Appunti Filosofia Morale

October 13, 2017 | Author: Mario Lo Conte | Category: Friedrich Nietzsche, Truth, Martin Heidegger, Homo Sapiens, Metaphysics
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Università Degli Studi Di Napoli Federico II Dipartimento di Studi Umanistici - CDL Filosofia



"Spazi e tempi della vita tra scienza, filosofia e morale" Corso di Filosofia Morale 2013/14, prof. Paolo Amodio







Appunti, riflessioni e studio di Vittorio Esposito


Testi in esame

- F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale (qualsiasi edizione)

- H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987 (Parte Prima: Pensare, pp. 83-319)

- Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2007 (capitolo “L’intreccio – Il chiasma”, pp. 147-170)

- Viktor von Weizsäcker, Forma e percezione, Mimesis, Milano 2011 (saggio “Forma e tempo”, pp. 25-72)

- M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, pp. 110

- P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano 2004 (capitolo “La domesticazione dell’essere”, pp. 113-184)

Indice cronologico dei pensatori interessati



- Thomas Hobbes (1588 – Hardwick Hall, dicembre 1679) - René Descartes (1596 – Stoccolma, febbraio 1650) - Sir Isaac Newton (1642 – Londra, marzo 1727) - Immanuel Kant (1724 – Königsberg, febbraio 1804) - Johann Wolfgang von Goethe (1749 – Weimar, marzo 1832) - Charles Robert Darwin (1809 – Londra, aprile 1882) - Herbert Spencer (1820 – Brighton, dicembre 1903) - Franz Clemens Hermann Brentano (1838 – Zurigo, marzo 1917)

- Friedrich Wilhelm Nietzsche (Röcken, 15 ottobre 1844 – Weimar, 25 agosto 1900) Su verità e menzogna in senso extramorale (1873) - Carl Stumpf (aprile 1848 – Berlino, dicembre 1936) - Edmund Gustav Albrecht Husserl (aprile 1859 – aprile 1938) - Johannes Johann von Uexküll (settembre 1864 – Capri, luglio 1944) - Karl Theodor Jaspers (febbraio 1883 – Basilea, febbraio 1969)

- Viktor von Weizsäcker (Stoccarda, 21 aprile 1886 – Heidelberg, 9 gennaio 1957) Forma e percezione (1942-43) - Carl Schmitt (1888 – Plettenberg, aprile 1985)

- Martin Heidegger (Meßkirch, 26 settembre 1889 – Friburgo in Brisgovia, 26 maggio 1976) Lettera sull'”umanismo” (1946) - Jean-Paul Charles Aymard Sartre (1905 – Parigi, 1980)

- Maurice Merlau-Ponty (Rochefort-sur-Mer, 14 marzo 1908 – Parigi, 3 maggio 1961) Il visibile e l'invisibile (1959-64) - Hannah Arendt (Linden, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) La vita della mente (1978) - Michel Foucault (1926 – Parigi, giugno 1984)

- Peter Sloterdijk (Karlsruhe, 26 giugno 1947) Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (2001)


Introduzione agli appunti

La vita è un'invenzione recente. È uno dei meriti di M. Foucault aver mostrato che solo alla fine del XVIII secolo - con il consolidarsi del processo di secolarizzazione, con il compimento della matematizzazione del mondo e la lacerazione del legame tra le parole e le cose - la “vita” diventa un oggetto di conoscenza tra gli altri.

Che cos'è la vita? Essa è legata a qualcosa, diversa da esistenza o dall'essere; dopo Heidegger, spazio e tempo come si sono incontrati?

La filosofia è per molto tempo stata la mortificazione del corpo e della vita, in virtù di un'apologia del pensiero trascendentale. È la disfatta della metafisica che, dopo secoli di predominio sull'essere umano, e sul suo vivere in questo mondo - finalmente abbandona tale oppressione. Già Nietzsche comincia ad aggirarsi attorno al tema della vita, e fu tra i primi ad indicare una strada filosofica che prospettava di ritrattare e ripensare totalmente non solo concetti come vita, essere ed ente, essenza ed esistenza, etc., ma anche il linguaggio stesso con cui tali concetti si designano; si passa poi al tempo di Weizsäcker che ha sapientemente destrutturato l'oggettività delle percezioni, e della realtà, e definisce quei fondamentali complementari alla nuova soggettività moderna, la vita - come forma e tempo. E infatti fondamentale adeguarsi mentalmente alla concezione fenomenologia di Husserl, e poi di Merlau-Ponty. L'incursione del soggetto, e la sua inseparabilità dall'oggetto, nella sfera delle percezioni sono il punto di partenza di tale studio; attraversando l'ontologia heideggeriana, che la istituzionalizza con un linguaggio nuovo. Si arriva infine ad Hannah Arendt e Sloterdjik, che ne scansionano nuovamente tutti i passaggi, al fine di rendere possibile una comprensione che dia vita ad un postumanesimo, una ritrattazione ontologica per ridefinire i tratti fondamentali dell'uomo.



P.s.: I presenti appunti sono da considerarsi esclusivamente come tali, frutto di uno studio più ampio, e postumi alla lettura dei testi in esame; non sono del tutto originali, ma contengono estrapolazioni da fonti e riferimenti terzi. Tali fonti - che hanno argomentato questo studio, e sicuramente più valenti di quest'ultimo - non sono qui sempre citate; è necessario, pertanto, un'attento lavoro critico e complementare di verifica dei contenuti, e dell'interpretazione di questi. Tuttavia, mi auspico che questo possa essere d'aiuto a chi voglia o debba intraprendere un tale studio filosofico, delineandone quantomeno i passaggi generali. Detto ciò, vi saluto e a buon rendere! 


Friedrich Wilhelm Nietzsche



Biografia

Anni giovanili

Friedrich Wilhelm Nietzsche nasce a Röcken, villaggio della Prussia meridionale (Sassonia-Anhalt) nei pressi di Lipsia, il 15 ottobre 1844. Appartiene a una stirpe di pastori protestanti, è primogenito di Carl Ludwig - reazionario monarchico, già precettore alla corte di Altenburg - e di Franziska Oehler, figlia anche lei di un pastore. Nel 1846 e nel 1848 nascono altri due figli, Elisabeth e Joseph (quest'ultimo morto nel 1850, per un'improvvisa febbre non meglio specificata). Il 27 luglio 1849 muore il padre, dopo un anno di "apatia cerebrale" (probabilmente un tumore, o la stessa malattia cerebrale che colpirà il figlio). In seguito a tali disgrazie la famiglia si trasferisce nella vicina Naumburg, dove Friedrich inizia gli studi di lettere classiche e religione. In famiglia apprende la musica e il canto. Si impegna in composizioni musicali vocali e strumentali, compone poesie, legge Goethe, Hölderlin e Byron. Già distintosi per le sue non comuni doti intellettuali, nel 1858 inizia a frequentare il Gymnasium di Pforta (come esterno beneficiante di una borsa di studio ecclesiastica) e due anni dopo, insieme agli amici Gustav Krug e Wilhelm Pinder fonda l'associazione Germania, con la quale si propone di sviluppare i suoi interessi letterari e musicali. Per questa associazione scrive alcuni saggi, come Fato e volontà e Libertà della volontà e fato, visibilmente ispirati dalla lettura di "Fato" e altri saggi di Emerson, specie quelli inclusi in "Condotta di vita" (1860), un'opera che è stata recentemente ritenuta fondamentale nella genesi del pensiero di Nietzsche. Conclusi gli studi secondari nel 1864, comincia gli studi nella facoltà teologica all'Università di Bonn, studi che reggerà per appena una sessione, e s'iscrive alla corporazione studentesca Franconia. Nel 1865 si iscrive all'Università di Lipsia per continuare a seguire le lezioni di filologia classica di Friedrich Ritschl, già suo insegnante a Bonn. Studia Teognide e la Suida, ma è più affascinato da Platone e soprattutto da Emerson e Schopenhauer, che influenzeranno tutta la sua produzione. Conosce nel 1867 Erwin Rohde, futuro autore di "Psiche", e approfondisce lo studio dell'opera di Diogene Laerzio, di Omero, Democrito e Kant, mentre un suo saggio su Teognide appare nella rivista filologica Rheinisches Museum, diretta da Ritschl. Il 9 ottobre comincia il servizio militare nel reggimento di artiglieria a cavallo di stanza a Naumburg. Nel marzo dell'anno successivo si infortuna seriamente allo sterno cadendo da cavallo e a ottobre si congeda anticipatamente. Tornato a Lipsia, l'Università lo premia per il suo saggio sulle fonti di Diogene Laerzio e lo assume come insegnante privato. L'8 novembre 1868 conosce Richard Wagner in casa dell'orientalista Hermann Brockhaus. 


Grazie all'appoggio di Ritschl, il 13 febbraio 1869 ottiene la cattedra di lingua e letteratura greca dell'Università di Basilea, tenendovi, il 28 maggio, la prolusione sul tema Omero e la filologia classica, mentre l'Università di Lipsia gli concede la laurea sulla base delle sue pubblicazioni nel Rheinisches Museum. A Basilea conosce Jacob Burckhardt. All'età di 25 anni Nietzsche chiede l'annullamento della sua precedente cittadinanza prussiana. Dal 17 maggio aveva cominciato a frequentare, nella villa di Tribschen, sul lago dei Quattro Cantoni, Richard e Cosima Wagner, rimanendone fortemente colpito. All'inizio del 1870 Nietzsche tiene a Basilea alcune conferenze ("Il dramma musicale greco", "Socrate e la tragedia"), che anticipano il suo primo volume, La Nascita della Tragedia (1872). A Basilea stringe amicizia col professore di teologia Franz Camille Overbeck, che gli rimarrà vicino fino alla morte e sarà grande estimatore delle sue opere, nonostante la sua posizione accademica rendesse la cosa alquanto imbarazzante, considerate le vedute di Nietzsche in materia di religione.

L'esperienza della guerra e il lavoro filosofico

Allo scoppio della guerra franco-prussiana (1870-1871) chiede di essere temporaneamente esonerato dall'insegnamento per partecipare, come infermiere addetto al trasporto dei feriti, alla guerra. Dopo appena una settimana al fronte si ammala di difterite, viene curato e quindi congedato. Nel frattempo scrive La visione dionisiaca del mondo, abbozza La tragedia e gli spiriti liberi e un dramma intitolato Empedocle, in cui vengono anticipati con molta chiarezza molti dei temi che verranno in seguito ripresi nelle opere della maturità. Fra il 1873 e il 1876 scrive le quattro Considerazioni inattuali. Per motivi di salute (emicranie frequenti e dolori agli occhi), ma anche indubbiamente per dedicarsi con assiduità ininterrotta alla sua attività filosofica, Nietzsche all'età di 34 anni abbandona l'insegnamento. Gli viene riconosciuta una modesta pensione che costituirà, da quel momento in poi, l'unico suo introito. Inizia la sua esistenza da perfetto apolide, coi suoi pellegrinaggi da viandante senza casa e senza patria spostandosi da un luogo all'altro. Durante un breve viaggio a Messina e Taormina frequenta "l'Arcadia" locale e inizia a scrivere Così parlò Zarathustra. Durante la Pasqua del 1882 incontra a Roma, tramite la comune amica e nota scrittrice femminista Malwida von Meysenbug, Lou von Salomé una giovane studentessa russa in viaggio d'istruzione attraverso l'Europa. Questo incontro, proseguito poi attraverso due anni di intensi scambi affettivi e culturali, è molto particolare, in quanto si tratta di una delle rare esperienze sentimentaliaffettive di Nietzsche con una donna di cui si abbia conoscenza.

L'ultimo periodo e il collasso mentale

Nel 1888, con già molte pubblicazioni alle spalle, Nietzsche si trasferì a Torino, città che apprezzò particolarmente, e dove scriverà L'Anticristo, Il crepuscolo degli idoli ed Ecce Homo (pubblicato postumo). Nel 1889 avvenne infine il famoso crollo mentale di Nietzsche: è datata 3 gennaio 1889 la prima crisi di follia in pubblico; mentre si trovava in piazza Carignano, nei pressi della sua casa torinese, vedendo il cavallo adibito al traino di una carrozza fustigato a sangue dal cocchiere, abbracciò l'animale, pianse, finendo per baciarlo; in seguito cadde a terra urlando in preda a spasmi. Per molti è un episodio leggendario, e Nietzsche si sarebbe piuttosto limitato a fare vistose rimostranze e schiamazzi per i quali venne fermato e ammonito dalla polizia municipale. Le cause della sua malattia non sono del tutto chiare: sono state ipotizzate, tra molte, principalmente cinque-sei possibilità. Ricoverato dall'amico Franz Camille Overbeck, un teologo protestante e suo ex insegnante, a causa del suo stato alterato, che passava da momenti di esaltazione a tristezza profonda, prima in una clinica psichiatrica a Basilea (Svizzera) in cura dal dottor Wille, viene trasferito poi a Naumburg (Assia, Germania), per esser assistito dalla madre, fino alla morte di lei, e dalla sorella Elisabeth Förster Nietzsche poi. Trasferitosi quindi nel 1897 nella casa di Weimar (Turingia, Germania), dove la sorella ha fondato il Nietzsche-Archiv, vi muore di polmonite il 25 agosto 1900. La natura della sua follia rimane ancora parzialmente un mistero, data la plausibilità di tutte le ipotesi. Nei frammenti teorizzava l'autodistruzione della reputazione tramite una follia volontaria come una forma di ascesi superiore. Come molti hanno ipotizzato, la causa del collasso nervoso, come detto anche prima, fu forse l'enorme tensione, insopportabile per la sua mente, dovuta allo sforzo creativo e filosofico svolto negli anni precedenti, come accenna egli stesso in un famoso aforisma: « Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te » (Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male)


Cronologia e periodizzazione delle opere

La prima fase del pensiero di Nietzsche è caratterizzata dagli studi filologici e dalla passione per il mondo greco, dall'influenza della riflessione di Schopenhauer e dalla sconfinata ammirazione per l'opera di Wagner: La nascita della tragedia riunisce tali influssi per generare una nuova visione della civiltà greca. Nelle Considerazioni inattuali, Nietzsche accosta, nella polemica, Socrate a Strauss, Feuerbach e Comte: l'idea di un mondo che si svolge secondo un ordine oggettivo e conoscibile, ma non modificabile, rende insensata l'azione storica. L'uomo, sommerso dalla propria coscienza storiografica, è incapace di creare nuova storia: lo stoicismo è solo un altro aspetto del razionalismo, ispirato dalla fede riposta nella scienza dal positivismo. A tali segni di decadenza dell'uomo Nietzsche contrappone il ritorno alla cultura dionisiaca e la rinascita dello spirito tedesco, preannunciati nella filosofia di Schopenhauer e nella musica di Wagner.

- Aus meinem Leben, 1858 - Über Musik, 1858 - Napoleon III. als Präsident, 1862 - Fatum und Geschichte, 1862 - Willensfreiheit und Fatum, 1862 - Kann der Neidische je wahrhaft glücklich sein?, 1863 - Über Stimmungen, 1864 - Mein Leben, (La mia vita), 1864 - Homer und die klassische Philologie, (Omero e la filologia classica), 1868 - Die Teleologie seit Kant, (La teleologia a partire da Kant), 1868 - Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten - Fünf Vorreden zu fünf ungeschriebenen Büchern, (Cinque prefazioni per cinque libri non scritti) 1872 - Die Geburt der Tragödie, (La nascita della tragedia dallo spirito della musica ovvero Grecità e pessimismo), 1872 - Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen, (La filosofia nell'epoca tragica dei Greci), 1870-1873 - Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinn, (Su verità e menzogna in senso extramorale), 1873 - Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, (Sull'utilità e il danno della storia per la vita), 1874 - Unzeitgemäße Betrachtungen, (Considerazioni inattuali), 1876

Umano troppo umano inaugura la seconda fase del pensiero di Nietzsche, in cui il filosofo attua una radicale critica della cultura, in particolare della metafisica e della religione cristiana. La polemica antiscientifica e antipositivistica si attenua in vista di un riavvicinamento al sapere scientifico, concepito ora come disinteressato e libero da preoccupazioni metafisiche. Contemporaneamente il filosofo abbandona l'estetismo e la cieca ammirazione per Wagner (il Parsifal viene ora definito il culmine della decadenza europea), per esaltare la musica "mediterranea" di Rossini e Bizet. Egli matura inoltre la decisione di lasciare gli studi filologici "dotti e insipidi". Progetta pertanto di costruire una chimica delle idee e dei sentimenti morali che mostri come ogni produzione spirituale abbia una base materiale: tutte le verità sono storicamente situabili e l'evidenza di una proposizione non è segno della sua verità, ma dei fatto che essa corrisponde meglio di altre ai condizionamenti psicologici e sociali.

- Menschliches, Allzumenschliches, (Umano, troppo umano),1878 - Morgenröte, (Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali), 1881 - Idyllen aus Messina, (Gli Idilli di Messina), 1882 - Die fröhliche Wissenschaft, (La gaia scienza), 1882

La terza fase si apre con Così parlò Zarathustra: l'opera, di difficile interpretazione, è una requisitoria contro l'ideale della mediocrità e le varie forme di morale della rinuncia, fra cui Nietzsche annovera adesso anche la filosofia di Schopenhauer, causa il suo pessimismo e il suo rassegnato ascetismo. Il cristianesimo, in particolare, è caratterizzato dallo spirito di risentimento dei deboli verso i più forti, da una morale di schiavi che nega tutto ciò che è differente da sé. Alla morale della rinuncia Nietzsche contrappone l'aristocratica morale della totale affermazione di sé, dell'accettazione di tutto ciò che è terrestre e corporeo, della trasmutazione di tutti i valori: è la morte di Dio, la fine di ogni trascendenza, religione o metafisica, delle verità immutabili e dei sistemi di valori assoluti (nichilismo nietzschiano). Le nuove virtù, la fierezza, la gioia, la salute, l'amore, l'inimicizia, la guerra, l'amoralismo della politica di potenza e il senso di pienezza dell'arte. Il superuomo (o oltreuomo) è l'uomo totalmente indipendente dai valori tradizionali, l'uomo che si pone al di là del bene e del male: l'uomo superiore accetta con gioia la vita come è, e segue volontariamente la via che gli uomini del gregge hanno seguito ciecamente. In un mondo dominato dal caso e dall'irrazionalità, la sola necessità è quella della volontà che vuole riaffermare se stessa; il superuomo ha saputo identificare la propria volontà con quella del mondo, accettare la nonna terrestre che lo regge: egli è volontà di potenza incarnata. Le dottrine del superuomo e della volontà di potenza trovano il loro senso più compiuto in relazione al tema dell'eterno ritorno. Contro la tradizione giudaico-cristiana che attribuisce al tempo una direzione lineare e una struttura articolata in passato, presente e futuro, Nietzsche nega l'esistenza di un fine del corso storico che trascenda i singoli momenti. Significati e direzioni sono solo prospettive interne al gioco di forze della volontà di potenza: ogni momento, e ciascuna esistenza in ogni attimo, ha tutto il suo senso in sé. Il superuomo, grazie all'amor fati, all'accettazione gioiosa della vita così come è - nel passato, nel presente e nell'eternità -

deve costruire un'esistenza in cui ogni momento abbia tutto intero il suo senso: l'eterno presente della vita.

- Also sprach Zarathustra, (Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno), 1885 - Jenseits von Gut und Böse, (Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell'avvenire), 1886 - Zur Genealogie der Moral, (Genealogia della morale), 1887 - Der Fall Wagner, (Il caso Wagner), 1888 - Götzen-Dämmerung, (Il crepuscolo degli idoli, ovvero Come filosofare a colpi di martello), 1888 - Der Antichrist, (L'Anticristo), 1888 - Ecce Homo, (Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è), 1888 Nietzsche contra Wagner, (Nietzsche contro Wagner. Documenti processuali di uno psicologo), 1888 - Der Wille zur Macht, (La volontà di potenza: saggio di una trasvalutazione di tutti i valori), 1901


La "conversione" alla vita

A primo impatto, una suddivisione della vita letteraria di Nietzsche in tre periodi, costruiti su caratteristiche più o meno definite e anche antitetiche tra loro, può risultare semplice. Ma in realtà è presente un filo conduttore più profondo in tutti i momenti della produzione del filosofo, con elementi e caratteristiche che traslano, cambiano, si celano e ricompaiono. Importante è prendere in considerazione la sorta di svolta del pensiero di Nietzsche nello spostare la sua attenzione filosofica dal mero "pensiero" alla "vita" - quando comincia ad includere nelle sue speculazioni il "corpo": un tutt'uno con la mente, che deve essere tenuto in considerazione necessariamente per poter attingere ad una concreta e pratica analisi della vita.

"Mi prese un'impazienza per me stesso: vidi chiaramente che era tempo, che ero all'ultima occasione di ritornare a me stesso. D'un tratto mi apparve tremendamente quanto tempo fosse già stato sprecato - che aspetto inutile, arbitrario avesse tutta la mia esistenza di filologo rispetto al mio compito. [...] Avevo dietro di me dieci anni in cui non avevo imparato nulla di utilizzabile [...]. Alla mia scienza mancavano completamente le realtà, e le idealità chissà a che diavolo servivano! Mi prese una sete addirittura ardente: da quel momento in poi, di fatto, non ho praticato altro che fisiologia, medicina, scienze naturali..." (F. Nietzsche, Ecce Homo, 1888).

Nietzsche non ha mai letteralmente abbandonato la filosofia. Piuttosto, come già detto, egli si impone una nuova considerazione del corpo - della realtà tangibile e quindi della biologia - e lo include nel suo pensiero. Ne perviene quindi una suddivisione tematica di questo tipo:

Logos

- Aus meinem Leben, 1858 - Über Musik, 1858 - Napoleon III. als Präsident, 1862 - Fatum und Geschichte, 1862 - Willensfreiheit und Fatum, 1862 - Kann der Neidische je wahrhaft glücklich sein?, 1863 - Über Stimmungen, 1864 - Mein Leben, (La mia vita), 1864 - Homer und die klassische Philologie, (Omero e la filologia classica), 1868 - Die Teleologie seit Kant, (La teleologia a partire da Kant), 1868 - Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten - Fünf Vorreden zu fünf ungeschriebenen Büchern, (Cinque prefazioni per cinque libri non scritti) 1872 - Die Geburt der Tragödie, (La nascita della tragedia dallo spirito della musica ovvero Grecità e pessimismo), 1872

- Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen, (La filosofia nell'epoca tragica dei Greci), 1870-1873 - Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinn, (Su verità e menzogna in senso extramorale), 1873 - Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, (Sull'utilità e il danno della storia per la vita), 1874 - Unzeitgemäße Betrachtungen, (Considerazioni inattuali), 1876 - Menschliches, Allzumenschliches, (Umano, troppo umano),1878-79



Bios

- Morgenröte, (Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali), 1881 - Idyllen aus Messina, (Gli Idilli di Messina), 1882 - Die fröhliche Wissenschaft, (La gaia scienza), 1882 - Also sprach Zarathustra, (Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno), 1885 - Jenseits von Gut und Böse, (Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell'avvenire), 1886 - Zur Genealogie der Moral, (Genealogia della morale), 1887 - Der Fall Wagner, (Il caso Wagner), 1888 - Götzen-Dämmerung, (Il crepuscolo degli idoli, ovvero Come filosofare a colpi di martello), 1888 - Der Antichrist, (L'Anticristo), 1888 - Ecce Homo, (Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è), 1888 Nietzsche contra Wagner, (Nietzsche contro Wagner. Documenti processuali di uno psicologo), 1888 - Der Wille zur Macht, (La volontà di potenza: saggio di una trasvalutazione di tutti i valori), 1901

Su verità e menzogna in senso extramorale Über Wahrheit und Lüge in aussermoralischen Sinne, 1873



Verità e menzogna in senso extra-morale è un breve testo - scritto nel 1873 da un giovane Nietzsche, a un anno dalla Nascita della tragedia, e 14 anni prima della Genealogia della morale - nel quale chiare ed esplicite sono le affermazioni riguardo la verità, sia in relazione alla sua genesi nello ambito umano, sia al suo uso in quest'ambito.

Nello scritto possiamo rintracciare, senza nulla sottrarre alla ricchezza del testo, tre tipi di livelli d’analisi: uno gnoseologico, uno epistemologico ed uno eticoantropologico. Il primo ci informa riguardo l'attingere della verità, presunta tale, da parte dell’uomo e cioè il suo conoscere generico; il secondo ci spiega di quale verità stiamo parlando, ovvero del tipo di episteme inteso; il terzo interessa il rapporto dell’uomo fra se stesso e la società - un rapporto fra l’uomo e l'altro che deve essere necessariamente simile, ma che anche caratterizza proprietà immanenti all’agire umano. Questi tre livelli in realtà non sono altro che tematici, di fatto non possono essere scissi, in quanto vi è una intima influenza reciproca. Come si evince dal titolo dell'opera, Nietzsche analizza verità e menzogna al di fuori dei contesti della morale e dell'etica, partendo da concetti molto più lontani. Già i modi con cui si esprime la realtà sono menzogneri; persino la realtà stessa che, percepita dal senso della vista (principale senso descrittivo), passa dallo stimolo ottico a quello nervoso, poi diviene parola e da qui linguaggio: tutte metafore. Ogni essere umano rappresenta la realtà attraverso le parole, chiama le cose e così organizza il mondo. Nell'ambito della tragedia greca, nella disindividuazione da se, la menzogna era cosciente, e circoscritta a piccolo ambito. I "nomi" permettono di riconoscere sensazioni simili, mai uguali, e di appellarle nel medesimo modo; si riesce a vivere in un mondo abitabile, approssimativamente organizzato. Già la parola è menzogna, ma l'uomo (vivendo in branco, in gruppo) deve confrontarsi con parole dette da altri mentitori come lui, e quindi con il linguaggio. Un altro livello di menzogna, il linguaggio: esso esprime una relazione tra cose - che in realtà non hanno nome in sé - e parole. A cose uguali (o meglio simili), nomi uguali - in una convenzione artificiosa dell'uomo, comunemente accettata. Di solito le parole che si affermano sono le più efficaci, quelle più attinenti alla cosa da definire; non tanto per chi le produce, ma per tutta la società che deve comprendersi ed organizzarsi. Infine, a seconda della verità stabilitasi, si avranno produzioni dell'uomo differenti; è nella morale comunitaria che Nietzsche identifica delle antropotecniche: livello genealogico . Nell'ultima parte del testo - in cui si sentono fortemente residui dell'opera La nascita della tragedia, scritta dal filosofo l'anno precedente - Nietzsche perviene alla considerazione di due tipi di uomini, l’uno razionale l’altro intuitivo, l’uno che persegue alla costruzione per riparo, l’altro che di contro decostruisce, forma e sforma, tiene le mani così a fondo nel molteplice fenomenico che la sua difesa sta proprio nello scherno della vita.


(livello gnoseologico ed epistemologico)

"Che cos’è una parola? Il riflesso sonoro di uno stimolo nervoso. Ma dedurre dallo stimolo nervoso l’esistenza d’una causa fuori di noi, è già il risultato d’una falsa e indebita applicazione del principio di causalità"1  

Gia verso la prima parte del testo Nietzsche espone la sua riflessione riguardo il linguaggio, ove chiara è la posizione nominalista assunta; il linguaggio non è una fedele rappresentazione delle cose, e dal testo si può ricavare uno schema che può spiegare meglio la gnoseologia nietzschiana:

1. La realtà, esterna all'uomo, viene percepita mediante stimoli nervosi provenienti dai sensi. Già in questa trasposizione si evince una prima metafora. 2. Segue un'altra trasposizione dello stimolo nervoso in un'immagine riprodotta, seconda metafora. 3. L'immagine si tramuta, infine, tramite una cristallizzazione impropria, in suono e quindi concetto, terza metafora.

"Essi sono profondamente immersi in sogni e illusioni, il loro occhio scivola soltanto sulla superficie delle cose e non vede che «forme», in nessun modo la loro sensibilità conduce al vero, bastandole di ricevere stimoli ossia di giocare un gioco tattile sul dorso delle cose".

L'uomo che inizialmente conosce il mondo, lo fa attraverso i sensi, componendo man mano un'esperienza sensibile; è qui che si assumono questi dati sensibili come forme. La natura in se, come essa è in realtà, per noi è inarrivabile e inaccessibile; essa si presenta ai nostri occhi come forme, che l'uomo però concepisce come la realtà vera. Ora l'uomo nomina queste forme (sebbene al di fuori di noi potrebbero non esistere), e crede che queste si appellino in se proprio come l'uomo le chiama. A questo punto si comincia a capire come sono legati fra di loro il discorso epistemologico e quello gnoseologico.

"Che cos’è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete".

"La dimenticanza di ciò che è reale e individuale ci dà il concetto così come anche la forma, là dove invece la natura non conosce né forme né concetti, e neppure generi, bensì soltanto una X per noi inattingibile". 1

Susseguono cit. da Su verità e menzogna in senso extramorale, F. Nietzsche, 1873.



Qui si intrecciano i due temi. Quello gnoseologico - l’uomo non è che un essere che costruisce forme, si mette in moto per costruzioni concettuali, “columbarium di concetti”, che cristallizzano le esperienze, si serve ovvero di qualitas occultae per privilegiare, invece, una fissazione che è corruzione o perversione del piano genuino dei sensi - e quello epistemologico: la dimenticanza, ovvero l'obliare che forme e relazioni sono mere costruzioni convenzionali, e lontanissime dalla verità stessa. L'uomo mente per forza di assuefazione dell'utilizzo di secoli di tali metafore, egli mente inconsciamente, così diventa un mentitore inconsapevole. Egli costruisce un mondo di metafore che ha per fondamenta delle menzogne convenzionali, prese non più come tali, ma come verità. Proprio per tal motivo, si ricerca la motivazione di questa tendenza costruttrice tipicamente umana che fa invidia al mondo animale; cercando quindi la sua caratteristica antropologica, subentra anche un discorso di tipo etico: dalla possibilità del pervertimento della rappresentazione sensibile, nasce lo spazio necessario della menzogna, e della verità.

"L’intelletto, come mezzo per la conservazione dell’individuo, sviluppa le sue forze più importanti nella simulazione; infatti è questo il mezzo attraverso cui si conservano gli individui più deboli, meno robusti, visto che a loro è negato di condurre la battaglia per l’esistenza con le corna o con i morsi laceranti degli animali feroci. Nell’uomo quest’arte della simulazione tocca il suo culmine: qui l’ingannare, l’adulare, il mentire, e il fingere, lo sparlare dietro le spalle, il rappresentare, il vivere in una magnificenza d’accatto, il mascherarsi, le convenzioni che servono a nascondere, il recitare una parte dinanzi agli altri e a se stessi, in una parola l’incessante svolazzare intorno a quella fiamma che è la vanità, tutto ciò così spesso è la regola e la legge che niente è più inconcepibile del fatto che tra gli uomini possa emergere un impulso onesto e puro verso la verità".


(livello etico-antropologico)

Proprio tale caratteristica antropologica ci porta sulla strada del discorso etico, l’uomo mente a sé stesso quando crede di aver fissato in forme la sua esperienza sensibile, i qualia; mente ancora, la seconda volta, quando si allontana dal giudizio comune, dal “codice dominante”. Si può ora delineare il terzo livello, quello eticoantropologico, andando a ricapitolare il tutto:

1) Finché si è soli, si nominano cose e forme, assunte da mera esperienza sensibile, con suoni/parole/verbi che ne la natura, ne alcun animale, ne tantomeno nessun altro uomo comprenderà al di fuori di se stessi; si mente gnoseologicamente a se stessi. 2) Nel momento in cui v'è l'intrinseco bisogno umano di vivere in relazione con altri uomini, nasce il consequente bisogno di potersi comprendere l'un l'altro; si stabiliscono allora dei suoni/parole/verbi, convenzionali e uguali per i più, in modo che si possa "parlare la stessa lingua", rapportarsi e viversi ordinatamente. Accade però la dimenticanza che tali denominazioni artificiose, e "trasposizioni arbitrarie", siano solo metafore convenzionalmente stabilite per rendere possibile l'esistenza comunitaria; accade che per secoli ci si è abituati a chiamare la realtà con questi o quei nomi, che li abbiamo elevati a fondamento stabile della conoscenza, dimenticando che sono trasposizioni, menzogne atte a semplificare la vita. È la grande bugia epistemologica che l'uomo continua a ripetersi inconsapevolmente. 3) Sono proprio tali menzogne comunemente accettate da tutti - seppur necessarie per potersi comprendere nella vita ordinaria - che compongono la verità del "codice dominante". E in egual modo, specularmente, nasce la figura del mentitore, ovvero colui che si allontana da suddetto codice e usa denominazioni sbagliate volontariamente.

Quando si crea una tale convenzione, ognuno è tenuto a dire le cose nello stesso modo, e chi non lo fa diviene mentitore. Nietzsche analizza la questione partendo dal supporre che non è il mentitore ad essere mal visto o odiato dalla comunità/società; piuttosto è il danno che la frode causa, ad essere odiato. L'uomo mente a se stesso, per ottenere stabilità e sicurezza, e vuole in ogni modo mantenerle: egli fugge da ogni danno che nuoce alla stabilità e che minacci la sicurezza di una vita ordinata razionalmente; anche fosse proveniente dalla verità, spaventato dalle sue traballanti e imprevedibili conseguenze, l'uomo si difenderebbe egualmente sia dal danno creato dalla menzogna, sia da chi diffonde questa. Egli preferisce rifugiarsi nelle benefiche e consolanti rassicurazioni della verità, o meglio delle sue conseguenze positive. La ricerca della verità aiuta l'uomo nella sua esistenza, gli facilita la sopportazione di questa; un "pathos" della verità, un impulso a ricercare e smascherare le frodi menzognere, per aggiungere, mattone dopo mattone, un'altra evanescente verità all'edificio di un muro contro le insicurezze e i timori del caos. Quell’impulso verso la formazione di metafore - impulso fondamentale dell’uomo di cui neppure per un attimo non si può non tenere conto, perché allora non si terrebbe conto dell’uomo - è in continua attività; spinto come e con i suoi prodotti evanescenti, ossia i concetti, viene edificato un nuovo mondo, regolare e saldo come un baluardo.

Nasce prima la verità, o prima la morale? La verità ha un carattere relazionale: essa non è buona in sè, piuttosto sino le sue conseguenze ad essere positive per la società. Nel momento in cui c'è qualcuno che mente, attraverso il linguaggio, e fa danno alla società, a causa delle conseguenze negative della menzogna - anch'essa relazionale quel tale viene preso di malocchio dalla società: è qui che nasce la morale, il dover dire la verità poiché alla società nuoce chi non lo fa, chi mente; è rispettoso, è giusto, e quindi è morale dire la verità nei confronti di chi, nella medesima società, dice anch'egli il vero. La verità può essere metaforicamente paragonata alla salute: finché il nostro corpo e l'insieme dei rapporti fenomenici che compongo la salute funzionano in modo equilibrato e regolare tra loro, noi non vi facciamo caso; analogamente, se viviamo nella verità, non vi facciamo caso: è la menzogna ad essere notata dall'individuo, e da coloro che subiscono le sue dannose conseguenze. La morale è quindi ciò che indirizza la società verso precetti che fanno bene alla stessa, che non la nuocciono e che anzi la proteggono. Se la morale esprime la comunità, per Nietzsche non è solamente questo; all'interno della società esistono individui tutti diversi tra loro, che hanno volontà di potenza diverse tra loro, e "vite" differenti; la morale coincide quindi con l'utilità sociale e comunitaria, l'obbiettivo comune. In relazione a verità e menzogna, non tutti gli individui che compongono tale società sono propensi ad una simile utilità sociale: ciò che è vero e morale, non lo è necessariamente per tutti; solo coloro che non vogliono subire le conseguenze immorali e dannose della menzogna, sono propensi a comportarsi secondo le buone direttive dell'etica. In effetti, Nietzsche comincia a distaccarsi - a partire dagli anni ottanta del 1800 - dal positivismo di Spencer e affini, e comincia ad interessarsi alla vita in senso stretto. Egli rinviene nel sistema spenceriano una confusione tra la risposta alla domanda «cosa devo fare?» e la ricerca delle origini della morale. Ancor più che nella teoria darwiniana in sé, il filosofo tedesco vedeva in Spencer il problema maggiore perché questi, vestendo i panni del “Darwin della psicologia”, poteva con la sua teoria dell’adattamento incoraggiare l’istituzionalizzazione di una società in cui l’individuo avrebbe funto da adeguato utensile e, peggio ancora, non avrebbe aspirato a niente di meglio, se non al fine della conservazione dello status proprio e di “un ambiente le cui coordinate sono ben riconoscibili.” Il serrato confronto con Spencer sulla dinamica degli istinti, porterà Nietzsche a dichiarare “di aver individuato qual è l’istinto che pertiene alla formazione della morale moderna e all’elezione del suo sistema di valori: l’”istinto gregario” o “istinto del gregge” (Heerdeninstinkt), conformazione che trova nella paura la sua determinante originaria. A seconda della verità che si sceglie di seguire, si otterrà una comunità diversa, e uomini differenti: è in questo senso che verità e menzogna sono antopotecniche, ovvero tecniche di formazione dell'uomo.



Nell'ultima parte del testo, Nietzsche menziona due tipi di uomini, come già detto, riferendosi a quei modelli presocratici, evidenza dei residui del periodo tragicofilologico del filosofo, sebbene in traslazione verso una maggiore attenzione al tema della vita.

"Entrambi vogliono dominare la vita: l’uno, in quanto sa affrontare le principali necessità con accortezza, intelligenza e coerenza, l’altro in quanto è una sorta di «eroe traboccante di gioia» che non vede quelle necessità e considera reale solo la vita che la simulazione trasforma in apparenza e in bellezza".

Secondo Nietzsche, lo spirito greco delle origini era dominato dall'impulso dionisiaco, cioè dal sentimento della fondamentale caoticità dell'essere: è il trionfo di Dioniso, dio dell'ebbrezza, dell'orgia e della passione, che trova la sua migliore espressione nella musica. Vi è un secondo impulso, quello apollineo, che corrisponde invece all'immagine tradizionale della classicità, quale serena e limpida armonia di forme, è per il filosofo solo la reazione di una sensibilità morbosa e decadente dell'irrazionalità e dell'eccesso dell'esistenza: spirito razionale la cui espressione più compiuta è la scultura. I due impulsi si compongono nella tragedia di Eschilo e di Sofocle. L'uomo "apollineo" aridizza e razionalizza il fenomeno, l’altro invece si arricchisce di questo, seppur necessariamente condannato a fare i conti con un continuo spaesamento caotico. Come uno scienziato contrapposto ad un artista. Il primo, passa la vita a costruire concetti, ripulirli e aggiornarli, producendo cultura e conoscenza; il secondo, l'artista, vive nello stesso mondo dello scienziato, ma lo rappresenta in modo onirico, come se giocasse con i concetti, li mescola e ne tira fuori una realtà che non esiste. Entrambi vogliono prevalere sull'altro: entrambi sono soggetti creatori, in modi diversi ma entrambi costruiscono concetti.

