André Chastel - Il sacco di Roma. 1527
February 18, 2017 | Author: romeo5757 | Category: N/A
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Il sacco di Roma. 1527 di André Chastel
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
André Chastel, Il sacco di Roma. 1527, trad. it. di Marisa Zini, Einaudi, Torino 1983 Titolo originale:
The Sack of Rome, 1527 Princeton University Press © 1983 Trustees of the National Gallery of Art, Washington (D.C.)
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Indice
Presentazione
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I.
«Misera caput mundi» La marcia su Roma Le difese di Roma Il sacco II Pageant del 4 agosto Imago Urbis
34 37 41 44 49 55
II.
Roma-Babilonia La Sala di Costantino Il papa-Anticristo L’Anticristo e i pronostici
72 73 84 91
III.
«Urbis direptio» Opere d’arte Reliquie Il prestigio dei soldati mercenari
110 118 123 134
IV.
Polemiche: italiani e barbari L’esoterismo ghibellino La fine dell’Italia La disperazione dei letterati L’intervento di Erasmo Adriano VI Archeologia e paganizzazione
146 147 150 157 163 172 176
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Indice
V.
Lo stile clementino Il cambio della guardia L’incisione Il Cristo morto del Rosso La Madonna del Parmigianino Le sciagure Il rifugio veneziano
192 199 204 208 210 213 221
VI.
Riparazione pontificia, trionfo imperiale La barba del Pontefice Medaglie e monete Il ciclo di san Michele Il Giudizio universale L’imperatore a Roma
230 236 242 244 253 263
Epilogo
285
Bibliografia
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Presentazione
Tiziano, al suo arrivo a Roma sul finire del 1545, fu abbagliato dalla città e ne fece parte all’Aretino. In risposta ne ricevette una celebre lettera, ironica e insieme amichevole, dove si legge: «Voi oggi rimpiangete che la voglia di andare a Roma or che vi dolga il gricciolo, venutosi adesso di trasferirvi a Roma, non vi venne venti anni fa, molto ben ve lo credo. Ma, se ve ne stupite nel modo che la trovate adesso, che areste voi fatto vedendola ne la maniera che la lasciai io?»1. Se questa città, che affascina il Cadorino sotto Paolo III, l’avesse conosciuta sotto Clemente VII! L’Aretino aveva lasciato Roma nel 1525; gli ultimi mesi del suo soggiorno erano stati abbastanza agitati, con la vicenda dei Sonetti lussuriosi2, il conflitto con il datario Giberti, la rissa che, per poco, gli era costata la vita. L’Aretino serbava tuttavia della Roma «clementina», scomparsa nella primavera del 1527, un ricordo indimenticabile e profondo. Stabilitosi per sempre a Venezia, soddisfatto e attivo per quanto fosse possibile, il «flagello dei principi» sapeva che già era caduta nell’oblio la Roma meravigliosa della sua giovinezza. La catastrofe del 1527 aveva colpito una città dove gli artisti fiorivano, dove le opere d’arte pullulavano. Poco tempo dopo quella data fatidica, Vasari ebbe occasione di menzionare spesso nelle sue biografie le conseguenze del sacco sulla carriera degli artisti. Prima di
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tutto ci colpisce il modo con cui presenta le cose, per esempio nella vita di Perino del Vaga: «l’anno 1527 venne la rovina di Roma, fu messa quella città a sacco, e spento molti artefici, e distrutto e portato via molte opere»3. Le indicazioni dello storico basterebbero a ricordare che gli avvenimenti politici e militari del maggio 1527 determinarono una dispersione, che è stata giustamente definita una «diaspora», dei piú grandi artisti del momento. Bisognerà insistervi, perché il fenomeno è stato esaminato seriamente soltanto di recente4. La sua importanza dipende dal fatto che a Roma, intorno al 1525, si erano verificati numerosi sviluppi nuovi: per limitarsi alla pittura, era incominciato ad emergere uno stile originale, tutto abilità, grazia e raffinatezza, di cui l’Aretino, come molti altri, aveva serbato il ricordo. Occorre forse esaminare con maggiore attenzione quello che è andato perso a causa dell’evento storico. Su un piano piú generale, Jacob Burckhardt si è reso conto, con la sua solita lucidità, della forza di rottura dell’avvenimento. Ne coglie le conseguenze a lungo termine: «Un fatto considerevole, – egli scrisse piú di un secolo