Appunti Verde Territoriale Bis (Da Stampare e Studiare)

April 27, 2017 | Author: Luca Lizzio | Category: N/A
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Università degli Studi di Catania FACOLTÀ DI AGRARIA Corso di laurea in:

TECNOLOGIE E PIANIFICAZIONE PER IL TERRITORIO E L’AMBIENTE Corso monodisciplinare in:

VERDE TERRITORIALE E AMBIENTALE appunti delle lezioni ad uso degli studenti (a cura di: Daniela Romano)

Anno Accademico 2006-2007

Verde territoriale e ambientale

INDICE 1. Definizione ed ambiti del corso 2. Diffusione del verde 3. Le tipologie di spazi a verde 3.1. Evoluzione del verde pubblico 3.2. Criteri di classificazione 3.3. Profilo tecnico e funzionale delle tipologie più rappresentative 3.4. Il giardino privato nel XX secolo 3.5. I giardini tradizionali siciliani 4. Funzioni della vegetazione 5. La progettazione del verde 5.1. Studi preliminari 5.1.1. Individuazione dell’area 5.1.2. Analisi del paesaggio 5.1.3. Analisi del clima 5.1.4. Analisi dell’ambiente geopedologico 5.1.5. Analisi della vegetazione 5.2. Piante ornamentali per gli spazi a verde in ambiente mediterraneo 5.2.1. Premesse 5.2.2. Scelta della specie 5.2.2.1. Considerazioni generali 5.2.2.2. Caratteristiche dell’ambiente mediterraneo 5.2.2.3. Criteri e parametri di scelta 5.2.2.4. Fasi della scelta 5.2.2.5. Principali gruppi di piante 5.2.2.6.Caratteristiche dei principali gruppi di piante 5.2.2.7. Il contributo delle specie esotiche 5.2.2.8. Il ruolo delle specie autoctone 5.3. Disposizione delle componenti vegetali 5.4. Le specificità del giardino 5.5. Tecniche e soluzioni progettuali per l’ambiente mediterraneo 5.6. Redazione del progetto 5.6.1. Elaborati grafici 5.6.2. Relazione esplicativa 5.6.3. Computo metrico estimativo dei lavori 5.6.4. Capitolati generale e speciale 5.6.5. Vincoli ed opportunità di carattere normativo 6. L’impianto del verde 6.1. Sistemazione e preparazione dell’area 6.2. Messa a dimora delle componenti vegetali 6.3. Esecuzione di opere strutturali ed accessorie 6.4. Un caso particolare di impianto del verde: i giardini pensili 7. La gestione del verde 7.1. L’organizzazione delle attività 7.2. Il censimento del verde 7.3. La manutenzione 7.3.1. Pulizia 7.3.2. Controllo delle infestanti 7.3.3. Irrigazione 7.3.4. Fertilizzazione 7.3.5. Difesa fitosanitaria 7.3.6. Trattamenti endoterapici 7.3.7. Potatura 7.3.8. Dendrochirurgia 7.3.9. Gli interventi di manutenzione nel verde storico 7.3.10. Best Management Practice ALLEGATI

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Definizioni ed ambiti del corso

1. DEFINIZIONE ED AMBITI DEL CORSO Il corso si propone di approfondire le problematiche relative agli ambiti territoriali ed ambientali della progettazione, realizzazione e gestione degli “spazi a verde”. Quest’ultima locuzione è utilizzata, nell’ambito del corso, per indicare tutte quelle porzioni del territorio che sono progettate ex novo dall’uomo (o lo sono state nel passato) a fini ornamentali e per rispondere alle esigenze della fruizione. Sono compresi quindi tutti gli spazi, siano essi pubblici o privati, di piccole dimensioni o molto estesi, in ambito urbano ed extraurbano, in cui sia presente la componente vegetale. L’elemento caratterizzante il corso è, a nostro avviso, l’attenzione nei confronti delle piante e di tutti gli interventi che occorre mettere in atto - dalla scelta della specie, all’individuazione ed esecuzione delle cure colturali - affinché la realizzazione vegetale duri nel tempo, mantenendo un gradevole effetto estetico, e svolga quelle funzioni di fruizione e di miglioramento dei parametri ambientali, cui si guarda con sempre maggiore interesse. Come vedremo meglio nel prosieguo, sono numerose le figure professionali che si occupano del “verde” e della sua progettazione; architetti, ingegneri, urbanisti, botanici, naturalisti ed ovviamente agronomi. Per sgombrare da subito il campo da equivoci è bene chiarire che “progettare il verde” è operazione complessa che necessita di competenze multidisciplinari se si vogliono ottenere risultati pregevoli: l’importante è, però, che ciascuna figura professionale svolga le proprie funzioni e non cerchi di arrogarsi competenze che non le sono proprie. Nel nostro caso specifico, provenendo da una formazione “agronomica”, cercheremo di privilegiare gli aspetti connessi con la preparazione dell’ambiente (dato che lo spazio a verde si configura come un particolare “agrosistema”, come specificheremo meglio in seguito) e soprattutto con la scelta della pianta e con la sua corretta utilizzazione e/o coltivazione. L’impianto e la manutenzione del verde saranno anch’essi affrontati nella convinzione che se non si risolvono i problemi ad essi collegati qualsiasi progetto rimane solo “di carta” e non potrà mai effettivamente realizzarsi. Nei paesi europei dove la “cultura del verde” è più ampia e consolidata, in genere alla fase progettuale si affianca, come momento imprescindibile, anche quella della previsione delle operazioni da fare per il governo del giardino, per un arco temporale piuttosto ampio (fino a 30 anni). Questo «Piano del governo del giardino» o «Piano operativo di manutenzione» in Italia, a differenza di altri paesi europei (come peraltro dimostra lo stesso aspetto linguistico1), non è ancora stato adeguatamente analizzato. Prima di affrontare gli aspetti specifici del corso, riteniamo opportuno chiarire, da un punto di vista terminologico, gli ambiti in cui ci muoveremo. La questione è interessante perché occorre ricordare come vi siano tante definizioni di “verde”, volendo dare a questo termine il significato estensivo di “spazio a verde”, quante sono le figure professionali coinvolte nella progettazione dei parchi e dei giardini. Da un punto di vista strettamente terminologico i termini di “parco” e “giardino”, spesso utilizzati per definire le diverse tipologie di verde, vengono così definiti dal dizionario Zingarelli: Parco = terreno boscoso e piuttosto esteso, spesso recintato ed adibito a usi particolari / Giardino molto grande abbondantemente alberato, privato o pubblico. Giardino = terreno con colture erbacee e arboree di tipo ornamentale. Risulta chiaro come i due termini siano in parte sovrapponibili: nel concetto di parco prevale soprattutto l’aspetto dell’estensione della superficie; in quello di giardino l’attributo di ornamentalità. Lo stesso dizionario così definisce il termine di verde, che spesso prevale nell’uso per indicare le diverse tipologie di spazi interessati da vegetazione: Verde: (est.) Vegetazione / Area, zona ricca di prati, alberi e vegetazione in genere / Verde 1

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A differenza dell’italiano, dove di fatto non si assiste ad una terminologia ben definita e da tutti accettata, nelle altre lingue europee esistono termini univoci per indicare quest’ambito della manutenzione del verde (es. in tedesco Parkpflegewerk, in francese Directives d’entretien des parcs, in inglese The park scheme).

Definizioni ed ambiti del corso

pubblico, in una città, l’insieme delle aree destinate a parco o giardino dal piano regolatore / Verde attrezzato, nei giardini e nei parchi pubblici, area fornita di attrezzature fisse per attività sportive e ricreative, specialmente di bambini. Se invece analizziamo la definizione di verde che si ritrova nella trattatistica specialistica ci rendiamo conto come il termine venga spesso utilizzato con diverso significato. Così per gli architetti che intervengono nella questione, il verde è “qualsiasi spazio aperto progettato - in tutto o in parte - da aspetti vegetazionali” (Zoppi, 1988) o, con riferimento a quello pubblico, è un “sistema di spazi urbani, non privati, percorribili e consumabili da chiunque” (Vercelloni, 1989). Come è chiaro intuire è la visione “urbanistica” a prevalere: il verde ed in particolare quello pubblico è la “porzione del territorio che lo strumento urbanistico sottrae all’edificazione” (Bertolini, 1988). Il ruolo della pianta in questo contesto può diventare addirittura secondario: “il verde .... può essere “di pietra” come le piazze e le vie pedonali o “d’acqua” nel caso di una canale o di un fiume, quando questi ambiti siano progettati con l’intento di supplire o integrare ruoli specifici delle aree verdi: passeggiare, giocare, trascorrere il proprio tempo libero, incontrarsi o fare sport all’aria aperta” (Zoppi, 1988). Per Porcinai (1965), il più famoso architetto paesaggista italiano, il giardino è una “zona di verde generalmente recinta, costituita da piante ed altri elementi naturali o manufatti, combinati ad arte dall’uomo, avente la funzione di riconciliare perennemente la creatura umana con il circostante mondo naturale”; anche in questo caso il riferimento alla presenza di elementi architettonici (manufatti) è molto forte. Per la componente agronomica la presenza ed il ruolo delle piante è invece centrale: il verde è “una necessità di vita e non un lusso, in quanto alle zone verdi sono demandate vitali funzioni” (Chiusoli, 1985). In questa logica si pone l’espressione anglosassone urban forestry che serve a designare la disciplina che si occupa di verde urbano e che pone in primo piano i problemi dell’inserimento della componente vegetale all’interno delle città. Nell’ambito del corso, in particolare, come già ricordato, cercheremo di definire le questioni ambientali e territoriali connessi con il verde stesso. Anche per tali motivi proveremo di seguito di definire i due termini che talvolta, erroneamente, vengono utilizzati come sinonimi. L’ambiente, come ci ricorda lo stesso dizionario della Zanichelli, è quel “complesso delle condizioni esterne all’organismo in cui si svolge la vita vegetale e animale”; il termine deriva dal latino ambire = andare intorno ed indica l’insieme degli elementi fisici, biotici e abiotici che circondano uno o più esseri viventi, popolazioni, specie, comunità biologiche in rapporto interattivo con essi. Un aspetto da sottolineare è la multidimensionalità del termine stesso. Esso, infatti, da una parte può essere inteso in una accezione ecologica, intesa come scienza che si occupa delle relazioni fra gli organismi viventi e il loro ambiente. In altri casi l’accezione è lievemente differente e l’ambiente è definito non in rapporto a organismi bensì per determinati caratteri che accomunano aree più o meno ampie del paesaggio terrestre in cui vivono popolazioni e comunità diverse di organismi (es. ambiente forestale, ambiente oceanico, ecc.). Quando nel linguaggio corrente il termine viene usato antonomasticamente, senza specificare quali siano gli esseri viventi (o le aree) cui ci si riferisce, è sottinteso che esso indica l’ambiente in cui vivono gli uomini nel loro insieme, ossia in pratica (dato il carattere ubiquitario della nostra specie) l’intera superficie terrestre. Il territorio, invece, termine che per il dizionario della Zanichelli sta a indicare la “porzione definita di terra”, viene concepito come uno spazio fisico organizzato mediante strutture politico-amministrative e socio-economiche espresse dalla sua popolazione; esso appare molto più come il prodotto dell’attività umana, suscettibile di essere modellato con un ampio margine di libertà, piuttosto che come espressione della natura, subordinato alle sue leggi.

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Definizioni ed ambiti del corso

Inoltre tradizionalmente, nella teoria economica, il territorio viene concepito come superficie omogenea. L’analisi penetrante – che dobbiamo all’ecologia come scienza – della struttura e dei rapporti estremamente complessi tra le componenti biotiche ed abiotiche del territorio su cui l’uomo ha stabilito il suo dominio non poteva non rimettere in discussione il concetto stesso di territorio, la cui accezione tradizionale appare oggi eccessivamente semplicistica. Dal punto di vista dell’ecologia, il territorio è un insieme di ecosistemi, che possono essere sovraccaricati solo entro certi limiti, pena la rottura dei meccanismi di equilibrio, con gravi danno alle stesse possibilità di fruizione da parte dell’uomo. A questo punto riteniamo opportuno ricordare che il “coniatore” della parola “ecologia” è stato il famoso biologo di Jena E. Haeckel che nel 1866 usò per primo il termine oekologie. L’introduzione di questa parola in Italia non fu immediata; fu il valente biologo Girolamo Azzi (un agronomo) che contribuì a divulgare il termine. Egli fu il primo a ricoprire una cattedra dal nome di Ecologia agraria ed a scrivere l’omonimo trattato.

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Diffusione del verde

2. DIFFUSIONE DEL VERDE Negli ultimi anni, anche sotto la spinta dei movimenti ambientalistici ed ecologici, la questione del «verde» è diventata prioritaria. Le iniziative di costituzione di parchi e riserve per tutelare gli ambienti naturali sono numerosissime e caldeggiate dalla pubblica opinione; molto avvertita è anche la necessità di disporre di spazi a verde all’interno del recinto urbano e/o nelle immediate vicinanze. Questo interesse appare testimoniato dai numerosi convegni sull’argomento, dalle iniziative editoriali, dall’attenzione dei media nei confronti della problematica. Nonostante tutte queste iniziative, però, le città italiane non sono ancora oggi adeguatamente dotate di spazi a verde. Come è noto, infatti, a più di venti anni dalla 1444, legge con la quale venivano fissati in 15 m2 i minimi di verde per abitante2, gran parte delle città italiane non ha ancora raggiunto tali valori. Sintomatica è anche la difficoltà incontrate dagli uffici tecnici delle città nel monitorare il verde del proprio territorio. Solo per citare i casi più eclatanti, registrati da Legambiente nel suo documento annuale sull’ecosistema urbano, possiamo ricordare che alcune grandi città, come Firenze, Napoli e Milano, “perdono” alcuni milioni di metri quadri da un anno all’altro, mentre altre città, come Parma, vedono quintuplicare il loro dato. Indipendentemente dall’attendibilità dei singoli dati è chiaro come il ripetersi quasi sistematico di certi “errori” evidenzi una carenza di fondo, sia nella disponibilità di banche dati comuni e condivise dai diversi uffici comunali che nell’interpretazione della voce “verde urbano fruibile” da parte di coloro che compilano il questionario. Il quadro che emerge da queste “statistiche”, al di là delle perplessità prima richiamate, non è dei più brillanti: quasi la metà dei comuni dichiara una superficie di parchi e giardini inferiore a 5 m2/abitante, un terzo del minimo previsto dagli standard urbanistici nazionali in precedenza richiamati (tab. 1). La situazione è particolarmente preoccupante con riferimento alla Sicilia, in cui i diversi capoluoghi di provincia possono offrire ai loro abitanti pochi metri, talvolta meno, di verde pubblico pro capite. Al di là del dato di Parma che, in rapporto anche all’elevato incremento nell’arco di un solo anno, desta più di qualche sospetto, occorre ricordare come i valori più elevati si attestino attorno a circa 30 m2/abitante, ben lontani da quelli di Londra (70m2), di Vienna (90 m2) e di Stoccolma (100 m2) che addirittura risalgono ad oltre 10 anni fa (Di Fidio, 1993). In ogni caso la realizzazione di nuove aree a verde a nulla conduce se contestualmente non si provvede ad un’adeguata azione di gestione e di manutenzione del verde stesso. Sono sotto gli occhi di tutti gli esempi di «spazi a verde» degradati, dato che, dopo l’impianto, non sono state reperite le necessarie risorse finanziarie ed organizzative per provvedere alla loro manutenzione. Tali esempi sono più numerosi negli ambienti più meridionali del nostro Paese, non tanto e non solo per una minore attenzione da parte degli Enti gestori, ma soprattutto perché le condizioni dell’ambiente mediterraneo, caratterizzato dalla prolungata siccità estiva, sono più ostative alla sopravvivenza di alcune piante in assenza di adeguati interventi di manutenzione. In questa situazione è chiaro che se si vuole che la presenza del verde nelle città sia strutturale e di buona qualità occorre adoperarsi, a tutti i livelli possibili, affinché non solo la progettazione sia funzionale, ma anche siano reperite le risorse necessarie per effettuare i successivi lavori di manutenzione. In fase di progettazione l’adozione di alcune soluzioni tipiche del cosiddetto xeriscaping, e cioè le tecniche messe in atto in ambiente arido per ridurre i consumi d’acqua ma anche i costi di manutenzione stessi, potrebbe facilitare la “conservazione” degli spazi a verde. In questa direzione ruolo fondamentale assume l’individuazione della specie più idonea per aumentare le possibilità di sopravvivenza della stessa e la facilità di esecuzione delle 2

Il decreto 2 aprile 1968, n. 1444 prevede che “gli spazi per le attrezzature pubbliche di interesse generale – quando risulti l’esigenza di prevedere le attrezzature stesse – debbono essere previsti in misura non inferiore a quella appresso indicata in rapporto alla popolazione del territorio servito: ….. 15 mq/abitante per i parchi pubblici urbani e territoriali”.

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Diffusione del verde

operazioni di manutenzione. In ogni caso è indubbio che una più funzionale gestione del verde pubblico è possibile solo grazie ad una adeguata conoscenza del patrimonio di “verde” di cui ogni città dispone e delle esigenze espresse a livello sia di singolo spazio che di ciascuna specie. La puntuale ricognizione del patrimonio vegetazionale della città è quindi un momento ineludibile della gestione razionale degli spazi a verde.

Tab. 1 – Verde fruibile (m2/abitante) in area urbana.

Fonte: Legambiente, Ecosistema Urbano 2006 (Comuni, dati 2004). Elaborazione: Istituto di Ricerche Ambiente Italia.

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Le tipologie di spazi a verde

3. LE TIPOLOGIE DI SPAZI A VERDE L’argomento sarà affrontato attraverso la definizione dei possibili criteri di classificazione, cui seguirà una sintetica esposizione del profilo tecnico e funzionale delle tipologie più rappresentative, con specifica attenzione al contesto italiano. Per l’analisi dell’evoluzione storica degli spazi a verde e degli stili del giardini si rimanda al corso di “Architettura del paesaggio”; in questa sede si farà solo parziale riferimento all’evoluzione del concetto di verde pubblico. 3.1. Evoluzione del verde pubblico Il concetto di verde pubblico ha subito profonde evoluzioni nel corso del tempo dato che nell’anti-chità lo stesso concetto di “pubblico” era qualcosa di profondamente diverso da quello attuale. All’epoca dei Greci e dei Romani il verde pubblico non è elemento totalmente sconosciuto, dato che esistevano spazi destinati all’utilizzazione collettiva (quali ad esempio gli Horti Caesaris a Roma), ma questa di fatto non prevedeva la fruizione di gran parte della popolazione. In epoca moderna, già nel XVI secolo era chiara la possibilità offerta dalla presenza del verde all’interno della città per esaltare sia la funzione utilitaristica che quella architettonicaestetica. Nel 1570 così scriveva il Palladio: “E sì Gli Horti Caesaris a Roma lungo il Tevere come nelle città si aggiogne bellezza alle vie con le belle fabbriche; così di fuori si accresce ornamento a quelle con gli arbori, i quali, essendo piantati dall’una, e dall’altra parte loro, con la verdura allegrano gli animi nostri, e con l’ombra ne fanno commodo grandissimo” (Panzini, 1993). Anche Leandro Alberti, servendosi dell’autorità di Platone, ribadisce la necessità di provvedere alla presenza di spazi pubblici all’interno della città “Platone raccomandava che nel trivio vi fosse spazio dove talora potessero raccogliersi e stare in compagnia le nutrici con i piccoli. [...]. E certo costituirà un ornamento, sia nei trivi che in un foro, la presenza di un elegante porticato sotto il quale gli anziani possano passeggiare, sedersi, fare la siesta o sbrigare reciproche incombenze” (Panzini, 1993). Se si sostanzia invece la locuzione di “verde pubblico” con quella di “giardino pubblico” si può fare risalire l’origine alla fine del XVIII secolo, a Vienna, nell’Europa illuminista. Il giardino pubblico, infatti, sin dai suoi esordi partecipa a quella serie di eventi che annunciano la trasformazione della città storica in città moderna ed è dunque un fenomeno relativamente recente. È dal XVIII secolo, infatti, che si afferma chiaramente la necessità che la fruizione sia veramente aperta a tutti. Uno dei massimi propugnatori all'epoca del giardino pubblico fu Christian Lorenz Hirschfeld che scrisse un monumentale trattato in cinque volumi, prima in tedesco poi tradotto in francese, su “Thèorie de l'art des jardins”. Nel quinto volume dedicato ai giardini pubblici l'autore scrive: “Una vera città deve comprendere uno o più grandi spazi aperti dove il popolo possa ritrovarsi nelle ricorrenze liete e tristi, dove possa respirare un’aria pura e godere delle bellezze che il cielo e il

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Le tipologie di spazi a verde

paesaggio offrono qui nuovamente ai suoi occhi”. Il modello di giardino pubblico proposto da Hirschfeld è quello dell’Ausgarten della DonauInsel di Vienna, al cui ingresso una iscrizione dichiarava: “Luogo di piacere, dedicato a tutti gli uomini dal loro amico” (Giuseppe II). Inutile aggiungere che tale concetto di giardino precorre o è coevo all'età della borghesia al potere e della rivoluzione industriale che separò in maniera più netta di prima la città dalla campagna. Ausgarten della Donau-Insel di Vienna. Il primo giardino pubblico italiano è la Pubblica Villa Giulia di Palermo inaugurata nel 1778. Scopo di tale giardino era quello (come si legge nel Capitolo dé Comizj del 1777) di essere destinato a “delizioso passeggio” e nel quale “non possa entrarsi a cavallo né in vettura”. Siamo però ancora lontani dalla fruizione per tutti. Nel 1813 Ercole Silva in una nota del capitolo “Dei giardini pubblici” nel suo trattato su “Dell'arte dei giardini inglesi” scriveva “Vi ha un nuovo genere di giardini pubblici, centrali nelle grandi città, ..... nei quali è vietato l’ingresso alle carrozze e al basso popolo”. L’attenzione per la realizzazione dei giardini pubblici si fa più intensa nel XVIII e XIX secolo; nella Milano illuminista, ad esempio, intervengono nel dibattito intellettuali quali Pietro ed Alessandro Verri; grazie anche a questa attenzione vengono progettati alcuni di quei giardini, oggi storici, di cui sono dotate molte delle città italiane. Nel 1828 Loudon nella sua descrizione dei giardini parigini così scriveva “... Il Giardino della Tuileries, una volta Cartolina d’epoca di Villa Giulia. chiamato reale, è, citandone uno per tutti, forse il più interessante giardino pubblico al mondo [...] I giardini delle Tuileries sono inestimabili per l’essere situati nel centro di Parigi e per essere sempre aperti a tutti” (Panzini, 1993). Intorno alla metà del secolo scorso il verde pubblico entra ufficialmente fra gli elementi della neonata disciplina della composizione urbanistica. Il verde “urbano” o “suburbano”, da rimedio locale allo sviluppo edilizio, si evolve in componente connaturata allo svolgimento della vita nella città moderna e perciò deve essere inserito strutturalmente nel tessuto urbanistico (Panzini, 1993). Una dimostrazione di questa sensibilità è data dall’evidenza con cui emerge alla fine dell’Ottocento, il movimento per la garden city (la “città giardino”) che propugna l’idea di una città diffusa nel verde. Nel XX secolo, con Le Corbusier, famoso urbanista francese, l’idea della città verde raggiunge il punto creativo più alto. La sua carica utopica si manifesta appieno nella formulazione della cosiddetta “Carta di Atene” (1942), influente documento che pone le basi

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Le tipologie di spazi a verde

della pianificazione dell’ambiente e delle risorse per il tempo libero. Per Le Corbusier “il tessuto urbano dovrà cambiare struttura; gli agglomerati tenderanno a divenire città verdi. Contrariamente a quanto avviene nelle città giardino, le superfici verdi non saranno suddivise in piccoli compartimenti d’uso privato, ma consacrati alla realizzazione delle diverse attività comuni che formano il prolungamento dell’abitazione” (Panzini, 1993). Tale centralità del verde viene anche ribadita nell’organizzazione urbanistica del secondo dopoguerra di diverse capitali europee. Un esempio famoso è quello di Londra e dei suoi four rings; il terzo anello è proprio quello della green belt, della cosiddetta cintura verde, che rappresenta il polmone della metropoli e soprattutto il suo grande sistema ricreativo. In Italia invece il dibattito, sviluppato nel secondo dopoguerra, ha riguardato soprattutto i temi legati alla funzione “utilitaristica” del verde all’interno delle città, temi che sono diventati sempre più prevalenti rispetto alle funzioni estetiche che il verde può a buon diritto esercitare. Prodotto di questo modo di intendere la questione può essere considerata la cosiddetta “linea dello standard”, ufficialmente recepita nella legislazione italiana sul finire degli anni Sessanta (Bruschi e Di Giovine, 1988). Tale “linea” prevede che venga destinata una porzione del territorio a verde pubblico, senza imporre ulteriori vincoli per quanto attiene alla “qualità” di questo. L’introduzione degli standard urbanistici nella legislazione italiana costituisce il riconoscimento ufficiale del principio che i problemi della residenza non si esauriscono nella cellula abitativa individuale ma debbono essere guardati in rapporto a un sistema più complesso costituito da abitazioni, infrastrutture, attrezzature, servizi pubblici e privati. A questi elementi occorre applicare, quindi, norme e requisiti in analogia a quelli utilizzati per dimensionare e organizzare la cellula abitativa: appunto, gli standard. Uno di questi è lo standard di verde pubblico, cioè la quantità minima di spazio da riservare a verde in proporzione al numero di abitanti. Nel 1968 tale istanza viene accolta dal punto di vista legislativo con l’emanazione di un Decreto Interministeriale, il 1444 del 2/4/1968, che definisce gli standard minimi di aree per servizi pubblici, tra i quali il verde da rispettare obbligatoriamente nella stesura dei piani urbanistici. Gli standard fissati da tale decreto sono pari a 9 m2 di verde residenziale di quartiere (aree pubbliche attrezzate a parco per il gioco e lo sport effettivamente utilizzabili) e 15 m2 per i parchi pubblici urbani e territoriali. Con tali norme, almeno all’epoca, l’Italia si poneva tra i paesi più civili d’Europa avendo garantito a tutti i cittadini, almeno nelle intenzioni, una qualità urbana paragonabile a quella dei Paesi più progrediti. Nei fatti le cose sono andate in modo alquanto diverso, dato che, come abbiamo già ricordato, tali norme sono state disattese nella sostanza. Del resto, anche se fosse stato rispettato, tale standard è ben lontano da quello attuale di alcune grandi città europee. A questo si aggiunga che lo stesso concetto di “standard”, espresso in termini quantitativi, è riduttivo, poiché, al di là dell’area impegnata, quello che rende veramente fruibile dai cittadini un servizio pubblico è il rispetto di alcuni parametri quali la collocazione, l’accessibilità, la funzionalità delle attrezzature e, nel caso particolare del verde, la qualità dello spazio. Questi limiti, impliciti in un approccio quantitativo, erano indubbiamente presenti a coloro che, negli anni Cinquanta e Sessanta, reclamavano che il processo disordinato di urbanizzazione fosse quantomeno regolato da norme e criteri di proporzione tra spazi pubblici e privati, tra spazi liberi e costruiti. La qualità sembrava allora rappresentare l’obiettivo successivo, da raggiungere una volta assicurato almeno il rispetto dello standard quantitativo o meglio del “minimo inderogabile” per usare le parole della legge che lo introdusse. Il contenuto innovativo della linea di pensiero espressa dalla 1444 era infatti l’obbligo a considerare le parti residenziali della città come un insieme organico e indivisibile di abitazioni e di servizi da progettare contestualmente e da realizzare in uno stesso

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Le tipologie di spazi a verde

momento. Salvo poche eccezioni, questo contenuto innovativo non è stato, però, recepito. In molti casi, purtroppo, il rispetto dello standard è stato solo formalmente garantito vincolando a verde pubblico nei piani urbanistici le aree più periferiche e meno appetibili, per le loro caratteristiche fisiche, per la speculazione edilizia; salvo poi modificare successivamente la loro destinazione con una variante e spostare ancora più all’esterno l’elastica “cintura verde”. Peraltro anche dove, come nei casi dei quartieri di edilizia popolare, le abitazioni e i servizi hanno costituito oggetto di un unico impegno progettuale, la realizzazione di questi ultimi è stata posticipata nel tempo o addirittura non ha mai avuto luogo. Davanti a questa situazione gli urbanisti più sensibili hanno reagito con due atteggiamenti apparentemente antitetici. Il primo tenta di superare l’inefficienza dello standard quantitativo a trasformarsi in garanzia di qualità urbana, ampliandone e dettagliandone al massimo i contenuti. A questo atteggiamento vanno ricondotte le proposte di articolazione del concetto di verde pubblico in sub-insiemi funzionali distinti in base alla loro accessibilità (verde di vicinato, di quartiere, urbano, territoriale, ecc.) o alle modalità d’uso (verde attrezzato, verde di rispetto, verde archeologico, verde sportivo, verde di salvaguardia ambientale, ecc.). A partire da queste sub-classificazioni sono state poi indicate ulteriori suddivisioni dello standard urbanistico, precisando, in relazione alle caratteristiche della prevedibile utenza, le esatte percentuali degli spazi da destinare alle diverse attività all’interno della particolare tipologia di verde pubblico considerato, fino a determinare, già in sede di piano urbanistico, la natura, il numero ed il dimensionamento delle singole attrezzature. Questa impostazione ha il pregio di fornire un efficace strumento per verificare un astratto standard rispetto ai concreti bisogni di uno specifico gruppo di utenti, ma può presentare l’inconveniente di vincolare eccessivamente la progettazione di dettaglio, con la conseguenza di limitare l’effettiva fruibilità delle attrezzature al mutare, nel tempo e nello spazio, della composizione dell’utenza ipotizzata nel piano urbanistico. L’altro approccio ha puntato invece sulla destinazione a verde pubblico di aree di particolare pregio ambientale o in grado di evitare l’espansione delle città a macchia d’olio e di indirizzarne lo sviluppo secondo un disegno organico. Questo atteggiamento è rispettato in molte proposte urbanistiche elaborate negli ultimi anni per alcune città italiane, nelle quali si attribuisce alla continuità ed al disegno di grandi spazi il valore di elemento strutturale del recinto urbano. Espressioni di tale concezione sono le locuzioni di “sistema del verde”, “cunei di verde”, “cintura verde”, “sistema dei parchi”, “corridoi verdi” che sempre più si affermano nella moderna urbanistica. Nonostante sul piano concettuale e problematico le questioni attinenti al verde pubblico siano al vaglio dell’attento dibattito che coinvolge figure professionali diverse, la storia del verde urbano è ancora una storia che si deve scrivere. Essa comunque dovrà forse muoversi lungo linee direttrici innovative, vuoi per la difficoltà di recuperare spazi liberi da destinare al verde all’interno del perimetro urbano, vuoi per gli accresciuti e rilevantissimi oneri che l’impianto e soprattutto la manutenzione del verde comportano. 3.2 Criteri di classificazione Nonostante la presenza degli spazi a verde, sia in ambito urbano che extraurbano, sia ancora oggi sporadica non vi è dubbio che questi si presentano articolati in una varietà di tipologie che sono spesso oggetto, per finalità diverse, di classificazione da parte degli Autori che si sono occupati della questione. I criteri utilizzati per le classificazioni fanno principalmente riferimento a: ∗ estensione dell’area (spazi grandi, medi, piccoli); ∗ grado di naturalità (riserve, parchi, spazi urbani); ∗ proprietà (pubblica, privata); ∗ destinazione (verde ricreazionale, scolastico, sportivo, ecc.).