Nella Nascita della tragedia (1872), Nietzsche si sofferma sulla prima parte della produzione tragica greca; egli comincia a partire del coro, dal corteo in cui "attori" prendevano parte in senso religioso. Un processo di disidentificazione di tali partecipanti, e l'assunzione - in maniera catartica - di qualcos'altro, qualcosa di diverso dalla ordinaria identità: ciò permetteva di assumere e sopportare la vita in tutte le sue condizioni, anche quelle oscure e negative del male. È questa fase della tragedia greca ad interessare il filosofo, poiché derivante dalla musica - descrive un mondo caotico, colmo di passioni ed emozioni - è messa in scena dello spirito dionisiaco. L'uomo presocratico, privo di inibizioni etiche e razionali, è colui che affronta la vita attraverso l'arte, colui che rende sopportabile l'esistenza senza negare il carattere dell'esistenza. L'arte può fare questo, in particolare la musica, creando e inventando. Ma la produzione della tragedia, da Socrate in poi, si trasforma; il maestro rappresenta la figura simbolica di una visione del mondo razionalistica e ottimistica, della filosofia della scissione di soggetto e oggetto, del primato dell'intelletto sull'istinto e sulla passione, e del disprezzo per la libera e innocente creatività dionisiaca. Con Socrate si impone all'uomo l'ideale della scienza e della mediocrità, di una vita solo teorica: prevale il sentimento di sicurezza, dato dalla pretesa esistenza di un vero ordinamento

dei mondi. In effetti, il teatro greco si affilia allo spirito razionale e apollineo, fino a soffocare lo spirito dionisiaco, e destabilizzare l'equilibrio tra le due forze opposte: ciò che il filosofo definisce il suicidio della tragedia, o almeno quella da lui intesa come tale. Questo sopravvento della razionalità nella produzione tragica, indica che il modo di concepire generalmente il mondo si era trasformato anch'esso; da una visione caotica e disordinata del mondo, si diffonde l'intellettualismo socratico che concepisce un mondo razionale e ordinato. Già con Socrate quindi si giustifica razionalmente l'esistenza umana, ma ancora di più con l'iperuranio platoniano: un mondo sopraelevato alla terra, ove risiedono essenze eterne, perfette, immutabili, dalle quali derivano tutte le figure intellegibili della terra, ovvero mere immagini/riproduzioni/copie imperfette. Così Platone trova un'ulteriore giustificazione intellegibile e razionale del funzionamento del mondo: è l'intelletto che fonda il mondo, cosa che Nietzsche attaccherà profondamente, attribuendo proprio a Socrate, e poi Platone, il suicidio della tragedia. Verità e menzogna sono egualmente presenti in entrambi i due modelli di uomini. La verità resta quello strumento di difesa contro il caos dell'instabilità e delle incertezze; le conseguenze positive della verità rafforzano e riparano quei concetti metaforici che l'uomo ha costruito nel corso dei secoli. D'altro canto, anche la menzogna resta sempre tale: sono da allontanare quegli effetti negativi causati dai mentitori, e le loro frodi, che destabilizzano la sicurezza razionale di quel mondo di illusioni già descritto. È bene ricordare che l'uomo razionale, come l’uomo intuitivo, si lasciano sempre ingannare finché la menzogna è a loro d’aiuto, e finché gli effetti negativi della loro menzogna non vengono scoperti e condannati. In effetti l'uomo apollineo si è espresso, nel corso dei secoli, attraverso la scienza: la ricerca di una verità che, avvolta da una metafisica sacralità, non si pone più il problema dell'uomo umano, ma piuttosto di un'empia ricerca di concetti evanescenti, posti come salde fondamenta di uno statico mondo. Essa ha dato vita ad un vero e proprio problema morale: il suo compito, la finalità della scienza, mira a disincantare al massimo; la ricerca scientifica si propone di non voler ingannare nemmeno se stessa, in quanto fatta da uomini. Ma questa ricerca, diviene già una ricerca metafisica della verità stessa, come fosse un'attenta fede da seguire; la scienza costruisce, un mondo che non è lo stesso della "vita". E tale verità scientifica dell’uomo razionale sta sacrificando una fede dietro l’altra, portando ad una desertificazione nociva, che doveva essere invece sempre bilanciata dalla presenza dell’uomo intuitivo, ossia da quello che è lo spirito dionisiaco. Nietzsche arriva il concetto di collettività come l'insieme dei singoli apollinei, che hanno una volontà di potenza più fiacca e che non riescono ad imporre la propria verità. Ed è così che essi si riuniscono in classi, in comunità, in collettività che sono comunque "deboli". La categoria di communitas, ha a che fare con la comunità, con ciò a cui la comunità obbliga l’individuo per poterne far parte e ciò che ne deriva in termini di disciplinamento, governo e limitazione della libertà dell’individuo, che mette a repentaglio l’identità stessa del singolo, a protezione della comunità. Communitas è l’insieme di persone unite non da una “proprietà”, ma, appunto, da un dovere o da un debito, quindi da una mancanza, da un onere, un limite. Poiché c'é sempre un noi che prevale rispetto all'io; difatti ciò era già conclamato all'epoca, e si nota, ad esempio, negli scritti anche di Marx, ove si parla di classe e non di singoli. 


Poco prima, anche Darwin, alla domanda "cosa e chi evolve", aveva risposto "la specie"; e già prima del Dio di Nietzsche, moriva l'Adamo di Darwin, compreso che l'uomo è prodotto da un'evoluzione naturale e biologica, non creazione divina: evolve sempre la specie, non l'individuo. Più vicino ai giorni nostri, anche Peter Sloterdijk sostiene che "l'uomo è un prodotto", non finito, ma costantemente aperto a nuove evoluzioni: esso si è forgiato, e quindi formatosi attraverso ibridazioni, mescolanze ed influenze con l'altro da sé. In quest'ottica evolutiva, anche una volontà di potenza superiore, una genialità fuori dal comune tende a sacrificarsi proprio per quella comunità, per quella società condivisa e debole, affinché si realizzi il cosiddetto "noi"; un'individualità forte e capace di fare del bene, viene sprecata in un'ottica evoluzionista. Se il fine ultimo è la collettività, l'individuo verrà appiattito, neutralizzato in virtù di un'evoluzione comunitaria e condivisa; non è da intendersi come martirio delle libertà dionisiache, ma piuttosto sacrificio al fine di conseguire un obiettivo. Tale sacrificio del singolo per la collettività, è proprio in funzione alla propria evoluzione, che puó concernere solo tutta la specie e non il singolo individuo. Da qui l'abbagliante incursione dell’inestricabile nesso tra bios e nomos - di cui Nietzsche in quest'opera getta le basi - albori di una bio-politica, intesa non come insieme di pratiche di mediazione, ma come riconoscimento ed espressione immediata della potenza della vita, caratterizzante un costante tentativo di immunizzare il singolo dal rischio gregario della communitas e del debito totalizzante, a protezione della sua individualità. Il testo Su verità e menzogna in senso extramorale (1873) è molto importante, non solo in se stesso, ma per tutta l'intera produzione filosofica di Nietzsche. Esso contiene la particolare questione della morale, approfondita anni dopo in opere più consistenti e che si conclude con la Genealogia della morale (1887). Nietzsche è il primo che si sofferma e "scopre" il fatto che anche l'uomo, come essere finito, è plasmabile così come lo sono tutti gli esseri viventi (questione poi ripresa da Darwin). Come per il lupo che è stato plasmato dall'uomo ed è addomesticato in cane - esistono diverse razze, alcune più docili e altre più feroci, anche l'uomo è diviso in razze diverse tra loro. A partire dalla scolastica della teologia cristiana l'uomo è animo, mentre il corpo uguale per tutti; dalla fine del '600 e '700 inoltrato, il corpo non è più estraneo alla definizione di uomo, ma comincia ad essere incluso nelle considerazioni filosofiche. Nietzsche comincia a considerare la possibilità che si possa lavorare filosoficamente anche sul corpo, per plasmarlo e trasformarlo; egli comincia a sospettare che l'uomo, dalla Grecia classica sino a tutta l'Europa, sia stato lavorato su se stesso. Quando individui si riconoscono in sistemi morali e vi aderiscono in larga scala, (etiche nicomachea e aristotelica, poi quella cristiana, etc.), vengono cresciuti, allevati, prodotti diversi tipi di uomini: attraverso determinati precetti morali, abbiamo elevato tipi umani diversi tra loro; e se attraverso la morale è possibile lavorare sull'uomo - così da plasmarlo e formarlo sino a farlo divenire una "razza" - allora essa può essere definita un'antropotecnica, ovvero una tecnica (apprendibile e riproducibile) di produzione dell'uomo. La morale quindi, per Nietzsche, è il più grande strumento per poter trasformare e influenzare la produzione umana. Esistono uomini che hanno un grande quantum di potenza, ma che non possono esternare poiché inibita dai precetti morali cui questi tali seguono; senza quei principi o precetti, quell'energia assopita avrebbe

potuto produrre una società diversa. Darwin, insieme con il cugino Dalton, si pone il problema della formazione delle razze, già prima degli studi veri e propri di genetica; pensano al fatto che le stesse tecniche di accoppiamento che l'uomo utilizza per gli animali - relative alla miglioria delle varie specie e razze o alla riduzione delle malattie genetiche - potrebbero essere applicate anche all'uomo. Pur essendo fortemente teoriche, quest'argomento era all'ordine del giorno in quegli anni; già prima della Germania nazista, in America e in alcuni stati europei si imposero restrizioni etniche ai matrimoni. L'uomo abita una società che subisce fortissimi e continui cambiamenti, siano industriali, economici, lavorativi, soggetta anche a nuove discipline scientifiche, che operano scoperte sconcertanti; eppure i valori morali, non cambiano, perdurano e sono sempre i medesimi: il filosofo sottolinea il fatto che siamo in un mondo in continuo divenire, in trasformazione perenne e su cui non si potrebbe costruire nulla di stabile; l'uomo è riuscito invece a costruire una conoscenza che attraversa il cambiamento, e servendosi della morale è riuscito a mantenere la forma di se stesso nel tempo.


Viktor von Weizsäcker



Biografia

Medico e antropologo (Stoccarda 1886 - Heidelberg 1957); studiò a Tubinga, Friburgo, Berlino e Heidelberg, dove si laureò in medicina nel 1910 e dove divenne primario di neurologia nel 1923. Nel 1941 divenne docente di neurologia all'Università di Breslavia, e nel 1945 tornò a Heidelberg come professore di medicina. Weizsäcker dedicò i suoi studi al rapporto tra la malattia ed il profilo psicologico del malato e a quello tra medico e paziente. È noto, in oltre, per i suoi studi pionieristici sulla medicina psicosomatica e per le sue teorie riguardanti l'antropologia medica. A partire dalla psicologia della Gestalt, ha elaborato il concetto di Gestaltkreis, "ciclo della forma", relativo alla costante rimodulazione degli eventi biologici attraverso l'esperienza: le forme (nel senso della psicologia della Gestalt) percepite sono il prodotto di un processo di interazione fra percezione e movimento, mente e corpo, soggetto e oggetto in cui i due termini, se pur non emergono simultaneamente, sono connessi nel "ciclo" come un tutto organico. Manifesto del suo pensiero fu Patosophie (1956): ispirandosi alle dottrine del suo maestro, l'internista L. von Krehl, all'esistenzialismo di M. Heidegger e alla psicanalisi Weizsäcker applicò alla medicina le sue concezioni teoriche, insistendo sulla necessità di considerare la malattia organica in rapporto alla personalità del malato, sul significato psicologico ed esistenziale che la malattia esprime per l'individuo malato e sulle implicazioni che ne risultano per il rapporto medico-paziente e la terapia in generale. Espose queste sue concezioni, da lui denominate patosofia, nell'opera dallo stesso titolo; fu pioniere in Germania dell'applicazione al trattamento delle malattie organiche e funzionali di procedimenti psicanalitici rielaborati nel quadro di una "patologia antropologica" di notevole originalità e profondità speculativa. Gli scritti di Weizsäcker sono infatti di alto valore filosofico, poiché partono appunto da una speculazione teoretica - ove vi è una propria e convinta considerazione del mondo, e ancor di più della vita. È a tal proposito l'interesse verso lo scritto Forma e percezione (1942), che più avanti si tenterà di comprendere ed analizzare.

Tra le altre opere: Der Gestaltkreis (1940); Gestalt und zeit (1942); Wahrheit und Wahrnehmung (1943); Der kranke Mensch (1946); Natur und Geist. Erinnerungen eines Arztes (1954); Patosophie (1956).


Introduzione ai concetti di "vita" e "ambiente", prima di Weizsäcker.

Vi è una sostanziale differenza tra il mero esistere, e vivere. Vivere significa conoscere, la vita stessa conosce: tutti i sistemi viventi sono dei anche sistemi cognitivi, i quali per poter sopravvivere e convivere nel mondo, devono poterlo percepire e conoscere. L'organismo è in stretta correlazione con l'ambiente che lo circonda; in effetti in questo periodo la nozione di ambiente - che sino al XIX secolo designava l'etere come sua definizione fisica - e quindi la sua concezione, cambiano ampiamente. nel 1838, Comte introduce la parola ambiente nell'ambito della biologia per la prima volta. Ma gli unici organismi capaci di poter influenzare l'ambiente - non nella sua individualità - ma nella sua intera totalità, sono quelli appartenenti al genere umano. Egli analizza il mondo dei viventi da una concezione ancora fisica della biologia, sebbene l'intuizione degli ambienti - comunque contrapposti e interagenti solo attraverso regole definite. Tutto ciò fino a Darwin, che comincerà un intreccio molto importante tra fisica e biologia. Allora ciascun soggetto vivente diviene costruttore del proprio ambiente; tutti i sistemi viventi sono costruttori di mondi; ciò che noi cambiamo ambiente, è piuttosto un insieme di ambienti, ognuno proprio del sistema vivente che l'ha costruito. A sostenere fortemente questa linea filosofico/biologica fu un famoso zoologo, Jakob von Uexküll, che comincia ad analizzare specie animali, alcune dei quali anche poco studiate e comincia a teorizzare una diversa concezione dell'ambiente. Attraverso una fenomenologia della zecca, egli esemplifica il concetto di ambiente/mondo; la zecca reagisce a tre soli stimoli: quando la femmina gravida si posiziona su un ramo e attende il passaggio di un animale, un primo stimolo olfattivo (l'acido butirrico emesso dai follicoli sebacei dei mammiferi) le suggerisce di lasciarsi cadere; grazie a un organo sensibile alla temperatura capisce se è caduta su un animale; se ha avuto fortuna attraverso il tatto si posiziona su uno spazio di pelle nuda conficcandosi fino alla testa in modo da poter succhiare il sangue caldo. Una volta sazia si lascia cadere, depone le uova e muore. Sebbene limitato in confronto al nostro questo è un mondo a parte; dove la scienza classica vedeva un unico mondo, comprensivo di tutte le specie viventi disposte gerarchicamente, von Uexküll pone un'infinita varietà di mondi percettivi, collegati fra loro anche se reciprocamente esclusivi. Ciò può essere utile all'uomo per tentare lontanamente di comprendere il mondo di una zecca - totalmente diverso da quello di un pipistrello o da quello umano: ogni sistema vivente, seleziona il proprio ambiente e lo costruisce secondo le proprie necessità vitali.



Forma e tempo Gestalt und zeit, (1942)



Nelle prime pagine dell'opera - presentando così un discorso tutto visibilmente architettato da occhi e mani scientifiche, seguendo attentamente i criteri logici della dimostrazione - Weizsäcker introduce e definisce in modo embrionale i concetti di forma e tempo, citando Goethe. Cos'è la forma? Innanzitutto la forma non è nulla di fermo, definito e immobile. Al contrario, essa è un continuo divenire ed evolvere - inarrestabilmente in movimento; cioè che si mostra ai nostri occhi, è soltanto un frammento di una forma, che già non è più tale. "[...] queste però non sono manifestamente né inizio né fine, ma piuttosto esse stesse qualcosa di divenuto e diveniente".2 La forma è qualcosa di mutevole, e segue delle precise regole che talvolta sono in contrapposizione con quelle del classico mondo della fisica. In particolare, diviene paradossale la relazione delle forme biologiche con il tempo - quello ordinario meccanico-spaziale. In effetti, già nell'introduzione, si apre la fondamentale disputa intorno alla quale ruota tutto il discorso di Weizsäcker: l'irrisolta contesa delle percezioni (delle forme) tra la biologia e la fisica. Il meccanicismo fisico, che spesso prevale, è l'analisi oggettiva, pratica e scientifica della realtà; il vitalismo biologico è piu una pratica filosofica, prevalentemente teorica. Un vitalista, quando analizza il corpo affetto da una patologia, più che trovarne la causa e il rimedio, egli osserva il decorso e la capacità del corpo ad autoripararsi; l'approccio meccanicistico è assolutamente antitetico a questo, poiché comincia con lo studiare il corpo come una macchina, attraverso gli strumenti della fisica e della matematica con processi, parti e funzioni ben definiti da regole e leggi, decscrivibili e analizzabili - metodo che trova la sua massima rappresentatività nel voler costruire droni e automi sulla base del corpo umano. Le percezioni e gli organi di senso seguono quindi le leggi di quale ambito, fisico o biologico? Una questione ancora irrisolta, da cui il "patosofo" parte: egli vede l'apice della poeticità nella disputa tra Goethe e Newton (che, defunto, non ha mai potuto difendersi da sé) - con il primo che scrisse la Teoria dei colori (1810), criticando aspramente il fisico. In effetti, il poeta - innamorato della vita aveva un estremo bisogno di credere nella forza dell'individuo e nella sua indipendenza dalla natura - tentò di dimostrare (in un tempo in cui non esisteva la fisiologia, o la biologia) l'esattezza del vero delle percezioni umane, la corrispondenza tra percezioni e una verità reale; non avendo un ambito in cui collocare la sua teoria, tentò di argomentate in termini fisici e scientifici, che prevedibilmente ebbero scarsi risultati. Ne conseguì che sia il testo di Goethe, sia il suo tentativo di valorizzare la percezione dei sensi, vennero entrambi sottovalutati. 
  

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Da qui cito V. von Weizsäcker, da Forma e tempo.

Il tentativo che Weizsäcker sapientemente ha fatto, è stato quello di recuperare le argomentazioni utili del poeta tedesco, estrapolarle e collocarle nel proprio ambito di discussione - un nuovo ambito di discussione, che egli con questo testo cerca di creare cercando di superare così quel dualismo nelle scienze naturali di cui si è accennato, e ripristinare l'unità della natura. Questo dualismo, tra le scienze naturali esatte e quelle descrittive, è quello che W. vuole risolvere per riportare le scienze ad unità; per fare ciò, egli parte dal concetto di percezione ed introduce l'inadeguatezza della fisica classica. Le misurazioni fisiche divengono erronee quando applicate al mondo della biologia, gli strumenti di misura sono inadatti, come lo sono altrettanto le unità di misura; le scienze esatte presuppongono la costanza e la logica delle leggi naturali, per poter effettuare delle osservazioni. Lo studio delle forme, invece, non può essere statico; esso deve muoversi insieme al volgere della forma, insieme al sul divenire. Solo così si può almeno tentare di ovviare errori di parallasse, per usare termini fisici. Weizsäcker esemplifica differenziando stimolo ed eccitazione: lo stimolo è il dato oggettivo che viene percepito, esso può essere misurato con metodologie e strumenti propri alla fisica - come ad es. la notte ed il buio sono stimoli per il sonno; l'eccitazione, e quindi la reazione, è la risposta dell'individuo a un determinato stimolo: questa al contrario non risponde alle domande della fisica, ne può essere misurabile con tali strumenti - poiché incostantemente imprevedibile, e interconnessa ad altri fattori non causali: il suddetto stimolo del buio, non implica necessariamente il dormire; la risposta allo stimolo del buio è il sonno - determinato da varie situazioni che possono essere stanchezza, stress, etc. Analizzando lo stato di un determinato atto biologico, non sarà possibile ricercare scientificamente le cause delle reazioni agli stimoli ad infinitum, seguendo una coerenza metodologica fisica; in effetti, bisognerebbe regredire non uno stimolo o una reazione, ma un'intero sistema ambientale precedente, con annesse le intere esperienze, che a loro volta sarebbero connesse con sistemi ed esperienze ancora precedenti, e così via - non è plausibilmente realizzabile. Evidentemente l'incostanza dell'atto biologico nel rispondere o meno ad uno stimolo, implica il fatto che tra stimolo, eccitazione e reazione vi sia un'incognita, importantissima e necessaria affinché ci possa essere la scelta dell'individuo, ed il suo adattamento suggerirebbe Darwin; quest'incognita, e la sua propria incostanza dell'esserci o meno, è inevitabilmente legata al concetto di tempo e percezione, che sono il tema vero della trattazione. Ecco che W. differenzia il tempo biologico da quello oggettivo: il tempo oggettivo, lineare, è diverso da quello biologico; esso sussiste al di là di chi lo subisce, proprio perché oggettivo e uguale per tutti. Ma ci sono delle inadeguatezze che il tempo classico della fisica mostra quando misura atti biologici, quali W. evidenzia attraverso l'esempio dell'uovo e la gallina: il tempo oggettivo non può dire nulla rispetto a cosa sia nato prima, poiché vittima del paradosso; caso diverso se di riferimento all'ambito della "casualità meccanica, che attribuisce sempre a ciò che precede temporalmente il primato causale su ciò che segue". Al contrario, è piuttosto l'atto biologico che definisce il tempo; è il determinato stadio dell'essere uovo o gallina a costruire il tempo (soggettivo) di tale atto biologico. È questo il cambiamento di prospettiva che propone Weizsäcker: "è la direzione dello sguardo che determina la direzione del tempo - non il contrario". Il punto temporale

biologico non è determinabile su di un "asse oggettiva", piuttosto è esso stesso a determinare - non un punto d'arrivo - un punto di partenza dal quale si possono formare asserzioni come prima, dopo, quanto prima, quanto dopo, troppo presto o tardi, etc.; già si può riconoscere che il tempo biologico, quello che viene strutturato dalla forma, è costruito differentemente da quello lineare. Deve risultare chiaro che allora la forma non nasce o esiste nel tempo, ma "il tempo nasce e passa nella forma come principio e fine, come durare e trapassare". Mentre il tempo oggettivo scorre in un presente, che è già passato per una metà e non ancora futuro per l'altra; il tempo biologico al contrario concepisce un presente strettamente collegato con il suo stesso passato e futuro, presupponendo conservazione e anticipazione. Un altro brillante esempio in Forma e tempo, ove l'autore si serve delle diverse andature del cavallo: a seconda del passo, trotto, galoppo o carriera, la velocità del cavallo cambia, e cambia il suo rapporto con il tempo; è ancora una volta l'atto biologico a determinare il tempo, non il contrario. Il tempo della fisica è in successione lineare, quello biologico è prolettico - nel senso della particolare caratteristica percettiva umana. Sorge il problema che tutto ciò quanto detto sin ora, implica il fatto di non poter fissare alcun atto biologico su quell'asse temporale lineare e oggettiva, perciò impossibile collocarlo passato (determinatezza non modificabile) e nel futuro (indeterminatezza imprevedibile). L'imprevedibilità del futuro, in contrapposizione alla determinatezza del passato, è una debolezza nel calcolo fisico - proprio a causa della possibilità di essere tanto approssimato, quanto imprevisto. Per la biologia, invece, Weizsäcker trova un altro accesso al problema, che spiega con l'esempio della partita di scacchi: perché il famoso gioco di logica abbia luogo, l'elemento essenziale è il non conoscere le mosse dell'avversario; l'indeterminatezza del futuro della partita, l'imprevedibilità dello sfidante è la condizione operante che permette la fattibilità della partita. Così in biologia, esistono dei principi attivi, degli atti di movimento, generazione, etc. che sono possibili proprio per grazie a tale imprevedibilità; si può caratterizzare ciò come conforme a legge in un indeterminismo metodologico. Inoltre, finché un evento biologico non si è formato, non è possibile determinarlo ante festum, esso è imprevedibile finché non si è costruito: non sono le condizioni dell'atto biologico a determinare, ma è la sua realizzazione che svela le forze condizionanti. Per poter fondare una ricerca metodologica universale, essa deve supportare sia legalità - nel senso del rispetto degli assiomi e regole della fisica - che sviluppo, ovvero il considerare gli oggetti d'osservazione in costante movimento, e l'adeguarsi a tale movimento per poterli studiare: bisogna che essi si completino a vicenda, in un metodo che W. designa come "complementarismo". Bisogna quindi verificare le condizioni affinché un tale metodo possa essere attuabile. "Il tempo biologico è presente che getta un ponte sul tempo" - ma non è mai solo presente, ma sempre e comunque un "ponte" che lega a se passato, e futuro. Quel che subito si evince è che tanto la legalità, quanto lo sviluppo, "sono centrati nell'attualità di un presente". Ne consegue l'analisi di un'altra importante divergenza tra le considerazioni fisiche e quelle biologiche, ovvero la costanza/incostanza: il generico mantenimento dell'identità, il ripetersi uguale a se stesso - che in fisica è inessenziale - in biologia è di primaria importanza, per quanto gli elementi costitutivi di un atto, e l'atto

stesso, sono in incostante movimento e cambiamento, e l'energia affluisca e defluisca continuamente. In biologia, è la modificazione che crea sempre l'uguale; ma accade anche che lo stesso stimolo provoca reazioni diverse in tempi differenti. Allora ne consegue che "la vita è là dove, in ogni momento, un indeterminato diviene invariabile. L'indeterminatezza si completa con l'invariabilità della vita." Non che venga causalmente determinato attraverso qualcosa di futuro, e nemmeno scaturito da un'idea "kantiana" - lo sviluppo è una relazione tra attesa e compimento. Solo se questi si completano reciprocamente, "nel senso che il dopo realmente completa il prima", lo sviluppo adempie una legge. I fenomeni viventi, considerati come fenomeni della materia, vengono considerati in biologia, tanto conformi a leggi quanto soggetti a sviluppo. Tutto ciò riguarda sia l'osservatore, che l'oggetto:"se vogliamo in qualche misura giungere alla vivente intuizione della natura, dobbiamo comportarci in modo altrettanto mobile e formativo, secondo l'esempio con il quale essa ci viene incontro" (J.W.Goethe, Zur Morphologie). Ma la forma, è da considerarsi in ottica kantiana - possibilità trascendentale priva di forma - oppure secondo la visione di Goethe, ossia realtà formata in movimento? Per rispondere a tale quesito, Weizsäcker introduce un excursus necessario alla sua presentazione sul tema della percezione sensibile. La percezione presenta diverse incongruenze con l'andamento del tempo fisicospaziale. Oltre all'incostanza tra già citati stimolo, eccitazione e reazione, vi sono particolari caratteristiche della percezione quali nomofilia e nomotropia. Queste due caratteristiche, presuppongono il fatto che tra l'esposizione ad un fenomeno formato e la realizzazione di tale forma nella percezione, vi sia un lasso di tempo più o meno breve, a seconda dell'accordanza (nomofilia) o discordanza (nomotropia) della forma percepita, con le leggi fisiche che governano l'ordinaria realtà. In effetti, la visualizzazione mentale di una percezione di una forma è più o meno veloce, distorta, apparente, etc., a seconda se la forma sia riconoscibile nell'ordinaria memoria, o sia irregolare. La percezione è capace, e preferisce rappresentare in modo intuitivo le leggi geometriche e meccaniche, "l'occhio vede al meglio i movimenti che rappresentano le più semplici leggi di geometria, meccanica, fisica, e astronomia". Il carattere delle forme percettive è "anamnestico-prolettico". Altri due caratteri importantissimi alla conclusione della presentazione di Weizsäcker, sono prolessi e anamnesi. La prima è quella caratteristica dell'uomo che tende a completare con il pensiero un atto biologico in procinto di verificarsi, ma non ancora verificatosi, in relazione al movimento che ne risulta, in relazione alla sua direzione. Il nostro occhio, già osservando in prima istanza la direzione possibile di un determinato fenomeno, include e vede cose che in realtà non sono presenti sullo sfondo. La facoltà dell'anamnesi - l'attività mentale che completa un movimento, donando forma a tale movimento - viene spiegata invece attraverso un esempio particolare; con l'aiuto dell'esperimento dello "stroboscopio", ove la percezione costruisce una sola forma a partire da due oggetti distinti e in sé immobili, egli presenta l'anamnesi: attraverso un atto della rimemorazione del percorso (impossibile nella fisica, poiché essa non possiede memoria), la rappresentazione di passati in successione che danno forma al movimento. Tale simultaneizzazione delle successioni di un formato in movimento mostra ancora una volta che il tempo biologico è essenziale alla comprensione di un

simile evento, laddove la fisica con i suoi strumenti non può intervenire. È la formazione di una struttura temporale soggettiva, quella che riesce a conciliare in un presente assolutistico, - come ponte tra passato e futuro - la transitorietà delle "vacillanti forme" in continuo divenire e la loro regolarità costante. Risulta quindi necessario una sincronizzazione metodologica tra le scienze esatte, con le proprie impostazioni fisiche, e le scienze descrittive/biologiche, che presuppongono strutture differenti. È dalla percezione sensibile, che ci si rende conto di un'inevitabile collaborazione tra tempo oggettivo, che scansiona il verificarsi del fenomeno percettivo, e tempo biologico, scandito e costruito intorno alla percezione. Sebbene possano presentarsi discrepanze di tipo percettivo-spaziali tra fenomeno esperito e fenomeno percepito (vedi l'esempio della sedia girevole, da Forma e tempo, pag. 61), il fatto che le nostre percezioni, e la mente in generale, sia ben disposta ad accogliere forme che seguono parametri fisici e lineari - evoca un'insita rivalutazione della sfera sensoriale e percettiva: essa è capace di scovare e leggere le regole fisicogeometrico-matematiche, comportandosi in maniera diversa a seconda di esse. Estrapolare il vero attraverso la percezioni sensibili, vuol dire tirare in gioco una logica della sensibilità, una logica inconscia dei sensi: essi diventano così strumento per misurare il mondo, conoscerlo. Ma ciò non è a senso unico: come il pensiero che amante delle leggi e delle regole, sottopone a validità logica e li sottopone a critica; così vi è un'altrettanta caratteristica speculare, eidofilia, secondo la quale ogni speculazione teorica è sempre volta in direzione di un'intuizione pratica che la rappresenti. È questa la sorta di continua collaborazione tra pensiero e facoltà sensibili, che specularmente la scienza logico-fisica insieme con la biologia deve condurre.

In definitiva - anche se in realtà provvisoria, poiché Weizsäcker sostiene più volte nel suo scritto che lo stesso è solo un abbozzo, uno schizzo in evoluzione e da definirsi il filosofo arriva alla concezione della biologia e dell'approccio ad essa, come "Gestaltkreis", ovvero circolo della forma. La percezione della forma (senso interno), secondo un tempo che non è lineare, dev'essere complementare e integrativa all'analisi del fenomeno oggettivo (senso esterno); una continua cooperazione tra Innenwelt e Umwelt, tra mondo interno dell'organismus e ambiente. Una pura concezione fisicomatematica puramente quantitativa, perderebbe non solo una tale cooperazione fondamentale, ma anche tutti i particolarismi e specificità di quel particolare atto

biologico. Weizsäcker, in effetti, si propone di radicalizzare il pensiero del sopra citato zoologo e biologo estone, e continua quel processo d'inserimento del soggetto antropocentrico nella biologia: l'esperienza vissuta degli organismi, applicata anche a quelli inferiori, rappresenta una rivoluzione epistemologica nel modo di pensare la biologia. La vita è realtà ibrida, in continuo rapporto con l'alterità, con l'ambiente esterno al di fuori di sé, come già s'è accennato; lo studio della vita, la biologia, si intreccia sempre di più con le leggi naturali, andando oltre poiché non dipende esclusivamente da queste. Nell'accezione moderna, ambiente sono le circostanze che generano delle influenze sugli organismi. "Gestalkreis" di W. ha un significato simile al "Funktionskreis" teorizzato da von Uexküll; sebbene le due nozioni teoriche hanno sfumature differenti. Ciascun atto biologico è un'unità imprescindibile di percezione e movimento. Percezione e movimento, per l'uomo, sono due atti scissi che vengono temporalizzati in una dialtettica lineare (prima uno poi l'altro). Al contrario, partendo dal fatto che gli organismi formano con il proprio ambiente un sistema unico, in cui in realtà questi due atti non sono scissi; la scissione ha una funzione piuttosto euristica, serve a l'uomo per semplificare la comprensione e lo studio degli organismi. Von Uexküll teorizza tre livelli di interconnessione tra ambienti e organismi: "Welt, unwelt, umgebung". Welt equivale all'ambiente basilare, ovvero il mondo, così come si presenta alla scienza, con le sue proprietà oggettive; unwelt si riferisce invece all'ambiente soggettivo, ovvero l'entrata nello studio scientifico la soggettività biologica. Ciascun ambiente, come ampiamente delucidato, è la personale e contingente nicchia che - lungi dall'oggettività del welt - ogni organismo diverso tende a costruirsi, selezionare e interpretare; a stimoli diversi, ambienti e mondi altrettanto diversi, relativamente accordati ai sensi e caratteristiche dell'organismo che li sceglie. Ma esso sceglie con autocoscienza? È qui che sta la grande differenza tra l'uomo e tutto il resto dei viventi. Tutti i viventi, tutti gli organismi che interpretano e selezionano l'uno o l'altro ambiente, ritagliano i propri dintorni in modo naturale e incosciente, e scelgono l'ambito geografico in base alle proprie caratteristiche vitali ed essenziali; sembra che ad organismi più completi ed evolutivamente avanzati corrispondano ambienti geograficamente più estesi. La umgebung viene a coincidere la umwelt dell'uomo, che a differenza all'intera varietà di specie organiche, è colui che ha l'accesso all'ambiente più vasto, il mondo intero. È quindi capace di descrivere i fenomeni e gli organismi che lo attorniano, e attraverso la tecnica, di riprodurne alcuni. Un importante fenomeno che si mostra importantissimo nella biologia contemporanea è il nuovo concetto di feedback, introdotto dai due biologi Francois Jacob e Jacques Monod; nel1961, i due biologi scoprirono per la prima volta un "feedback loop" osservando le cellule dell'Escherichia coli. La parola feedback indica la "retroazione" della natura, la capacità di un sistema di autoregolarsi, tenendo conto degli effetti scaturiti dalla modificazione delle caratteristiche del sistema stesso. Nei viventi, ad esempio, i sistemi a feedback negativo e positivo sono ampiamente utilizzati per regolare l'omeostasi dell'organismo. Quando un sistema infatti è soggetto ad una perturbazione, esso tende ad autoregolarsi, ovvero all'omeostasi, attraverso un feedback negativo: un dispositivo, stratagemma che segnala la perturbazione e che aiuta appunto l'omeostasi. In questo caso il feedback segnala un processo conservatore,

ma l'organismo, non tende solo all'omeostasi, e quindi all'equilibrio: l'evoluzione, il cambiamento quindi provengono da un feedback positivo, ovvero il reale e biologico tendere alla sregolatezza, al disordine, al cambiamento. Tutto ciò rimanda alla interpretazione nietzschiana del mondo, avendo qui due conferme a delle possibili evoluzioni del suo pensiero: l'assunzione da parte dello 'studio della vita' di un punto di vista, ove così viene superata epistemologicamente la dimenticanza cui Nietzsche fa riferimento quando parla del linguaggio; e la strabiliante scoperta del feedback positivo, che conferma il concetto che l'individuo possa essere predisposto al cambiamento, alla sregolatezza, al divenire indeterminato; è come un ribaltamento dell'umanesimo, in direzione di una rivalutazione di quello spirito dionisiaco di cui ci parlò Nietzsche. Così per riportare quell'unità all'interno e tra le scienze, e per risolvere quel dualismo contenzioso di cui si parla nelle prime pagine di Forma e tempo, bisogna cambiare e riformulare quindi le questioni da porsi: domande come «cosa accade?» rimandano ad una visione pretenziosamente oggettiva e fisica. Dopo quanto analizzato, bisogna chiedersi piuttosto «cosa è stato visto, cosa è stato esperito?» Comprendere quindi che si parte sempre da un punto di vista: il mondo non è la realtà, ma è l'insieme artificioso e simbolico in cui gli organismi hanno (inconsapevolmente) creato i propri diversi e innumerevoli ambienti; costruzione attiva di ambienti che insieme formano il mondo, analizzabile dall'uomo, senza obliare però che il punto di vista rimane comunque umanamente indiretto. Altri pensatori partiranno da questi nuovi presupposti filosofico-scientifici, su cui fonderanno il loro pensiero, quali M. Merleau-Ponty con cui Weizsäcker condivide molti aspetti importanti del suo pensiero, ma anche M. Heiddeger il quale con una concezione di ambiente e di esser(ci) più estesamente filosofica ed esistenziale, prosegue il discorso sull'individuo, e sulla vita nella sua accezione più ampia.


