ha ragione, il quadro fu dipinto prima del 10 dicembre 1500, data del contratto per il San Nicola. A costo di venire aspramente criticato dai miei colleghi voglio affermare che la cronologia di Vasari è corretta. L’Incoronazione è strettamente legata alle opere di Perugino dopo il 149o e cosí i pannelli della predella, solitamente considerati come particolarmente innovativi22. Tutte le opere di Raffaello finora considerate mostrano un unico stile. Esse vennero create all’interno di una precisa tradizione del paesaggio umbro e, soprattutto, sono cosí vicine a Perugino, mostrano una tale familiarità con le idiosincrasie stilistiche di Perugino, che certamente Raffaello deve aver avuto un periodo di apprendistato nell’orbita del maestro. Su questo punto Vasari fu sicuramente corretto. Considerando gli spostamenti di Perugino – egli fu a Perugia solo parte degli anni 1495
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e 1496 e quasi completamente assente nel 1497 e 1498 – non si capisce come Raffaello possa averlo incontrato prima del 149923. Una volta che Raffaello appare in Città di Castello, alla fine del 1500, come magister, sorprenderebbe credere che egli avesse il tempo e la voglia di tornare periodicamente, negli anni seguenti, da Perugino come aiuto bottega. Ciò appare improbabile anche in considerazione del fatto che a partire dal 1503 Raffaello aveva una reputazione come maestro non solo a Città di Castello, ma anche a Perugia. Quando, durante questi stessi anni, la badessa del convento di Monteluce fuori Perugia cercava il miglior artista per dipingere L’Incoronazione della Vergine per la sua chiesa, alcuni cittadini, insieme ai padri reverendi, che avevano visto le opere di Raffaello, commissionarono a lui l’opera24. Due anni dopo, il 12 dicembre 1505, venne stipulato il contratto, ma Raffaello allora non aveva piú tempo per eseguire il lavoro. Queste considerazioni mi inducono a credere che Raffaello si uní al Perugino nel 1499. Essendo stato educato nella tradizione peruginesca, ovvero all’autorevole stile umbro, egli assimilò rapidamente la maniera del maestro. Già nel 15oo, quando Raffaello era appena diciassettenne, Perugino probabilmente lo raccomandò per L’Incoronazione della Vergine per San Francesco, dipinta sotto la supervisione del maestro. Questa importante commissione dovette avere ripercussioni e contribuí alla prima committenza in Città di Castello. Comunque si voglia datare L’Incoronazione, rimane certo che nel breve periodo tra il 15oo e il 1504 Raffaello dipinse quattro grandi pale d’altare, tre delle quali documentate e la quarta attribuitagli da un’indiscussa tradizione. Un artista capace di compiere una simile impresa tra i diciassette e i ventuno anni deve aver dipinto altre opere e probabilmente altre ancora, durante gli stessi anni – questo è l’assunto generalmente dato
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per scontato – ed egli deve anche aver dipinto certamente prima del 1500 (in quanto non è possibile che egli sia improvvisamente sorto dal nulla). Cosí gli storici dell’arte hanno arricchito i suoi primi anni con attribuzioni spesso di dubbia validità. Abbiamo visto come la maggior parte di essi ritenga che Raffaello abbia lavorato nella bottega del Perugino tra il 1495 e il 1500 o tra il 1500 e il 1504. Sebbene la prima ipotesi sia improbabile e la seconda impossibile, essi hanno esaminato attentamente, e con moderni metodi critici, l’opera di Perugino nel decennio 1495-1504, per trovarvi le tracce del giovane genio. Intorno alla metà degli anni ’90 del Quattrocento lo stile del Perugino si sviluppa nel senso di un maggior classicismo e, allo stesso tempo, diviene piú tenero; per circa dieci anni egli rimane al massimo del suo prestigio. Quindi incomincia un rapido declino e come un inaridimento. Non c’è da stupirsi che alcuni critici guardino a Raffaello come al responsabile del periodo migliore dell’arte del Perugino. Altri scoprirono la mano di Raffaello in un certo numero di opere del maestro. Nessuno superò Adolfo Venturi che, nel suo libro su Raffaello e, successivamente, nella Storia dell’arte italiana, affermò con sicurezza che l’intera parete con Profeti e Sibille nel Cambio – il vecchio Cambio di Perugia decorato con il piú ambizioso ciclo di affreschi del Perugino – fosse dipinto da Raffaello alla fine del 150425. Sebbene Raffaello debba aver assistito Perugino (secondo me soprattutto nel 1499), il problema fondamentale risiede nella difficoltà, se non impossibilità, di giungere ad un accordo circa l’estensione della collaborazione di Raffaello nei dipinti del Perugino26. E ciò per il semplice motivo che lo stile del primo Raffaello, prima e dopo il suo ingresso nella bottega del Perugino, è per lo piú conforme a quello dell’ambiente nel quale lavorò. Raffaello crebbe in un’atmosfera provinciale dove,
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secondo una pratica ancora medioevale del lavoro di bottega, veniva lasciato ben poco spazio all’affermazione della propria individualità artistica27. A conferma di questa ipotesi possono venire addotte come prove anche i primi disegni di Raffaello. Rimangono i disegni preparatori delle tre pale d’altare documentate, dipinte per Città di Castello, cosí come per L’Incoronazione della Vergine28. Al contrario non esistono disegni di Raffaello correlati con altre opere del Perugino, né disegni per altre opere prima del 150029. Questo fatto potrebbe essere del tutto accidentale; d’altra parte bisogna tenere presente che l’arte di Raffaello non emerge dall’anonimato prima della fine del secolo. Anche il disegno con il ritratto di Oxford, di solito considerato un autoritratto del giovane all’età di quattordici o quindici anni, è stato datato recentemente intorno al 1504 circa30. Ultimamente è stato sostenuto che un disegno del British Museum sia un autoritratto del 1500 circa31. Prima di esporre le mie conclusioni vorrei considerare brevemente l’attività di Raffaello tra il 1504 e il 1507; ovvero, tra i ventuno e i ventiquattro anni. Secondo Vasari, Raffaello, dopo aver terminato lo Sposalizio, si uní al suo amico Pinturicchio a Siena per aiutarlo al grande ciclo di affreschi della nuova biblioteca della Cattedrale32. Non potendo approfondire questo episodio, vorrei solo accennare che molti critici contemporanei tendono a rifiutare la storia di Vasari, secondo me ingiustamente. Vasari ci informa che, dopo l’intermezzo senese, Raffaello si recò a Firenze. Abbiamo prove incerte (una lettera di dubbia autenticità33) che egli giunse a Firenze alla fine del 1504. Nei quattro anni seguenti, prima del suo trasferimento definitivo a Roma, egli soggiornò per qualche tempo a Perugia e tornò anche a Urbino, ma trascorse la maggior parte del tempo, sebbene meno di
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quanto generalmente si creda, a Firenze. In ogni caso, le sue grandi opere di questi anni vennero, quasi senza eccezioni, create fuori Firenze: nel 1505 egli iniziò l’affresco della Trinità in San Severo a Perugia, ma probabilmente la portò a compimento un paio di anni piú tardi. Nello stesso anno, nel 1505 piuttosto che nel 15o6, dipinse una pala con Vergine e santi per la cappella Ansidei in Santa Fiorenza a Perugia, oggi alla National Gallery di Londra. L’opera è firmata e datata, ma la lettura della data è equivoca. Poco dopo gli venne commissionata la grande pala per Sant’Antonio a Perugia, oggi al Metropolitan Museum. Infine, nel 1507 egli portò a termine, firmò e datò la Pala Baglioni per San Francesco a Perugia, oggi alla Galleria Borghese. Tutte queste opere dànno ulteriore prova di un cambiamento di stile, cambiamento ancor meglio rilevabile nella lunga serie di Vergini e Sacre Famiglie che costituiscono la massima gloria del cosiddetto periodo fiorentino. Poiché la dimostrazione di questo cambiamento è divenuta oramai un utile esercizio accademico, non c’è piú bisogno che io la riproponga in questa sede. Sarà sufficiente dire che Raffaello (che al suo arrivo a Firenze aveva 21 anni) vide aprirsi di fronte un nuovo mondo. Egli giunse nel momento piú emozionante della storia artistica di Firenze: quando Leonardo e Michelangelo competevano con i loro cartoni di battaglie in Palazzo Vecchio, quando il cartone con la Sant’Anna e la Monna Lisa di Leonardo, il David e il Tondo Doni di Michelangelo e il Giudizio Finale di Fra’ Bartolomeo a San Marco stabilivano i canoni del grande stile classico che noi chiamiamo Rinascimento. Raffaello fu profondamente scosso dal fascino irresistibile di questa esperienza. Egli si liberò di quanto aveva appreso e accettò senza riserve il nuovo linguaggio espressivo. Se dell’opera completa di Raffaello fossero sopravvissute solo la Madonna Solly di Berlino (tradizional-