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Le tipologie di spazi a verde

Uno schema di classificazione che abbia significato da un punto di vista didattico deve, a nostro avviso, tenere conto di tutti questi criteri. Quello che di seguito proponiamo per lo studio delle diverse tipologie di verde, che ha il solo pregio di essere quanto più completo possibile e funzionale ai nostri scopi, è stato in parte mutuato da quanto proposto da Agostoni e Marinoni (1987), Castiglioni (1985) e dalla classificazione adottata dal comune di Bologna per la gestione del verde urbano. Tale schema suddivide gli spazi a verde in: ∗ Porzioni privilegiate del territorio; ∗ Parchi urbani e suburbani; ∗ Giardini storici; ∗ Piccoli spazi; ∗ Spazi attrezzati; ∗ Piante in contenitori; ∗ Giardini pensili; ∗ Alberature stradali e verde stradale; ∗ Giardini specialistici; ∗ Orti urbani; ∗ Impianti sportivi e per gli spettacoli; ∗ Verde cimiteriale; ∗ Aree degradate; ∗ Parchi agricoli; ∗ Parchi zoo. Per ciascuna delle tipologie così individuate sarà fornita nel successivo paragrafo una breve descrizione del profilo biologico-tecnico e funzionale. Una avvertenza necessaria è che dal punto di vista terminologico non vi è concordanza di opinioni fra i diversi Autori e quindi spesso vengono utilizzati termini o Attitudine dei popolamenti vegetali a svolgere funzioni dilocuzioni diverse per riferirsi alla verse (Susmel, 1972). medesima tipologia di verde. L’assenza di riferimenti certi, anche di natura normativa, ha determinato questa “confusione”, ma ciò non pregiudica certamente l’interesse di tratteggiare il profilo delle diverse tipologie in cui il “sistema del verde” oggi si esprime. Prima di entrare nel dettaglio delle diverse tipologie occorre sottolineare come tutte le tipologie di verde rappresentino un insieme indivisibile; i diversi “popolamenti vegetali”, al di là della loro estensione e naturalità, sono in grado, infatti, di soddisfare esigenze primarie dell’uomo, così come è stato efficacemente schematizzato da Susmel, œœœ elevata; œœ buona; œ sufficiente; - nessuna già nel lontano 1972. 3.3. Profilo tecnico e funzionale delle tipologie più rappresentative Porzioni privilegiate del territorio: riserve integrali, orientate e parziali, parco naturale Con “porzioni privilegiate del territorio” si intendono tutte quelle zone, a più o meno spiccata “naturalità”, variamente sottoposte a tutela per la loro conservazione. Nel 1980 la CEE ha elaborato una classificazione che prevede 8 categorie di zone protette terrestri, da A ad H, con grado di naturalità decrescente e quindi con possibilità crescenti di utilizzazione per la

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fruizione. Occorre infatti ricordare che quando il valore naturalistico dell’area è molto elevato la necessità di protezione prevale sulla possibilità di uso da parte dell’uomo; per questo motivo alcune aree possono essere vietate al pubblico. Le zone previste dalla CEE sono: A - riserva naturale integrata B - riserva naturale C - parco naturale D - paesaggio naturale e seminaturale protetto E - paesaggio rurale protetto F - monumento o sito naturale protetto G - zone protette specifiche H - cinture verdi In atto le principali tipologie di zone protette previste in Italia sono: ∗ Riserve naturali: sono territori di dimensioni da medie a piccole, considerati prioritari per la difesa della natura e per tale motivo sottoposti ad uno specifico regime giuridico di tutela. ∗ Riserve naturali integrali: sono istituite con lo scopo di proteggere e conservare in modo assoluto l’ambiente naturale in tutte le sue parti, vietando ogni alterazione ed ogni attività umana, ad eccezione della ricerca scientifica; sono zone non abitate e vietate al pubblico. ∗ Riserve naturali orientate: richiedono invece una certa manutenzione per il loro mantenimento. In tal modo l’ecosistema viene orientato, mediante una stabilizzazione artificiale, ad un livello evolutivo che si ritiene più utile per l’equilibrio ecologico complessivo del territorio. ∗ Riserve naturali parziali: quando si tenta di salvaguardare soprattutto una componente ambientale (flora, fauna, ecc.); in base a tale componente le riserve vengono denominate come botaniche, zoologiche, forestali, geografico-geologiche, ecc. ∗ Parchi naturali nazionali e regionali: sono aree di grandi dimensioni, nelle quali si cerca di effettuare una efficace tutela della natura e del paesaggio in forme compatibili con la civilizzazione moderna. Parchi urbani e suburbani Si tratta di aree a verde molto ampie, inserite nel tessuto urbano o, caso più frequente, ai margini della città. Il connotato principale è costituito dall’elevata estensione; tali spazi devono ispirarsi alla natura ma devono essere finalizzati alla fruizione diretta. A causa della elevata estensione sono spesso collocati in periferia dove sovente coesistono funzioni residenziali e produttive (ad esempio l’agricoltura) con ambienti naturali, nonché con grandi attrezzature per lo sport, lo spettacolo, la cultura e la ricreazione. In questo caso (proprio per le dimensioni del parco e per l’eterogeneità dell’utenza) Central Park a New York, uno dei più famosi parchi urbani del mondo. Pagina 13

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assumono particolare importanza gli aspetti della programmazione socioeconomica (costi di esproprio, di impianto, di gestione, ecc.), della pianificazione urbanistica (accessibilità con mezzi pubblici di trasporto, compatibilità di funzioni, ecc.), del controllo sociale (utenze differenziate nei vari periodi del giorno, ecc.). In tali spazi a verde occorre privilegiare specie rustiche (per tale motivo sono molto utilizzate le essenze autoctone) e schemi compositivi semplici che facilitino le successive operazioni di manutenzione. L’economicità della gestione è infatti l’imperativo cui occorre sottostare, anche alla luce delle difficoltà finanziarie con cui si muovono le Amministrazioni pubbliche. Nel variegato mosaico di tipologie che compongono il verde pubblico, un posto di rilievo spetta sicuramente ai cosiddetti parchi suburbani. Si tratta in buona sostanza di una tipologia che, per ambiti territoriali, per funzioni assegnate o richieste, assume un ruolo centrale nell’organizzazione e gestione degli spazi destinati alla fruizione collettiva. Tale locuzione, pur se ampiamente utilizzata, non ha, però, un’accezione univoca. Come occorre infatti ricordare quello che manca, soprattutto con riferimento alla realtà italiana, è un quadro di riferimento omogeneo che qualifichi in maniera certa i rapporti tra terminologia utilizzata e tipologia di verde. L’espressione, infatti, si riferisce esclusivamente alla localizzazione dell’area, al di fuori del recinto urbano, ma non qualifica nel dettaglio le caratteristiche e quindi le “funzioni” che tale area deve assolvere. Da un punto di vista strettamente terminologico, il termine “parco”, si può riferire ad un “terreno boscoso e piuttosto esteso, spesso recintato ed adibito a usi particolari” o a “giardino molto grande, abbondantemente alberato, privato o pubblico” (Dogliotti e Rosiello, 1994). Molto forte è quindi l’attributo dell’estensione: un parco affinché sia tale, almeno nella accezione più comune, deve essere caratterizzato dall’ampiezza della superficie. Da non dimenticare, inoltre, come il termine derivi etimologicamente dal persiano paradeisos, che sta ad indicare un giardino intercluso e di grande valore ornamentale, al punto che rappresenta l’origine stessa del termine “paradiso”. L’aggettivo “suburbano” fa invece ovviamente riferimento alla vicinanza alla città. Tenuto conto del significato intrinseco dell’espressione, occorre ricordare come altre locuzioni siano talvolta utilizzate, nella trattatistica specializzata, per riferirsi a tipologie di verde le cui funzioni sono largamente sovrapponibili. Cosi Agostoni e Marinoni (1987) parlano di “parco ricreativo” per riferirsi ad “uno spazio verde, delimitato territorialmente e topograficamente sulla base dell’analisi e sintesi ecologica, la cui estensione spaziale prevale nettamente su quella dei singoli elementi naturali ed architettonici che lo compongono”. Nella sua classificazione degli spazi a verde, funzionale all’individuazione dei criteri cui ancorare la scelta delle specie, La Malfa (1987) riporta due locuzioni che, per diversi aspetti, possono essere ricondotte al parco suburbano e cioè ancora una volta “parco ricreativo” e “spazi attrezzati”. Nel primo caso si tratterebbe di “aree a verde molto ampie, inserite nel tessuto urbano o, più frequentemente, ai margini delle città; in ogni caso si tratta di una tipologia di verde finalizzata alla fruizione diretta” (La Malfa, 1987). L’altra espressione “spazi attrezzati” viene riferita invece a “tutte quelle superfici più o meno estese, quasi sempre progettate ad hoc, che dispongono in qualche misura di attrezzature ricreative che ne favoriscano la fruizione”. Giardini storici L’idea di giardino storico e lo stesso termine appartengono al nostro secolo e per questo motivo si possono considerare acquisizioni moderne della cultura del restauro. Da qui deriva che il problema della conservazione del patrimonio storico artistico è anch’esso recente. La problematica relativa ai giardini storici ha cominciato in Italia ad essere percepita ed

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affrontata in maniera specifica a partire dagli anni Settanta ed ha condotto al riconoscimento del valore artistico del giardino in sé, al di là della valutazione esclusivamente ambientale. Nel 1981 nell’ambito di un convegno tenutosi a Firenze, è stata redatta la «carta dei giardini storici» o «carta di Firenze», che fornisce la prima definizione di «giardino storico» accettata internazionalmente: «Un giardino storico è una composizione architettonica e vegetale che, dal punto di vista della storia e dell’arte, presenta un interesse pubblico. Come tale è considerato un monumento» e in quanto tale deve essere preservato per le generazioni future. Si tratta, però, di monumenti particolari perché costituiti da esseri viventi (le piante) che, in quanto tali, “nascono, crescono e muoiono”. Occorre quindi mettere in atto delle strategie particolari, spesso onerose, per la manutenzione e la conservazione di tali giardini. L’attributo di «storico», come ricorda la stessa carta di Firenze, può essere conferito sia a «giardini modesti che a parchi ordinati o paesistici», ad aree a verde inserite in contesti archeologici o storici, a particolari aree agricole, purché degni di interesse. I caratteri che individuano il giardino come storico-artistico sono ancorati alla sua configurazione attuale, per cui essi riassumono tutte le trasformazioni e le modificazioni che inevitabilmente il giardino ha subito nel tempo. Possono così essere considerati «storici» anche i giardini in pessimo stato di conservazione, dei quali non resta altro che lo spazio fisico su cui erano costruiti e possono essere considerati «storici» giardini impiantati nel corso del XX secolo (Pozzana, 1989). D’altra parte va considerato che la legge 1089 prevede che i beni di interesse storico artistico abbiano almeno 50 anni di età. Il gruppo italiano del comitato ICOMOS-IFLA ha fornito una definizione più articolata di giardino storico, tesa soprattutto a chiarire l’unicità di questo come manufatto irriproducibile: «Il giardino storico è un insieme polimaterico progettato dall’uomo, realizzato in parte determinante con materiale vivente, che insiste su (e modifica) un territorio antropico, un contesto naturale. Esso in quanto artefatto materiale, è un’opera d’arte e, come tale, bene culturale, risorsa architettonica e ambientale, patrimonio dell’intera collettività che ne fruisce. Il giardino, al pari di ogni altra risorsa, costituisce un unicum, limitato, peribile, irripetibile, ha un proprio processo di sviluppo, una propria storia (nascita, crescita, mutazione, degrado) che riflette la società e la cultura che lo hanno ideato, costruito, usato e che, comunque, sono entrate in Le ville toscane rappresentano uno dei più importanti esempi di verde storico. relazione con esso». Nella definizione italiana il giardino è un’opera d’arte polimaterica, costituita da più materiali, viventi e non, organici e inorganici, in una complessità unica ed irripetibile. Il giardino si inquadra perfettamente come fusione tra natura ed artificio, monumento ed architettura vegetale, opera d’arte dalle grandi complessità perché «sintesi di arti differenti». Il giardino, inoltre, è opera d’arte «storica» che appartiene al passato, ma che deve vivere nel futuro. Si tratta quindi di una tipologia di verde estremamente eterogenea per quanto riguarda gli

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stili e le soluzioni compositive adottate. In ogni caso le soluzioni architettoniche, scenografiche e floristiche sono spesso molto elaborate, ormai desuete non tanto per le mutate esigenze estetiche e funzionali quanto per le difficoltà e per gli oneri che la corretta manutenzione imporrebbe. L’interesse nei confronti dei giardini storici ha fatto sì che siano aumentate le iniziative di studio, il che ha comportato l’avvio di un intenso dibattito sulle questioni sottese dalla catalogazione e dal restauro di tali beni e la messa a punto di iniziative mirate alla loro salvaguardia. Questo genere di studi, dedicato in passato solo ai fatti paesisticamente rilevanti e monumentali, cioè giardini e parchi storici dell’epoca d’oro del “giardino all’italiana”, ha recentemente investito anche i complessi sistemi di ville agricole esistenti su differenti territori della penisola, il verde ottocentesco di alcune proprietà terriere, i parchi suburbani di medie e piccole dimensioni e le varie tipologie di verde urbano realizzate sulla scia di consolidati modelli europei. Sta così emergendo nel nostro paese, un repertorio, nuovo e sconosciuto al grande pubblico e spesso anche agli stessi specialisti della materia, di verde storico, privato e pubblico, disseminato in vasti territori regionali (Maniglio Calcagno, 1998). Lo studio, la tutela, il restauro e le competenze stesse sui giardini storici sono state attribuite in Italia, per la maggior parte dei casi, all’interno della Soprintendenza ad architetti e/o storici dell’arte. Ciò ha in parte comportato che le questioni più prettamente biologiche, relative a quelle piante che secondo Serra (1993) rappresentano il principale determinante olistico del giardino, siano state in genere non adeguatamente considerate. Lo studio della flora presente nei giardini storici può fornire, invece, informazioni preziose soprattutto quando – come è il caso che di frequente si verifica in Sicilia – si tratta di giardini di piccole dimensioni per i quali le fonti documentali non sono ampie, quando addirittura non sono del tutto assenti. Spesso sono paradossalmente le peculiari caratteristiche di questi spazi, e cioè le ridotte dimensioni, a determinare una forte difficoltà di protezione. Come ricordato, infatti, affinché ad un bene possa essere data la qualifica di “storico” è necessario l’apposizione del vincolo da parte della Soprintendenza ex lege 1089, vincolo che può essere applicato ad un bene che abbia almeno 50 anni di età. Naturalmente questa azione di protezione diventa improba di fronte ad un patrimonio sterminato, ma soprattutto fortemente frammentato. Occorre anche ricordare che l’interesse di un giardino sovente esula dal riconoscimento “ufficiale” della sua storicità: l’azione di “vincolo” o meglio di “governo” andrebbe applicata sempre ad uno spazio a verde ornamentale in quanto, in rapporto alla sua elevata antropizzazione, è piuttosto “fragile” e necessita di cure continue per potere essere preservato. In ogni caso sempre più forte è la consapevolezza che disponiamo di un patrimonio enorme, al di là di quanto ufficialmente sancito come “storico”, che merita di essere attentamente studiato e preservato. Piccoli spazi Si tratta spesso di aree di risulta da altre destinazioni del territorio, di modeste dimensioni, di forma non sempre regolare, situate ai margini di piazze, strade, edifici, svincoli stradali. La loro limitata ampiezza ne impedisce talora una fruizione diretta ed impone una sistemazione a verde piuttosto accurata secondo modelli a carattere intensivo, con specie di modesto sviluppo. La manutenzione deve essere accurata; in mancanza di cure queste aree perdono quell’effetto estetico cui si fa affidamento per dare un’immagine adeguata della città e dell’attenzione posta verso il verde. Caratteristiche e funzioni analoghe presentano gli spazi a verde pubblico prospicienti i singoli edifici, che vengono talvolta denominati verde di pertinenza.

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Spazi attrezzati Comprendono quelle superfici più o meno estese che dispongono in qualche misura di attrezzature ricreative che ne favoriscono la fruizione. In tale tipologia rientrano le aree a verde realizzate spesso a livello di quartiere e sistemate sulla base di schemi piuttosto estensivi in rapporto anche all’uso cui sono destinate. Pur se rivolti alla fruizione privata, possono rientrare in questa categoria gli spazi a verde condominiali o privati. Piante in contenitore Sono sicuramente un elemento importante del “sistema del verde” e spesso rappresentano l’unica possibilità di inserire la vegetazione all’interno delle città e quindi di rispondere alle esigenze che promanano dai cittadini. Al di là dell’effetto estetico che può essere talora gradevole occorre sottolineare che le piante in vaso pongono specifici problemi che attengono da una parte alla compatibilità spaziale fra esemplare e contenitore e dall’altra all’obbligatorietà di un’attenta ed onerosa manutenzione; in mancanza di tali attenzioni dopo l’impianto tali contenitori perdono completamente quelle caratteristiche di pregio estetico per le quali sono utilizzati nell’arredo a verde.

La manutenzione dei piccoli spazi deve essere accurata; in mancanza di cure queste aree perdono quell’effetto estetico cui si fa affidamento per dare un’immagine adeguata della città e della attenzione posta verso il verde.

Giardini pensili La sistemazione a verde dei tetti e delle terrazze ha assunto negli ultimi anni un crescente interesse, dovuto da una parte alle difficoltà di reperire spazi in ambito urbano da destinare alle piante e dall’altra alla maggiore consapevolezza del ruolo che la vegetazione può assicurare ai fini del miglioramento di alcuni parametri ambientali. Il crescente interesse, però, non deve fare dimenticare che tali tipologie di verde, oltre ad essere fra le espressioni più moderne ed attuali, sono al contempo la forma più antica di giardino di cui abbiamo memoria storica. Senza volere, infatti, considerare che già nella preistoria erano utilizzate piote erbose per la sistemazione dei tetti (tecnica fra l’altro di recente enfaticamente riproposta), dato che tali soluzioni erano utilizzate solo a scopi utilitaristici e quindi erano prive di qualsiasi significato ornamentale, non possiamo dimenticare i celebri giardini di Babilonia. Tali giardini, infatti, oltre ad avere assunto un rilevante ruolo presso gli antichi, che li collocavano fra le sette meraviglie del mondo, hanno continuato ad esercitare fino ai nostri giorni una forte influenza nell’immaginifico collettivo, come espressione del valore “estetico” e “sacrale” del giardino stesso. Nel corso degli ultimi anni, sulla spinta anche di specifiche esperienze estere, si è moltiplicato l’interesse nei confronti delle sistemazioni a verde dei tetti e dei terrazzi e sono

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aumentate le informazioni su tali soluzioni progettuali, oltre che sulla messa a punto di specifiche tecniche costruttive. Si tratta di un ambito che vede impegnate diverse ditte specializzate, molto attive sul mercato, che continuamente propongono soluzioni “nuove” per consentire l’insediamento del verde nei contesti i più disparati. Numerose sono anche le informazioni in merito alla scelta della specie ed alle cure colturali da utilizzare in queste particolari sistemazioni a verde. Tali informazioni, numerosissime, sono state, però, spesso elaborate con riferimento a realtà del centro Europa o del Nord Italia e quindi debbono essere calibrate alle condizioni dell’Italia meridionale ed in particolare della Sicilia. Questo appare ancor più valido per quanto riguarda le scelte biologiche e la manutenzione che devono essere meglio finalizzate alla realtà meridionale. Prima di entrare nel merito del dettaglio tecnico occorre ricordare come il termine “verde pensile” potrebbe trarre in inganno se si evocano unicamente immagini di lussureggianti giardini collocati sui tetti dei palazzi. Questo termine, in realtà, raggruppa l’enorme campo applicativo rappresentato dalla realizzazione di coperture vegetali su “soletta” e non in piena terra. Tale “modo” di realizzare il verde costituisce una soluzione utile per ricoprire volumi abitativi (terrazzi, coperture di edifici e garage di complessi residenziali), produttivi (uffici, industrie e centri commerciali) o altri elementi che, in contesto urbano, si preferisce occultare. In tutti questi casi l’area esplorata dagli apparati radicali delle piante è fortemente limitata dalla ristrettezza degli spazi disponibili, in particolare in profondità. L’approccio utilizzato per il verde pensile, inoltre, potrebbe essere correttamente applicato, data la similitudine delle condizioni, con molte situazioni di verde urbano, quali ad esempio le stesse alberature stradali nelle quali la parte ipogea delle piante subisce analoghe limitazioni nello sviluppo. Le conseguenze principali determinate da questo fattore critico sono differenti, tra le più influenti occorre ricordare: ∗ la limitazione della crescita della vegetazione, determinata dalla ridotta disponibilità di substrato colturale e dalla rapida perdita di umidità; ∗ la difficoltà di ancoraggio delle piante di una certa dimensione causata dalla ridotta espansione degli apparati radicali; ∗ l’inefficienza del drenaggio determinata dalla costipazione del substrato. I vincoli esistenti nelle realizzazioni del verde su soletta non riguardano esclusivamente l’habitat delle piante; esiste infatti un problema di compatibilità tra l’elemento costruito e la presenza dello “strato verde” ad esso sovrapposto che può essere così schematizzato: ∗ il peso esercitato sulla soletta dal substrato colturale e dall’acqua in esso trattenuta; ∗ la presenza stabile dell’acqua o di uno strato di umidità permanente che costituisce una potenziale fonte d’infiltrazione nella soletta. La capacità di affrontare e risolvere i limiti e i problemi sopraelencati attraverso tecnologie valide può trasformare il rinverdimento delle coperture in un’importante risorsa per fronteggiare tematiche di tipo urbanistico, contribuire alla soluzione di problemi architettonici e soprattutto migliorare la qualità della vita ottenendo benefici estetici ed ecologici. Il sempre maggiore interesse verso i rinverdimenti pensili e la loro diffusione hanno favorito la ricerca di nuove tecnologie di realizzazione; in questo modo si sono ampliate anche le possibilità di utilizzare il rinverdimento su buona parte delle coperture esistenti sugli edifici. Attualmente sono presenti sul mercato numerose ditte specializzate in questo settore, ognuna delle quali offre tecniche d’impianto che generalmente si differenziano da quelle adottate dalle altre imprese per uno o più particolari costruttivi. Esiste però la possibilità di raggruppare le tipologie dei rinverdimenti pensili, così come ha fatto la FLL (Forschungsgesellschaft Landschaftsentwiklung Lanschaftsbau, Associazione tedesca per lo sviluppo e la Costruzione del Paesaggio) la quale ha individuato tre tipi principali di rinverdimento:

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∗ rinverdimento estensivo; ∗ rinverdimento intensivo semplice; ∗ rinverdimento intensivo complesso.

Questa distinzione, oggi comunemente accettata e diffusa, è stata formulata in base all’utilizzo di tali sistemazioni, alle caratteristiche progettuali/strutturali, al tipo di vegetazione impiegata ed al tipo di manutenzione richiesta. Nella realtà spesso queste tre diverse “tipologie” possono essere presenti contemporaneamente nello stesso impianto. Negli ultimi anni, inoltre, viene anche indicata, soprattutto dalle ditte specializzate nella fornitura di materiali costruttivi, la tipologia di verde estensivo “inclinato”, nella quale vi ene reso possibile l’inserimento del verde con pendenze elevate fino a 30° e talvolta, con adeguati interventi, a 45°. Secondo alcuni Autori potrebbe essere fatta un’ulteriore distinzione in base al sistema di irrigazione Esempio di verde pensile estensivo. adottato: se tradizionale o a falda. In questo ultimo caso si parla spesso del sistema Optima-Optigrün dal nome del brevetto della ditta che per prima e comunque in maniera più diffusa ha adottato tale sistema di copertura per i tetti verdi. In realtà attualmente sono diversi i sistemi brevettati presenti sul mercato italiano, fra i quali possiamo ricordare il Daku della Roof Garden Program di San Donà di Piave (VE), il Perligarden della Perlite Italiana di Carsico (MI), il Floradrain, il Florate, il Floratherm e l’Elostodrain, tutte proposte dal Tetto Verde di Mompiano (BS), lo Xero Floor, per rivestimenti estensivi di piccolo spessore della Italdreni di Reggio Emilia, sistemi che si affiancano al più famoso Optima-Optigrün della Optigrün di Legnano (MI). Un’ulteriore classificazione del verde pensile può essere effettuata in base alla “estensione” del rinverdimento stesso; sulla base di questo parametro possiamo individuare le seguenti categorie: ∗ verde continuo; ∗ verde localizzato. Un’altra tipologia di verde assimilabile a quella verde pensile è il cosiddetto “verde verticale” che riguarda, soprattutto grazie all’ausilio di piante rampicanti e ricadenti, la copertura “verde” delle pareti verticali degli edifici. Negli ultimi anni, grazie a specifiche soluzioni costruttive sono stati realizzati, soprattutto all’estero, esempi spettacolari di questa tipologia di verde. Al di là delle tipologie, il verde pensile è realizzabile con diverse tecniche di impianto, basandosi su differenti configurazioni vegetazionali e/o su criteri di tipo funzionale e compositivo. A seconda della finalità del giardino pensile e delle variabili compositive e funzionali che lo caratterizzano si possono impiegare diversi gruppi di piante, dalle erbacee da tappeto erboso fino ai piccoli alberi. In alcune tipologie ed in specifici contesti ambientali possono essere utilizzati anche i muschi. La scelta è ovviamente limitata a specie che, oltre ad essere adatte alle condizioni ambientali, sono idonee a vivere sui tetti. Si tratta in genere di piante resistenti alle

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escursioni termiche e che presentano apparati radicali superficiali. Di seguito si riportano alcune informazioni sui principali tipi di rinverdimento. Rinverdimento estensivo Si tratta di una tipologia che determina un minore costo di impianto ed un basso onere di manutenzione. Può essere realizzata sia su coperture piane che su quelle inclinate, in quanto richiede normalmente spessori di substrato di coltivazione alquanto limitati (in genere inferiori ai 10 cm). Ciò determina che il peso della struttura si aggiri intorno a 50-100 kg m-2. Questa tipologia è indicata per coprire qualsiasi struttura e, grazie al basso peso, si presta a ricoprire anche solai con limitata capacità di carico. Tale tipologia di rinverdimento non è comunque strettamente legata allo spessore del substrato, in quanto se il solaio lo consente si possono realizzare ricoprimenti con spessori superiori ai 10 cm, in grado di accogliere piante di maggiori dimensioni. Gli oneri di manutenzione sono generalmente molto ridotti; i relativi interventi si limitano infatti all’asportazione delle parti epigee appassite o all’eliminazione di specie non desiderate o sviluppatesi oltre misura. In ogni caso sono esclusi gli interventi di concimazione e di irrigazione ad eccezione della fase di impianto, il che rende difficile proporre tali sistemazioni a verde negli ambienti più meridionali d’Italia, dove il lungo periodo siccitoso di fatto non consentirebbe la sopravvivenza delle piante. Rinverdimento intensivo semplice In questo caso l’impianto del verde pensile necessita di particolari cure. Lo spessore del substrato colturale è maggiore e quindi di conseguenza anche il peso è più elevato e mediamente supera i 100 kg m-2. La possibilità di effettuare operazioni di manutenzione così come il maggiore spessore di substrato determinano una più ampia possibilità di scelta della specie. Possono infatti essere utilizzate sia piante erbacee Esempio di verde pensile intensivo. che arbustive. Anche in questo caso comunque occorre privilegiare piante resistenti ai più comuni stress che si verificano a livello delle coperture vegetali, quali quelli legati alle escursioni termiche. I riverdimenti intensivi semplici sono generalmente caratterizzati da opere a verde realizzate su substrati di limitato spessore che necessitano, per la loro conservazione, di irrigazioni, concimazioni ed operazioni di potatura. Una delle operazioni più importanti nella manutenzione dei rinverdimenti intensivi semplici è rappresentata dall’eliminazione delle piante “infestanti” provenienti dall’ambiente circostante.

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Rinverdimento intensivo complesso Rappresenta la tipologia di verde pensile più evoluta e con più ampio impiego di tecnologie e di materiali. È caratterizzata generalmente da un maggiore costo d’impianto e soprattutto dalla esigenza di adottare un preciso ed esteso programma di operazioni colturali e di manutenzione. Il rinverdimento intensivo complesso si presta ad essere impiegato nella realizzazione di ambienti vivibili e normalmente viene realizzato sui tetti piani con una buona capacità di carico. A seconda della disposizione ed ampiezza tale tipologia di verde può essere di tipo localizzato (es. “rinverdimenti” realizzati in contenitori) o di tipo continuo. Lo spessore del substrato destinato alla coltivazione delle piante è mediamente compreso tra 15 e 60 cm, mentre il peso varia da 150 a 600 kg m-2. Questi rinverdimenti consentono una scelta molto ampia delle specie, al punto che le condizioni vincolo da tenere in considerazione sono spesso solo quelle climatiche della zona in cui tale tipologia di verde è inserita. Alberature stradali e verde stradale È una tipologia di verde molto diffusa ed interessa sia il territorio urbano che le zone extraurbane; essa costituisce il primo passo verso la sistemazione a verde pubblico ed è elemento fondamentale di organizzazione del territorio. La scelta della specie deve considerare la compatibilità spaziale tra chioma della pianta a completo sviluppo ed ampiezza della sede stradale. L’apparato radicale non deve essere superficiale ed invadente per evitare danni al manto stradale ed ai manufatti ubicati nel sottosuolo. Anche se la fruizione di tali aree è modesta (a causa dell’intenso traffico urbano) non vanno dimenticate le peculiari funzioni svolte nel miglioramento della qualità dell’ambiente (ombreggiamento, modificazioni microclimatiche, trattenuta delle polveri, ecc.). Oltre alle alberature sono componenti del verde stradale le scarpate lungo le strade in trincea e le aiuole che vengono generalmente realizzate in ambito pedonale. A queste tipologie di verde possono essere assimilati i parcheggi, al margine delle strade, dove può essere collocata la vegetazione (alberi, cespugli, tappeti erbosi) sia a fini estetici che pratici (realizzazione di zone d’ombra sui veicoli). Importante è la scelta delle specie per evitare di utilizzare alberi che emettano sostanze imbrattanti (es. tiglio) o che siano attrattivi per gli uccelli. Giardini specialistici All’interno di tale categoria possono essere compresi i giardini botanici, quelli scolastici, ecc. Si tratta di spazi che rispondono ad esigenze specifiche, prevalentemente didattiche, ma che possono assolvere ad alcune delle funzioni degli spazi a verde, quali quelle educative e ricreazionali. I giardini o orti botanici, in particolare, sorti inizialmente (alla fine del XVI secolo) per la coltivazione di piante officinali da utilizzare per le esercitazioni degli studenti di medicina e in seguito sviluppati per rispondere meglio ad attività di ricerca e di

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didattica collegate agli studi naturalistici, vengono oggi concepiti per rispondere a diverse funzioni quali quelle didattiche, per l’insegnamento universitario, la ricerca pura ed applicata, a servizio dell’agricoltura, l’educazione naturalistica, ecc. La maggior parte degli orti botanici italiani sono gestiti da istituti universitari o centri di cultura, recintati e aperti al pubblico solo in orari particolari; la parte coperta, costituita da serre per la conservazione di piante esotiche, può essere molto estesa. La visita a tali strutture diffuse in tutto il Planimetria dell’Orto botanico di Padova, ritenuto il più antico al territorio nazionale consente di mondo. vedere piante diversissime in spazi ristretti, quasi sempre recanti un cartellino con l’indicazione della specie, il che permette di acquisire utili conoscenze sulle diverse specie, ed in particolare su quelle ornamentali che maggiormente interessano ai fini del corso. Fra i giardini specialistici, posto di rilievo spetta al cosiddetto verde scolastico. Negli ultimi anni, infatti, sempre più forte è la convinzione che lo spazio esterno alla scuola non vada visto come sede di una caotica ricreazione durante l’intervallo, ma come spazio strutturato in veri e propri laboratori all’aperto ben caratterizzati in base alle funzioni assegnate dalle varie aree disciplinari che possono utilmente impiegare gli spazi a verde. Il verde per le scuole ha alcune funzioni principali: il gioco, il rapporto con la natura e l’apprendimento fuori dall’aula. Gli spazi a verde, che costituiscono un prolungamento all’aperto delle architetture, possono essere alternativamente usati sia a scopi educativi nel corso delle ore di lezione, sia per i giochi di movimento che per l’osservazione e le riflessioni nelle ore libere dello studio. In questo ambito ruolo prioritario deve svolgere la vegetazione che può diventare momento importante non solo per la fruizione, ma soprattutto per l’apprendimento. Orti urbani È questa una struttura spesso ancora da ipotizzare - anche se già esistono esempi di realizzazioni (soprattutto nel Nord Italia) - che potrebbe essere inserita all’interno dei parchi zonali o urbani oppure in apposite aree destinate allo scopo. Si tratta in buona sostanza di assegnare dei piccoli spazi (nell’ordine di 50-100 m2) in gestione gratuita (o a canone simbolico) a persone che ne facciano richiesta (ad esempio anziani e pensionati). Tale tipologia di verde, se inserita all’interno di un parco, potrebbe stimolare ed accrescere il senso di responsabilità del cittadino verso il verde e quindi ottenere una azione di maggiore vigilanza nei confronti dei vandalismi. L’importante è coniugare le esigenze dell’utenza con le necessità che l’insieme presenti un gradevole effetto estetico, anche per favorire la fruizione di tali luoghi. Per chiarire meglio il significato di questi spazi a verde occorre, però, fare qualche richiamo alle cosiddette orticoltura sociale e orticoltura terapeutica. In entrambi i casi viene assegnato al termine “orticoltura” il significato, non tanto di coltivazione a fini di lucro per ottenere dei prodotti alimentari, gli ortaggi appunto, quanto di possibilità di contatto diretto