Martin Heidegger



Biografia

La vita di Heidegger si svolse pressoché interamente in Germania; egli infatti viaggiò pochissimo, quasi esclusivamente per alcune conferenze (come a Roma, Zurigo ecc.), o seminari. In sostanza, egli si dedicò per l'intera durata della sua esistenza all'insegnamento accademico e all'elaborazione delle sue opere filosofiche, alcune delle quali strettamente legate ai corsi universitari. Nato nel 1889 a Meßkirch, nel Baden, in una famiglia cattolica, compie i primi studi a Costanza e Friburgo presso i gesuiti, frequentando corsi di teologia. Dopo una convinta adesione al sistema di valori del cattolicesimo, a poco a poco tuttavia se ne discosta per preferire un orientamento religioso ispirato al protestantesimo luterano, finché nel 1919 dichiarerà: «convinzioni gnoseologiche coinvolgenti la teoria del conoscere storico hanno reso per me problematico ed inaccettabile il sistema del cattolicesimo, non però il Cristianesimo». Dopo essere intanto divenuto allievo del neokantiano Heinrich Rickert, conclude i suoi studi conseguendo nel 1913 il dottorato presso l'università di Friburgo con una tesi su La dottrina del giudizio nello psicologismo, di impostazione kantiana; due anni dopo vi ottiene la libera docenza con una dissertazione sul pensiero di Duns Scoto. Divenuto nel 1919 assistente di Husserl, inizia con lui un periodo di intensa collaborazione e di ricerca, in particolare riguardante Aristotele, Kant e Fichte; nello stesso tempo, svolge esercitazioni accademiche sulla fenomenologia seguendo l'indirizzo tracciato da Husserl. Fra il 1923 ed il 1927, divenuto professore presso l'università di Marburgo, svolge corsi su diversi temi filosofici, in particolare sull'ontologia medievale; in questo periodo comincia il distacco da Husserl, che si concretizzerà poi nella pubblicazione, nel 1927, di Essere e tempo, la sua opera principale, dedicata al suo maestro e tuttavia segnata da un'applicazione molto originale dei suoi insegnamenti circa la fenomenologia, dalla quale di fatto si allontana. L'opera sarà interpretata infatti come un approdo all'esistenzialismo, in quanto sono presenti profonde implicazioni con le tematiche esistenziali affermatesi in quegli stessi anni, anche in Francia, sulla scia di pensatori come Kierkegaard, Nietzsche, Dilthey, Bergson, Scheler e altri (si ricordi in particolare l'opera capitale di Sartre, Essere e nulla, di poco successiva). Sono altresì presenti considerazioni sull'"esperienza del tempo" vissuta dalle originarie comunità cristiane e sul significato del momento escatologico della parusia. Nel 1928 sarà quindi Heidegger a succedere, a Friburgo, alla cattedra che era stata di Husserl. A questi anni risalgono altre opere come Che cos'è la metafisica?, Kant e il problema della metafisica, L'essenza del fondamento (1929), e la conferenza dell'essenza della verità (1930).

Il coinvolgimento col nazismo

Il 21 aprile 1933 Heidegger è nominato rettore dell'Università di Friburgo, proprio mentre Husserl viene allontanato, a causa delle sue origini ebraiche, dall'insegnamento; è allora che aderisce, seppur brevemente, al partito nazionalsocialista. In quest'occasione egli pronuncia un discorso dal titolo "l'autoaffermazione dell'università tedesca", nel quale difende l'autonomia dell'istituzione universitaria rispetto alla cosiddetta "scienza politicizzata", ma senza alcun riferimento al Partito nazista. Nello stesso anno, tuttavia, il 3 novembre pronuncia un altro discorso, dal titolo "Appello agli studenti tedeschi", in cui si esprime in questi termini: «Non teoremi e idee siano le regole del vostro vivere. Il Führer stesso e solo lui è la realtà tedesca dell'oggi e del domani e la sua legge». A ogni modo si dimette dall'incarico di rettore nel 1934, pur continuando ad insegnare; da quel momento in poi Heidegger non parteciperà più direttamente all'azione politica del nazismo. Intanto, parallelamente alla vita matrimoniale con la moglie Elfride, aveva intrapreso sin dagli anni di Marburgo una relazione sentimentale con la filosofa ebrea Hannah Arendt, al tempo sua giovane allieva, caratterizzata dal forte ascendente del pensatore su di lei; la giovane studentessa riuscirà a riconoscere solo molto più tardi il coinvolgimento di Heidegger col nazismo, e in ogni caso resterà interiormente sempre devota al suo maestro, pur dissociandosi dalle sue idee politiche. Nel 1987 un libro di Victor Farias ha sollevato nuovamente la polemica, del resto mai sopita, sulla compromissione biografica e filosofica di Heidegger con l'ideologia e la vicenda storica del nazismo. Le tesi di Farias, tuttavia, sono state criticate a fondo da François Fédier, pensatore francese, allievo di Jean Beaufret, che ne ha denunciato la mancanza di basi documentali e l'intento esclusivamente diffamatorio. In ogni caso, ancora oggi molti ritengono che Heidegger non abbia mai pronunciato un'abiura esplicita riguardo al nazismo, sebbene egli in realtà abbia fornito varie spiegazioni del suo coinvolgimento politico, come, ad esempio, in un'intervista al periodico tedesco Der Spiegel, pubblicata, per suo stesso volere, dopo la sua morte. Molte sono state le reazioni e le interpretazioni, in particolare di condanna, seguite al coinvolgimento politico del pensatore tedesco. Alcuni suoi allievi o discepoli, come Karl Löwith o Emmanuel Levinas, hanno preso le distanze sin dagli anni Trenta e Quaranta, sottolineando anche quanto l'esplicito anti-umanismo dell'opera heideggeriana abbia contribuito, in un certo senso, all'elaborazione di un'ideologia totalitaria negatrice dei diritti umani, quale quella nazista. Altri, come Hans-Georg Gadamer, hanno preso le difese del maestro, sottolineando la superficialità di molte accuse, spesso scarsamente documentate e tendenziose, che non tengono conto di come Heidegger, nei suoi corsi degli anni '30, abbia anzi cercato di mostrare il fondamento nichilistico del nazismo, soprattutto in relazione al biologismo razziale. Altri ancora, come Jürgen Habermas, hanno preso una posizione per certi versi neutrale e maggiormente filosofica; secondo Derrida il cosiddetto «silenzio di Heidegger sul nazismo» sarebbe scaturito dalla consapevolezza, da parte del filosofo, della propria inadeguatezza nel misurarsi criticamente con lo spirito di questa ideologia. Recentemente, l'intervista di Heidegger allo Spiegel è stata analizzata dal punto di vista filosofico e psicoanalitico, sulla base dei

principi della decostruzione: in particolare, l'intervista è caratterizzata da una serie di lapsus che tradirebbero la "cattiva coscienza" del filosofo di fronte alla "questione ebraica". La posizione di Heidegger nei confronti del nazismo rimane un argomento controverso, la cui discussione tra gli studiosi è ancora aperta.

La "svolta" e gli ultimi anni.

Dimessosi dal rettorato, ed evitando ogni coinvolgimento politico diretto, Heidegger aveva continuato a tenere i suoi corsi accademici, ma senza pubblicare più alcuna opera fino al 1942. Fra i corsi di questo periodo troviamo soprattutto quelli su Nietzsche, poi editi nel 1961, mentre del 1935 è la conferenza su L'origine dell'opera d'arte, e dell'anno seguente quella tenuta a Roma dedicata a Hölderlin e l'essenza della poesia. Alla caduta del regime nazista, per un'interdizione accademica predisposta dalle potenze occupanti nel periodo post-bellico, per alcuni anni fu allontanato dall'insegnamento, al quale verrà riammesso nel 1949 su sollecitazione di Jaspers, il quale era al corrente della compromissione di Heidegger col nazismo, ma ritenne ugualmente di prendere le sue difese. Cessata l'interdizione, nel 1947 Heidegger pubblica La dottrina platonica della verità, con una «lettera sull'umanismo», in cui prende le distanze dall'esistenzialismo umanistico in primo luogo di Sartre, allora molto diffuso in Francia, rilevando come, a differenza di quest'ultimo, la propria filosofia sia volta principalmente alla riflessione sull'essere, lontana dalla metafisica. Del resto è proprio in questo periodo che egli comincia a tracciare, attraverso una serie di saggi e conferenze come Sentieri interrotti, La questione della tecnica, L'abbandono, poi riuniti in varie raccolte, i temi di una «svolta» intellettuale (Kehre) che sposterà la sua ricerca dai temi più prettamente esistenzialistici a quelli riguardanti la verità dell'essere; per adeguarsi a questa svolta, anche il linguaggio delle sue opere diverrà sempre più vicino a quello della poesia e dunque più oscuro e ambiguo. D'altra parte proprio il tema del linguaggio e della poesia sarà messa in risalto in quest'ultima fase, come testimonia lo scritto In cammino verso il linguaggio del 1959, nonché gli incontri con poeti come René Char e Paul Celan. Nel 1969 Heidegger, a 80 anni, accetta un'intervista televisiva, svolta da Richard Wisser per la Zdf; in questa come in altre conferenze ed interviste giornalistiche degli ultimi anni, centrale è la questione della tecnica, assurta ad evento dell'essere che scuote l'uomo nel profondo, minacciandolo nel suo stesso fondamento. A ottantasette anni morirà a Friburgo, nel 1976.

Cronologia delle opere

Dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto (1915) Fenomenologia della vita religiosa (1919–20) Il concetto di tempo (1924) Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (1925) Essere e tempo (1927) Che cos'è metafisica (1929) Kant e il problema della metafisica (1929) L'essenza del fondamento (1929) Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-Finitezza-Solitudine (1929) L'origine dell'opera d'arte (1935–36) Hölderlin e l'essenza della poesia (1936) Contributi alla filosofia. Sull'evento (1936–38) La storia dell'Essere (1938–40) La dottrina platonica della verità (1942) L'essenza della verità. Sul mito della caverna e sul "Teeteto" (1943) L'essenza del nichilismo (1946–48) Lettera sull'umanismo (1947) Sentieri interrotti (1950) Il linguaggio (1950) Introduzione alla metafisica (1953) La questione della tecnica (1953) Saggi e discorsi (1954) Che cosa significa pensare? (1954) Il principio di ragione (1957) Identità e differenza (1957) L'abbandono (1959) In cammino verso il linguaggio (1959) Nietzsche (1961) Tempo e essere (1962) La tesi di Kant sull'essere (1963) Segnavia (1967) Ormai solo un dio ci può salvare (1969) Il trattato di Schelling sull'essenza della libertà umana (1971) Quattro seminari (1977)


Introduzione all'esistenzialismo heideggeriano, e il distacco da Husserl e Sartre.

Sin dagli albori del novecento, persisteva forte la consapevolezza che la filosofia tradizionale era entrata in crisi, in una sorta d'impasse in cui essa si era arenata; nasceva altrettanto forte il bisogno di riformarla, di ripensare a fondo l'accadere della filosofia occidentale nel suo insieme. Le scienze, all'epoca, erano entrate in crisi anch'esse: si pensi agli enormi cambiamenti del secolo precedente, alle nuove teorie evoluzionistiche, alla nuova rivoluzione industriale delle fabbriche - che da allora, non ha mai arrestato il suo enorme progresso tecnico-tecnologico; nel XIX secolo, travolgenti scoperte in campo fisico e scientifico, e personaggi - come ad esempio Einstein - che hanno scosso violentemente il mondo scientifico, mettendo in discussione leggi naturali credute assiomi. Heidegger si propone di assumere questo compito, se così si può dire; egli intende ripensare la filosofia dalle sue basi, una ricerca epistemologica per tirare fuori la filosofia dal circolo vizioso in cui era rimasta intrappolata. Il filosofo dell'accademia Friburgo non intendeva muovere questa o quell'altra pedina sulla scacchiera della tradizione filosofica; Heidegger di fatto ribaltò la scacchiera, sostenendo che le regole del gioco andavano riformulate, ripensate, poiché falsate da quel fardello della metafisica e della trascendentalità che la filosofia classica si porta dietro da troppo tempo. Egli vuole fondare una nuova fenomenologia, partendo però dall'Essere - nel essenza e nell'ente dal suo esserc-ci nel mondo, e gettato nella radura dell'essere; da qui progettare la propria vita e-sistendo nell'essere, proiettati verso un destino destinante. Pressato da alti burocrati per la pubblicazione di una qualche sua opera, Heidegger ricercò e mise insieme degli appunti, che rifinì in fretta sotto il nome di Essere e tempo - parte del progetto di un'opera più grande, però mai completata - che fu pubblicato nel 1927. Esso rappresenta una rottura epocale negli schemi speculativi della filosofia novecentesca, che rivoluziona la visione del mondo filosofico da un nuovo punto di vista, cercando di liberarsi del tutto dell'osteggiata metafisica.

Pur non volendo mai che lo si categorizzasse tra i filosofi esistenzialisti, il primo Heidegger, quello di Essere e tempo, apparentemente è vicino alla tesi sartriana, da cui poi il filosofo stesso si discosterà totalmente; è la sua giovane opera, e sicuramente la più importante, ad ispirare il filosofo francese Jean-Paul Sartre ed il suo esistenzialismo. L'esistenzialismo, quindi, a detta dello stesso Sartre (cfr. "L'esistenzialismo è umanismo") vuole essere una filosofia della responsabilità: l'uomo non ha scusanti di fronte alla scelta, è "condannato ad essere libero". Nessuno insomma può giustificarsi, e invocare la necessità di una determinata posizione, magari mascherandosi dietro a varie forme di determinismi (la volontà di Dio, oppure le leggi storiche/sociali), semplicemente perché anche la non scelta è una scelta. Il sentimento dell'angoscia, quindi, è intimamente connesso alla possibilità dell'uomo che ha di scegliere, che si pone davanti alle diverse possibilità; alla libertà dell'uomo. La libertà è intimamente connessa col nulla, e l'uomo nella sua esistenza convive con il non essere. Questo, come chiarisce Sartre in più punti, non porta ad una concezione pessimista, ma è una filosofia non consolatoria e della

responsabilità, perché sottolineando l'essere prima dell'essenza, invita l'uomo a "creasi una propria morale", a scegliere autenticamente, e nel momento in cui opera questa scelta a livello personale, in realtà sta scegliendo per l'umanità. L'uomo è ciò che sceglie, in questo senso, che non vi è un concetto, un'essenza predefinita dell'uomo prima della sua scelta, ma è esattamente quello che sceglie di diventare. Appena ne ebbe l'occasione, Heidegger spiega e si dissocia dall'esistenzialismo sartriano; nella «lettera sull'umanismo», delucida le sue ragioni spiegando che il filosofo francese, quando si riferisce all'esistenzialismo - all'esistenza che precede l'essenza "assume existensia ed essentia nel senso della metafisica, la quale, da Platone in poi, dice: l'essenza precede l'esistenza. Sartre rovescia questa tesi, ma il rovesciamento di una tesi metafisica rimane una tesi metafisica. Come tale, anche questa tesi resta, con la metafisica, nell'oblio della verità dell'essere". In effetti, nella stessa "lettera" Heidegger respinge pertanto ogni forma umanistica di etica, cioè che riconduca l'etica alla volontà e soggettività di «un'umanità che, come subiectum, è a fondamento di tutto l'ente», facendone qualcosa di intrinsecamente nichilista. L'unica etica possibile è quella che viene prima di ogni etica, che tenga conto di quella differenza ontologica che consente all'uomo di esperire la trascendenza dell'essere rispetto all'ente, e quindi di abbandonare la pretesa di impossessarsi dell'ente e di manipolarlo riducendolo a mero strumento della propria tecnica. Tutto ciò, come si evince, è appunto lontanissimo da quanto teorizzato da Sartre. Ma l'errore - come già accennato prima - non è da ricercarsi, secondo Heidegger, in questa o quella teoria; l'errore sta nelle regole di gioco, che sorreggono castelli e fortificazioni concettuali delle stesse, obliando che proprio le stesse regole fanno parte di un progetto metafisico. Infatti, la causa di questa deviazione della filosofia tradizionale, un tale fardello che essa si porta dietro e che ha viziato la coscienza; esso è riscontrabile sin dal presupposto cartesiano, ovvero da quella spaccatura tra 'res extensa' e 'res cogitans', dividendo l'essere in due grandi metà. Queste sono collegate tra loro, tramite l'ipotesi di Dio, il quale garantisce la connectio tra l'ordo rerum e l'ordo idearum, ovvero tra il mondo dei miei pensieri e il mondo delle cose; i miei pensieri dovrebbero riflettere perfettamente le cose, come specchio della coscienza - e se Dio fosse un 'genio maligno' cadrebbe anche l'ipotesi della garanzia di tale specchio. Kant e Husserl, sono gli ultimi rimasugli di quella dicotomia ontologica cartesiana; nel senso che presupponendo una separazione tra pensiero ed estensione, si costruisce tutta una filosofia della soggettività trascendentale, che pretende di svelare i misteri ed i segreti dell'architettura del pensiero, per arrivare a spiegare la costituzione degli oggetti, nel loro orizzonte e, alla fine, l'orizzonte stesso. È questo il tavolo di gioco che Heidegger ribalta: egli presenta nuove regole, in termini di esistenza (e non quella di tipo sartriano) ovvero dell'esser-ci nel mondo sempre e comunque aperto nel mondo, in un flusso di tempo che inevitabilmente scorre; è questo il passaggio e la dislocazione del pensiero, della coscienza, dal piano gnoseologico a quello ontologico, dal cogito all'esserci.


Edmund Husserl, maestro di Heidegger, merita un'attenzione particolare. Husserl fu allievo sia di Brentano, che di Stumpf - ed è da entrambi che riprende la distinzione tra il modo proprio ed improprio di presentazione della mente; H. spiega questa distinzione con un esempio: quando ci si trova davanti ad una casa, si ottiene una presentazione propria e diretta di questa casa nell'intuizione; ma se invece la si stesse cercando, e si disponesse solo di una descrizione (la casa all'angolo tra le strade tale e tale), allora questa descrizione sarebbe una presentazione indiretta ed impropria della casa. In altre parole, una presentazione propria è possibile solo quando si ha accesso all'oggetto presentato in maniera diretta, quando è attualmente presente. Una presentazione impropria si ha quando questo non è possibile, e bisogna ricorrere a maniere indirette, come segni, simboli, descrizioni, etc.. Un ulteriore elemento importante - che Husserl riprese da Brentano - è quello dell'intenzionalità; l'idea che la coscienza sia sempre intenzionale, cioè che sia diretta ad un oggetto, che abbia sempre un contenuto. Brentano definì l'intenzionalità come la caratteristica principale dei fenomeni psichici (o mentali), tramite cui essi possono essere distinti dai fenomeni fisici. Ogni fenomeno mentale, ogni atto psicologico ha un contenuto, è diretto a qualche cosa (l'oggetto intenzionale). Ogni credere, desiderare, ecc. ha un oggetto: il creduto, il desiderato. Brentano adopera l'espressione "inesistenza intenzionale" per indicare l'"esistenza" degli oggetti nella mente. Riprendendo Cartesio, Husserl propone di "mettere tra parentesi" (ovvero sospendere il giudizio, atto da lui definito in greco epochè) tutto ciò che si conosce; egli vuole costruire una nuova fenomenologia, che sia al contempo un metodo, con cui si parte appunto da ciò che appare. Dinnanzi al fenomeno, non potendone comprendere l'essenza sino a fondo, devo sospendere il mio giudizio, e limitarmi ad effettuare una descrizione di ciò che vedo, ciò che mi si mostra tramite i sensi: una mera descrizione di ciò che accade. Sospendendo il giudizio, quel che ne rimane è soltanto la relazione soggetto-oggetto; ciò che però si può trarre è il concetto che entrambi appartengono ad un orizzonte comune. E soggetto, e oggetto sono entrambi nel mondo, e subiscono il medesimo mondo - ad es.: il docente e gli alunni, che nella stessa aula diventano molteplicità. Questa sospensione del giudizio, come Descartes , può avvenire sino al tentativo di mettere tra parentesi anche la propria coscienza, non essendo ciò possibile. Per dirlo con termini husserliani, “è indubbiamente certo che io dubito”. Ma è anche certo che le mie cogitationes (ossia le cose che percepisco, rappresento, giudico, inferisco) non sono avvolte dal dubbio: “è assolutamente chiaro e certo che io percepisco questo o quest’altro”. Difatti, la coscienza husserliana, non è mai fine a se stessa; piuttosto è sempre diretta, tramite un atto di "puro guardare", a pensieri o percezioni definiti "cogitationes". Tali cogitationes sono puri fenomeni di conoscenza assolutamente slegati dall'esistenza. Husserl insiste sulla distinzione tra esistenza ed essenza: la prima consiste nel fatto che l'oggetto di una cogitatio esista realmente al di fuori della coscienza del soggetto pensante, mentre la seconda è il senso oggettivo e immanente nella coscienza che viene intenzionalmente attribuito alla cogitatio (ad esempio l'idea di rosso) In altri termini, non posso dubitare né di me come soggetto dubitante né delle percezioni che ricevo: non posso cioè dubitare del blu del divano che vedo, ad esempio.

Ciò non significa che il divano percepito esista effettivamente e sia fuori di me: questo, infatti, resta in dubbio. Significa piuttosto che “le figure di pensiero che io attuo realmente mi sono date, purché io rifletta su di esse, le rilevi e le ponga in un puro guardare”. In questa maniera, l’atteggiamento fenomenologico si configura come un “puro guardare” incentrato sulla “piena chiarezza offerta allo sguardo”: si tratta di una “chiarezza di tipo essenziale”, che ha cioè a che fare con le “pure essenze” e non con le esistenze. E la “trascendenza” che accompagna ogni conoscenza (vale a dire il fatto che le cogitationes rimandino a qualcosa di esistente in sé e fuori di me) resta comunque nel dubbio. Per Edmund Husserl, la fenomenologia è un approccio alla filosofia che assegna primaria rilevanza, in ambito gnoseologico, da un lato l'esperienza intuitiva e dall'altro i puri eventi intrapsichici; essa infatti guarda ai fenomeni (che si presentano a noi in un riflesso fenomenologico, e quindi da sempre indissolubilmente associati al nostro punto di vista (soggettività moderna), come punti di partenza e prove per estrarre da esso le caratteristiche essenziali delle esperienze e l'essenza di ciò che sperimentiamo. Ma quest'attenzione per il fenomeno, ovvero ciò che a noi è mostrato, deriva dal fatto che la coscienza ed il pensiero sono sempre diretti verso qualcosa (intenzionalità). Husserl sostiene che ciasciun fenomeno, è solo uno dei tanti modi di apparire di esso; ogni fenomeno è, secondo il fenomenologo, legato all'esperienza di ognuno di noi che lo intenziona in maniera diversa: non esiste l'apparenza di un oggetto univoca, ma questo muta nel tempo e appare diversamente in base a chi lo guarda e lo pensa. Egli vuole ripensare la verità, partendo dal coinvolgimento del soggetto e con l'oggetto; il soggetto che conosce l'oggetto non può dimenticare di essere nel mondo, non può mettersi distante da esso e pretendere di pensarlo su due piani diversi. Definita l'imprescindibilità soggetto-oggetto, e dato il presupposto che la percezione di tale oggetto è strettamente legate al soggetto percepente, tale fenomenologia si configura come "trascendentale", poiché essa si prefigura di studiare i fenomeni mentali "puri" legati alla percezione degli oggetti, quei "pensieri" diretti alle cogitationes; essa si configura quindi come uno studio degli eventi intrapsichici, presi come assoluti in quanto trascendenti la realtà esterna, cosa che ha fatto parlare i critici di un "platonismo husserliano". Ripulita dalla presunzione dell'esistenza di una realtà esterna, la coscienza può quindi accostarsi alla pura contemplazione dei suoi fenomeni interni, e in questo consiste in ultima analisi la Fenomenologia. La riduzione fenomenologica (o riduzione eidetica, dal greco eidos, cioè idea) serve proprio a questo, ed il suo ruolo epistemologico viene indicato chiaramente anche dal fatto che all'inizio Husserl parlasse proprio di una "riduzione epistemologica".

Distinti i pensieri di Sarte e di Husserl, ora si può tentare di traslare queste due tesi, verso l'approccio delle tesi heideggeriane. Con quella sospensione del giudizio dell'essenza ontologica, e dell'oggetto percepito, e del soggetto percepente, non rimane che l'orizzonte in cui sono compresi questi due, il piano su cui poggiavano entrambi: la temporalità. Essa è in realtà quell'orizzonte comune ove si svolge la relazione soggetto-oggetto, nella quale vi è un coinvolgimento inevitabile. Husserl lo definisce una sorta di sincronizzazione tra le coscienze che si pensano, anche affettiva ed emotiva. Questo è il punto di svolta: Heiddeger sostiene che, nel suo arrestare la sospensione del giudizio dinnanzi la temporalità che contiene tutte le relazioni fra enti, il suo maestro esegua un passaggio arbitrario e contraddittorio; si chiede se sospendere il giudizio su quell'orizzonte temporale sia dunque possibile. In effetti, una simile temporalità - di cui non si può sospenderne il giudizio, poiché altresì non sarebbe possibile trascorrere cognitivamente la propria vita nel tempo dell'esistenza - deve presupporre un garante della propria continuità e coerenza, che sia al di fuori di essa. Per fare ciò, vi è bisogno di una dimensione trascendentale atemporale in cui comunque un prevalere del soggetto riesca a pensare e sospendere la temporalità, e il contesto in cui è immerso. È questo passaggio che Heidegger contesta fortemente; al contrario il tempo è uno scorrimento, immaginando che il mondo sia sempre in costante movimento. Ed ecco che si comincia ad intravedere l'essenza della speculazione filosofica heideggeriana: bisogna comprendere l'essere a partire dall'esserci. Esclusivamente a partire dall'essere nel mondo, e-sistere aperti alla radura dell'essere - si può porre la questione dell'Essere. Qui sta la sostanziale differenza, con la quale il filosofo si distacca dal maestro, e successivamente si difenderà dall'accostamento al pensiero di Sartre. Il linguaggio che utilizza Heidegger - seguendo anche le considerazioni di Nietzsche sul linguaggio - è difficile e ostico, pieno di cacofonie e ripetizioni di parole; inoltre alle stesse parole vengono date sfumature di significato differenti, talvolta complicate da cogliere. Ma ciò è determinato dalla volontà di abbandonare del tutto la metafisica, anche delle parole di cui per tanto tempo si è appropriata e servita; allora egli tenta di evitare termini cari alla tradizione classica, e li traspone spesso in latino, per appunto delinearne la lontananza concettuale. I termini che contraddistinguono principalmente la speculazione in esame, «lettera sull'umanismo», sono la chiave per comprendere il senso heideggeriano. L'essere assume una nuova connotazione: non vi è un essere pensabile in sé, al di fuori del mondo; l'essere è sempre nel mondo, comunque e dovunque: dunque esser-ci, ove la particella -ci rimanda proprio a quell'imprescindibile ed inevitabile "gettatezza" nella radura dell'essere. La gettatezza è, secondo il filosofo, la provenienza ontologica dell'uomo; questi non è generato, non è creato, ma semplicemente gettato nell'esserci, dall'Essere stesso, e aperto alla radura dell'essere - ovvero ciò che si assume qui per "mondo", realtà sensibile. 


«lettera sull'umansimo», Brief über den «Humanismus», (1947)

«La lettera sull'umanismo» è una lettera con la quale heidegger risponde ad un intellettuale francese, Jean Beauffret, cui gli domandava attraverso scambi culturali epistolari, come restituire un significato alla parola umanismo. La lettera fu composta nel 1946, in segno di risposta alla famosa conferenza di Sartre del 1945 e dopo un lungo silenzio filosofico, e comparve parziale sulla rivista "Fontaine", con una prefazione dello stesso Beauffret. L'anno successivo fu riesaminata da Heidegger, ampliata e poi pubblicata; Beauffret sostiene inoltre l'esistenza di tre versioni della stessa, l'originale delle quali egli stesso ha perso in un taxi. In un tempo ove la Germania, non solo usciva sconfitta da una guerra mondiale, ma portava addosso un fardello enorme che è quello dei più grandi crimini commessi contro l'umanità (dunque inumani) durante questa guerra - Heidegger, che aderì persino al partito nazista, ebbe tuttavia un ruolo privilegiato nelle vie della cultura del dopoguerra; proprio grazie a quell'esplosiva tendenza intellettuale che aveva portato l'esistenzialismo sartriano ad un successo sempre crescente in tutti meandri culturali della Francia, e dell'Europa, il filosofo tedesco ebbe la simpatia dei letterati dell'epoca in quanto ispiratore dello stesso Sartre. Inoltre, con la pubblicazione della lettera, Heidegger rese note le tematiche dell'evoluzione del suo pensiero, rispondendo anche alla pressante richiesta di un'etica che completasse la sua ontologia - difendendosi dalle accuse di aver concitato il nazismo con un nichilista anti-umanismo. In questa lettera, ci si chiede se l'epoca contemporanea - testimone caratterizzante di una guerra terribile - consenta ancora un'operazione del genere; se abbia ancora senso porsi il problema di restituire significato all'umanismo, e all'uomo. E da qui che parte la critica della metafisica, e della tecnica: si giunge a desumere che la tecnica ha portato l'uomo lontano dalla sua essenza, poiché estrema ripetizione di strutture fisse e metafisiche. Non è questa la natura dell'uomo, e Heidegger è proprio da questo che inizia. Risalendo al detto di Eraclito, secondo cui «Ethos anthròpo daimon» («il carattere proprio dell'uomo è il suo destino»), Heidegger lo analizza interpretando etimologicamente la parola ethos come soggiorno, dimora (attraverso il linguaggio). L'uomo, non può imporre all'essere la sua verità, ma si deve piuttosto comportare, nei confronti di ciò che è, come nei confronti dell'ospite atteso: custodire e preparare la dimora, rammentando un incontro passato, e predisponendosi consapevolmente alla possibilità di un incontro futuro. Il suo umano essere-nel-mondo, connotato dalla ricerca del senso dell'essere quale fondamento della sua possibilità di scelta, viene ora interpretato come un soggiornare e-statico (ossia fuori di sé) nella verità dell'Essere, concetto dal resto già presente in Essere e tempo dove, come sottolinea Heidegger, il Dasein «esperisce l'esistenza estatica come "cura"». L'uomo diventa così il «pastore dell'Essere», «la cui dignità consiste nell'esser chiamato dall'Essere stesso a custodia della sua verità» e «la cui essenza, in quanto e-sistenza, consiste nell'abitare nella vicinanza dell'essere».



Tale riferimento all’essere deve essere la guida capace di ricondurre l’uomo nella giusta direzione. L’uomo ritrova la sua humanitas quando ex-siste, sta fuori - non nel senso di stare all’esterno di sé - ma di «essere aperto nel senso del ‘ci’, cioè nella radura dell’essere». «Ma l’esser-ci, a sua volta è in quanto è gettato. Esso è nel getto dell’essere che è il destino destinante» Si propongono così alla riflessione critica due direzioni: Da una parte, l'uomo che deve avviarsi per una "qualche" strade; dall'altra l'essere, il destino destinante. E-sistere significa riportare l'uomo alla sua humanitas, ovvero l'essere aperto fuori nella radura dell'essere, ossia il mondo, in direzione di ciò che è realemente il suo destino, ovvero la sua essenza, il suo essere uomo. In particolare nel corso universitario del semestre invernale 1929-30, poi pubblicato con il titolo di "Concetti fondamentali della metafisica", Martin Heidegger riprende il contributo fondamentale dato da Uexküll (vicino anche a Weizsäcker) alla storia della biologia mediante l'introduzione della nozione di Umwelt, ovvero di una totalità chiusa che Heidegger definisce anche come "il cerchio disinibente", all'interno del quale l'animale espleta le sue funzioni vitali; le relazioni che esistono con l'altro, sono unicamente azioni disinibitorie, atte alla sopravvivenza dell'individuo stesso. La peculiarità dell'interpretazione data da Heidegger alle scoperte di Uexkull - e di conseguenza all'indagine sul mondo-ambiente proprio degli animali, consiste nel tentativo, svolto in questo corso, di differenziare dal punto di vista ontologico, più ancora che qualitativamente, l'animale dall'uomo. "L'uomo è il grande asceta della vita": egli è capace anche di andare contro la propria vita, può decidere di non sopravvivere, e addirittura decidere di togliersi la vita; a differenza del mondo animale in cui non è previsto. In questo senso, come rilevato anche successivamente da J. Derrida, si evidenzia un residuante umanismo proprio della prima fase del pensiero di Heidegger: dunque per il pensatore tedesco - anche sulla scorta delle ricerche di Uexküll - è possibile concludere che la pietra è senza mondo, l'animale é povero di mondo (ovvero ha un mondo-ambiente suo proprio, ma questo è piuttosto un ambito ontologicamente limitato cui l'animale è vincolato, e nel quale non è in grado di esperire la relazione l'ente in quanto tale, nella sua relazione con l'essere), l'uomo è formatore di mondo. In effetti, solo l'uomo è quell'ente particolare, che è in grado di esperire in modo consapevole la relazione con l'essere che lo determina e con gli altri enti, che compongono il suo mondo-ambiente. Trasposizione e accessibilità, sono termini densi e colmi di significato: Heidegger si chiede se l'uomo fosse capace di trasporsi in un altro ente, ad esempio una pietra; e nel frattempo, se questi altri enti dessero l'accessibilità per questa trasposizione, ne permettessero lo svolgimento: l'uomo, a differenza di altri animali, è capace di penetrare e quindi descrivere, osservare, analizzare un ambiente diverso da quello umano. Il problema di tale trasposizione è l'accesso al sentirsi animale, o al sentirsi pietra; entrambi non possono parlare di se - essi sono muti, e sordi - quindi non hanno quell'accessibilità di cui si parlava. L'uomo, potendo parlare degli altri enti, ha la capacità di trasporsi; gli animali, e gli inanimati non possono: i primi vivono nel costante

presente degli istinti e delle necessità; i secondi non hanno nemmeno coscienza di dove si trovino o cosa siano. È possibile trasporsi nell'altro da me? Nagel risponde in modo negativo, ma argomenta differentemente da Heidegger. Non è l'accessibilità della pietra o dell'ente animato a mancare; è propria dell'uomo una tale manchevolezza. È l'uomo che, per sua natura, non è capace di trasporsi in altro: si può immaginare di vivere come un pipistrello; si può osservare ed immaginare, sebbene con difficoltà, di essere un animale. Nonostante tutte le analisi ed traposizioni fatnasiose possibili, tuttavia rimane comunque un circolo chiuso; poiché l'uomo immaginerà l'altro-da-se sempre secondo la sua visione, secondo il suo punto di vista umano, imprescindibile. 


Un'attenta critica viene mossa nei confronti della metafisica, come già esplicato, e dell'appropriazione arbitraria che questa ha fatto nel corso dei secoli di una terminologia anche di uso comune. Il linguaggio della metafisica ha occulto il vero significato delle parole, immettendo per secoli l'uomo in false determinazioni, strutture e sovrastrutture. Heidegger ricorda come i pensatori della antica Grecia, usavano speculare liberamente e creativamente, senza determinismi o ideologismi; non dovevano riempire alcun castello vuoto con metafisici concetti, e non si chiamavano neppure filosofi. Al contrario, il linguaggio è ora considerato, da Heidegger, appunto come il luogo aperto, la finestra, attraverso cui l'Essere si può manifestare all'uomo nella sua verità; esso è la casa dell'essere, ed è attraverso questo che l'uomo si accompagna verso la sua essenza, il suo destino. Il linguaggio, libero da ogni metafisicismo e distorsione semantica, dev'essere affettuosamente custodito e preso in "cura".

« Nel pensiero l'essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo. I pensatori ed i poeti sono i custodi di questa dimora. » 3  

Ricapitolando, è precisamente nel linguaggio che l’essere riacquista il proprio spazio, dimo- rando come a casa propria: «il linguaggio è la casa dell’essere». Il linguaggio, poi, come elemento umano, ex parte hominis, è anche, per così dire, la dimora dell’uomo stesso. Non tutti gli uomini però hanno il compito di custodire la dimora dell’essere, il linguaggio; i poeti ed i pensatori sono tali custodi, che donano sempre nuove sfumature e significati al linguaggio - e vegliando, por- tano a compimento il riferimento all’essere. In conclusione, c'è da chiedersi se il corso della metafisica (e la sua relativa conquista del linguaggio) sia stato semplicemente un tracciato causato dall’uomo o non piuttosto un accadimento proprio dell’essere. La Lettera mantiene aperto il campo ad entrambe le posizioni e sembra voler suggerire la loro reciproca interconnessione.

« L’oblio dell'essere si manifesta indirettamente nel fatto che l’uomo considera e si dà da fare sempre e solo intorno all’ente » « Il linguaggio si concede piuttosto al nostro semplice volere e alla nostra attività come strumento di dominio sull’ente »

Emergono dunque unitariamente, due facce della stessa medaglia; l'uomo per sua natura insieme con il percorso della storia dell'essere indirizzato alla metafisica, hanno permesso l'allontanamento e l'oblio dell'essere. In definitiva, la metafisica è stata il corso del pensiero occidentale nel quale, erroneamente, l'essere è stato obliato, entizzato, per una naturale propensione dell’uomo che ne ha determinato il percorso - e al contempo per opera dell’essere stesso, nella direzione dell’ente, non lasciandolo essere ciò che esso è.



3Heidegger,

Über den Humanismus, 1947

Con il secolo breve, si assiste ad una una rivoluzione repentina, in costante e rapido cambiamento, fortemente tecnica-biologica - sino ad arrivare alla creazione di internet, o le clonazioni genetiche, etc..Ma se da un lato vi è l'enorme progresso tecnologico, dall'altro il XX secolo ha visto chiudersi un'era che iniziò con l'umanesimo e che aveva caratterizzato tutti gli anni avvenire: la seconda guerra mondiale, ed i relativi crimini contro l'umanità. Sino alla seconda guerra mondiale, il progresso e la ragione - e la tecnica - hanno sempre lavorato in funzione di un avanzamento della specie umana, a favore di essa. Ma con i campi di sterminio, la bomba atomica, e i terribili crimini di guerra, si e arrivati ad usare quell'enorme progresso tecnologico proprio contro l'uomo: la ragione ed il progresso vengono improvvisamente meno, l'umanisimo cade. Si pensava che il progresso tecnologico portasse un beneficio a tutti i problemi, comprese le guerre; al contrario, con la tecnica le guerre sono diventate più dure. Non morivano più i soldati sui campi di battaglia, ma civili: il terrorismo è l'evoluzione tecnica della guerra. Paradossalmente si è cominciato a sentire che lo sviluppo sociale, al quale nessuno più riusciva a mettere freno, rischiasse di rendere antiquato tutto ciò che permette la libera estrinsecazione delle potenzialità umane, quali ragione, intelligenza, moralità. Quindi, in certo senso, Heidegger è stato il primo ad aver innescato in maniera eclatante una meditazione seria sul fatto che forse siamo arrivati in un epoca in cui l'uomo è diventato antiquato. Cos'è che minaccia di rendere antiquato l'uomo? La tecnica, ancella della metafisica. La metafisica ha condizionato il sapere filosofico, ed è andata ad intaccare le fondamenta del sapere, distorcendole; la tecnica, è per sua natura osservazione, apprendimento, organizzazione e riproduzione: si osserva un qualcosa, ne si apprende l'essenza, e lo si riproduce in serie. Sulla base di fondamenta metafisiche, si hanno delle cose stabili e se ne conosce l'essenza, esse divengono malleabili ed utilizzabili sviluppando delle tecniche apposite; Taylor, scrittore statunitense, sostiene che l'aumento di produttività non dipende dall'operaio carente di creatività o di intelligenza adeguata, ma di una cattiva gestione del lavoro: organizzando il lavoro, distribuendo le risorse, e sopratutto "addestrando" l'operaio si può aumentare la produzione di industrie e fabbriche; esiste un'evidente rapporto tra la ricerca di estrema stabilità speculativa e la prassi dell'organizzazione totale delle cose. La metafisica, nel suo svilupparsi, ha dovuto per forza di cose ha dovuto portare l'uomo all'organizzazione delle cose tramite la tecnica. La metafisica cammina quindi di pari passo con la prassi organizzativa dell'uomo. Ora, tale allontanamento dall'essere - dovuto dalla distorsione della metafisica e dall'antiquatezza della tecnica, dell'asservimento del linguaggio a queste - provoca nell'uomo che interpella se stesso, una sorta di spaesamento/angoscia: è come se gli esseri umani esistessero in una condizione che propriamente non è più paragonabile alla condizione umana vera e propria.