fa, – verrà fuori dalla devastazione di Roma, e cioè un rinnovamento spirituale e temporale»5. Lo choc del 1527 aveva sconvolto una tale quantità di cose che si poteva sperare di ricostruire soltanto con prospettive nuove. Rendendo necessario il Concilio (proclamato fin dal 1536, riunito a Trento dopo il 1545) e il movimento di Riforma cattolica, il sacco aveva dato luogo al processo mediante il quale, in definitiva, la Chiesa e l’Italia passarono dall’alto Rinascimento al barocco. Questo punto di vista non è sbagliato, anche se omette troppi fattori; ma non è esattamente il nostro. Esso salta una tappa: quella delle circostanze e dell’eco immediata della caduta di Roma, da cui abbiamo molto da imparare. Il problema infatti non è quello del barocco, ma del manierismo, come ha bene compreso fin dal 1945 Giuliano
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Briganti6. La cultura romana aveva assunto intorno al 1525 un tono nuovo; il sacco provocò il disseminarsi di uno stile che «smette di essere l’appannaggio esclusivo delle città di Firenze, Siena o Roma». Si tratta niente meno che di artisti quali Parmigianino, Rosso, Polidoro, Peruzzi, Perino del Vaga. I mutamenti precipitosi provocati dagli avvenimenti del maggio 1527 portarono all’«europeizzazione» del manierismo7, che era già in via di sviluppo. La catastrofe non fece che accelerarla. Già l’abate Lanzi aveva notato qualcosa del genere8. Il clima intellettuale della Roma del 1525 doveva il suo splendore a una convergenza eccezionale di talenti, a un entusiasmo reso piú intenso dall’incontro delle persone e delle ambizioni, al fervore di una cultura adesso sicura di se stessa, a una inconsueta libertà di costumi e di parola – basta rileggere i capitoli relativi di Cellini9. Ma proprio questo disgustava certamente tanti osservatori, visitatori e residenti stranieri, chierici o laici. Clemente VII fu forse un pontefice di grande dignità, ma proprio sotto il suo regno le critiche contro la corruzione romana giunsero a un livello insostenibile. Risalivano da molto lontano, e potevano anche essere considerate tradizionali all’interno del mondo cristiano10. L’amministrazione della monarchia centralizzata della Chiesa rischiava sempre di deludere, di irritare, di scandalizzare, quando si aveva a che fare con l’enorme macchina della Curia. Molti consideravano pericolosi e assurdi i recenti sviluppi della politica territoriale e militare del papato. Leone X e Clemente VII avevano ereditato quella situazione pericolosa e preoccupante creata da Giulio II. Al rispetto dovuto al pontefice si mescolava inevitabilmente l’ammirazione o il sospetto che ispirava il suo comportamento come capo dello Stato romano. Erasmo, di ritorno dall’Italia, scrisse, ironico e inquieto, l’Elogio della pazzia (1511): se il mondo è insensato, certo una grande responsabilità ne ha la Chie-
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sa. Senza dubbio, l’aspetto generale della città gli piaceva e ne parlerà piú tardi con un certo affetto, ma con tono ben diverso dall’Aretino. Già allora alla base del suo pensiero, espresso piú tardi nel Ciceronianus del 1528, era che Roma, con le sue manie di stile elegante e di pompa antica, alla fin fine era soltanto un covo di paganesimo11. Si diffondeva sempre piú l’idea che per essere buon cristiano fosse meglio non andare a Roma. In quale misura il breve soggiorno di Martin Lutero presso gli Agostiniani di Santa Maria del Popolo nel 1511 fece nascere in lui la volontà di ribellarsi che scoppiò nel 1517, e i cui terribili contraccolpi furono risentiti durante tutto il pontificato di Clemente VII?12. In ogni caso, nessuno al di là delle Alpi parlò mai con maggior odio e disprezzo della Città Santa. Certo, né Lutero né Erasmo poterono vedere e capire tutto quanto stava accadendo. Ma ne videro e capirono abbastanza per dissociarsi per sempre dalla vita romana, non solo per come venivano gestiti gli affari della cristianità, ma, assai piú radicalmente, per la mescolanza costante, e odiosa ai loro occhi, di profano e di sacro, di modelli antichi e di usanze cristiane. A Roma stessa si assisteva a una specie di autocritica permanente con le Pasquinate13 popolari e i libelli velenosi, spesso emanazioni di personalità vicine al potere, come i capitoli del Berni, segretario dal 1524 al 1532 del datario Giberti14. L’Aretino ha imparato molto da questa letteratura. Il tono della satira, nel Rinascimento, era di una violenza estrema e divenne spesso feroce, come al tempo di Adriano VI15. Tali eccessi verbali erano dunque parte integrante delle usanze romane, ma incoraggiavano l’impressione che la Città Santa fosse il luogo di lotte locali poco edificanti. Roma, veduta o immaginata di lontano, era sempre piú oggetto di una denuncia globale, senza sfumature, amplificata da una pro-