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fra uomo e pianta. Occorre anche richiamare, per completezza di informazioni, la funzione ambientale dell’orticoltura, quale elemento costitutivo delle cinture verdi (le “green belt” degli Anglosassoni) attorno al recinto urbano. Nelle nazioni più industrializzate l’esercizio diretto della pratica orticola Nella realizzazione degli orti urbani molto avvertita è l’opportunità di coniu- risulta essere soprattutto gare le esigenze dell’utenza con il gradevole effetto complessivo. legato al “piacere di coltivare”, cioè come dicono gli anglosassoni al “gardening for fun”. L’importanza che riveste sotto il profilo sociale la coltivazione delle piante a fini di diletto ha fatto sì che recentemente sia stato proposto di adottare, nel contesto delle Società scientifiche internazionali che si occupano di agricoltura ed in particolare di orticoltura, il termine “Sociohorticulture” per comprendere tutte le attività legate alla coltivazione di specie ortoflorofrutticole in grado di dare riscontro, accanto alle esigenze di natura alimentare, ecologica ed ambientale, a quelle di carattere non materiale attinenti alla vita culturale e spirituale dell’uomo. Si tratta di ambiti disciplinari piuttosto recenti per cui neanche a livello terminologico è stata fatta piena chiarezza. Secondo alcuni infatti il termine, già ricordato, di “Sociohorticulture” è onnicomprensivo e racchiude all’interno la possibilità di uso dell’orticoltura a fini terapeutici. Secondo altri – e noi adotteremo tale suddivisione – tutti gli ambiti di carattere non materiale della coltivazione diretta delle piante vengono ricondotti all’interno dell’esercizio dell’orticoltura a fini terapeutici, di cui quella sociale è solo una delle opportunità offerte. Questa seconda ipotesi è la più consolidata, almeno presso le nazioni anglosassoni, dove a partire dal XIX secolo è stata riconosciuta al contatto diretto con le piante una valida azione terapeutica. Già all’epoca fu infatti chiaro che le possibilità di curare, con esiti positivi, persone affette da malattie nervose o colpiti da handicap fisici erano maggiori se al paziente veniva assicurato un contatto diretto con le piante. Anche nella riabilitazione di soggetti emarginati, così come nei casi di devianza sociale, può essere adottata con successo la pratica dell’orticoltura. Di tutto questo si occupa l’horticultural therapy, una disciplina che in America ha assunto una tale dignità al punto che esistono da diversi anni non solo una società scientifica ad hoc, l’AHTA (American Horticultural Therapy Association), ma anche corsi di laurea o master ad essa dedicati. All’interno dell’horticultural therapy è anche contemplata la funzione sociale. Quest’ultima è stata soprattutto riconosciuta già alla fine del XIX secolo in Francia, dove proprio a scopo sociale, sono stati costituiti degli orti destinati alle classi meno abbienti. Orticoltura terapeutica Il riconoscimento del valore “terapeutico” degli spazi a verde ha una radice molto antica. Da sempre il “giardino” ha rappresentato un luogo di serenità e benessere: si pensi alla favolosa “età dell’oro” o al biblico “paradiso terrestre”. Non deve quindi stupire che nell’antico Egitto alcuni dottori di corte prescrivessero ai loro pazienti, malati di mente, delle lunghe passeggiate nei giardini del palazzo del faraone. Anche nell’Apocalisse di Giovanni si legge “in mezzo ... c’è l’albero della vita che fa dodici frutti, dando ogni mese il suo frutto,

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le foglie dell’albero servono per la guarigione delle genti.” I primi esempi di “terapia orticola” si sviluppano comunque a cavallo tra la fine del sec. XVIII e l’inizio del sec. XIX, quando negli ospedali degli Stati Uniti d’America e della Spagna si cominciò ad essere convinti del valore terapeutico della relazione uomo/pianta. In una prima fase, agli inizi del sec. XIX, l’orticoltura terapeutica venne sviluppata nel trattamento dei malati di mente. Nel 1817 a Filadelfia, in USA, nacque la prima istituzione privata psichiatrica, “Asilo per le persone private della loro ragione” nel “Friends Hospital”, che, superando la cornice di tipo rurale, utilizzò un’ambientazione “tipo-parco” con sentieri alberati, con spazi aperti e prati, mentre alcuni pazienti erano coinvolti nella coltivazione di piante da frutto e ortive. Per tutto il secolo XIX l’ortoterapia fu soprattutto rivolta al recupero delle persone psicologicamente Nell’orticoltura terapeutica occorre porre particolare attenzione al tema o mentalmente disabili, dell’accessibilità. senza alcuna estensione al recupero fisico dei pazienti. La tragica esperienza delle due guerre mondiali servì a verificare, con esiti positivi, la possibilità di inserire la terapia orticola nei programmi di riabilitazione fisica (Mc Donald, 1995). Alla luce dei risultati positivi conseguiti con detta terapia, si pose il problema, non secondario, della preparazione di terapeuti professionali. Questa esigenza trovò pieno soddisfacimento nel 1942, quando il College di Milwaukee Downer inserì un corso di orticoltura terapeutica all’interno del piano di studi per la laurea in “Occupational therapy”. Per quanto riguarda la promozione culturale merita una menzione particolare il libro, pubblicato nel 1973, dal titolo particolarmente significativo “Horticulture as a Therapeutic Aid” a cura di Brooks e di Oppenheim. Accanto alla iniziative di organizzazione e di diffusione della terapia orticola è da segnalare la nascita di organizzazioni professionali dei terapeuti orticoli tipo il “National Council for Therapy and Rehabilitation Trough Horticulture” (NCTRH) che nel 1988 diventerà ATHA = “American Horticultural Therapy Association” con lo scopo di incrementare la professionalità in campo terapeutico. Anche in Inghilterra si registrò la costituzione della “Society for Horticultural Therapy and Rural Training”, che successivamente semplifica la sua denominazione in “Horticultural Therapy”, con il compito di aiutare le persone, fisicamente o mentalmente malate, recuperandole attraverso l’uso del giardinaggio in tutte le sue forme. Queste istituzioni hanno avuto diffusione in vari Paesi, compresa l’Italia, in cui opera la “Horticultural Therapy Italia”, a cui fanno capo altre organizzazioni come la “Gardening Promotion Italy”. Quest’ultima si dedica prevalentemente al giardinaggio per soggetti spastici. Orticoltura sociale La nascita dell’orticoltura a scopo sociale si può fare risalire al XIX secolo in Francia. Nel 1893, infatti, un gruppo di intellettuali e di parlamentari liberal-cristiani si impegnano nella

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approvazione della legge Siegfried, che riconosceva agli operai la possibilità di diventare proprietari di un lotto di terra. Qualche anno dopo l’abate Lemire (1896) fonda la “Ligue du coin de Terre et de Foyer”. L’idea di mettere gratuitamente a disposizione degli operai lotti di terreno era stato oggetto di diverse iniziative filantropiche, ma la sua estensione sistematica e la sua stessa denominazione “giardini aperti” datano a partire da questo periodo storico (1893-1896). Al giardino si riconosceva quindi non solo un ruolo economico, poiché l’orto assicurava il minimo vitale alimentare, ma anche un ruolo igienico e morale, in quanto spazio alternativo ai modi e ai ritmi imposti dal vivere cittadino e/o industriale. In Italia nel corso della seconda guerra mondiale, alla periferia di Roma, senza alcun intervento da parte dello Stato, si registra la nascita degli “orti di guerra”, costituiti da ampi appezzamenti di terreni, divisi in piccolissimi lotti in cui si svolge un’intensa attività orticola. La loro ubicazione è nelle immediate vicinanze delle strade di grande traffico, alla periferia delle città o nei tratti urbani e suburbani, possibilmente vicini ai fiumi. In Francia, dove le espressioni dell’orticoltura sono molto articolate, con la legge del 26 luglio 1952 si elimina, almeno dal punto di vista legislativo, la distinzione tra le quattro categorie preesistenti – giardini aperti, industriali, rurali e familiari – che vengono inglobate sotto l’unica denominazione di “organismi dei giardini familiari”. Un ulteriore passo, sul piano legislativo, è la promulgazione della legge del 10/IX/1976 (legge Royer) con la quale si sancisce che il giardino familiare è “ogni particella di terreno che il suo conduttore coltiva personalmente in vista di provvedere ai bisogni della famiglia con l’esclusione di ogni beneficio commerciale”. Tale legge mira in particolare a fornire ai proprietari degli orti familiari garanzie contro i rischi di espropriazione, assimilando tali spazi a quelli a verde già oggetto di protezione. Numerose sono in Francia le associazioni che, nei loro statuti, riprendono le motivazioni che stanno alla base della legge Royer: l’attività di “giardinaggio” è fonte di salute fisica e morale, di salvaguardia della natura e della pace sociale. In Svezia ed in Danimarca, invece, si cerca di rendere la residenza secondaria con orto/ giardino alla portata delle classi meno abbienti. In queste nazioni alcune municipalità hanno preso l’iniziativa, nel contesto della lottizzazione, di costituire una nuova tipologia di spazio, dove i giardini sono essenzialmente di diporto e in essi è possibile costruire, con costi contentuti, delle abitazioni per le vacanze. Dette realizzazioni sono previste nei piani di urbanizzazione e sono ubicate ad una certa distanza dal centro urbano: il villaggio di Ekedal, destinato a tale scopo è, ad esempio, ubicato a circa 30 Km da Stoccolma. In Italia tra le più significative esperienze va ricordata quella di Torino dove orti urbani, istituiti a partire dal secondo dopoguerra sul modello di quelli francesi ed estesi negli anni ’70 su circa 200 ettari, hanno rappresentato per gli immigrati un elemento di continuità ideale con le loro radici contadine. Altra esperienza significativa in tema di orti urbani sociali è quella di Parma, dove l’impianto si inquadra nell’ambito del processo di qualificazione del verde urbano anche attraverso attività produttive in grado di valorizzare energie ed esperienze di persone anziane. A criteri e finalità analoghe sono informate le iniziative attivate in altre città, tra cui Ancona, Bologna, Bergamo e Bolzano. Le corrispondenti Amministrazioni operano quasi sempre sulla base di appositi regolamenti, i cui contenuti riguardano aspetti giuridici della concessione (generalmente affitto con canone simbolico), ampiezza dei lotti, vincoli e divieti in tema di utilizzazione della superficie e di vendita dei prodotti, criteri per la conduzione dell’orto e segnatamente per l’uso dei prodotti antiparassitari. Gli orti urbani, anche al di fuori del nostro Paese, sono stati spesso realizzati in aree di risulta, degradate o emarginate, o veri e propri spazi sparsi, integrati nel tessuto urbano. Essi possono essere suddivisi in: ∗ orto urbano privato: un appezzamento di terreno recintato e comprendente un capanno; è una scelta per chi non ha forti relazioni sociali;

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∗ orto urbano sociale: un piccolo appezzamento di terreno recintato e suddiviso al suo

interno in 6/8 lotti con un capanno comune; ∗ orto urbano contemplativo: le caratteristiche sono simili ai precedenti, ma la sua ubicazione è all’interno della città e la coltivazione è limitata solo a essenze ornamentali. Ultimamente le diverse tipologie “sociale”, sopra menzionate, sono sottoposte ad un processo di riconsiderazione alla luce delle forti sollecitazioni promosse dai movimenti di matrice ecologica. Questi, recuperando in toto il valore e la funzione dell’ambiente, hanno imposto la rivisitazione di quanto precedentemente sperimentato e proposto in termini più pressanti, la necessità di stabilire un rapporto tra uomo e natura, fondato su basi di equilibrio, che sia espressione di rispetto autentico della natura stessa. Impianti sportivi e per gli spettacoli Possono essere sia coperti che scoperti e sono costituiti da strutture quali piscine, palestre, maneggi, stadi, cinema e teatri, luoghi attrezzati per le feste organizzate, per i concerti musicali, per le fiere, i circhi equestri, ecc. Gli spazi destinati a questo scopo devono essere progettati tenendo conto di utenze massicce e concentrate in brevi periodi di tempo, intervallati da periodi più o meno lunghi di non utilizzo. Il verde in molti casi funge da arredo o può costituire (vedasi ad esempio i campi di calcio) Il campo da golf è uno dei più importanti esempi di verde sportivo. struttura portante dell’attrezzatura. Verde cimiteriale I cimiteri, al di là delle funzioni specifiche, possono essere integrati nel sistema del verde; questo è soprattutto vero in alcuni Paesi esteri in cui si tende ad affidare ai cimiteri anche una funzione paesaggistica. In passato i cimiteri avevano in genere dimensioni limitate, mentre nel XIX secolo sono state create delle soluzioni grandiose, destinate a servire l’intera città, che facevano riferimento ai modelli del giardino italiano o inglese. Nel primo caso si tratta di strutture rigidamente geometriche, con un asse centrale (spesso recante al centro una cappella) e assi laterali; nel secondo caso, i sentieri sono ondulati e lo spazio è articolato mediante gruppi di alberi e/o cespugli, creando in alcuni casi addirittura dei boschetti, con un fabbisogno in superficie piuttosto elevato. Recentemente, riprendendo in forme più semplificate la concezione del cimitero paesistico, in Germania ed in Inghilterra si è sviluppato un movimento a favore di strutture in cui l’elemento vegetale predomina su quello costruito; esso trova la sua espressione più compiuta nei cosiddetti “cimiteri-prato”, in cui le tombe, senza cordonature e sentieri

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intermedi pavimentati, sono immerse in una superficie a prato, restando escluse le lapidi e un piccolo riquadro con fiori. La dimensione ottimale di tali cimiteri viene stimata tra i 20 e gli 80 ha, che rispettivamente rappresentano la superficie minima, affinché la manutenzione meccanizzata del prato sia economica, e quella massima che consente il collegamento delle tombe ad un’unica cappella. Quali elementi vegetali si possono utilizzare, oltre alle essenze prative, anche arbusti, con funzione ricoprente. Aree degradate Tale tipologia non presenta differenze per quanto riguarda funzioni e/o destinazione rispetto ad altre in precedenza analizzate; essa si può infatti assimilare, in base alle dimensioni, ai parchi o ai piccoli spazi a verde. La differenza sostanziale è legata alle condizioni di partenza: si cerca di destinare a verde pubblico cave o discariche, cioè aree degradate da un precedente intervento antropico. Specifiche sono le tecniche da adottare per il recupero, che fanno spesso riferimento alla cosiddetta “ingegneria Le cave così come le discariche pongono gravi problemi tecnici per il loro recupero dopo l’uso. naturalistica”. Parco agricolo Visto l’interesse che assume questa tipologia di verde dal punto di vista ambientale e territoriale, abbiamo ritenuto opportuno analizzare con maggiore dettaglio gli aspetti coinvolti. Caratteristiche dei parchi agricoli Fra le variegate configurazioni che le tipologie di verde possono assumere, un posto di rilievo spetta al cosiddetto “parco agricolo” che rappresenta la realizzazione del connubio tra salvaguardia ambientale, fruizione ricreativa e attività economico-produttiva dell’azienda agraria. Da un lato, ponendo sotto tutela determinate aree a destinazione agricola, se ne garantisce la sopravvivenza anche, e soprattutto, quando queste sono di piccole dimensioni e frazionate. D’altro lato, il parco agricolo pone le basi per la diffusione dell’agriturismo (fruizione ricreativa dell’ambiente agrario). Si tratta infatti di coniugare da una parte le esigenze dei coltivatori agricoli con quelle dell’utenza oggi sempre più interessata agli ambienti rurali. Interessante è notare come alcune colture tradizionali della Sicilia (agrumi, vite, olivo) per la “bellezza” del paesaggio cui danno luogo si prestano bene a tale uso. Nel passato, infatti, l’attività agricola era elemento di “costruzione del territorio” mentre con il tempo ha cominciato ad assorbire la cultura del processo di produzione, per cui ha finito per considerare il territorio come risorsa, materia prima da consumare. La rottura dell’equilibrio territoriale e la compromissione dell’ecosistema non si sono realizzati solo perché il territorio non costruito (la campagna) è stato eroso, accerchiato, occupato dall’espansione urbana, ma anche perché la trasformazione dell’agricoltura ha introdotto nelle pratiche colturali la stessa logica di “sfruttamento” che è tipica del territorio urbano. L’agricoltura è stata quindi depauperata della sua capacità di “produrre territorio” (vedi il paziente lavoro dei terrazzamenti, della regimazione idrica, ecc., condotto nel passato) ed invece ha cominciato sempre più ad

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utilizzarlo; di conseguenza il territorio agricolo stesso è sempre meno “ambiente” e luogo fruibile per l’abitare, il riposo, lo svago. Costruire un parco agricolo vuol dire quindi compiere questa “rivoluzione copernicana”, con la quale si cerca di ristabilire il legame tra attività agricola ed ambiente circostante, si torna a concepire l’agricoltura capace di “costruire la terra”, perseguendo, anche con adeguate politiche agrarie, la riqualificazione ambientale. In questa ottica quindi un parco agricolo è una struttura territoriale, finalizzata principalmente alla produzione primaria, alla tutela e valorizzazione del territorio ma anche idonea alla fruizione culturale, ludica, ricreativa dell’ambiente da parte dei cittadini. La creazione di un parco agricolo, visto l’intenso fenomeno della conurbazione, potrebbe essere una soluzione per coniugare la necessità di disporre di spazi a verde con quella di mantenere alcune attività agricole che presentano ancora oggi una parziale validità sotto il profilo economico-produttivo. In realtà le questioni sottese dal considerare “parco” l’ambiente agrario sono numerose ed attengono anche ad ambiti fortemente culturali. In questo caso, infatti, si considera “parco” un territorio vasto, complesso, fortemente antropizzato per effetto della presenza di una estesa e intensa produzione agricola, a c c a n t o a d un’urbanizzazione spesso L’elevata qualità percettiva del paesaggio agrario siciliano assume particolare interesse per la creazione di parchi agricoli. rilevante. Si tende quindi a far coincidere il concetto di “parco” con quello di “territorio”, intendendo per costruzione del parco l’esercizio di un’attività di cura del territorio stesso (ed in particolare di attività agricole) che consenta la vita ed il risanamento dell’ecosistema territoriale, il suo riequilibrio, la sua funzione sociale (culturale, ricreativa, ma anche il lavorare ed il risiedere propriamente). Si ipotizza quindi un “coltivare con cura” che consenta di “abitare il territorio”. È evidente che in tal senso il concetto di costruzione del parco viene profondamente ridefinito ed esteso fino ad identificarsi, al limite, con le appropriate azioni di gestione del territorio (urbanistiche, strutturali, infrastrutturali, economiche), ridefinendone però obiettivi, contenuti e metodi, finalizzati alla “bonifica” dell’ecosistema ed introducendo approcci ambientalmente consapevoli (Ferraresi e Rossi, 1993). Il parco, secondo questo approccio, perde la connotazione di struttura separata, specializzata, funzione tra le altre funzioni che le era stata assegnata dalla cultura produttivistica della modernità. Questa assunzione teorica (il parco come territorio) rifiuta la cultura che vuole il territorio come uno spazio disponibile per uno sviluppo crescente ed illimitato ed accetta al contrario la coscienza del limite: le risorse sono limitate, il territorio è finito e non può essere ulteriormente consumato, distrutto; deve essere conservato, bonificato, costruito. In questa ottica quindi un parco agricolo è una struttura territoriale, rivolta principalmente

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alla produzione primaria ed alla sua tutela e valorizzazione e contestualmente finalizzata alla fruizione culturale, ludica, ricreativa dell’ambiente da parte dei cittadini, in termini compatibili con la principale destinazione (Ferraresi e Rossi, 1993). La salvaguardia del territorio agrario inteso in senso lato presuppone la messa a punto di specifici interventi per far sì che il modello di agricoltura ipotizzato (non distruttore ma creatore di paesaggio) possa sostentarsi da un punto di vista economico. In tale ottica la realizzazione di attività agrituristiche potrebbe consentire di integrare il reddito degli operatori agricoli e quindi rendere possibile il mantenimento di questi parchi agricoli. Si tratta, è quasi inutile sottolinearlo, di problemi estremamente complessi, la cui soluzione necessita della messa a punto di specifici interventi di carattere politico, dell’individuazione e disponibilità di risorse economiche, ma soprattutto dell’attuazione di attenti studi relativi ai diversi aspetti coinvolti nella realizzazione di un parco agricolo e della sua gestione. Il tentativo di conservare il territorio agricolo nasce dalla presa di coscienza del valore in sé dell’agricoltura. Si riconosce cioè al territorio agricolo di essere il frutto della stratificazione di una complessità natura/cultura. Lo spazio agricolo è quindi ritenuto in grado di incorporare valore antropologico; quest’ultimo non si aggiunge alle proprietà fisiche di un territorio, ma le assorbe, le modella e le rimette in circolo in forme e funzioni variamente culturalizzate. Lo spazio agricolo assume quindi “valore culturale”, in quanto espressione diretta dell’azione dell’uomo sulla natura. Un parco agricolo in prossimità di un ambiente urbano può assicurare servizi di carattere paesaggistico per i quali si avvicina a concezioni simili a quelle di un parco di carattere urbano: l’agricoltura assume qui le caratteristiche di un “giardino”, con tutte le gradazioni possibili di maggiore e o minore caratterizzazione paesistica. Possono essere anche previsti servizi di carattere “ambientale”, ossia vincoli nell’uso di mezzi produttivi che siano più rigidi che nella media dell’agricoltura, allo scopo di creare zone-polmone prossime ai centri abitati per la riduzione di elementi ritenuti inquinanti. Ci si riallaccia quindi ad aspetti molto simili alle funzioni svolte dai parchi naturali; al contempo gli spazi agricoli possono assolvere alcuni servizi sportivi o volti in generale a favorire la fruizione, quali i percorsi di trekking, passeggio, sosta, ristoro, ecc. D’altra parte si può ipotizzare la possibilità che le aree agricole possano assolvere a funzioni di carattere culturale didattico, quando vengano mantenute con l’obbligo della conservazione di forme tradizionali di gestione delle pratiche agricole, per cui tali spazi assumono una funzione esemplificativa delle modalità classiche o tipiche di svolgimento delle attività agricole. Questa tipologia di servizio, adatta per piccole aziende o per settori limitati di imprese più ampie, deve prevedere una destinazione di risorse ad hoc, il che comporta un costo specifico per la produzione del servizio. Simile a questo servizio può essere quello culturale-storico con il quale si vogliono conservare, a scopo dimostrativo, alcune tipologie produttive ora superate e/o marginali. L’interesse di queste due ultimi servizi, in gran parte coincidenti, è a nostro avviso legato da una parte al pieno riconoscimento del “valore” dell’agricoltura tradizionale e dall’altra alla possibilità di destinare allo scopo piccoli appezzamenti inclusi o prossimali al territorio urbano, che difficilmente riuscirebbe ad avere validità sotto il profilo produttivo. L’agricoltura nella pianificazione ecologica del territorio Il territorio è comunemente inteso come uno spazio fisico organizzato da strutture politicoamministrative e socioeconomiche che sono espressione della sua popolazione o, più semplicemente, uno spazio disponibile per le più diverse utilizzazioni da parte dell’uomo. In tale ottica il territorio appare non come espressione della natura ma come un semplice prodotto dell’attività umana, concepito come una superficie geografica omogenea.

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Pur considerato in termini geografici il territorio ha, tuttavia, un limite fisico che si è reso particolarmente evidente nei paesi fortemente industrializzati, volti al perseguimento di obiettivi di sviluppo strettamente legati ad un forte aumento delle varie utilizzazioni socioeconomiche del territorio. Tali attività sviluppandosi rapidamente e caoticamente hanno reso evidente l’impossibilità di convivere armoniosamente negli stessi spazi territoriali limitati. La crescita economica e sociale è stata, come è noto, perseguita attraverso la differenziazione delle attività economiche e la ripartizione del lavoro; tale crescita ha avuto quindi bisogno di una intensa suddivisione del territorio che ha causato evidenti disparità tra le varie porzioni (città, campagna). Ciò ha avuto come conseguenza un forte sviluppo delle aree urbano-industriali ed un depauperamento di quelle agricole. La moderna politica di pianificazione territoriale si è posta il problema di un riequilibrio del territorio, cercando di accelerare lo sviluppo socioeconomico degli spazi rurali mediante la creazione di infrastrutture, servizi ed insediamenti industriali e di migliorare, dall’altra, le condizioni ambientali dei centri urbani con misure di carattere igienico ricreativo (es. spazi verdi urbani). Fino agli anni ’70 la pianificazione territoriale ha operato, infatti, considerando le aree esterne alla città come aree da utilizzare quale riserva per gli insediamenti e le infrastrutture, su cui spostare il potenziale di sviluppo economico eccedente e la popolazione, quando il tasso di urbanizzazione dei più importanti centri urbani diveniva eccessivo. La consapevolezza, che si è fatta via via più forte, dell’importanza di considerare il territorio nel suo insieme e soprattutto di preservare alcuni dei valori ecologici che le aree rurali rivestono ha fatto sì che l’attenzione si spostasse sul rapporto e sullo scambio di prestazioni tra i diversi comprensori specializzati. Si sono tenute inoltre sempre più in considerazione talune funzioni ecologiche dei comprensori agro-pastorali, in precedenza poco considerate, avendo dovuto constatare, tra l’altro, che il processo di urbanizzazione ed industrializzazione indifferenziata negli ultimi decenni aveva compromesso gravemente il territorio e le sue indispensabili funzioni di compensazione ecologica e ricreativa. Sono state messe in evidenza alcune funzioni ecologiche caratteristiche dei comprensori agro-silvo-pastorali, in precedenza trascurate. Si è avvertito che la prevalenza accordata alla difesa dell’ambiente con mezzi tecnici nascondeva il pericolo di trascurare e sottovalutare la connessione ecologica dei fattori naturali. Si è affacciato quindi il concetto che possano esistere zone prioritarie per l’assicurazione dei fattori naturali necessari allo stesso sviluppo socioeconomico. Questa evoluzione è stata favorita anche da una radicale contestazione della politica di livellamento territoriale da parte degli ambientalisti, i quali sostengono che l’obiettivo politico che essa sottende non è possibile nell’attuale stato di crisi ecologica. Il processo di urbanizzazione e industrializzazione indifferenziata degli ultimi decenni ha compromesso gravemente territori indispensabili per le loro funzioni di compensazione ecologica e ricreativa. Se i singoli comprensori debbono essere uguali, ciò può condurre a trascurare ulteriormente le esigenze ecologiche a favore di quelle economiche e sociali. L’eguaglianza delle condizioni di vita e la difesa dell’ambiente appaiono conflittuali. In questo modo gli ambientalisti hanno sanzionato come ecologicamente non più tollerabile una politica territoriale basata sulla differenziazione delle funzioni delle varie aree e quindi anche dei ruoli delle popolazioni in esse residenti, sia pure secondo una logica diversa da quella del passato, ossia saldamente ancorata alla teoria ecologica. Dal punto di vista dell’ecologia, infatti, un territorio è un insieme di ecosistemi, che possono essere sovraccaricati solo entro certi limiti, pena la rottura dei meccanismi di equilibrio, con gravi

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danni alle stesse possibilità di fruizione da parte dell’uomo. La pianificazione quindi deve essere impostata sulla base di zone prioritarie che debbono essere tutelate per i precipui caratteri ecologici e di preservazione dell’ambiente. Appare chiaro allora che se a determinate zone vengono riconosciute funzioni ecologiche prioritarie, benefiche per il territorio circostante ma che non inducono prestazioni quantificabili dal mercato, queste zone devono essere compensate con un trasferimento di risorse finanziarie a favore delle popolazioni locali che le assicurano. Tradizionalmente i tipi di paesaggio che lo sviluppo indotto dalla rivoluzione industriale ha determinato e che sono caratterizzati da differenti tratti ecologici sono: ∗ urbano-industriali; ∗ ad agricoltura intensiva nelle aree ad alta vocazione agricola; ∗ agro-silvo-pastorali ad utilizzazione estensiva nelle aree marginali; ∗ naturali e semi naturali in alcuni ristretti lembi di territorio. Oggi si tende sempre più a sottolineare l’esigenza della reciproca integrazione tra i vari paesaggi ereditati dal passato; pertanto le aree urbano-industraili e quelle agricole intensive devono svolgere prevalentemente funzioni produttive; alle aree agricole marginali, ad utilizzazione estensiva, vengono riconosciute fondamentali funzioni di regolazione quali compensazione dei carichi provenienti dalle zone di produzione, riequilibrio ecologico, scopo ricreativo (agricoltura nei parchi naturali), alle aree naturali prive, o quasi, di utilizzazione produttiva si attribuiscono infine fondamentali funzioni di difesa della natura (riserve e parchi naturali). Il ruolo dell’agricoltura nelle aree protette L’agricoltura ha tradizionalmente esercitato effetti positivi sull’ambiente, espletando tra l’altro anche funzioni che si possono definire di tipo sociale, basti pensare al ruolo che essa ha avuto nella caratterizzazione del paesaggio, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto dei valori umani tradizionali e, quindi, la sua funzione culturale e ricreativa. La molteplicità delle specie di molti tradizionali paesaggi culturali è, ad esempio, diretta conseguenza dell’attività agricola in quanto la copertura del territorio con vegetazione naturale avrebbe evidenziato caratteri di maggiore uniformità. In passato, la proprietà agricola, l’allevamento del bestiame integrato nell’azienda agricola, la rotazione colturale, la diffusione di colture promiscue alternate a breve distanza hanno favorito la costituzione di paesaggi di grande bellezza e in equilibrio ecologico. La rivoluzione industriale ha comportato la rottura di tale equilibrio con l’adozione di tecniche di sfruttamento del territorio fortemente intensive. Ciò ha condotto ad una graduale riduzione degli schemi di rotazione colturale che ha avuto come conseguenza la semplificazione del tessuto rurale, il degrado del paesaggio e un generalizzato impoverimento biologico del sistema agricolo. Attraverso la ricerca di rese sempre più elevate, il che ha comportato l’impiego di elevati input esterni, l’agricoltura si è sempre più avvicinata ai metodi di produzione industriale. Come conseguenza di tale trasformazione si sono evidenziati problemi di natura economica, legati al rincaro energetico, alla rarefazione di materie prime ed alla sovrapproduzione, e di natura ecologica con impatto pesante sul suolo, sulle acque, sull’aria, sul clima, sulla flora e sulla fauna, sul valore ricreativo del paesaggio. Ciò ha condotto alla consapevolezza che l’ambiente non è una risorsa sfruttabile illimitatamente per fini produttivi, ma è un bene da custodire con la massima cura nell’interesse della collettività. Si è cominciato a discutere di crisi ecologica ed a sostenere con grande vigore, in nome di una visione qualitativa dello sviluppo, la necessità di abbandonare l’obiettivo della massima produzione e rinunciare alla manipolazione indiscriminata dei beni naturali. I paesaggi rurali di tipo tradizionale costituiscono, ormai, aree residuali sempre più ristrette

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nelle zone di pianura mentre sopravvivono in zone collinari e montane ad economia marginale, dove si è verificato un imponente esodo della popolazione. Sono questi i paesaggi che, oggi, assumono grande importanza per il riequilibrio ecologico del territorio. Il problema ambientale è così divenuto in breve una delle grandi priorità economiche e sociali della nostra epoca. Da qui la necessità di prefigurare e realizzare un modello di sviluppo atto a garantire il costante miglioramento delle condizioni di vita della collettività senza però nuocere alle risorse ambientali. La locuzione “sviluppo sostenibile”, coniata in occasione della Conferenza dell’ONU di Stoccolma del 1987, sta appunto a significare la ricerca di una formula che assicuri, ad un tempo, sia l’ulteriore crescita economica che la protezione dell’ambiente nelle sue più varie espressioni. Esigenze ecologiche ed economiche, etiche ed estetiche parlano dunque a favore di una nuova concezione strategica dell’agricoltura nell’assetto del territorio e dello sviluppo di modelli aziendali alternativi rispetto a quelli convenzionali. L’agricoltura deve pertanto sempre più cercare di “risparmiare” l’ambiente naturale, conservando e reintroducendo le strutture tipiche del paesaggio agrario tradizionale attraverso, ad esempio, la promozione delle attività esercitate dalle aziende agricole a carattere familiare o favorendo la permanenza di un’agricoltura estensiva in prossimità di componenti paesistiche prossime alle condizioni naturali. In alcune regioni è stato introdotto il concetto di indennizzo, sia pure parziale, per il mantenimento delle funzioni sociali dell’agricoltura, specialmente nelle aree marginali ed esistono al riguardo precise direttive della CEE quali, ad esempio, il Reg. 2078/92 relativo ai metodi di produzione agricola compatibili con l’ambiente e la tutela della natura. In esso si prevede, infatti, un sostegno ai redditi agricoli disancorato dalla regolamentazione dei mercati ed accordato agli agricoltori in funzione del loro impegno ad attuare pratiche compatibili con l’ambiente e la tutela della natura. L’agricoltore viene dunque ricompensato per la sua funzione sociale di tutore dell’ambiente e della salute collettiva. Se questo è un principio valido per la generalità del territorio, a maggior ragione, lo diviene nelle aree protette nelle quali lo svolgimento di attività agricole si deve collocare in un quadro composito di motivazioni, vincoli ed obiettivi, interagendo l’agricoltura con le peculiarità ambientali e naturalistiche del territorio rurale e costituendo al contempo un fondamentale presupposto per lo sviluppo economico sostenibile delle popolazioni residenti. L’agricoltura nei parchi o nelle aree comunque protette deve farsi promotrice di un nuovo ruolo, privilegiando la conservazione di formazioni e assetti che l’uomo ha creato nel corso dei secoli ed armonizzandoli con le peculiarità del territorio da proteggere. Da queste considerazioni deriva il ruolo assai complesso che nei parchi l’agricoltura è chiamata a svolgere, dovendo integrare esigenze assai diverse e perseguendo obiettivi spesso difficili da conciliare. Caratteristiche e funzioni dei parchi agricoli Il parco agricolo è la realizzazione di un connubio tra salvaguardia ambientale, fruizione ricreativa e attività economico-produttiva dell’azienda agraria. Il principale problema che si pone nella realizzazione e gestione di questa tipologia di verde è quello di conciliare l’aspetto ecologico ambientale con le implicazioni di carattere economico-produttivo. Queste ultime infatti assumono fondamentale importanza in quanto il parco agricolo è un ecosistema che si ipotizza viva di sue ragioni legate alla produzione primaria. La consistenza strutturale/fisica di questa figura territoriale è quindi la campagna, il territorio agricolo-produttivo. D’altro canto, questo carattere produttivo convive nel parco agricolo con un’altra finalità di cui si è detto e cioè la fruizione sociale, a vario titolo, dell’ambiente.