Esserci significa essere tra le cose, tra i cosiddetti utilizzabili. La considerazione delle cose, è che esse abbiano uno scopo, una funzione essenziale; ciò implica il fatto che tali cose debbano funzionare. E qualora non fosse così, quando l'utilizzabile non è più tale, ciò provoca una sensazione di disagio, proprio perché il funzionamento dell'oggetto viene meno al mio servizio: esso provoca un'angoscia. Siamo gettati nella radura dell'essere, costretti a subire una vita di angosce e di perdite, la paura della scomparsa, del nulla, e infine della morte. L'angoscia, secondo H., è quel sentimento fondamentale che si vive di fronte alla minaccia della morte - intesa come ‘presenza’ del nulla, di quella impossibilità dell’esistenza. Il filosofo definirà questo cosiddetto esserci come "Sein zum Tode", essere-per-la-morte. Ciò non significa attendere o prepararsi per la morte; piuttosto equivale a vivere per la morte, accanto ad essa consapevolmente, e quindi anticipare la morte. Comprendere la “possibilità” della l’impossibilità dell’esistere in quanto tale, che fa parte del destino destinante (Daimon). L'angoscia è quindi sentimento (emotività fondamentale) del nostro essere-nel-mondo come perdita di senso e quindi il venir meno di ogni “appoggio"; per cui ciò che ci minaccia, non lo si riesce più ad identificare in questo, in quello o in altro oggetto. È differente dalla paura che si riferisce sempre ad un oggetto; l'angoscia invece è sentimento della perdita, della mancanza. A differenza dell'uomo, l'animale, osserva H., non sa di dover morire, non conosce questa possibilità della propria fine. Fintanto che l'uomo non adempierà al ricongiungimento all'essere, egli non potrà fare esperienza della propria finitudine. È qui che l'uomo si sente spaesato, non sentendosi a “casa propria” nel mondo.

"Con il termine angoscia non intendiamo quell'ansietà assai frequente che in fondo fa parte di quel senso di paura che insorge fin troppo facilmente. L'angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di quell'ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di... è sempre anche paura per qualcosa di determinato. Nell'angoscia, noi diciamo, uno è spaesato. Ma dinanzi a che cosa v'è lo spaesamento e cosa vuol dire quell'uno? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell'insieme. Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza. Questo, tuttavia, non nel senso che le cose si dileguino, ma nel senso che nel loro allontanarsi come tale le cose si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell'ente nella sua totalità, che nell'angoscia ci assedia, ci opprime. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell'ente, rimane soltanto e ci soprassale questo nessuno. L'angoscia rivela il niente. Che l'angoscia sveli il niente, l'uomo stesso lo attesta non appena l'angoscia se n'è andata. Nella luminosità dello sguardo sorretto dal ricordo ancora fresco, dobbiamo dire: ciò di cui e per cui ci angosciavamo non era "propriamente" - niente. In effetti il niente stesso, in quanto tale, era presente".4  

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M. Heidegger, Che cos'è metafisica?

La spaesatezza è quella dell’uomo moderno che non dimora nella propria patria e questo non è certo da intendersi in senso nazionalistico, ma essenziale, cioè in rapporto all’essere o, più precisamente, alla vicinanza dell’essere che è l’essenza dell’uomo, dove l’uomo è a casa sua; è la mancanza del ‘-ci’, luogo della radura dell’essere. Autori come Marx, cui «ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come l’alienazione dell’uomo affondi le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno» Di fronte a tale spaesatezza, continua l’autore, «il futuro destino dell’uomo si mostra al pensiero che pensa la storia dell’essere nel fatto che egli trovi una via verso la verità dell’essere, e si metta in cammino verso tale scoperta». È l’indicazione di un cammino, una costruttiva provocazione, una sorta di appello: se l’uomo non compie questo ‘sforzo’ verso la verità dell’essere «gira attorno a se stesso come animale razionale» eccetto che possa «tracciare un sentiero migliore, cioè più adeguato al problema». Si tratta in definitiva di vincere l’alienazione, la spaesatezza e ciò significa innanzitutto cominciare a comprendere che «l’essenza dell’uomo consiste nel fatto che egli è qualcosa di più del mero uomo per come ce lo si rappresenta quando lo si intende come essere fornito di ragione».

Infine, riferendosi alla questione “Dio”, Heidegger attira l’attenzione sul pensiero disponibile fin dal 1929 in “Vom Wesen des Grundes”:

«Con l’interpretazione dell’esserci come essere-nel-mondo non si è ancora deciso nulla in senso positivo, né in senso negativo, circa la possibilità di un essere in rapporto con Dio. È soltanto con la chiarificazione della trascendenza che si raggiunge un concetto sufficiente dell’esserci, in riferimento a tale ente è poi possibile porre il problema di come stiano ontologicamente le cose circa il rapporto dell’essere con Dio».

Dunque la fenomenologia resta al di qua della decisione tra teismo o ateismo e questo non per indifferenza verso Dio, ma per rispetto dei limiti del pensiero come tale.

«Se l’humanitas è così essenziale al pensiero dell’essere, non è allora essenziale completare l’ontologia con un’etica?» «Il desiderio di un’etica si fa tanto più urgente quanto più il disorientamento manifesto dell’uomo, non meno di quello nascosto, aumenta a dismisura»

La problematica che Heidegger intende approfondire ha di mira il pensiero della verità dell’essere; nel corso di tale analisi ontologica l’autore si domanda se tale pensiero debba restare unicamente sul piano teoretico o se contemporaneamente offra indicazioni per la prassi. La risposta è alquanto decisiva: «Questo pensiero non è né teorico né pratico», «esso avviene prima di questa distinzione»; questo pensiero propriamente «rammemora l’essere e nient’altro». Per heiddeger l'etica, come la religione, non fanno parte della filosofia: ciò significa che il pensiero dell’essere non ha niente a che fare con qualsiasi determinazione di tipo metafisico, con nessuna specie di soggettivismo che domina l’ente a danno dell’essere. Al contrario, se la strada che porta ad un’etica - altrettanto originaria quanto il pensiero che pensa la verità dell’essere - riposa sull’assegnazione della destinazione dell’essere,

allora il nomos non è solo legge che guida l'uomo, ma più originariamente è assegnazione nascosta nella destinazione dell’essere. In conclusione, nella stessa "lettera" Heidegger respinge pertanto ogni forma umanistica di etica, cioè che riconduca l'etica alla volontà e soggettività di «un'umanità che, come subiectum, è a fondamento di tutto l'ente», facendone qualcosa di intrinsecamente nichilista. Esigenza di pensare una morale che fosse implicita - l'unica etica possibile è quella che viene prima di ogni etica, che tenga conto di quella differenza ontologica che consente all'uomo di esperire la trascendenza dell'essere rispetto all'ente, e quindi di abbandonare la pretesa di impossessarsi dell'ente e di manipolarlo riducendolo a mero strumento della propria tecnica.



Maurice Merleau-Ponty

Biografia

Maurice Merleau-Ponty (Rochefort-sur-Mer, 14 marzo 1908 – Parigi, 3 maggio 1961) è stato un filosofo francese, esponente di primo piano della fenomenologia francese del Novecento. Dopo gli studi secondari, terminati al liceo Louis-le-Grand di Parigi, Maurice MerleauPonty diviene allievo della École normale supérieure, nello stesso periodo di Sartre, e consegue il diploma di laurea in filosofia (agrégé) nel 1930. Dopo il servizio militare inizia la sua carriera di insegnante nei licei: a Beauvais, dal 1930 al 1933, poi a Chartres fino a 1939 e dal 1940 al 1944 a Parigi, al liceo Carnot. Entrato nella Resistenza continua a studiare e a scrivere per il dottorato, che consegue nel 1945. Il dottorato in Lettere 1945 lo ottiene con due libri già molto significativi: La struttura del comportamento (1942) e La fenomenologia della percezione (1945). Nel 1948 è docente all'Università di Lione, ma nel 1949 ottiene la docenza in psicologia e pedagogia alla Sorbona. Dal 1952 fino alla morte, avvenuta nel 1961, sarà titolare della cattedra di filosofia del Collegio di Francia: diventando il più giovane eletto a una cattedra. È stato anche membro del comitato direttivo della rivista "Les Temps modernes", oltre che editorialista politico, dalla fondazione della rivista nell'ottobre 1945 fino al dicembre 1952. Merleau-Ponty muore per arresto cardiaco la sera del 3 maggio 1961 all'età di 53 anni e viene sepolto al cimitero Père Lachaise a Parigi. Nella formazione di Merleau-Ponty sono importanti l'influenza dal pensiero di Edmund Husserl, che però egli interpreta in maniera originale, e di Max Scheler, inoltre il rapporto con Sartre, Simone de Beauvoir e altri intellettuali della Parigi degli anni '40, coi quali condivide un clima culturale che permea il suo pensiero. Un rapporto però per niente pacifico e spesso conflittuale, che porterà alla fine alla rottura con Sartre e non solo per ragioni politiche ma anche prettamente speculative. Può essere ragionevolmente classificato come un pensatore esistenzialista anche proprio per la sua affinità di fondo con Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir e la sua concezione fondamentalmente heideggeriana dell'essere. Inoltre M.-P. presenta molte affinità con il biologo e filosofo prussiano Weizsäcker. 


Il visibile e l'invisibile Le visible et l'invisibile, 1964



Cosa s'intende per soggettività moderna? Essa è il risultato del capovolgimento della tradizionale visione che, sin da Cartesio come abbiamo esplicato, sconcepisce una trascendentalità del soggetto dall'oggetto; il soggetto prima esiste, poi percepisce il mondo, e ancora dopo lo conosce e lo comprende, come se passasse in serie da un piano all'altro del momento conoscitivo. Tale capovolgimento della fenomenologia avviene muovendo da una filosofia "verticistica" (ove risiede il ricorrente problema del trascendentale) ad una di tipo orizzontale, insieme con quel esistenzialismo, fortemente influenzato da Heidegger, che pone in un inevitabile e imminente intreccio le cose percepite, con chi le percepisce. Nella fenomenologia moderna, il soggetto è immerso in un mondo ove è cosa tra le cose; il soggetto di qualcosa, e insieme l'oggetto di qualcos'altro, che subiscono insieme il mondo in cui sono coinvolti. Divengono importantissimi i concetti di spazialità, e di posizione in cui ci si trova: la conoscenza parte dall'esperienza sensibile, ovvero dalle percezioni; la sensitività è inevitabilmente legata al corpo, e alla sua posizione nel mondo. Allora soggetto e oggetto divengono due variabili intrecciate ed inseparabili tra loro: ciò comporta che all'analisi di un oggetto, vi si deve tenere sempre presente il soggetto che lo guarda e l'ambiente in cui essi sono immersi. Merlau-Ponty è stato un grande esponente della fenomenologia francese, accordando anche a quella di Husserl, ed è uno dei pochi filosofi che hanno fornito dati concretamente importanti per la scienza, ed è stato un punto fondamentale per la ricerca biologica. Cosa vuol dire "percezione", e perché è così importante per il fenomenologo? Tra la Fenomenologia della percezione (1945), e Il Visibile e l'invisibile (1959 - rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel '64) vi è un passaggio dalla fenomenologia di matrice husserliana, all'ontologia di tipo heideggeriano: più che un passaggio, era un dover interrogarsi su - uno spostamento dell'attenzione filosofica sulla questione dell'essere. La percezione non è un atto o un'azione; essa è piuttosto da considerarsi come lo sfondo su cui si svolgono le nostre azioni, i nostri movimenti attraverso il quale essi sono comprensibilmente relazionati alla realtà. Sul piano della percezione non vi è rappresentazione; vi è una differenza tra percezione e rappresentazione al quanto sostanziale: guardando un cubo, ci saranno dei lati che esistono, ma che non posso vedere. Io percepisco e deduco che essi ci siano, pur non vedendoli; non li sto rappresentando, perché il cubo è una presentazione diretta: i due lati esistono, ma non sono visibili. Il fatto è che la percezione, non rappresentazione, sul piano pre-logico riconosce la materia ordinata in figure, forme, che risponde a leggi coerenti e costanti. La fenomenologia vuole riconquistare questo piano, e capire quali sono i modi con cui si relazionano la nostra coscienza con il processo percettivo. In questa fase, l'elemento che regge tale soggettività moderna è di fatto la verità delle percezioni: esse devono pur contenere un qualcosa di essenziale dell'oggetto; provenendo da esso, tali percezioni ci dicono un qualcosa di vero a riguardo.

M.-P., nell'opera Le Visible et l'invisible, presenta innanzitutto la necessità di ristabilire gli strumenti della riflessione e intuizione, e che la filosofia "si installi in un luogo in cui esse non si distinguano ancora"; inesperienze non ancora elaborate, che offrano contemporaneamente soggetto e oggetto, esistenza ed essenza. È come se tra il visibile attorno a noi, e la visione nostra di esso, ci sia una stretta relazione intima; tuttavia non è possibile confondere tale visione con il visibile, perché ne svanirebbe immediatamente uno dei due. Piuttosto, è una sorta di predisposizione delle cose, a rendersi comprensibili a colui che le osserva. Bisogna aver chiaro che, le caratteristiche delle cose, come i colori, non sono da definirsi oggettivamente veri; anzi, questo o quel rosso, diventano - non solo più imprecisi e particolari se vi ai pone concentrazione - costellati a tutti gli altri colori che lo attorniano. È così che entra fondamentale in gioco l'attenzione per il contesto e per l'ambiente; M.P., definisce l'apparenza del colore come una determinato "nodo nella trama del simultaneo e del successivo": in questa frase si riflette il riferimento a quel "tempo biologico" di cui parlava Weizsäcker, scandito proprio dalle caratteristiche dell'atto percepito come ponte tra passato e futuro. In una enorme varietà di colori, si può dedurre che un colore nudo, o intero, non esiste come lembo d'essere indivisibile; esso rappresenta quindi una specie di stretto fra orizzonti esterni ed orizzonti interni sempre aperti: è qui che si scorge la concezione dell'essere heideggeriana. Come ad esempio determinati movimenti della mano che tocca, esprimano sensazioni di liscio e di ruvido, è necessario tuttavia che ci sia un essere che tangibilmente le tocchi: i due sistemi si applicano l'uno all'altro; non può esserci tangibile liscio o ruvido senza che possa essere toccato, o senza qualcuno che lo tocchi. Analogamente, sguardo guarda le cose come se fosse con loro in un'armonia prestabilita, come se le conoscesse prima di saperle; è come se ci fosse una chiave di decifrazione insita nelle cose, che però lo sguardo conosce e applica: esso tocca, accarezza, sfrega e scruta gli oggetti, proprio come quei movimenti tattili che percepiscono il liscio e il ruvido; e come per il tangibile, anche il visibile richiede che ci sia un vedente che osservi. E che la visione dello spazio e del mondo, richiede che l'osservatore sia all'interno di questo, cosa tra le cose. L'uomo, che è "ne è", essendo uno di essi, per un singolare rivolgimento, può vedere i visibili. Il visibile non è altro che il contorno esterno delle cose, che in realtà sono profonde e inaccessibili, nascondono la propria essenza celandola dietro l'invisibile. I colori, come si diceva, sono solo dei modi brevi e perentori di dare un unico qualcosa, in un unico tono dell'essere, nelle loro visioni passate e future. Ma più precisamente esse sono fortemente condizionate dagli altri rossi presenti nel contesto in cui si è: l'ambiente in cui si è immersi è fondamentale. In effetti, egli concepisce la formazione della massa del sensibile, a partire proprio dalla massa in cui egli è immerso e alla quale rimane aperto in quanto senziente: egli lo definisce un processo di formazione per segregazione (vedi segreg. chimica). È il mondo stesso che ha fornito, attraverso questo processo, gli strumenti all'uomo per poterlo percepire; è esso che ha formato l'essere in quanto sensibile e senziente, visibile e vedente, tangibile e toccante, etc.. Se da un lato, l'uomo in quanto essere senziente, percepisce le cose - dall'altro esso è stato formato dalle cose stesse : si può dire che sono fatti della stessa carne.

Tra la pronfodità dell'essenza dell'oggetto visto, e la profondità del soggetto che guarda, vi é la medesima carne. Tale carne non è da considerarsi materia, spirito, o sostanza. Essa, come M.-P. argomenta, non ha mai avuto uno specifico nome nella storia filosofica; magari ci si può riferire ad essa, come gli antichi si riferivano agli "elementi", come acqua e fuoco. In effetti la carne è come se fosse la matrice che scandisce nel dove e nel quando l'aggregazione di questi, o quegli atomi, attorno a qualcosa che diventi massa profonda sensibile (e senziente); è il "medium formatore dell'oggetto e del soggetto", che li rende compatibili alla sensibilità vicendevole, e li interconnette. Il motivo per cui l'uomo é in grado di muoversi percettivamente nel mondo, è la sua co-appartenenza allo stesso; possiamo dire che è un essere profondo a due fogli, da una parte cosa fra le cose, dall'altra ciò che le vede e le sente. Questa relazione, quest'intreccio tra soggetto e oggetto porterà a conclusioni non ordinariamente sospettabili: si può considerare che l'uomo è parte della stessa famiglia, nello stesso ordine delle cose, ed è per tale ragione che le esso può percepire. Metaforicamente, "il corpo sentito e il corpo senziente sono [...] come due segmenti di un unico percorso circolare che, in alto va da sinistra a destra e, in basso, da destra a sinistra, ma che è un unico movimento nelle due fasi"; ciò rimanda visivamente anche a quel "Gestaltkries" di W. che abbiamo trovato alla fine di Forma e tempo, anch'essa opera in oggetto di studio. Se l'uomo fa parte del mondo, e nel contempo guarda il mondo, si può osservare che è il mondo che guarda se stesso, senza dover uscire da sé per farlo. Questo genera un paradosso, poiché l'uomo che è vedente (e visibile), è insieme anche mondo che guarda se stesso. M.-P. fa presente che tra l'uomo e il mondo, tra vedente e il visibile, vi è una specie particolare di reciprocità: essi sono come due specchi che, messi l'uno dinnanzi l'altro, riflettono e replicano delle immagini all'infinito; le prime non si confondono con le altre, perché esse non sono se non repliche racchiuse l'una nell'altra. Però quel che ne emerge chiaro, è che il vedente, essendo preso egli stesso in ciò che vede, vede ancora se stesso. Quando l'uomo guarda il mondo, egli guarda se stesso; e nel contempo, è il mondo stesso che si guarda. Esiste un'interconnessione all'interno del corpo: tutte le percezioni, quelle ad esempio di mano destra e sinistra, occhio destro o sinistro, aperto o chiuso, e tutte le variabili della percezione sensibile, esse non risultano a noi scandagliate e separate, ma bensì sensazioni unitarie e reciproche al contempo: una mano che tocca, è toccata dall'altra mano e diventa insieme senziente e sensibile. Per fare ciò però, per ottenere tale doppia ma diversificata relazione senziente-sensibile, non basta un'univoca coscienza; per ottenere quest'unità vi è bisogno del medesimo corpo. Riesaminando la questione, c'è da segnalare il fatto che, pur sempre imminente, quella reciprocità tra senziente e sensibile non si realizza mai: ci sarà sempre una sorta di scarto tra il senziente ed il sensibile, proprio per via del fatto che le percezioni arrivino al medesimo corpo; non è un vuoto ontologico, ma bensì il confine che tiene in collegamento i due lati del senziente/sensibile. Tenendo da parte questo mosso, continuiamo col chiederci se allo stesso modo, non sarebbe questa doppia relazione possibile anche tra due corpi diversi? Essi appartengono tutto sommato allo stesso ordine delle cose, come detto; unificati non dalla stessa coscienza, ma dallo stesso corpo, o meglio dalla medesima matrice con cui si sono formati. Il mio verde, che non è il medesimo del suo verde, è comunque

riconoscibile nel suo verde - riconosco i connotati del mio nel suo; perché non sono ne io, ne lui a vedere, ma una visione in generale che abita tutti - in virtù di quella carne, che ovunque e chiunque irradia. Il fatto che esistano, contemporaneamente alla nostra, altre visioni del tutto simili - limita di fatto l'illimitata visione del uomo-mondo che ritorna su di sé, e la spinge verso una limitata concezione solipsistica. Esiste quindi una visione vera, che connette vedente e visibile in una relazione di reciprocità; "alla giuntura del corpo e del mondo opachi, c'è un raggio di generalità e di luce". M.- P. si esprime in termini molto simili a quello del mitologo Vernant quando definisce la questione della vista nella grecia presocratica. I Greci pensavano che lo sguardo, sotto forma di una specie di 'raggio' invisibile, quando raggiunge l'oggetto, scambia con esso le sue passioni, gli trasferisce gli stati d'animo. L'uomo è sguardo, e perché comunica rapportandosi alla visibilità del mondo, e perché l'uomo è esso stesso visibilità: finché è, questi appare, e quando non é più, perde di colpo anche la sua visibilità. Ora, abbiamo esaminato una visibilità prima, nel senso della percettività dei quale come i colori; questa ha bisogno di una visibilità seconda, quella che vede le linee di forza, e le dimensioni, le regole della coerenza e dell'ordine percettivo. La ricerca si sposta ora su quali siano tali forze, e da cosa sono determinate - ovvero quel rapporto tra la carne delle cose, e le relative leggi di comprensione: le idee. Se il corpo è dotato dei mezzi percettivi per segregazione, la mente è adagiata alla comprensione della carne attraverso le idee, che sono sublimazione della carne. Si fa un'importante distinzione tra le idee: un primo livello, e un secondo livello più alto e intellegibile. Le prime sono inconsce, e "vere", che ci sono fornite per sublimazione e ci permettono di leggere, vedere, ascoltare, toccare e gustare la realtà; noi non le udiamo, non le vediamo ma esse sono lì, dietro i suoni e dietro le immagini, e ne permettono una coerente e comprensibile visione o audizione. Nel momento in cui si tenta di afferrarle, e si fa entrare in gioco l'intelletto, divengono idee dell'intelligenza; e non sono rappresentanti di quelle idee primarie, ma sono estrapolazioni di quelle regole che le costituiscono mescolate all'intelletto. Importante è la relazione che non v'è idealità intellegibile pura, senza carne: le idee del livello invisibile, nascosto - dalle quali nascono quelle pure - derivano dalla prima visibilità, dalla prima esperienza, dal primo piacere - che non consegna un contenuto chiuso, ma che apre a un livello che non potrà più essere interrotto, al quale tutte le altre esperienze faranno riferimento. Orbene, come c'è quella reversibilità tra sensibile e senziente che si incrociano nel momento percettivo, esiste una medesima reciprocità tra le idee pure e le idee primarie: la parola paesaggio (veicoli delle idee) può designare un paesaggio; il paesaggio empirico ha un suo posto tra le idee e suscita la parola paesaggio. Ma allo stesso modo è presente quel mosso, quella discrepanza tra sensibile e senziente, quel cosiddetto "scarto" che è altrettanto presente nella reversibilità della parola. È qui che si gioca tutta la partita: le due reversibilità della percezione e della parola sono il punto focale; esse determinano l'inevitabile punto di vista umano, che crea discrepanza tra il sentire ed il sentirsi, tra il percepire ed il percepirsi, e infine tra avere l'assunzione di idee primarie, e trasformarle idee pure, ossia in parole.

Infine, esistono tutti i presupposti perché nell'uomo si installi una tecnica di linguaggio; l'uomo possiede le carte in regola perché tra l'uno e l'altro ci sia la parola. L'uomo possiede, nella sua struttura ontologica, l'integrale di tutte le "differenziazioni delle catene verbali" possibili. Il linguaggio, è il respiro autentico delle cose che comunicano di se stesse; la parola è espressione di idee sempre riferite al mondo percettivo, ovvero all'essere stesso - si può dire che la parola ed il linguaggio sono la voce stessa delle cose. La veridicità delle percezioni, che contengono in sé il vero, è un tema che accordandoci a Weizsäcker abbiamo già esposto, per quanto brevemente. Bisogna quindi perdere quell'oggetto di natura come grande oggetto, piuttosto includervi l'uomo; ripensare la natura, significa poi ripensare la biologia stessa, la vita: non siamo noi a pensare la natura, ma siamo da essa pensati. È qui l'intreccio di cui si accennava, la mistione tra uomo e natura che caratterizza comunque, in modi diversi, tutti gli autori presenti in questo studio. A differenza di W. - che nomina particolari caratteristiche della percezione come anamnestico-prolettiche - M.-P., va più a fondo, e ricerca in questo piano pre-logico, studia questi schemi di pre-comprensione che identifica nelle idee; quelle del primo livello della visione e della sensorialità, le particolari caratteristiche della mente che ci fanno apparire il mondo ordinato in figure e forme. Esse rappresentano nell'insieme quell'unità che intende le percezioni della realtà, che mette ordine al caos; e tali idee nascoste - che se diventano idee "pure" o d'intelligenza, perdono quel connotato di invisibilità onnipresente - vengono formate proprio in base alla carne: è da li che comunque provengono le idee, formatesi come per sublimazione dalla carne, allo stesso modo in cui il corpo si è formato per segregazione. Quindi sia per W., che per M.-P., sia le percezioni, sia le idee nascoste che le regolano, contengono il vero o una parte di esso.

Hannah Arendt

Biografia

Hannah Arendt (Linden, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) è stata una filosofa, storica e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense. La privazione dei diritti civili e la persecuzione subite in Germania a partire dal 1933 a causa delle sue origini ebraiche, unitamente alla sua breve carcerazione contribuirono a far maturare in lei la decisione di emigrare. Il regime nazista le ritirò la cittadinanza nel 1937, quindi rimase apolide fino al 1951, anno in cui ottenne la cittadinanza statunitense. Inoltre lavorò come giornalista e maestra di scuola superiore e pubblicò opere importanti di filosofia politica. Rifiutò sempre di essere categorizzata come filosofa, in quanto preferì che la sua opera fosse descritta come teoria politica piuttosto che come filosofia politica. Nata da una famiglia ebraica a Linden, località oggi parte del comune di Hannover, e cresciuta a Königsberg prima (città natale del suo ammirato precursore Immanuel Kant) e Berlino poi, Arendt fu studentessa di filosofia di Martin Heidegger all'Università di Marburgo. Ebbe una relazione sentimentale segreta con quest'ultimo, scoprendone solo piuttosto tardi le simpatie naziste, da cui si dissociò, non riuscendo tuttavia mai del tutto a cancellare l'amore e la devozione verso il suo primo maestro. Dopo aver chiuso questa relazione, Hannah Arendt si trasferì a Heidelberg dove si laureò con una tesi sul concetto di amore in Sant'Agostino, sotto la tutela del filosofo (ex psicologo) Karl Jaspers. La tesi fu pubblicata nel 1929, ma a Arendt fu negata la possibilità di venire abilitata all'insegnamento nelle università tedesche (mediante la possibilità di scrivere una seconda tesi) nel 1933, per via delle sue origini ebraiche. Nel 1929 sposò il filosofo Gunther Anders da cui si separò nel 1937. Dopo di che lasciò la Germania per Parigi, dove conobbe il critico letterario marxista Walter Benjamin. Durante la sua permanenza in Francia Hannah Arendt si prodigò per aiutare esuli ebrei della Germania nazista. Ad ogni modo, dopo l'invasione tedesca (e conseguente occupazione) della Francia durante la seconda guerra mondiale, e la successiva deportazione di ebrei e ebree verso i campi di concentramento tedeschi, Hannah Arendt dovette emigrare anche da qui. Nel 1940 sposò il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, con cui emigrò (assieme a sua madre) negli Stati Uniti, con l'aiuto del giornalista americano Varian Fry. Dopo di che divenne attivista nella comunità ebraica tedesca di New York, e scrisse per il periodico Aufbau. Dopo la seconda guerra mondiale si riconciliò con Heidegger e testimoniò assai generosamente, visto il totale disinteresse che il suo ex amante manifestò per lei al proclamare delle leggi razziali tedesche, in suo favore durante un processo in cui lo si accusava di aver favorito il regime nazista. Morì il 4 dicembre 1975 in seguito ad un attacco cardiaco, fu sepolta al Bard College, in Annandale sullo Hudson, New York. Nel 1985 a Parigi si tenne un convegno sull'opere della Arendt organizzato da Françoise

Collin, filosofa e saggista belga nonché illustre appartenente al Movimento femminista francese; questo ciclo di conferenze aprì la strada ad una innovativa interpretazione del pensiero arendtiano. Arendt difese il concetto di «pluralismo» in ambito politico. Grazie al pluralismo, il potenziale per la libertà politica e l'uguaglianza tra le persone si sviluppano. Importante è la prospettiva di inclusione dell'altro, ovvero di ciò che ci è estraneo. Politicamente, le convenzioni e le leggi dovrebbero funzionare per modalità pratiche livelli appropriati, e quindi tra persone ben disposte. Come risultato dei suoi assunti teorici, Arendt si trovò contro la democrazia rappresentativa, che criticò fortemente, preferendole un sistema basato sui consigli o forme di democrazia diretta. Spesso tuttavia continua a essere studiata soprattutto come filosofa, a causa delle sue analisi critiche su filosofi come Socrate, Platone, Aristotele, Immanuel Kant, Martin Heidegger e Karl Jaspers, insieme ai maggiori rappresentanti della filosofia politica moderna come Machiavelli e Montesquieu. Principalmente grazie al suo pensiero indipendente, alla teoria del totalitarismo (Theorie der totalen Herrschaft), ai suoi lavori sulla filosofia esistenziale e alla sua rivendicazione della discussione politica libera, la Arendt detiene un posto centrale nei dibattiti contemporanei. Come fonti delle sue disquisizioni utilizza, oltre a documenti filosofici, politici e storici, anche biografie e opere letterarie. Questi testi vengono interpretati letteralmente e in rapporto con il suo pensiero personale. Il suo sistema di analisi - in parte influenzato da Heidegger - contribuisce a renderla una pensatrice originale, trasversale ai diversi campi del sapere e specialità accademiche. La sua evoluzione personale e il suo pensiero mostra un elevato grado di sovrapposizione.



Cronologia delle opere

Der Liebesbegriff bei Augustin, 1929 Aufklärung und Judenfrage, in "Zeitschrift fur Geschichte der Juden in Deutschland", a. 4. (1932), n. 2/3. What is Existenz Philosophy?, 1946 Introduzione a Bernard Lazare, Le fumier de Job, 1948 The Origins of Totalitarianism, 1951; 1958; 1966 Rahel Varnhagen: Lebensgeschichte einer deutschen Jüdin aus der Romantik, 1957 The Human Condition, "Vita Activa", 1958 Die ungarische Revolution und der totalitäre Imperialismus, 1958 Between Past and Future: six exercises in political thought, 1961; poi 8, con due esercizi aggiunti nell'ed. 1968. On Revolution, 1963; 1965 Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil 1963; 1965 Eichmann in Jerusalem: Exchange of Letters between Gershom Scholem and Hannah Arendt, in Encounter, 22/1, 1964 Men in Dark Times, 1968 Isak Dinesen, 1885-1962, in "New Yorker", 9 novembre 1968 Walter Benjamin, in "Merkur", XXII, 1968 On Violence, 1970 Crises of the Republic, 1972 Lying in Politics; Thoughts on Politics and Revolution The Jew as Pariah: Jewish Identity and Politics in the Modern Age, 1978 The Life of the Mind, 1978

Introduzione alla ricerca del Pensiero

Assunto fondamentale della presente ricerca Hannah Arendt dichiara di essersi apertamente schierata tra coloro che hanno tentato di smantellare la metafisica, con la filosofia e le sue categorie, così come le abbiamo conosciute dal loro esordio in Grecia. Tale smantellamento della metafisica è possibile se si muove dall’assunto che il filo della tradizione è spezzato e non lo si potrà riannodare. Da un punto di vista storico si è dissolto il complesso di religione, autorità e tradizione (trinità romana). Tale perdita è un dato di fatto nel mondo contemporaneo. Ciò che è perduto è la continuità del passato, così come sembrava tramandarsi di generazione in generazione, sviluppando nel corso del processo la sua coerenza interna. Il processo di smantellamento ha del resto una sua tecnica, di cui la Arendt riconosce di aver fatto uso «in modo periferico». Tutto ciò che resta è ancora il passato, ma un passato in frammenti, che ha perduto la certezza del suo criterio di valutazione. La tecnica di smantellamento deve tuttavia aver cura di non distruggere “perle” e “coralli” che la “trasformazione marina” produce dal passato, e che possono ancora essere recuperati come frammenti. La causa per la quale Arendt decide di intraprendere la sua speculazione sull'attività della mente del 'pensare', fu duplice: da un lato, racconta, "lo stimolo immediato mi venne assistendo al processo Eickmann a Gerusalemme"; dall'altro, "quei problemi morali che, scaturiti da un'esperienza concreta, si scontravano con la saggezza dei secoli".





"Banalità del male"

Nel 1961 Hannah Arendt seguì le 120 sedute del processo Eichmann (il famigerato criminale nazista) come inviata del settimanale New Yorker a Gerusalemme. Otto Adolf Eichmann (nato nel 1906), era stato responsabile della sezione IV-B-4 (competente sugli affari concernenti gli ebrei) dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), organo nato dalla fusione, voluta da Himmler, del servizio di sicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, inclusa la polizia segreta o Gestapo. Eichmann non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma, per l'ufficio ricoperto, aveva svolto una funzione importante, su scala europea nella politica del regime nazista: aveva coordinato l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Nel maggio 1960 agenti israeliani lo catturarono in Argentina, dove si era rifugiato, e lo portarono a Gerusalemme. Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti". Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivista e poi riunite nel 1963 nel libro "La banalità del male" (Eichmann a Gerusalemme). Il sovrano e colui che riesce a decidere sopra gli altri, in una situazione eccezionale e confusionaria. Il principio politico di base è la decisione. La legittimità la ottiene quindi chi è in grado di decidere, di individuare il nemico e annientarlo, sopprimendo quella verità (considerata come bugia) e imponendo autoritariamente la propria verità (considerata come verità assoluta). Come si arriva a Hitler? Hitler non cambiò leggi, ne costituzione; egli governava per decreti. Sistematicamente individuava nemici, in continue situazioni "emergenziali", e decideva autoritariamente: esercitava il potere. Hitler, avendo pensato la realizzazione del III Reich in un processo necessario di durata millenaria, con i decreti riesce a velocizzare questo processo. Arendt sostiene che la deportazione degli ebrei poteva avvenire solo attraverso una sorta di spersonalizzazione: i deportati viaggiavano ammassati in carri bestiame e, obbligati a tagliare i capelli, venivano trattati peggio di animali e vivevano in condizioni miserabili. Questo sistema spersonalizzava tali individui, la cui individualità stessa veniva affievolita fino alla morte, nelle camere a gas. Ecco che viene realizzato il male radicale, il male per il male, ciò che Kant aveva pensato irrealizzabile: si tenta di cancellare l'umanità, di eliminare un'umanità particolarmente caratterizzata. Il totalitarismo si separa da tutte le altre forme di dittatura perché utilizza sistematicamente l'ideologia (propaganda, atta a trascinare) ed il terrore. Esso è diverso dalla paura: non è un'emozione o una sensazione riguardante qualcosa; piuttosto è una condizione di paura perenne, di qualcosa di impreciso, vago, improvviso (nel regime nazista, il terrore era utilizzato come strumento di controllo sociale). Il regime totalitario inizia quando l'opposizione è annientata, ed il popolo è assoggettato passivamente, ed insieme terrorizzato: non fu la pazzia di 20 persone, ma di un'intera popolazione che, attraverso proprio ideologia e terrore, fu assoggettata e rispondeva a tale ideologia. Particolare è stato il "risveglio" dei tedeschi... Com'è stato possibile arrivare a tutto ciò? Come è stato possibile permettere la realizzazione di un male tanto grande?