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mente attribuita a Raffaello e mai messa in dubbio) e la Madonna del cardellino degli Uffizi, e non fosse rimasta né una tradizione letteraria né un nome, nessuno storico dell’arte avrebbe osato attribuire queste due opere allo stesso maestro, e uno studente tanto audace da sostenere che esse furono dipinte da una stessa mano, in un intervallo minore di quattro anni (quale probabilmente fu), non potrebbe mai passare il suo esame. Al tempo della Madonna del cardellino Raffaello aveva ventitre anni34. Due anni piú tardi, dopo essersi stabilito a Roma, il suo stile attraversò una seconda, profonda metamorfosi. Esso acquistò allora intensità drammatica e monumentalità. L’artista della Madonna della tenda, oggi a Monaco, sembra avere poco a che fare con l’autore della Madonna del cardellino; e se si guarda alla Madonna Solly e alla Madonna della tenda fianco a fianco, i dodici o tredici anni che le separano sembrano secoli. Queste osservazioni ci conducono ad uno dei fenomeni piú interessanti dell’intera storia dell’arte: il desiderio e la capacità di un artista di cambiare il suo stile radicalmente. Questo fenomeno oggi non ci appare piú strano; noi siamo infatti abituati a considerare gli artisti liberi di scegliere il proprio stile; cosí, per esempio, non troviamo strano che i dipinti di Picasso del 1904 e quelli del 19o8 siano cosí diversi tra loro, a tal punto che solo una conoscenza dei fatti, precedente o posteriore, ci permette di considerarle di una stessa mano. Allo stesso modo non siamo stupiti dalla sorprendente rapidità dei cambiamenti stilistici. Ma non dobbiamo dimenticare che la possibilità di scegliere liberamente tra diverse soluzioni stilistiche e la capacità di un rapido cambiamento non sono sempre esistiti35. Infatti io credo che Raffaello sia il primo caso illustre. Per gli artisti medioevali la strada al successo risiedeva nella stretta imitazione di un maestro. Ciò faceva
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parte della pratica della bottega medioevale e veniva tramandato come il solo corso di studi corretto. Cennini, nel suo manuale tardo medioevale scritto a Firenze dopo il 1400, mette in guardia gli apprendisti dall’imitazione di molti maestri e raccomanda loro di seguire un solo maestro in modo da acquisire un buono stile. Alla fine del secolo Leonardo rovescia questa posizione. Un pittore, secondo il suo punto di vista, non deve tentare di imitare la maniera di un altro pittore. Questo è certamente un chiaro segnale di un nuovo orientamento nella professione dell’artista. Giustamente noi parliamo di emancipazione dell’artista rinascimentale: egli cambiò la restrittiva imitazione, propria del regolato lavoro manuale di corporazione, in favore della libertà di una professione intellettuale autocontrollata. Quando Raffaello respirò l’aria di Firenze, egli abbandonò quelle che erano le convenzioni ancora essenzialmente tardomedioevali di provincia e rispose prontamente al nuovo modello cittadino. La miracolosa trasformazione accadde quando egli aveva ventuno anni. Ne emerse un uomo che scoprí in se stesso infinite possibilità e che seppe sviluppare con un’illimitata sicurezza di sé. Pochi storici dell’arte furono e sono preparati a riconoscere la profondità di questa trasformazione. Per quello che ho potuto vedere solo Heinrich Wölfflin sottolineò questo fatto senza paraocchi. «È probabile –, egli scrisse in Classical art –, che mai un giovane di talento assimilò la maniera del suo maestro cosí come Raffaello fece con Perugino... All’inizio egli non poté essere distinto da Perugino... Egli arrivò a Firenze... egli abbandonò la tradizione umbra e si arrese completamente alla nuova situazione fiorentina»37. Affrontando l’opera e lo sviluppo di un artista (e non mi riferisco solo a Raffaello) si è soliti usare punti di riferimento che hanno una propria vita e una propria storia. Scrittori del xvi secolo come Funari, Vasari e Bor-
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ghini38 consideravano lodevole il fatto che Raffaello fosse capace, in breve tempo, di imitare alla perfezione la maniera di Perugino. Oggi risulta evidente che questa valutazione trae origine dalla tradizione medievale delle botteghe. Al contrario gli storici dell’arte moderna, ossessionati dal concetto di originalità, andarono in cerca, negli juvenilia di Raffaello, delle peculiarità del suo genio; secondo a loro punto di vista l’imitazione, e la sola perfetta imitazione, non può essere che un segno di mediocrità, mai di eccellenza. Questa idea iniziò a farsi largo nel xviii secolo, quando nacque la moderna concezione di genio, e venne energicamente espressa negli scritti critici dell’età romantica. Vasari, naturalmente, spiegò il cambiamento nello stile di Raffaello come la conseguenza della grandezza e dell’universalità. Egli argomentò che Raffaello studiò le opere degli antichi e dei moderni e che prese da essi il meglio. In questo modo egli li superò tutti39. Il concetto di selezione da diversi maestri al fine di acquisire la perfezione deriva originariamente dalla ben nota leggenda, conosciuta attraverso Plinio, del pittore greco Zeusi che selezionò le parti migliori di cinque vergini crotonesi e le combinò nella bellezza ideale di Elena. Con la raccomandazione di selezionare il meglio da altri artisti, anziché dalla natura, venne introdotto al centro della discussione la questione dello stile, poiché il problema era ora incentrato sull’unione di diverse maniere di diversi artisti. Questa teoria, applicata per la prima volta da Vasari a Raffaello, fu in voga durante il tardo xvi e il xvii secolo40; non prima del 18oo circa essa venne attribuita ai Caracci insieme all’etichetta dispregiativa di «eclettismo»41. Lo stesso metodo che Vasari considerava come formativo per lo stile e accrescitivo di qualità appariva ora condurre a risultati completamente opposti. Lo stigma di eclettismo, travisato a partire dal con-
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cetto vasariano di selezione, impedí ai moderni storici dell’arte di prendere sul serio Vasari. Fermi ai loro punti di riferimento essi guardarono a Raffaello con la premessa che doveva essere possibile rintracciare una coerenza strutturale all’interno dell’intera opera di un grande maestro, dai suoi primi lavori fino agli ultimi. Fu dato tacitamente per scontato che questa Gestalt si dovesse manifestare quando l’artista matura e che essa riveli i suoi segreti se solo noi proviamo abbastanza intensamente ad interrogarla42. Queste premesse metafisiche erano sconosciute ai critici antichi. Eppure esse prepararono il terreno a quello che seguì. Fu durante il Rinascimento che per la prima volta venne afferrata la nozione di stile individuale ed esso venne apprezzato nell’osservare un’opera (Aretino parla della serenità che proviamo quando ci poniamo di fronte alle qualità del divino Raffaello), che il talento artistico venne per la prima volta guardato come un dono di Dio e considerato un’elezione come la primogenitura, e fu allora, in questo nuovo contesto, che il mitico concetto del «grande artista nell’infanzia» diventò un requisito biografico. Vasari non era né logico né affetto dal moderno psicologismo, egli era anche troppo pratico per lasciare che la mitica struttura offuscasse i fatti privati. Cosí egli ci descrive la strada del giovane Raffaello attraversare tre stadi: primo, il superamento del padre da parte del bambino come una specie di preludio mitico alla sua straordinaria carriera; secondo, la fedele imitazione di Perugino; terzo, la critica selezione di elementi stilistici dall’arte dei grandi artisti suoi contemporanei. Il secondo e il terzo stadio di Vasari corrispondono a fatti concretamente visibili. Per quanto possiamo verificare, il talento prodigioso di Raffaello gli serví semplicemente per conformare al resto il suo primo periodo, fino all’età di ventuno anni.
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Se egli fosse nato nel 1503 il suo nome non sarebbe sopravvissuto. Quando il destino lo portò a contatto con i giganti Leonardo e Michelangelo, egli rivelò un’abilità fuori dal comune nell’assimilare le loro maniere in un brevissimo arco di tempo. Michelangelo – che aveva un vero intuito – scrisse nel 1542: «Tutto ciò che Raffaello conobbe nella sua arte, lo ricevette da me»43 e, secondo Condivi, Michelangelo ripeté piú di una volta che Raffaello acquistò la sua arte non come dono naturale, ma come risultato di studi assidui44. Le implicazioni di questo commento mi sembrano ovvie: Michelangelo pensava che, quando il provinciale peruginesco Raffaello arrivò per la prima volta a Firenze, egli non possedeva quello che noi oggi chiameremmo uno stile personale. Solo allora, studi assidui fecero di lui quello che poi diventò. Di certo, malgrado l’incredibile facilità con la quale Raffaello dovette produrre le sue opere già fin da bambino, egli non fu un bambino prodigio come Mozart. Furono solo gli ultimi affollati dodici anni della breve vita di Raffaello che produssero un inaspettato completamento, in un grado mai piú sperimentato da un artista.
Tutti i documenti sono pubblicati in Vincenzo Golzio, Raffaello, Città del Vaticano 1936, pp. 1 sgg. (d’ora in avanti riportati come in Golzio). 2 Completa pubblicazione dei documenti giudiziari in H. Grimm, «Jahrbuch der Preussischen Kunstammlungen», in (1882), pp. 161 sgg. È stato piú volte ipotizzato, e a volte decisamente affermato (cfr. Golzio, p. 6) che «pro dicto Raphaele absente» significasse che Raffaello avesse lasciato Urbino. Grimm replicò che una simile ipotesi era inammissibile. 3 Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori etc., Firenze 1550, p. 636: «... Et facevasi aiutare da Raffaello, il quale, ancorché fanciuletto, lo faceva il piú et il meglio che e’ sapeva». 1