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Lo spazio pubblico (e cioè la sede più intensa e diretta della fruizione sociale del parco) per poter essere compatibile con la piattaforma produttiva deve assumere forme non deostruenti né competitive rispetto all’esercizio dell’agricoltura, non deve coprire o invadere eccessivamente lo spazio agricolo e deve piuttosto consentire la continuità e l’estensione degli ambiti di questa funzione produttiva. Possono essere destinate alla realizzazione di parchi agricoli aree produttive caratterizzate da diverse vitalità dell’esercizio dell’agricoltura e struttura morfologica del territorio. Da questo punto di vista si possono distinguere aree agricole consolidate, nelle quali l’attività agricola è vitale ed estesa e non è sostanzialmente influenzata dall’espansione della città e in cui gli ambiti territoriali sono estesi e compatti. Vi sono poi ambiti agricoli da consolidare nei quali la destinazione agricola produttiva, per quanto indebolita, persiste ed è quindi recuperabile attraverso interventi di risanamento e innovazione: gli ambiti debbono però essere sufficientemente accorpati (o accorpabili), di dimensioni economicamente fruibili. Esistono anche aree collocate ai margini del degrado urbano periferico che possono essere compattate in micro (o macro) sistemi di verde e spazi liberi, utili ai fini dell’incremento dello standard urbano e per la formazione futura di nuovi parchi: questi sistemi possono essere definiti, secondo Ferraresi e Rossi (1993), come parco rado. Si tratta cioè dell’ipotesi di recupero di risorse/territorio dimesse, di conservazione di queste risorse, proponendo dei “parchi” senza che ciò dia necessariamente luogo a progetti impegnativi di “verde costruito”. In essi l’agricoltura può giocare un ruolo di “mantenimento delle risorse” e dall’altra parte può dare luogo a sperimentazioni colturali; possono essere previsti orti urbani e riutilizzati dei fabbricati ex agricoli a fini sociali o per attività legate all’ambiente e allo svago. In ogni caso l’attenzione all’interno di un parco agricolo deve essere posta nei confronti dei diversi “servizi ambientali” che a buon diritto tale tipologia di verde può assolvere. In base ai vincoli posti all’esercizio dell’attività agricola si possono delineare diversi tipi di servizio ambientale (vedi tabella). Il verde produttivo rappresenta l’agricoltura tradizionale volta all’ottenimento di beni primari. Questa attività è ovviamente sottoposta ai vincoli che la legislazione comunitaria e nazionale pongono al settore primario. All’agricoltura produttiva Classificazione dei tipi di servizio ambientale forniti da differenti “forme” di agricoltura e le loro caratteristiche essenziali (Fonte: Ferraresi e Rossi, 1993, con modifiche).

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DENOMINAZIONE

DESCRIZIONE SINTETICA

Verde produttivo

Esercizio normale dell’attività agricola

Verde produttivo con connotati paesaggistici

Esercizio normale dell’attività agricola con imposizione di vincoli paesaggistici (es., mantenimento di impianto alberato, di frangiventi, ecc.)

Verde produttivo con vincoli strutturali

Esercizio dell’attività agricola con obblighi di mantenimento fabbricati, dimensione campi, rete canali, strade; vincoli per edilizia strumentale

Verde produttivo con obbligo colture imposte

Esercizio attività agricola con colture o allevamenti imposti dall’Ente gestore del parco

Agricoltura didattica con visitatori

Esercizio attività agricola con vincoli su tecnologie, obblighi di percorsi per scolaresche e visitatori in genere

Agricoltura museale

Attività vincolate nelle tecnologie, nelle colture, nelle strutture; obblighi come sopra nei confronti dei visitatori

Verde produttivo con connotati “biologici”

Esercizio attività agricola con vincoli all’impiego di determinati mezzi chimici (quantità/tipo)

Agricoltura naturistica

Attività semi-estensiva; impiego di tecnologie biologiche per la salvaguardia di fauna e flora

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possono venire imposti vincoli di carattere paesaggistico nel senso percettivo del termine. Simili a quelli paesaggistici sono i vincoli di carattere strutturale con obblighi specifici ai miglioramenti fondiari. Mantenere tipologie costruttive acquisite, di carattere utile alla memoria storica, ha vantaggi per la collettività, anche se di frequente comporta ostacoli a una moderna organizzazione produttiva. Simile è pure il vincolo di colture imposte, di norma legate a problematiche conservative e didattiche. Un esempio pregnante relativo all’ambito siciliano e del suo paesaggio agrario, è quello dei vigneti o degli agrumeti posti su terreni terrazzati, che determinano un paesaggio a sua volta utile per altri scopi e che vanno “pagati” per le esternalità che comportano. In alternativa o in via congiunta possono essere richiesti limiti all’impiego di mezzi chimici di sintesi, specie in aree fragili sotto l’aspetto ambientale (terreni pericolanti, prossimi alle città, ai fiumi), per le quali le normali cure colturali possono creare modifiche pericolose in termini di accumulo di prodotti nocivi nei terreni e nelle acque. A un grado di vincolo più spinto si pone l’agricoltura naturistica, con diversi livelli impositivi, che può giungere a forme semi-estensive, con presenza di fauna selvatica e di solito connessa ad areali protetti in via totale. Si tratta di una esperienza già ampiamente consolidata all’estero e che nei Paesi Bassi si sviluppa ormai per circa 200.000 ha. Oltre si arriva all’oasi naturistica, nella quale continua qualche attività agricola, ma solo in funzione di attività “naturali” prevalenti. Il caso limite è il parco naturale negli spazi aperti o pubblico negli agglomerati urbani, nel quale l’uomo opera a fini puramente di mantenimento o di impianto e manutenzione, con qualifiche che si distaccano da quelle dell’agricoltura tradizionale. All’interno del parco agricolo può anche essere prevista la presenza di verde agricolo a carattere didattico, volto a fornire servizi a cittadini che vogliono conoscere la struttura operativa del settore e che, in prossimità dei centri urbani, può svolgere un’utile funzione, anche per una conoscenza delle operazioni agricole che si svincoli da luoghi comuni, spesso non veritieri. In alcuni casi si può pensare ad una agricoltura museale, con la quale si amplifica la valenza culturale, etno-antropologica dell’esercizio dell’attività agricola tradizionale. Naturalmente, affinché lo spazio possa svolgere al meglio la propria funzione di servizio ambientale deve essere sottoposto a vincoli più o meno pregnanti. In particolare nell’agricoltura didattica con visitatori si determinano, per effetto dell’obbligo delle colture imposte, maggiori costi e minori ricavi rispetto ad un esercizio dell’attività agricola totalmente esente da vincoli di questo genere. A tali imposizioni si aggiungono costi extragricoli dovuti alla creazione di appositi percorsi, alla presenza di visitatori, singoli o a gruppi e in particolare di scolaresche. Ciò implica perdite di tempo, costi aggiuntivi di pulizia, di protezione da vandalismi, furti e dalla stessa incuria dei possibili visitatori, elementi tutti di turbativa del normale esercizio dell’attività produttiva. Questi aspetti si accentuano nell’agricoltura museale che implica un maggiore onere connesso proprio all’esigenza di presentare un’attività agricola di fatto non più praticata e che quindi richiede speciali soluzioni per poter essere attuata. Rispetto alla precedente tipologia bisogna altresì considerare che qui siamo in presenza di un afflusso di visitatori potenzialmente più intenso e più concentrato in determinate occasioni e che quindi presenta un potenziale maggiore problema di adattamento per le imprese agricole che debbono necessariamente organizzarsi per far fronte alle esigenze connesse alla funzione museale rivestita dall’azienda agricola. Oltre ai vincoli qui illustrati, il servizio ambientale può comportare, per le attività elencate, anche una serie di opportunità da non trascurare e che possono costituire potenziali incentivi per le aziende agricole ad accettare le regole volute dal parco.

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Schema dei rapporti fra servizio ambientale e opportunità per l’agricoltore (Fonte: Ferraresi e Rossi, 1993, con modifiche). Vantaggi collocazione nel piano

Indennizzo in denaro

COMPENSAZIONI Licenze vendita prodotti

Licenze agrituristiche

Diritti edificatori

Altri contributi

Compensazioni in denaro per i servizi

Verde produttivo Verde produttivo con connotati paesaggistici Verde produttivo con vincoli strutturali

?

Verde produttivo con obbligo colture imposte

?

Agricoltura didattica con visitatori

?

Agricoltura museale Verde produttivo con connotati “biologici” Agricoltura naturistica Le aree in arancio indicano il rapporto esistente fra servizio ambientale offerto e le opportunità per l’agricoltura; i punti interrogativi esprimono ipotesi possibili seppure dubbie.

Ciò comporta la volontà delle parti di instaurare rapporti di tipo contrattuale grazie ai quali sia possibile, con il consenso reciproco, giungere a conciliare le opposte esigenze. Le opportunità offerte agli agricoltori per il fatto di svolgere la loro attività produttiva nell’area del parco sono di diversa natura e sono state sommariamente schematizzate in tabella. Vi è innanzitutto una serie di vantaggi per essere collocati nel parco che possono esprimersi in più elevati valori fondiari, nelle condizioni di vita e di lavoro meno minacciate da inquinamento e da altre attività produttive, nelle possibilità di avvalersi di una serie di strutture e supporti pubblici legati all’esistenza del parco. Ovviamente si possono ipotizzare, sempre nel quadro di ben definiti rapporti contrattuali, una serie di misure indennizzatici degli obblighi imposti all’agricoltura. Fra queste si possono citare indennizzi in moneta per gli obblighi imposti e che sono facilmente ipotizzabili per i casi di agricoltura produttiva con vincoli di tipo paesaggistico, di tipo strutturale, di tipo legato all’imposizione di determinare colture ritenute antieconomiche e, nel caso dell’agricoltura museale, laddove questa costringa ad utilizzare tecnologie superate e più costose di quelle normalmente adoperate. Un’altra categoria può essere costituita da compensazioni non di tipo monetario ma legate ad atti rientranti nelle facoltà discrezionali delle pubbliche amministrazioni, come la concessione di licenze di vendita di prodotti vari, di licenze per l’esercizio di attività agrituristiche, di licenze edilizie legate esclusivamente a precisi rapporti contrattuali (purché compatibili con la generale destinazione dell’area). Infine si potrebbero ipotizzare contributi ad hoc nei casi di agricoltura didattica, museale, naturalistica, di oasi naturalistica e di gestione di aree aziendali a parco pubblico proprio per consentire questo tipo di utilizzo e invogliare i produttori a destinare ad essi, in parte o in toto, le loro superfici aziendali. Da ultimo, per le forme di utilizzo non più strettamente agricole, come oasi naturistiche e

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parchi pubblici, si può pensare a compensi diretti in denaro volti a controbilanciare servizi effettivamente resi dai produttori agricoli, come pulizia del terreno, sfalcio dei prati, manutenzione delle strade, cura delle alberature, ecc. Parco zoo A differenza dei giardini botanici, i giardini zoologici si sono sviluppati inizialmente più con carattere popolare che didattico-scientifico; le funzioni ornamentali e di svago venivano soddisfatte esibendo animali, in gran parte esotici, in gabbie anguste. Oggi si tende invece al concetto di parco zoo, cioè collocare gli animali in spazi più ampi, con presenza di vegetazione, per favorire la conoscenza degli animali in ambienti il più possibile simili a quelli naturali. La vegetazione in questi parchi svolge la funzione di arredo e serve anche a mascherare eventuali infrastrutture utili per l’allevamento degli animali ma esteticamente sgradevoli. 3.4. Il giardino privato nel XX secolo Se si ripercorre la storia degli spazi verde si evince facilmente come il giardino privato ne rappresenti l’espressione più importante e tipica. Il tema del giardino familiare, inteso come spazio esterno da abitare non collettivo, inserito in un contesto urbano e/o fortemente antropizzato, presenta, però, indubbiamente, modificazioni piuttosto rilevanti, soprattutto a partire dal XX secolo. Fra gli aspetti più importanti dell’evoluzione di tale tipologia di verde dobbiamo ricordare la riduzione progressiva delle dimensioni, in ragione dell’aumento dei costi del terreno e dell’urbanizzazione. Dagli spazi considerevoli dei giardini urbani della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, si passa a giardini di dimensioni sempre più contenute, quando non si adottano soluzioni alternative, quali il destinare a verde tetti o terrazzi. D’altro canto le trasformazioni sociali ed economiche che si sono succedute dopo le due guerre mondiali hanno fatto sì, da una parte, che l’esigenza di disporre di verde si sia progressivamente ampliata, ma di contro hanno dato luogo a giardini di dimensioni modeste, spesso asfittiche. Inoltre occorre ricordare come il giardino sia diventato uno status symbol, segno delle possibilità economiche del proprietario; questo diventa ancor più vero quando lo spazio è collocato all’interno della città. Il rapporto fra spazio urbano e giardino monofamiliare è spesso conflittuale in quanto quest’ultimo a lungo è stato considerato uno spazio “libero” ed in quanto tale destinabile a quelle infrastrutture che l’accentuata urbanizzazione non consentiva di accogliere all’interno delle città. Per tale motivo gli spazi destinati a giardini sono più numerosi nell’edilizia residenziale suburbana e ne rappresentano spesso motivo di aumentato valore degli immobili. Le tipologie di verde privato Nella sua trattazione monografica sui giardini privati, ubicati soprattutto in ambito urbano, Mariella Zoppi (1990) ha proposto una classificazione che ci è sembrata di notevole suggestione e che pertanto abbiamo seguito nella trattazione. In particolare l’autrice suddivide gli spazi a verde privato nelle seguenti categorie: ∗ giardini d’autore; ∗ giardini condominiali; ∗ giardini monofamiliari; ∗ giardini senza terra. A quest’ultima categoria potrebbero anche essere assimilati gli spazi interni all’abitazione stessa, dove si cerca, attraverso la presenza di piante in vaso, di assicurare l’indispensabile rapporto fra uomo e pianta. Per ciascuna delle categorie elencate in prosieguo verranno riportate alcune brevi notazioni di carattere generale, riferite soprattutto agli aspetti tecnici

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più specifici ed alle recenti evoluzioni. Giardini d’autore All’interno di questa categoria una classificazione, anche se talvolta impropria e fittizia, consiste nel distinguere i giardini degli architetti da quelli dei paesaggisti. Tale suddivisione trova ragion d’essere nella metodologia e nei mezzi usati nella progettazione stessa, anche se spesso, pur partendo da premesse estremamente lontane fra loro, si giunge a conclusioni ed esiti molto simili. La differenza sostanziale fra queste due categorie di professionisti è che mentre i primi si pongono nei confronti del giardino il solo problema di armonizzare gli spazi rispetto alle abitazioni, senza arrivare a determinare nel dettaglio la specie utilizzata, i progettisti del paesaggio specificano sempre il tipo di pianta impiegata. Inoltre gli architetti progettano il giardino, lo spazio esterno in rapporto all’abitazione di cui sono progettisti e quindi affrontano il tema del giardino come relazione spazio-volume con l’edificio da loro immaginato. I paesaggisti, invece, non sono quasi mai, e soprattutto in Italia, i progettisti dell’edificio e sono chiamati ad operare spesso dopo che l’edificio è già stato realizzato. Il problema di fondo rimane comunque simile per entrambi: occorre concepire e progettare lo spazio aperto in stretta relazione con il costruito e con la sua destinazione d’uso. Il progettista di un giardino privato ha, in genere, una libertà di azione ed una disponibilità finanziaria maggiore rispetto a quello di uno spazio pubblico. In ogni caso nella realizzazione di un giardino privato, come già stabilito nel lontano 1937 da Tunnard, occorre operare in modo da “formare con la casa una relazione diretta, facilitando gli accessi dall’uno all’altro. Il giardino diventa così una parte dell’abitazione”. Da questa dichiarazione si può dedurre che una delle caratteristiche del giardino moderno è proprio il suo stretto legame con l’abitazione. Giardino degli architetti Ripercorrere i punti di vista del dibattito culturale portato avanti dalle diverse scuole di architettura nel corso del Novecento esula dai nostri obiettivi, ma non possiamo esimerci dal citare il pensiero di Le Corbusier che giganteggia nel dibattito culturale sviluppatosi attorno all’abitazione ed al suo giardino. Secondo questo architetto francese il giardino è ogni spazio esterno disponibile che si possa costruire come un giardino, nel quale possono essere espletate le funzioni proprie e necessarie dell’abitare. Nella sua “La maison des hommes” del 1941 Le Corbusier così si esprimeva: “Le gioie essenziali sono: il sole lo spazio il verde … l’alloggio moderno (sole spazio verde), i prolungamenti dell’alloggio (nidi d’infanzia, asili materni, scuole e circoli giovanili, lo sport ai piedi delle case). E tutto lo spazio a disposizione che consente di allestire gli orti privati. Con la riforma intervenuta a livello di ordinamento urbanistico, e col nuovo ordine di grandezza dei volumi edificati, si può fare un patto con la natura. La natura è compresa nell’affitto. La natura era prima che la città fosse …. La natura comportava la presenza di prospettive paesaggistiche, di orizzonti attraenti, di colline, di montagne, mari, di rivi o di fiumi. La città ha innalzato, a venti metri, uno di fronte all’altro, gli schermi delle sue case. Erano rimasti degli alberi, dei prati. Ci si è costruito sopra. Bisogna riconquistare gli orizzonti. Bisogna piantare di nuovo gli alberi”. Per questo architetto il rapporto dell’abitazione con l’esterno è sempre centrale e risolto spesso in termini di organizzazione spaziale, di relazioni. Non interessa specificare le specie indicate nei disegni: interessa la loro localizzazione, le dimensioni, il rapporto con lo spazio progettato e con l’ambiente circostante. Natura può essere, per Le Corbusier, anche un muro, se al di là di esso il riferimento è il cielo; anche tetti e terrazze diventano “spazi verdi”.

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Giardino dei paesaggisti A differenza degli architetti, i paesaggisti si cimentano nella composizione del giardino attraverso la ridefinizione di ambiti naturali che vengono catturati entro perimetri forzosamente delimitati. Il rapporto fra esterno ed interno del giardino resta legato ad equilibri sottili o a violenti contrasti che determinano paesaggi ed ambienti particolari. Le formazioni e le esperienze dei diversi paesaggisti sono ovviamente molteplici ed il ripercorrerli in maniera puntuale esula dai nostri obiettivi. Anche in questo caso pertanto faremo solo dei brevi cenni funzionali per illustrare cosa sia il giardino privato per alcuni di questi professionisti. Le figure più significative di paesaggisti ci provengono sicuramente dalla cultura britannica. Personaggi come Sir Geoffrey A. Jellicoe, Dame Sylvia Crowe e Gertrude Jekyll non possono certo essere dimenticati. L’ultima, in particolare, rappresenta una figura cruciale nella storia dell’arte dei giardini non solo perché ne ha realizzato oltre 350, non solo perché ha scritto una quantità incredibile di libri, non solo perché rappresenta il coronamento di quel cammino professionale femminile intrapreso un secolo prima da Jane Loudon, ma soprattutto perché ha saputo pienamente interpretare la tradizione “povera” del giardino, il cottage garden, che era rimasta, sia pure in forma latente, sempre viva nel cuore e nel sentimento di tutti gli inglesi. Uno dei segreti del suo successo e della sua modernità sta forse, secondo la Zoppi (1995), nella sua collaborazione con Sir Edwin Lyutens, architetto, con cui dal 1889 instaura una sorta di società di fatto. È un perfetto esempio di integrazione fra architettura e “paesaggio” che si riscontra nei grandi lavori come nelle piccole composizioni, che si definisce in un attento rapporto fra edificio e spazio circostante ed in una profonda coerenza fra gli ambiti che compongono il giardino. La Jekyll ha una formazione culturale complessa: dalla School of Art di South Kensington assimila la pittura (l’amore per Turner e per gli impressionisti francesi), il disegno e la scultura in legno; il suo rapporto con William Morris ed il movimento Art and Craft le permettono di esprimersi nella tessitura, nei lavori in argento, nel ricamo e nella fotografia; il tutto è filtrato attraverso la sua vita di “gentildonna”, appassionata di giardinaggio. Il fascino che il colore esercita su di lei appare immenso. Il colore, le sue tonalità, l’infinita moltiplicazione degli effetti cromatici fanno sì che i suoi giardini richiamino la suggestione dei quadri di Turner, ma che siano al tempo stesso composizioni basate su una profonda conoscenza botanica, delle forme e dei colori delle diverse specie, ma anche della successione delle fasi fenologiche in modo che si assista ad una composizione puntualmente programmata nelle diverse stagioni, pur apparendo “spontanea” e “naturale”.

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Per la Jekyll la chiave del giardino è la composizione: “Possedere una grande quantità di piante, per quanto belle, non equivale ad avere un giardino, ma solo una collezione. Ciò che importa è l’uso che si fa’ delle piante, lo sceglierle accuratamente con un intento preciso”. In uno dei suoi libri più famosi, “Colour schemes for the flower garden” (1908), definisce il suo procedere per quadri e così come gli effetti floreali in un bosco nel mese di marzo diventano l’incanto di una lunga striscia (pennellata e non macchia come precisa la Jekyll), cui fa seguito il tenue celeste della Puschkinia, ed ancora l’azzurro della Chionodoxa che si staglia contro i giacinti bianchi. Sono piani di colore, distesi sul paesaggio chiuso del bosco, fatto di luci filtrate, di mobili ombre e di colori netti dei fiori. Una sequenza dunque di luci e colori, che hanno fatto definire impressionista la Jekyll e che tendono ad annullare lo spazio, che tuttavia resta costruito su di una, sia pure sempre più frantumata, geometrizzazione. Nelle schematizzazioni culturali l’opera della Jekyll resta legata alla definizione del bordo fiorito, in cui è possibile armonizzare il colore e le masse fiorite creando suggestioni dall’apparenza spontanea. In realtà, come scrive lei stessa nell’introduzione a Colour in the flower garden “piantare e mantenere un bordo fiorito, con un buon schema di colori, è cosa più difficile di quanto non si pensi”. Alla grande sensibilità cromatica si unisce un’altrettanta grande conoscenza e curiosità botanica che le permettono di scoprire sempre nuovi accostamenti di piante. Geoffrey A. Jellicoe è una figura centrale fra gli architetti del paesaggio: le sue opere, le sue pubblicazioni e il suo impegno nelle istituzioni sono testimonianza di una formazione culturale complessa ed articolata, tutta improntata sulla centralità del tema paesaggio sia come conservazione di ambienti naturali sia come riprogettazione di luoghi a seguito di mutate richieste d ’ u s o o d e l soddisfacimento di nuove esigenze da parte dei committenti. Ne è testimonianza il più famoso dei suoi lavori, Sutton Place nel Surrey, in cui Jellicoe, in collaborazione con la moglie Susan e con lo stesso proprietario, ha creato un “giardino non solo per gli occhi, ma anche per lo spirito”, dove su un impianto di tipo classico, basato su un’asse centrale e due giardini bilanciati, rispettoso dello antico edificio Tudor di cui fa da sfondo è stato sovrapposto un “piano simbolico” che vuole rappresentare le inquietudini dell’uomo. Nascono così una serie di “stanze” e “passaggi” che introducono ai misteri e alla ricerca della serenità: il fossato di ninfee sottolinea con i blocchi di pietra l’introduzione al giardino del Paradiso, dove tutto è godimento estetico e piacere. Più rigoroso e arioso è il giardino della piscina, segnato dal muro di mattoni, dalle pietre del bordo del piano dell’acqua e dalla profusione di fiori giocati sui toni chiari e su foglie quasi argentee. Fare un elenco dei suoi lavori, anche solo dei più famosi, sarebbe arduo, come altrettanto arduo sarebbe parlare della molteplicità dei suoi interventi che vanno dagli ambienti

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acquatici, ai roof-garden, dai parchi ai giardini privati (che più ci interessano), fino ai piani urbanistici. A tutti i livelli in cui interviene Jellicoe ripropone i canoni generali del rapporto arte-natura, con il quale egli identifica l’architettura del paesaggio, come la forma più antica e forse più completa, in quanto in essa è possibile riconoscere “il fluire continuo di spazio e tempo”, ovvero l’essenza stessa delle mutazioni della natura. In maniera non dissimile Sylvia Crowe ripropone il tema arte-giardino. “Realizzare un giardino – scrive infatti nell’introduzione al suo libro Il progetto del giardino (1989) – esige la stessa comprensione delle leggi di armonia e di composizione che accompagnano la creazione di una qualsiasi opera d’arte (…). Alla base di tutti i giardini vi sono determinati principi di composizione che res tano i mmutati perché radicate nelle leggi naturali dell’universo, quelle stesse leggi misteriose che si rivelano nel rapporto matematico fra armonia cromatica e musica”. Il giardino resta, dunque, per la Crowe, una ricerca continua fra i sentimenti, le intuizioni, l’aspirazione umana alla comprensione delle forze della natura e la progettualità creativa insita nello uomo. La risposta è nella semplicità della composizione e nella conquista della tranquillità. Nella sua ricerca “ideologica” la Crowe giunge fra gli anni ’50-’60 all’adesione di quello che viene definito lo “stile astratto”, ovvero di uno stile quasi architettonico, bilanciato nelle sue parti e negli elementi della sua composizione, rivolto alla ricerca dell’equilibrio, ovvero della “tranquillità”. Una figura singolare, di grande rilievo nel panorama mondiale, è quella di Lawrence Halprin. Americano è forse il paesaggista contemporaneo più prossimo al senso della costruzione architettonica: la manipolazione degli elementi naturali, la mimetizzazione o l’esaltazione delle architetture del paesaggio urbano o naturale diventano in Halprin strutture definite e controllate, volte a determinare spazi d’uso o di suggestione. La sua formazione paesaggistica e botanica, la sua prima giovinezza trascorsa in un kibbutz si confrontano con la cultura architettonica di Harvard. Dopo la guerra Halprin inizia la sua attività professionale in California dove realizza alcune delle sue opere migliori, quale, ad esempio, il giardino di villa McIntyre nel 1960, in cui ha ricreato una serie di stanze all’aperto che si susseguono legate da trame di acqua corrente. Quasi all’opposto delle concezioni architettoniche di Halprin troviamo Roberto Burle Marx che è considerato - ed a ragione - l’inventore di un nuovo stile di giardino, colui che ha riscoperto ed introdotto, nel recinto dell’abitazione, i colori e la forza della natura. Nonostante Burle Marx abbia rifiutato questo titolo è indubbio che egli rappresenta un vero e proprio capo scuola: non si potrebbe, infatti, capire l’opera di altri grandi paesaggisti, quale Luis Barraggàn, senza conoscere la sua opera. Tuttavia il suo percorso culturale è così specifico e personale che si comprende come mai Burle Marx abbia rifiutato

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catalogazioni e definizioni della sua opera. Architetto, pittore e scultore, botanico appassionato ed attento, egli riflette in tutti i suoi lavori la completa ricchezza della sua molteplice formazione e della sua forza nella passione per la natura, per i colori e i paesaggi. Gli elementi artificiali, le sculture, le vasche determinano contrapposizioni cariche di patos che si moltiplicano in quinte definite e contrapposte agli scenari naturali: ne è sicura testimonianza il rapporto muro-montagna della villa dell’ambasciatore Walter Morena Salles a Rio de Janeiro. La sintesi della sua idea di giardino può essere individuata nell’incontro fra l’arte e la natura: una sorta di equilibrio fra le forze naturali e non, che genera un’intensità di emozioni e al tempo stesso propone un inserimento che apparentemente non contrasta ma anzi inserisce il fruitore nell’armonia dell’ambiente circostante. La botanica è in Burle Marx un amore in continuo rinnovamento: egli cerca, importa, acclimata nuove specie alla ricerca di nuove soluzioni formali. Gli anni passati in Europa, la formazione cosmopolita della sua famiglia e la sua natura così tipicamente brasiliana si fondono in un’esuberanza di linee e colori che tuttavia non degenerano in ridondanze decorative ma si semplificano in schemi elementari, ricchi di suggestioni pittoriche, tese a ricondurre la composizione artificiale nelle forme del paesaggio naturale. La linea curva, i piani dolcemente modellati, la sequenza ed il contrasto dei toni sono elementi che si ritrovano in tutte le sue opere. Nelle opere di Burle Marx importante è anche l’intorno ambientale. L’ambiente circostante, il clima, le emozioni del luogo sono alla base delle sue composizioni, la fantasia segue le regole precise che la natura ha creato intorno allo spazio destinato al giardino. La cultura paesaggista in Europa si intreccia con la scuola parigina di Alphand, di cui Jean Claude N. Forestier (1861-1930) fece parte e rispetto alla quale si pone come figura di transizione tra la formazione classica di ingegnere del paesaggio e quella più moderna di paesaggista. La sua esperienza è per gran parte giocata fra i progetti urbanistici a Parigi ma anche in America Latina. All’attività, più nota, legata ai grandi progetti pubblici, Forestier affianca una ricchissima produzione di giardini privati, dei quali propone una teorizzazione che, secondo la Zoppi (1990) è così sintetizzabile: “il giardino è il prolungamento della casa, un completamento naturale necessario sia al castello più magnifico che alla più umile dimora ed inoltre ribadisce l’insostituibile necessità del giardino anche in contrapposizione alla crescita caotica della città, che, con ottica tipicamente ottocentesca, è vista come fonte e causa di infermità fisiche e psichiche”.