In questo libro la Arendt analizza i modi in cui la facoltà di pensare può evitare le azioni malvagie. La banalità del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali, compiti che sono stati estremamente significativi nel lavoro della Arendt fin dai primi scritti nel tardo 1940 del fenomeno del Totalitarismo. La prima reazione della Arendt alla vista di Eichmann è più che sinistra. Lei sostenne che "le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso". La percezione dell'autrice di Eichmann sembra essere quella di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che consiste, nell'organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento. Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di pensare. Eichmann ha sempre agito all'interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può essere vista come una cieca obbedienza. Egli non era l'unica persona che appariva normale mentre gli altri burocrati apparivano come mostri, ma vi era una massa compatta di uomini perfettamente "normali" i cui atti erano mostruosi. Dietro questa "terribile normalità" della massa burocratica, che era capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della "banalità del male". Questa "normalità" fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati dalla società - in questo caso i programmi della Germania nazista - trova luogo di manifestazione nel cittadino comune, che non riflette sul contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente . Eichmann ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che quei tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica - come fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni - che questo nuovo tipo di criminale, realmente "hostis generis humani", "commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male." L'analisi delle interrelazioni fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali, come detto sopra rappresentano il nucleo tematico dell'opera . A questo proposito la Arendt si è chiesta se la facoltà di pensare, nella sua natura e nei suoi attributi intrinseci, coinvolge la possibilità di evitare di "fare il male". In altre parole, "Il fenomeno del male ha necessariamente una radice desiderata?" Era innegabile che questo nuovo insieme di domande del fenomeno del male, di cui le radici non sono state ancorate negli standard filosofici, morali, religiosi tradizionali, almeno aprirà una prospettiva nuova sulla comprensione del male. Tale nozione è stata menzionata da Arendt nelle prime pagine dell'introduzione de "La Vita della Mente", l'opera in oggetto di studio; assistendo al processo Eichmann, la Arendt disse:" mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie di male". La perplessità davanti ad un fenomeno che ha contraddetto le teorie note di male, e la relazione chiara tra il problema di male e la facoltà di pensare, era quello che la Arendt ha espresso con la frase "la banalità del male". Un accenno alle sue tesi sulla banalità sono presenti ne "Le Origini di Totalitarismo" (1951), il suo primo libro, nel

quale sosteneva che l'aumento di totalitarismo era dovuto all'esistenza di un nuovo genere di male, il male assoluto, che, "non poteva essere a lungo spiegato e capito con malvagie ragioni di egoismo, avidità, bramosia, risentimento, sete per potere, e codardia". Spesso ha detto che la tradizionale comprensione del male non era di nessun aiuto riferita a questa variante moderna, e ha voluto seguire il processo probatorio ad Eichmann , del quale ha riferito per il New Yorker, per confrontare chiarificare le sue idee. Come può dunque la capacità di pensare muoversi in modo da evitare il male? Per prima cosa, secondo la Arendt, gli standard etici e morali basati sulle abitudini e sulle usanze hanno dimostrato di poter essere cambiati da un nuovo insieme di regole di comportamento dettate dall'attuale società. Lei domanda come sia possibile che poche persone non aderiscano al regime malgrado ogni coercizione. A tale domanda risponde in maniera semplice: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli unici che osano essere "giudicati da loro stessi"; e sono capaci di farlo non perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di "giusto e sbagliato" siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi si domandano fino a che punto essi sarebbero capaci di vivere in pace con loro stessi dopo aver commesso certe azioni; e loro decidono che è meglio non far nulla. La Arendt chiaramente presuppone alla facoltà del pensare questo tipo di giudizio. Questa presupposizione non necessita di una elevata intelligenza ma semplicemente l'abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, che significa, essere occupato in un dialogo silenzioso tra io e io, che da Socrate è stato chiamato "pensare". L'incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente nella gente più intelligente e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l'uso del pensiero previene il male. Una delle questioni principali della Arendt è il fatto che un'intera società può sottostare ad un totale cambiamento degli standard morali senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò che sta accadendo. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore. Una maniera per prevenire il male è come detto sopra rintracciabile nel processo del pensare. Questo pensare per Socrate provoca essenzialmente la perplessità che ha il potere di dislocare gli individui dalle loro regole di comportamento. La capacità di pensare ha dunque la potenzialità di mettere l'uomo di fronte ad un quadro bianco senza bene o male, senza giusto o sbagliato, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque di deliberare un giudizio circa tali eventi. La Arendt sta cercando di evitare l'aderire degli uomini a ogni tipo di standard morale, sociale o legale senza esercitare la loro capacità di riflettere, basata sul dialogo con se stessi circa il significato degli avvenimenti, in altre parole la manifestazione del pensiero è capace di provocare perplessità e obbliga l'uomo a riflettere e a pronunziare un giudizio (Ciò si può riscontrare nell'attività di politica diretta non rappresentativa). 


«La banalità del male che appare attraverso Eichmann rende evidente come il fenomeno del male può mostrare la sua faccia banale, senza radici. La Arendt afferma inoltre: "la mia opinione è che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità"... solo il bene ha profondità e può essere integrale».





Introduzione a Kant

Kant introduce l'atteggiamento critico. L'uomo, è limitato dal suo stesso essere; può pretendere di conoscere il mondo, ma solo entro le sue possibilità: criticare significa infatti indagare limiti e possibilità della ragione, stabilirne i confini. Kant si oppone quindi al mondo della filosofia moderna che tendeva a voler ampliare i confini e le possibilità della ragione. Infatti sostenendo "il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me", egli intendeva porre la condizione umana in due momenti, quello in cui si è in un mondo empirico avvolto da un cielo di leggi fisiche a cui tutti gli esseri viventi sottostanno, e quello della legge morale verso la quale tutti gli esseri dotati di dignità (ne possiede che l'uomo, per Kant) debbono tendere. Non è possibile conoscere le cause, ne i motivi per i quali esistiamo; posti in un certo sistema, trovatisi già in un luogo di bios, in un posto ove si svolge la vita, ciò che l'uomo deve fare non é ricercare le cause di tale posizione, ma bensì deve porre i limiti a priori, stabilire i confini entro i quali si può conoscere tale mondo. Per poter stabilire questi limiti della ragione umana, v'è bisogno di una certa distanza dal mondo empirico: uno sguardo da lontano per vedere se stessi e (auto)limitarsi, la percezione di star percependo = appercezione trascendentale. Questa appercezione dev'essere fatta da un unità trascendentale: l'io penso. Kant definisce l'appercezione con la parola trascendentale non a caso: i trascendentali, nella filosofia medievale, erano delle strutture eterne a priori quali il vero, il bello, etc., su cui si fonda tutto il resto della realtà, strutture pure proprie di ogni essere umano. Con la stessa logica, in riferimento a quella medievale, si pensi l'appercezione come l'unità che a priori mette le condizioni per poter esistere: è come se un Io dietro di me attesti che io esisto; percepirsi, con uno sguardo critico, all'interno di confini e limiti, al di fuori dei quali è impossibile conoscere. In effetti, quando si è all'interno del mondo empirico, è inevitabile percepire sensazioni. I primi due sensi ad essere messi in funzione sono quello interno e quello esterno, rispettivamente il tempo e lo spazio. Essi sono le prime due categorie kantiane della conoscenza: le prime due categorie a priori, in cui i dati provenienti dai cinque sensi empirici vengono sempre, e spesso inconsciamente, catalogati (più precisamente, lo spazio è una categoria che deriva comunque dal senso interno, una distensione del tempo al di fuori del corpo). Quando si è nel trascendentale invece, si è per un attimo al di fuori di spazio e tempo, per poter porre quelle condizioni e quei limiti entro i quali ragionare. Tutto ciò è l'Io-penso, che diventa Io-puro quando la speculazione a priori diviene universalmente valida. Il momento puro, ovvero il trascendentale, è l'unico momento uguale per tutti poiché privo di esperienza "personale". Ma se le condizioni dello scibile umano sono poste dall'uomo stesso, la verità e la conoscenza che ne conseguono sono, per Kant, adottabili solo dagli uomini: una data conoscenza può essere vera solo in relazione all'uomo; la medesima conoscenza potrebbe avere un'altra verità se interpretata da una mucca, o da un bambino, o da un marziano.



Kant ribalta la visione tradizionale soggetto-oggetto. In effetti, la verità di cui parla Kant è una conoscenza che viene percepita, che viene recepita passivamente dai sensi empirici, e poi analizzata dalla ragione. Non è più il soggetto che conosce l'oggetto (puro), ma è l'oggetto che si mostra al soggetto, il quale poi ne percepisce la natura in base ai sensi. Il mondo si mostra come un insieme di fenomeni, come ciò che appare ai nostri sensi; un fenomeno viene percepito dai sensi in una dimensione spaziotemporale a priori, viene collocato dall'intelletto umano attraverso le categorie della conoscenza - che si applicano affinché si possa analizzare e comprendere il mondo infine inizia la speculazione attorno a tale fenomeno effettuata dalla ragione. È possibile quindi conoscere solo ciò che si mostra ai sensi; Kant parte sempre dall'esperienza sensibile, da cui inizia la fase conoscitiva. Infatti, ciò che non appare, ciò di cui si ha soltanto l'idea senza averne il minimo dato sensibile, non si può conoscere; un oggetto che non appare, non è detto che non esista, ma tentando di conoscerlo si cadrebbe in una pura speculazione fantasiosa: ciò è detto noumeno. Esperienza (apparire, mostrarsi ai sensi) + ragione (applicazione delle categorie, ragionamento) = conoscenza di un oggetto. Esistono tre idee che Kant stabilisce essere inspiegabili, inconoscibili: l'idea di mondo, di anima e di dio. Esse non possono essere spiegate, ma devono essere considerate come postulati di vita: bisogna vivere come se esistano per davvero, anche se non si può dimostrarne l'esistenza. Kant doveva inoltre superare uno scetticismo importante, di cui l'apice lo si vedeva in Hume: si deve distinguere il fatto dal valore che esso ha; il fatto è conoscibile, ma il valore che esso comporta no. [Kant va incontro ai limiti posti dallo scetticismo di Hume: in quest'ottica, anche se un fenomeno si ripete medesimo tutti i giorni, non è detto sia legge universale che ripetutosi sino a ieri, si ripeterà anche l'indomani; essa è piuttosto abitudine, e pertanto non è possibile svilupparne una tesi universale. Cos'è il male, si chiede Kant? Dopo aver affrontato il tema morale, ossia quello dell'effettuazione del bene per il bene, era d'obbligo affrontare l'argomento immorale, del male. Inoltre, avendo pensato le intenzioni pure delle azioni morali, doveva essere possibile pensare teoricamente strutture a priori che contemplino l'intenzione pura del male. Ma trasposto poi alla pratica, Kant non riesce a definire l'uomo cattivo a tal punto, da riuscire a perseguire il male solo per il male stesso, solo per la pura volontà di farlo. Piuttosto, lo individua come convergenza verso le passioni, quelle che talvolta causano male; nulla di costruito a priori, nessuna intenzione pura del male. È semplicemente una convergenza del male, l'effettuazione delle passioni che causano male, non una costruzione a priori del male. Si può pensare, quindi, il bene per il bene stesso, ma non si può fare lo stesso ragionamento per il male. Kant passa dall'uomo naturale all'uomo culturale. L'uomo che Kant definisce, è un essere che conosce, che produce cultura e sapere, capace di trasmettere questo sapere di generazione in generazione, avanti nel tempo. Inoltre, Kant - come la maggior parte della filosofia vuole - pone l'uomo al di sopra di tutti gli altri animali, per via del suo intelletto maggiormente evoluto. Solo la scimmia più evoluta e simile all'uomo, sostiene dapprima Kant, un giorno potrebbe arrivare a progredire sino ad una forma simil-umana; tornando sui suoi passi corregge poi il tiro, pensando che questa scimmia ipoteticamente evoluta non sarebbe accettata dalla società e quindi emarginata: non

avrebbe la possibilità di sussistere. È coerente con l'ideale di superiorità dell'uomo rispetto agli animali, e del concetto che Kant ha di quest'ultimi: essi sono un mezzo, strumenti che devono essere al servizio dell'uomo; il compito della scienza e della tecnica è di sfruttare al massimo gli strumenti, animali compresi. Essi sono sacrificabili, e possono soffrire: la tradizione cristiana sostiene che anche se soffrono, gli animali non hanno anima; Kant argomenta invece dicendo che essi non soffrono, poiché non hanno dignità che infatti è propria solo dell'uomo. Pertanto sacrificare animali in nome dell'utilità dell'uomo non é immorale. Deridat, sosterrà che Kant, in sordina, ha introdotto una giustificazione all'uccisione degli animali, aprendo alla crudeltà verso questi.



La disfatta della metafisica

Rispetto alla prospettiva classica, secondo cui l'attività speculativa della mente sia espressione di quiete della mente in opposizione alla praxis del corpo, Arendt preferisce citare Catone: «mai un uomo è più attivo di quando non fa nulla, mai è meno solo di quando e solo con se stesso». È evidente che si considera, come appena detto, il dialogo silenzioso di Socrate con se stesso, il punto di partenza. Ma il pensare era affidato alla filosofia e alla metafisica! Curioso è il fatto che prima di Cartesio, non vi erano manifestazioni del concetto di 'follia'. Il concetto esplode subito dopo: Bosch lo immortalizza nella sua 'Nave dei folli' Micheal Focault esamina questo particolare fenomeno, ove l'avvento della razionalità sulla vita fa si che il rapporto con l'alterità, e con ciò di inspiegabile, diviene ostile: sono le carceri, gli ospedali di cura, i manicomi - tutte espressioni di esclusione da parte di una società che non capisce il diverso. Il pensiero è proprio questo diverso: speculazione fantasiosa, che ha a che fare con la metafisica; e son stati gli stessi interpreti della metafisica a screditarla: già da Hegel si trova il concetto di 'morte di Dio'. E non è Dio in quanto tale a morire, ma il modo con cui fino ad ora ci si era rapportati a lui; era la morte della concezione del sovrasensibile, e della conseguente distinzione dal mondo delle mere sensazioni. E se cade la dimensione di Dio in quanto tale, cade anche la concezione positivista del mondo sensibile: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero [Dio]. Quale mondo ci è rimasta, quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente» (crepuscolo degli idoli, nietzsche) - e ancora prima Democrito «O misera ragione, tu, che attingi da noi tutte le tue prove, tenti di abbatterci? La nostra disfatta significherà la tua rovina». L'intero sistema di riferimento va quindi in pezzi, e ci si sente ora disorientati e spaesati. Ma è stato demolito che il sistema di riferimento del pensiero, non la capacità di pensare; rimaniamo essere pensanti come lo siamo sempre stati. Tuttavia, il tramonto della metafisica e filosofia è un vantaggio duplice. Per un verso, si possiede un bagaglio d'esperienza speculativa enorme dietro di sé, e si hanno strade filosofiche già percorse e comprensibili; inoltre si è liberi da schemi di pensiero prefissati, e si può guardare a tali esperienze passate con occhi nuovi. Per l'altro verso, cadendo inoltre la distinzione tra chi si dedica alla vita contemplativa, i

"pensatori di professione", e gli uomini comuni; anche tale distinzione non è più plausibile: si dovrà esigere il pensiero da ogni persona sana. Allora la speculazione della "Vita della Mente" parte dalla distinzione kantiana tra ragione ed intelletto. Evidentemente, questa distinzione fa riferimento a due attività spirituali diverse: l'intelletto conosce, la ragione pensa. Il primo è soggetto a regole di non contraddizione che rendano la realtà intellegibile; la seconda, non è soggetta a tali leggi e, infatti, è capace di speculare su temi di cui non conosce. Kant, immerso nelle bugie epistemologiche della metafisica, pur avendo intuito una tale e fondamentale distinzione, non era riuscito a conferire alla ragione il suo giusto valore; anzi, difendendosi l'ha valutata secondo i criteri dell'intelletto, e poi svalutata a semplice speculazione negativa. Ma considerando tale distinzione, e presupponendo che la ragione ed il pensiero trascendano le regole dell'intelletto, perché relativi ad un altra funzione - si tenta di ristabilire ora il loro ruolo, e il loro significato. È l'errore comune a tutte le fallacie metafisiche, che danno per ovvia l'identità della Verità con il Significato. Essi non sono la stessa cosa, poiché significherebbe ammettere che dalla conoscenza derivi il senso della vita; Hannah Arendt tenterà di stabilire che non e così. "Il bisogno di ragione non è ispirato dalla ricerca di verità, ma dalla ricerca di significato".

La vita della mente The Life of Mind, (1978)

Capitolo I: L'apparenza

Apparenza è esistenza. In questo mondo ove stiamo entrando, vi entriamo con la soggettività moderna. Qui soggetto e oggetto coincidono, esso insieme sono mondo; ripercorrendo i tratti essenziali della fenomenologia anche di Merlau-Ponty, si arriva al concetto della visibilità che è al contempo sia apparenza, sia esistenza. Non esiste nulla che sia mera apparenza, e non esiste nulla che esista senza apparire visibile: ognuno è spettatore nel mondo e attore del mondo, in un'esistenza mondana. Ai numerosissimi e variegati prototipi dell'essere, esistono altrettanti e differenti configurazioni sensoriali: ogni animale diverso, vive mondanamente in modo diverso. Tali essere mondani, sensibili e senzienti, sono soggetti al tempo: essere vivi significa vivere in un mondo che esisteva già prima, e che continuerà ad esistere, ove la mia comparsa è solo una piccola apparizione/ esistenza nella grande vita Umana. La concezione del tempo in rapporto al soggetto, sorta di tempo biologico, cambia in base alle fasi della vita, relazionandosi alla posizione temporale che ci avvicina o ci allontana dalla morte, ovvero dalla nostra scomparsa rendendo il tempo più o meno veloce. Ma, comunque tutti gli esseri naturali che transitano su questo mondo, sono insieme soggetti ad un tempo oggettivo, uguale per tutti e prosegue indistintamente dalla nostra relazione con la vita. Le creature viventi non sono mere apparenze, ma progettati all'impulso di autoesibizione: apparire significa parere agli altri, ed è relazionato al punto di vista di chi guarda, di chi osserva. Siamo spettatori ed attori insieme, come già esposto; non è possibile sfuggire a tale apparenza, anche quando siamo assopiti nelle invisibili attività della mente. Allora resta da capire se anche il pensiero è destinato ad apparire, o esso non potrà mai trovare posto nel mondo. (Vero) essere e (mera) apparenza: la teoria dei «due mondi». La vecchia dicotomia metafisica di (vero) essere e (mera) apparenza riposa sulla priorità della apparenza: il filosofo – per conoscere ciò che veramente è - deve lasciare il mondo delle apparenze tra le quali si sente naturalmente e originariamente a suo agio. [103] Il mondo delle apparenze precede qualsiasi regione il filosofo possa scegliere come propria «vera» dimora: lo stesso carattere di apparenza di questo mondo ha suggerito alla mente dell’uomo che debba esistere qualcosa che non sia apparenza. Allorché il filosofo si accomiata dal mondo dato ai sensi e si converte alla vita spirituale (periagōgē platonica), egli si fa guidare da quel primo mondo ricercando qualcosa che possa rivelare la verità soggiacente (alētheia, «ciò che è disvelato» per Heidegger): essa è concepita proprio come un’altra apparenza, un fenomeno originario, di ordine superiore, significando il persistente dominio della apparenza. Qualcosa di simile accade nella scienza moderna: anche lo scienziato dipende dalle apparenze, sia in quanto sezioni ciò che appare in superficie per osservare l’interno, sia che cerchi di

captare oggetti nascosti mediante strumentazioni che privano le cose delle proprietà esteriori con cui si mostrano ai nostri sensi. [104] Il primato della apparenza è un dato di fatto della vita quotidiana, cui filosofi e scienziati non possono sottrarsi e che non possono scuotere con le loro “strane” nozioni. A questa incrollabile convinzione del senso comune si oppone la antichissima supremazia teoretica dell’Essere e della Verità sulla mera apparenza, cioè la supremazia del fondo (ground) che non appare sulla superficie che appare. Tale idea di «fondo» presumibilmente risponde alla interrogazione più antica di scienza e filosofia: come può accadere che qualcosa appaia e che cosa lo fa apparire proprio in quella determinata forma? La interrogazione ricerca più una causa che una base o fondamento: la nostra tradizione ha trasformato la base da cui una cosa nasce nella causa che la produce, per poi assegnare a questo agente produttivo un grado di realtà più alto di quello attribuito a ciò che viene immediatamente incontro ai nostri occhi. [105] Esse non solo non rivelano spontaneamente ciò che nasconde la loro superficie, ma, in genere, le apparenze non si limitano a rivelare, occultano anche. La ricerca incessante del fondo sottostante da parte della scienza moderna ha conferito forza nuova all’antico argomento: essa ha di fatto costretto allo scoperto il fondamento delle apparenze, così che l’uomo – creatura predisposta per le apparenze – se ne impadronisse e lo manipolasse. I risultati sono piuttosto dubbi: nessun uomo può vivere tra «cause» o rendere conto, nel naturale linguaggio umano, di un Essere la cui verità può essere dimostrata scientificamente in laboratorio e verificata praticamente nel mondo reale mediante la tecnologia. [106]

Il rovesciamento della gerarchia metafisica: valore della superficie. Il mondo quotidiano del senso comune conosce l’errore e la illusione, ma nessuna eliminazione di errore o dissipazione di illusione possono condurre a una regione al di là della apparenza: ogni evidenza è perduta a vantaggio di un’altra, ogni apparenza è distrutta per lasciare posto a una nuova apparenza. [107] Gli studi di Portmann, lo portano a concludere che «l’apparenza rivela un potere di espressione massimo a paragone di ciò che è interno, le cui funzioni sono di ordine più primitivo»: l’uso del termine «espressione» rivela le difficoltà cui un approfondimento di tali conseguenze è destinato ad andare incontro. Che cosa esprime l’espressione? Qualcosa di interno! Ma la espressività di una apparenza è di ordine diverso: l'apparenza esprime se stessa, cioè si mostra o si esibisce. I nostri criteri di giudizio abituali, saldamente radicati in postulati e pregiudizi metafisici, sono, nei rilievi di Portmann, errati. La nostra vita interiore non è più inerente a quello che siamo di ciò che appare all’esterno: quando, tuttavia, correggiamo questi errori, ecco che il nostro linguaggio ci fa difetto. [111]

Corpo e anima; anima e mente. Siamo propensi a pensare che nessun interno corporeo appare mai autenticamente da sé e senza interferenza all’esterno: se parliamo di una vita interiore espressa in una apparenza esterna, pensiamo alla vita dell’anima. È come se relazione interno-esterno funzionasse per il corpo, ma non per l’anima, sebbene si parli di vita psichica e del suo luogo dentro di noi. L’uso di metafore è tipico del nostro linguaggio concettuale, inteso a rendere manifesta la vita della mente: le parole da noi impiegate nel discorso filosofico sono derivate da espressioni originariamente collegate al mondo percepito. [111-2] Ciò che vale per la mente, cioè che il linguaggio metaforico è la sola sua possibilità di apparire sensibilmente all’esterno – il che vale in genere anche per il pensare, in quanto dialogo silenzioso di sé con sé – non può ripetersi per la vita dell’anima: a differenza di pensieri e idee, sentimenti, passioni, emozioni non possono divenire parte integrante delle apparenze, più di quanto avvenga per i nostri organi interni. Ciò che appare all’esterno delle nostre emozioni non è genuino, ma è quanto noi trasformiamo attraverso operazioni di pensiero. [112] Le attività mentali sono concepite nel discorso ancor prima di essere comunicate: il pensiero senza parola non è concepibile. Tutte le attività mentali si ritraggono dal mondo delle apparenze, ma non verso un interno dell’io o dell’anima: il pensiero, con l’associato linguaggio concettuale, ha luogo e trova espressione in un essere che è a casa propria nelle apparenze, dunque è nella necessità di ricorrere a metafore per colmare lo scarto tra un mondo dato alla esperienza dei sensi e una sfera in cui una simile apprensione immediata dei sensi non esiste. [113] Il pensiero, e il linguaggio metaforico, sono il tramite fra corpo, e anima. Oltre all’impulso alla autoesibizione, per il quale gli esseri viventi si adattano a un mondo di apparenze, gli uomini si presentano con atti e parole, indicando il modo in cui desiderano apparire: questo elemento di scelta deliberata interno a ciò che si mostra o si nasconde sembra specificamente umano. [115] L’autopresentazione si distingue dalla autoesibizione, di cui si parlava. Alla scelta attiva e consapevole della immagine mostrata: l’esibirsi non può che mostrare tutte le proprietà di un essere vivente; la autopresentazione implica un certo grado di consapevolezza di sé, connessa al carattere riflessivo delle attività spirituali. [118]

Apparenza e parvenza. Dato che la scelta, il fattore decisivo della autopresentazione, ha a che fare con le apparenze, e dato che la apparenza ha la duplice funzione di celare un interno e di svelare una «superficie», esiste sempre la possibilità che ciò che appare possa, alla fine, scomparendo, risultare null’altro che mera parvenza. A causa della frattura tra interno ed esterno, tra il fondamento della apparenza e la apparenza, resta sempre un elemento di parvenza in ogni apparenza. Le parvenze non sono possibili che in mezzo ad apparenze, presuppongono l’apparenza, come l’errore presuppone la verità. [119] La parvenza è connaturata a un mondo governato dalla duplice legge dell’apparire a una pluralità di creature senzienti. Nulla che appare si manifesta a un singolo osservatore, capace di percepirlo sotto i suoi aspetti intrinseci. Il mondo appare nel modo del «mipare», secondo le prospettive particolari determinate dalla ubicazione nel mondo e dalla particolarità degli organi percettivi. Tale modo non solo genera l’errore, che posso

correggere mutando la mia posizione o rafforzando gli organi di percezione con apparecchi appropriati, ma anche vere e proprie parvenze: apparenze ingannevoli che non posso correggere perché prodotte dalla mia posizione sulla terra e restano avvinte alla mia esistenza di apparenza tra le apparenze terrestri. [119-120]



L’ego che pensa e l’io: Kant Il concetto di apparenza, e quindi di parvenza (Erscheinung e Schein), è decisivo in Kant: la «cosa in sé» è qualcosa che non appare sebbene sia causa di apparenze. È stata spiegata sullo sfondo della tradizione teologica: Dio può essere pensato solo come ciò che non appare e non si dà alla nostra esperienza, è «in sé» e, poiché non appare, non è per noi. Interpretazione per la Arendt non priva di difficoltà: le idee della ragione (Dio, anima, mondo) sono per-noi nel senso che la ragione non può fare a meno di pensarle. [122] La conclusione kantiana per cui le apparenze devono fondarsi su un oggetto trascendente che le determini come semplici rappresentazioni, cioè su qualcosa che si situa per principio su un piano ontologico diverso sembra derivare per analogia dai fenomeni di questo mondo: apparenze autentiche e inautentiche. Le apparenze inautentiche producono le prime, (apparato stesso del processo vitale: radici delle piante, nascoste sotto terra, ma che si possono portare alla luce). [123] La gerarchia tradizionale di Essere e Apparenza, non scaturisce tuttavia dalle nostre esperienze ordinarie del mondo delle apparenze (che suggeriscono che il fondamento dietro le apparenze ha significato per gli effetti che produce), piuttosto nella esperienza particolare dell’io che pensa. [124] Kant identifica esplicitamente il fenomeno alla base della sua credenza in una «cosa in sé» dietro le «mere» apparenze: si tratta del fatto che «nella coscienza che ho di me stesso, nella semplice attività di pensare, io sono la cosa stessa sebbene così nulla di me sia dato al pensiero». L’io che pensa – che rimane celato dietro pensieri che sono «semplici rappresentazioni» - è la vera «cosa in sé» di Kant: esso non appare agli altri e, diversamente dall’io della consapevolezza di sé, non appare a se stesso, e tuttavia non è nulla. [124-5] Concludere, in base alla esperienza dell’io che pensa, che esistano «cose in sé», che, nella propria sfera intelligibile, sono nello stesso modo in cui noi «siamo» in un mondo di apparenze - rientra tra le parvenze della ragione (fallacie metafisiche), di cui si deve giudicare se siano autentiche o inautentiche, risultato di assunti arbitrari, miraggi che si dissolvono con una analisi più accurata, ovvero connaturate alla condizione paradossale di un essere vivente che, pur parte del mondo delle apparenze, è in possesso di una facoltà – la capacità di pensare – che permette alla mente di ritrarsi dal mondo senza riuscire mai a staccarsene o trascenderlo. [127-8]

La realtà e l’io che pensa: il dubbio cartesiano e il «sensus communis». In un mondo di apparenze la realtà è caratterizzata in primo luogo dallo «star ferma e permanere» la stessa così a lungo da diventare un oggetto per la conoscenza e per il riconoscimento di un soggetto. Husserl coglie con la massima precisione la intenzionalità della coscienza, il fatto che nessun atto soggettivo è mai senza un oggetto: la oggettività è incorporata nella soggettività stessa della coscienza. Analogamente si può parlare di intenzionalità delle apparenze e della loro soggettività

incorporata: per il fatto di apparire, gli oggetti indicano un soggetto. [128] Che la apparenza esiga sempre uno spettatore comporta che per noi, esseri che appaiono in un mondo di apparenze, la realtà di ciò che percepiamo dipenda dal fatto che esso appaia come tale anche ad altri. Si tratta del solipsismo che ha costituito la fallacia più tenace della filosofia. Per il filosofo che parla della esperienza dell’io che pensa, l’uomo è per natura non semplicemente verbo ma pensiero fatto carne, la incarnazione sempre misteriosa, mai pienamente chiarita, della capacità di pensare. [129] Si tratta della parvenza del tutto autentica della stessa attività del pensiero: quando un uomo si abbandona al puro pensare vive completamente al singolare, in completa solitudine, come se non gli uomini ma l’Uomo popolasse la terra. Ritirarsi dalla «bestialità della moltitudine» nella eletta compagnia di «pochissimi» (Platone, Filebo), ovvero nella assoluta solitudine dell’Uno ha rappresentato la caratteristica saliente della vita dei filosofi, sin da quando Parmenide e Platone scoprirono che per i sophoi la «vita di pensiero» - che non conosce né gioia né dolore – è tra tutte la più divina e il nous è il «re del cielo e della terra» (Platone, Filebo). [130] Il sospetto cartesiano nei confronti dell’apparato sensoriale, conseguenza della decisiva perdita di certezze provocata dalle grandi scoperte scientifiche della età moderna, indusse a valorizzare per la prima volta, come proprietà della res cogitans, caratteristiche non ignorate ma secondarie per gli antichi: soprattutto la «autosufficienza» della ragione, per cui questo io «non ha bisogno di alcun luogo né dipende da alcuna cosa materiale», e la assenza dal mondo, fingendo di non avere corpo, che non esista un mondo ecc.. [130-1] Tuttavia la res cogitans cartesiana, creatura fittizia e incorporea, priva di sensi, abbandonata a se stessa, non avrebbe mai potuto conoscere la esistenza di una cosa chiamata realtà e di una possibile distinzione tra il reale e l’irreale. [131] È l’attività del pensare, la esperienza dell’io che pensa, a dare origine al dubbio sulla realtà del mondo e di me stesso. Il pensiero può afferrare e far propria ogni cosa reale; il loro essere reali è l’unica proprietà che resta al di là della sua portata. Dall’io penso si può inferire solo l’esistenza di cogitationes; vi è presupposto l’io sono, ma tale presupposizione non può essere dimostrata né confutata. La realtà non si può dedurre. [132] La realtà di ciò che percepisco è garantita da un lato dal suo contesto mondano, che comprende altri uomini che percepiscono come me, e dall’altro dalla azione combinata dei cinque sensi. Il sensus communis è una sorta di sesto senso necessario per tenere insieme gli altri cinque e garantire che si riferiscano allo stesso oggetto. Esso intona le sensazioni dei cinque sensi strettamente privati (per cui esse nella loro qualità sensoriale pura sono incomunicabili) a un mondo comune condiviso con gli altri. La soggettività del mi-pare è rimediata dal fatto che lo stesso oggetto appare anche agli altri, sebbene possa apparire in modo diverso. [133]

La sensazione della realtà ha origine da: (i) i cinque sensi, assolutamente diversi l’uno dall’altro, hanno lo stesso oggetto in comune; (ii) i membri della stessa specie hanno in comune il contesto che fornisce a ogni singolo oggetto il suo significato particolare, sensus communis, proprietà mondana; (iii) tutti gli altri esseri provvisti di sensi, benché percepiscano tale oggetto da prospettive completamente diverse, concordano sulla sua identità. [133-4]



La proprietà mondana corrispondente al sesto senso, è l’essere-reale, che non può essere percepita alla stregua delle altre proprietà sensoriali. Quindi il rapporto che esiste con il contesto in cui appaiono i singoli oggetti e nel quale noi stessi, come apparenze, esistiamo tra altre creature che appaiono. Il contesto in quanto tale è sfuggente, non appare mai, in questo simile all’Essere che in quanto Essere non appare mai in un mondo pieno di enti. L’Essere, tuttavia, in quanto ente del pensiero mai ci aspettiamo che sia percepito dai sensi; laddove, invece, l’essere-reale è affine alla sensazione: un senso di realtà o irrealtà si accompagna di fatto a tutte le percezioni dei miei sensi, che senza di esso non avrebbero «senso». [134] Il senso comune condivide con la facoltà di pensiero la proprietà della invisibilità, ma il pensiero ha anche oggetti invisibili. Il pensiero può procedere a sottoporre a dubbio tutto ciò di cui si impadronisce perché non possiede una relazione naturale e scontata con la realtà. Fu proprio il pensiero che distrusse in Descartes la fede del senso comune nella realtà: il suo errore fu di sperare che sarebbe riuscito a superare il proprio dubbio ritraendosi completamente dal mondo e concentrandosi solo sulla attività di pensiero. Il pensare non può distruggere né dimostrare il senso di realtà originato da ciò che in francese, non casualmente, si definisce bon sens: quando si ritrae dal mondo, il pensiero si ritrae dai dati sensoriali e dunque anche dal senso di realtà assicurato dal senso comune. [136] La perdita di senso comune non è appannaggio dei soli «pensatori di professione», ma in genere di tutti coloro che pensano. Ai filosofi, semplicemente, capita più spesso, e la ragione per cui tale estraneità e distrazione non rappresentano un rischio per la perdita di realtà che comportano è che l’io che pensa si afferma solo temporaneamente. [136-7]

Scienza e senso comune. La distinzione di Kant tra intelletto e ragione: Verità e significato Lo scienziato moderno distrugge le parvenze autentiche senza perdere la sua sensazione di realtà: senza il pensiero non sarebbe mai stato possibile penetrare le apparenze e smascherarle come parvenze; il ragionamento di senso comune non avrebbe mai osato sconvolgere così radicalmente tutte le verosimiglianze dell’apparato sensoriale. Differenza con la riflessione antica: salvare i fenomeni vs scoprire l’apparato funzionale nascosto che li produce. Gli atomi di Democrito erano invisibili: fu preso per pazzo; la teoria eliocentrica fu proposta da Aristarco di Samo, accusato per ciò di empietà. [137] Il pensiero svolge un ruolo enorme in ogni impresa scientifica, con un ruolo di mezzo in vista di un fine, determinato da una decisione intorno a ciò che vale la pena conoscere. Tale decisione non è a sua volta scientifica. Il fine si identifica in un sapere o in una conoscenza che, una volta ottenuta, appartiene al mondo delle apparenze, come verità è integrata nel mondo. Sapere e sete di conoscenza non abbandonano mai del tutto il mondo: se lo scienziato se ne ritrae è solo per scoprire strade migliori (metodi) verso quel mondo. Continuità fondamentale tra scienza, in cui si rettificano gli errori, e ragionamenti di senso comune, in cui sono costantemente dissolte le illusioni dei sensi: il criterio comune è la evidenza, connaturata a un mondo di apparenze. [137-8] Il concetto stesso di progresso illimitato che accompagnò la nascita della scienza

moderna e ne è rimasto principio ispiratore dominante, testimonia chiaramente che la scienza si muove ancora entro la sfera della esperienza del senso comune, soggetta all’inganno e all’errore correggibile. Quando la esperienza della correzione sistematica della ricerca scientifica si generalizza, sfocia nella "illimitatezza del progresso". [138] La trasformazione della Verità in mere verità deriva dal fatto che lo scienziato rimane legato al senso comune, grazie al quale gli uomini si orientano in un mondo di apparenze. Mentre il pensiero si ritrae dal mondo e dal suo carattere di evidenza in modo radicale e nel suo esclusivo interesse, la scienza si avvantaggia del ritiro in vista di risultati specifici. Nell’ambito della scienza è il ragionamento di senso comune che si avventura nella speculazione pura, senza disporre della salvaguardia intrinseca al puro pensiero: la capacità critica (che cela in sé una forte tendenza autodistruttiva). [139] Il fatto che la scienza moderna, sempre a caccia di manifestazioni dell’invisibile, abbia prodotto una quantità spettacolare di nuove cose percepibili è paradossale solo in apparenza. Per scoprire che cosa fa funzionare le cose, essa prese a imitare il funzionamento dei processi operanti in natura, a tale scopo producendo le apparecchiature con cui costringere il non apparente ad apparire: tale era il solo modo per persuadere lo scienziato della sua realtà. In questo senso, sebbene le teorie si distacchino dal senso comune, devono alla fine farvi ritorno, per evitare che ogni senso di realtà dilegui dall’oggetto delle loro indagini. Il passaggio richiede il laboratorio, dove ciò che non appare spontaneamente è costretto ad apparire. [140] La tecnologia, un po’ spregiata dallo scienziato che vi riscontra un sottoprodotto dei suoi sforzi, introduce la scoperta scientifica – compiuta in isolamento – nel mondo quotidiano delle apparenze, la rende accessibile al senso comune. Nella prospettiva del mondo «reale» il laboratorio già prefigura un ambiente modificato, in cui lo scienziato fa esperienza; i processi cognitivi che sfruttano l’attitudine a pensare e inventare come mezzo per i loro fini costituiscono modalità raffinate di ragionamento di senso comune. La attività conoscitiva è dunque legata al nostro senso di realtà, nella misura in cui contribuisce a costruire il mondo. [140-1] La facoltà di pensare (Venunft) è completamente diversa. Kantianamente i concetti della ragione servono a concepire (Begreifen), i concetti dell’intelletto (Verstand) a comprendere (Verstehen). L’intelletto comprende ciò che è dato ai sensi, la ragione desidera comprenderne il significato. La cognizione ha come criterio la verità, che cerca nell’ambito delle apparenze, in cui gli uomini si orientano sulla base della percezione sensibile, autoevidente. La facoltà di pensiero ricerca il significato: che cosa – per una certa cosa data per scontata – significhi essere. [141] La scienza e la ricerca di conoscenza perseguono una verità irrefutabile, che gli esseri umani non siano liberi di rifiutare: verità di ragione, necessarie, il cui opposto è impossibile, e verità di fatto, contingenti e il cui opposto è possibile. Le verità di fatto sono per il testimone altrettanto coercitive, sebbene un fatto non possa avere come testimoni tutti (e quindi le verità di fatto sono testimoniate e accettate sulla base del credito dei testimoni), mentre le verità di ragione si presentano come evidenti e quindi cogenti per tutti gli esseri razionali. [143] Non ci sono verità al di là e al di sopra delle verità fattuali: tutte le verità scientifiche sono verità di fatto, non escluse quelle generate (matematica) dalla capacità cerebrale, espresse in un linguaggio di segni

escogitato ad hoc. Il conoscere mira alla verità, anche se, come nelle scienze, non si tratta che di verità provvisoria. Aspettarsi verità dalla attività di pensiero significa confondere l’impulso di pensare con l’impulso di conoscere. Se il pensiero è impiegato nello sforzo di conoscenza non è mai veramente se stesso. [145] Al di là di tutti i problemi cognitivi a cui gli uomini trovano risposte si celano interrogativi senza risposta: se cessasse l’appetito per domande che rimangono senza risposta, cioè l’appetito di significato, perderebbero l’attitudine a produrre quegli enti di pensiero che sono le opere d’arte e la capacità di porre tutte le interrogazioni suscettibili di risposta su cui si fonda ogni civiltà. In questo senso la ragione è condizione a priori di intelletto e sapere. [146] Mentre la attività di conoscere lascia dietro di sé un tesoro crescente, che ogni civiltà accumula e custodisce come parte integrante del suo mondo (per cui la sua perdita comporterebbe la fine di quel mondo particolare), la attività di pensare non lascia nulla di tangibile dietro di sé. [146-7] Nonostante Kant non fosse riuscito a liberarsi del tutto dalla convinzione che il fine ultimo del pensiero consistesse nella verità e nel sapere, egli riconosce che la ragione non può essere origine di inganno e illusione. Ciò è vero perché la ragione, in quanto facoltà di pensiero speculativo, non si muove nell’ambito delle apparenze: essa può generare insensatezza ma non illusione. Kant riconosce valore euristico alle idee, sebbene non insista troppo su questo punto, per timore che le sue idee possano rivelarsi «vuote cose di pensiero». [149] Kant: «La ragione pura, di fatto, non si occupa d’altro che di se stessa e non può avere nessun’altra vocazione». [150]