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spettiva escatologica, e una parte della cristianità la incolpava adesso della crisi europea, dei turbamenti della Chiesa. Contavano sempre meno gli sforzi tentati regolarmente per lottare contro gli abusi dei costumi dottrinali o morali, contro il rilassarsi dei costumi del clero, ecc. Il Concilio Laterano del 1513, ad esempio, aveva preso in tal senso numerose iniziative16. A torto o a ragione, si aveva la sensazione che sarebbero rimaste tutte lettera morta o che, in ogni modo, sarebbero state insufficienti. Roma era il centro di un mondo straordinariamente cosmopolita. L’amministrazione ecclesiastica presupponeva una quantità enorme di personale; ora piú che mai i problemi internazionali, che dalla calata dei francesi nel 1494 passavano praticamente sempre per l’Italia, si negoziavano a Roma17. Inoltre, in periodi favorevoli come i pontificati di Giulio II, di Leone X, di Clemente VII, i movimenti culturali assumevano una tale importanza che tutti gli sguardi del mondo erano rivolti verso Roma. Questa stretta associazione e, se vogliamo, questa commistione tra politica, religione e cultura, erano sempre state caratteristiche della città. Per il mondo cristiano, e persino per l’impero pagano, in questo consisteva, era sempre consistito e consiste ancora il fascino e la singolarità di Roma. Questo simbolo di una pienezza senza confronti è ciò che permette a Dante di aspirare a essere «...sanza fine cive | di quella Roma onde Cristo è romano»18. Giustamente si è insistito sulla severità con la quale Egidio da Viterbo, ai tempi di Giulio II, si rivolgeva alla Curia. Questo vicario generale degli Agostiniani sembra talvolta raggiungere il tono aspro di quell’altro monaco agostiniano che aveva forse incontrato a Roma... Ma Egidio non vedeva alcuna contraddizione fra la critica dei costumi romani e l’esigenza di una sempre maggiore autorità della Santa Sede, tra il sogno di un ritorno alla semplicità e il dovere di magnificenza. Egli incoraggia Leone X a
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proseguire l’opera gigantesca del nuovo San Pietro, il che, fra l’altro, significa la sua approvazione per la vendita delle indulgenze allo scopo di raccogliere fondi, senza supporre la catastrofe che questo avrebbe provocato19. Un certo fasto liturgico e lo splendore monumentale erano una vocazione inevitabile della Roma pontificia. Dal solo esame delle guide, non tardiamo ad accorgerci che, già allora, il turismo pio associava inestricabilmente le mirabilia del cristianesimo e dell’antichità in un’unica celebrazione di Roma come superiore a tutte le città20. Questo amalgama costante, queste storie intrecciate, dotavano Roma di un’attrattiva quasi magnetica per gli intellettuali, i poeti e gli artisti, come per la folla di pellegrini e di fedeli. Per la coscienza comune, la capitale della cristianità beneficiava certamente di un’immunità divina, che era perfino proclamata con certezza – lo vedremo – nelle piú famose decorazioni di Roma21. La nozione di «italianità» ricorreva sovente nei periodi di difficoltà e di guerre; ma veniva dimenticata altrettanto rapidamente nelle rivalità che scoppiavano tra gli stati piccoli e grandi della penisola. Essa però non poteva essere dissociata dalla nozione di «romanità» che, allora, assumeva una colorazione intensamente affettiva. Come ha bene osservato F. Chabod, la lingua in piena fioritura «letteraria», la cultura in piena espansione, le arti in piena affermazione, vi rappresentavano una parte importante e anche insolita, che sopravviveva alle delusioni politiche senza potere, beninteso, supplirvi22. Sotto questo aspetto nessuna «nazione» è stata piú di Roma cosciente della propria capacità, della propria impotenza e delle proprie sciagure. Accade forse alla storia come alla geologia: le stratificazioni e le configurazioni profonde non sono facilmente visibili. Tuttavia, «lo studio dei terremoti o dei