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Rispetto al problema dell’estensione, Forestier propone tutta una sequenza di progetti che vanno dai piccoli spazi di 650 m2 ai veri e propri parchi di 5000 m2. Per quanto riguarda lo stile, Forestier affronta sia i temi della composizione geometrica che quelli della tradizione romantica. Per questo paesaggista il giardino è “poesia ed architettura, associa l’arte alla naturalezza, riunisce i contrari, combina la delicatezza con l’audacia, la semplicità con l’ingegno, la regolarità con la fantasia, il rigore degli occhi con l’abbandono della mente” (Zoppi, 1990). La sua attività di pubblicista e l’intenso lavoro sviluppato fanno di Forestier una delle figure più interessanti fra i progettisti di giardini ed il volume da lui pubblicato “Jardins, carnet de plants et dessins” rappresenta uno dei primi, ma ancora validi, manuali di progettazione del giardino. L’opera di Forestier ha gettato i semi di una nuova cultura del verde, che si è caratterizzata, soprattutto in Catalogna, come ricerca di una identità progettuale, che ha avuto come interprete significativo Nicolau M. Rubiò (Barcellona 1891-1981). Nel giardino Rubiò non vede solo gli aspetti della composizione, dell’utilità, del legame con l’abitazione e del rapporto fra arte e tecnica, ma ne cerca un profondo senso di identità e di attualità culturale, perduta nel tempo. Nasce così il concetto di Giardino Meridionale o Latino, un giardino in grado di comprendere e trasmettere il linguaggio ed i messaggi di tutte le civiltà che su esso si sono affacciate e sviluppate. La centralità del Mediterraneo nel mondo antico è la riaffermazione della severa “autorità” del classicismo contrapposta alla spontanea e troppo seducente “anarchia” del Romanticismo. In opposizione alle teorie del modernismo, che proponevano una rivitalizzazione del romanticismo, Rubiò si pone in diretto rapporto con il mondo antico ed il Mediterraneo gli fornisce una base di riferimento concreta. Egli può così plasmare una natura manipolata, ma in perfetta armonia con la sensibilità e i limiti dell’uomo. Tipico nei suoi progetti è la capacità di creare una sintonia fra il paesaggismo di tipo inglese con stilemi classici del giardino formale: così su un tappeto verde (d’erba o di edera) egli dispone pittoricamente le specie vegetali che sono spesso modellate con l’arte topiaria. Frequente è l’impiego dei cipressi, piante naturalmente topiarie. I fiori presenti, ma non dominanti, sono spesso scelti con criteri di uniformità cromatica; lo scopo è quello di ricomporre i contrasti naturali e di creare un’atmosfera che, non a torto, è stata definita come “un dialogo calmo e sereno nello spirito dei migliori pittori del rinascimento fiorentino” (Zoppi, 1990). In Italia figura emblematica e centrale del Novecento è quella di Pietro Porcinai (19101986), che resta il maggiore degli architetti paesaggisti del nostro paese ed è certamente uno dei pochissimi italiani (forse il solo) che ha operato in modo continuo e coerente all’interno della difficile cultura del verde. Con oltre 50 anni di lavoro, più di 200 opere sparse in tutto il mondo, una personalità professionale non

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legata ad un luogo o ad una cultura specifica, Porcinai ha avuto il dono di sapersi sintonizzare con ambienti, climi e paesaggi più disparati, cogliendone ogni volta gli elementi essenziali. In una intervista rilasciata alla rivista AD nel 1985, quasi al termine della sua vita ha enunciato con queste parole alcuni dei fondamenti della sua opera: “Il vero giardino non distrugge, ma valorizza il terreno. La fitosociologia studia come le piante si associano fra loro, perché anch’esse hanno simpatie ed antipatie. E soltanto se sono in sintonia il risultato è di vera bellezza” e ancora “La natura con tutti i suoi innumerevoli organismi tende a un’unità e a un’armonia che la scienza non è ancora arrivata a poter decifrare”. In Porcinai forte è la consapevolezza del profondo significato del giardino, al punto che, nella sua trattazione monografica per l’enciclopedia agraria della REDA, egli lo definisce come una “zona di verde generalmente recinta, costituita da piante ed altri elementi naturali o manufatti, combinati ad arte dall’uomo, avente la funzione di riconciliare perennemente la creatura umana con il circostante mondo naturale”. Concetti apparentemente semplici, quasi scarni che, ancora una volta, ci riportano ad un diffuso senso di “rispetto della natura”: la socialità delle piante, la ricerca degli elementi di natura, della felicità nella semplicità rendono le opere di Porcinai capolavori essenziali siano esse grandi sistemazioni paesaggistiche o progetti per piccoli spazi o di rifacimento di giardini già esistenti. La profonda adesione alla natura deriva dall’idea “povera”, umile, quasi francescana che egli ha nei confronti della natura stessa, fonte di ogni certezza progettuale. Nei suoi giardini i materiali, le piante, i percorsi, i colori si fondono creando immagini ed ambienti in cui il rigore delle proporzioni, mutuato dalla tradizione classica del giardino rinascimentale, si fonde con le forme e gli umori mutevoli della natura. Singolare è anche la sua capacità di collaborare con altri architetti riuscendo a rendere tale collaborazione ispiratrice di sinergie. È il caso della villa Riva a Saronno dove collabora con Belgioioso, Peressutti e Rogers o la collaborazione con Scarpa per la sistemazione del verde nella tomba Brion ad Asolo o quella con Niemeyer per la realizzazione della Mondadori a Segrate. Giardini condominiali La progettazione del verde per la residenza richiama spesso l’idea del giardino privato di ville costose o, nell’ipotesi più modesta, rimanda alle sistemazioni del “front garden” o del “back garden” delle case unifamiliari a schiera, molto diffuse nei paesi anglosassoni, ma difficilmente richiama gli spazi di pertinenza delle abitazioni condominiali. La scarsa attenzione nei confronti del verde residenziale scaturisce dall’uso distorto che la speculazione edilizia ha fatto dell’urbanistica razionale costruendo case/alveari e riuscendo quasi ad azzerare gli spazi a verde. Non è però alla scelta di edificare “a condominio” che va addebitata la colpa della scarsa attenzione data agli spazi verdi, ma al modo scorretto e spesso superficiale con il quale è stato affrontato e risolto il tema del rapporto tra edifici

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residenziali ed i relativi spazi aperti di pertinenza. Se si pensa ai primi esempi di “edilizia condominiale” che sono rappresentati dai “crescent” di John Wood a Bath, si comprende come in queste opere di architettura sette-centesca gli spazi a verde servono a conferire connotati essenziali all’insieme. Nel Royal Crescent l’invenzione originale della forma semiellittica, data dall’edificio costruito da case a schiera su tre piani, avrebbe perso di respiro se non fosse stata coniugata con il prato degradante verso la campagna, interrotto di tanto in tanto da alberi di alto fusto. Oltre ai crescent l’esperienza inglese d i e d i l i z i a residenziale si sviluppa attorno ai modelli dei circus e degli squares, soluzioni queste che la classe borghese nascente impone per garantirsi spazi verdi privati all’interno della città. L’accesso ai giardini degli “squares” era infatti consentito solo ai proprietari delle case s u c u i s i affacciavano. Dopo queste esperienze la ricerca di nuove soluzioni che mantengono uno stretto rapporto tra residenza ed aree verdi si sposta verso la ridefinizione della città nella sua interezza. Nascono così numerosi modelli che hanno nel verde un costante punto di riferimento: dalla città-giardino di Howard alla città lineare di Soria, dalle greenbelt di Stein agli schemi tracciati a Radburn, dalla Villa Radieuse di Le Corbusier alla Broadacre di Wright, tutte teorie volte a ridisegnare e definire l’assetto della nuova città e che hanno uno dei punti essenziali nella definizione del rapporto verde/residenza. Tutte queste teorizzazioni, però, hanno avuto poche e non rilevanti applicazioni nella realtà. Possiamo pertanto affermare che oggi non esistono modelli di riferimento certi per stabilire dei criteri sul corretto modo di affrontare i problemi connessi con la progettazione degli spazi a verde per la residenza, ma rimangono validi i principi generali da applicare per ogni intervento di paesaggistica: il rispetto del luogo e delle sue caratteristiche ecologiche ed ambientali, il legame con la tradizione storica del sito, l’attenzione degli aspetti funzionali. Da un punto di vista tipologico gli edifici residenziali condominiali possono essere distinti in: a schiera, in linea, a corte, a torre e miste. Per ciascuna di queste tipologie si riportano di seguito alcune esemplificazioni. Edifici a schiera Fra gli esempi più significativi di progettazione degli edifici a schiera possiamo ricordare il Married Officers’ Quarters. Si tratta di un piccolo insediamento residenziale realizzato tra 1964 e 1965 in uno dei quartieri più periferici di Londra. L’obiettivo primario dei progettisti è stato quello di salvaguardare i valori paesaggistici presenti, limitando al massimo l’abbattimento degli alberi e cercando anzi di integrarli al meglio nell’impianto generale e nella distribuzione degli alloggi.

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La parte costruita, piuttosto semplice, è composta da case unifamiliari su due piani che si sviluppano attorno ad una strada circolare, mentre la parte centrale, lunga e piuttosto larga (30 metri), è stata pensata come spazio di relazione fra i residenti. I progettisti hanno anche tenuto conto dell’esigenza di lasciare un piccolo spazio (25 m2) all’uso privato. Nella scelta delle specie sono state privilegiate alcune piante arboree ed arbustive che offrivano, oltre un indubbio valore estetico legato alle fioriture, minori problemi di manutenzione. Sono state quindi utilizzati alberi come Ginko biloba, Sophora japonica, Tilia platyphyllos; fra gli arbusti la scelta è ricaduta su Berberis spp., Cotoneaster spp., Escallonia spp., Potentilla spp., Viburnum spp. A distanza di oltre quaranta anni l’impianto paesaggistico appare perfettamente riuscito ed offre ai residenti degli spazi a verde, sia pubblici che privati, funzionali alle loro esigenze. L’Hyde Estate Redevelopment a Londra, fa parte di una vasta opera di riqualificazione urbanistica che ha avuto inizio nella metà degli anni ’50. L’intervento si estende per 36 ettari e comprende 136 appartamenti e 16 case unifamiliari. Nella parte centrale, tra gli edifici per la residenza della Chiesa, è stato sistemato un giardino pensile di circa 2000 m2 che copre un garage di 140 posti macchina. Il giardino realizzato è di tipo “informale” o “naturalistico”, il che ha consentito di meglio di sfruttare l’orografia dei luoghi, ma soprattutto, grazie alla creazione di collinette artificiali, di realizzare degli spazi chiusi che offrono una certa privacy. Intorno agli anni ’60 si avverte sempre più l’esigenza di abbandonare un certo “gigantismo funzionale” dei mega edifici fino ad allora costruiti e di cercare di coniugare le esigenze di possedere una casa singola ai costi ed alla funzionalità dell’edilizia popolare multipiano. Nascono così in Danimarca “Tinggarden I e II”, elaborati anche con la partecipazione attiva degli abitanti e terminati verso gli anni ’80. L’obiettivo raggiunto è stato quello di dare la sensazione di abitare in un paesino. All’interno del complesso residenziale vi è il divieto di circolare in auto e per accedere alla residenza si devono attraversare una sorta di “porte urbane”. In ambito italiano un esempio importante è la sistemazione paesaggistica del quartiere residenziale dell’Ugolino a Firenze, curata da Marco Pozzoli, che ha ben interpretato

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l’atmosfera della campagna toscana riproducendola fra questi edifici urbani sorti proprio ai confini dell’area rurale, di alto valore ambientale. La scelta del progettista è stata quella di far sentire il meno possibile l’intervento, come verde progettato, ma di contro, utilizzando piante “povere”, autoctone, quali l’ulivo, il cipresso, la salvia, il timo, il rosmarino, di ricreare suggestioni dei campi coltivati limitrofi. In provincia di Novara, a Belgirate, è stato realizzato negli anni ’80 un complesso che intercetta 4 ettari. Si tratta di un gruppo di 12 appartamenti articolati su due nuovi edifici. L’intervento di sistemazione paesaggistica di Gilberto Oneto è consistito nella ricreazione di terrazzamenti in pietra a secco, secondo modelli locali tradizionali; tutte le opere architettoniche sono state realizzate in pietra. Il complesso, esposto a sud-est sul versante collinare prospiciente il Lago Maggiore, gode di una vista e di esposizione estremamente favorevoli. Le peculiari caratteristiche climatiche hanno consentito l’uso di diverse specie, fra le quali particolare rilievo è stato dato alle acidofile. Edifici in linea L’iterazione degli elementi architettonici, tipica quando si adottano modelli costruttivi “in linea”, rende complessa la progettazione del verde; ciononostante sono numerosi gli esempi in cui i progettisti sono riusciti a rendere l’insieme originale, funzionale e gradevole sotto il profilo estetico. Michael Brown nella realizzazione di Brunel Estate a Londra ha scelto di realizzare un paesaggio molto costruito ed artificiale. La scelta era dettata dalla necessità di coniugare l’aspetto estetico con l’elevata densità abitativa non solo del complesso, ma dell’intera area, il che comportava una forte utilizzazione dell’area a verde. Per tale motivo la soluzione è stata quella di coniugare il tipico “paesaggio all’inglese”, fatto di prati di forma irregolare con la rigidità geometrica dei percorsi pedonali e dei campi giochi, realizzati in mattoni, per salvaguardare l’impianto da una rapida usura. Nel grande complesso residenziale di Chanteloup Les Vignes a Parigi gli edifici fanno da quinte alla sistemazione a verde e vivacizzano, con i brillanti colori delle facciate, l’insieme. Qui l’uso delle prospettive, il senso del ritmo, il gioco dei materiali e le illusioni ottiche sono elementi importanti della progettazione. Ogni singola “isola abitativa” assume un carattere autonomo, pur restando integrata al percorso che collega spazi a verde e residenza. Le sculture anche di grandi dimensioni cercano di caratterizzare un ambiente che si cerca di rendere “unico” in contrasto all’anonimato che spesso contrassegna i nuovi quartieri. Il quartiere di Wandsworth a Londra è un esempio di riqualificazione di quartiere residenziale, destinato a famiglie meno abbienti. La struttura edilizia era composta da abitazioni costruite a cavallo dell’ultima guerra, la densità abitativa era molto alta e scarseggiavano campi gioco, parcheggi, aree a verde. Per cercare di risolvere tali problemi i progettisti hanno creato una gerarchia di spazi. Nelle “aree pubbliche” sono state adottate soluzioni per arginare il vandalismo; in quelle “semi-pubbliche” è stato realizzato uno spazio a verde più aperto ed un ambiente più lussureggiante facendo uso di arbusti, piante erbacee a delimitare piccole aree per il gioco e per il riposo. Le “aree private”, a contatto diretto con le abitazioni, sono state date in gestione agli abitanti, ricreando i “front garden” o “back garden”, tanto cari alla mentalità inglese. Il complesso residenziale, progettato dagli architetti Gabetti ed Isola ad Ivrea, si trova immerso in una grande conca verde confinante con un parco privato: qui i progettisti sono riusciti a realizzare un gran numero di alloggi senza snaturare l’ambiente che è sottoposto a tutela. La soluzione adottata, alquanto originale, prevede le abitazioni disposte ad arco. Le unità residenziali sono totalmente aperte a contatto diretto con il parco davanti e, sul retro, sono servite da una strada completamente interrata che serve da accesso alla casa e come area parcheggio.

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Edifici a corte Uno degli esempi più celebri di questa tipologia abitativa è il Water Garden, ovvero il “giardino d’acqua”, che si trova a Londra. In questo caso il progettista del giardino ha collaborato sin dall’inizio nella realizzazione del complesso residenziale. L’idea di dar vita ad una corte dominata dall’uso dell’acqua è nata da tre considerazioni: ∗ la corte così fortemente caratterizzata si contrappone al traffico ed ai rumori delle aree vicine per il senso di pace che è tipico della presenza di acqua; ∗ il gioco delle vasche è stato realizzato in gran parte in quanto queste vasche costituiscono la copertura impermeabilizzata dei garage sottostanti; ∗ la presenza dell’acqua offre una vista gradevole dai piani alti. Alla base dei laghetti, profondi non più di 45 cm, sono stati posti dei ciottoli che, oltre a coprire il cemento, danno la sensazione di un ambiente “naturale”. In cinque contenitori, di 1,5 m di lato collocati in corrispondenza dei pilastri, sono stati piantati degli alberi e degli arbusti. L’intero sistema di vasche è percorribile all’interno grazie a dei piccoli ponti; il tutto è inoltre animato da un ricco gioco di zampilli che muovono l’acqua stagnate. In ogni caso i maggiori problemi che scaturiscono dal destinare a verde uno spazio rinserrato tra gli edifici sono connessi alle forti modificazioni microclimatiche che si verificano ed ai coni d’ombra delle abitazioni che possono determinare problemi per l’inserimento di alcune specie. Un esempio di sistemazione a verde di un edificio a corte che si differenzia nettamente dagli altri è il Rozzol Malara a Trieste, caratterizzato soprattutto dal gigantismo dell’architettura: un unico blocco a forma quadrata per 648 alloggi con edifici da 7 a 12 piani. L’area a verde, rinserrata tra le abitazioni, piuttosto ingombranti, è di ben 4 ettari. La scelta progettuale, operata da Guido Ferrara e Giuliana Campioni, è stata quella di cercare di attutire la presenza del costruito. Così si esprimevano i progettisti: “La sfida verde è quella di un pigmeo contro un gigante e la realizzazione del giardino, pur con i correttivi che devono essere attribuiti al tempo occorrente per la crescita degli alberi, è stata fortemente penalizzata dal rapporto di scala con l’architettura”. Le caratteristiche generali del progetto sono scaturite da due considerazioni di fondo. La prima è stata quella di individuare i principali fruitori del verde nei bambini e negli anziani, la seconda nel rifiuto sia delle

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soluzioni formali all’italiana, in cui negli spazi a verde si svolgono solo attività sedentarie, che del dotare gli spazi di un’offerta fruitiva “programmata”, che deprime la fantasia e la creatività associativa. Per tali motivi lo spazio è stato arricchito di numerose attrezzature per il gioco per soddisfare le esigenze dei più piccoli ma al tempo stesso si è puntato sulla possibilità di sviluppare negli stessi spazi la vita associativa e di relazione. Case a torre Con questa tipologia abitativa il problema che si pone è quello di coniugare la struttura abitativa che si sviluppa fortemente in verticale con la presenza di vegetazione. Se lo spazio di pertinenza degli edifici raggiunge dimensioni adeguate vi è la possibilità di ottenere soluzioni molto valide dal punto di vista formale ma anche funzionale. In caso contrario si tratta di un’area asfittica che subisce le conseguenze negative, non solo estetiche ma soprattutto ambientali, della presenza incombente del costruito. Fra i numerosi esempi possiamo citare quello del quartiere Heiligfeld III a Zurigo, caratterizzato dalla presenza di un’edilizia privata (case a “j”) e case a torre (ad opera di cooperative). Complessivamente sono 192 alloggi che si affacciano su un’area dotata di un gruppo di fabbricati per negozi aperti sulla strada. La realizzazione a verde ha previsto la creazione di piacevoli percorsi che consentono di raggiungere angoli appartati tra gli alberi o accanto alle abitazioni per il relax; nella parte centrale, quale fulcro visivo è stata realizzata una collinetta artificiale dotata di una tenda-scultura destinata al riposo, attorno alla quale sono stati piantati dei rampicanti. Tipologia mista In questo caso grazie alla presenza contemporanea di molte tipologie di abitazioni si ha l’assenza di monotonia, il che in genere è positivo dal punto di vista estetico, ma si potrebbe avere di contro un eccesso di variabilità che nuoce all’insieme. Solo la sapiente unione di abitazioni diverse ed un’idonea sistemazione a verde possono consentire alla struttura di assumere notevole valenza ornamentale. Un esempio italiano che possiamo citare è il complesso residenziale in via della Cammilluccia a Roma formato da tre edifici di 3-4 piani collegati da corpi più bassi. Scopo della sistemazione paesaggistica, curata da Valeria de Folly, è stato quello di dotare il comprensorio di un ambiente di elevate valenze paesaggistiche e rispondente al contempo a molteplici esigenze funzionali. Particolare attenzione è stata posta nell’analisi delle potenzialità del luogo e delle presenze vegetazionali nelle zone limitrofe. I forti dislivelli hanno imposto la necessità di uno studio paesaggistico molto dettagliato per la soluzione dei salti di quota, a volte assai rilevanti e tali da restringere drasticamente le aree facilmente fruibili. È sorta così l’esigenza di introdurre muri di contenimento e scarpate anche rigide.

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Ove consentito dalle pendenze ci si è limitati alla formazione di un manto erboso con miscugli di erbacee accuratamente scelte; altrove sono stati utilizzati arbusti tappezzanti; per altre zone si è resa necessaria la formazione di giardini rocciosi anche per frenare l’erosione superficiale del suolo. La necessità di disporre di quinte verdi che non rappresentassero elemento di barriera nella continuità della progettazione è stata risolta con l’impiego di piante sia sempreverdi che caducifoglie, il che ha anche comportato un gradevole effetto cromatico all’alternarsi delle stagioni. Quando lo spazio disponibile lo consentiva è stata adottata la soluzione della siepe mista per aumentare la profondità di campo; nella zona piscina sono stati introdotti gli stessi elementi arborei presenti nei giardini limitrofi, integrandoli con specie a foglia caduca per creare una quinta vegetale che raggiungeva la completa funzionalità nel periodo estivo. Nell’impostazione generale della scelta della specie si sono privilegiate le specie autoctone, anche perché questo consentiva di valorizzare e integrare esemplari arborei già presenti al momento della costruzione. Giardini monofamiliari Il giardino monofamiliare nasce dall’esigenza, non solo di ampliare gli spazi abitativi dilatandoli all’esterno, ma anche di godere di un più stretto rapporto con la natura.

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Ripercorrere la storia dell’evoluzione del giardino monofamiliare è opera improba, in quanto coincidente spesso con quella del giardino nella sua complessità ed interezza. Naturalmente il riferimento è a quello prossimo alle abitazioni nobiliari o alle regge. Se ci si riferisce, invece al giardino attorno ad una singola abitazione, che sia o no urbano, ma di piccole dimensioni, questo ha sicuramente un’evoluzione molto più recente e meno articolata. In genere tale tipologia non è mai ricca di valenze e spesso ripropone quel modello, tipico del giardino concluso medievale, che prevede vicino alla casa le decorazioni floreali e più lontano da essa una parte più o meno alberata. Il valore estetico se non l’importanza di un giardino non sono, però, funzione delle sue dimensioni: l’attrattiva di un giardino dipende in primo luogo dal suo impianto e dalle cure del proprietario soprattutto quando il giardino stesso è di piccole dimensioni. È anche evidente che giardini ben progettati e ben eseguiti, se non mantenuti, possono in pochi anni perdere il loro primitivo aspetto e degradarsi più di uno spazio a verde di grandi dimensioni, in quanto sono più dipendenti dalle cure colturali. Anche in un piccolo giardino, e forse soprattutto in questo, la fioritura è uno dei valori formali fondamentali, difficile tuttavia da gestire. Occorre infatti che sia abbondante e continua, che le associazioni di colore siano ben armonizzate tra loro. La progettazione dei giardini è stata sempre influenzata dalla cultura e quindi anche dalle mode imperanti. In funzione delle tipologie cui si riferiscono, i giardini possono essere classificati in vari modi. Si può ad esempio suddividere tali spazi a verde in base alla composizione vegetazionale (es. giardino alpino), alla predominanza di un taxon (es. giardino delle rose), allo stile di progettazione (es. giardino giapponese), ecc. La classificazione funzionale che abbiamo seguito, proposta dalla Zoppi (1990), suddivide il giardino in base alla sua destinazione e quindi agli interessi del proprietario. Vengono così individuati: il giardino di rappresentanza, il giardino prolungamento della casa, il giardino da collezione. Anche per ciascuna di queste tipologie nel prosieguo cercheremo di illustrarne alcune esemplificazioni. Giardino di rappresentanza Si ha questa tipologia di giardino quando lo spazio destinato al verde deve rappresentare il corollario di uno status economico-sociale e se la sua bellezza è ricercata in relazione all’impressione che può suscitare nei visitatori. È il giardino dove l’interesse del committente è focalizzato alla realizzazione di un insieme ad alto livello estetico e dove le considerazioni d’ordine scenografico prendono il sopravvento sulle altre. Il giardino di rappresentanza è quello che deve rendersi indimenticabile e che è considerato soprattutto come un ulteriore ornamento della dimora e del potere raggiunto dal suo proprietario. È inutile ricordare che i grandi giardini storici sono riconducibili a questa tipologia, anche se negli ultimi anni la grandiosità dell’insieme, per ovvie considerazioni, è venuta in parte meno. Gli aspetti di maggiore interesse possono essere identificati nello studio compositivo e volumetrico e nella reinterpretazione della natura. Spesso è anche un giardino d’autore, in cui si riconosce l’apporto del progettista. Tuttavia l’epoca contemporanea non ha ancora espresso una nuova concezione del giardino privato ma, ispirandosi a modelli affermati, quali il formale, il paesistico, il romantico, il giapponese, rielabora schemi e realizzazioni del passato, riproponendoli spesso ecletticamente. Non solo, ma stile formale e informale, non più considerati antitetici, sono spesso usati nella stessa opera per ottenere scenografie sempre dissimili. Si assiste così alla progettazione di alto valore estetico che si presentano come collage di stili diversi. La necessità di offrire in tempi brevi il massimo della godibilità estetica impone talvolta una certa povertà progettuale e la mancanza di “sorpresa” che ormai ingenerano i prati ben curati circondati da una corona di arbusti. Lo studio di effetti scenografici e la preferenza nei confronti di piante spettacolari sono i due

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poli della progettazione dei giardini di rappresentanza, dove con movimenti di terra e con il saggio inserimento di manufatti si cerca di ottenere un gradevole effetto estetico. La scelta delle specie viene ristretta a quelle a rapida crescita o agli esemplari già “di grandi dimensioni”, talvolta prelevati dall’ambiente rurale (quale è il caso di olivo e carrubo nell’ambiente mediterraneo), in quanto il committente vuole un giardino più da esibire che da seguire personalmente. Questo determina una certa monotonia sotto il profilo biologico: palme, yucche e più recentemente i melograni, assieme ai già citati olivo e carrubo, sono diventati elementi forti e spesso costanti del giardino di rappresentanza, in quanto sono gli esemplari di grandi dimensioni più facilmente disponibili nei vivai ed in grado di creare un giardino di pronto effetto. Si assiste inoltre alla generale necessità di far apparire uno spazio limitato come un paesaggio, dove la singola pianta può diventare punto di interesse. A volte il giardino di rappresentanza, proprio perché ha la funzione di rendere evidente il decoro del suo proprietario, è antistante alla abitazione. Giardino prolungamento della casa In questo caso lo spazio a verde funge da vero e proprio prolungamento dell’abitazione e diventa un luogo dove godere della natura in un rapporto essenzialmente privato. In questo caso si ha un ripetersi di spazi definiti in funzione delle attività che vi si svolgono. La compartimentazione del giardino può spingersi fino alla costruzione di piccoli ambienti sia per scopi pratici, quali il gioco dei bambini o il ricovero di animali domestici, o per l’ulteriore privatizzazione dello spazio. In questa tipologia di verde prevalgono gli elementi naturali e l’assenza di artifici, in quanto il luogo è destinato al godimento della famiglia. Frequente è l’impiego di alberi da frutta, il gradevole accostamento di colore, la sfasatura dei piani e la corretta disposizione delle piante. Le odierne progettazioni del giardino “prolungamento della casa” prevedono una partizione dell’esterno anche enfatizzata e sottolineata da segni fisici di separazione, vi trovano così spesso impiego grandi contenitori in laterizio con fioriere e pergolati. Vengono previste zone per la cucina, per il pranzo, per il relax, per il gioco dei bambini e per qualsiasi altra attività che possa risultare gradita al proprietario. Poiché i committenti di questi giardini gradiscono sistemazioni a bassa manutenzione, si preferisce escludervi nella loro sistemazione gli alberi decidui e si ricorre all’uso di tappezzanti per ridurre le operazioni di diserbo. La progettazione prevede anche la sistemazione più o meno stabile di arredi veri e propri, quali gazebi, ma anche cucine all’aperto, barbecue, ecc. Giardino da collezione Tale giardino nasce nel momento in cui l’interesse del proprietario nei confronti delle piante diviene da passatempo fonte di soddisfazione non solo estetica ma soprattutto intellettuale. Questo si traduce prima in una qualificazione del giardino o di una sua parte fino ad arrivare al “collezionismo” vero e proprio. Naturalmente il “collezionismo” presuppone un collezionatore, in tal senso tutte le raccolte, sia pubbliche che private, devono la loro esistenza all’interesse di un singolo. Giardini da “collezione” sono quelli dei Semplici, creati dagli speziali, i giardini botanici, gli arboreti e infine i giardini veri e propri, quali quelli di Villa Taranto, di Villa Hanbury e della Casa Bianca a Porto Ercole, nati dalla passione di privati. L’aspetto di un giardino che ospita una collezione è strettamente correlato al tipo di piante e al ripetersi inevitabile delle loro forme e quindi è dipendente dalla loro collocazione nella simulazione di ambienti naturali gradevoli. Esempi raffinati di ambientazioni sono, ad esempio, quelli della collezione di piante succulente dell’Orto Botanico di Napoli e quella di Huntington a Los Angeles. Si tratta talvolta di giardini non perfetti nel loro aspetto formale, ma ricchi di interesse e fascino in quanto rispecchiano l’interesse del proprietario nei confronti di alcuni taxa, spinto

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talvolta all’estrema specializzazione. Giardini senza terra L’aumentata richiesta di spazi verde, frutto dell’intensa urbanizzazione, si esprime sempre più nella sistemazione a verde di spazi “fuori terra”, quali terrazze, balconi, cortili, finestre. Si tratta di luoghi anche tradizionali per il verde (non possiamo dimenticare che fra le più antiche forme di giardino vi siano quelli pensili di Babilonia) ma il cui interesse è notevolmente cresciuto nel corso degli ultimi anni, il che ha anche comportato la specializzazione di progettisti e maestranze per la realizzazione di alcuni di questi spazi (giardini pensili). Terrazze Il terrazzo è il più diffuso degli spazi attigui all’abitazione e viene spesso trasformato, soprattutto nelle città, dove maggiore è la richiesta di giardini pensili. Le prime proposte per una nuova funzione dei tetti risalgono, invero, al secolo scorso, ma solo in seguito, con Le Corbusier, sarà definito il concetto di “tetto-giardino” nella città moderna, come espansione della abitazione ed elemento per la sua qualificazione. La sistemazione di qualsiasi terrazzo è conseguente soprattutto alla sua forma e dimensione. Nei piccoli spazi diventa maggiormente evidente la funzione decorativa, di arredo che verrà privilegiata nella scelta delle piante, quale elemento caratterizzante degli spazi. I risultati migliori si sono ottenuti attraverso una distribuzione delle piante erbacee ed arbustive ordinata e ben definita in modo da valorizzare la varietà di forme e colori delle piante stesse. Soluzioni molto più fruibili offrono i terrazzi di maggiori dimensioni; in questo caso è possibile suddividerli in zone con funzioni diverse. La caratterizzazione degli spazi, l’eventuale suddivisione in parti aperte e chiuse, coperte e scoperte renderà più confortevole il terrazzo stesso. La copertura vegetale degli edifici consente di creare spazi verdi che, oltre a consentire risparmi energetici, offrono interessanti soluzioni di inserimento paesaggistico, contribuendo a migliorare la qualità dell’ambiente urbano. Si cerca così di evitare, attraverso una corretta progettazione del giardino pensile lo squallore di vaste superfici di copertura lastricata. Balconi Il balcone, elemento importante nei prospetti degli edifici, è una struttura piana, generalmente di piccole dimensioni, aggettante (l’aggetto non supera 1-1,2 m) o meno dal muro di facciata, posto in corrispondenza degli elementi orizzontali di struttura e costituisce uno spazio praticabile esterno. Più protetto di una terrazza, in quanto in genere sormontato da un altro sovrastante, che impedisce alla pioggia di battere, è usato di solito nei luoghi a forte densità abitativa. La presenza di piante in contenitore, nonostante le dimensioni in genere modeste, è elemento importante di qualificazione. Le piante prescelte debbono essere in grado di superare stress di notevole intensità, anche meccanici. I contenitori dovrebbero essere collocati in luoghi riparati e facilmente accessibili per agevolarne le cure colturali. Va ricordato che la fruizione del balcone è anche visiva e quindi è importante pensare al colpo

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d’occhio che si ha dall’interno della casa che resta il punto privilegiato di osservazione. Non va sottovalutata infine l’illuminazione ed il raccordo fra gli spazi interni ed esterni. Cortili In alcuni edifici i cortili rappresentano parte integrante del progetto: si creano in questo modo spazi destinati allo svolgimento di funzioni particolari riguardanti la destinazione d’uso dell’edificio stesso. Nelle case unifamiliari il cortile trova larga applicazione e si presenta con le soluzioni più varie, dimostrandosi un valido elemento a completamento dell’abitazione. Il problema principale di questi spazi è che spesso sono in ombra, per cui è necessario selezionare una vegetazione sciafila, in grado di valorizzare tali spazi. D’altra parte il microclima che si determina può talvolta essere favorevole e consentire la coltivazione di specie che in un luogo aperto non potrebbero svilupparsi. La sistemazione del cortile comporta l’impiego di molti elementi tra i quali, pergole, vasche per acqua e piante, statue, ecc. Nelle aree molto ampie i contenitori e i vasi sono utilizzati per suddividere le diverse zone e possono essere disposti in maniera da movimentare la composizione. Nei casi in cui lo spazio sia limitato può essere valorizzato al massimo quello prossimo ai muri, attraverso un saggio impiego di rampicanti. Da un punto di vista biologico, non possiamo tralasciare di ricordare come in questi spazi minimali disposti attorno alla casa, tipici degli ambienti meridionali soprattutto nel passato e negli ambiti più rurali, sia possibile rinvenire alcune specie tradizionali, molto rustiche, che dovrebbero forse essere oggetto di una nuova attenzione per le pregevoli caratteristiche estetiche ma soprattutto per la facilità della loro coltivazione. Anche i contenitori tradizionalmente usati nascevano dal riciclaggio di materiali poveri, latte, piccole botti, il che accresceva il “fascino” di questi ambienti, rendendoli unici. Finestre La sistemazione delle finestre può contribuire a migliorare il prospetto della casa, sottolineandone una caratteristica rilevante oppure diminuendone una imperfezione. Davanzali stretti o grandi finestre, aperture poste su seminterrati o su cortili soleggiati sono tutti spazi che offrono molte possibilità alla decorazione con piante. In questo caso è possibile collocare le piante sia all’esterno che all’interno rispetto all’apertura. Contenitori e vasi di tutte le forme e dimensioni possono essere utilizzati per la coltivazione delle piante. Le soluzioni per allestire la parte interna delle finestre sono molte, dalla più semplice, quella di sistemare con vasi il vano stesso, creando così un contatto immediato con l’interno, alla realizzazione di vani attrezzati con fioriere ma separati con vetrate dallo spazio interno. Davanti alle vetrate le piante godono delle migliori condizioni di illuminazione, ma è opportuno anche in questo caso una idonea scelta della specie, una conoscenza approfondita delle esigenze delle stesse e l’adozione delle corrette operazioni di coltivazione. 3.5. I giardini tradizionali siciliani Il verde storico si presenta in Sicilia, a seguito delle complesse vicende che hanno caratterizzato la storia dell’isola sin dall’antichità più lontana, degli influssi di diverse civiltà che si sono succedute (da quella araba, alla normanna, spagnola, ecc.), delle stesse difficoltà di scambi tra i diversi centri urbani, delle differenti condizioni ambientali, orografiche e climatiche, estremamente diversificato fra le varie province, ma anche fra ambiti territoriali più ristretti. A distinguere forse il giardino siciliano da quelli di una più ampia area geografica mediterranea è innanzitutto il rapporto problematico con il clima, torrido per una buona parte dell’anno, e con un paesaggio che sovente assume toni piuttosto aspri. Ciò rende ancora più straordinaria ed ospitale quell’oasi di verde e di frescura che il giardino crea, a