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano Vasari, ed. G. Milanesi, IV, p. 317: «Raffaello ancor fanciullo gli fu di grande aiuto in molte opere che Giovanni fece nello stato d’Urbino». 5 La spositione di M. Simone Fornari da Rheggio sopra l’Orlando Furioso di M. Ludovico Ariosto, Firenze 1549, pp. 513 sgg. (cfr. Golzio, p. 159). Fornari tralasciò tutti gli ornamenti aggiunti in seguito da Vasari. Egli scrive: «Fu posto dal padre suo sotto la disciplina di Pietro Perugino: il quale in poco spatio di tempo Raphaello andò si bene imitando, che quasi nulla, o poca differenza era delle sue alle pitture del suo maestro». 6 M. de Chantelou, Journal du vojage du Cav. Bernin en France (ed. Lalanne), Parigi 1885, al 6 ottobre 1665. 7 Golzio, p. 7. 8 Per l’identificazione di questi frammenti e la ricostruzione della pala vedi O. Fischel, in «Jahrb. d. Preuss. Kunstlg.», xxxiii (1912), pp. 105 sgg., e xxxiv (1913), pp. 89 sgg; W. Schoene, in Festschrift für Carl Georg Heise, Berlino 1950, pp. 113 sgg., e Raphael, Berlino e Darmstadt 1958, p. 45, con una ricostruzione leggermente differente da quella data da Fischel. 9 A. Alipi, «Nuova Rivista Misena», aprile 1891, pp. 51-53; Lisa de Schlegel in «Rivista d’Arte», xi (1911), pp. 72 sgg. Per ulteriore bibliografia, A. Venturi, Storia dell’arte italiana, VII, 2, pp. 188 sgg. 10 La ricostruzione della sua opera completa fatta da Venturi («L’Arte», xiv (1911), pp. 139 sgg. e Storia, loc. cit.) è stata generalmente respinta. 11 «Kunstchronik», xx (19o8-9o9), pp. 45-50. 12 Per esempio W. Bombe, in Repertorium für Kunstwissenschaft, iv (1911), pp. 296 sg. 13 O. Fischel, Raphael, Londra 1948, p. 20. 14 1955, n. 65, pp. II sgg.. 15 Painting of the high Renaissance in Rome and Florence, Cambridge, (Mass.), 1961, p. 62. 16 Golzio, p. 8. 17 Cecil Gould, National Gallery Catalogues. The Sixteenth Century Italian Schools, Londra 1962, pp. 158 sgg., con una bibliografia completa. 18 F. Canuti, Il Perugino, Siena 1931, 1, pp. 148 sgg., 153 sgg., sostiene che Evangelista di Pian di Meleto e Timoteo Viti aprirono una bottega in comune nel 1502. Se è vero, come potrebbe facilmente essere, ciò significa che dopo l’altare di San Nicola l’associazione tra Raffaello ed Evangelista giunse al termine e, di conseguenza, che la vecchia bottega di Giovanni Santi si sciolse. 19 Vasari-Milanesi, IV, pp. 318 sgg. 20 Ibid., pp. 317 sgg. 4
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano Questa datazione è stata universalmente accettata. L’Incoronazione mostra legami particolarmente stretti con l’Ascensione di Cristo del Perugino (fig. 199) dipinta tra il 1496 e il 1498 per San Pietro a Perugia (oggi al museo di Lione). La predella con la Presentazione al tempio di Raffaello non può essere dissociata da quella di Perugino per la pala di Santa Maria Nuova a Fano (1497). Vedi Venturi, Storia dell’Arte italiana, VII, 2, p. 784. È tuttavia possibile che Raffaello abbia eseguito le tre scene della predella qualche tempo dopo la pala. 23 Per l’itinerario di Perugino in questi anni vedi Canuti, II, pp. 21 sgg. Bisogna anche tenere presente che a partire dall’ottobre 1502 e fino ad almeno il 1503 Perugino fu a Firenze. Tra il 1504 e il 1505 egli fu nuovamente assente da Perugia per lunghi periodi. Canuti (i, pp. 153 sgg.) sostiene, a mio avviso in modo inconcludente, che Perugino non aprí una scuola prima del 1501. W. Bombe (Perugino, Klassiker der Kunst, 1914, p. xxiv), seguendo il nostro stesso metodo, crede che Raffaello si uní allo studio del Perugino poco prima del 1500, ma egli pensa poi che Raffaello vi rimase fino al 1504. 24 Golzio, pp. 8, ii. U. Gnoli, «Bollettino d’Arte» (1917), pp. 133 sgg. 25 Venturi, Storia, ix, 2, p. 8. Cenuti, i, p. 136, è certo che il Cambio fosse finito nel 1550. I documenti rimastici sono invece piuttosto ambigui, essi menzionano, tra gli assistenti del Perugino, due garzoni, ma tacciono a proposito di Raffaello. U. Gnoli, Pietro Perugino, Spoleto 1923, p. 35, sostiene assurda l’ipotesi di Venturi. Canuti (i, p. 140) prende una posizione analoga nei confronti di una possibile collaborazione di Raffaello. Bombe, in Repertorium für Kunstwissenschaft, iv (1911), pp. 300 sgg., Fischel, Raphael, i, p. 21, e altri forniscono una lista personale delle collaborazioni di Raffaello alle opere di Perugino. 26 Devo comunque ammettere che la questione richiede un attento riesame. 27 I grandi artisti particolarmente progressisti che Federigo da Montefeltro chiamò alla sua corte – Giusto di Gand, Piero della Francesca, Mantegna e Melozzo da Forlí – vissero e lavorarono nell’atmosfera rarefatta del palazzo ducale. Per quanto ne sappiamo il piú modesto Giovanni Santi non beneficiò mai della committenza ducale. E cosí anche Guidobaldo, che successe al padre Federico nel 1489 all’età di quattordici anni e presto radunò presso la sua corte la migliore società rinascimentale, non mostrò un particolare interesse per il giovane prodigio urbinate prima che egli avesse raggiunto la fama. 28 O. Fischel, Raphaels Zeichnungen, Berlino 1913, nn. 5-10, 15-32, 35, 36. La relazione tra i tre disegni e la Crocifissione della National Gallery resta problematica (Vienna, Albertina, Fischel, iv, n. 185; Oxford, Ashmolean 509, Parker, Catalogue, 1956, ii, p. 259; Ottawa, National Gallery, A. E. Popham, Old Master Drawings, xiv, 1939-40, 21 22
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano pp. 50 sgg. Cfr. Cecil Gould, Catalogue, p. 158). La maggioranza dei disegni giovanili sono legati all’Incoronazione. Mentre i disegni a punta secca mi sembrano sostenere la mia datazione precoce del dipinto, tre grandi disegni a carboncino (Fischel, Zeichnungen, nn. 23, 24, e A. E. Popham, Old Master Drawings, xii, 1937-38, p. 45) sembrerebbero di uno stile piú evoluto. Ma bisogna tenere presente che questi disegni facevano parte di grandi cartoni e richiedevano una tecnica differente rispetto ai piccoli studi preparatori. 29 Lo stendardo per processione, malamente conservato, con la Trinità e la creazione di Eva a Città di Castello è solitamente datato al 1499, Fischel (Zeichnungen, n. 2, cfr. anche n. 11) ha messo in relazione ad esso un disegno. Roberto Longhi («Paragone», vi [1955[, n. 65, p. 17) sostiene che lo stendardo non poté essere dipinto prima del 1503. 30 K. T. Parker, Catalogue of the Collection of Drawings in the Ashmolean Museum, Oxford 1956, ii, n. 515. 31 Philip Pouncey e J. A. Gere, Italian Drawings in the Department of Prints and Drawings. Raphael and his circle, Londra 1962, n. 1 recto. 32 Per i documenti cfr. Milanesi in Vasari, III, pp. 519 sgg. Dove viene fatto un confronto tra le affermazioni contraddittorie di Vasari nella prima e nella seconda edizione. Il contratto di Pinturicchio data al 29 giugno del 1502. L’esecuzione degli affreschi cominciò all’incirca un anno dopo, ma fu presto interrotta. I lavori furono ripresi probabilmente alla fine del 1504. È possibile che Raffaello giungesse a Siena in questo secondo momento ed eseguisse «alcuni disegni e cartoni» come specifica Vasari nella sua seconda edizione. 33 Oggi generalmente accettata, cfr. Golzio, pp. 9 sgg. Ma si vedano anche i dubbi espressi da Vilhelm. Wanscher nel suo strano libro Raffaello Santi, Londra 1926, p. 146. 34 Datato da autori piú recenti al 15o6 piuttosto che 1505, cosa che mi sembra priva di obiezioni. 35 Ho trattato questo problema in «Journal of the History of Ideas», xxii (1961), p. 300. 36 Cennino Cennini, Trattato della Pittura, ed. Daniel V. Thompson jr, Yale University Press 1933, pp. 2 sgg., 15. 37 Die klassische Kunst, Monaco 1912, pp. 74 sgg. (prima ed. 1898). 38 Raffaello Borghini, Il Riposo, Firenze 1584, p. 385. Cfr. Golzio, p. 265. 39 Vasari, nella Vita di Raffaello: Raffaello «fece di molte maniere una sola che fu poi sempre tenuta sua propria»; e nel proemio alla terza parte della sua opera: Raffaello «studiando le fatiche de’ maestri vecchi e quelle de’ moderni, prese da tutti il meglio». Cfr. Golzio, pp. 227, 235. 40 Per quanto ho potuto constatare esso appare per la prima volta in Paolo Pino, Dialogo della Pittura, Venezia 1548 (ed. Barocchi, Trat-
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Rudolf Wittkower - Idea e immagine. Studi sul Rinascimento italiano tati d’arte del cinquecento, Bari 196o, I, p. 127). Pino dice che se il talento di Tiziano e quello di Michelangelo fossero apparsi in una sola persona, questa sarebbe stata «il dio della pittura». Cfr. anche Schlosser, Die Kunstliteratur, Vienna 1924, pp. 210 sgg.; Antony Blunt, Artistic Theory in Italy, Oxford 1940, p. 85; Denis Mahon, Studies in Seicento Art and Theory, London 1947, p. 137. 41 Cfr. Mahon, pp. 212 sgg. 42 Cfr. soprattutto Theodor Hetzer, Gedanken um Raffaels Form, Frankfurt 1932, particolarmente pp. 18 sgg. 43 Lettera dell’ottobre 1542 (Golzio, p. 289). In questa lettera Michelangelo sosteneva che sia Raffaello che Bramante lo invidiavano a tal punto che avevano tentato di condurlo alla rovina. Ad ogni modo Michelangelo non era un uomo da lasciare che il proprio giudizio venisse influenzato da rivendicazioni personali. 44 Ascanio Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, Roma 1553; cfr. Golzio, p. 294: «gli [Michelangelo] ho sentito dire che Raffaello non hebbe quest’arte da natura ma per lungo studio».