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sismi è il mezzo piú efficiente di cui disponiamo per conoscere l’interno del nostro pianeta, nel quale essi si verificano»23. L’esame di talune catastrofi gravissime è forse, per analogia, un mezzo potente per svelare, nello sconquasso generale di una società, le forze che un tempo ne assicuravano la relativa coesione e per riconoscere attraverso le reazioni istintive del terrore, della desolazione e della vergogna certi impulsi percepibili di rado. L’opposizione delle categorie sociali e la fame di possesso proprie a qualsiasi collettività mostrano allora la loro dura realtà; sarebbe ingenuo credere, tuttavia, che questi soli dati rendano conto di tutto. Prima, durante, dopo una grande tragedia collettiva, si sprigionano, come ondate di calore soffocante in un incendio, folate irreprimibili di fantasia che, nelle scosse di crudeltà e di terrore24, appaiono in tutta la loro potenza e nella loro capacità di sviluppo. In tal senso il sacco di Roma è stato rivelatore. Gli avvenimenti del 1527, le circostanze e lo svolgersi del sacco, hanno formato oggetto di un numero immenso di pubblicazioni, di cui l’essenziale è stato raccolto nella vecchia e stimolante cronaca di Gregorovius (185972), completata dall’enorme racconto documentario di L. von Pastor (1866-1907) e dal repertorio di H. Schultz (1894). Da allora in poi non uscirono altro che aggiunte e particolari, per lo meno fino a talune opere recenti alle quali conviene accennare25. J. Hook (1972) ha voluto recare alla narrazione storica maggiore chiarezza e precisione; le fila dei molteplici intrighi diplomatici, militari, religiosi, vi sono svolte con pazienza26. Abbiamo tenuto conto di questa attenta restituzione degli andirivieni, degli incidenti, dei probabili dati statistici, del ruolo dei vari personaggi. Ma abbiamo dovuto risalire costantemente alle prime fonti d’informazione perché le ricerche di Hook non coincidevano con le nostre; il susseguirsi stesso degli eventi concorda solo inciden-
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talmente con le nostre preoccupazioni. La nostra indagine segue una linea diversa. La crediamo giustificata dal fatto che la concatenazione dei fattori è in gran parte oscura ed enigmatica. In questo susseguirsi poco comune di divergenze, di panico, di cedimenti, di sommosse e di disordini inauditi, l’irrazionale e il fortuito ci sembrano avere una parte troppo eminente per essere trascurati. È proprio questo che incuriosisce. Non è un bello spettacolo, ma è talvolta necessario scrutare i sotterfugi della violenza e il comportamento incerto delle vittime. Circostanze come quelle del 1527 pongono l’individuo in stretta dipendenza dalla «psicologia collettiva». Una congiuntura eccezionale ci mette di fronte a quest’insieme di riflessi, di pregiudizi, di blocchi mentali, di pii desideri che oggi noi riuniamo nel termine di «mentalità». Bisognava tentare di scoprire che cosa ci fosse alla base di una spaventosa tragedia, che conta molti mascalzoni e pochissimi eroi. Prima di procedere oltre, occorreva accostarsi a questa torbida fase del Rinascimento con l’aiuto delle nozioni e dei termini che furono quelli dell’epoca. Abbiamo tentato di ritrovarne il linguaggio. Non senza una soddisfazione crescente ci siamo resi conto che le nostre ricerche in aspetti specifici dell’avvenimento mettevano in luce altrettanti lati poco noti della storia dell’arte. Prima di tutto il ruolo e, per cosí dire, il peso specifico delle immagini nella propaganda bellica che precedette la calata del connestabile Carlo di Borbone e dei suoi lanzichenecchi; in secondo luogo, l’importanza di quegli oggetti preziosi, reliquiari, opere d’arte in genere, tanto apprezzati come bottino di guerra; infine il comportamento e la sorte, molto mutevoli, delle personalità degli artisti travolti dalla tormenta. A questo proposito ci sembra pertanto che la narrazione tradizionale vada integrata con una quantità di materiale che ne colmi le lacune. In un’opera piú recente e di agevole lettura sulla