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volte in maniera sorprendente. L’antichissima presenza dell’uomo ha fatto sì che nei luoghi dove esistevano già oasi naturali si concentrassero ancor più gli interventi umani e la creazione dei giardini. Si verifica, così, spesso l’effetto opposto, che i siti naturali cioè siano talmente ricchi di suggestioni simboliche e liriche che l’intervento dell’uomo non può che limitarsi alla sistemazione “minima” per rendere accessibili quei luoghi privilegiati, nei quali l’uomo stesso entra in contatto con lo spettacolo affascinante della natura. Ciò accade già prima della rivalutazione del paesaggio mediata dalla cultura inglese e romantica: è questo certamente il caso di molte sistemazioni dell’area etnea, dove la vista del vulcano e della natura rigogliosa e aspra delle sue pendici, segnate dalle colate laviche, sono superiori a qualsiasi paesaggio artificiale. Cercare di trovare una matrice comune al verde storico della Sicilia sarebbe fuorviante, tanto variegato e differenziato è il patrimonio che, pur fra mille difficoltà, è pervenuto fino ai nostri giorni. Nei giardini delle province orientali della Sicilia (Catania, Ragusa) un elemento in comune è forse l’acqua: ogni cosa dipende dalla sua sempre esigua disponibilità e dalla difficoltà di reperire sorgenti e di sfruttare corsi d’acqua, che il più delle volte hanno regime irregolare. In mancanza di sorgenti, affinché l’uomo potesse abitare questi luoghi, era pertanto quasi sempre indispensabile costruire una cisterna o “gebbia” che desse una sufficiente riserva d’acqua e servisse anche per abbeverare gli animali e, se in esubero, per coltivare un piccolo orto o un giardino. Specialmente in quei giardini che più dipendevano dalle risorse idriche diviene esplicito un carattere che li contraddistingue, spesso in maniera ossessiva: il loro forte legame con le esigenze di carattere alimentare. Ciò a ricordare come non possa esistere godimento se prima non vi sia un appagamento delle esigenze primarie, qual è quella di nutrirsi e quindi di sopravvivere. Anche dopo aver soddisfatto tali esigenze, resta pur sempre connaturato nell’uomo il piacere di sollecitare il gusto. È cosi che quando si realizza un giardino si cerca sempre di assicurare la presenza di piante utilitaristiche: «le piante e gli alberi debbono servire alla botanica del palato», come ricordava Rosario Assunto. La Sicilia veniva colpita spesso da carestie, delle cui conseguenze risentiva persino quell’aristocrazia che creava i giardini. Il possedere il giardino fruttifero era perciò per il proprietario in primo luogo garanzia di agiatezza e ricchezza, condizione prima ed irrinunciabile di benessere fisico che permetteva di realizzare e godere delle altre sublimi gioie del giardino. È emblematico ricordare nei Vicerè di De Roberto l’episodio in cui la famiglia, trasferitasi in villa per sfuggire al colera che infieriva nella città, vede trasformato dalla padrona di casa il giardino dell’avo Giacomo XII in orto: «I fiori essendo “roba che non si mangia”, rose e gelsomini furono divelti». Un carattere molto importante, come già ricordato, che sicuramente ha influenzato le scelte biologiche del giardino siciliano, è quell’intima frammistione fra essenze utilitaristiche ed ornamentali: frequente è quindi la presenza di piante “agrarie”, quali melograno, gelsi, nespolo, banano, agrumi. Per questi ultimi occorre non dimenticare come il loro inserimento in Sicilia sia stato connesso all’essere particolarmente apprezzate come piante ornamentali: solo alla fine del XVIII secolo, grazie soprattutto ai contratti per la fornitura di “agro” alla marina inglese, essi diventeranno l’oro giallo dell’agricoltura isolana. Nei giardini siciliani, soprattutto di quelli presenti nella costa orientale, meno interessata dalla presenza di una classe nobiliare più consolidata, come accade, invece, a Palermo, è piuttosto frequente riscontare diverse specie del genere Citrus e Prunus, Eriobotrya japonica, Morus carica e M. alba, Feijoa sellowiana, Musa x paradisiaca, Punica granatum, Cydonia oblonga, Actinidia deliciosa, Dyospiros kaki. A queste piante, tipicamente agrarie ed utilitaristiche,

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Caratteri del giardino catanese

possono essere assimilate alcune ornamentali eduli, qual è il caso ad esempio di Ruscus hypoglossum, Monstera deliciosa e lo stesso Arbutus unedo. Un altro elemento importante per capire le scelte biologiche presenti negli spazi a verde di interesse storico è la moda del giardino di acclimatazione che sicuramente stimolò il collezionismo botanico. Infatti, nonostante in genere lo spazio destinato alla vegetazione sia piuttosto contenuto, una nostra indagine, che ha riguardato 20 giardini privati in provincia di Catania, 14 dei quali presenti nel recinto urbano, ci ha consentito di rilevare 265 specie diverse appartenenti a 188 generi e 81 famiglie botaniche diverse. Si tratta spesso di piante esotiche: le specie provenienti dall’area del Mediterraneo ragguagliano nel complesso La presenza di piante utilitaristiche, quali gli agrumi, è un carattere ricorsolo il 10%. Sulla base dei rente del giardino siciliano

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caratteri morfo-biologici il quadro di riferimento è dominato dalle piante perennanti, forse anche in rapporto alle pregresse vicende dei giardini stessi: gli arbusti e dagli alberi rappresentano rispettivamente il 26 e 24% del totale. Al di là della frequenza, un gruppo di piante che sicuramente segna i giardini analizzati è quello delle palme. La peculiarità dei tratti morfo-funzionali ed estetici di queste piante ne ha comportato la collocazione in posizione privilegiata, spesso prossima agli affacci degli edifici stessi, ponendo in risalto il maestoso portamento e l’ornamentalità di queste piante. Il relativo quadro biologico, a lungo incardinato sull’endemica palma nana (Chamaerops humilis) e sulla palma da datteri (Phoenix dactylifera), si è modificato fortemente nell’Ottocento con l’introduzione di numerose specie esotiche. Da rilevare come il XIX secolo sia caratterizzato da massicce introduzioni di piante: oltre il 70% delle piante censite è stato introdotto, infatti, in questo secolo. Non potevano certo mancare in un ambiente segnato da caratteri xerici le succulente che rappresentano il 14% del totale. Piuttosto frequenti sono anche le specie inusuali, in alcuni casi vere e proprie rarità botaniche, talvolta non presenti negli attuali cataloghi dei vivai; fra le presenze più singolari possiamo ricordare solo a titolo esemplificativo: Calycanthus floridus, Iochroma cyaneum, Holmskioldia sanguinea, Dracunculus vulgaris, Crinum spp., Casmanthe floribunda, Eucalyptus citriodora, Cycas circinalis. Alcune delle specie presenti, inoltre, es. Hibiscus rosa-sinensis, Nerium oleander, Camellia japonica, ecc., si esprimono con assetti intraspecifici diversi, che accrescono

Alcune delle piante censite: 1) Holmskioldia sanguinea Retz.; 2) Monstera deliciosa Liebm.; 3) Iochroma cyaneum (Lindl.) Green; 4) Calycanthus floridus L.; 5 e 6) Dracunculus vulgaris Shott.; 7) Eucalyptus citriodora Hook.

l’interesse di questi giardini come fonte di biodiversità. Il profilo delle esigenze, al di là di quelle termiche, il 35,9% delle specie censite è di zona climatica 9 e il 23,5% della 10,

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appaiono nel complesso piuttosto contenute. Solo a titolo di esemplificazione si ricorda come solo il 27,2% delle specie censite presenti esigenze idriche piuttosto elevate e che 23,0% necessiti di elevati livelli di sostanza organica. Si tratta di dati che attestano una notevole rusticità delle specie presenti, il che appare il frutto, più che di scelte biologiche originarie, di un’evoluzione del giardino stesso, in cui un ruolo ha sicuramente giocato la discontinuità delle operazioni di manutenzione. Le differenze nelle scelte biologiche fra i giardini dell’area urbana e quelli suburbani appaiono contenute anche se interessanti: in entrambi prevalgono le piante utilitaristiche ed esotiche; l’unica differenza di rilievo è la diffusione negli impianti dell’area pedemontana di piante che manifestano minore tolleranza alle elevate temperature estive; significativa è anche la presenza sempre in questi giardini di camelia e gardenia, il che si giustifica con la possibilità di meglio soddisfare le esigenze per il substrato di queste specie. Nell’isola, inoltre, come in altre regioni mediterranee, l’arte del giardino si confonde con l’agricoltura: ciò è evidente ad esempio per quanto riguarda la produzione degli agrumi, sempre presenti in ogni giardino siciliano. Questi ultimi diventano, nella seconda metà dell’Ottocento, da coltura complementare attività economica primaria di molti centri dell’isola. Significativa in tal senso è l’identificazione, relativamente recente, nel dialetto siciliano della parola “giardino” con l’agrumeto che serve esclusivamente per la produzione destinata alla vendita. E giardini erano anche chiamati in tempi precedenti i gelseti ed altre colture arboree, dove i fini utilitaristici si confondevano spesso con quelli del godimento estetico. L’interesse del legame fra giardino storico e territorio, spesso rurale, sta anche nel fatto che, soprattutto in Sicilia, non può essere condotta una funzionale azione di conservazione e valorizzazione dell’enorme patrimonio dei giardini storici se non si attiva una valida e profonda protezione e pianificazione dell’intero territorio, di cui questi giardini, assieme agli spazi rurali che li circondano, fanno parte. Per potere tutelare questi spazi occorre, oltre alla necessaria ed inderogabile azione vincolistica da parte della Soprintendenza, la messa a punto di strumenti normativi e finanziari che siano in grado di tutelare l’intero territorio, individuandone forme di utilizzazione che siano compatibili con i precipui valori storici, culturali e paesaggistici che esso esprime.

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4. FUNZIONI DELLA VEGETAZIONE Premessa La spinta all’urbanizzazione, avvenuta soprattutto a partire dal XIX secolo, ha posto in termini conflittuali la presenza del verde all’interno delle città. Alcuni interventi di fine ’800, tesi ad introdurre “nelle città la Natura che fino allora ne era stata lontana” (Citati, 2001), non riuscirono ad assicurare una significativa presenza di verde, nonostante se ne riconoscesse l’insostituibile funzione. Intorno alla metà del secolo XIX il verde pubblico comincia a costituire capitolo importante dell’urbanistica. Il verde “urbano” o “suburbano”, da rimedio locale allo sviluppo edilizio, si evolve in componente connaturata allo svolgimento della vita nella città moderna e perciò viene inserito strutturalmente nel tessuto urbanistico (Panzini, 1993). Una dimostrazione di questa sensibilità è data dall’evidenza con cui emerge alla fine dell’Ottocento, il movimento per la garden city (la “città giardino”) che propugna l’idea di una città immersa nel verde. In Italia è soprattutto fra la fine dell’800 e gli inizi del ’900 che nell’organizzazione degli spazi viene prevista la presenza del verde pubblico. Le motivazioni addotte nel 1884 per promuovere il verde a Palermo sottolineano le funzioni del verde: “I giardini pubblici sono dei fattori di salubrità in una città e gli alberi che trovano nelle piazze aria e luce in abbondanza, danno ossigeno, risanano il suolo ed abbelliscono le città. Le piazze alberate costituiscono i polmoni di esse e quanto più vasti e ricchi di vegetazione saranno questi spazi, tanto più saranno salutari. In essi i vecchi ed i fanciulli trovano aria come quella di campagna” (Alessandro et al., 1987). La questione del verde pubblico conduce nel corso del XX secolo, soprattutto nel secondo dopoguerra, alla cosiddetta “linea degli standard”, ufficialmente recepita a livello legislativo, almeno in Italia, con il Decreto Interministeriale 1444 del 2/4/1968 che fissava tale limite, come già ricordato, a 9 m2. A quasi quaranta anni di distanza tale valore, soprattutto per molte città meridionali, rimane ancora oggi un obiettivo disatteso. Nonostante la carenza del verde, e forse proprio per questo, si sono, invece, consolidate sempre più la sensibilità “ecologica” e la necessità di rendere più vivibili, con la presenza delle piante, gli ambienti maggiormente antropizzati ed in particolare quelli urbani. Nella mozione conclusiva di un incontro promosso dall’Accademia dei Georgofili nel 1993 viene in proposito ricordato che “Le piante sono essenziali, non solo come produttrici di sostanza organica indispensabile per la stessa vita animale, ma ci aiutano con la loro azione di filtraggio dell’atmosfera, di regimazione delle acque, di regolazione del ciclo degli elementi nutritivi, di integrazione con altre forme di vita (microrganismi, insetti, ecc.), di influenza sul clima, di monitoraggio dei parametri ambientali; e persino aiutano, non poco, la nostra psiche.” Caratteristiche dell’ambiente urbano L’ambiente urbano presenta alterazioni più o meno significative dei parametri fisici e chimici dell’aria relativamente a temperatura, umidità atmosferica, rumore, particolati e gas. Con riferimento alla temperatura è ben noto che la città può essere considerata una “isola di calore” in quanto i valori della temperatura superano di alcuni gradi quelli che si registrano all’esterno del perimetro urbano. L’isola di calore si determina a seguito delle alterazioni del bilancio radiativo determinato dai maggiori apporti di energia necessari per il riscaldamento, per le attività artigianali o industriali e della funzione di “trappola per radiazioni” svolta dalle strutture murarie delle strade e degli edifici per cui, nonostante la radiazione che raggiunge il suolo si riduca anche del 20% per via della torbidità dell’aria e l’albedo sia di norma maggiore, la temperatura risulta significativamente più elevata. L’aumento della temperatura, variabile con le stagioni e con l’ora del giorno, è dell’ordine di alcuni gradi. A

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Roma, ad esempio, l’aumento del valori delle temperature minime medie raggiunge i 4,3°C in luglio e i 2,5°C in gennaio, valore quest’ultimo molto simile a quello riscontrato (2,4°C) nel trimestre invernale per Milano (Pagliari, 1989). Relativamente alla temperatura media dell’aria si riferisce di valori più elevati da 1,5 a 2,5°C, con punte superiori a 5°C ed in condizioni particolari ai 15°C (Lanphear, 1971). Naturalmente le differenze ed il decorso dei valori termici risultano influenzati anche dalla presenza e dalla esposizione degli edifici; studi al riguardo, effettuati nel mese di agosto nella Columbus Avenue di New York, hanno fatto registrare differenze nella temperatura massima fino a 20°C (22 contro 42°C) tra lato est ed ovest (Bassuk e Witlow, 1987). Sempre nell’ambiente urbano le precipitazioni, a motivo della maggiore presenza di nuclei di condensazione, superano in media quelle delle aree rurali circostanti del 10%; l’umidità relativa risulta comunque più contenuta in quanto le superfici impermeabili sono assai estese per cui le acque meteoriche evaporano più o meno rapidamente o sono smaltite attraverso il sistema fognario. Sempre negli studi prima citati è stato accertato che sulla Columbus Avenue l’umidità relativa oscilla nelle giornate estive tra il 10 ed il 20% contro il 40% registrato a Central Park, il grande polmone verde della metropoli statunitense (Bassuk e Witlow, 1987). L’inquinamento acustico è altra condizione dell’ambiente urbano frequentemente non favorevole; nelle città il rumore supera ordinariamente la soglia di nocività a livello fisico ed anche psichico. Così nel centro cittadino di Milano è stato accertato che per gran parte del giorno il rumore si attesta sui valori nocivi di 80-90 decibel (Arpini, 1990). La concentrazione di particolati e gas rappresenta un’ulteriore modificazione negativa della qualità dell’aria in ambiente urbano sostenuta dagli impianti di riscaldamento, dal traffico veicolare, dalle attività artigianali ed industriali. Il livello di inquinamento che ne risulta dipende dal bilancio tra l’immissione di pollutanti ed il loro allontanamento con la circolazione dell’aria. In città quest’ultima avviene con difficoltà per cui si determinano gravi rischi per la salute umana e per la stessa funzionalità e sopravvivenza delle piante. A New York è stato calcolato che il 50% degli esemplari di specie arboree ornamentali impiantati annualmente muore nei primi dieci anni, proprio a causa delle condizioni ambientali cui le piante restano sottoposte (Bassuk e Witlow, 1987). Funzioni del verde Una fondamentale funzione del verde è quella di migliorare l’ambiente sotto il profilo estetico e paesaggistico. Al di là di questa funzione le piante, grazie ai processi legati al loro ricambio ed in particolare alla fotosintesi, aiutano a mantenere molti dei parametri microclimatici e chimici a livelli più rispondenti alle esigenze degli esseri viventi ed in particolare dell’uomo. Strettamente connesse alla funzione fotosintetica delle piante sono, in primo luogo, la sottrazione di anidride carbonica e la liberazione di ossigeno, che sono fondamentali ai fini del mantenimento nell’atmosfera di livelli di CO2 compatibili con la vita degli animali e, più in generale, con la funzionalità degli ecosistemi. A titolo esemplificativo

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si può ricordare che un ettaro di foresta possa liberare annualmente 4.400 kg di ossigeno (Zipoli, 1994). Altrettanto favorevoli risultano gli effetti della vegetazione sui parametri climatici nonché l’azione di controllo che essa, se opportunamente disposta, esercita sulla diffusione della luce, sulla propagazione delle onde sonore e sui movimenti di aria. Nel loro complesso le funzioni del verde, soprattutto nei contesti più antropizzati, possono essere sintetizzate in: - estetico-paesaggistica; - ricreativa; - di biomitigazione. Funzione estetico-paesaggistica Il ruolo estetico assegnato da sempre alle piante si coglie pienamente dalla storia dei giardini: sin dall’antichità più remota, l’uomo ha sentito la necessità di circondarsi di piante per abbellire i luoghi in cui viveva o gli ambienti più o meno ampi che li circondavano. Questo ruolo è stato assegnato nel tempo a piante diverse a seconda delle “mode” o delle opportunità di approvvigionamento del relativo materiale di propagazione. La più o meno frequente utilizzazione di queste piante nelle sistemazioni a verde contrassegna il paesaggio nel suo complesso: per quanto attiene all’ambiente mediterraneo esemplare è il caso di alcune piante esotiche ornamentali (es. palme, buganvillea, agave, fico d’india, ecc.) che, introdotte nel tempo, contrassegnano oggi il territorio mescolandosi a specie di interesse agrario (agrumi, olivi, mandorli, vite, ecc.). Funzione ricreativa Tale funzione è ancorata, oltre che alle caratteristiche estetiche delle piante e/o delle formazioni a verde cui esse danno luogo, alla gratificazione che si prova attraverso la realizzazione e/o utilizzazione di spazi a verde (Driver e Rosenthal, 1978). Alle funzioni ricreative possono essere ricondotte anche le finalità sociale e/o terapeutica sempre più assegnate ad alcune tipologie di verde. In termini generali, il riferimento è al tema assai attuale della “Sociohorticulture”, cioè ad un ambito disciplinare e professionale che riguarda le attività legate alla utilizzazione delle piante per dare riscontro a esigenze di carattere non materiale, attinenti alla vita culturale e spirituale dell’uomo (Zhou, 1995). Fra i settori della “Sociohorticulture” vi è anche l’orticoltura sociale o quella terapeutica, basata quest’ultima sul riconoscimento dell’azione curativa che il “contatto” con le piante può esercitare nei confronti di persone affette da disturbi nervosi o portatrici di handicap fisici. Il verde in tale visione consente di riproporre, anche ai nostri giorni, l’antico e vivificatore rapporto fra uomo e pianta, spesso compromesso o addirittura distrutto non solo dalla urbanizzazione, ma anche dai collegati modelli di vita. Si tratta di un rapporto che, se può essere ricostruito facilmente da alcune categorie sociali più favorite (va letta in questa chiave la propensione per una edilizia residenziale in cui sono presenti spazi a verde), risulta precluso per quelle categorie svantaggiate o socialmente (es. anziani) o fisicamente (es. non deambulanti), che invece potrebbero acquisire i maggiori vantaggi dalla ricostruzione di questo rapporto (Dwyer, 1982). La presenza delle piante può rendere più salubre l’ambiente di lavoro: recentemente Field (2000), in un complesso studio, ha accertato che vi è una riduzione del 23% delle affezioni che colpiscono i lavoratori, quando questi possono vivere in un ambiente arredato con un congruo numero (10÷20) di piante da interno. I vantaggi sono relativi alla riduzione (fino al 30%) dei disturbi neuropsichici (fatica, mal di testa, problemi di concentrazione) e delle affezioni a carico delle mucose (tosse, irritazioni agli occhi, ecc.). Studi più dettagliati in questa direzione sono auspicabili (Pearson-Mims e Lohr, 2000) per potere meglio comprendere i meccanismi di causa e di effetto.

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Funzione di biomitigazione Le piante superiori, come già detto, svolgono un ruolo insostituibile ai fini del mantenimento della funzionalità degli ecosistemi attraverso le modificazioni delle condizioni fisiche, chimiche e biologiche dell’ambiente in cui esse stesse e gli altri organismi viventi svolgono il loro ciclo biologico. Tale ruolo si esercita attraverso: a) modificazioni del microclima; b) isolamento acustico e visivo; c) controllo dei fattori dell’inquinamento. a) Modificazioni del microclima L’uso della vegetazione per regolare il microclima è antico quanto l’uomo che, ancora nomade, imparò a proteggersi dai raggi del sole riparandosi sotto gli alberi. La storia del giardino, soprattutto negli ambienti più caldi e soleggiati, è attraversata anche dalla ricerca, attraverso l’uso delle piante, dell’ombra e del fresco. Molti testi antichi sono ricchi di testimonianze in tal senso. Su una tomba di Tebe si legge “che io possa passeggiare ogni sera sulle rive del mio lago e che la mia anima possa rinfrescarsi all’ombra del mio sicomoro”. La Mesopotamia, la terra dei paradisi, era considerata nella tradizione biblica “come un giardino, oasi di ombra e di freschezza”. Plinio il vecchio nella sua Storia Naturale (libro XIII) ricorda che l’introduzione, in tempi omerici, del platano nel Mediterraneo si deve principalmente alla sua ombra poiché “per nient’altro quest’albero è utile se non perché ripara dal sole d’estate e lo lascia passare in inverno”. Tradizionale è poi nel paesaggio agrario mediterraneo la presenza, al margine dei campi coltivati, di esemplati di alberi fruttiferi, spesso gelsi o fichi, per assicurare ombra in estate, durante il riposo dai lavori agricoli. Altro tradizionale esempio di utilizzazione delle piante ai fini della termoregolazione è dato dalla copertura con essenze rampicanti o sarmentose dei muri battuti dal sole: attraverso l’ombreggiamento e i processi di traspirazione viene controllata la temperatura delle pareti esposte e quindi dell’ambiente interno (Alessandro et al., 1987). Anche l’utilità della presenza del verde all’interno delle città ai fini di termoregolazione è nota da tempo. Agli inizi del XVIII secolo Francesco de Sanctis nel giustificare la sistemazione urbanistica della Scalinata di Trinità dei Monti a Roma (1723-26) così si esprime: “si stimarebbe pertanto assai a proposito piantarvi dalli fianchi di una congrua distanza doppia alberata, a fine che elevandosi col suo corso il sole, vengano queste, se non in tutto, almeno in quella parte a coprire e a riparare da i raggi per dove il popolo a suo bell’aggio vi si potrà portare….”. In anni più recenti l’interesse per il verde ai fini della regolazione dei parametri del microclima si consolida ulteriormente nell’ottica del risparmio energetico. Il processo fisiologico che è alla base degli effetti delle piante sul microclima è soprattutto costituito dalla traspirazione che influenza più o meno direttamente tutti i parametri dell’atmosfera (Miller, 1988). L’USDA Forest Service Research degli USA ha calcolato che la traspirazione di un albero di grandi dimensioni ha una potenzialità di raffreddamento dell’ambiente circostante pari a quella di cinque condizionatori di media potenza in esercizio per circa 20 ore al giorno (AA.VV., 1972). La traspirazione, e quindi la possibilità di sottrarre calore all’aria circostante, è naturalmente differente in funzione delle specie. L’intensità della traspirazione di alcuni arbusti ornamentali diffusi nell’ambiente mediterraneo è stata compresa durante i mesi estivi tra 229 e 1686 g d-1 m-2 rispettivamente in eleagno e in lantana, cui corrisponde una sottrazione di calore all’ambiente compresa tra 133 e 978 kcal d-1m-2 (Leonardi e Romano, 1998) (fig. 1). L’intensità di traspirazione è naturalmente influenzata da altri fattori fra cui la disponibilità idrica del substrato e l’indice di copertura della vegetazione. In condizioni di carenza idrica nel substrato (punto di appassimento) l’intensità di traspirazione si è ridotta

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Fig. 1

nella media delle specie fino al 37% di quella massima (fig. 2). Le variazioni dell’indice di copertura, conseguenti all’aumento da 8 a 15 ed a 30 del numero di individui sul metro quadrato di superficie, in rapporto a tre specie (oleandro, pittosporo e viburno), hanno comportato in media una riduzione del 26% dell’intensità di traspirazione ma un corrispondente incremento del 167% della quantità di acqua ceduta riferita all’unità di superficie (fig. 3), fino ad arrivare a valori prossimi a 3000 g d-1m-2 di superficie coperta per un equivalente calorico di oltre 1800 kcal d-1m-2 (Leonardi e Romano, 1998).

Un altro meccanismo di riduzione della temperatura è collegato alla intercettazione della radiazione solare ad opera dell’apparato fogliare ma anche dei rami, la quale varia in rapporto alla densità della chioma, al periodo di fogliazione, alle dimensioni e forma della pianta, alla velocità di crescita e durata. Esemplari di Acer platanoides, caratterizzati da un’elevata densità della chioma, posti a ridosso degli edifici possono determinare valori della temperatura di circa 3°C inferiori a quelli registrati in analoghi edifici protetti con Gleditsia triacanthos, la cui chioma non offre ostacoli importanti ai fini della schermatura dalla radiazione. La densità Fig. 2 della chioma, oltre che dalla specie, dipende anche da fattori ambientali e da pratiche di manutenzione. Condizioni di stress idrico, ad esempio, possono condurre all’abscissione di foglie con evidenti conseguenze sull’ombreggiamento e sulla traspirazione; tra gli interventi di manutenzione sono da ricordare in primo luogo le potature (Alessandro et al., 1987) Il periodo di fogliazione è fattore di intuitiva importanza ai fini dell’ombreggiamento. Nelle specie decidue le fenofasi corrispondenti all’emissione ed all’abscissione delle foglie possono a loro volta variare nel tempo per effetto di fattori legati alle condizioni ambientali e/o alla manutenzione. L’isola di calore di cui si è detto può, ad esempio, comportare rilevanti modifiche nei calendari fenologici. Le dimensioni e la forma della pianta controllano fortemente i meccanismi ed i processi di trasmissione della luce. Anche Fig. 3 la velocità di crescita è un fattore

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essenziale ai fini della funzione ombreggiante; l’uso di specie a rapida crescita o di esemplari adulti di dimensioni elevate permette di conseguire in tempi più rapidi l’effetto desiderato. Naturalmente il ricorso a piante di grandi dimensioni, a pronto effetto, o lo stesso “preimpianto” devono essere valutati in rapporto alle implicazioni operative ed economiche che comportano. La riflessione dell’energia radiante ed il raffreddamento legato all’evapotraspirazione, come già ricordato, riducono significativamente la temperatura negli spazi prossimali alle piante. Con indagini specifiche è stato dimostrato come una alberatura possa abbassare la temperatura delle strade cittadine di circa 3-5°C (Lanphear, 1971). L’effetto di raffrescamento dipende naturalmente dalla “quantità” e dalla stessa “qualità” del verde; i risultati sono tanto più significativi quanto più estese sono le aree a verde coperte da vegetazione. Questa influenza, come già detto, i valori igrometrici ma gli effetti sono in genere più contenuti rispetto a quelli registrati per le temperature (Alessandro et al., 1987). Una ricerca sugli effetti determinati dal verde presente nel giardino zoologico di Berlino, esteso per 212 ettari, ha messo in luce abbassamenti di 5°C della temperatura ed in alcune giornate di oltre 7°C. A Francoforte nella cintura verde larga 50-100 metri che circonda la città sono stati evidenziati abbassamenti di temperatura nell’ordine di 3,5°C; riduzioni più rilevanti (5,5°C) sono state registrate in una notte estiva nel Rock Creek Park a Washington. Attenuazioni della temperatura fino a 8°C sono segnalati per il Golden Gate Park a S. Francisco; valori analoghi sono stati registrati in clima desertico a Dhabran in Arabia Saudita (Alessandro et al., 1987). Sempre in clima desertico, a Phoenix in Arizona, sono stati posti a confronto due “modelli” di sistemazione a verde degli spazi a ridosso di edifici con caratteristiche costruttive simili: prato con presenza di piante da alto fusto e piante del deserto non irrigate; la temperatura massima dell’aria durante il giorno è risultata di 41°C in quest’ultimo caso e di 37°C con la sistemazione a prato (Cook, 1980). In rapporto alle possibilità offerte dalle piante di attenuare le temperature massime, sono stati elaborati, per diverse località residenziali delle zone più calde degli Stati Uniti, modelli previsionali della diminuzione delle temperature estive in rapporto alla vegetazione ornamentale (Huang et al., 1987). Attraverso tale modello è stato calcolato che ad un aumento del 25% della disponibilità di verde farebbe riscontro in quelle condizioni un risparmio dell’energia necessaria per il condizionamento termico estivo del 40% a Sacramento e del 25% a Phoenix; tale risparmio aumenterebbe al 50 e 33% nell’ordine per effetto di una distribuzione delle piante più favorevole ai fini dell’ombreggiamento degli stessi edifici (Huang et al., 1987). Con riferimento all’Italia, è stato stimato che un aumento del 10% della superficie investita a verde determinerebbe in alcune città italiane l’abbassamento di 2°C della temperatura dell’aria con un risparmio energetico per il raffreddamento durante l’estate pari all’8-11% (Barbera et al., 1991). Occorre sottolineare come ovviamente non sia di fatto possibile contemperare obiettivi diversi. Sempre a Phoenix sono stati posti a confronto due «modelli» di sistemazione di spazi a verde prospicienti a due edifici di struttura analoga: da una parte alberi con prato, dall’altra l’impiego di piante «succulente». Nel primo caso si è ottenuto un risparmio energetico del 30% per il condizionamento estivo; il vantaggio economico, però, si annullava per effetto del maggior costo necessario per l’approvvigionamento dell’acqua impiegata per l’irrigazione. Occorre quindi comprendere che è opportuno fare delle scelte: o adottare criteri di xeroscaping per ridurre i consumi di acqua o privilegiare la termoregolazione offerta dalla vegetazione accettando un maggiore consumo di acqua. Naturalmente di volta in volta, in base alle condizioni di riferimento, occorrerà effettuare la scelta più opportuna, dopo un’attenta considerazione dei vincoli e delle opportunità. b) Isolamento acustico e visivo L’attenuazione degli effetti dei rumori può essere ottenuta con le cosiddette “barriere”, cioè

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ostacoli di altezza tale da modificare la propagazione delle onde sonore. Le barriere artificiali, costituite con metallo e/o cemento, hanno in genere un potere di abbattimento del rumore pari a 10-15 decibel; quelle vegetali, costituite da alberi ed arbusti, se sufficientemente ampie, possono ridurre i suoni fino a 5-8 decibel. È stato notato, infatti, che una barriera vegetale in buone condizioni può determinare una riduzione del rumore di circa 0,3 decibel (dB) per metro di spessore (Grossoni, 1994). L’efficienza delle barriere vegetali ai fini della riduzione dei rumori dipende dalle specie, dallo stadio di sviluppo delle piante, oltre che dalle caratteristiche stesse del rumore. Per quanto riguarda le specie è stato rilevato, ad esempio, che un esemplare di Acer pseudoplatanus è in grado di determinare una riduzione fino a 10-12 dB, mentre Betula pendula o Tilia cordata determinano una riduzione intorno a 4-6 dB. Anche le coperture vegetali al suolo possono attenuare il rumore; gli effetti dipenderebbero dalla natura del suolo stesso, dalla specie e dall’altezza della vegetazione. I suoni ad elevata frequenza vengono attutiti dalle piante in misura maggiore rispetto a quelli a bassa frequenza. L’orecchio umano è più sensibile ai suoni ad elevata frequenza, per cui le piante sembrano in grado di intervenire selettivamente sulle frequenze più dannose. L’attenuazione di un suono a bassa frequenza è favorita dalla spaziatura tra gli alberi, che crea una sorta di “trappola” per le radiazioni, mentre quella dei suoni ad alta frequenza dalle caratteristiche del singolo albero, quali il fogliame minuto e compatto (Mecklenburg et al., 1972). Le barriere possono risultare molto utili anche per creare un “isolamento visivo” importante non solo per motivi estetici (si pensi al ruolo svolto dalle siepi nel giardino all’italiana), ma anche pratici. Singolare per la sua importanza è l’effetto delle barriere spartitraffico delle autostrade che servono ad attutire l’effetto abbagliante dei fari. c) Controllo dei fattori dell’inquinamento Negli ultimi anni sempre più si guarda alla vegetazione per il contributo che essa può offrire al fine di attenuare l’inquinamento ambientale. La consapevolezza dell’importanza di questo ruolo svolto dalla vegetazione fa sì che, fra i criteri di scelta delle piante da utilizzare in aree urbanizzate, vengano sempre più considerati quelli inerenti alla possibilità di ridurre la concentrazione degli inquinanti (La Malfa, 1987). In ambiente urbano gli effetti di biomitigazione o di “depurazione”, conseguenti alla immobilizzazione più o meno prolungata nel tempo di alcuni pollutanti, sono più attentamente considerati in rapporto ad alcuni metalli pesanti e segnatamente al piombo ed al cadmio (Kovacs et al., 1993; Hernández et al., 1987). Il contenuto di piombo nelle foglie di alcune specie si è rivelato così direttamente dipendente dal traffico veicolare da venire proposto, come nel caso di oleandro e pioppo, quale indicatore del livello di inquinamento da motorizzazione (Hernández et al., 1987). Sempre in relazione ai metalli pesanti, ed in particolare al piombo ed al cadmio, ricerche condotte su diverse specie ornamentali presenti nel verde urbano di Catania hanno messo in luce come la concentrazione di piombo nelle lamine fogliari di piante presenti in zone ad intenso traffico veicolare, rispetto a quella accertata per piante lontane da fonti di inquinamento, possa raggiungere valori fino a circa 90 volte per Pittosporum tobira contro 36 di Nerium oleander; per il cadmio, invece, la capacità di rimozione è stata pari a 9.6 volte in N. oleander ed a soli 2.1 in Pinus halepensis e Tilia cordata (tab. 1) (Romano e Abate, 1995). Il contenuto in piombo varia fortemente in