Capitolo II: Le attività della mente in un mondo di apparenze

L’invisibilità e il ritrarsi Sebbene gli uomini siano esistenzialmente del tutto condizionati, possono trascendere spiritualmente tutte queste condizioni: spiritualmente, non nella realtà. Possono giudicare positivamente o negativamente la realtà, volere l’impossibile, pensare in modo da attribuire significati all’ignoto o all’inconoscibile: sebbene tutto ciò non possa cambiare immediatamente la realtà, i principi in base ai quali si agisce e i criteri con cui si giudica e si conduce la propria vita dipendono in ultima analisi dalla vita della mente, dalla esecuzione delle sue operazioni spirituali. [153] Nella prospettiva del mondo delle apparenze e delle attività da esse condizionate, la caratteristica principale delle attività della mente è la loro invisibilità: esse non appaiono mai. All’invisibile che si manifesta al pensiero corrisponde una facoltà umana che, diversamente da altre, non solo è invisibile finché è latente, allo stato di mera potenzialità, ma tale invisibilità permane non manifesta anche quando pienamente in atto. A differenza di lavoro e fabbricazione, che non esigono che la attività sia esibita in quanto tale, azione e parola necessitano di uno spazio in cui apparire e di persone che vedano e ascoltino. Nessuna di tali attività, tuttavia, è invisibile. I Greci indicavano gli eroi come andres epiphaneis: i pensatori, allora, sono per eccellenza uomini non in vista. [154] A differenza della invisibilità dell’anima, che è analoga a quella degli organi interni di cui avvertiamo il funzionamento, la vita della mente è pura attività invisibile: mentre le passioni dell’anima si esprimono, la sola manifestazione esteriore della mente è la distrazione, evidente noncuranza del mondo circostante, che non accenna però a ciò che sta accadendo dentro di noi. [155] La pluralità costituisce una delle condizioni esistenziali di base della vita umana sulla terra; essere presso di sé e intrattenere rapporti solo con sé stessi costituiscono la caratteristica principale della vita della mente. Che la mente abbia una vita può dirsi solo nella misura in cui essa attualizza questo rapporto in cui, sul piano esistenziale, la pluralità si riduce alla dualità implicita nel fatto e nella parola «coscienza» (consciousness, syneidenai), conoscere con me stesso. [156-7] Q u e s t o s t at o i n c u i t e n g o c o m p a g n i a a m e s t e s s o è i n d i c at o c o m e «solitudine» (solitude) per distinguerlo dalla «desolazione» (loneliness) dove si è altrettanto soli, ma abbandonati non solo dalla compagnia degli uomini, ma anche dalla virtuale compagnia di sé stessi: solo nella desolazione ci si sente privati della compagnia degli uomini; solo così essi possono esistere al singolare. Le attività spirituali stesse recano tutte testimonianza, con la loro natura riflessa, della dualità connaturata alla coscienza: l’agente spirituale non può essere attivo che retroagendo, implicitamente o esplicitamente, su se stesso. Le attività mentali – in primo luogo il pensare, il dialogo senza voce dell’io con se stesso – possono essere intese come la attuazione di quella dualità o scissione originaria tra me e me stesso che è inerente alla coscienza. [157] La vita della mente nella quale tengo compagnia a me stesso può essere silenziosa ma mai muta, né può essere completamente dimentica di se stessa, a causa della natura riflessa di tutte le sue attività. Io posso essere consapevole delle attività della mente e della loro riflessività solo nella misura in cui dura la loro attività: l’io pensante di cui sono,, perfettamente consapevole finché dura la attività di pensiero,

scomparirà come fosse un puro miraggio non appena il mondo reale ritorni a imporre se stesso. Poiché le attività spirituali, non apparenti, hanno luogo in un mondo di apparenze, esse non possono scaturire che da un ritrarsi dalle apparenze: un ritiro non tanto dal mondo – solo il pensiero con la sua tendenza a generalizzare spinge a ritrarsi completamente dal mondo – quanto dal suo essere presente ai sensi. Ogni atto spirituale si fonda sulla facoltà della mente di aver presente a se stessa ciò che è assente ai sensi. Nella nostra terminologia metaforica tratta dalla visione, tale capacità è indicata come immaginazione. [158] Pur ritenendo erroneo ricercare un ordine gerarchico tra le attività della mente, ciò che chiamiamo pensiero, pur incapace di muovere la volontà o di fornire al giudizio regole generali, deve preparare i particolari dati ai sensi così che la mente sia in grado di manipolarli in loro assenza, de-sensibilizzandoli. [159] La immaginazione che trasforma un oggetto visibile in una immagine invisibile, idonea a essere immagazzinata dalla mente, costituisce la 'conditio sine qua non' per fornire alla mente oggetti di pensiero convenienti, ma tali oggetti di pensiero vengono alla luce solo quando la mente ricorda, deliberatamente e attivamente, e raccoglie dal deposito della memoria ciò che desti il suo interesse. Così facendo la mente apprende come affrontare e trattare le cose che sono assenti e si prepara ad «andare oltre», verso la comprensione di cose che sono per sempre assenti, verso cose mai state presenti alla esperienza sensibile. [160] Per il pensiero, sebbene non per la filosofia in senso tecnico, il ritrarsi dal mondo delle apparenze costituisce la sola precondizione essenziale. Ciò spiega perché il pensare, la ricerca di significato – in opposizione alla sete di conoscenza, anche fine a se stessa – sia stato spesso sentito come attività innaturale, contraria alla condizione umana. [161] Ogni pensare esige un fermati e pensa. Per quanto contenessero errori e assurdità, le teorie dei «due mondi» ebbero origine da esperienze autentiche dell’io che pensa. Tutto ciò che ostacola il pensiero appartiene al mondo della apparenze, che condividiamo, alle esperienze che garantiscono la realtà: il pensiero è come se paralizzasse. Valéry: «a volte penso, a volte sono». Platone: solo il corpo del filosofo continua ad abitare la città degli uomini- Lungo tutta la storia della filosofia persiste l’idea platonica di una affinità tra filosofia e morte. [162] Ancora Heidegger in Essere e tempo fa della anticipazione della morte la esperienza decisiva per raggiungere il proprio sé autentico, affrancandosi dalla inautenticità del si.

La guerra intestina tra pensiero e senso comune La distrazione del filosofo, del professionista del pensiero, privilegiando unilateralmente quella che è solo una delle molteplici facoltà dell’uomo, deve apparire in questo modo agli occhi del senso comune. Nel mondo di apparenze in cui si muovono gli uomini, infatti, la esperienza più radicale di sparizione è la morte: il senso di tale affinità tra attività di pensiero e morte arriva proprio dal senso comune del filosofo, che gli fa percepire di trovarsi fuori dall’ordinario. Il filosofo, infatti, non è immune alla communis opinio, dal momento che partecipa alla comunanza di tutti gli uomini: il suo senso di realtà gli rende sospetta l’attività di pensiero. [163] Agli attacchi che provengono dal senso comune, il filosofo è tentato di rispondere in termini di senso comune, rovesciandone gli argomenti: la morte, così, per la communis opinio massimo dei mali, diventa per il filosofo Platone «una divinità, una benefattrice, precisamente in quanto

scioglie i legami tra anima e corpo». [163-4] Tutta la storia della filosofia sarebbe trascorsa dal conflitto intestino tra il senso comune dell’uomo, che accorda i cinque sensi al mondo comune, e la facoltà di pensiero. I filosofi hanno interpretato tale conflitto come ostilità naturale della moltitudine e delle sue opinioni verso i pochi e la loro verità: la interpretazione platonica del processo a Socrate riecheggia fino a Hegel. In realtà più che di ostilità dei molti, si dovrebbe parlare di scelta del filosofo di abbandonare la Città degli uomini, denunciando l’inganno di coloro che si è lasciato dietro. [164] Il conflitto comunque non è originariamente tra i pochi e i molti, ma tra pensiero e senso comune all’interno del filosofo stesso, che si rende perfettamente conto delle obiezioni del senso comune alla filosofia. La reazione naturale della moltitudine di fronte alle inquietudini del filosofo e alla inutilità manifesta delle sue occupazioni è non la ostilità ma il riso, un riso del tutto innocente. [165] Platone racconta nel Teeteto la storia della servetta di Tracia e di Talete; Kant accosta la dote del pensiero speculativo a quella conferita da Giunone a Tiresia: accecamento in cambio del dono della profezia. Non può esserci dimestichezza con un altro mondo se non perdendo il senso di cui si ha bisogno per il mondo presente (Träume eines Geistersehers). [166] Se traiamo la nostra prospettiva dal mondo delle apparenze, il desiderio di conoscere il nostro habitat comune e di accumulare le conoscenze relative è naturale. Per il bisogno di trascendere tale mondo sensibile, ce ne allontaniamo, metaforicamente scompariamo da esso: dall’angolo visuale naturale del nostro senso comune è come se anticipassimo la nostra dipartita finale. Platone (nel Fedone) individua due desideri in chi destina la sua vita al pensiero: (i) essere affrancato da ogni sorta di occupazione terrena (ii) giungere a vivere in un al di là in cui percepire direttamente quelle cose cui è rivolto il pensiero (verità, valori). Aristotele (Protrettico) parla delle «isole dei beati», in cui gli uomini sono tali (beati) perché restano solo pensiero e contemplazione. [167] La metafora della morte ovvero la inversione metaforica di morte e vita non hanno nulla di arbitrario: meno drammaticamente si può rilevare che, se il pensiero instaura le proprie condizioni facendosi cieco alle condizioni sensibili con il rimuovere ciò che è vicino, ciò avviene per liberare spazio al lontano perché divenga manifesto. Ogni cosa presente è assente poiché qualcosa di assente è in realtà presente alla sua mente. Tra le cose assenti è anche il corpo del filosofo. [168] La Memoria, Mnēmosynē, è la madre delle Muse e il ricordo, la esperienza di pensiero più comune e fondamentale, ha a che fare con cose assenti, scomparse ai sensi, evocate e rese presenti alla mente, ma non nel modo in cui apparivano ai sensi. La immaginazione le ha de-sensibilizzate. [168-9] Il pensiero è «fuori dell’ordine» non solo perché arresta le altre attività indispensabili alla vita, ma perché capovolge i rapporti ordinari: ciò che è vicino appare lontano, ciò che è lontano è effettivamente presente. Nella esperienza ordinaria tempo e spazio non si lasciano pensare senza riferimento a un continuum che si stende dal prossimo al distante, dal passato al futuro: nel processo di pensiero non solo le distanze ma anche spazio e tempo sono aboliti. Non a caso il nunc stans è stato assunto dalla filosofia medievale a simbolo della eternità in quanto descrizione plausibile di ciò che si verifica nella meditazione e nella contemplazione. [169]

Il mito di Orfeo e Euridice esprime ciò che avviene nell’istante in cui il processo di pensiero si interrompe nell’ordinario mondo della vita: ogni invisibile svanisce di nuovo. Non la percezione dei sensi in cui esperiamo le cose direttamente e da vicino, ma la immaginazione che le succede prepara gli oggetti per il pensiero. Prima di formulare interrogazioni - del tipo che cosa sia la felicità o la giustizia - occorre aver visto persone (felici, infelici) e azioni (giuste, ingiuste), aver ripetuto la esperienza nella mente dopo aver lasciato il luogo. Ogni pensare è un ripensare: mediante la ripetizione della immaginazione gli oggetti sono de-sensibilizzati e solo in tale forma il pensiero può iniziare a considerarli. [170] Persino il semplice racconto di una cosa accaduta è preceduto dalla operazione di desensibilizzazione: la lingua greca riconosce questo elemento temporale nel suo lessico: idein = vedere, eidenai = aver visto = sapere (Vedi vernànt). Ogni pensiero proviene dalla esperienza, ma nessuna esperienza produce da sola un significato o anche coerenza senza passare per le operazioni della immaginazione e del pensare. Nella prospettiva del pensiero, la vita nel puro e semplice esserci, è priva di significato; dal punto di vista della immediatezza della vita e del mondo dato ai sensi, il pensare equivale a una morte vivente. Il filosofo considera le cose dal punto di vista dell’io che pensa, per cui una vita senza significato è una sorte di morte. Poiché non coincide con l’io reale, l’io che pensa non ha nozione del proprio ritrarsi dal mondo comune delle apparenze: dal suo punto di vista ogni cosa avviene come se fosse stato l’invisibile a farsi avanti, come se il molteplice delle apparenze sviasse la mente, impedendo le sue attività, celando positivamente un Essere per sempre invisibile che rivela sé solo alla mente. [171] La occupazione di pensare è come la tela di Penelope: il bisogno di pensare può acquietarsi solo attraverso il pensare stesso. Caratteristiche salienti della attività di pensiero: (i) il suo ritrarsi dal mondo; (ii) la tendenza autodistruttiva rispetto ai suoi stessi risultati, lottando con il senso comune; (iii) la sua riflessività e consapevolezza di una attività pura che la accompagna, con la conseguenza che si possono conoscere le proprie facoltà spirituali solo nella misura in cui tale attività si protragga. Il pensiero non può dunque instaurarsi come la suprema proprietà della specie umana: l’uomo è logon echōn (supportato dalla ragione) ma non animal rationale. [172] [Filosofia hegeliana come conferma palese e compiuta della guerra intestina di pensiero e senso comune] [173-6]

Pensare e fare: lo spettatore Ciò che accomuna le attività spirituali è una peculiare quiete, assenza di faccende e di frastuono, il ritiro dal coinvolgimento e dalla parzialità degli interessi immediati che ci rendono parte del mondo reale: ritrarsi che è requisito di ogni giudizio. [176-7] Storicamente questo ritiro dalla attività pratica costituisce la più antica condizione che si pose alla possibilità di una vita della mente. In origine c’è la scoperta che soltanto lo spettatore e mai l’attore è in grado di conoscere e di comprendere ciò che si offra allo sguardo come spettacolo. Tale scoperta contribuì ampiamente alla convinzione dei filosofi greci sulla superiorità del modo di vita contemplativo, la cui condizione elementare era la scholē, l’atto deliberato di astenersi, tenersi indietro (schein) dalle attività ordinarie, al fine di praticare l’ozio (scholēn agein), obiettivo di tutte le altre attività (come la pace della guerra). Pitagora in Diogene Laerzio: «La vita […] è come una pubblica festa: come nelle feste alcuni vengono per competere nella lotta, altri per esercitare il loro commercio, ma i migliori vengono come spettatori [theatai], così nella vita gli uomini schiavi vanno a caccia di fama [doxa] o di guadagno, i filosofi della verità». [177] Ciò che qui è illustrato come eccellente non è una verità invisibile e inaccessibile all’uomo comune; né il luogo del ritiro degli spettatori appartiene a una regione superiore (come poi per Parmenide e Platone): il luogo degli spettatori è nel mondo, la loro nobiltà consiste nel non essere coinvolti in quanto vi si svolge e nel contemplarlo come uno spettacolo. Da theatai deriva poi «teoria»: come spettatori è possibile comprendere la «verità» di ciò che si svolge sulla scena; il prezzo da pagare è ritrarsi da ogni partecipazione allo spettacolo. Solo lo spettatore ha il privilegio di una posizione che gli consente di cogliere l’insieme della recita (a differenza dell’attore coinvolto in un ruolo parziale, che ha il suo senso nel complesso). Analogamente il filosofo può percepire il kosmos come un tutto armoniosamente ordinato. Ritrarsi dal coinvolgimento diretto in un punto di osservazione esterno garantisce non solo il giudizio arbitrale ma anche la comprensione del significato complessivo dello spettacolo. L'attore si preoccupa della doxa, a un tempo fama e opinione, in quanto è solo attraverso la opinione del pubblico e del giudice che si produce fama. Determinante per l’attore è dunque il modo in cui appare agli altri: egli dipende dal mipare (dokei moi) dello spettatore, che gli conferisce la sua doxa. Egli non è kantianamente autonomo: deve condursi in conformità a quanto gli spettatori si aspettano da lui. [178] Il ritrarsi del giudizio è palesemente diverso dal ritrarsi del filosofo. Il primo non abbandona il mondo delle apparenze, ma si limita a ritrarsi dal coinvolgimento attivo in una posizione privilegiata da cui contemplare l’insieme. Inoltre gli spettatori di Pitagora sono membri di un pubblico e quindi diversi dal filosofo che dà avvio al proprio bios theōretikos abbandonando la compagnia dei suoi simili e le loro incerte opinioni. Il giudizio dello spettatore, ancorché imparziale, affrancato da interessi, non è indipendente dalla percezione degli altri: secondo Kant una «mentalità aperta» deve tenere conto di tutti quanti i punti di vista. Insomma, pur svincolati dalla particolarità degli attori, gli spettatori non sono solitari, né autosufficienti come il dio supremo che il filosofo pretende di emulare con il pensiero. La distinzione tra pensare e giudicare emerge con la filosofia politica di Kant. Il punto di vista dello spettatore non viene determinato dagli imperativi categorici della ragion pratica, che attengono alla dimensione individuale e alla indipendenza pienamente autonoma della ragione.

[Nella critica della ragion pratica, ovvero l'agire umano, egli introduce un qualcosa di profondamente libero e indipendente: la volontà. Già comparsa con la tradizione ebraico-cristiana, in particolare con la voluttuosa creazione del mondo effettuata da dio; già S.Agostino individua la volontà, e quindi la libertà dell'uomo di agire, come un connubio tra creazione ed il tempo. Kant ne diede una sola definizione possibile della volontà, ovvero "l'inizio di una nuova serie nel tempo": ogni uomo è capace di iniziare un processo nuovo, un'azione pratica. Per far sì che tale azione sia morale, si deve partire da un'etica pura: non conta che l'azione sia giusta se nell'intenzione non è pura; è l'intenzione che dev'essere pura, volontà senza condizionamenti ne interni, ne esterni, affinché l'azione sia moralmente giusta. Un'azione morale, per essere tale ed universalmente valida, deve inoltre seguire tre imperativi categorici (Kant distingue due imperativi, quelli categorici e quelli ipotetici; sui secondi non è possibile effettuare alcuna speculazione etica a priori, quindi si considerano che i categorici): "Agisci in modo tale che la tua massima sia universalmente valida, agisci da trattare l'altro sempre come fine e mai solo come mezzo, agisci in modo tale che la volontà che ispira la massima della tua azione possa essere eletta a legge universale". Kant arriva ad una dualità, il mondo della necessità e contingente, e il mondo della libertà e della volontà; ciò lo costringe a trovare un nesso tra i due. Scrive la critica del Giudizio, nella quale affronta il tema del bello e del brutto: il gusto.] È come spettatore, parte di un pubblico di spettatori, che può condividere e esprimere un verdetto. [179] Non è attraverso l’agire ma attraverso il contemplare che si scopre il significato d’insieme: è lo spettatore e non l’attore che detiene le chiavi del significato degli affari umani. Gli spettatori kantiani esistono nella dimensione della pluralità, in Hegel lo spettatore esiste strettamente al singolare: il filosofo diventa organo dello Spirito Assoluto. Il ritrarsi della mente è condizione necessaria di tutte le attività spirituali: ma qual è il luogo verso cui è diretto il movimento dell’assentarsi? Nel caso del giudizio dello spettatore tale regione di ritiro è situata all’interno del nostro mondo ordinario, nonostante il carattere riflessivo di tale facoltà. [181] Non possiamo tuttavia indicare un luogo altrettanto inoppugnabile quando rispondiamo all’interrogativo: dove siamo quando pensiamo o vogliamo, circondati da cose che non sono più o non sono ancora, da enti di pensiero come giustizia, libertà ecc. che cadono al di fuori della esperienza dei sensi? Per la volontà si trovò, nei primi secoli dell’era cristiana, una localizzazione interiore, pur presentando la cosa difficoltà. Ma per il pensiero, la questione, posta da Platone nel Sofista, non ricevette soluzione: il luogo del filosofo, a differenza di quello del sofista, non fu indicato. Il sofista si trova a casa propria nella oscurità del non-essere, dove è difficile distinguerlo; il filosofo è a sua volta difficilmente osservabile a causa della luminosità della regione. [182]

Linguaggio e metafora Le attività spirituali, invisibili in sé e rivolte all’invisibile, divengono manifeste solo attraverso la parola. Come gli esseri che appaiono vivendo in un mondo di apparenze hanno l’impulso a mostrare sé stessi, così gli esseri che pensano hanno l’impulso a parlare. Mentre il fatto stesso dell’apparire presuppone la presenza di spettatori, nel suo bisogno di parola il pensiero non vuole né presuppone necessariamente degli ascoltatori. De interpretatione aristotelico: il criterio del logos non consiste nella verità ma nel significato. [183] Il logos è il discorso in cui le parole (di per sé né vere né false) sono combinate così da formare una frase munita di significato nel suo complesso in virtù della sintesi. Le parole, significanti in sé stesse, e i pensieri (noēmata) si rassomigliano. Il discorso, benché «suono significante», non è necessariamente apophantikos, enunciato in cui siano in gioco vero o falso. Implicita nell’impulso a parlare è la ricerca di significato, non di verità. Rimane sospeso il problema della priorità: il linguaggio è strumento per comunicare pensiero (quindi l’uomo parla perché pensa) oppure l’uomo pensa perché parla? Tuttavia, dal momento che parole e pensieri si rassomigliano, agli esseri che pensano è proprio un impulso a parlare e agli esseri che parlano è proprio un impulso a pensare. Al «bisogno di ragione» non si saprebbe far fronte adeguatamente senza il pensiero discorsivo, né questo è concepibile senza parole già munite di significato. I pensieri non hanno bisogno di essere comunicati per prodursi, ma non possono prodursi se non li si enuncia. [184] In quanto il pensiero ha bisogno di parole ma non di ascoltatori, Hegel poteva sostenere che «la filosofia è qualcosa di solitario». Non perché l’uomo è essere pensante, ma perché esiste al plurale, la sua ragione è bisognosa di comunicazione: di per sé – come insegna Kant – essa « [la filosofia] non è fatta per isolarsi ma per comunicare». [184-5] La funzione del «ragionare silenziosamente con sé stessi» è di venire a capo di ciò che è dato ai sensi nelle apparenze quotidiane: il bisogno di ragione consiste nel rendere conto (logon didonai) di ciò che sia o sia avvenuto. A ciò spinge non la sete di conoscenza, ma la ricerca di significato. Dare un nome alle cose è un modo dell’uomo di far proprio e disalienare un mondo in cui ognuno nasce come nuovo venuto e straniero. [185] Assunto comune con la cultura cinese: indiscussa priorità della visione nelle attività spirituali. Ciò che ci differenzia dai cinesi non è il nous ma il logos, la necessità di rendere conto e di giustificare mediante parole: ogni processo rigorosamente logico rappresenta tali giustificazioni e si realizza solo attraverso parole. [187] Il linguaggio, tuttavia, non è adeguato alla attività del pensare come la visione alla attività del vedere. Nessun linguaggio presenta un vocabolario pronto per i bisogni della attività della mente: il lessico è tratto da parole che in origine corrispondono sia a esperienze sensibili sia ad altre esperienze della vita ordinaria. Tale adozione non è mai casuale o arbitrariamente simbolica: il linguaggio filosofico e gran parte di quello poetico sono metaforici. Ogni metafora porta allo scoperto «una percezione intuitiva della somiglianza in cose dissimili». Per Kant, al pensiero senza immagini, astratto, la metafora fornisce una intuizione tratta dal mondo della apparenze, la cui funzione è di «provare la realtà dei nostri concetti», annullando quel ritrarsi dal mondo delle apparenze che è la precondizione delle attività spirituali. [188-9] 


Questo testare i nostri concetti a prova di realtà, è agevole quando il pensiero rimane nei confini del ragionamento di senso comune: in tal caso ciò di cui si ha bisogno sono esempi, per illustrare i nostri concetti, astrazioni ricavate dalle apparenze. Diversa la situazione quando la ragione si spinge speculando oltre i limiti del mondo dato, quindi non ci sono adeguate intuizioni corrispondenti. A questo punto interviene la metafora, il metapherein («trans-portare»), il passaggio da uno stato esistenziale, quello del pensare, a un altro, quello di apparenza tra le apparenze. Ciò può avvenire solo attraverso analogie. Aristotele segnala che tale somiglianza è somiglianza di relazioni quale ha luogo in una analogia. [188] Le conoscenze della metafisica sono ottenute per analogia, non nel senso di rassomiglianza imperfetta di due cose, ma in quello di somiglianza perfetta di due rapporti tra cose del tutto dissimili. [189] Tutti i termini filosofici sono metafore, analogie “congelate”, il cui significato autentico si dischiude quando la parola sia ricondotta al contesto originario (all’uso e al significato pre-filosofici): Platone introduce il termine «idea» avendo presente il modello che l’artigiano contempla nella sua produzione, a partire dal quale si producono svariate copie, successivamente. [190] La metafora getta un ponte sull’abisso tra le attività interiori e invisibili della mente e il mondo delle apparenze: prima che di uso filosofico la metafora è originariamente poetica. [192] L'analogia è diversa dal simbolo; quest'ultimo è reversibile, l'analogia no. La irreversibilità differenzia nettamente la analogia dal simbolo matematico impiegato da Aristotele per illustrare il meccanismo della metafora (B:A =D:C): ciò che si smarrisce nel calcolo matematico è la funzione reale della matematica, il fatto che con essa la mente si volge al mondo sensibile al fine di illuminare le esperienze non sensibili della mente, quelle esperienze per cui nessuna lingua possiede parole. [193] Accogliendo lo schema aristotelico (linguaggio = «risuonare munito di senso» delle parole, già in sé stesse «suoni significanti» che «assomigliano» ai pensieri), il pensiero è la attività spirituale che attualizza quei prodotti della mente che sono inerenti alla parola e per i quali il linguaggio ha già trovato una dimora adeguata. Se parlare e pensare scaturiscono da una origine comune, il dono del linguaggio potrebbe essere assunto come prova del fatto che l’uomo è per natura fornito di uno strumento per trasformare l’invisibile in una apparenza. [195] Analogie, metafore e emblemi sono i fili con cui la mente si tiene stretta al mondo anche quando, per distrazione, abbia perduto il contatto diretto con esso, e assicurano la unità della esperienza umana. [196] Se il linguaggio del pensiero è essenzialmente metaforico, ne deriva che il mondo delle apparenze si insinua nel pensiero in modo del tutto indipendente dai bisogni del nostro corpo. Il linguaggio ci permette di pensare, di avere commercio con il non sensibile, proprio perché consente di «portare oltre» - metapherein – le nostre esperienze sensibili. [il linguaggio è la casa dell'essere umano (poiché il linguaggio lo contraddistingue dagli animali) e, i filosofi ed i poeti ne sono i custodi (attraverso le metafore). L'uomo è il pastore dell'essere (umano) che accompagnato dal linguaggio, si direzione verso l'essere stesso, che è ancora linguaggio (il linguaggio, proprio a causa delle metafore, non è insito dell'uomo ma è acquisito - il ritorno all'essere significa eliminare l'uso delle metafore, essere capaci di pensare e di comunicare allo stesso modo, di farci accettare dall'essere e di riconcordare ad esso il pensiero umano). Non vi sono «due mondi» proprio perché la metafora li unisce. [196-7]



La metafora e l’ineffabile Spinta al linguaggio come al solo medium della sua manifestazione, ogni attività della mente trae le proprie metafore da un differente senso corporeo: la loro plausibilità dipende da una affinità innata tra certi dati spirituali e certi dati sensibili. Sin dagli albori della filosofia si è pensato al pensiero in termini di visione, e poiché il pensare è la attività spirituale fondamentale e più radicale, è perfettamente vero che tendenzialmente la visione è servita da paradigma della percezione e quindi da unità di misura degli altri sensi. [197] Il linguaggio – unico medium in cui l’invisibile possa diventare manifesto in un mondo di apparenze, quindi linguaggio della metafora è tratto d'unione tra la visone del pensiero, e la vista dei sensi – non è adeguato a tale funzione come i sensi rispetto al compito di fronteggiare il mondo percettibile: la metafora, a suo modo, può correggere tale difetto. [199-200] Il pericolo celato dal ricorso alla metafora consiste nella evidenza procurata dalla metafora con il suo appello alla evidenza indiscussa della esperienza sensibile irriflessa: la ragione speculativa non può evitarla, ma quando la metafora si insinua nel ragionamento scientifico è abusata, nella misura in cui è in grado di procurare evidenza plausibile a teorie che sono in realtà mere ipotesi. Esempio – sulla scia dei Paradigmen zu einer Metaphorologie di Blumenberg – nelle pseudoscienze (metafora della punta dell’iceberg per la coscienza in psicanalisi): la evidenza schiacciante della metafora sostituisce argomentazione e dimostrazione, avallando costruzioni mentali in sé coerenti, sistematiche, in cui ogni elemento trova collocazione nell’insieme più che nelle teorie scientifiche accreditate; la metafora viene usata erroneamente come simbolo, ma essa non è dotata di reversibilità. [200] Il pensiero metaforico in questo senso sembrerebbe costituire un pericolo solo nel caso del servizio a teorie pseudoscientifiche: come i sistemi filosofici del passato mostrano una somiglianza con le pseudoscienze, sebbene rimanga spazio per qualcosa di «ineffabile» al di là della parola scritta. Riconoscono, insomma, che c’è qualcosa che resiste a quella trasformazione che consente di apparire: i problemi di cui si occupano i filosofi eludono la conoscenza dell’uomo, tuttavia, dal momento che comunque nel corso della speculazione sono state conosciute delle cose (leggi del pensiero, teorie della conoscenza), si è finito per sfumare la distinzione tra conoscere e pensare. [201] Platone riconosce che l’inizio (archē) del filosofare è nello stupore; Aristotele lo interpretò come semplice sorpresa o perplessità (aporein), che induce consapevolezza della propria ignoranza, quindi spinge a fuggirla. Lo stupore platonico in questa prospettiva non è principio ma solo cominciamento, punto di partenza: Aristotele conosce una verità stupefacente aneu logou, che sfugge alla espressione, ma non avrebbe sottoscritto le affermazioni platoniche della VII Lettera sulla impossibilità di tradurre in parole le verità di cui il filosofo si occupa. [201-2] [Conferme in Nietzsche, Heidegger e Wittgenstein] [202-3] Platone Fedro: se è vero che nel pensare conduciamo un dialogo interiore con noi stessi, è come se scrivessimo «parole nelle nostre anime». Quando pensiamo, allo scrittore (nel dialogo scriviamo nell’anima di chi ascolta) succede un secondo artista, un pittore, che dipinge nelle anime quelle immagini che corrispondono alle parole scritte. Ciò avviene quando ci ritraiamo dalla esperienza e ci concentriamo in noi stessi. [204] La Settima lettera illumina la esperienza altrimenti inattingibile di una virtuale incompatibilità tra intuizione – metafora guida

della verità filosofica – e parola, medium in cui si manifesta il pensiero: la prima ci pone di fronte a un molteplice simultaneo, la seconda si dischiude in una sequenza di parole e frasi. [206] Il senso comune collega sensi che non possono tradursi l’uno nell’altro: in conformità con il senso comune, il linguaggio denomina un oggetto con il suo nome comune. Tale comunanza costituisce il fatto determinante della comunicazione intersoggettiva – lo stesso oggetto è percepito da persone diverse ed è loro comune – ma serve a identificare un dato che appare a ognuno dei cinque sensi in modo completamente diverso. Nessuna di tali sensazioni può essere descritta adeguatamente con le parole: la verità intesa dalla tradizione metafisica in termini di metafora visiva, è per definizione ineffabile. [207] La invisibilità della verità nella religione ebraica è assiomatica quanto la sua ineffabilità nella filosofia greca: mentre, concepita in termini di ascolto, la verità richiede obbedienza, la verità concepita in termini visuali si fonda sulla stessa autoevidenza possente che ci costringe ad ammettere la identità di un oggetto allorché lo si ha davanti agli occhi. Nessun discorso può contrastare la semplice, indiscussa e indiscutibile certezza della evidenza sensibile. La Verità come autoevidenza sensibile non sa che farsi di un criterio: è un criterio, l’arbitro supremo di tutto ciò che possa seguire. [208] Le difficoltà cui la metafisica ha dato origine sin dagli esordi si riassumono nella tensione naturale tra theōria e logos, visione e ragionamento verbale. Anche nel caso del sillogismo la verità dipende da una premessa percepita per intuizione, non soggetta ad errore perché non è meta logou, conseguente alle parole. Ogni conoscenza muove dalla investigazione delle apparenze quali si danno ai sensi e se lo scienziato intende procedere oltre e scoprire le cause degli effetti visibili, il suo scopo ultimo è di far apparire qualunque cosa possa essere celata dietro le mere superfici, anche ricorrendo a strumenti sofisticati. In ultima analisi la convalida di ogni teoria scientifica si produce attraverso la evidenza sensibile. [209] Contrariamente alle attività cognitive che usano il pensiero come loro strumento, ha bisogno del discorso non solo per essere espresso e divenire manifesto: il pensiero ha bisogno del discorso per essere attivato. E dal momento che il discorso ha luogo in sequenze di enunciati, il fine e la fine del pensare non possono consistere in una intuizione, né il pensare può essere convalidato da elementi di autoevidenza offerti da una contemplazione muta. [210] Dopo Bergson l’uso della metafora visiva in filosofia è andato scemando: l’interesse è passato dalla contemplazione al discorso, dal nous al logos. Il criterio della verità è cambiato, passando dall’accordo della conoscenza con il suo oggetto alla pura forma del pensiero, la cui regola fondamentale è il principio di non contraddizione, della coerenza interna. [210-1] Le metafore della contemplazione muta permangono in quegli autori – come Heidegger e Benjamin – che conservano un legame esile con gli assunti della vecchia metafisica. [211] La difficoltà principale sembra consistere nel fatto che per il pensiero – il cui linguaggio è interamente metaforico e la cui armatura concettuale dipende interamente dal dono della metafora, che colma l’abisso tra visibile e invisibile – non esiste metafora che possa illuminare in modo plausibile questa particolare attività della mente, in cui qualcosa di invisibile dentro di noi si rapporta con l’invisibile del mondo.


Le metafore ricavate dalla sfera dei sensi non possono che creare difficoltà perché la attività dei sensi ha il proprio fine fuori di sé ed essi sono essenzialmente strumenti cognitivi, mentre l’attività del pensiero è una attività fine a se stessa, da cui non risulterà un esito finale che sopravviva alla attività stessa impegnata nella ricerca di significato. L’unica metafora che si possa concepire per la vita della mente è quella della sensazione di vitalità: privo del soffio vitale, il corpo umano è un cadavere; priva del pensiero la mente dell’uomo è morta. [212]


Capitolo terzo: Che cosa ci fa pensare?