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Capitolo ottavo Giorgione e l’Arcadia
Quando ci si rivolge alla letteratura su Giorgione si incontra la parola «mistero» con una monotonia per lo meno annoiante. Non voglio costituire un’eccezione alla regola e vorrei cominciare invece con un mistero del misterioso Giorgione, un mistero che è, comunque, cosí ovvio da essere stato discusso raramente. Credo che sia generalmente stabilito che il grosso dell’opera dei grandi maestri è ormai ben definita, in quanto il loro modo di percezione è assolutamente unico. Dubbi di attribuzione riguardano soltanto le loro creazioni marginali, mai quelle principali. Questo rimane un fatto tacitamente e generalmente accettato come sintomatico di una vera grandezza. Raffaello, Michelangelo, Tiziano, Poussin, Rembrandt, Watteau e molti altri provano questo argomento. I problemi di attribuzione aumentano in proporzione alla limitazione del talento. Per quello che ho potuto notare, Giorgione è l’unica eccezione. Gli specialisti di Giorgione si dividono in due categorie tra di loro ostili: quelli che io chiamerei i «pangiorgionisti» attribuiscono un grande numero di dipinti al maestro, mentre i loro oppositori, i «contrazionisti», limitano la sua opera ad un ristretto numero di quadri. Comunque, ad eccezione di due opere – la Vergine e santi, ancora nella cattedrale della città natale di Gior-
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gione (Castelfranco) e la Tempesta, all’Accademia di Venezia, non c’è concordia neanche tra i «contrazionisti». Dubbi sono stati sollevati anche a proposito dei Tre filosofi di Vienna, e la paternità di dipinti cosí eccezionalmente belli come l’Adorazione Allendale (oggi alla National Gallery di Washington), la Giuditta di Leningrado, l’Autoritratto di Brunswich, la Venere di Dresda e il Concerto campestre del Louvre è stata trasferita da un artista all’altro secondo le preferenze dei vari critici. Di solito, una simile discordia tra gli esperti indicherebbe che abbiamo a che fare con una debole personalità artistica. Invece (e questo è il mistero al quale alludevo) si tratta del caso contrario. Malgrado i problemi dovuti alla maggior parte di queste opere, Giorgione fu sempre unanimemente acclamato come uno dei piú grandi maestri italiani di tutti i tempi, e tutti i critici sono sempre stati concordi nel legare al suo nome una certa qualità distintiva e inconfondibile. Fu proprio l’originalità dell’arte di Giorgione a catturare l’immaginazione di tanti artisti che lavorarono nella sua orbita, a tal punto che i loro dipinti appaiono spesso come meri prolungamenti dei suoi. Essi sacrificarono la loro individualità al fascino del suo pennello. È per questa ragione che le opere autentiche di Giorgione rimarranno sempre problematiche e non occorre che io prenda in questa occasione una posizione critica. Se il problema mi è chiaro, tutti i dipinti giorgioneschi – originali, attribuzioni, copie da opere perdute, imitazioni e dipinti di seguaci e allievi – hanno, ai fini della mia indagine particolare, quasi lo stesso valore. Il primo punto deve essere chiaramente quello di cercare e definire il carattere peculiare dell’arte di Giorgione. L’aspetto tecnico della questione non offre difficoltà. In questo caso infatti la concordia è unanime, malgrado la diversa terminologia usata dai critici antichi e recen-
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ti. Se Vasari, nel xvi secolo, parla di morbidezza ottenuta dipingendo direttamente con il pennello, senza disegni preparatori, e dello sfumato delle sue ombreggiature, se Ridolfi, biografo seicentesco dell’artista veneziano, loda la grazia e la tenerezza dei suoi colori, e Boschini, critico veneziano del xvii secolo, «l’impasto del suo morbido pennello» e «l’ombreggiatura dei contorni – cosí che gradualmente gli oggetti naturali diventano splendentemente veri» – essi descrivono un fenomeno che un moderno storico dell’arte, Giuseppe Fiocco, ha cosí espresso: «il nome di Giorgione significa assoluta padronanza del colore come mezzo autonomo di espressione; il che significa pittura pura». In altre parole, tutti concordano nell’asserire che Giorgione scoprí una nuova dimensione attraverso il suo uso del colore (e, implicitamente, della luce) e che egli fu, in un certo senso, il primo artista moderno. Piú di sessanta anni fa Lionello Venturi sottolineò intelligentemente che dopo Giorgione la subordinazione del colore ai valori tonali divenne patrimonio della pittura europea. Meno unanimi sono le opinioni riguardo agli effetti, il risultato artistico prodotto, o – se volete – lo spirito rivelato dal nuovo trattamento pittorico di Giorgione. È utile considerare per un momento come il xvi e il xvii secolo interpretarono questa rivoluzione. Secondo Vasari, lo scopo dell’innovazione di Giorgione era «di progredire nella resa degli oggetti naturali e viventi e di ritrarli al meglio con a colore». Poiché Vasari aveva fatto dell’antica nozione secondo cui l’arte concerne l’imitazione della natura il punto centrale della propria teoria dell’arte, egli considerò l’opera di Giorgione come un momento brillante sulla strada della realizzazione di questo concetto. Seguendo Vasari, i critici seicenteschi dichiararono la mimesis, l’imitazione fedele della natura, quale il prin-
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cipale scopo dell’arte e di conseguenza anch’essi affrontarono l’arte di Giorgione da questo punto di vista. Cosí Ridolfi scriveva nel 1648: «Certamente Giorgione fu il primo a mostrare il giusto corso della pittura, perché la sua pittura giunge con facilità a rappresentare gli oggetti naturali». Boschini espresse la stessa idea due volte, assertivamente, la prima volta nella famosa Carta del navigar pittoresco del 166o, dove egli dice che quando Giorgione cominciò la sua opera: Egli colmò di ammirazione tutti i cuori a tal punto sembrava viva la Natura nella sua arte. Quattro anni dopo egli elaborò la stessa teoria nelle Ricche miniere della pittura veneziana, ove dichiara che la maniera facile e pastosa di Giorgione deve essere considerata come vera natura piuttosto che finzione pittorica. Egli conclude con un tipico gioco di parole seicentesco: Giorgione, egli dice, «diede vita ad una armonia cosí piena di grazia e realistica, che non si riesce a riconoscere se la natura sia pittura o la pittura natura». La considerazione della maestria di Giorgione nei confronti della natura, per mezzo dei suoi trionfi cromatici, persistette fino al xviii secolo. Tutti questi scrittori guardarono al colorismo di Giorgione come ad un espediente con il quale ottenere la verosimiglianza in pittura. Oggi il concetto di mimesis come il vero fine dell’arte trova sostenitori solo tra le persone di bassa o media cultura. Nessun critico moderno vorrebbe o avrebbe il coraggio di erigersi a difesa della mimesis e di conseguenza l’arte di Gorgione non è mai stata considerata, ai nostri giorni, sotto questa luce. Ancora una volta, comunque, i moderni critici e storici sembrano essere completamente d’accordo tra loro. Il vocabolario da essi usato per caratterizzare l’arte di Giorgione è pieno di
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parole simili quali «lirico», «idillico», «unione tra l’uomo e la natura», «musica», «Virgilio», «l’Arcadia» e cosí via. Nessuno di questi epiteti compare negli scritti di autori contemporanei a Giorgione. I due diversi punti di vista non possono essere egualmente del tutto esatti. Sia il concetto di mimesis dei critici antichi che quello di poesia pastorale degli scrittori moderni non afferrano le intenzioni del maestro. Sfortunatamente non ci rimane nessuna osservazione diretta di Giorgione stesso, o di uno dei suoi contemporanei, in grado di offrirci un indizio sicuro. Si può comunque tentare di indagare quali fossero i suoi intenti e quali le aspettative dei suoi committenti. A tal fine dobbiamo dare un’occhiata piú attenta alla genealogia della moderna interpretazione di Giorgione. Credo che fu il veneziano Antonio Maria Zanetti che per primo, nella sua opera accurata sulla pittura veneziana del 1771 (Della pittura veneziana), disse che una delle caratteristiche di Giorgione era di avere «aggiunto ad una solida competenza il libero gioco della fantasia e dell’immaginazione». Il concetto di autonomia dell’immaginazione è tipico della seconda metà del xviii secolo. In seguito esso divenne parte integrante del vocabolario romantico e da qui passò alla moderna critica d’arte. Cosí Lionello Venturi, nel suo libro fondamentale su Giorgione, pubblicato nel 1913, e altri dopo di lui, parlarono delle briglie sciolte che l’artista diede alla sua immaginazione. L’art pour l’art, movimento del xix secolo, modificò in modo indicativo l’immagine romantica di Giorgione. Una delle principali guide del movimento, Walter Pater, in un suo famoso articolo su Giorgione pubblicato nel 1873, formulò il principio: «l’arte aspira costantemente verso la condizione della musica» e spiegò che il caso di Giorgione «è tipico di questa aspirazione di tutte le arti verso la musica – verso la perfetta identificazione
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di materia e forma». Cosí Pater fu il responsabile dell’alleanza tra Giorgione e la musica, e questa «alleanza» rimase da allora in poi un assioma indiscutibile per gli studiosi dell’artista. Inoltre, la metafora musicale nei dipinti di Giorgione venne illogicamente legata all’osservazione di Vasari che il pittore era estremamente appassionato di musica. Pater considerava l’arte come pura forma senza ulteriori propositi e i dipinti di Giorgione gli apparivano «brani di realtà, conversazione, o musica, o gioco, ma perfezionati e idealizzati, fino a sembrare quasi uno sguardo da lontano sulla vita». Con queste sentenze Pater rievoca l’idea romantica dell’arte senza significati, arcadica o paradisiaca. In questi stessi anni Crowe e Cavalcaselle parlarono del carattere calmante dei paesaggi di Giorgione e Morelli Lermolieff notava che «il suo genio originale e immensamente poetico emana una luce cosí pura... ci parla con tale forza e convinzione, che nessuno che l’abbia afferrato una volta potrà mai dimenticarlo». A questo punto dobbiamo domandarci se il modo moderno di guardare ai dipinti di Giorgione e la nostra reazione spontanea ad essi (che poi non è cosí spontanea in quanto deriva, come abbiamo visto, dalla idee romantiche e della fine del xix secolo) giungano fino all’essenza dell’arte del maestro. Per rispondere a questa domanda voglio per prima cosa chiamare, come diretto testimone, il nobile veneziano umanista Marcantonio Michiel, che, poco dopo la morte di Giorgione, scrisse un commentario sulle collezioni d’arte a Venezia e nella terra ferma. Queste rinomate annotazioni sono di grande interesse e fondamentali per la nostra conoscenza dell’artista. Le descrizioni di Michiel, sebbene concise, indicano sufficientemente che cosa doveva apparire nuovo e attraente al tempo, nelle opere del maestro. Egli descrive I tre filosofi come: «la tela ad olio, rappresen-