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rapporto alle specie saggiate ed ha oscillato, a parità di ogni altra condizione, tra 4 ad oltre 90 ppm sul pes o secc o. L’immobilizzaz ione dell’elemento è apparsa in elevata misura determinata dal deposito dei particolati sulla superficie delle foglie dove questi vengono trattenuti per tempi più o meno lunghi. Altri meccanismi sembrano comunque intervenire nel determinismo del fenomeno. Il contenuto in piombo nei tessuti delle diverse specie si è rivelato infatti in qualche misura disancorato dalla superficie sviluppata dalle foglie per unità di peso; del resto significative quantità del metallo sono state riscontrate nei rami privati di tessuti corticali, quasi sicuramente dovute a processi di assorbimento e di traslocazione da parte delle radici ed al successivo accumulo. Indipendentemente dai meccanismi implicati, le ricerche hanno messo in evidenza come alcune fra le più comuni specie ornamentali in ambiente mediterraneo siano in grado di immobilizzare, per metro cubo di chioma, il piombo ed i particolati contenuti in 6 m3 di aria fortemente inquinata; i valori registrati per il pino (Pinus halepensis), pari a 48,7 g di particolati ed a 63,2 mg di piombo per metro cubo di chioma, consentono la immobilizzazione degli inquinanti presenti rispettivamente in 12 e 16 m3 di aria fortemente inquinata (tab. 2) (La Malfa et al., 1996). Con riferimento agli inquinanti gassosi che sempre più preoccupano per livelli e gravità degli effetti, è stato notato, in una prova tesa a valutare la capacità di assorbimento di germogli recisi di specie arboree nei confronti di SO2, NO2 e O3, sia in mescolanza tra loro che singolarmente, come l’assorbimento sia in genere più elevato nelle conifere e per SO2 (Elkiey et al., 1982). I dati disponibili sulla riduzione della concentrazione di pollutanti nell’aria determinata dalle piante non sono però ancora sufficienti a definire un quadro di riferimento che possa orientare con certezza per una gestione degli spazi a verde funzionale all’obiettivo indicato. In ogni caso l’efficienza delle piante appare legata, oltre che al volume della chioma e quindi alla superficie sviluppata, alle caratteristiche morfologiche ed anatomiche, quali soprattutto la densità e la disposizione delle foglie (La Malfa et al., 1996), e alle caratteristiche funzionali, con particolare riferimento alle aperture stomatiche (Smith, 1978). Accanto alla capacità di accumulare pollutanti e di traslocarli nei tessuti anche la tolleranza

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delle specie ai diversi inquinanti è un parametro da tenere in considerazione. In particolare il meccanismo che è alla base della tolleranza andrebbe attentamente studiato per potere comprendere se e come si possa fare riferimento alla pianta che lo esprime ai fini del miglioramento dei parametri ambientali. È stato riscontrato che le piante erbacee sono più efficienti nella rimozione dei pollutanti gassosi rispetto alle specie arboree e che la porzione superiore della chioma, forse per la sua maggiore funzionalità, riesce a rimuovere una maggiore quantità di inquinanti rispetto a quella inferiore (Miller, 1988). Le condizioni d’impiego delle piante sono altrettanto importanti: intuitivo rilievo assumono sia il numero di individui che la loro disposizione rispetto alla sorgente di inquinamento ed alla direzione e velocità del vento. I massimi benefici della vegetazione sulla “qualità dell’aria” si ottengono quindi se la disposizione e l’organizzazione del verde rispondono a criteri funzionali allo scopo. Importante è in questo caso la densità d’impianto: le barriere verdi, infatti, devono opporre ai pollutanti una adeguata massa fogliare filtrante, ma nel contempo devono lasciarsi attraversare dai venti per evitare fenomeni di turbolenza. Una barriera vegetale di media densità è più efficiente nella rimozione di inquinanti gassosi, mentre una più densa è più efficiente nei confronti dei particolati (Miller, 1988). In tema di controllo dell’inquinamento attraverso le piante un richiamo merita la questione relativa alla possibilità di rimozione dagli ambienti domestici di sostanze più o meno tossiche, quali formaldeide e benzene. L’impiego di alcune piante di appartamento è riconosciuto come una valida possibilità per ridurre la concentrazione di tali pollutanti (Wolverton et al., 1984). Sotto questo profilo fra le piante ritenute più efficienti, anche a seguito delle ricerche condotte dalla NASA in relazione al disinquinamento dell’aria nelle capsule spaziali, ve ne sono diverse utilizzate comunemente nei nostri appartamenti (es. chamaedorea, dracena, sansevieria, spathyphyllum, ecc.). Le piante, inoltre, possono essere impiegate, per la loro specifica sensibilità nei confronti di alcuni pollutanti, nel monitoraggio biologico (bioindicatori). Un gruppo di vegetali bioindicatori è costituito dai licheni corticicoli (Bellio e Gasparo, 1995); essi sono infatti assai sensibili all’inquinamento atmosferico, al punto che il “deserto lichenico” (la scomparsa assoluta di tutti i licheni) è un indice di inquinamento molto elevato, soprattutto di quello legato alla presenza di SO2. Anche alcune piante superiori per la loro sensibilità possono essere utilizzate per il biomonitoraggio; il pino domestico è ad esempio indicatore della presenza di acido fluoridrico, il tabacco e l’acero dell’ozono, il larice e il pino dell’anidride solforosa. L’utilità delle piante nel monitoraggio dell’inquinamento è legata, però, ad ulteriori progressi nello sviluppo di metodiche standardizzate per il prelievo dei campioni, in modo che i dati ottenuti risultino fra loro confrontabili. Un aspetto particolare assume la depurazione dell’acqua. L’inquinamento dell’acqua è dovuto quasi esclusivamente alle attività umane soprattutto quando queste sono concentrate nel territorio; in

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questi casi, infatti, le azioni di autodepurazione dell’acqua stessa non sono sufficienti a far fronte al danno. Dagli anni ’70 in poi è stata studiata la possibilità di utilizzare le piante superiori per la rimozione di sostanze inquinanti, quali azoto e fosforo responsabili, soprattutto il primo, dell’eutrofizzazione delle acque. La capacità delle diverse piante di “depurare” l’acqua è ovviamente diversa. L’interesse di tali forme di depurazione ha portato già negli anni 70 alla costruzione di un impianto pilota, per la depurazione delle acque reflue di una piccola cittadina del Mississippi, Lucedale, con una popolazione di circa 2500 abitanti.

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5. LA PROGETTAZIONE DEL VERDE La progettazione degli spazi a verde è operazione complessa che necessita di una accurata fase iniziale di studio per potere acquisire tutti gli elementi necessari per far sì che l’inserimento della vegetazione non sia episodico e che l’impianto a verde sia dotato di pregevoli caratteri estetici e soprattutto risponda alle esigenze della fruizione. A queste esigenze oggi sempre più si aggiunge l’imperativo di far sì che la progettazione stessa e soprattutto le successive operazioni di manutenzione non siano onerose sotto il profilo finanziario per le difficoltà, molto avvertite soprattutto dalle pubbliche amministrazioni ma anche dai privati, di reperire fondi da destinare a tali scopi. Una corretta progettazione (intesa nell’accezione più ampia del termine e cioè dalla fase di progettazione a quella di realizzazione e di manutenzione) del verde pubblico (la quale, per ambiti territoriali e per “attese” da parte degli utenti, è fra le più complesse) necessita, secondo Castiglioni (1985), del rispetto di alcuni presupposti generali, quali: ∗ costituzione di un gruppo di lavoro in cui siano presenti specialisti delle diverse discipline interessate; ∗ analisi dettagliata del contesto urbano e delle realtà preesistenti; ∗ coinvolgimento degli utenti nelle varie fasi della progettazione, della realizzazione e della gestione delle attrezzature; ∗ enunciazione chiara da parte degli Amministratori pubblici delle volontà politiche; ∗ individuazione precisa dei livelli e delle caratteristiche delle attrezzature e dei loro componenti; ∗ inserimento delle singole attrezzature di “verde pubblico” nel più generale “sistema integrato dei servizi pubblici”; ∗ progettazione accurata di tutti gli elementi, ricorrendo quando necessario alla sperimentazione di sistemazioni prototipo; ∗ esecuzione accurata del progetto; ∗ programmazione ed esecuzione delle manutenzioni ordinarie e straordinarie; ∗ analisi critica a posteriori delle realizzazioni effettuate per poter trarre indicazioni utili per successive progettazioni. Al di là dell’eventuale completezza di questo “decalogo” è indubbia l’esigenza di una gestione multidisciplinare della fase di progettazione, gestione che necessita anche di analisi sociologiche sul potenziale bacino di utenza, sullo sviluppo demografico ed edilizio della città, ecc. Fra le competenze più specifiche che attengono alla componente agronomica in senso lato, vi sono quelle relative allo studio dell’ambiente naturale ed antropico, ai criteri di scelta delle specie ed ai problemi relativi alla fase di impianto e di manutenzione. Nel prosieguo della trattazione faremo spesso riferimento, proprio per la complessità che la caratterizza, alla progettazione del verde pubblico e di quella di ambiti territoriali più estesi, nella convinzione che i principi che saranno elencati possano essere utili anche per la progettazione del verde privato e su superfici più limitate. La fase di progettazione consta, secondo Agostoni e Marinoni (1987) di 3 momenti distinti: ∗ la fase di analisi, studio, ideazione, formulazione e soluzione di scelte alternative, zoning, verifiche di fattibilità; ∗ il progetto di massima, con l’individuazione della suddivisione delle aree secondo le funzioni (copertura verde, rete viaria, attrezzature, strutture e servizi, ecc.), l’entità e la distribuzione degli elementi e il preventivo di massima; ∗ il progetto esecutivo, che descrive in dettaglio (anche grafico) i singoli elementi della sistemazione a verde (popolamenti arborei, arbusti, tappeti erbosi, tipo di attrezzature e strutture, ecc.) e le voci di spesa.

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L’argomento della progettazione del verde piuttosto complesso funzionalmente ai nostri obiettivi, nei seguenti punti: ∗ studi preliminari; ∗ piante ornamentali per gli spazi a verde in ambiente mediterraneo ∗ redazione del progetto; ∗ vincoli ed opportunità di carattere normativo.

sarà

articolato,

5.1. Studi preliminari Essi sono necessari per acquisire elementi di riferimento, in ordine ai fattori ambientali, climatici, pedologici ed all’assetto vegetazionale dell’area. Per effettuare alcune di queste indagini si può fare utile riferimento a conoscenze pregresse, acquisite nel corso degli studi; per altre si ritiene opportuno richiamare in questa sede alcuni aspetti specifici della metodologia e/o dei contenuti relativi all’indagine stessa. 5.1.1. Individuazione dell’area La prima operazione da fare per la progettazione è quella di individuare esattamente l’area interessata alla realizzazione a verde. Occorre, quindi, avvalendosi anche dei documenti catastali, individuare i confini dell’area e realizzarne la planimetria ed il piano quotato, i quali faranno poi parte integrante della documentazione iconografica del progetto, che analizzeremo in seguito. Non ci addentriamo nella modalità di realizzazione di tali documenti, dato che questi argomenti vengono affrontati nel dettaglio in altre discipline: qui si può solo richiamare il fatto che oggi, grazie soprattutto all’informatica, le operazioni, un tempo onerose, possono essere semplificate. D’altra parte, sempre grazie a specifici software, è anche possibile utilizzare le informazioni acquisite in questa fase in quella successiva di realizzazione del progetto stesso. 5.1.2. Analisi del paesaggio Prima di entrare nel merito di come viene effettuata è importante definire brevemente cosa si intenda per paesaggio. Tale termine può assumere infatti significati diversi; schematizzando si possono individuare 3 diversi modi di “intendere il paesaggio”, quali: ∗ accezione estetica = il paesaggio è considerato facente parte delle bellezze naturali ed è quindi la “veduta, il panorama, la parte del territorio che si abbraccia con lo sguardo da un punto di vista”; ∗ accezione geografica = il paesaggio è costituito dagli elementi fisici, biologici ed antropici che costituiscono i tratti fisionomici di una certa parte della superficie terrestre; ∗ accezione “ecologica” = il paesaggio viene considerato come ecosistema paesistico concreto, si tratta, più che di un vero e proprio ecosistema omogeneo, di un insieme di ecosistemi, interagenti tra loro. Di fatto tali diverse modalità di concepire il paesaggio hanno portato a due modi profondamente diversi di effettuare l’analisi del paesaggio stesso: da una parte l’analisi oggettiva, frutto della concezione geografico-ecologica, dall’altra quella soggettiva, che nasce dall’accezione di tipo estetico-percettiva del paesaggio. L’analisi oggettiva considera come ambito delle proprie attività l’insieme dei dati “oggettivamente rilevabili”, biotici e abiotici, naturali ed antropogeni, che costituiscono la struttura del paesaggio e fanno riferimento a diversi settori scientifici (come geologia, botanica, pedologia, fitosociologia, ecc.). Poiché nessuna disciplina da sola può spiegare la realtà di un paesaggio, che si presenta al tempo stesso unitaria e multiforme ed è il risultato di interazioni complesse, le singole analisi devono essere utilizzate, contestualmente o separatamente, al fine di individuare le relazioni e le interdipendenze tra fenomeni e classi di fenomeni e di approfondire l’aspetto dinamico del paesaggio che si può cogliere attraverso l’approssimazione sistemica (Romani, 1994). L’analisi di tipo oggettivo, per

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descrivere in modo scientifico i vari elementi e i sistemi che costituiscono il paesaggio, cerca di rilevare e di registrare, spesso attraverso una cartografia di base di scala opportuna, numerosi dati territoriali, naturali ed antropici, scomponendoli nelle differenti categorie di indagine ed analizzandoli secondo metodiche che sono tradizionali e che fanno riferimento a discipline di tipo classico (botanica, zoologia, urbanistica, ecc.). Tali elementi nell’analisi paesaggistica devono essere poi fatti interagire perché occorre tenere sempre presente nell’analisi che il paesaggio non è mai uniforme, ma varia in funzione delle sue componenti; la modifica di una di queste influisce e talvolta stravolge il funzionamento del tutto. Questo tipo di analisi è quindi molto efficace per cogliere, la “fragilità” o la “vulnerabilità” di un’area, la sua “vocazione” o per registrare particolari “valori” che occorre preservare. L’analisi di tipo soggettiva, invece, pone l’accento prevalentemente sul processo visivo, su come il paesaggio si manifesti all’osservatore, in forme, sequenze, ordinamenti sensibili e percepibili ed in particolare attraverso la vista. I metodi di indagine fondati sull’analisi percettivovisiva sono numerosi ed ampiamente utilizzati nella riqualificazione paesistica di determinati ambienti. Il “vedere” è un atto conoscitivo complesso che consiste nell’elaborare le immagini che ci pervengono attraverso la vista tramite specifiche funzioni mentali, quali la memoria, ed utilizzando anche parametri personali, quali la cultura, l’appartenenza a gruppi sociali particolari, ecc. L’apprezzamento estetico del paesaggio è un fatto quindi eminentemente individuale, ma a partire dagli anni ’60 si è cercato di “oggettivare” tale giudizio. Le metodologie di indagini si muovono su diverse direttrici. Fra quelli più diffusi possiamo ricordare i metodi descrittivi che, basandosi su determinate caratteristiche morfologiche “fondamentali”, mirano a descrivere ed a raggruppare in categorie i diversi tipi di paesaggio. Un altro approccio è quello della “preferenza”, cioè cercare di raccogliere la valutazione dei fruitori effettivi o potenziali dei diversi paesaggi. Al di là della concezione di riferimento e del metodo di analisi previsto, può essere utile per i nostri scopi fare riferimento ad alcune delle classificazioni proposte per i diversi “tipi” di

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paesaggio riscontrabili nella realtà italiana. Per dare riferimenti che possono essere utili ai fini di una eventuale analisi del paesaggio che ci circonda, il quale indubbiamente riassume non solo elementi diversi tra loro, ma è anche il frutto della “storia” degli eventi che su quel territorio si sono succeduti, si è ritenuto utile dare qualche indicazione in merito ai “paesaggi” in cui dobbiamo spesso inserire le nostre sistemazioni a verde. Tali paesaggi fanno riferimento a: ∗ paesaggio naturale; ∗ paesaggio agrario; ∗ paesaggio urbano. Paesaggio naturale È dominato dalla presenza della vegetazione naturale che rappresenta un importante elemento da tenere in considerazione per le informazioni preziose che possiamo acquisire in tema di progettazione degli spazi a verde. La distribuzione delle piante sulla terra, come è noto, è regolata da tre grandi fattori: 1) storia; 2) terreno; 3) clima. Con il primo si intende non solo i grandi eventi geologici che hanno influenzato la distribuzione della vegetazione in base ai periodi di glaciazione e di disgelo che si sono succeduti nel tempo, ma soprattutto l’azione attiva dell’uomo che, sin da epoche antichissime, ha trasportato piante da una parte all’altra del globo, modificando il paesaggio naturale. Per quanto riguarda il terreno occorre ricordare l’influenza che le caratteristiche del substrato hanno sulla presenza di determinate specie, caratteristiche che sono anche il frutto dell’intensa azione che i fattori climatici esercitano sul substrato pedogenetico. Il terreno è infatti spesso definito “figlio del clima”. Per quanto attiene ai parametri climatici, quelli che maggiormente influenzano la vegetazione sono: ∗ radiazione luminosa; ∗ temperatura; ∗ precipitazioni. Il condizionamento imposto dal clima nella distribuzione degli esseri viventi fa sì che si possa parlare di bioclima (se ci si riferisce a tutti gli esseri viventi) o di fitoclima (il

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riferimento è solo alla vegetazione). In base alla presenza di particolari tipi di vegetazione, il fitoclima italiano si presenta articolato nei seguenti tipi elementari o biocore climatiche (Giacobbe, 1949): ∗ mediterranea sempreverde; ∗ montana mediterranea; ∗ sub-mediterranea; ∗ subcontinentale o continentale; ∗ montana alpina; ∗ cacuminale. I caratteri distintivi di queste biocore, con l’indicazione delle specie a valenza ecologica compatibile sono riportati nello schema allegato. Paesaggio agrario È quella forma che l’uomo, nel corso dei secoli ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente, imprime al paesaggio naturale (Sereni, 1961). L’interesse di studiare tale paesaggio, non solo attuale ma anche nella sua evoluzione “storica”, discende direttamente dalla constatazione che gran parte (circa il 50%) della superficie territoriale del nostro Paese (che è di circa 33 milioni di ettari) è occupata da attività agricola. Anche se nell’ultimo secolo l’importanza, in termini di impiego di mano d’opera ma anche di utilizzazione del suolo da parte dell’agricoltura, è certamente diminuita, resta il fatto che fino alle soglie del ’900 l’attività agricola è stata quella in grado, più di tutte le altre, di lasciare dei segni sul nostro territorio. Le tracce che spesso ancora oggi ritroviamo e che caratterizzano il paesaggio rurale sono molto antiche e possono risalire fino al periodo greco o etrusco. Per questo motivo si è ritenuto opportuno riportare brevi cenni sull’evoluzione storica del paesaggio agrario. Periodo greco: il paesaggio agrario era caratterizzato dalla divisione netta tra terre coltivate ed incolti tramite siepi e muri; i campi presentavano forme geometriche regolari; notevole era la presenza delle colture arboree (es. olivo). Una idea di come doveva essere il paesaggio nel periodo greco la possiamo trarre dalla cosiddetta Tavola di Alesa, una mappa del tempo di una porzione di territorio agrario. In Sicilia le tracce di questo uso del suolo sono ancora oggi rinvenibili in alcuni modelli di paesaggio agrario, qual è quello degli appezzamenti irregolari chiusi, a seguito della necessità di proteggere le colture dalle greggi e dai furti campestri.

Tavola di Alesa.

Periodo etrusco: l’elemento che permane fino ai nostri giorni, anche se ormai sporadico, è

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quello della vite maritata al pioppo, all’acero, all’olmo e consociata con le colture dei cereali. Periodo romano: durante tale periodo storico sono state effettuate delle modificazioni sulla struttura del paesaggio che sono giunte fino ai nostri giorni praticamente immodificate. Fra quelle più significative possiamo ricordare la “limitazio” cioè la misurazione e divisione del suolo, che portava alla formazione delle “centuriae”, quadrati di 740 metri di lato (pari a ~50 ha), destinati ai centurioni dell’esercito; il “reticolo” che si veniva a determinare nel territorio è facilmente rilevabile ancora oggi, ad esempio, nell’agro di Cesena. I romani provvidero anche alla costruzione di strade ed acquedotti a maglia molto fitta, di cui tracce permangono fino ai nostri giorni. Per quanto riguarda la tipologia dei campi questi erano spesso chiusi, circondati da elementi di confine. Un aspetto molto importante che risale al periodo romano è la consapevolezza dell’importanza del “bel paesaggio” della villa suburbana che serviva a soddisfare, oltre alle esigenze economiche, quelle estetiche e di diletto. Grande considerazione, anche estetica, nel periodo romano era posto al paesaggio silvo-pastorale.

Tracce di “centuriae” nell’agro di Cesena.

Periodo medievale ed età feudale: è un periodo in cui notevole è stata la degradazione del paesaggio; in tale epoca, anche per i limiti temporali nei quali si poteva esercitare l’agricoltura, si preferiva la coltivazione dei cereali minori, che avevano un ciclo colturale più breve e si prestavano meglio al sistema dei campi aperti. Un altro elemento costitutivo di quel periodo è quello del borgo arroccato sulle alture e del sistema dei campi chiusi per la coltivazione di vite e di piante da orto. Periodo arabo: è questo un periodo le cui influenze, soprattutto sul paesaggio siciliano, permangono fino ai nostri giorni: a tale epoca risalgono, infatti, tutte le sistemazioni idrauliche e le opere di adduzione delle acque che consentirono l’insediamento delle colture irrigue quali riso, carrubo, pistacchio, cotone, melanzana, spinaci, canna da zucchero, cotone, gelsi, agrumi, alcune delle quali connotano fortemente il nostro attuale paesaggio. Gli esempi degli agrumi, del carrubo e, fra le piante ornamentali collocate in ambito rurale, della palma da datteri (Phoenix dactylifera), che presso gli arabi rivestiva significati del tutto peculiari, sono sicuramente fra i più significativi. Alto Medioevo: in tale periodo il paesaggio agrario appare caratterizzato da: ripresa delle attività agricole; esecuzione di opere di bonifica; esecuzione di disboscamenti per destinare nuovi terreni all’agricoltura; esecuzione di terrazzamenti per rendere coltivabili le pendici delle colline; diffusione della coltura granaria; diffusione del sistema dei campi chiusi.

∗ ∗ ∗ ∗ ∗ ∗

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Rinascimento: è il periodo in cui si assiste all’origine dell’attuale paesaggio agrario. I principali elementi sono: ∗ sistemazioni collinari; ∗ diffusione dei pascoli e dei prati chiusi; ∗ bonifiche dei terreni; ∗ realizzazione di prati irrigui; ∗ costituzione della piantata padana, cioè la coltivazione ai margini dei campi di alberi. A questi elementi si deve aggiungere la piena consapevolezza raggiunta del valore del “bel paesaggio” agrario che portò a far sì, ad esempio, che i Medici costruissero in Toscana numerose ville suburbane circondate da colture agrarie. Ed è anche da questo periodo che cominciano la grandi scoperte geografiche che determinano l’inserimento di nuove specie negli ordinamenti colturali agrari (es. mais, girasole, patata, pomodoro, ecc.). Seicento: è il periodo delle dominazioni straniere e del degrado del paesaggio agrario. Illuminismo: da questo periodo ricominciano le sistemazioni agrarie di vasta scala, per l’importante ruolo rivestito dalla agricoltura nella economia del tempo, per cui si ricercano metodi di produzione innovativi. È questo anche il periodo in cui si assiste alla diffusione delle colture arboree. Unità d’Italia: a seguito dell’unificazione dei diversi Stati si ha una ridistribuzione delle colture su base regionale; fra gli aspetti Il paesaggio agrario di Palermo nel Settecento. più importanti che interessano la Sicilia occorre ricordare come, a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, si assista alla diffusione dell’agrumicoltura, attività agricola che ancora oggi connota fortemente il paesaggio dell’Italia.

L’avvento della meccanizzazione ha profondamente cambiato i tratti fisionomici del paesaggio.

Periodo contemporaneo: il paesaggio appare modificato a seguito di diversi avvenimenti, fra i quali possiamo ricordare: ∗ riforma agraria del secondo dopoguerra; ∗ diffusione della meccanizzazione; ∗ abbandono delle aree più marginali. Con riferimento a quest’ultimo aspetto dobbiamo ricordare come dal 1910 al 1990 la superficie agricola sia passata da 21 a 16,9 milioni di ettari, con una “perdita” di quasi 4 milioni di ettari. Negli ultimi anni, ed in

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particolare in corrispondenza dell’ultimo censimento dell’agricoltura, questo processo di “perdita” di territori agricoli è apparso molto accentuato. In particolare la superficie agricola utilizzata è scesa ad appena 13,2 milioni di ettari. Delle superfici sottratte all’agricoltura una quota cospicua è stata assorbita da usi residenziali; nel resto dei casi si è assistito ad un abbandono dell’attività agricola, cui è spesso seguito il degrado ambientale per mancanza degli interventi colturali. Paesaggio urbano Nell’ultimo mezzo secolo il fenomeno dell’urbanizzazione ha avuto uno sviluppo rapidissimo. L’indice di urbanizzazione, cioè la percentuale di popolazione che vive in agglomerati con più di 20.000 abitanti, che si era mantenuto sotto il 10% fino al 1920, ha raggiunto alla fine degli anni ’80 il 55% in Italia ed il 75% in USA; stime ONU indicano che nel 2050 il 90% della popolazione vivrà in agglomerati urbani. Anche non considerando le estrapolazioni nel lungo periodo, già oggi oltre la metà della popolazione italiana vive in un ambiente, quale quello urbano, profondamente modificato dalle attività umane; da questo fatto discende la necessità di conoscere bene le modificazioni che comunemente si verificano all’interno delle nostre città, in modo da tenere conto nelle progettazioni degli spazi a verde nel recinto urbano. Le modificazioni che più frequentemente si verificano per effetto dell’urbanizzazione sono quelle relative al clima ed all’inquinamento. Spesso in città si verifica la cosiddetta “isola di calore”, cioè la differenza, positiva, che si ha tra la temperatura del centro cittadino e quella della campagna circostante. La formazione dell’isola di calore è dovuta in parte al bilancio radiativo alterato, ma soprattutto alla presenza nel bilancio energetico di un ulteriore termine rappresentato dagli apporti di energia dovuti ad alcune delle attività umane, quali il riscaldamento di ambienti, il traffico veicolare, le stesse attività industriali, ecc. Per quanto attiene al bilancio radiativo possiamo ricordare come l’atmosfera urbana sia molto più torbida rispetto a quella circostante dato che contiene una quantità di particolati fino a 10 volte superiore; di conseguenza è minore la radiazione totale che raggiunge la superficie orizzontale, fino al 20% in meno. Nella banda dell’ultravioletto, invece, la diminuzione è solo del 5% in estate, ma può raggiungere il 30% in inverno ed anche questo ha un effetto negativo sulla salubrità dell’aria. L’albedo per radiazioni a lunghezza d’onda corta delle superficie che compongono la città è molto variabile, bassa per l’asfalto e per la vegetazione dei parchi; alta per il calcestruzzo; in genere è comunque più elevata di quella di una campagna ben coltivata. Tuttavia la maggiore albedo e la minore radiazione totale non comportano una corrispondente diminuzione del bilancio radiativo, anche perché le strade fiancheggiate da edifici costituiscono una vera e propria “trappola per radiazioni” a causa delle riflessioni multiple cui danno luogo. Un altro fattore che determina una maggiore incidenza dell’isola di calore è quello legato all’assenza di vento, almeno in quota, il che determina la permanenza sul recinto urbano di una sorta di cupola dove si accumulano gli inquinanti sia particolati che gassosi. Questi fenomeni si traducono in buona sostanza in un aumento della temperatura della città, variabile con le stagioni e con l’ora del giorno, che è nell’ordine di alcuni gradi. Con riferimento alle temperature minime medie, ad esempio, per Roma si ha una differenza di 4,3°C in luglio e 2,5 °C in gennaio, valore molto simile (2,4°C) a quello riscontrato nel trimestre invernale per Milano (Pagliari, 1989). Secondo Lanphear (1971) la temperatura media delle città è da 1,5 a 2,5°C superiore a quella dell’ambiente circostante ma può arrivare anche a 5°C ed in condizioni particolari può superare i 15°C. Per cercare di rendersi conto del significato di tale incremento della temperatura, possiamo ricordare come, analizzando le isoterme relative al nostro Paese, si possa rilevare un incremento per stazioni di tipo continentale di 1°C andando dal Nord verso il Sud al crescere di 1° e 20’ di

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latitudine. L’incremento è più lieve - pari rispettivamente a 0,5°C e 0,3°C - se ci si riferisce a stazioni costiere collocate lungo la costa Adriatica o Tirrenica (Mennella, 1967); il che vuol dire che per effetto dell’isola di calore è come se Roma o Milano, in virtù di quell’incremento termico prima ricordato, si trovassero ad oltre 300 km a Sud rispetto alla loro reale posizione geografica. Importanti sono anche le modificazioni climatiche che si verificano a livello di “micro” ambienti. Sono state osservate, ad esempio, variazioni della temperatura massima, registrate nel mese di agosto alla Columbus Avenue di New York, di ben 10°C (32 contro 42°C) tra lato est ed ovest della stessa strada (Bassuk e Witlow, 1987). Nell’ambiente urbano, inoltre, a causa dell’isola di calore e dei moti convettivi che ne conseguono, insieme alla presenza di un maggiore numero di nuclei di condensazione, le precipitazioni sono del 10% superiori a quelle delle aree rurali circostanti; l’aumento raggiunge il 15% per la frequenza dei temporali. L’umidità relativa è tuttavia minore dato che le superfici che caratterizzano le città (tetti, terrazze, lastricati) sono impermeabili e l’acqua ne evapora rapidamente; le acque meteoriche, inoltre, vengono più o meno rapidamente drenate dal sistema fognario ed allontanate dalla città stessa. A causa quindi della bassa capacità di trattenere l’acqua e di disperderla lentamente nell’ambiente, i valori dell’umidità relativa sono molto bassi durante il periodo secco; rilievi riferiti alla città di New York hanno fatto accertare, infatti, che il valore della umidità relativa a livello delle strade (in particolare nell’esempio sopra citato della Columbus Avenue) è pari al 10-20% contro il 40% registrato a Central Park, il grande polmone verde della metropoli statunitense (Bassuk e Witlow, 1987). Un altro aspetto problematico della qualità dell’aria in ambiente urbano è quello legato all’inquinamento. Le principali sorgenti in città sono rappresentate dal riscaldamento di ambienti, dal traffico veicolare, dalle emissioni di attività artigianali e di piccole industrie ed eventualmente dalle emissioni di grandi complessi industriali posti nell’area suburbana. La concentrazione di inquinanti nell’atmosfera della città dipende dal bilancio tra la loro produzione ed il loro allontanamento ad opera della circolazione atmosferica. Quest’ultima è legata soprattutto alla diffusione verticale dato che, come ricordato, la struttura degli edifici blocca i movimenti orizzontali. Tale stagnazione dell’aria esaspera i problemi legati agli inquinanti con grave pregiudizio della salute degli abitanti e della sopravvivenza delle piante stesse. Altre modificazioni negative in ambiente urbano attengono al substrato pedologico. Le principali caratteristiche dei suoli in ambiente urbano possono essere sintetizzate come segue: ∗ grande variabilità verticale ed orizzontale; ∗ struttura modificata in seguito al costipamento; ∗ presenza di una “crosta” superficiale spesso impermeabile; ∗ reazione modificata, con elevati valori del pH; ∗ aerazione e drenaggio spesso insufficienti; ∗ metabolismo di nutrienti ridotto ed attività degli organismi rallentati; ∗ presenza di materiali diversi e di altri inquinanti; ∗ regime della temperatura modificato. * *** Prima di chiudere il paragrafo dedicato al paesaggio non possiamo fare a meno di richiamare la Convenzione europea sul paesaggio, riportata negli allegati, che costituisce ormai un importante punto di riferimento. Particolarmente importante nella carta è la visione

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“unitaria” del paesaggio stesso che supera la logica di protezione “a macchia di leopardo” del passato per pervenire ad una visione complessiva dei problemi connessi con la protezione di tutto il paesaggio che ci circonda. Come ricorda infatti la convenzione, il paesaggio «designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni»; la Convenzione, infatti, si applica «a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, che i paesaggi della vita quotidiana e i paesaggi degradati.». 5.1.3. Analisi del clima Dati gli stretti legami fra clima e vegetazione è intuitivo l’interesse di raccogliere informazioni in ordine ai fattori climatici. Occorre infatti acquisire, in fase preliminare, indicazioni in merito di diversi parametri, quali: ∗ temperatura minima, media e massima; ∗ piovosità annuale e sua distribuzione. È importante anche stabilire gli eventuali “tempi di ritorno” di eventi eccezionali per calcolare gli eventuali rischi dell’inserimento di alcune essenze vegetali. Sotto questo profilo possiamo ricordare come le gelate eccezionali (quale quella del 1985 che interessò molti paesi europei, fra cui anche l’Italia) o periodi particolarmente siccitosi (quale l’estate del 2003 che interessò soprattutto il centro Europa) possano determinare la morte di molte piante ornamentali, utilizzate nelle sistemazioni a verde. A seconda del grado di approfondimento dello studio, ai parametri sopra richiamati si possono aggiungere quelli relativi alla qualità ed alla composizione delle acque, all’insolazione, alla nebulosità, alla ventosità, ecc. In tutti i casi la validità delle previsioni dipende dall’ampiezza della serie storica dei dati presi in considerazione che deve superare almeno i 20 anni. Importante è anche la “presentazione” delle informazioni acquisite nelle relazioni che spesso corredano i progetti. Uno dei modi più efficaci ed utili per esprimere il clima, particolarmente funzionale all’inserimento della vegetazione, è quello della costruzione dei cosiddetti diagrammi ombrotermici. Si tratta di un sistema di assi cartesiani in cui a sinistra sono riportati i valori della temperatura, espressi in gradi centigradi (°C), ed a destra quelli della precipitazione, in mm, adottando una scala doppia rispetto a quella della temperatura. L’area sottesa fra la curva della temperatura e quella della piovosità, che viene spesso tratteggiata, esprime il periodo che è fisiologicamente “secco” per la vegetazione, quando cioè il valore della

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precipitazione per quel mese, espresso in mm, è inferiore o uguale al doppio del valore della temperatura media, espressa in °C. Durante questo periodo è opportuno fornire acqua attraverso l’irrigazione per consentire la sopravvivenza delle piante. Altre forme grafiche (vedi tavola) possono essere utilmente impiegate al fine di illustrare i risultati dell’indagine climatica. È utile ricordare come informazioni climatiche, relative soprattutto alla Sicilia, possano essere acquisite mediante la consultazione di: ∗ Annuario di statiche meteorologiche dell’ISTAT; ∗ Annali idrologici della Regione Siciliana.