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Roma del secolo xvi, è esposta l’attitudine della società cosmopolita e caotica, raggruppata intorno alla Curia, a sormontarne le molteplici contraddizioni o, almeno, a convivere con queste27. Abbiamo trovato in questo saggio disegnato con vivezza – ma non interpretato – il panorama urbano e sociale che avevamo dovuto ricostituire per situare l’analisi del fatale 1527. La tesi corrisponde a ciò che generalmente è ammesso. Quando si consideri il comportamento anarchico del popolo romano, le discordie e l’instabilità della Curia, il contrasto costante fra il prestigio e la realtà, ci si meraviglia meno del crollo e degli orrori del sacco28. Il disastro sembra rientrare nella continuità della storia, e pertanto non occorre esaminare piú a fondo questa vicenda. Essa creò per qualche tempo un vuoto incontestabile, ma non parve avere segnato una rottura profonda con il passato. Nei manuali, la data 1527 è diventata un comodo riferimento per scandire i periodi della storia, nulla piú29. Noi crediamo di dovere piuttosto condividere il parere espresso circa un secolo fa da un grande erudito di cose romane: «Questo evento funesto ha spaccato per cosí dire in due il corso della vita romana, spezzando tradizioni e costumi, mentre la lotta contro la Riforma trasformava profondamente gli spiriti»30. Per questo motivo Gnoli, forse esagerando tale aspetto particolare, riteneva che alle Pasquinate «letterarie» di prima succedesse un altro atteggiamento, un’altra consuetudine di tono piú aspro e piú pesante31. Piú in generale, si possono osservare in tutti i campi, diplomatico, religioso, politico, culturale, civile, artistico, una o piú conseguenze gravi degli avvenimenti del 1527 e degli anni seguenti. In un’umiliazione senza precedenti della Città, del papato, dell’«italianità», la sciagura ha fatto scoppiare in piena luce, in faccia agli italiani e al mondo, non solo le tensioni di questa società contraddittoria e, in un certo senso, artificiosa costituita dalla città pontificia, ma
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anche quella mancanza quasi assoluta di sentimento nazionale nella penisola, che sovente ha stimolato la curiosità degli studiosi di storia italiana. Sforzandoci di isolare l’uno dopo l’altro gli elementi di cristallizzazione abbiamo veduto abbozzarsi una linea di spaccatura troppo ampia e troppo marcata per non meritare di essere interpretata come un’articolazione forte, un periodo cruciale per Roma e per tutto quanto il mondo italiano. Questo libro è nato dall’esigenza di rispondere agli interrogativi posti da tale problema. Ci si è chiesti, insomma, se non fosse il caso di estendere alla Città stessa la frase sensazionale di Sebastiano del Piombo il quale, anni dopo, esitando a ritornare a lavorare per Clemente, scrive a Michelangelo: «Ancora non mi par essere quello Bastiano che io era inanti el Sacco»32. Ma come spiegare un simile sconvolgimento? Nell’ambito delle semplificazioni inerenti al metodo «sociologico» o globale, che è un modo per chiarire le cose, il fatto storico non viene tenuto sufficientemente in conto. L’atto o l’evento «fortuito», come il concetto di fatalità, non si impongono allo storico fino a quando non sono espressi e ampliati dalla coscienza collettiva. Ed è il caso del sacco di Roma. Lo slittamento, che nel giro di qualche anno ha gettato la capitale della cristianità nell’abisso, è dovuto a un accumularsi di circostanze, di cui i particolari aspetti erano imprevedibili; si possono tuttavia osservare chiaramente le conseguenze irreparabili delle minime colpe. Il cardinale Giulio de’ Medici, un prelato di ineccepibile dignità, era stato eletto papa a fatica il 19 novembre 1523. Per reazione al breve pontificato dell’olandese Adriano VI (gennaio 1522 - settembre 1523), la cui volontà di riforma e lo spirito di austerità si erano saldati con un’impopolarità generale, occorreva un diplomatico, un principe illuminato, e lo si era trovato con il nipote di Lorenzo il Magnifico; ma l’elezione avvenne