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tante tre filosofi in un paesaggio, due di essi in piedi, mentre l’altro seduto che guarda in alto verso la luce, con una roccia splendidamente imitata». La Venere di Dresda, allora in casa di messer Jeronimo Marcello, è descritta come «la tela rappresentante Venere, nuda, dormiente in un paesaggio», e La tempesta come «il piccolo paesaggio su tela, rappresentante un tempo tempestoso e una zingara con un soldato». Malgrado la loro brevità queste note indicano che l’abilità di Giorgione nel rappresentare la natura e le figure in esse immerse conquistò l’attenzione dei suoi contemporanei. Ciò è confermato dal fatto che molti pittori piú o meno famosi, adottarono presto – come avevo accennato – non solo la tecnica artistica del maestro, ma anche il suo modo di impregnare il paesaggio e le figure di uno spirito di tranquillità. Quest’ultima osservazione mi spinge a una considerazione generale. Tutti gli osservatori moderni hanno avuto una simile reazione di fronte al linguaggio di Giorgione (e ora possiamo dire che fu cosí, fino ad un certo punto, anche per i suoi contemporanei) perché essi si trovavano di fronte ad un fenomeno che ha, io credo, una base psicologica di universale validità. Le forme ondeggianti delle opere di Giorgione, i soffici e caldi valori tonali, il ritmo dolce e delicatamente cadenzato, quell’umore malinconico che pervade le figure e il paesaggio concorrono a produrre l’impressione di un mondo ideale e poetico, sereno e completamente riappacificato. A mio avviso non ci sono dubbi che gli scrittori del xvi e xvii secolo fossero incapaci di esprimere questo nuovo fenomeno senza il ricorso alle tradizionali categorie della teoria dell’arte. Solo dopo l’esaurimento di questi concetti, alla fine del xviii secolo, il fenomeno Giorgione potrà essere affrontato con una mente aperta e nuova. D’altra parte ci sono buone ragioni per credere che il pubblico veneziano fosse piú libero da pre-
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giudizi e capace di comprendere rispetto ai critici, chiusi nella loro teoria. Possiamo concludere che furono gli scrittori del periodo romantico e del xix secolo che aprirono la via ad un’interpretazione dell’arte di Giorgione compatibile con la concreta evidenza visiva. Allo stesso tempo essi introdussero il concetto problematico della libertà dell’immaginazione artistica, o piuttosto dell’immaginazione che libera se stessa dalle catene della tradizione e dalla schiavitú alla forma artistica narrativa ed allegorica. Ad essi sembrò paradossale che sogni, fantasie e musica dipinta potessero collegarsi a temi tradizionali, ad un’attitudine intellettuale o a un programma prestabilito. Cosí il xix secolo diede vita a un’immagine di Giorgione che rifletteva l’ideale dell’art pour l’art. Fu questa la posizione da cui partirono i moderni storici dell’arte, e da qui essi svilupparono tre diverse tendenze critiche. Alcuni accettarono senza riserve l’immagine dell’artista propria del xix secolo. Per provare questo fatto riporterò un brano da un recente saggio su Giorgione pubblicato da Piero Fossi nel 1957. «Giorgione», dice l’autore, «si allontanò dalla storia e dalla società, la sua arte nasce dalla contemplazione... dall’armonia dell’universo dove il mondo degli uomini è allontanato e reso libero dalla schiavitú dei rapporti sociali, dalle vicissitudini delle passioni e degli interessi... per ritirarsi in una pacifica solitudine e vivere in armonia con l’armonia dell’universo. È come un nuovo Eden... dove tutti vivono l’amore e l’amore è libero dal peccato». Un altro gruppo di studiosi si ribellò a questo approccio astorico e giunse all’estremo opposto. Essi considerarono Giorgione come un artista intellettuale mosso da pensieri complicati. Il nome del tedesco Gustav Hartlaub merita una menzione particolare in questo contesto. Egli suggerí che Giorgione appartenesse ad un grup-
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po di umanisti (un’ipotesi non provata) e fosse interessato soprattutto a rappresentare soggetti esoterici di natura ermetico-alchemica. Rifiutando la teoria di Hartlaub, lo storico italiano Ferriguto tentò di provare che l’artista, tipico rappresentante delle tendenze filosofiche e letterarie del suo tempo, si impegnò ad illustrare le teorie intellettuali correnti. Ma, aggiunge un altro italiano, Stefanoni, che per altro concorda ampiamente con Ferriguto, Giorgione non rilevò né esplorò questi concetti nel loro senso astratto, scientifico-dottrinario, egli piuttosto li investí di un carattere illustrativo-didattico. Questi studiosi videro l’essenza di Giorgione nel segreto messaggio intellettuale che, secondo loro, egli cercò di trasmettere. Siamo agli antipodi dell’interpretazione data dall’art pour l’art. Qualunque sia il merito di questi studi, Ferriguto in particolare ricostruí con grande acutezza il circolo dei committenti dell’artista, tra i quali erano umanisti, filosofi, scrittori e nobili come Domenico Grimani, Geronimo Marcello, Gabriele Vendramin e probabilmente anche Marcantonio Michiel, Aldo Manuzio e, soprattutto, il poeta Pietro Bembo. Un terzo gruppo di storici dell’arte, pur essendo in gran parte debitori a questi studi, presero una posizione, per cosí dire, intermedia tra le due precedenti. Essi sottolinearono l’autonomia dell’arte di Giorgione senza dissociarla dall’ambiente intellettuale veneziano. Morassi, per esempio, dopo aver discusso lo sviluppo della nuova musica melodica a Venezia, sintetizzò in modo acuto che «l’insieme di questi risultati veneziani, sia nel campo delle arti visive che musicali, erano fili delicati che costituivano la trama del bagaglio culturale dal quale l’artista poté sviluppare la magia del suo colore». E in seguito: «la compagnia di uomini quali Almoro Barbaro, Gerolamo Donato e Giovanni Badoer, tutti eruditi nella filosofia e negli studi classici, dovevano infiammare l’immaginazione di un artista come Giorgione».
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È piú che probabile che i committenti di Giorgione, essendo istruiti umanisti, si aspettassero da lui quadri che essi potessero comprendere e in sintonia con i loro stessi interessi. È piú che una semplice ipotesi il fatto che Giorgione frequentasse la corte dell’affascinante Caterina Cornaro, regina di Cipro, che risiedeva ad Asolo, vicino a Venezia. Qui, in questo centro del moderno movimento letterario, Pietro Bembo compose gli Asolani, un libro sul potere dell’amore, attraverso cui ... con l’originaria bellezza si rinnovi l’età dell’oro, l’antica beatitudine. Si tratta di un sentimento caratteristico della nuova poesia pastorale. E da qui nacque la convinzione espressa dai moderni studiosi, che io sto cercando di analizzare, secondo cui i dipinti arcadici di Giorgione non sono – come volevano gli scrittori dell’Ottocento – veicoli di vaghe, indistinte e generiche idee sull’armonia dell’universo, ma concrete espressioni del movimento pastorale della letteratura italiana. Cosí, piú di quattrocento anni dopo la morte dell’artista, è stata aperta la via alla comprensione del vero Giorgione, mettendo da parte errori e pregiudizi. Questo rimane, io credo, un fatto innegabile, tuttavia resta ancora da definire la specifica posizione di Giorgione all’interno del movimento arcadico. Il medioevo ereditò un’antica teoria della storia, che venne riconciliata con le storie bibliche del Paradiso e della caduta dell’uomo. Questa idea della storia, concepita per la prima volta dai babilonesi e splendidamente formulata in età greca da Esiodo, nelle Opere e i giorni, vedeva lo sviluppo del genere umano come una progressiva degenerazione attraverso quattro età. Ma il medioevo e persino il Rinascimento accolsero come
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sacrosanta verità soprattutto la classica esposizione di questo tema compiuta da Ovidio. Cosí, nel commento alle Metamorfosi dell’edizione veneziana del 1552 si legge che l’età dell’oro durò da Adamo a Noè, l’età dell’argento da Noè ad Abramo, l’età del bronzo da Abramo alla nascita di Cristo, e l’ultima, l’età del ferro, dalla nascita di Cristo ai tempi presenti. Questo tema ovidiano pervase l’intera iconografia pittorica del Rinascimento e continuò anche in seguito. Sebbene essenzialmente pessimistico, il concetto delle quattro età conteneva la promessa messianica di un nuovo stato di innocenza, di felicità universale e rettitudine, poiché la nuova era veniva profetizzata nel Libro di Daniele, nell’apocrifo quarto Libro di Esdra e in altri passi della Bibbia, come nella Quarta Egloga di Virgilio, opera che esercitò un’immensa influenza durante il medioevo e il Rinascimento. La maggior parte dei dipinti rimastici, rappresentanti le quattro età, vanno considerati come illustrazioni del testo di Ovidio, anche se delle intere serie di quattro solo l’età dell’oro è stata scelta per essere raffigurata. Ciò non è insolito, infatti l’età dell’oro denota solitamente allo stesso tempo l’alba del genere umano e la speranza della beatitudine futura. In contrasto con questa tendenza, che contiene sempre un elemento didattico, ne esiste un’altra che conduce a Giorgione. Il concetto rinascimentale di una nuova età dell’oro può essere separata dalle sue origini religiose e messianiche e legata invece all’utopia pastorale dell’antichità. Non dobbiamo dimenticare che il genere bucolico fiorí nel iii secolo a. C. con la poesia di Teocrito, che Teocrito fu molto ammirato nel Rinascimento e che una delle prime edizioni delle sue opere venne pubblicata a Venezia nel 1495 da Aldo Manuzio, il quale (come ho già accennato) fu probabilmente uno