5.1.4. Analisi dell’ambiente geopedologico Lo studio dei terreni fa parte delle competenze acquisite in altri ambiti disciplinari. Ai nostri fini occorre ricordare come l’analisi pedologica debba spesso misurarsi, soprattutto in ambito urbano, con le eterogenee origini e caratteristiche dei substrati disponibili nelle aree da sistemare a verde. Si tratta spesso di substrati marginali con riporti realizzati in tempi diversi, talora come tali inospitali per il verde e comunque pregiudizievoli per lo sviluppo e la durata in vita delle diverse piante. Così nell’ambito del progetto deve essere spesso valutata la possibilità di sostituire il substrato originario, soprattutto quando si opera in aree di limitata ampiezza. Nel caso invece in cui l’intervento si riferisca a superfici più estese e collocate al di fuori dell’ambito urbano, utile riferimento può essere fatto in Sicilia alla carta dei suoli, redatta da Fierotti (1988) che, nonostante la scala (1: 250.000), rimane, ancora oggi, un elemento prezioso di consultazione. 5.1.5. Analisi della vegetazione Uno studio del quale non si dovrebbe mai fare a meno è quello relativo alla vegetazione naturale. In premessa desideriamo chiarire come, nonostante spesso siano utilizzati come sinonimi, i concetti di flora e di vegetazione siano profondamente differenziati. Con il primo termine, la flora si intendono tutte le specie vegetali che si presentano in un determinato sito; il metodo di analisi utilizzato per stimare il manto vegetale è quindi quello qualitativo che si basa sull’elencazione delle specie; quando si adotta il metodo quantitativo si giunge al concetto di biomassa con la quale si intende la misura ponderale dei viventi presenti su una data superficie. Relativamente tardi, cioè solo alla fine del XIX secolo, si è giunti all’idea di combinare i due approcci, cioè fornire dati qualitativi (elenchi di specie) correlati da dati

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quantitativi relativi alle singole specie. Si è giunti così al concetto di vegetazione che, nel modo più elementare viene descritta mediante un elenco di specie, per ciascuna delle quali è indicata la quantità relativa all’area occupata. Qui sta la differenza sostanziale tra i concetti di flora e vegetazione: il primo è privo di nozioni quantitative, quindi ogni specie vale in quanto tale ed è del tutto indifferente che essa sia comune oppure rara (anzi spesso sono maggiormente le specie rare quelle che risultano interessanti, vedi il caso delle endemiche); invece nella vegetazione ogni specie viene considerata sulla base della sua quantità: specie molto abbondanti hanno grande importanza, specie rare ne hanno poca o nessuna. L’analisi della vegetazione, che si serve della rilevazione delle diverse associazioni vegetali anche per individuare la vicinanza o meno all’equilibrio naturale (climax), assume particolare interesse e notevole validità quando occorre realizzare degli spazi a verde pubblico in aree non vicine ai centri urbani e più o meno prossime a porzioni privilegiate di territorio. In tali ambiti, infatti, l’analisi delle specie in atto presenti e delle loro associazioni può fornire preziosi riferimenti progettuali per cercare di creare un “verde” che resti in sintonia con l’ambiente naturale e per la cui manutenzione non siano necessari onerosi interventi. La vegetazione di un determinato ambiente infatti non si trova in uno stato casuale né definitivo ed immutabile. Esiste sempre una storia precedente ed un’evoluzione futura in atto. Da una puntuale “lettura” della vegetazione è possibile trarre quindi molte utili informazioni. Lo studio della vegetazione assume un’importanza applicativa fondamentale ai fini degli interventi di recupero ambientale in quanto fornisce elementi di base per la ricostruzione del manto vegetale di aree degradate. Lo studio richiede indagini preliminari sia sotto l’aspetto t i p o l o gi c o ( a t t r a ve rs o i rilevamenti fitosociologici) sia sotto l’aspetto dinamico (mediante lo studio dell’evoluzione della vegetazione). Per effettuare i rilievi di tipo fitosociologico ci si basa su una metodologia di rilevamento consolidata che prevede la compilazione di una scheda contenente diversi dati.

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Grazie a tali rilievi è possibile procedere alla ricostruzione delle modalità di aggregazione della vegetazione. A questo fine in fitosociologia vengono utilizzate delle categorie di tipo sistematico più o meno ampie, la cui l’unità base è rappresentata dall’associazione che è un aggruppamento vegetale stabile, statisticamente omogeneo ed in equilibrio con l’ambiente, caratterizzato da una data composizione floristica, dove certi elementi quasi esclusivi (le cosiddette specie caratteristiche) pongono in rilievo un’ecologia particolare. Oggi si tende anche a dare importanza alle specie molto frequenti, anche se non caratteristiche, quali piante indice dell’ambiente. Diverso è invece il caso del verde inserito nel contesto urbano: come abbiamo già evidenziato le modificazioni antropiche sull’ambiente rendono poco utili le indicazioni di un’analisi vegetazionale compiuta in zone che, anche se prossime alla città, sono caratterizzate da un diverso andamento termo-udometrico e da un più basso livello di inquinanti. Per tale motivi anche se si tratta di dati solo puntiformi può risultare utile il “censimento” della flora ornamentale utilizzata in ambito urbano e soprattutto dello stato “sanitario” di questa per trarre utili indicazioni sulle specie che è possibile inserire nell’ambiente urbano stesso. 5.2. Piante ornamentali per gli spazi a verde in ambiente mediterraneo 5.2.1. Premesse Affrontare le problematiche relative alla scelta ed all’impiego delle piante ornamentali in ambiente mediterraneo comporta come necessaria premessa la definizione degli ambiti di riferimento. Da una parte, infatti, si affronta il tema delle piante «ornamentali» e dei particolari «spazi» cui esse danno luogo, che per comodità possiamo indicare come «giardino», mentre dall’altra occorre definire cosa sia l’ambiente «mediterraneo». Una definizione puntuale di pianta ornamentale non è certo agevole, in quanto essa, più che alle caratteristiche della pianta in sé, è spesso connessa alle «funzioni» che questa svolge. Un esempio che può essere esemplificativo è quello delle essenze impiegate per la realizzazione di un tappeto erboso ornamentale: si tratta infatti di piante che sono strettamente analoghe alle cosiddette «malerbe» ma che, in funzione delle particolari modalità d’uso, assumono preminente effetto estetico. Questo comporta quindi che possano essere accolte all’interno del gruppo delle piante ornamentali praticamente tutte le specie, basta che esprimano una qualche caratteristica che attragga la nostra attenzione. La maglia per giudicare l’idoneità all’uso è spesso molto ampia: alle piante ornamentali viene di fatto frequentemente richiesta una prestazione «minima», che può coincidere talvolta con la semplice «sopravvivenza», al di là di possibili risultati «produttivi». Non si tratta, però, di una prestazione semplice da ottenere: l’ambiente in cui trova accoglimento il «verde ornamentale», spesso all’interno del recinto urbano, è infatti di frequente ostativo (a causa dell’inquinamento atmosferico e di variazioni microclimatiche) alla corretta crescita delle piante stesse. Se si fa invece riferimento agli spazi a verde cui le piante ornamentali danno luogo, e cioè i «giardini», la questione si complica laddove si consideri che affrontare il tema del giardino in ambiente mediterraneo significa ripercorrere parte della storia dell’uomo, almeno di quello occidentale. La nascita del giardino si può, infatti, fare coincidere quando la terra cominciò a essere coltivata, non tanto per profitto o per l’uso dei frutti, quanto per offrire piacere o per riflettere la vanità di chi la coltivava (Vessichelli Pane, 1994). Le prime testimonianze sulle trasformazioni ambientali realizzate per «costruire» i giardini presso i popoli antichi risalgono a parecchi millenni or sono e sono relative a quelle civiltà che si svilupparono circa 4000 anni fa nei Paesi situati ad oriente del Mediterraneo, in una zona dove la presenza di favorevoli condizioni di vita determinò lo sviluppo delle civiltà Assira,

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Babilonese, Egiziana e Persiana. L’influenza esercitata da queste civiltà sull’evoluzione in occidente del «giardino» fu notevole. Il giardino stesso è anche legato al mito ed alle diverse religioni presenti nell’area mediterranea. Secondo una leggenda araba il mondo, all’inizio dei tempi, era un immenso giardino, finché l’uomo non cominciò a peccare. Accadde, allora, che per ogni peccato commesso, Allah ordinasse a un angelo di far cadere sulla terra un granello di sabbia; in poco tempo il bel giardino divenne un deserto: il Sahara, simbolo del vuoto e della morte. L’idea del giardino, dell’Eden rimase, però, nelle oasi, superstiti ricordi dell’antico paradiso terrestre, frammenti che dovevano suscitare nei peccatori la nostalgia di quanto avevano perduto e la speranza di riconquistarlo. La stessa origine della parola «giardino» (gan in ebraico, gianna in arabo) è la radice semantica G-N, a cui risale la parola magnum, che in arabo significa velato. Dunque il Paradiso (il gan-eden della Genesi e il pairidaeza persiano) è il luogo cintato di delizie, occultato, velato agli occhi del peccatore, dell’uomo che ha perso il dono della vista soprannaturale. Il concetto di giardino, come luogo di delizia, è comune a molte altre culture: quasi inutile è ricordare, alla nostra sensibilità di occidentali, il paradiso terrestre della Genesi: «Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden, a Oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. E il Signore Iddio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino (...) Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse». Insegnano i rabbini che la conoscenza della Torah ha quattro porte: il Perush, o spiegazione letterale del testo, il Remez, o comprensione dei contenuti inespressi, il Darash, o svisceramento, e il Sod, il livello segreto, mistico. Le iniziali delle quattro porte della conoscenza formano la parola «PRDS», che si legge pardès e significa giardino. L’altro aspetto della questione, su cui ritorneremo in seguito più in dettaglio, è quello dell’ambiente mediterraneo. In realtà il paesaggio mediterraneo, benché costituisca un topos della cultura occidentale, più che un dato reale è un’astrazione, o meglio lo è nella misura in cui, nell’ottica romantica sostanzialmente nordeuropea, lo si considera come un paesaggio privilegiato, naturale, spontaneamente bello. Di fatto, invece, si tratta di un ambiente difficile, fortemente antropizzato al punto che le stesse piante che vi si trovano e che spesso lo connotano sono frequentemente di origine esotica, anche se ormai sono diventate elementi costitutivi del paesaggio: «Una Riviera senza aranci, una Toscana senza cipressi, il cesto di un ambulante senza peperoncini … che cosa può esservi di più inconcepibile oggi, per noi?». Una necessaria puntualizzazione è inoltre quella relativa alla «eterogeneità» del paesaggio mediterraneo. Se si considera che questo è rappresentato da tutte le aree prospicienti l’omonimo mare, è intuitivo comprendere la grande diversità conseguente ai diversi regimi pluviometrici che si realizzano, e di cui diremo in seguito, ma anche del livello delle temperature medie che consentono, solo nelle aree più termofile, la presenza di numerose specie esotiche. Un altro elemento da sottolineare è come spesso in ambiente mediterraneo il passaggio fra spazio a verde ornamentale e spazio agricolo sia piuttosto sfumato, merito anche del notevole valore ornamentale di alcune colture (si pensi ad esempio all’olivo o agli agrumi), al punto che in dialetto siciliano si indica spesso come «giardino» lo spazio «produttivo » agrario ed in particolare l’agrumeto. L’interesse di parlare di giardino in ambiente mediterraneo è notevole: le sistemazioni a verde in ambiente mediterraneo, il “Mediterranean gardening”, così come viene efficacemente indicato in inglese, assumono, infatti, dei tratti così peculiari da giustificarne una trattazione separata. Un primo aspetto da sottolineare è l’importanza, nello scegliere le

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soluzioni progettuali, di tenere conto degli stress idrici, più o meno intensi, cui le piante vanno incontro. Le sistemazioni a verde in ambiente mediterraneo possono, infatti, essere considerate come una forma particolare di “xeriscaping”, cioè di quelle tecniche messe in atto per realizzare spazi a verde dove vi è carenza di acqua. Un’altra peculiarità, di cui si è detto, è connessa alle scelte biologiche: soprattutto negli spazi più antropizzati, l’ambiente mediterraneo è caratterizzato dall’utilizzo, oltre che di piante autoctone, di piante esotiche, in gran parte provenienti da zone a clima tropicale e subtropicale (Huxley et al., 1999). Questa compresenza di piante esotiche ed autoctone costituisce il motivo fondamentale del fascino di questo ambiente. Si tratta, come ricorda lo scrittore catalano Manuel Vázquez Montalbán (1996) di «un microclima» in grado di giustificare «il miracolo delle jacarande, degli alti ficus e di ibischi e banani». La specificità di questo ambiente, sempre per Montalban, è da ricercare nella presenza di specie diverse, «eppure il Mediterraneo è lì, nelle pinete, nei carrubi e negli aranci, e negli allori alti come torrioni e negli oleandri, talvolta in forma di possenti siepi, talvolta in snelli alberi dal cocuzzolo fiorito». Spesso sono le piante di origine esotica quelle che rappresentano un elemento di estremo interesse dei giardini mediterranei soprattutto agli occhi dei visitatori del nord Europa. Un esempio fra tutti è dato dalla descrizione del giardino di Villa Giulia a Palermo fatta da Goethe in occasione del suo viaggio in Italia nel 1787: «È il luogo più stupendo del mondo. Nonostante la regolarità del disegno ha un che di fatato (…) Vedi aiuole che circondano piante esotiche, spalliere di limoni che s’incurvano in eleganti pergolati, alte palizzate di oleandri screziati di mille fiori rossi, simili a garofani, avvincono lo sguardo. Alberi esotici, a me sconosciuti, (e ricordiamo che Goethe era un appassionato di botanica) ancora privi di foglie, probabilmente di origine tropicale si espandono in bizzarre ramature (…) Molte piante, ch’ero abituato a vedere in cassette o in vasi, o addirittura chiuse entro i vetri di una serra per la maggior parte dell’anno, crescono qui felici sotto il libero cielo…». La realizzazione di spazi a verde in ambiente mediterraneo presuppone la soluzione di diversi problemi, primo fra tutti la necessità di individuare specie e/o tecniche idonee ad aumentare la compatibilità del verde ornamentale con le specifiche condizioni ambientali. Sicuramente la scelta della specie rappresenta il punto nodale, da cui dipende la possibilità di realizzare un verde non solo dotato di idonei caratteri estetici ma anche in grado di resistere nel tempo. Per potere operare scelte idonee occorre, però, una conoscenza approfondita delle caratteristiche pedologiche e climatiche dell’ambiente in cui si opera, ma soprattutto delle «prestazioni morfofunzionali» delle piante utilizzate e dei criteri di utilizzazione delle stesse e quindi delle soluzioni progettuali e delle tecniche colturali in grado di minimizzare l’influenza negativa di alcuni parametri ambientali. La possibilità di inserire stabilmente della vegetazione in ambiente mediterraneo e soprattutto in ambito urbano consente, inoltre, di usufruire della capacità della vegetazione stessa di modificare positivamente il microclima e di esercitare un controllo nei confronti di alcuni fattori dell’inquinamento. Si tratta di funzioni che, se pur non specifiche, assumono precipuo interesse in ambiente mediterraneo. Ed è in questi ambiti che si inquadra il presente contributo. 5.2.2. Scelta della specie 5.2.2.1. Considerazioni generali La scelta della specie, come è noto, rappresenta uno dei punti nodali della progettazione, dato che consente da una parte di avere una realizzazione vegetale destinata a sopravvivere a lungo ed a mantenere nel tempo le caratteristiche estetiche di pregio e dall’altra di non impiegare quelle tecniche colturali che, pur se in grado di minimizzare l’influenza negativa di alcuni parametri ambientali, non sono, però, senza conseguenze sul piano della onerosità dei costi (Romano, 1993). Spesso, invece, limitandosi al fatto che

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l’acquisto delle piante rappresenta un’aliquota modesta (intorno al 10-12%) del costo della realizzazione di un’area a verde non si presta adeguata attenzione ad un aspetto che si riflette fortemente sugli esiti dell’impianto stesso. I criteri cui ancorare la scelta sono molteplici (Serra, 1993). Occorre infatti contemperare esigenze connesse con la varietà di tipologie di verde da realizzare, con le specificità di funzioni assegnate o richieste a ciascuna di queste, con le particolari condizioni ambientali in cui le piante sono chiamate a vivere, piuttosto avverse sotto il profilo delle caratteristiche fisiche e chimiche dell’aria e del substrato. Vi sono poi aspetti di carattere sociale, economico ed organizzativo che, pur se esulano dalle competenze più squisitamente tecniche, occorre sempre tenere come punti di riferimento, poiché ad essi sono legate, non tanto la progettazione o la realizzazione del verde - operazioni tutto sommato relativamente fattibili - quanto la manutenzione e quindi la conservazione nel tempo del verde stesso. La necessità di individuare soluzioni non onerose sotto il profilo finanziario è, soprattutto nell’attuale fase congiunturale, uno degli imperativi dai quali non ci si può discostare. Circa i vincoli e le opportunità legate alla scelta della specie in funzione della tipologia di verde possono essere ricordate a titolo esemplificativo, nel caso dei parchi urbani, la necessità di una puntuale conoscenza delle condizioni pedoclimatiche naturali e l’esigenza di tenere conto del preesistente paesaggio naturale e/o antropizzato. Un aspetto fondamentale, tenuto conto delle notevoli dimensioni di questi spazi, è quello della manutenzione. Per evitare infatti che le spese di manutenzione risultino troppo onerose occorre scegliere specie per le quali gli interventi dopo l’impianto possano essere trascurati o ridotti al minimo. Man mano che le dimensioni delle tipologie di verde diventano sempre più modeste (dagli spazi attrezzati ai piccoli spazi, alle alberature stradali) bisogna sempre più considerare le rilevanti modificazioni determinate dall’urbanizzazione e, in particolare, le temperature elevate, i bassi valori di umidità relativa, la presenza di inquinanti (tab. 1). In funzione della tipologia di verde si modificano quindi i gruppi di piante cui si può fare riferimento (tab. 2). Un altro importante vincolo è dato dalla compatibilità delle piante in termini di sviluppo al tipo di funzione ed anche allo spazio, talvolta angusto, in cui le

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piante stesse sono collocate. Sono ben noti i problemi posti, sotto il profilo della manutenzione ed estetico, da esemplari che raggiungono allo stato adulto notevoli dimensioni (platani, ficus, magnolie, ecc.) allorché utilizzati in spazi angusti. I drastici interventi cesori che si rendono necessari pregiudicano sia il valore ornamentale che la sopravvivenza della pianta stessa. I vincoli legati alle condizioni ambientali riguardano in maniera più o meno accentuata tutte le tipologie di verde, anche se quelli più difficili da superare sono legati al fatto che spesso si opera all’interno del recinto urbano, dove le condizioni per le piante sono sfavorevoli. Un aspetto da tenere in debita considerazione è anche l’impossibilità dopo l’impianto di modificare le condizioni del terreno per renderlo più consono alle esigenze delle piante: tutto o quasi tutto deve essere previsto al momento dell’impianto.

Fonte: Fini e Ferrini, 2007

Un elemento che richiede sempre maggiore attenzione è dato dal comportamento delle specie rispetto ai diversi inquinanti presenti nell’atmosfera. Sotto questo profilo sono disponibili dati di riferimento che, sia pure con i limiti presentati (mancanza spesso del valore soglia in corrispondenza del quale si verifica il danno, assenza di indicazioni sullo stato sanitario della pianta, sulla sua età o sulla sua fase fenologica), possono essere utilizzati per una più mirata scelta della specie. La scelta di essenze vegetali in grado di resistere ad elevati livelli di inquinamento potrebbe forse consentire di ottenere meglio quel «disinquinamento» dell’ambiente urbano di cui si dirà in prosieguo, oltre ovviamente a permettere una presenza più duratura delle piante nelle città. I problemi brevemente delineati debbono venire risolti sempre alla luce del valore ornamentale richiesto alla specie nonché a quei vincoli sociali, organizzativi ed economici di cui si è detto. Tali vincoli sono più facilmente superabili attraverso l’impiego di specie più rustiche ed adattabili, dotate di un apprezzabile effetto ornamentale. Le piante caratterizzate da maggiore adattabilità sono in genere le piante autoctone le quali, però,

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non sempre manifestano quel requisito di ornamentalità che talvolta poggia proprio sulla esoticità. La scelta fra piante autoctone ed alloctone va quindi spesso valutata alla luce della tipologia di verde: quando la pianta deve essere inserita all’interno di un piccolo spazio in area urbana l’aspetto fondamentale è l’ornamentalità e quindi possono trovare posto specie alloctone a condizione che siano dotate di una buona capacità di adattamento ecologico (specie euriecie). Un ruolo importante possono poi svolgere le specie a valenza ecologica compatibile, specie cioè che, pur se non originarie dell’area oggetto di intervento, trovano in essa soddisfatte le proprie esigenze. In tutti i casi nella scelta tra piante autoctone ed alloctone non si potrà operare per dicotomie o secondo schemi preclusivi. Del resto il paesaggio vegetazionale mediterraneo, per finalità agricole o ornamentali, è caratterizzato da specie alloctone: fico d’India, agave, palme, ficus, robinia, jacaranda, agrumi, bignonie, buganvillee sono ormai da tempo parte integrante del paesaggio. Lucien Febvre in un saggio dal titolo “Le sorprese di Erodoto e le conquiste dell’agricoltura mediterranea”, scritto nel lontano 1940, ha colto bene il problema della trasformazione del paesaggio sotto l’aspetto vegetazionale. Lo storico francese offre la traccia di un percorso a partire da una constatazione: Erodoto non riconoscerebbe i «suoi» paesaggi, se oggi dovesse ripercorrere lo stesso itinerario dei viaggi da lui compiuti nel V secolo a.C.: «Immaginiamo il buon Erodoto mentre rifà oggi il suo periplo del Mediterraneo orientale. Quali stupori. Questi frutti d’oro entro gli arbusti verde scuro, considerati «caratteristici del paesaggio mediterraneo», aranci, limoni, mandarini: non si ricorda affatto di aver visto nulla di simile in vita sua … Perbacco! Sono frutti dell’Estremo Oriente, portati dagli arabi. Queste piante bizzarre dalle sagome insolite, aculee, lance fiorite, nomi strani, cactus, agavi, aloe; come sono diffuse! Mai viste in vita sua … Perbacco! Sono americane. Questi grandi alberi dal fogliame pallido che, tuttavia, portano un nome greco, Eucalipto: in nessun posto ne ha mai visti di simili, in contrade conosciute, il Padre della Storia … Perbacco! Sono australiani. E queste palme? Erodoto le ha viste una volta nelle oasi in Egitto, ma mai sui bordi del mare azzurro. Mai, neppure i cipressi, questi persiani» (Venturi Ferriolo, 1996). Questa presenza radicata nel paesaggio di piante esotiche ha fatto sì che la stessa locuzione di «specie mediterranea» sottenda almeno quattro diversi significati: ∗ endemica; ∗ originaria di ambienti a clima mediterraneo: stenomediterranea o eumediterranea; ∗ originaria di altri ambienti ma ormai naturalizzata; ∗ di origine esotica ma adattabile alle condizioni dell’ambiente mediterraneo. Il primo attiene alla accezione più restrittiva dell’espressione, nel senso che fa riferimento solo alle specie endemiche, cioè esclusive di areali più o meno ristretti nell’ambito del bacino del Mediterraneo. Si tratta in realtà di un gruppo di piante piuttosto esiguo e che non sempre trovano un ruolo dal punto di vista ornamentale. Una seconda accezione è quella che qualifica come mediterranee le specie originarie del bacino del Mediterraneo e quindi rappresentative della omonima zona di vegetazione. A motivo della stessa difficoltà di dare un significato rigoroso all’attributo «mediterraneo» riferito alle specie, va subito ricordato che mancano riferimenti precisi circa la vegetazione mediterranea di più diretto interesse ornamentale. Un lavoro «classico» al riguardo è quello di Role e Jacamon (1968) intitolato agli alberi, arbusti e suffrutici (ad eccezione quindi delle erbacee) della regione mediterranea. In tale testo, con più specifico riferimento alla Francia meridionale, i due Autori elencano e descrivono, sia pure con qualche «licenza» in ordine a piante naturalizzate ma originarie da Paesi non mediterranei (es. la canna, detta di Provenza, ma in realtà originaria dell’Oriente), le più rappresentative specie ornamentali della flora mediterranea. Negli ultimi anni, nell’ambito di una più attenta riconsiderazione della biodiversità presente nel bacino del Mediterraneo, l’attenzione nei confronti della flora autoctona di interesse ornamentale si è accresciuta, come attestano anche alcuni convegni svoltosi recentemente

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ad Agrigento, a Catania ed a Bari. La questione dell’individuazione delle specie ornamentali mediterranee si complica non poco ove si consideri che nell’ambito di una stessa pianta/coltura vi sono specie di origine mediterranea e specie non mediterranee (es. la stessa rosa). L’elenco si amplia se si considerano come «mediterranee» anche le specie naturalizzate, alcune delle quali connotano sotto il profilo della flora alcuni ambienti (fico d’India, agave, robinia, ailanto, ecc.). Le condizioni del clima mediterraneo sono, infatti, nel complesso favorevoli per una molteplicità di specie esotiche. Così nel recente testo della Gildemeister (2000) sul giardinaggio mediterraneo vengono elencate oltre 1000 piante, molte delle quali non sono però autoctone. Specie mediterranee vengono così considerate quelle compatibili con le condizioni dell’ambiente mediterraneo, compatibilità espressa dalla loro presenza ed utilizzazione nel verde ornamentale delle zone più termoxerofile del nostro Paese. Si tratta spesso di piante che, per peculiari tratti estetici, connotano ormai l’ambiente mediterraneo (es. agrumi, bignonie, palme, ecc.). 5.2.2.2. Caratteristiche dell’ambiente mediterraneo L’elevata influenza esercitata dalle condizioni ambientali sulla scelta della specie necessita di una puntuale conoscenza delle caratteristiche dei luoghi in cui le piante devono essere collocate, caratteristiche spesso ostative alla crescita delle piante in quanto si tratta di contesti difficili e marginali soprattutto se si fa riferimento a quelli urbani e/o antropizzati. L’ambiente nel quale dobbiamo operare, inoltre, è caratterizzato dalla presenza del clima mediterraneo che, come noto, è quello che connota il territorio circostante l’omonimo mare. Tale ambiente è unico al mondo, perché se è vero che esistono altre zone della terra che presentano caratte-ristiche climatiche simili (in California, in Sud Africa, nel sud-est della Australia, nell’America del Sud), queste non assumono il carattere «antropogenico» che è tipico del bacino del Mediterraneo. L’ambiente mediterraneo, infatti, si connota per la notevole densità di popolazione che lo ha caratterizzato sin dal periodo preistorico: è noto, infatti, che le principali civiltà occidentali hanno avuto origine sulle rive di questo mare. Per tali motivi il paesaggio è marcatamente segnato dalla presenza dell’uomo e dal suo intervento che ha modificato le stesse associazioni floristiche e faunistiche. In base alla classificazione di Köppen (1936) il clima mediterraneo rientra all’interno dei climi mesotermici (temperati) con estate secca. Tali climi presentano un ciclo termico stagionale ben definito, dipendente dalla forte variazione nei diversi mesi dell’altezza del sole all’orizzonte. In questi climi il regime pluviometrico ha importanza pari a quello termico nel determinare l’andamento climatico. I connotati specifici del clima mediterraneo sono dati dalla mitezza degli inverni, da un’insolazione effettiva che raggiunge, particolarmente in estate, una percentuale molto alta rispetto a quella teorica, dalla concentrazione delle precipitazioni, solitamente poco abbondanti, nei mesi più freddi, mentre l’estate è calda e quasi completamente arida. Questa associazione fra estati secche e inverni piovosi è una vera anomalia in quanto di norma in altri climi le precipitazioni sono più frequenti nella stagione estiva. Il regime termico è caratterizzato da inverni miti: le temperature medie del mese di gennaio oscillano, infatti, tra 6°C e 11-12°C; d’estate la temperatura si innalza notevolmente e raggiunge in alcune zone valori medi superiori a 22°C mentre quelli giornalieri possono superare i 40°C. Interessante è notare l’elevata somiglianza, almeno sotto il profilo termico, tra il clima mediterraneo e quello subtropicale; la differenza sostanziale è legata al regime pluviometrico (fig. 1). In relazione alla temperatura del mese più caldo - temperatura che dipende dalla posizione geografica - l’ambiente mediterraneo può essere distinto in due sottozone climatiche individuate da Köppen come Csa e Csb. La prima (con temperature medie del mese più caldo superiori a 22°C) comprende le zone orientali e le aree vicine del Medio Oriente; la

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seconda (con temperature medie del mese più caldo inferiori a 22°C e spesso a 20° C) le coste occidentali. L’escursione annua rimane di solito inferiore a 15°C lungo le zone costiere ed aumenta verso l’interno; per quanto riguarda la Sicilia, ad esempio, l’escursione termica raggiunge i 14° C a Palermo ed i 18,5° C a Caltanissetta. Relativamente alle caratteristiche pluviometriche si può distinguere un «regime mediterraneo di transizione» tipico delle zone a nord del 41° parallelo, caratterizzato da due picchi di piovosità in autunno ed in primavera e un «regime mediterraneo tipico» con precipitazioni concentrate nel periodo autunno-vernino ed un lungo periodo di siccità. La lunga stagione arida rappresenta il principale fattore limitante per la vegetazione. Altro carattere peculiare del regime pluviometrico è la notevole variabilità interannuale delle piogge. L’UNESCO e la FAO (1962) hanno suddiviso il clima mediterraneo in base all’indice xerotermico (x) che si può definire come il numero di giorni dell’anno che sono secchi ai fini biologici. Un periodo è definito secco quando la precipitazione (P), espressa in millimetri, è uguale o inferiore al doppio della temperatura media espressa in gradi centigradi (P
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