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a spese del cardinale Farnese, un romano, del quale è lecito pensare che avrebbe affrontato meglio del brillante Clemente gli incombenti pericoli. Sarà lui a essere chiamato, nel 1534, per riparare la catastrofe. Dieci anni prima, avrebbe probabilmente evitato i tranelli in cui era incappata l’astuzia fiorentina. Sotto Leone X erano avvenuti parecchi fatti nuovi, che esigevano molta abilità nel potere pontificio; l’invasione dei servizi, dei commerci, delle banche destinati a diventare feudi dei Medici, fenomeno che si amplierà sotto Clemente33; l’avvento in Francia di Francesco d’Angoulême, nei Paesi Bassi e in Spagna di Carlo d’Asburgo, principi giovanissimi, incredibilmente ambiziosi, che, in concorrenza con il non meno giovane e irrequieto Enrico VIII d’Inghilterra, visibilmente stavano per prendere iniziative temibili, la manifestazione brutalmente contestatrice, il 31 ottobre 1517, di un monaco agostiniano, Martin Lutero, che, a proposito della vendita d’indulgenze, denunziava apertamente la crisi dei costumi e gli abusi di Roma. Sotto Clemente la situazione peggiorò ovunque: a Roma, le fazioni si agitavano a tal punto che nel settembre 1526 i Colonna, in collisione con gli agenti imperiali, giungono perfino ad attaccare e devastare il Vaticano; i romani tradirono il loro pontefice34. Per una assurda disavventura, Francesco I si lascia vincere e catturare a Pavia all’inizio del 1525, cosí la via dell’Italia è aperta per Carlo V; ma questi, lontano, lento, negozia: il papa e l’imperatore si scambiano numerose lettere. Frattanto Francesco persuadeva Clemente a unirsi alla Lega di Cognac nel maggio 1526, che rinnova il tentativo della «Lega santa» antifrancese del 1512. Ciò provoca una rottura le cui conseguenze, mal calcolate da ambo le parti, saranno una forte armata messa insieme a casaccio, a nord della penisola, nel 1526 e la sua lenta calata attraverso l’Italia. Questa armata comprendeva –
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cosa sorprendente – mercenari luterani. Perché, in meno di dieci anni, il movimento antiromano aveva trasformato il clima della Germania e raggiunto un grado di violenza passionale che a molti umanisti e cristiani sembrava una rinascita. Roma era davvero quel paese dell’Anticristo che, con un’immagine piú vecchia della cristianità, veniva designato sotto il nome di Babilonia, la capitale del male? Nel primo terzo del secolo xvi nascevano movimenti religiosi e di rinnovamento della fede che non vanno trascurati35. Soltanto una visione ristretta dell’azione del «mondano» Leone X e del «politico» Clemente VII impedisce di cogliere il ruolo esatto dei due pontefici in quel che potremmo chiamare la «preRiforma cattolica», se si elimina da tale definizione qualsiasi concetto di una parentela iniziale con la rivolta luterana36. Taluni gruppi ferventi contribuivano con la loro critica alla Curia e al clero ad appesantire il clima di Roma, il che alla lunga fece sí che la gente prestasse orecchio alle profezie allarmistiche. Ma i moventi di questi gruppi erano evidentemente soltanto devozionali. I Nuovi Osservanti, ad esempio, che aspiravano a ripristinare la semplicità francescana, vestiti di sai con cappuccio e forniti di una lunga barba, avevano l’appoggio della duchessa di Camerino, nipote di Clemente VII. Costei aveva favorito gli incontri di Matteo da Bascio, un giovane prete di Montefalcone, con il papa, durante l’anno giubilare del 1525. Nel luglio 1528, la bolla Religionis zelus accorderà al nuovo gruppo l’autorizzazione di condurre vita monastica e un capitolo generale convaliderà queste iniziative nel 152937. Non meno tipico della nuova spiritualità è la trasformazione dell’Oratorio dell’amor divino in una congregazione di cui erano leader il vescovo di Chieti, Gian Pietro Carafa, e Gaetano da Thiene. Non si deforma l’orientamento del gruppo affermando che era innanzitutto imperniato sulla dignità e la sacralità del clero38. La