Gli assunti prefilosofici della filosofia greca. All’interrogativo proposto dal capitolo tutti i pensatori ellenici avrebbero in parte risposto con la convinzione che la filosofia consenta agli uomini mortali di soggiornare in prossimità delle cose immortali: il filosofare trasforma in creature simili agli dei («dei mortali», Cicerone: theōrein in tal senso era fatto derivare da theos). [217] La parabola pitagorica dello spettatore – interpretata sopra nel senso del giudizio – comportava in realtà un significato diverso e più ampio per il sorgere della filosofia occidentale: strettamente legata al primato del theōrein, del contemplare sul fare, si trova la concezione greca del divino. Secondo la religione omerica, gli dei non erano entità trascendenti, erano simili agli uomini (dello stesso genos), ne condividevano la natura (anthropophysis) ma con il privilegio della immortalità e di una «vita facile»: liberi da necessità, potevano dedicarsi alla vita dello spettatore, contemplando dall’Olimpo le vicende umane, mero spettacolo per il loro divertimento. [218] L’atteggiamento fondamentale dei Greci nei confronti del mondo si esprime nella passione del vedere: qualsiasi cosa apparisse si dava in primo luogo per essere guardata e ammirata. Ciò che attirava gli uomini alla contemplazione era la bellezza, il kalon, delle apparenze: la idea suprema del bene risiedeva in ciò che più risplendeva allo sguardo. La stessa virtù umana – il kalon k’agathon – non era qualità innata ovvero conseguenza di azioni, ma coincideva con il virtuosismo, con il modo in cui l’uomo appare nel compiere il bene è la bellezza delle azioni. Ogni cosa esistente era reputata in primo luogo spettacolo conveniente agli dei. [219] Quanto più gli uomini potevano dedicarsi alla contemplazione, tanto più si avvicinavano al modo di vita immortale degli dei. Persino la immortalità divina sembrava in un certo senso alla portata: il grande nome, ricompensa preziosa per «le grandi imprese e le grandi parole» (Omero), conferiva all’uomo una immortalità virtuale attraverso la fama. Era nel potere dello spettatore accordare tale ricompensa all’attore. Dalla Teogonia esiodea sappiamo che, prima che i filosofi cominciassero a frequentare ciò che è per sempre invisibile e veramente eterno (agēneton), gli dei erano liberi dalla morte ma non senza nascita: erano poeti e storici a essere colpiti da ciò che appare e scompare nel corso del tempo. In un poema perduto di Pindaro si raccontava di un banchetto nuziale di Zeus, nel corso del quale Zeus chiede agli dei riuniti che cosa manchi alla loro beatitudine: la loro risposta è un invito a Zeus a creare esseri divini in grado di adornare tutte le sue grandi opere «di parole e musica». I poeti sono questi nuovi esseri divini, che scortano gli uomini alla immortalità. [220] Poeti e aedi non si limitano a riferire le gesta e le parole, ma i poeti insieme le rettificano: viene tracciata una distinzione tra cosa fatta e cosa pensata: quest’ultima, l’ente di pensiero, è accessibile solo allo spettatore (non all’attore). Episodio omerico di Ulisse presso i Feaci: Ulisse solo sentendo cantare le proprie vicende, coglie, nel racconto, il loro significato. Mondo e uomini hanno bisogno di spettatori perché ne sia apprezzata la bellezza: poiché appaiono nel mondo delle apparenze, gli uomini hanno bisogno di spettatori. Senza spettatori, il mondo sarebbe imperfetto (o perfetti). Senza spettatori che contemplano e rettificano i racconti, volgendoli in parole, non potrebbero essere colti dallo sguardo parziale degli attori l’accordo e la armonia tra gli enti, l’invisibile nel visibile. [221] 


È significativo che colui che opera il disvelamento sia cieco, al riparo dal visibile, proprio per «vedere» l’invisibile. Ciò che gli occhi ciechi vedono e il poeta traduce in parole è la storia da narrare: non l’azione, né l’agente, che pur diventa nel canto immortale. In realtà, chi diventa immortale? L’agente o il narratore? Pericle in Tucidide risponde che gli Ateniesi, con le loro gesta avevano lasciato dietro di sé «monumenti imperituri», così da non aver più bisogno del canto di un Omero. Segno distintivo della filosofia greca è stata proprio la rottura con la valutazione di Pericle circa il modo di vita più alto e divino possibile ai mortali: Anassagora e Aristotele, rispondendo all’interrogativo su che cosa dia valore alla vita, indicarono rispettivamente la contemplazione del cosmo e il filosofare. Comune ai Greci è tuttavia la convinzione che i mortali debbano rendersi immortali. [222] Nella Grecia prefilosofica era assiomatico che l’unico incentivo degno dell’uomo consistesse nel tendere alla immortalità: la grande impresa è bella e degna di lode non perché sia di giovamento alla patria, ma per «acquistarsi imperitura e eterna gloria». Ancora Platone nel Simposio segnala come ogni genere di amore sia caratterizzato dalla tensione di ogni cosa mortale verso la immortalità. Sono i filosofi a introdurre una archē o principio assoluto, permanente, ingenerata fonte di generazione: l’iniziatore è probabilmente Anassimandro, ma gli effetti si colgono chiaramente nel poema di Parmenide. [223] L’Essere che non conosce nascita e morte si sostituì per i filosofi alla semplice non mortalità degli dei olimpici. L’Essere diventò la vera divinità della filosofia: «Gli dei olimpici furono sgominati dalla filosofia» (Snell). In Eraclito alla nuova sempiterna divinità si dà ancora il nome di kosmos (ordine e armonia dell’universo), con Parmenide si introduce quello di Essere, forse perché il termine aveva sin dalla origine connotazioni durative. L’Essere sostituì gli dei olimpici, la filosofia sostituì la religione: filosofare divenne la unica via praticabile di religiosità. La caratteristica più nuova di questo nuovo dio era di essere Uno. La «filosofia prima» aristotelica è indicata come teologia, con cui non si intende una teoria degli dei, ma una ontologia. [224] Il grande vantaggio della nuova disciplina consisteva nel rendere obsolete, per l’uomo a caccia di immortalità, le vie della fama, garantendogli invece di attingere la immortalità dimorando presso cose che sono per sempre, grazie alla intelligenza, al nous. Sin da Parmenide e fino a Platone e Aristotele si sosterrà che c’è qualcosa nell’uomo che corrisponde esattamente al divino, perché gli consente di vivere nella sua prossimità: servendosi del proprio nous e ritraendosi spiritualmente da tutte le cose periture, l’uomo si assimila al divino. Dedicarsi alla theōrētikē energeia (Aristotele), identica alla attività del dio (hē tou theou energeia), significa «immortalarsi» (athanatizein). [225] La parte immortale e divina dell’uomo non esiste se non viene attualizzata e focalizzata su ciò che è divino fuori di lui: l’oggetto dei nostri pensieri conferisce immortalità al pensiero stesso. L’oggetto si identifica immancabilmente con ciò che è eterno, che non può non essere: in primo luogo esso si trova nelle «rivoluzioni dell’universo», che possiamo seguire con la mente, dimostrando che non siamo «piante terrene ma celesti», creature la cui parentela è in cielo (Platone, Timeo). Dietro questa convinzione possiamo cogliere lo stupore primordiale, in se stesso filosofico. 


La filosofia per i Greci era «il conseguimento della immortalità» e come tale si svolgeva in due fasi: (i) attività del nous consistente nella contemplazione dell’eterno, in sé muta, aneu logou, priva di linguaggio; (ii) tentativo di tradurre la visione in parole, alētheuein, che non significa semplicemente dire le cose come sono senza nascondere nulla, ma si applica solo a proposizioni intorno a cose che sempre e necessariamente sono e non possono essere altrimenti. [226] Il nous consente all’uomo di attingere l’eterno e il divino, mentre il logos è deputato a «dire ciò che è», (legein ta eonta, Erodoto). Diversamente dal nous, il logos non è divino, e la traduzione nel discorso della visione del filosofo (alētheuein) creò notevoli difficoltà. Criterio del discorso filosofico è homoiōsis, «produrre una somiglianza» o assimilare nelle parole, il più fedelmente possibile, la visione procurata dal nous, in se stessa priva di discorso in quanto «vede» direttamente, senza alcun processo discorsivo. Il criterio della facoltà di visione non è la verità evocata da alētheuein, derivato da alēthēs, impiegato in Omero nei verba dicendi nel senso di «dimmi senza nascondere dentro di te», non ingannarmi: come se la funzione ordinaria del discorso si identificasse con l’inganno. Il criterio della visione sta solo nella prerogativa di eternità dell’oggetto contemplato: se l’uomo ha applicato se stesso alla contemplazione degli oggetti eterni, non può mancare di possedere la immortalità nella misura più ampia ammessa dalla natura umana (Platone, Timeo). [227] Si è concordi in genere nel riconoscere che la filosofia, da Aristotele in poi campo di indagine sulle cose che vengono dopo e trascendono quelle fisiche, sia di origine greca. Essa si pone l’obiettivo originario greco, quella immortalità che perfino linguisticamente appariva meta naturale degli uomini che si riconoscevano thnētoi o brotoi. [227-8] La filosofia non mutò tale obiettivo naturale, propose solo un’altra via per raggiungerlo: esso dileguò con il declino della cultura ellenica e sparì completamente dalla filosofia con l’avvento del Cristianesimo. L’ultima traccia della ricerca greca dell’eterno si può forse ritrovare nel nunc stans (l'eterno ora, del presente) della contemplazione dei mistici medievali: si tratta di una formula di notevole rilievo, che corrisponde a una esperienza molto caratteristica dell’io che pensa. [228] I temi metafisici in origine divini, l’eterno e il necessario, sopravvissero al bisogno di «rendersi immortali» attraverso lo sforzo della mente di «dimorare» e restare in presenza del divino, ormai soppiantato dalla fede come latrice di immortalità. Sopravvisse anche la valutazione dell’essere spettatori come tipo di vita essenzialmente filosofico, il migliore. Tale nozione era viva in epoca precristiana nelle scuole filosofiche della tarda antichità, quando vivere nel mondo non era più considerato benedizione, né il coinvolgimento nel mondo era inteso come sviamento da una attività più divina, piuttosto come in se stesso pericoloso e privo di gioia. Tenersi fuori dal coinvolgimento politico significava occupare una posizione esterna al tumulto e alla miseria degli affari umani, con i loro inevitabili mutamenti. Muta il senso dell’essere spettatori: non più in teatro, a mirare dall’alto, simili agli dei, i giochi del mondo, ma sul lido, nel porto, a osservare, da un rifugio sicuro, i marosi imprevedibili e selvaggi del mare in tempesta. La rilevanza filosofica dell’essere spettatori va completamente perduta: Lucrezio sottolinea i vantaggi del puro essere spettatori: «guardare da terra il naufragio lontano». [229] Perduto è dunque il privilegio dello spettatore di giudicare e il contrasto di fondo

tra fare e pensare, ma anche l’idea che tutto ciò che appare c’è per essere visto. Per Voltaire il desiderio di vedere non è che curiosità spicciola. [229-30] La risposta di Platone Esiste una risposta che non ha nulla a che fare con gli assunti prefilosofici così importanti per la tradizione metafisica: Platone affermò che origine della filosofia è stupore senza connessione con la ricerca della immortalità. Nemmeno nella ripresa aristotelica dell’aporein si parla di athanatizein. [231] Platone in un solo passo (Teeteto) parla di stupore nel senso di «essere confuso», sottolineando che si tratta del «segno autentico del filosofo»: thaumazein come pathos del filosofo. Iride, messaggera degli dei è figlia di Taumante (colui che stupisce) [2312] Nel Cratilo Platone fa derivare Iride da eirein, dire, e thaumazein da thesthai, guardare: in Omero il guardare stupefatto è riservato agli uomini cui si mostra una divinità, nel familiare travestimento della figura umana. Lo stupore è qualcosa che gli uomini non possono evocare da sé, ma un pathos, qualcosa che si subisce. [232] Ciò che muove lo stupore umano è qualcosa di familiare tuttavia normalmente invisibile. Lo stupore che muove il pensiero non è sorpresa o sconcerto, ma stupore che ammira, cui fa seguito la ammirazione che irrompe nel discorso (Iride, messaggera che viene dall’alto). [232-3] Il discorso assume allora la forma della lode, rivolta non alle cose del mondo ma lode all’ordine armonioso della natura, in sé non visibile ma di cui il mondo delle apparenze ci offre un bagliore: opsis gar tōn adēlōn ta phainomena (Anassagora). La filosofia comincia con l’avvertimento di questo ordine armonioso invisibile del kosmos, manifesto negli enti visibili come fossero divenuti trasparenti. Il filosofo si meraviglia di fronte alla «armonia invisibile», che vale, secondo Eraclito, più della visibile. Altro termine antico per designare l’invisibile in seno alle apparenze è physis: physis kryptesthai philei. In Eraclito il significato del logos è illustrato con il messaggio di Apollo, il logos «non dice, né nasconde ma indica (il significato)», cioè accenna a qualcosa ambiguamente, per essere inteso solo da coloro che sanno comprendere i semplici cenni. [233] Lo stupore conduce a pensare in parole: della esperienza dello stupore di fronte all’invisibile manifesto nelle apparenze si appropria la parola. Lo stupore in cui cade il filosofo non concerne qualcosa di particolare, ma è suscitato da una totalità mai manifesta. Nei termini della parabola pitagorica, si tratterà della bellezza del gioco del mondo, del significato e della pienezza di senso di tutti i particolari che agiscono insieme: tutto ciò è manifesto a uno spettatore nella cui mente i particolari siano invisibilmente collegati. Dopo Parmenide il termine per indicare tale totalità invisibile, implicitamente manifesta in ciò che appare, è Essere. [234] Heidegger, 1929, Che cosa è metafisica?: «perché c’è in generale qualcosa e non piuttosto niente?». Lo stupore platonico rivive come «la questione fondamentale della metafisica». [235] 


La risposta dei Romani A formare la opinione corrente riguardo alla filosofia furono i Romani: essa reca l’impronta non della esperienza romana originaria – politica (Virgilio) – ma dell’ultimo secolo della loro repubblica. [242] Finché la cosa pubblica fu integra, la cultura non fu mai considerata senza sospetto. Nella decadenza (della repubblica e dell’impero) la filosofia si fece seria (non mero passatempo nobile), si convertì – a differenza di quanto accaduto in Grecia – la cultura si convertì in scienza (animi medicina, Cicerone): ora essa aveva una utilità, insegnare agli uomini come curare i loro animi disperati fuggendo il mondo mediante il pensiero. La sua celebre parola d’ordine divenne nil admirari, non sorprenderti di niente, non ammirare nulla. [243] Profonda influenza romana anche su Hegel: «il bisogno di filosofia» scaturisce quando «la potenza della unificazione scompare dalla vita degli uomini». Il pensiero non scaturisce da un bisogno della ragione, ma ha radice esistenziale nella infelicità. [244] Impulso a pensare coincise con l’impulso a fuggire un mondo divenuto insopportabile: improbabile che tale impulso sia meno antico dello stupore ammirato, ma difficile trovarne espressione prima che Lucrezio e Cicerone trasformassero la filosofia in qualcosa di essenzialmente romano, cioè di essenzialmente pratico. Epitteto: ciò che si deve imparare per rendere la vita sopportabile, non è propriamente il pensare, ma l’uso corretto della immaginazione, la unica cosa interamente in nostro potere. Oggetto della filosofia è la vita individuale di ogni uomo: ciò che conta non è la teoria astratta, ma il suo uso, la sua applicazione. [245] Il pensare si trasforma in una technē, in una particolare abilità, il cui prodotto finale è la condotta della vita individuale. Non si intendeva uno stile di vita nel senso di un bios (theōrētikos o politikos), ma una «azione» - in cui non si agisce in concerto con alcuno, con cui non si suppone cambiare altro che sé stessi – che poteva esprimersi nella apatheia o ataraxia del «saggio», cioè nel suo rifiuto a reagire a tutto ciò che, nel bene e nel male, potesse capitargli. Non si tratta solo di esercizi di pensiero, ma di esercizi di forza di volontà, in cui non si usa il linguaggio della riflessione, in cui si usano imperativi. [246] L’accento sulla capacità del pensiero di rendere presente ciò che è assente si sposta dalla riflessione alla immaginazione: intensificare la distrazione fino a che la realtà scompaia del tutto, così che ciò che è presente risulti assente. Centralità delle impressioni, che concernono esistenzialmente l’individuo: che ciò che colpisce esista o meno dipende dalla decisione di riconoscerlo o no come tale. Se Epitteto può essere annoverato tra i filosofi è perché scoprì come la coscienza renda possibile alle attività spirituali di ripiegarsi su sé stesse. [247] Il mettere tra parentesi la realtà, sbarazzandosene con il trattarla come se non fosse altro che impressione, è rimasta una tentazione forte tra i «pensatori di professione»: Hegel edificò la sua filosofia dello Spirito sulla esperienza dell’io che pensa: reinterpretando questo io secondo il modello della coscienza, Hegel trasportò tutto il mondo dentro la coscienza, come se esso non fosse altro che un fenomeno della mente [248-9] Cicerone, che conosceva bene la filosofia greca, aveva scoperto le direzioni di pensiero seguendo le quali diveniva possibile intraprendere il proprio cammino al di fuori del mondo: Somnium Scipionis (capitolo conclusivo della Repubblica di Cicerone). [249] 


Accolta nel primo secolo a.C. a Roma, la filosofia doveva dimostrare di servire a qualcosa. Nelle Tusculanae Disputationes Cicerone dà una prima risposta: rendere Roma più bella e civile. La filosofia rappresentava una occupazione che poteva interessare gli uomini istruiti, una volta ritiratisi dalla vita pubblica e senza preoccupazioni più importanti. Il filosofare non implicava nulla di essenziale, né aveva a che fare con il divino: le attività che più assomigliavano a quelle degli dei erano la fondazione e la conservazione di comunità politiche. Né aveva legami con la immortalità: essa era sì di appannaggio umano, ma non individuale bensì collettivo, spettava virtualmente alle comunità, che dovrebbero essere costituite così da essere eterne. [250] Nel Somnium a Scipione l'Africano, prima dello scontro decisivo con i Cartaginesi, in sogno, viene, da un antenato, predetto l’esito della battaglia e annunciato il suo destino politico (se solo avesse scampato l’assassinio). A tale scopo egli avrebbe dovuto tenere per vero che gli uomini che abbiano preservato la patria sono sicuri del loro posto in cielo e della beatitudine della eternità: «Il dio supremo che governa il mondo nulla ama sulla terra più delle società e delle relazioni tra gli uomini che si chiamano Stati; e coloro che li governano e li conservano, dopo aver lasciato questo mondo, tornano in cielo. Il loro compito in terra è stare a guardia della terra». Si avanza uno spettro: senza la promessa di una ricompensa celeste gli uomini potrebbero rifiutarsi di ottemperare ai loro obblighi pubblici. Le ricompense di questo mondo non sono sufficienti a ricompensare le fatiche. Dall’alto del cielo Scipione è invitato a gettare uno sguardo sulla terra, che vede così piccola che «fu addolorato di vedere il nostro impero ridotto a un punto». Egli dovrà allora tenere sempre lo sguardo dalla terra rivolto al cielo per essere in grado di disprezzare le cose degli uomini. [251] Pensare qui significa seguire una sequenza di ragionamenti che fa ascendere a un punto di vista esterno al mondo delle apparenze, alla vita, relativizzandoli. La filosofia romana come compensazione delle frustrazioni della vita politica e della vita in genere. Inizio di una tradizione che arriva al De Consolatione Philosophiae di Boezio. [252] Due fonti da cui scaturisce il pensiero come noi lo conosciamo: una greca, l’altra latina. Da un lato lo stupore ammirato di fronte allo spettacolo in cui l’uomo è nato, per apprezzare il quale egli è ben attrezzato spiritualmente e fisicamente; dall’altro lo sgomento, l’angoscia estremi di essere stati gettati in un mondo ostile, in cui domina la paura e da cui gli uomini cercano in ogni modo di fuggire. Tale angoscia non era ignota ai Greci («meglio non essere nati…» formula proverbiale), tuttavia non risulta che abbia mai costituito fonte del pensiero greco (né ha mai prodotto grande filosofia). [254] Queste due diverse mentalità hanno tuttavia qualcosa in comune: in entrambi i casi il pensiero si separa dal mondo delle apparenze. Solo perché implica un ritrarsi il pensiero può essere usato come strumento di evasione. Esso implica anche una sospensione della nozione del corpo e dell’io per sostituire a essi la esperienza di una attività pura. Pensare è la sola attività che per il suo esercizio non richieda altro che se stessa. La perdita della nozione del proprio corpo nella esperienza del pensiero, combinata col puro piacere della attività in quanto tale, spiega gli effetti consolatori di certe modalità di pensiero sugli uomini della tarda antichità, ma anche le loro teorie estremistiche sul potere della mente sul corpo. [255] La prima comparsa della parola «filosofare» avviene in un contesto curioso. 


Erodoto racconta della visita di Solone a Creso, e della richiesta di costui a Solone (famoso per la saggezza e i viaggi: «hai con cura visitato molti paesi della terra per filosofare riguardo agli spettacoli che hai visto») di indicare l’uomo più felice di tutti. [256] (Nessun uomo può dirsi felice prima della morte). Creso si rivolge a Solone non perché abbia visto molti paesi, ma perché è famoso per il suo filosofare, il suo riflettere su ciò che vede. Benché fondata sulla esperienza, la risposta di Solone si pone manifestamente di là dalla esperienza: egli volge la interrogazione «chi è il più felice di tutti?» nell’altra «che cosa è la felicità per i mortali?». La sua risposta consiste in una riflessione (philosophoumenon) sugli affari umani (anthrōpeiōn pragmatōn) e la durata della vita umana, che conduce a concludere che «l’uomo non è che azzardo», per cui è saggio «aspettare e considerare come andrà a finire». Se la vita dell’uomo è una storia, solo la fine, quando ogni cosa è compiuta, rivelerà di che cosa si sia veramente trattato: nemo ante mortem beatus dici potest. (Nota: il contenuto di pensiero di tale detto proverbiale è stato portato pienamente in luce con l’analisi della morte in Essere e tempo). [257] Il carattere aporetico del pensare socratico significa che è lo stupore ammirato per le azioni giuste e coraggiose viste con gli occhi del corpo a far nascere interrogazioni quali «che cosa è il coraggio, la giustizia?». La esistenza di coraggio e giustizia è stata indicata ai miei sensi da ciò che ho visto, benché l’uno e l’altra non siano presenti ai sensi, quindi non siano autoevidenti. Lo stupore originario non solo non si risolve in simili interrogativi, ma ne è aumentato. [258]

La risposta di Socrate La risposta alla domanda «che cosa ci fa pensare?», quando proviene da un pensatore professionale è sospetta, in quanto non proviene dalle sue esperienze nell’atto di pensare, ma dall’esterno: interessi professionali o senso comune, che lo spinge a riflettere su una attività che nel mondo ordinario è fuori dell’ordine. Le risposte sono allora troppo vaghe per avere senso nella vita comune, dove la esperienza del pensare interrompe il vivere ordinario e questo il pensiero. Tutte le risposte confessano lo stesso bisogno: il bisogno di concretizzare le implicazioni dello stupore platonico, di trascendere i limiti del conoscibile (Kant), di giungere a conciliarsi con ciò che è fattualmente e con il corso del mondo (Hegel), ovvero il bisogno di ricercare il significato di tutto ciò che avviene. È questa incapacità dell’io pensante di rendere conto di se stesso che ha reso i filosofi, pensatori di professione, una specie difficile da frequentare. [259] Nella prospettiva del mondo delle apparenze, l’io che pensa vive sempre nascosto: la presente interrogazione cerca di stanarlo, perché si renda manifesto. Il modo migliore (in realtà l’unico) cui si possa ricorrere a tale scopo è quello di cercare un paradigma di pensatore non professionale che abbia riunite nella propria persona le due passioni apertamente contraddittorie del pensare e dell’agire, nel senso di sentirsi egualmente a casa propria in entrambe le sfere. Un pensatore che rimanga sempre uomo tra gli uomini, non schivando la vita pubblica. [260] Tale figura è quella di Socrate, di cui sapremmo ben poco se non avesse prodotto una profonda impressione su Platone. E sapremmo poco anche da Platone, se non avesse deciso di sacrificare la propria vita non per una fede o una dottrina, ma per andare in giro esaminando le opinioni altrui. 


La Arendt è convinta che esista una linea di demarcazione precisa tra ciò che è autenticamente socratico e la filosofia insegnata da Platone. [261] Costruzione di «tipi ideali» senza crearli di sana pianta (come nelle allegorie e nelle astrazioni personificate), ma attingendo alla moltitudine di esseri viventi del passato e del presente che sembrano detenere un significato rappresentativo, facendo astrazione dai tratti in cui si esprime la loro debolezza umana. [262] Ciò che colpisce nei dialoghi socratici di Platone è il fatto che sono dialoghi aporetici. Nessuno dei logoi sta fermo, tutti ruotano in modo circolare: Socrate li mette in moto ponendo domande di cui non conosce la risposta, pronto a ricominciare tutto da capo. Tutti i temi trattati in questi primi dialoghi hanno a che fare con concetti quotidiani, che emergono appena la gente apre la bocca. [263] I problemi sono sollevati partendo dalla esperienza ordinaria di azioni o situazioni qualificate in un certo modo e concentrando la attenzione sul sostantivo ricavato dall’aggettivo applicato ai casi particolari: es. percepiamo azioni coraggiose e ci interroghiamo sul significato del termine «coraggio», puntiamo cioè sui concetti - «la misura non apparente» (aphanes metron) di Solone, «per la mente la più difficile da comprendere, che tuttavia regge i limiti di tutte le cose» -, cui Platone avrebbe assegnato la denominazione di idee, percepibili solo dagli occhi della mente. [263-4] Tali parole costituiscono parte integrante del nostro linguaggio quotidiano e tuttavia non siamo in grado di rederne conto. Invece di ripetere quanto appreso da Aristotele – che Socrate sarebbe lo scopritore del «concetto» - proviamo a chiederci quali fossero le operazioni che portarono Socrate a scoprirlo. Es.: la casa in sé e per sé, quella in virtù della quale usiamo la parola per tutti gli edifici particolari e molto diversi, resta invisibile sia agli occhi del corpo sia a quelli della mente. Ogni casa della immaginazione, per quanto fornita solo del minimo indispensabile per renderla riconoscibile, è già casa particolare. [264] L’altra casa, quella invisibile, di cui abbiamo bisogno per riconoscere edifici particolari come case, implica qualcosa di considerevolmente meno tangibile della struttura percepita dai nostri occhi. [264-5] La parola «casa» è la «misura non vista» che «regge i limiti di tutte le cose» attinenti all’abitare: una parola che non potrebbe esistere senza pensieri sull’abitare. La parola costituisce una abbreviazione stenografica, senza cui il pensiero con la sua velocità non sarebbe neppure possibile. La parola «casa» è una sorta di pensiero congelato che il pensare deve disgelare ogni volta che voglia portarne alla luce il significato originario (meditazione medievale). Si sostiene comunemente che Socrate abbia creduto che la virtù potesse essere insegnata. Ciò che egli intendeva si può ricavare dalle similitudini che applicava a se stesso: tafano, levatrice, torpedine. [265] Da ciò ricaviamo appunto l’unico modo in cui il pensiero si possa insegnare: Socrate non insegnava nulla, perché non aveva alcunché da insegnare, era «sterile» come levatrici greche. Dal momento che non aveva nulla da insegnare fu accusato di non rivelare mai il suo modo di vedere (gnōmē) (Senofonte). A differenza dai pensatori professionali egli sembra avvertire la esigenza di verificare con i suoi simili se condividessero le sue perplessità. Socrate è un tafano: sa come pungolare i suoi concittadini a pensare ed esaminare, attività senza la quale la vita non sarebbe pienamente tale. (Soluzioni contrastanti in Apologia e Fedone: nel primo la vita è molto cara, ma, sebbene sia cara, Socrate non teme la morte; nel secondo egli spiega agli amici come la vita sia gravosa, per cui è felice di morire). [266] 


Socrate è levatrice sterile: proprio perché sa come sgravare gli altri dei loro pensieri. Egli - come sottolinea Platone, a proposito della «nobile sofistica», nel Sofista - purgava gli altri delle loro «opinioni», di quei pregiudizi irriflessi che impedirebbero loro di pensare. [266-7] Socrate è torpedine: egli si blocca insistendo sulle proprie perplessità e, paralizzato lui stesso, paralizza chiunque venga a contatto con le sue perplessità. Tuttavia, ciò che è avvertito all’esterno come paralisi si rivela la condizione suprema di attività e vitalità. Egli dunque non è un filosofo (nulla sa e insegna), né sofista (non pretende di rendere gli uomini sapienti). Rivendica la attività del pensare e dell’esaminare, che costituisce dal suo punto di vista il bene più grande per la Città. [267] Ben consapevole di avere a che fare con ciò che è invisibile, Socrate si valeva di una metafora per esplicare la attività del pensare, la metafora del vento: «I venti in sé sono invisibili, tuttavia ciò che essi fanno è manifesto e in un certo modo avvertiamo il loro avvicinarsi (Senofonte, Memorabili IV, iii, 14). La metafora è ripresa da Sofocle (Antigone) e Heidegger, che, a proposito di Socrate (nell’unico luogo in cui ne parla – Was heisst Denken? -, indicandolo come «il più puro dei pensatori dell’Occidente»), ricorre alla immagine della «tempesta del pensiero». [268] Anche Senofonte indica a suo modo come il vento del pensiero si manifestasse nei concetti, virtù e valori, che Socrate affrontava nelle sue disamine riflessive: il problema è che questo vento, levandosi, ha la prerogativa di abolire le sue manifestazioni precedenti (così lo stesso uomo poteva essere inteso e intendersi come tafano e torpedine). È nella natura di questo 'vento invisibile' dis-gelare ciò che il linguaggio – medium del pensiero – ha congelato in parole del pensiero, debolezza e rigidità delle quali Platone denuncia nella Settima lettera. In questo senso il pensiero possiede un effetto distruttivo, tale da minare in profondità tutti i criteri fissati. La paralisi indotta dal pensare è duplice: (i) è inerente al fermati-e-pensa la interruzione di tutte le altre attività, ma, a scoppio ritardato, si può produrre un senso di insicurezza, dal momento che nessuna regola o criterio si sottrae al vento del pensiero; [269] (ii) i non-risultati della disamina critica del pensiero – come nel caso di Crizia e Alcibiade – come un pungolo alla licenza e al cinismo, possono tradursi in risultati nichilisti. Il nichilismo rappresenta un rischio reale della attività del pensiero: non ci sono pensieri pericolosi, il pensiero stesso è pericoloso, ma il nichilismo non è un suo prodotto: esso è l’altra faccia della convenzionalità, nega i valori correnti a cui comunque rimane legato. [270] Tale pericolo non deriva tuttavia dalla convinzione socratica che una vita senza pensiero non sarebbe degna di essere vissuta, ma, al contrario, dal desiderio di trovare risultati che rendano superfluo alla fine pensare oltre. Il pensare è pericoloso per tutti i credi e di per sé non ne partorisce di nuovi. Il non-pensare – in apparenza così raccomandabile per gli affari politici e morali – presenta i suoi rischi: abitua ad attenersi a tutto ciò che prescrivono le regole. Gli uomini, tuttavia, finiscono per abituarsi non al loro contenuto ma al possesso di regole sotto cui sussumere i casi particolari. Chi voglia cambiare le regole non incontrerà difficoltà, nella misura in cui le rimpiazzi con nuove, né avrà bisogno di ricorrere alla forza di persuasione. I primi a ubbidire alle nuove regole saranno i pilastri della società retta dalle vecchie, coloro meno abituati a metterle in discussione. [271] 


Gli Ateniesi contestavano a Socrate che pensare era sovversivo, che il vento del pensiero era un uragano che spazzava via tutti i segni stabiliti per l’orientamento. Socrate nega che il pensiero corrompa, ma neppure sostiene che renda migliori: esso desta dal sonno, il che è un gran bene, secondo lui, per la Città. Il significato di ciò che Socrate faceva risiede nella attività in sé: pensare ed essere veramente vivi sono lo stesso, il pensiero deve sempre cominciare da capo (è una attività che è tutt’uno con il vivere). [272] Ciò che è stato in precedenza indicato come ricerca di significato figura nel linguaggio di Socrate come «amore» (Erōs): esso è in primo luogo bisogno; desidera ciò che non ha. Gli uomini amano la sapienza e cominciano a filosofare perché non sono sapienti. Desiderando ciò che non ha, l’amore stabilisce una relazione con ciò che non è presente. La ricerca del pensiero come 'amore desiderante': i suoi oggetti non possono essere che cose degne di amore (valori). Se il pensare dissolve i concetti positivi nel loro significato originario, farà lo stesso con quelli negativi, nella loro assenza di significato, rivelando il loro nulla. La negatività (male, bruttezza, ecc.) è esclusa dal campo del pensiero, non ha una proprie radici. [273]

Il due-in-uno Se nel pensare esiste realmente qualcosa che possa impedire agli uomini di fare del male, deve trattarsi di una proprietà inerente alla attività stessa, indipendentemente dai suoi oggetti. [274] Due importanti affermazioni socratiche su questo tema sono contenute nel Gorgia, dialogo composto poco prima che Platone assumesse la guida della Accademia. Esso presenta il primo dei grandi miti escatologici, la cui serietà è di ordine puramente politico. Le due dichiarazioni socratiche positive sono: (i) «patire un torto è meglio che commetterlo»; (ii) (ii) «meglio suonare una lira scordata […] piuttosto che, essendo uno, essere in disarmonia e contraddizione con me stesso». Callicle prende le dichiarazioni di Socrate per quelle di un pazzo: era proprio la filosofia, meglio, la esperienza del pensiero a indurre Socrate a tali affermazioni. [275] Socrate non sta parlando in veste di cittadino, ma da uomo votato al pensiero: si rivolge a Callicle presupponendo che egli ami la sapienza e sappia che cosa comporta il pensare. Se il mondo fosse diviso tra deboli e forti – come vuole Callicle – allora sarebbe meglio subire il torto piuttosto che commetterlo. Democrito, interessato alla attività del pensiero e molto meno agli affari umani, sostiene qualcosa di simile: «più sventurato di chi subisce un torto è colui che lo commette». [277] Quando appaio agli altri sono uno, altrimenti sarei irriconoscibile; finché sto con gli altri, appena cosciente di me stesso, sono come appaio agli altri: («conoscere con me stesso») è il fatto curioso per cui in un certo senso con la coscienza sono-per-me stesso, benché non possa dirsi che appaio a me stesso. Io non sono solo per gli altri, ma anche per me, dunque non sono solo uno. Nella mia Unità si è insinuata una differenza. [278] Nulla può essere se stesso e nello stesso tempo per se stesso se non il due-in-uno che Socrate portò alla luce come essenza del pensiero e che Platone tradusse concettualmente come dialogo senza voce tra me e me stesso. Per transfert quella identità in sé e per sé è poi proiettata sulle cose. 


Non è tuttavia la attività di pensiero a costituire l’unità, a unificare il due-in-uno: il due-inuno diviene Uno non appena richiamato per nome nel mondo delle apparenze laddove è sempre Uno – interrompendo il processo di pensiero. Nel pensatore, scisso in due dal processo di pensiero, quel richiamo chiude di colpo la differenza: , in termini esistenziali, il pensiero è una occupazione solitaria (solitary), ma non è la occupazione di un isolato (lonely business): la solitudine (solitude) è quella situazione umana in cui tengo compagnia a me stesso; la desolazione dell’isolamento (loneliness) si produce quando sono solo, e desolato è quando non sono in grado di scindermi nel due-in-uno, di tenere compagnia a me stesso. Nulla indica esistenzialmente con più forza che l’uomo esiste essenzialmente al plurale del fatto che nel corso della attività di pensiero la solitudine attualizza la sua semplice coscienza di sé come due-in-uno. È appunto tale dualità che rende il pensare una attività vera e propria, in cui sono a un tempo colui che domanda e colui che risponde: in tal modo il pensiero diventa dialettico e critico. [280] Il criterio del dialogo non è più la verità, che costringerebbe le risposte sia nel modo della evidenza sensibile, sia nel modo della dimostrazione matematica. L’unico criterio del pensare socratico è l’accordo, ovvero l’essere coerenti con sé stessi. Il suo opposto, l’essere in contraddizione con sé stessi, significa trasformarsi nel proprio stesso avversario: in questo senso il principio di non-contraddizione è un assioma. Esso deriva dalla esperienza concreta dell’io che pensa, ma quando si traduce in «A non può essere a un tempo e sotto il medesimo rispetto A e B» l’intuizione, generalizzata in una dottrina filosofica, è perduta. L’Organon aristotelico non è inteso come «strumento del pensiero» (cioè del discorso esteriore), ma come scienza del parlare e dell’argomentare corretti. [281] La coscienza non è la stessa cosa del pensiero; gli atti della coscienza hanno in comune con la esperienza sensibile il fatto di essere atti intenzionali e quindi cognitivi, mentre l’io che pensa non pensa a qualcosa ma su qualcosa, e tale atto è dialettico, procede nella forma di un dialogo silenzioso. [282] Per Socrate, la dualità del due-in-uno significava solo che, se si vuole pensare, si deve badare che gli interlocutori siano in buoni rapporti, che i partners siano amici: il partner che appare quando sei solo è l’unico da cui non puoi separarti se non cessando di pensare (questa considerazione fa da sfondo all’imperativo categorico kantiano). [283] Ciò che Socrate ha scoperto è che possiamo avere rapporti con noi stessi non meno che con gli altri e che i due tipi di rapporto sono in un certo senso connessi. Aristotele sottolinea che «l’amico è come un altro se stesso»: puoi condurre, cioè, con lui il dialogo del pensiero proprio come con te stesso. Socrate avrebbe aggiunto che anche l’io, questo «se stesso», è a sua volta una sorta di amico. Meglio essere in disaccordo con il mondo intero piuttosto che con l’unica persona con la quale si è costretti a convivere dopo aver abbandonato la compagnia degli altri. [284] Il pensiero, nel suo senso non cognitivo, come bisogno naturale della vita umana, come attualizzazione della differenza che si dà nella coscienza, costituisce una facoltà costantemente presente in ognuno di noi. 


La incapacità di pensare è una possibilità permanente per chiunque. Il pensiero è tutt’uno con la vita, è la quintessenza immateriale della vitalità; siccome la vita è processo, la sua quintessenza può risiedere solo nell’effettivo processo del pensare, non in un risultato. Una vita senza pensiero non è affatto impossibile: in tal caso essa non sviluppa a pieno la propria essenza. [286] Il pensiero come tale è di scarso profitto per la società, pensiero inferiore a quello prodotto dalla sete di conoscenza; non crea valori, né scopre una volta per tutte che cosa sia «il bene», né avvalora ma dissolve le regole di condotta. Non possiede alcuna rilevanza politica, a meno che non insorgano particolari situazioni di emergenza. [287] Quando tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che tutti gli altri credono e fanno, coloro che pensano sono tratti fuori dal loro nascondiglio perché il loro rifiuto di unirsi alla maggioranza è appariscente, e si converte per ciò stesso in una sorta di azione. In simili situazioni di emergenza la componente catartica del pensare si rivela implicitamente politica: la maieutica di Socrate, si tratti di valori, di dottrine, di teorie, persino di convinzioni, porta in luce le implicazioni delle opinioni irriflesse e lasciate senza esame, e le distrugge. Tale distruzione, infatti, ha un effetto liberatorio su un’altra facoltà, la facoltà di giudizio, che non senza ragione si potrebbe definire la più politica fra le attitudini spirituali dell’uomo. Si tratta della facoltà che giudica i particolari senza sussumerli sotto quelle regole generali che si possono insegnare e apprendere finché non si convertano in abitudini, sostituibili da altre abitudini e altre regole. [288] La facoltà di giudicare (giusto e sbagliato, bello e brutto) è diversa da quella di pensare: il pensiero ha a che fare con l’invisibile, con le rappresentazioni di cose che sono assenti; il giudicare concerne sempre particolari nelle vicinanze. Ma le due attività sono in relazione reciproca: se il pensare – il due-in-uno del dialogo senza voce – attualizza la differenza interna alla nostra identità qual è data all’esser coscienti (consciousness) e con ciò sfocia nella coscienza etica (conscience) come suo sottoprodotto, «il giudicare […] realizza il pensiero, rende manifesto il pensiero nel mondo della apparenze, là dove non sono mai solo e sono sempre troppo indaffarato; quando non esistono le circostanze in grado di pensare. La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto. Il che, forse, nei rari momenti in cui ogni posta è in gioco, è realmente in grado di impedire le catastrofi, almeno per il proprio sé]. [288-9]

Capitolo quarto: Dove siamo quando pensiamo?