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dei protettori di Giorgione. Oltre a ciò le Egloghe di Virgilio, basate su Teocrito, erano da sempre conosciute e venerate, persino durante il medioevo, quando esercitarono una grande influenza sulla poesia allegorica pastorale. Virgilio fu il primo a collocare il regno della felicità pastorale in Arcadia, un’aspra e montagnosa provincia della Grecia, mentre Ovidio, nei Fasti, identificò la vita in Arcadia con l’età dell’oro. Questo insieme di idee poetiche affascinò studiosi e scrittori del Rinascimento e preparò la strada per la rinascita della letteratura bucolica. L’Arcadia del Sannazzaro, scritta intorno al 148o ma pubblicata solo agli inizi del Cinquecento, provocò una vera e propria inondazione di poesia bucolica, e poeti famosi, dal Boiardo al Tasso al Molza contribuirono al nuovo genere. La moda si propagò dall’Italia agli altri paesi europei dove fu accettata con grande entusiasmo. Già Sannazzaro fece uso di tutti i motivi caratteristici della poesia bucolica: sincero amore per la semplicità e per la schietta vita rurale, ritiro dall’intellettualismo superficiale della città, una vaga nostalgia, una profonda ed inesplicabile brama, un’atmosfera malinconica – pene di amore e morte presenti anche in Arcadia. Il primo a tradurre in realtà il sogno bucolico fu Lorenzo il Magnifico nella sua villa di Careggi vicino a Firenze. Poliziano nelle sue canzoni collegò la villa all’Arcadia e il gruppo di amici che vi si riunivano ai pastori arcadici. Questo era l’ambiente per cui Signorelli eseguí il famoso dipinto (distrutto durante l’ultima guerra) con Pan in trono come sovrano dell’Arcadia e dio degli armenti, delle ninfe, dei fauni dei satiri e dei pastori. Non intendo unirmi ai già numerosi tentativi fatti per interpretare questo emblematico capolavoro; vorrei solo dirigere l’attenzione sulla pacifica atmosfera di sogni malinconici – consoni allo stato d’animo arcadico – che pervadono quest’opera. Sembra quasi di
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sentire il suono avvolgente dei flauti riempire l’aria di una musica elegiaca. È importante realizzare che lo spirito bucolico è in questo caso comunicato essenzialmente per mezzo di figure umane. Il paesaggio arcadico, descritto nella poesia bucolica, è assente. Provvedere a questo fu il massimo contributo di Giorgione. E non si trattava di un compito facile. La letteratura rinascimentale poteva ricorrere a modelli della poesia classica, ma non rimanevano rappresentazioni pittoriche atte a mostrare come gli antichi immaginavano il regno di Pan. Secondo una prospettiva storica appare inevitabile che questo passo straordinario verso la traduzione dell’atmosfera rurale della poesia bucolica all’interno di forme visive fosse compiuto a Venezia. Venezia – luogo di origine di strane visioni come il Sogno di Polifilo e di paesaggi cosí intensi come quelli dipinti nella cerchia di Giovanni Bellini, luogo di nascita di uno spirito artistico piú libero, piú spontaneo e meno intellettuale di quello di Firenze (e che intorno alla metà del Cinquecento produsse la critica sensuale ed intuitiva di un individualista quale Aretino) – era l’unico luogo in cui potesse originarsi l’arte arcadica di Giorgione. L’atmosfera bucolica, suggerita da uno stile universalmente comprensibile, doveva essere espressa attraverso temi arcadici graditi ai clienti ed ai committenti. Bisogna notare che la maggior parte dei dipinti giorgioneschi presentano poche difficoltà di lettura. Giorgione ed i suoi seguaci scelsero soggetti facilmente comprensibili, fatto che si tende a trascurare in favore di poche opere emblematiche. Si dà il caso che tre o quattro dei dipinti piú importanti (La tempesta, I tre filosofi, il Concerto campestre del Louvre e la Venere di Dresda) presentano ancora innumerevoli problemi di interpretazione. Un accenno al modo con cui Giorgione trattò i temi religiosi potrà forse aiutarci a comprendere anche il suo
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approccio ai soggetti profani. Dipinti come la Madonna di Castelfranco, la Giuditta di Leningrado e L’Adorazione dei pastori di Washinghton sono, da un punto di vista iconografico, perfettamente comprensibili, anche se sono dipinti con uno stile nuovo e personale e sebbene mostrino un nuovo tipo di paesaggio idillico. Solo uno, tra i suoi dipinti religiosi, ha creato perplessità negli osservatori: il dipinto degli Uffizi rappresentante Mosè bambino a cui vengono offerti un piatto con dei gioielli ed un braciere, e la sua scelta di quest’ultimo. Questo strano soggetto illustra un passaggio del Talmud, ma appare anche nella Historia Scholastica di Piero Comestore, la piú famosa storia ecclesiastica del tempo, di grandissima diffusione e con nuove edizioni annuali tra il 1473 ed il 1526. Cosí quello che oggi ci colpisce come strano, era del tutto familiare all’istruita società rinascimentale. Analogamente i dipinti bucolici di Giorgione illustrano soggetti scelti da Ovidio, Virgilio, Plutarco e da altri scrittori classici, tutti ben conosciuti ad un vasto pubblico e fonte d’ispirazione per gli artisti lungo tutto l’arco del Rinascimento. Troviamo soggetti familiari come Leda e il cigno (Padova), Venere e Cupido (Washinghton), Apollo e Dafne (certamente un lavoro di bottega, Venezia, Seminario arcivescovile), il Ritrovamento di Romolo e Remo (Francoforte), il Ratto di Europa (perduto ma conosciuto attraverso un’incisione di Teniers), ed il Giudizio di Paride (conosciuto attraverso copie). A questi vorrei aggiungere la piccola tela di Princeton rappresentante Paride abbandonato sul Monte Ida (oggi considerata comunemente un originale) e il Ritrovamento di Paride (conosciuto solo attraverso copie). Questi ultimi due rappresentano soggetti meno comuni, ma la loro fonte sono le Favole di Igino, ampiamente lette durante il medioevo e il Rinascimento. In tutti questi casi il tema mitologico ci riporta ad un
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mondo in cantato, quando gli dei e gli eroi di un remoto passato erano abitanti di questa terra, e abbiamo motivo di credere che i conoscitori veneziani non ricercavano in queste pitture nessun significato nascosto ma ne godevano il chiaro e diretto messaggio. Siamo molto lontani (come disse una volta Giuseppe Fiocco) dall’ambito della tradizionale allegoria rinascimentale. A supporto della mia interpretazione vorrei sottolineare il fatto che contemporaneamente la poesia pastorale veniva illustrata anche nel circolo di Giorgione, e ciò accadeva probabilmente con piú frequenza di quanto sappiamo oggi. Come esempio riporto i quattro piccoli pannelli della National Gallery di Londra, un tempo pubblicati come di Giorgione, ma ora attribuiti piú convincentemente a Previtale. Il significato del tema di questi dipinti sembrò stranamente insolubile, prima che Gombrich scoprisse che essi erano fedeli illustrazioni della seconda Egloga del poeta ferrarese Tebaldeo, pubblicata a Venezia nel 1502 (come parte dei suoi Poemi volgari). Il poema bucolico di Tebaldeo era immensamente popolare e veniva cantato ovunque e da chiunque; questi quadretti, ben lontani dal rappresentare un enigma, erano capiti ed apprezzati da molte persone ad una prima occhiata. Esiste anche un certo numero di mezze figure, dipinte da Giorgione e dai suoi imitatori che, per cosí dire, raffigurano gli abitanti del mondo arcadico, come il Pastore con flauto di Hampton Court e Napoli e il Cantante e il musicista della Borghese. Sulla base di tutto questo materiale possiamo concludere che Giorgione, da vero artista quale era, tentò di resuscitare, con mezzi puramente visivi, i vari aspetti del mondo arcadico, quel mondo di suprema felicità tinta di tristezza, sognato da poeti e filosofi, dal nobile e dall’uomo comune del Rinascimento. Era il sogno malinconico dell’utopia moderna, che ha sempre osses-
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sionato gli uomini affollati nelle grandi città; un sogno malinconico perché ruota attorno all’ideale irraggiungibile di una primitiva felicità; un’utopia mondana perché promette la pace dell’anima in questo mondo piuttosto che nella vita futura. In ciò risiede l’immediato trionfo di Giorgione: il nuovo Eden, che egli dipinse con il suo pennello, era in completo accordo con lo spirito del suo tempo, ma egli fu capace di dare espressione visiva alla vaga bramosia dei suoi concittadini. E fu proprio il carattere mondano dei suoi dipinti che gli assicurò un successo duraturo. Il vero successore di Giorgione fu Claude Lorraine che, con i suoi paesaggi bucolici popolati dagli dei e dagli eroi dell’antichità, lusinga lo spettatore con la completa pace dell’età dell’oro di Virgilio. Lo spirito di Claude e, attraverso di lui, di Giorgione, trovò un’inaspettata realizzazione nel giardino inglese del xviii secolo. Nel 1712 all’inizio di questo movimento Addison scrisse: «Dovete sapere che considero il piacere che ci deriva da un giardino come uno dei piú innocenti piaceri della vita umana... È naturalmente atto a riempire la mente di calma e tranquillità... e suggerisce innumerevoli soggetti di meditazione». Questo stato d’animo, io credo, è lo stesso che Giorgione e i suoi seguaci cercarono di esprimere nei loro dipinti, e che gli umanisti committenti chiedevano a Giorgione di rendere tangibile.
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Capitolo nono I Sacri Monti delle Alpi italiane
Nella seconda metà del Quattrocento due giovani milanesi di nobile famiglia entrarono nell’ordine francescano dei frati minori: Bartolomeo Caimi, autore di un certo numero di libri teologici eruditi, un uomo dotto che non lasciò mai il suo paese nativo, e un suo parente, o forse fratello, Bernardino, grande viaggiatore, un uomo d’azione e predicatore. I vecchi dizionari di solito dedicano più spazio alle imprese di Bartolomeo che a quelle del suo parente. Tuttavia la vita di Bernardino fu estremamente piú vivace, e mentre i libri di Bartolomeo giacciono non letti negli scaffali delle antiche biblioteche, il risultato tangibile dell’energia, dell’entusiasmo e della capacità di persuasione di Bernardino incanta ancora un gran numero di fedeli. Fu lui che inaugurò una delle imprese piú straordinarie nella storia della devozione cattolica e dell’arte religiosa, un’impresa raramente eguagliata nel suo efficace appellarsi all’immaginazione popolare e, ancora fino ad oggi, nel suo respingere i viaggiatori piú sofisticati o eruditi. Fra’ Bernardino nacque intorno alla metà del Quattrocento e morí nel 1509, secondo l’iscrizione conservata sulla sua tomba. Nel 1477 venne nominato guardiano del Santo Sepolcro a Gerusalemme, un compito tradizionalmente svolto dai francescani. Al suo ritorno in Italia, nel 1478, egli cominciò ad elaborare un grandioso progetto. Durante il suo soggiorno in Palestina