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loro devozione a san Gerolamo è interessante perché si imperniava soprattutto su Gerolamo l’asceta, il penitente indefesso, e anche sul Gerolamo grande interprete della Scrittura. L’accento è posto sulla vita interiore e sulla soavità dell’amore metafisico, in un culto tutto affettivo e fervente dell’Eucaristia (culto che sfocerà nell’istituzione dell’«adorazione delle quaranta ore»)39. Alcuni membri del gruppo erano parenti di Clemente e del suo datario Giberti. Gli incoraggiamenti dati a questi giovani preti, che, in un clima esaltato di speranza e di pietà, indifferenti ai torbidi dell’ora li giudicavano anzi salutari, erano tali che uno di loro scrisse nel gennaio 1527: «Il Cristo è adesso piú temuto e riverito che mai a Roma: gli orgogliosi si umiliano e i buoni lodano Dio»40. Parole che avrebbero sconvolto Erasmo e Lutero. Questo ottimismo religioso fu completamente distrutto quattro mesi piú tardi dall’esercito imperiale con i suoi lanzichenecchi sacrileghi41. Tutto questo fervore religioso non annulla evidentemente le testimonianze scabrose dell’Aretino o de La lozana andaluza, opera di Delicado, sulla «dolce vita» di Roma in quel periodo; ma la fin troppo nota opposizione fra la «corruzione romana» e la purezza dei riformatori non-italiani è una delle semplificazioni a cui sarebbe bene rinunciare. Taluni rigoristi potevano scandalizzarsi dei nuovi sviluppi della pittura e della scultura, dell’importanza che a Roma veniva loro data, della parte che vi si attribuiva ai modelli antichi, alle favole pagane. Ma la reazione degli artisti, che sempre piú numerosi scendevano dai paesi del Nord, era tutt’altra: Roma li affascinava; nelle opere commissionate dai principi della Chiesa trovavano un equilibrio tra il profano e il sacro che non poteva non apparire loro straordinariamente stimolante. Sotto questo aspetto le ultime opere di Raffaello erano molto significative. Nell’appartamento del cardinal Bibbiena,
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l’Urbinate aveva dato nel 1516 la piú archeologica delle versioni – ossia la piú fedele al modello antico – delle decorazioni a grottesche, senza il minimo spazio per il pensiero cristiano: la Stufetta, ciclo di Venere, e la Loggetta, ciclo di Apollo. Ma l’anno seguente, nella decorazione delle logge pontificie, il maestro cambia ottica e progetta una Bibbia conservando lo stesso sistema ornamentale. I motivi figurati delle tredici campate sono tutti tratti dall’Antico Testamento, in mezzo a una stupefacente varietà di forme decorative e in uno stile interamente ispirato dall’antico. Fu quello un grande avvenimento, di successo considerevole; questa nuova Bibbia «è servita di riferimento costante fino alla fine del secolo xix» e, come anche è stato detto, questo sforzo rispondeva «al rifiorire degli studi cristiani favoriti da Leone X alla fine del suo pontificato42. Non vi è qui alcun dubbio, si contava sulla «Bibbia di Raffaello», come sui poemi religiosi di Sannazaro43 per difendere la fede cristiana; vi si scorgeva uno dei mezzi di azione normali e necessari della Chiesa. Oggi siamo inclini a stupirci che, nell’atmosfera turbolenta e instabile dell’Italia dopo il 1494, la cultura potesse mantenere un tale ruolo e l’arte beneficiare di tante occasioni favorevoli. Nessuna analisi sociologica o d’altro tipo è stata fin qui in grado di rendere conto di tale situazione, tranne forse quella di Jacob Burckhardt, i cui concetti rimangono, a dire il vero, cosí generici che si tratta piuttosto di una descrizione intelligente che di un’analisi44. Considerando «lo stato come un’opera d’arte», Burckhardt ha voluto spiegare il carattere «formalizzato» delle istituzioni nel Rinascimento, che sopravvivevano per cosí dire grazie al modo in cui ognuno se le raffigurava: la loro immagine per la coscienza collettiva contava piú della loro funzione. Ne è prova l’evidente facilità con cui si verificavano rivoluzioni e deposizioni. Pompeo Colonna crede di poter rovesciare Cle-