Tantôt je pense, tantôt je suis (Valery): il non-luogo Pensare è sempre «fuori dell’ordine», interrompe tutte le attività ordinarie e ne è interrotto (esempio di Socrate immerso nei suoi pensieri e isolato da ogni compagnia). [291] Le manifestazioni delle esperienze autentiche dell’io che pensa sono molteplici: tra queste le fallacie metafisiche come la teoria dei «due mondi», e le descrizioni preteoriche del pensare come una sorta di morte, ovvero l’idea che nell’atto di pensare siamo membri di un altro mondo (Aristotele: bios theorētikos come bios xenikos, vita di uno straniero). L’io che pensa non sarà mai in grado di attingere la realtà in quanto realtà, né di convincersi che qualcosa esista realmente. [292] La intensità della esperienza di pensiero è così forte che possiamo rovesciare la opposizione tra pensiero e realtà, in modo che solo il pensiero sembri reale e tutto ciò che è sembri solo transitorio. La idea che tutto ciò che è possa essere solo sogno è tanto incubo che nasce dalla esperienza del pensiero quanto pensiero consolatorio che si invoca quando il mondo si sia ritratto da noi, divenendo irreale. Tutte le stranezze dell’attività di pensiero hanno a che fare con il ritrarsi: il pensiero è sempre impegnato con cose assenti e si allontana da ciò che è presente e vicino. Ciò significa che la realtà e la esperienza concepibili solo in termini spazio-temporali – possono essere temporaneamente sospese. Durante l’attività di pensiero sono significanti solo i distillati, i prodotti della desensibilizzazione, che non sono meri concetti astratti: un tempo li si chiamava «essenze». Con esse, che non possono essere localizzate, il pensiero abbandona il mondo del particolare e muove alla ricerca di qualcosa che sia munito di significato, benché non necessariamente universalmente valido. Il pensiero generalizza sempre, spreme dalla molteplicità dei particolari ogni significato che sia loro inerente. [293] L’«essenziale» è ciò che è applicabile ovunque, e questo «ovunque», che fornisce al pensiero il suo peso specifico, è, in termini spaziali, un «non-luogo». Muovendosi tra gli universali, tra essenze invisibili, l’io che pensa è in nessun luogo, senza patria. Nel Protreptikos il bios theōrētikos viene celebrato perché non ha bisogno per la sua pratica «né di strumenti, né di luoghi speciali; in qualunque luogo sulla terra uno si dedichi al pensare, ovunque sarà a contatto con la verità come se essa fosse presente». I filosofi amano questo non-luogo come se fosse il loro paese natio. La causa di questa indipendenza consiste nel fatto che la filosofia (il conoscere kata logou) non si occupa di particolari, di cose date ai sensi, ma di universali (kath’holou), di cose che non possono essere localizzate. [294]



La lacuna tra passato e futuro: il «nunc stans» Parabola di Kafka: passato e futuro si scontrano violentamente nell’Adesso. Nietzsche: La visione e l’enigma. [298] Interpretazione heideggeriana: la visione è solo di colui che si sofferma sulla porta carraia; per lo spettatore il tempo continua a scorrere come siamo soliti pensarlo. «Lo scontro si produce solo per colui che è egli stesso l’attimo». Chiunque stia nell’Adesso è rivolto in entrambe le direzioni: per lui Passato e Futuro corrono l’uno contro l’altro. Per Heidegger il contenuto autentico della dottrina dell’eterno ritorno è proprio che l’eternità è nell’Adesso, che l’attimo non è quel futile Adesso che è agli occhi dello spettatore, ma lo scontro di Passato e Futuro. [299] La parabola del tempo di Kafka non si applica all’uomo immerso nelle sue occupazioni quotidiane, ma esclusivamente all’io che pensa, in quanto si sia ritirato dagli affari della vita di tutti i giorni. La lacuna tra passato e futuro si spalanca solo nella riflessione, il cui oggetto è costituito da ciò che è assente, da ciò che è scomparso o non ancora comparso. L’attività del pensiero può essere in questo senso compresa come lotta contro il tempo: in quanto si pensa, non si è sorretti dalla continuità della vita quotidiana in un mondo di apparenze, il passato e il futuro si manifestano come pure entità: ci si può rendere consapevoli di un non-più che incalza in avanti, di un non-ancora che respinge indietro. [300] Ciò che l’io che pensa avverte come suo duplice avversario è il tempo stesso, con il mutamente ininterrotto che implica, e che trasforma ogni Essere in Divenire invece di lasciarlo essere, così distruggendo incessantemente la presenza del suo presente. Il tempo costituisce il maggior nemico dell’io pensante poiché interrompe regolarmente e inesorabilmente quella quiete immobile della mente. Il significato ultimo della parabola emerge allorché «Egli», situato nella lacuna temporale di un presente senza mutamento, un nunc stans, è uscito dalla linea di combattimento e promosso alla posizione di arbitro, spettatore e giudice fuori dal gioco della vita, al quale può riferirsi il significato di questo arco di tempo tra la nascita e la morte poiché «egli» non vi è coinvolto. [301] Il luogo del tempo dell’io che pensa sarebbe ciò che è «tra» il passato e il futuro, il presente, questo adesso misterioso, un puro vuoto del tempo verso cui sono diretti i tempi più consistenti del passato e del futuro. Se essi sono, si deve all’uomo che si è inserito tra loro e ha stabilito qui la sua presenza. [302-3] Immaginando un parallelogramma di forze, la diagonale risultante scaturirebbe dal punto di incontro tra passato e futuro, le forze antagoniste, che non hanno inizio ma un termine ultimo nel punto in cui si incontrano: la risultante ha invece una origine determinata, una direzione determinata dal passato e dal futuro, ma è indeterminata quanto al suo termine ultimo, rappresenta secondo la Arendt la metafora perfettamente adeguata alla attività del pensiero. [303-4]Un particolare presente troviamo il nostro luogo temporale quando pensiamo, cioè quando siamo sufficientemente discosti da passato e futuro per confidare di penetrarne il significato, di assumere la posizione di «arbitro» e giudice sopra le vicende della esistenza umana, senza mai giungere a una soluzione definitiva dei loro enigmi, ma pronti a fornire risposte sempre nuove alla domanda di senso di tutto ciò. 


Di tale lacuna abbiamo sentito parlare la prima volta come nunc stans nella filosofia medievale, dove, nella forma di nunc aeternitatis, fungeva da modello e da metafora della eternità divina. [304] Con una diversa metafora, la si può chiamare una regione dello spirito ovvero una via tracciata dal pensiero – il piccolo sentiero non appariscente del non-tempo percorso dalla attività di pensiero nello spazio-tempo dato agli uomini che nascono e muoiono. Ogni nuovo essere umano, appena acquisti coscienza di trovarsi inserito tra un passato e un futuro infiniti, deve riscoprire e tracciare faticosamente ex novo la via del cammino del pensiero. La singolare sopravvivenza delle grandi opere, del loro perdurare nei millenni si debba al fatto di aver avuto origine nel piccolo, discreto sentiero del non tempo, che il pensiero dei loro autori aveva seguito tra un passato e un futuro infiniti: avvertendo passato e futuro come puntati verso di loro, come il loro passato e il loro futuro, gli uomini creano così a sé stessi un presente in cui possono creare opere senza tempo, superando la loro finitudine. Questa assenza di tempo non si identifica con la eternità (concetto limite e impensabile della frantumazione di ogni dimensione temporale), ma si sprigiona dallo scontro di passato e futuro: si tratta della «terra dell’intelletto puro» di cui parla Kant. [305]



Postscriptum Il resto dell’opera tratterà delle altre due attività spirituali, volontà e del giudizio: dal punto di vista della speculazione sul tempo, esse concernono cose che sono assenti o perché non sono ancora o perché non sono più. A differenza della attività di pensiero che in ogni esperienza frequenta ciò che è invisibile, tende sempre a generalizzare, esse hanno sempre a che fare con ciò che è particolare, e in questo senso sono molto più prossime al mondo delle apparenze. Per riconciliarsi con il senso comune, offeso dal bisogno della ragione di perseguire la ricerca di significato, si è tentati di giustificare tale bisogno come indispensabile preparativo per decidere ciò che sarà o valutare ciò che non è più. Siccome poi il passato, essendo passato, si rende soggetto al nostro giudizio, il giudizio costituirebbe, a sua volta, un semplice preparativo per il volere. Questo tentativo estremo di difendere la utilità pratica della attività del pensiero non funziona: la decisione cui perviene la volontà non si può far derivare dal meccanismo del desiderio o da precedenti deliberazioni dell’intelletto. O la volontà è l’organo della libera spontaneità che spezza tutte le concatenazioni causali di motivazione o non è altro che illusione. [308] Analisi della volontà – facoltà sconosciuta ai Greci e dunque «scoperta», coincidendo con la scoperta della «interiorità» - nella prospettiva della sua storia. Volontà facoltà paradossale e contraddittoria: esperienza e scoperta originaria della impotenza della volontà (Paolo) e del conflitto della mente, in quanto volontà, con se stessa, dell’«io profondo» dell’uomo con se stesso. Nel mondo moderno affermazione della idea di progresso e sostituzione dell’antico primato filosofico del presente sugli altri tempi con il primato del futuro. [309] Attenzione anche alla Volontà come facoltà interiore grazie a cui gli uomini decidono «chi» saranno, con quali fattezze mostrarsi nel mondo delle apparenze. La volontà non ha a che fare con oggetti ma con progetti, crea in un certo senso la persona, ritenuta responsabile del suo Essere: marxismo e esistenzialismo pretendono che l’uomo sia produttore e artefice di se stesso. Si tratta della estrema fallacia metafisica corrispondente alla enfasi che la modernità ha posto sulal volontà come sostituto del pensiero. [309-10] L’ultima parte dell’opera tratterà del giudizio, per il quale c’è carenza di testimonianze autorevoli fino a Kant. Il presupposto per isolare il giudizio è che questa facoltà della mente non opera attraverso le comuni operazioni logiche – deduzione o induzione. Si tratta di un «senso silenzioso» che Kant pensava come «gusto», afferente cioè alla sfera estetica. In termini etici lo si indica come «coscienza» (conscience). In Kant è un talento che non si può insegnare ma solo esercitare. Il giudizio ha a che fare con ciò che è particolare: non appena l’io che pensa, che si muove tra generalizzazioni, riemerge dal suo ritiro e fa ritorno al mondo delle apparenze particolari, ecco che, per affrontarle, ha bisogno di un nuovo «dono». [310] In Kant è la ragione con le sue idee regolatrici a venire in aiuto del giudizio: ma se si tratta di facoltà distinta dalle altre, le si dovrà attribuire un autonomo modus operandi. Ciò non è senza importanza per il problema moderno del nesso teoria-pratica. Dopo Hegel e Marx tale questione è stata affrontata nella prospettiva della Storia e nella supposizione che l’idea del Progresso del genere umano sia effettivamente una realtà. Ci si trova in ultimo con una alternativa: o affermare con Hegel che «la storia del mondo è il giudizio sul mondo», lasciando che sia il Successo ultimo a giudicare, ovvero sostenere con Kant la autonomia della mente umana e la indipendenza virtuale dalle cose così come sono divenute. [311] A questo punto sarà necessario occuparsi del concetto di storia. Il termine di origine greca deriva da historein, indagare per dire «come fu» (Erodoto, legein ta onta): in Omero histor è il giudice. Se il giudizio è la facoltà che in noi si occupa del passato, lo storico è l’indagatore curioso che, raccontandolo, siede in giudizio sopra di esso. In questo caso sarà possibile riscattare la nostra dignità umana strappandola alla pseudodivinità della epoca moderna chiamata Storia, negando il suo diritto a costituirsi giudice ultimo: «Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni». [311-2] 


Peter Sloterdijk

Biografia

Peter Sloterdijk (Karlsruhe, 26 giugno 1947) è un filosofo e saggista tedesco, professore di filosofia ed estetica alla Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe, di cui è pure rettore dal 2001. Insegna anche all'Accademia di Belle Arti di Vienna. Dal 1968 al 1974 Sloterdijk studia filosofia, germanistica e storia all'Università di Monaco. Nel 1975 consegue il dottorato all'Università di Amburgo con una tesi sulla filosofia e la storia dell'autobiografia. In seguito intraprende con successo la carriera di saggista, cui si aggiunge, dal 1992, l'insegnamento universitario a Karlsruhe e a Vienna. Il suo primo saggio filosofico, "Critica della ragion cinica", pubblicato nel 1983, batte il record di vendite per un libro di filosofia scritto in tedesco e verrà tradotto in trentadue lingue. L'opera è salutata da Jürgen Habermas, che la considera come «l'avvenimento più importante dal 1945». Sloterdijk riceve il premio letterario Ernst-Robert-Curtius nel 1993 e accresce la sua già grande importanza insegnando nelle città, tra le altre, di Parigi, Zurigo e New York. A partire dal 1998, Sloterdijk comincia la sua trilogia "Sfere", che fa di lui un personaggio riconosciuto nel mondo delle lettere tedesco. Si aggiungono a questo straordinarie capacità pedagogiche e una chiarezza tale dal permettergli di animare, dal 2002, in collaborazione con Rüdiger Safranski, il programma televisivo Im Glashaus. Das Philosophische Quartett ("Nella casa di vetro. Il quartetto filosofico"), lo show filosoficoletterario della rete tedesca ZDF dedicato alla discussione delle questioni chiave che investono la società contemporanea. Nel 2001 è nominato rettore (Rektor) dell'Accademia di Arte e Media (Hochschule für Gestaltung o HfG) di Karlsruhe. Nel 2005 si vede conferire la cattedra Emmanuel Lévinas a Strasburgo per due semestri. Lo stesso anno, Sloterdijk denuncia il “no” della Francia alla costituzione europea. In Ira e tempo intraprende una riflessione sulla politica a partire dalle sue espressioni di collera. L'ira diventa il motore della politica. Dopo Nietzsche e Heidegger, Sloterdijk considera il tempo politico come un vettore di collera e risentimento. Nel settembre 1999 Sloterdijk pubblica una conferenza intitolata “Regole per il parco umano. Una lettera di risposta alla Lettera sull'Umanismo di Heidegger” sul settimanale Die Zeit. Questo intervento viene male interpretato e genera uno scandalo molto mediatizzato. Il filosofo vi propone una riflessione sull'umanismo, la genetica e i problemi posti da ciò che lui chiama l'“addomesticazione dell'essere umano”. L'uso della parola «Selektion» (carico di connotazioni, in Germania, che rimandano al nazismo) nel suo testo gli procura severe critiche (soprattutto da Jürgen Habermas) e la messa in questione della sua stessa notorietà e autorevolezza. Il termine viene impiegato due volte nell'intervento, nel contesto della “selezione natale” e poi messo in parallelo con la parola «Lektion» (lezione), in analogia con «Auslesen» (la “scelta” dell'antologia). La controversia è ugualmente proseguita in Francia, dove Sloterdijk riceve l'appoggio, in particolare, del suo traduttore Olivier Mannoni, di Bruno Latour, Éric Alliez, Jean Baudrillard e Régis Debray.

Influenzato da Friedrich Nietzsche e dai suoi interpreti francesi (Gilles Deleuze e Michel Foucault), dopo la "filosofia della contestazione" della Critica della ragione cinica (1983) si è occupato, con un approccio antiumanistico, di psicologia e filosofia politica. Sloterdijk intende il postmoderno come la posizione di chi combatte il totalitarismo della metafisica classica occidentale, la cui storia è da intendersi come un processo di globalizzazione. Perciò, più che fenomeno contemporaneo, la globalizzazione si identifica con la modernità, cioè con l'epoca in cui la follia di espansione globale diventa ragione di profitto. La filosofia di Sloterdijk rompe l'equilibrio tra il solido accademismo di un professore scolastico e un certo senso di anti-accademismo (testimone del suo interesse sempre in corso per le idee di Osho, del quale divenne discepolo negli anni settanta). Nonostante le critiche che alcuni lati del suo pensiero hanno provocato, lui rifiuta di essere classificato un "pensatore polemico", descrivendo se stesso invece come “iperbolico”. Le sue idee rifiutano l'esistenza dei dualismi (come corpo e anima, soggetto e oggetto, cultura e natura, etc.) a partire dalla loro interazione, cioè come “spazi di coesistenza”, e progressi tecnici che creano una realtà ibrida. Così Sloterdijk, che sta provando a sviluppare un nuovo umanismo spesso chiamato postumanesimo, cerca di unire diverse componenti che sono state, secondo lui, erroneamente considerate separate l'una dalle altre. Questa ricerca lo ha condotto a proporre la creazione di una “costituzione ontologica” che vuole incorporare tutti gli esseri – umani, animali, vegetali, e macchine.

Cronologia delle opere

Critica della ragion cinica. L'ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione. Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger. Terrore nell'aria. Derrida egizio. Ira e tempo. Saggio politico-psicologico. Il furore di Dio. Sul conflitto dei tre monoteismi. Sfere / Bolle vol. 1. Devi cambiare la tua vita. Caratteri filosofici. Da Platone a Foucault. Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio. La mano che prende e la mano che dà. Stress e libertà. "Crescita o extraprofitto. Appunti per una nuova concezione dell'idea europea di vita".




Sloterdijk e la critica dell'umanismo

Peter Sloterdijk, nel discorso Regole per il parco umano che tanto scalpore suscitò nel mondo tedesco e francese, partiva dall’accusa mossa a Heidegger di non tenere in nes- sun conto la venuta al mondo dell’uomo e di far cominciare la sua storia dallo stare nella Lichtung. Per Heidegger lo stare dell’uomo nella Lichtung sarebbe un evento di linguaggio, senza il quale non ci sarebbero né uomo né mondo, ma soltanto degli animali chiusi nel loro cerchio ambientale e incapaci di staccarsi dalla struttura stimolorisposta, o ancora, ci sa- rebbe solo il modo d’essere, statico e passivo, dell’essere senza mondo di pietre e cose. Per Sloterdijk bisognerebbe riscrivere una storia dell’umanità dal punto di vista paleoantropo- logico, a partire dalla tecnica dei mezzi duri, dalla tecnica della pietra, come prima tappa di un percorso che porta dall’animale all’uomo, tappa questa che Heidegger avrebbe risoluta- mente ignorato, e che per Sloterdijk invece è primaria e solo in un secondo tempo porta alla costruzione di spazi abitativi, alla teoria, al linguaggio, al pensiero, alla costruzione di spazi di incubazione del sociale.

«Il soggiornare dell’uomo nella Lichtung, heideggerianamente detto lo stare-in o l’essere contenuto dell’uomo nella Lichtung dell’essere, non è affatto un rapporto ontologico originario, inaccessibile a un’ulteriore interrogazione. Vi è una storia, risolutamente ignorata da Heidegger, dell’entrare dell’uomo nella Lichtung, vi è una storia sociale di come la questione dell’essere implichi l’uomo, e vi è un movimento storico nello spalancarsi della differenza ontologica» (Regole per il parco umano)

Il prima e il dopo però qui in realtà sono relativi solo al modo di concepire e di guardare all’evoluzione umana a partire dalla situazione in cui siamo; in real- tà dire che l’uomo è prima un lanciatore di pietre equivarrebbe a rivendicare la parte animale dell’uomo misconosciuta da un Heidegger che parte dal fatto umano della Lichtung e dalla mano come opposta alla zampa animale

«Perciò è legittimo prendere in considerazione anche una storia della Lichtung a partire “dal basso”»

Così Sloterdijk quando afferma che «la Lichtungè un’opera di pietre che si adattano ad altre pietre, a mani che stanno nascendo e a cose che si possono lavorare o colpire. Il fare centro è la forma primitiva della frase. Il lancio riuscito è la prima sintesi di soggetto (pietra), copula (azione) e oggetto (animale o nemico). Il taglio penetrante prefigura il giudizio analitico», sta affermando che si tratterebbe di raccontare «una storia della Lichtung a partire dal basso» e che «il compito del pensiero sembra essere dunque quello di osservare l’essere vivente nel passaggio dall’ambiente all’estasi del mondo, e quello di dare testimonianza di questo evento, retroattivamente, con l’aiuto del ricostruzionismo fantastico» .

Il compito del pensiero che Sloterdijk si assume è dunque quello di rendere testimonianza di un evento, un evento che ci costituisce in quanto uomini, senza incorrere negli errori de- gli antropologi che presuppongono già quell’uomo che poi vanno a cercare negli stadi evo- lutivi dall’animale all’uomo.

«La ricerca sull’uomo e sulle sue condizioni di possibilità storiche deve muoversi in circolo in modo tale che il punto di partenza, la nostra estasi esistenziale nel nostro tempo, o la nostra appartenenza all’evento, il fatto che questa apertura ci riguardi, venga di nuovo raggiunta e mai abbandonata, senza cioè che “l’uomo” – come si usa tra gli evoluzionisti – venga già presupposto e poi derivato apparentemente in senso evolutivo»

Il problema cui ci mette di fronte Sloterdijk è dunque quello di come tenere conto di ciò che già siamo e come, partendo da un’idea del fatto umano che «non è mai assunto a un livello meno elevato di quello che gli attribuisce Heidegger, quando parla della Lichtung dell’essere», rendere testimonianza di ciò che siamo, di ciò che l’uomo è. La storia dell’ominazione allora non potrà che essere un racconto fantastico nella forma di una nuova antropologia. Sembra, abbiamo detto, che Sloterdijk prediliga la tecnica dura rispetto alla leggerezza delle parole e del pensiero, e sembra anche che voglia dedicarsi al progetto ambizioso di scri- vere una nuova antropologia non curandosi delle critiche dei filosofi che gli rimproverano di pervertire così il significato dell’ontologia heideggeriana: sostiene infatti che non bisogna «lasciarsi fuorviare dalle affermazioni sdegnose degli heideggeriani giurati, secondo i quali in questo modo si abuserebbe del ‘mero ontico’ per determinare l’ontologico». L’accusa mossa a Sloterdijk sarebbe dunque quella di pervertire l’ontologia in una antropologia (che attribuisce a Sloterdijk il tentativo di sostituire l’ontologia di Heidegger con un’ontologia del concreto, mentre l’ontologia di Heidegger serve a Sloterdijk, come dice lui stesso, da «guida per il procedere del pensiero antropologico), cosa che Heidegger aveva già prontamente condannato in molti suoi contemporanei, dimentichi a suo dire della differenza ontologica10. Sembra però anche che per Sloterdijk non si tratti af- fatto di sostituire al discorso di Heidegger quello di un’antropologia, seppure un’ontoantropologia, che renda giustizia dei prodromi tecnici che portano alla costruzione di quei mondi intermedi, le sfere sociali, che permettono all’uomo di isolarsi dall’ambiente esterno, pro-teggendolo da intemperie ed eventi avversi, e quindi di lussureggiare, cioè, potremmo dire, di avere tempo libero da dedicare al pensiero, alla poesia e alla meditazione dell’essere. Non si tratterebbe dunque di costruire un’ontologia della nascita, del luogo natale e delle sfere, un’ontoantropologia che ci spieghi come arrivare «alla stazione centrale della Lichtung» . «È difficile supporre che ci sia un mondo aperto e istituito per l’uomo, come se dovessimo soltanto aspettare che una protoscimmia faccia lo sforzo di arrivarci, come se stesse arrivando alla stazione centrale della Lichtung. La difficoltà, fin dall’inizio, risiede nella preumanità e nella premondanità autentiche, anche se “autentiche” in un modo fantastico. Dobbiamo cominciare da questa difficoltà, dichiarando già dall’inizio che il nostro scopo è quello di giungere al risultato delle culture sapiens dispiegate, e delle soggettività sapiens di tipo storico, già

costituite, estatiche e formatrici di mondo: in questo modo il fatto umano non può venire assunto per un solo momento a un livello meno elevato di quello che gli attribuisce Heidegger, quando parla della Lichtung dell’essere» (P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, cit., pp. 123-124)



Queste sono tutte cose che “effettivamente” (e provocatoriamente) Sloterdijk sembra affermare anche in un libro-intervista del 2003. Per quanto mi riguarda ho il progetto ambizioso di riformulare l’antropologia filosofica di Ples-sner, Gehlen, Freud, etc. nei termini di un’antropologia del lusso. Vorrei mostrare che la naturapropria dell’uomo non è né la mancanza, come dicono Gehlen e Lacan, né la posizione eccentri-ca, come ci insegna Plessner, ma l’abbondanza. L’ambiguità dell’uomo deriva giustamente dal fatto che siamo delle creature del lusso, eternamente viziate dalle nostre mamme!

Ma fino a che punto dobbiamo prendere sul serio, alla lettera, quello che ci dice Sloterdijk? Non dobbiamo prima fare attenzione alla cornice, al tipo di attenzione che Sloterdijk stesso ci dice di riservare all’«epopea» (termine suo), della venuta alla Lichtung dell’uomo?All’inizio del pamphlet su La domesticazione ci aveva avvertito che la cornice del discor-so entro cui sta parlando è quella di una fantasia filosofica: «Ci tengo a presentare queste riflessioni come appartenenti al genere, un po’ irregolare, della ‘fantasia filosofica’», e sottolinea che la sua è «una meditazione che vuole essere filosofica» .


La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung5 Nicht gerettet. Versuche über Heidegger, 2001.  



La proposta di Sloterdijk, provocatoria ma chiarificante al tempo stesso, è quella di una interpretazione antropologico-filosofica, come già evidenziato sopra, del pensiero dell’essere di Heidegger. E tale proposta interpretativa trova nell’ampio saggio in questione forse il suo punto di partenza o comunque uno dei luoghi in cui meglio e più chiaramente è esposta. Pensando Heidegger contro Heidegger, come lui si esprime, si tratta di capire che cosa abbia dato inizio al fenomeno umano e alla relazione tra essere e uomo. Se Heidegger parla della Lichtung dell’essere, della apertura, della radura dell’essere in cui l’uomo soggiorna, allora si tratta di pensare “come l’uomo sia giunto alla Lichtung o come la Lichtung sia giunta all’uomo. Dovremmo sapere come venne prodotto il lampo, nella cui luce il mondo ha potuto illuminarsi come mondo” Sloterdijk parte dalla necessità di quel che chiama il “circolo antropotecnico”. Per comprendere la “condizione umana”, egli afferma, non si deve presupporre l’uomo, ma è al contempo necessario avere come prospettiva la comprensione dell’uomo nello stato attuale di civilizzazione. A nulla vale elaborare una teoria antropologica se questa poi non chiarifica la condizione attuale del fenomeno umano. La sua tesi principale è che l’uomo sia un prodotto della Lichtung. Ma che cos’è la Lichtung? Per rispondere a tale domanda, secondo Sloterdijk bisogna comprendere il processo di de-animalizzazione dell’animale che ha avuto come conseguenza la comparsa dell’uomo. Mentre l’animale si muove e vive nel suo ambiente (Umwelt) – come è noto a partire da von Uexküll – il proprium dell’uomo è quello di distanziarsi/ uscire dall’ambiente per “irrompere nella dimensione ontologica priva di gabbia” (p. 128) che tradizionalmente chiamiamo “mondo”. Solo l’uomo, continua Sloterdijk, spezzando la gabbia dell’ambiente “viene al mondo”. Ed è proprio una teoria del “venire al mondo”, una teoria spaziale-orizzontale dell’evento del mondo e dell’evento dell’umano, quella che deve sostituire, o quanto meno integrare, la teoria della caduta verticale nell’esistenza preferita dallo Heidegger di Essere e tempo. Per Sloterdijk, l’uomo è un prodotto, naturalmente aperto ad ulteriori modificazioni, di meccanismi antropogenici pre-umani e non-umani (p. 132). Nella Lettera sull’umanismo, Heidegger, andando al di là della sua preferenza per la relazione tra l’essere e il tempo, ci dà, malgrado lui, le parole-chiave del passaggio dall’ambiente al mondo: la casa dell’essere, l’esistenza come abitare. A patto da intendere tali espressioni in senso più concreto, c’è in esse, non esplicitata, una originale teoria dello spazio umano e dell’entrata in esso. 


5

Esposta di V. Cuomo, qui rielaborata.

Proponendosi di esplicitare tale teoria Sloterdijk introduce il concetto di sfera. La sfera, egli afferma, è qualcosa di molto vicino al concetto platonico di chora, se inteso, come ha mostrato Derrida, come “matrice delle dimensioni in generale”. Le sfere sono “descrivibili come i luoghi della risonanza interanimale e interpersonale, in cui i modi in cui gli esseri-viventi stanno insieme acquisiscono un potere plastico. […] È all’interno delle risonanze della sfera che dal muso animale si sviluppò il volto umano” (p. 137). Esse sono innanzi tutto paragonabili a delle “serre” in cui l’umanità dell’uomo è maturata e che hanno operato come “aperture mediane” tra “ambiente” e “mondo”, come veri e propri “agenti di cambio” tra le forme di coesistenza corporeo-animali e quelle simbolico-umane (vedi p. 138). Resta da mostrare come queste serre-sfere si siano formate, e come in esse sia potuta avvenire l’ominazione.Come entrò in gioco l’effetto serra? Riassumendo e interpretando importanti ricerche paleo-antropologiche (Miller, Gehlen, Alsberg, Bolk, Portmann), Sloterdijk parla di quattro meccanismi antropo-genici che, agendo sinergicamente, hanno prodotto la Lichtung e, di conseguenza, l’uomo:

1. Il meccanismo di insulizzazione 2. Il meccanismo di liberazione dai limiti del corporeo 3. Il meccanismo della neotenia 4. il meccanismo della trasposizione.

Il primo meccanismo, quello dell’insulizzazione, trova origine nella storia degli animali che vivono in comunità e risale fino al mondo delle piante. In base ad esso, tra gli animali che vivono in branco, quelli che si trovano ai margini producono un effetto di “parete vivente” che produce protezione (vantaggi climatici, protezione dai predatori…) per gli animali posti al centro: le madri animali e i loro piccoli. In tal modo si aggirano le leggi darwiniane del fitness selettivo. Il risultato più importante dell’insulizzazione, scrive lapidariamente Sloterdijk, “consiste nella trasformazione del piccolo in bambino” (p. 140).

Il secondo meccanismo, quello della liberazione dai limiti corporei, “dipende da una specifica attivazione della mano” (p. 142) ed è probabilmente sorto con l’uso delle pietre per colpire e per lanciare. È l’età della pietra che dà forma all’uomo. Attraverso colpi e lanci e tagli, scrive Sloterdijk, “il preominide produce i primi buchi e strappi nell’anello dell’ambiente. [...] Come primitivo tecnologo della pietra, come lanciatore e operatore con strumenti contundenti, il presapiens divenne un praticante del mezzo duro. Il divenire uomo accadde sotto la protezione delle litotecnica, poiché è con l’impiego delle pietre per lanciare, colpire e tagliare che entra per la prima volta in azione il principio della tecnica, e cioè: ciò che ci libera dal contatto corporeo con ciò che abbiamo intorno” (p. 143).

Ne derivano conseguenze importanti: a) i confini del lancio diventano i confini di una dimensione che è al di là dell'ambiente; b) lo sguardo che segue il lancio produce la prima forma di teoria; c) l’anticipo dei risultati del lancio produce la prima forma di progetto; d) centrare il colpo, la sensazione di aver colpito il bersaglio è la prima forma di esperienza della verità.

“In questo senso si può dire – egli scrive – che il risultato dell’età della pietra è consistito nella conquista di quella distanza dalla natura, che permette l’esplosione dell’anello dell’ambiente, e va in direzione dell’essere aperto del mondo” (p. 146). Ma c’è dell’altro. Nel contrasto tra il lancio andato a segno e l’orizzonte “che nessun lancio raggiunge, che nessun colpo danneggia, che nessun taglio ferisce” (Ivi) - tra il lancio riuscito, e l'orizzonte sempre mancato, accade per la prima volta la differenza che verrà poi tematizzata come la differenza ontologica tra essere e ente. Già l’interazione tra questi due meccanismi può cominciare a spiegare come lo sviluppo evolutivo umano sia stato di tipo “lussureggiante”, in quanto non ha premiato le capacità di adattamento ad un ambiente ostile ma ha premiato, al contrario, lo sviluppo delle capacità di dis-adattamento all’ambiente. Nella serra antropogenica non sopravvive il più robusto bensì il più avvantaggiato dall’effetto serra (quindi il meno adatto ad affrontare l’ambiente extra-serra).

Per chiarire ulteriormente questo aspetto dell’antropogenesi, Sloterdijk introduce il terzo meccanismo, quello della neotenia. La casa dell’essere, la Lichtung, egli scrive, acquista sin dall’inizio la caratteristica di un “utero esterno predisposto tecnicamente, in cui i nati, per tutto l’arco della vita, godono dei privilegi dei feti. Di conseguenza gli esseri-viventi, che un giorno saranno uomini, si riproducono esclusivamente in un vivaio, che possiamo meglio definire un parco autogeno” (p. 149). La serra antropogenica avrebbe funzionato, quindi, da incubatrice in cui i piccoli vengono “viziati”, ritardandone la maturazione. Sorge così il tempo esistenziale che Heidegger avrebbe chiamato la Sorge, l’aver-cura: “il viziare obbliga ad aver cura e l’aver cura stabilizza la condizione viziata”, conclude Sloterdijk (p. 152). Gli uomini, prendendo in custodia se stessi divengono animali-da-cura. In tal modo, “l’uomo lussureggia ontologicamente, poiché lussureggia fisiologicamente, e lussureggia fisiologicamente perché vive in una serra che deve essere stabilizzata” (p. 153). Queste serre, che saranno un giorno chiamate “culture”, sono dei “sistemi della cura di sé”. Nascendo come creature dell’abitare gli uomini sono instabili e flessibili, ma non privi di essenza: “essi sono essenzialmente viziati ed essenzialmente disposti a difendere il loro essere viziati con un impegno estremo” (p. 156). I rischi di tale evoluzione lussuosa, secondo Sloterdijk, sono essenzialmente quelli legati alla liberazione di impulsi eccessivi che possono giungere fino alla liberazione di una violenza paranoica, orgiastica e autodistruttiva. Ma qual è l’origine di tale rischio?


Per la verità su questo punto essenziale il suo discorso appare manchevole, nonostante un generico rimando a Gehlen. Egli parla della violenza come di un “effetto collaterale”, come di un rischio legato all’evoluzione lussuosa, e non tratta della questione in quanto tale, così come non tratta delle relazioni tra la violenza e la morte. Fatto è che, spiega Sloterdijk, per difendersi dalla violenza– della cui origine non dà conto – gli uomini hanno prodotto delle procedure di auto-formazione, delle antropotecniche che compensano ed elaborano la plasticità dell’uomo generata dalle serre antropogeniche. Resta fermo che le antropotecniche (educazione, allevamento, disciplinamento) presuppongono un essere umano educabile prodotto da “meccanismi antropogenici” primitivi e inconsci.

L’ultimo di tali meccanismi, quello della trasposizione, è così spiegato da Sloterdijk: dato l’elevato grado di insulizzazione, le differenze tra interno ed esterno (di grado sempre più elevato, man mano che l’evoluzione lussureggiante va avanti) fanno sì che le irruzioni del mondo circostante siano spesso catastrofiche. Allora lo spazio interno implode. Per tale ragione scatta un meccanismo simbolico immunologico che consiste all’inizio nella creazione di religioni riparatorie e di riti di ricomposizione e rigenerazione. Anche su questo punto colpisce il fatto che Sloterdijk veda nel rito religioso primitivo e nel rito in generale solo degli strumenti di acclimatazione all’imprevista e possibile catastrofe della Lichtung prodotta dal “fuori”, quasi come se fossero unicamente strumenti di preparazione alla catastrofe, aventi in qualche modo la stessa funzione dell’angoscia di preparazione di cui parlava Freud. È come se Sloterdijk concepisse il rito solo come mezzo di riduzione del (possibile) disordine senza prendere in considerazione il fatto che esso di solito svolga il ruolo di un’istituzionalizzazione del disordine (si pensi ai riti dionisiaci o anche ai contemporanei rave), che, in quanto tale, regola e permette il disordine e l’eccesso violento stesso. Da tale punto di vista, quindi, il rito potrebbe essere pensato (e lo è stato, ad esempio da Bataille) come un’istituzione paradossalmente “anti-immunologica”. Ma torniamo al testo, comunque fondamentale, di Sloterdijk. Il meccanismo di trasposizione, egli rileva, è anche alla base del “divenir adulti” che, in ultima istanza, consiste nella capacità di assumere come “domestiche” le situazioni di estraniazione e di pericolo. Il linguaggio come “casa dell’essere” di cui parla Heidegger è, da questo punto di vista, l’organo generale della trasposizione. La sua funzione è quella di assimilare l’estraneo al proprio, ma ampliando i limiti del proprio (è questa in fondo la tesi di Wozu Dichter? di Heidegger, nonostante Sloterdijk non vi si soffermi).

Che cosa sta accadendo ora? Tutto ciò che Slotedijk ha descritto fino a questo punto risulta all’improvviso un solo grande preambolo all’evento che stiamo vivendo, cioè la scomparsa della “casa dell’essere”. Il progresso della tecnica non appare più addomesticabile (né semplicemente “trasponibile”). Cresce l’estensione dell’estraneo e dell’inabitabile. È ciò che Heidegger ha chiamato l’assenza di patria, la spaesatezza, ma anche il compimento della metafisica. “Quando Dolly bela lo spirito non è in patria, a casa, presso di sé” (p. 169). Inoltre le macchine intelligenti attestano che lo spirito è confutato all’interno delle cose. Sta venendo meno la distinzione metafisica tra natura e cultura. Per pensare quest’evento, secondo Sloterdijk, c’è bisogno di una nuova logica e di una nuova ontologia (vedi p. 172 sgg.). La previsione a cui egli giunge, che è anche una provvisoria conclusione delle sue argomentazioni, è la seguente: fermo restando che la Lichtung stessa (sfera, cultura) non è pensabile senza la sua origine tecnogena, “la plasticità umana rimane una realtà fondamentale e un compito inevitabile” (p. 177). Allora, ciò che può “salvarci” è ancora la tecnica, quella che è già apparsa, che ha già cominciato ad operare grazie alle tecnologie intelligenti. È la tecnica che Sloterdijk chiama “omeotecnica”. Essa, in contrapposizione alla vecchia [allo]tecnica, è descritta come una tecnica capace di utilizzare le cose senza far violenza ad esse. Tale omeotecnica, che si è annunciata, sottolinea Sloterdijk, sotto i nomi di ecologia e di teoria della complessità, non è un dover-essere, ma già una realtà. Forse potremmo chiosare questa conclusione (provvisoria) di Sloterdijk ricordando il famoso verso hölderliniano, più volte citato da Heidegger, secondo cui “nel pericolo cresce anche ciò che salva”. Nella tecnica cresce anche la tecnica che ci salverà?

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