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aveva assistito all’incremento del potere dei Turchi. Il commercio dell’Occidente verso est stava rapidamente esaurendosi e il pellegrinaggio in Terra Santa stava diventando sempre piú rischioso. In Europa il fervore religioso popolare era aumentato, incoraggiato sia dai francescani che dalle piú recenti fondazioni come i fratelli Windesheim della Vita Comune. Contemporaneamente, il crescente sommovimento causato da vari movimenti eretici evocava presagi dell’arrivo di piú gravi problemi. Fu in questo momento di ardore e di crescente pericolo che l’idea di Bernardino trovò una risposta immediata: egli suggerí niente di meno che di portare il Monte Sion direttamente alla gente in Europa e di mettere la Terra Santa alla portata di tutti i fedeli, e lí adorarla in pace e sicurezza. In poco piú di due anni i progetti di Bernardino incominciarono a prendere forma. Egli trovò il luogo adatto, ottenne i necessari aiuti finanziari, e finalmente, nel 1481, fu concessa l’autorizzazione papale per portare a compimento la sua impresa grandiosa. La sua nuova Gerusalemme sarebbe sorta vicino a Varallo in Lombardia, ai piedi delle Alpi, non lontano da Milano, sua città natale, un paese che egli certamente conosceva bene dalla giovinezza; un paese, inoltre, che sembrava in quel periodo esposto alle minacce riformatrici provenienti dal nord come dal confinante Piemonte, l’unica zona d’Italia in cui le sette eretiche avessero ottenuto una posizione stabile. La scelta di questo particolare luogo venne determinata da alcune caratteristiche geografiche, in particolare da una certa somiglianza, anche se approssimativa, tra il promontorio sopra Varallo, e la collina della città santa. In ogni caso, ci si avvide subito che questo paesaggio possedeva le qualità di un potente stimolo, qualità che non persero mai a loro potere. Duecento anni dopo il canonico Torrotti scrisse: «La regione di questa nostra Gerusalemme è l’esatta con-
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troparte di quella che si trova in Terra Santa; infatti essa ha da un lato il Mastallone, al posto del torrente Kedron, la Sesia per il Giordano e il lago di Orta per quello di Cesarea». La fondazione di fra’ Bernardino si lega al meno ambizioso tentativo medioevale di far conoscere in occidente i luoghi santi di Gerusalemme, in modo particolare il Santo Sepolcro, «copie» del quale vennero erette in tutta Europa a partire dal v secolo in poi; il gruppo di costruzioni collegate a Santo Stefano a Bologna, per esempio, fu molto presto chiamato Gerusalemme. L’idea di fra’ Bernardino deriva da questa tradizione ma si ricollega anche ad iniziative contemporanee: fu in questo periodo che, a beneficio dei pellegrini, i monaci francescani in Palestina iniziarono ad organizzare luoghi di sosta, in seguito chiamati «stazioni», lungo la via sacra, intesi a segnare gli episodi drammatici del cammino di Cristo al Calvario. Dall’inizio del Cinquecento in poi copie di queste «stazioni della Croce» si moltiplicarono in differenti luoghi del mondo occidentale, a Cordoba, Messina, Goerlitz, Norimberga, Lovanio, e altri ancora. Le cappelle che vi si erigevano variavano di numero; di solito erano dodici, o anche meno, e solo in seguito il loro numero venne fissato a quattordici. Fra’ Bernardino estese enormemente gli scopi di questo schema primitivo considerando l’intera montagna come se, con le parole di Samuel Butler, «fosse stata un libro o una parete» ricoperta di illustrazioni. Quarantatre cappelle, ciascuna raffigurante una scena con molti personaggi tratta dalla vita degli antenati di Cristo o dalla sua esistenza terrena, dovevano susseguirsi tra gli alberi di castagno, invitando il pellegrino a seguire il sentiero tortuoso dalla chiesa della Madonna delle Grazie, attraverso il cancello d’ingresso ai terreni e più avanti alle cappelle dedicate ad Adamo ed Eva, l’Annunciazione, la Visitazione e il Sogno di Giuseppe, la
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Natività, l’Adorazione dei Magi e quella dei pastori, piú avanti la Presentazione al Tempio e la Fuga in Egitto, il Massacro degli Innocenti e il Battesimo, senza posa, avanti e indietro, fino a che il pellegrinaggio non raggiunge l’ultima cappella. Questa pretendeva di essere una replica fedele del sepolcro di Cristo, mentre una seconda cappella era, secondo la tradizione, la copia della tomba della Vergine. Oggi poche, o forse nessuna, delle scene piú antiche sono conservate nel loro stato e sistemazione originale. Ma dalla prima cappella, eretta sotto la diretta supervisione di fra’ Bernardino all’ultima, eseguita nel xviii secolo, lo schema rimase lo stesso: le scene sono rappresentate per mezzo di figure realistiche di grandezza naturale, fatte prima di legno e in seguito di terracotta o di gesso. Lo sfondo e le figure policrome sono realizzate nel modo piú realistico possibile al fine di evocare nell’osservatore la sensazione di partecipare ad un evento attuale: capelli e barbe sono di solito fatte di crini di cavallo; le stoffe a volte sono fatte di vero tessuto; il porcospino della Tentazione di Cristo ha veri aculei; le funi penzolanti dal soffitto sotto cui Cristo risana il paralitico, sono vere funi; la terra, la sabbia, spesso anche la muratura e i cespugli sono veri. Le prime cappelle erano semplici stanze rettangolari, recentemente è stata aggiunta una suddivisione in vetro tra gli spettatori e la scena rappresentata. In seguito l’intera costruzione fu completamente riservata alla scena sacra, scena che il visitatore, protetto da un portico, può solo vedere attraverso uno spioncino ricavato da una grata in ferro battuto, assicurando in tal modo il corretto punto di vista per il pieno impatto illusionistico. È evidente che un abisso separa le «copie» dei luoghi santi di fra’ Bernardino da quelle precedenti. Mirare ad una copia realistica era cosa del tutto aliena all’attitudine essenzialmente simbolica del medioevo. Al con-
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trario, coloro che eressero le stazioni della Croce nel xv secolo, vollero riprodurre visivamente in modo esatto gli eventi che si credeva fossero avvenuti lungo la via dolorosa, e la loro indagine analitica arrivò al punto di misurare gli intervalli precisi tra i luoghi consacrati per restare fedeli alla realtà degli eventi. Tutto ciò è caratteristico del vivo realismo della nuova epoca, ma fra’ Bernardino andò piú oltre di chiunque altro. Egli volle essere «corretto» nelle misure dello scenario fin nei minimi dettagli. Per noi il promontorio ai piedi delle Alpi con il Monte Rosa sullo sfondo può restare completamente irreale e immaginario. Per fra’ Bernardino e per i pellegrini che andavano a visitare il proprio Monte Sion ciò che contava era l’evocazione della realtà, non la letterale somiglianza. Malgrado la differenza tra l’approccio al linguaggio delle immagini religiose proprio del medioevo e quello di fra’ Bernardino, risulta immediatamente chiaro che le scene realistiche hanno le loro radici nella sacra rappresentazione tardo-gotica. Ciascuna cappella può essere paragonata ad una scena delle sacre rappresentazioni bloccata per sempre, e ciò fu certamente una forte leva atta a stimolare l’immaginazione popolare, ma l’illusionismo attentamente studiato e preordinato di ciascuna scena, trascende di gran lunga i legami con il passato; essendo ormai assimilate le conquiste del Rinascimento italiano, esso dà a questa arte popolare una qualità piuttosto sofisticata. Uno sguardo ai nomi dei pittori, scultori e architetti impiegati ce ne spiega il motivo. Fra’ Bernardino fu abile nella sua scelta e fortunato nella disponibilità dei suoi artisti. Le valli alpine erano rinomate per i loro bravi artigiani; per secoli i piú abili intagliatori e scultori in Italia provenivano dalla Valsesia e dalle regioni circostanti. Ora essi trovarono un vasto campo di attività in questo e nei successivi santuari. Meglio ancora, fra’ Bernardino fu capace di otte-
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nere i servigi di Gaudenzio Ferrari, pittore eccellentemente dotato, capace di realizzare le idee del frate. Gaudenzio Ferrari «non solo un pittore abile... ma anche matematico e filosofo estremamente profondo» secondo le parole del Lomazzo, era nativo della Valsesia. Nato intorno al 1475, dovette fare il suo ingresso al Sacro Monte ancora giovane, pieno di intraprendenza e di audacia, entrambe certo necessarie per il nuovo compito di forgiare natura e tradizioni religiose, architettura, pittura e scultura in un tutto omogeneo. Fu probabilmente lui a suggerire per primo la sistemazione del primitivo, in un certo senso casuale, assetto delle cappelle. Chiunque voglia studiare Gaudenzio dai suoi esordi milanesi quattrocenteschi alla sua piú compiuta opera manierista, deve fare il pellegrinaggio a Varallo. Gaudenzio visse a Varallo a partire dal 1526 e in seguito vi lavorò a piú riprese fino al 1539. Con la sua morte, nel 1546, la prima generazione di artisti che ancora avevano conosciuto il fondatore del santuario, si estinse. Tuttavia, nelle generazioni successive, Varano rimase un punto di attrazione per artisti eminenti. Nomi famosi come quelli degli architetti Galeazzo Alessi (1512-72) e Pellegrino Tibaldi (1527?-1596) sono collegati al Sacro Monte. Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento l’impresa fu portata avanti con nuova intensità. Era il periodo in cui la Lombardia, profondamente scossa dalla Controriforma, vide un periodo di ineguagliabile attività artistica, sotto il suo grande vescovo Carlo Borromeo (m. 1584) e suo nipote Federico (m. 1631). I principali pittori che lavorarono allora alle cappelle di Varallo furono: il Morazzone (1571-1626) e Antonio d’Enrico, detto Tanzio da Varallo (1575-1635), che solo oggi cominciano a ricevere l’attenzione che è loro dovuta. Questi erano grandi maestri dell’affresco nella tradizione di Gaudenzio Ferrari che tuttavia svilupparono secondo uno stile tipicamente controriformi-
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stico, teso ed intenso. Nello stesso periodo un’intera squadra di scultori eseguí la maggior parte delle figure. I loro nomi, come quello del fratello di Tanzio, Giovanni d’Enrico, Giacomo Bargnola, Bartolomeo Ravelli, Giacomo Parracca, Michele Rossetto o Michele Prestinari, ancora dicono poco ai non specialisti. Solo il fiammingo Jean Wespin, chiamato in Italia Giovanni Tabachetti, fu una volta scelto e bizzarramente lodato da Samuel Butler come «uno degli uomini migliori, tra tutti quelli che lo circondavano, di Michelangelo». Il solido realismo di Tabachetti, studiato meglio nel suo capolavoro, il Calvario con quaranta figure e nove cavalli (1599-1602), regge favorevolmente il confronto con lo stile piú formale dei suoi contemporanei italiani. Fra’ Bernardino morí nel 1509, ma i lavori del sacro monte continuarono per secoli in piena conformità con le sue idee. Nel xviii secolo vennero progettate ancora nuove costruzioni, e l’ultima cappella non fu terminata prima del 1818. Il carattere popolare di questa arte produsse un notevole livellamento delle differenze stilistiche, con il risultato che l’intera montagna con le sue numerose costruzioni, le sue migliaia di metri quadrati di affreschi e centinaia di figure, presenta un carattere quasi uniforme. Per tre secoli il Sacro Monte di Varallo fu la meraviglia e il diletto dei pellegrini. Carlo Borromeo fu lí nel 1578 e ancora nel 1584, pochi giorni prima della sua morte. Nel xvii secolo Varallo divenne cosí popolare che, ancora secondo il canonico Torrotti, «fiumi di uomini e donne di tutte le nazioni del mondo» giunsero per pregare e contemplare o solo per godere quegli zefiri frequenti, gli inverni miti o le piacevoli estati, o solo per osservare i «pellegrini e i religiosi di tutti i generi; processioni, prelati e spesso principi e principesse, carrozze, lettighe, calessi, equipaggi, compagnie di persone a cavallo... che mi riportano alla mente le parole del Salmista: – “Vieni e osserva le
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opere del Signore, perché egli ha creato le meraviglie della terra”». La fama del Sacro Monte di Bernardino incitò all’imitazione, e circa un centinaio di anni dopo la fondazione di Varallo santuari simili cominciarono a sorgere nelle vicinanze. Il primo fu Orta, nel piccolo lago omonimo, un tempo a mezza giornata di cammino dalla Valsesia. Quindi seguí Varese e, in ultimo, Oropa. Come Varallo, questi tre santuari godevano di una splendida posizione: Orta in una piccola penisola sporgente dentro il lago, in una calma atmosfera di pace e mitezza; Varese, vicino a Como, in alto su di una collina con una vista magnifica sui laghi circostanti; e Oropa, il piú alto di tutti, circondato su tre lati da cime coperte di neve e, sul lato aperto, con un’ampia vista sulla pianura. Orta, antica fondazione francescana, è il piú piccolo e il piú armoniosamente sistemato dei tre santuari. Come a Varallo, la disposizione originale fu probabilmente disegnata non da un architetto ma da un membro dell’ordine. Chiunque fosse il responsabile egli fece attenzione al particolare fascino del paesaggio e fu molto abile nell’usarlo per il suo fine. Sentieri leggermente sinuosi incrociano a pendio del colle, scendendo e salendo dolcemente cosí che la zona appare piú grande di quanto non sia effettivamente. Le venti cappelle, costruite tra il 1591 e il 1770, sono completamente integrate con l’atmosfera di calma rurale. Esse contengono gruppi scolpiti realistici come quelli di Varallo, ma in questo caso essi illustrano la vita di san Francesco, mentre gli affreschi raffigurano storie tratte dal Vecchio Testamento e dalla vita di Cristo. La maggior parte degli artisti impiegati veniva dalle immediate vicinanze; ma, sebbene alcuni di essi fossero maestri di prim’ordine – come i pittori Procaccini e Nuvolone e lo scultore Rusnati – e sebbene altri come Bussola, Prestinari e i fratelli Grandi avessero acqui-
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sito esperienza a Varallo, le storie scolpite e dipinte di Orta sembrano mancare di immediatezza e spontaneità. Soprattutto la relazione tra i gruppi scultorei e gli affreschi non è facilmente comprensibile, in contrasto con il programma chiaro e unitario delle cappelle di Varallo. Ad eccezione del programma complessivo, la gloria principale di Orta risiede nel progetto delle maestose cappelle. Almeno quattordici di esse vennero erette nell’ultimo decennio del Cinquecento e nel primo quarto del Seicento in modo raffinato ed estremamente affascinante. Si tratta in questo caso di un fantasioso architetto che sapeva come dare allo schema centralizzato la maggior varietà possibile. La sua identità rimane uno dei tanti quesiti interessanti che le ricerche insufficienti sulla storia di Orta lasciano irrisolti. Il tema delle cappelle di Varese si lega ad un antico culto della Vergine. L’attuale basilica, Santa Maria del Monte, sorse sul luogo in cui sant’Ambrogio dedicò alla Vergine una piccola cappella, nella seconda metà del iv secolo. È per questo motivo che le cappelle che conducono fino al santuario furono concepite come una simbolica rappresentazione del rosario: tre arcate dividono le quindici cappelle in tre gruppi simboleggianti le gioie, i dolori e la gloria della Vergine. L’idea fu ancora una volta di un ecclesiastico ispirato, ma in questo caso il progetto venne affidato fin dall’inizio ad un famoso architetto di professione: Giuseppe Bernasconi da Varese. Egli disegnò l’intero complesso e supervisionò lui stesso la maggior parte dei lavori. Quello che rimase incompiuto alla sua morte fu fedelmente portato a compimento secondo i suoi progetti. Stilisticamente Bernasconi dipendeva dal severo classicismo in voga a Milano agli inizi del Seicento. Gran parte delle quindici cappelle erette tra il 1604 e il 168o sono variazioni del tema del tempio con il portico, e questo è l’unico elemento
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che contraddice l’aspetto omogeneo dell’intero schema. Va a onore di questo architetto provinciale l’essere stato capace non solo di inserire una grande varietà all’interno di limiti cosí restrittivi, ma anche di aver saputo rendere un effetto monumentale malgrado le piccole dimensioni degli edifici. Al confronto di Varallo il numero di artisti impiegati nell’opera plastica e pittorica è ridotto, ma i nomi di almeno dodici pittori sono conosciuti, e tra di essi appare ancora una volta quello dell’infaticabile Morazzone. Dei cinque scultori il piú importante è Francesco Silva (1580-1641) la cui bottega produsse le figure di dodici delle quindici cappelle. Silva passò l’intera sua vita impegnato in questo compito smisurato e la sua opera rappresenta lo sforzo piú consistente mai compiuto di creare un genere di figure in terracotta realistico e popolare. La tradizione da lui inaugurata fu interrotta da Dionigi Bussola (1612-87), un milanese che aveva studiato a Roma e di conseguenza sapeva come infondere alle sue figure, nella cappella della Croce, un vero senso di dramma barocco. Un mondo completamente diverso si schiude ad Oropa; dove non si percepisce piú niente del fascino sognante di Orta o della calma dignità di Varese. La fama dell’antica e venerabilissima effige della Vergine di Oropa, all’inizio collocata in una piccola cappella creduta risalire al iv secolo e sostituita nel xvii secolo dalla chiesa attuale, ha sempre richiamato grandi folle di pellegrini e visitatori, cosa che accade ancor di piú ai nostri giorni. Con il suo scenario alpino, selvaggio e grandioso, i suoi tre piazzali terrazzati fiancheggiati da gallerie e file di negozi, ristoranti, ostelli ed edifici amministrativi, tutti mantenuti in ottime condizioni, Oropa offre qualcosa che nessun altro santuario può offrire. Essa provvede sia ai bisogni spirituali che materiali. Una gestione efficiente assicura pasti e letti gratuiti per i piú
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poveri, sistemazioni ben scelte e costose per i piú abbienti, grandiosi parcheggi e schiere senza fine di souvenirs adatti a tutti i portafogli. Mentre negli altri Sacri Monti l’attrazione principale per i fedeli è il pellegrinaggio di cappella in cappella, ad Oropa il centro principale di culto è la chiesa. Le dodici semplici cappelle bianche, costruite tra la fine del Seicento e i primi del Settecento, sembrano essere state aggiunte in seguito ad un ripensamento. Esse sono raggruppate su di un pendio gradevole ma non appariscente e anch’esse sfoggiano le loro scene realistiche fatte di figure scolpite e sfondi dipinti, questi ultimi opera per la maggior parte di Giovanni Galliari. Stranamente la storia dettagliata di Oropa non è ancora stata scritta, e l’influenza dei progetti e degli schizzi presentati da architetti internazionalmente rinomati quali Guarino Guarini e Filippo Juvarra per la formazione dell’intero complesso, o di alcuni edifici, non è ancora stata chiarita. In questa breve rassegna sui Sacri Monti ne ho tralasciati due meno importanti, quello di Crea, a nord di Asti, e quello di Graglia, nei pressi di Biella, non lontano da Oropa. Il primo, di ventitre cappelle, venne iniziato nel 1590; il secondo venne progettato di circa cento cappelle agli inizi del Seicento, ma venne eseguito solo in minima parte. Tutti questi santuari erano considerati come punti focali per la devozione popolare, ma esiste un’importante differenza tra Varallo e gli altri. Mentre la fondazione di Varallo fu dovuta, come abbiamo visto, alla mania tipicamente tardo-medioevale o del primo Rinascimento, di possedere, nelle Alpi italiane, una replica accurata di Gerusalemme, nessuna idea di questo genere ispirò gli altri santuari. Essi sono fondazioni della Controriforma e non presuppongono di essere accurate riproduzioni dei luoghi sacri, ma vanno piuttosto con-
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siderati come variazioni di uno schema stabilito e come mezzo per alimentare il rinnovato fervore religioso: sono fiaccole della fede accese lungo le Alpi, poste a difesa contro le minacce del nord. Non sorprende che questi luoghi fossero destinati a tenere viva una tradizione artistica che aveva le sue radici nel medioevo. Fu solo nel corso del Quattrocento che, in seguito all’emancipazione dell’artista sostenuta da una teoria artistica classicista e idealizzante, «arte alta» e «arte popolare» vennero separate. Nella pratica, la frattura impiegò qualche tempo prima di diventare pienamente effettiva, come ci dimostrano, tra gli altri, i realistici tableaux vivants policromi in terracotta di Niccolò dell’Arca e Guido Mazzoni. Oltretutto, rimase consuetudine degli artisti, soprattutto nelle province, lavorare ad entrambi i livelli. Cosí, scultori napoletani di «arte elevata» come Celebrano, Vaccaro, Sammartino e Matteo Battiglieri non esitarono a creare presepi di natale accuratamente realistici e colorati, familiari a tutti. Il progressivo irrigidimento della posizione teorica può essere seguito a partire da Leon Battista Alberti nel xv secolo fino a Bellori nel xvii e Winckelmann nel xviii secolo quando «grande arte» e «arte bassa» vengono definitivamente divise. E come Canova non avrebbe provato altro che disprezzo nei confronti del realismo «naïf» che era di casa nei Sacri Monti, cosí gli storici d’arte dell’Ottocento, interessati solo alla storia della «grande arte», esclusero qualsiasi riferimento ad essi. Persino agli inizi del xx secolo le guide, sebbene inseriscano occasionalmente un asterisco in corrispondenza del loro sito, dedicano poi solo poche righe al fascino di questi centri di vera arte popolare. Solo l’irascibile Samuel Butler impugnò la sua penna in favore della sua diletta Varallo, ammettendo malvolentieri che anche gli altri luoghi non erano completamente privi di merito.
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Invece di note dettagliate riporto qui di seguito una lista delle fonti piú importanti: Samuel Butler, Ex Voto: An Account of the Sacro Monte or New Jerusalem at Varallo Sesia, London 1888. C. del Frate, Santa Maria del Monte sopra Varese, Varese 1933. F. Galloni, Il sacro monte di Varallo, Varallo 1909. P. Goldhart, Die heiligen Berge Varallo, Orta und Varese, in «Beitrage zur Bauwissenshaft», 19o8. A. Salsa, Biografia del b. Bernardino Caimi fondatore del S. Monte Varallo Sesia, Varallo 1928. M. Trompetto, Il santuario d’Oropa, Milano 1949.
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