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mente e farsi eleggere papa: la politica di Carlo V tende a dimostrare che l’Impero, – questa nozione vuota di cui taluni storici hanno potuto credere, tanto è fittizia, ch’essa non rappresentava piú una importante parte, – rispondeva meglio del papato ai disegni della provvidenza45. A dispetto di tutti i moti che la agitano, «l’Europa del secolo xvi si è semplificata con un ritorno al modello medievale dell’impero e del papato»46. Se la diplomazia straordinariamente attiva e contorta dei sovrani manifesta una specie di slancio ideologico, una colorazione particolare, talvolta fantasmagorica, durante gli anni che su per giú vanno dal 1520 al 1540-50, dall’elezione al trono imperiale di Carlo di Asburgo alla fine del suo regno come Carlo V, è in gran parte in ragione del potente riattivarsi della «finzione imperiale» di fronte alla realtà pontificia contestata, scossa, ma tenace. Un mondo politico in effervescenza dominato dalla concorrenza fra «impero e papato», due forme del potere che gli storici troppo preoccupati della modernità del secolo xiv hanno avuto tendenza a sottovalutare, non è forse per noi facile da afferrare. Siamo in presenza di concezioni complesse e la loro complessità non concorda sempre con le esigenze dell’azione. Lo scarto fra quel che esprimono queste «forme simboliche» associate all’autorità, e la realtà del potere, era tale che, per i partecipanti del gioco diplomatico e anche militare, erano possibili mortali illusioni: comportamenti che, in una distribuzione diversa delle parti potevano riuscire, si rivelano catastrofici. C’era rovina, morte, disonore, insuccesso, guazzabuglio e impotenza, tanto dalla parte dei vincitori che dei vinti. Tutti gli attori responsabili sapevano a qual punto la situazione, che si era aggrovigliata intorno a Roma, fosse pericolosa? Pochi esempi nella storia pongono meglio in evidenza il modo con cui i protagonisti della politica riescono a far precipitare i mali o gli eventi da loro piú temuti, e la loro
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capacità di travestire e di annullare gli effetti disastrosi della loro condotta, una volta fuori dalla difficoltà. Non sono tanto le atrocità e le infamie a colpirci quanto i pietosi rigiri o le false illusioni. Nessuno ha creduto di poter mettere Clemente VII fuori causa o di perdonargli il suo scacco: «noi ruinammo tutti vituperosamente d’una ruina poco men che prevista», scrive freddamente Paolo Giovio47. E dalla storia intera dell’epoca, riferita da uno dei piú ardenti difensori di Clemente, Guicciardini, sgorga un’inconsolabile amarezza48. Quanto a Carlo V, ci vollero tutte le sinuosità di una politica tessuta di silenzio, di astuzia e di forza, per raggiungere la sua meta meno di dieci anni dopo il dramma dell’entrata in Roma. Il crollo morale è indubbio. L’arte del tempo ce ne consegna il riflesso? Domanda inevitabile e, certo, delicata. Si è tentato qui di seguire nell’indagine due linee principali. Prima di tutto il concatenarsi del fortuito, che non può non incitare a una riflessione piú generale sulla storia. La straordinaria abbondanza dei documenti, delle memorie rivela il susseguirsi di avvenimenti che comportavano un cosí gran numero di accidenti e di colpe che, anche oggi quando l’angoscia delle notizie del 1527 non ci prende piú alla gola, è difficile sfuggire alla sensazione che un cumulo cosí imponente di disavventure sia qualcosa di diverso dalla fatalità. Una specie di determinismo latente sembra dominare questo susseguirsi di casi. Perciò abbiamo creduto doveroso insistere sulle ossessioni rivelatrici che, attraverso i sistemi astrologici o profetici, costituiscono fattori non trascurabili di blocchi mentali e di falsi movimenti. Si dànno casi in cui i modi dell’immaginario costituiscono momenti della storia. Lo stesso succedersi degli avvenimenti – incontri di persone, movimenti militari, ecc. – finisce per convergere su una stessa via disseminata di catastrofi, e lo storico prova qualche difficoltà a collocare nella loro giu-
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sta prospettiva le esitazioni e le incertezze, che erano proprio il segno della situazione. A sua insaputa, egli rimane prevenuto dalla versione «fatalista» di questa fase troppo spettacolare del Rinascimento. Parlando di un moto irresistibile, si eliminano le alternative e si perdono di vista i momenti di difficoltà, le occasioni perdute, i movimenti inversi che potevano sorgere. Pertanto abbiamo dato tutta l’attenzione al dedalo di contraddizioni e di ambiguità, dove, per fortuna, un grande storico, Guicciardini, ci serve magistralmente da guida. Abbiamo dunque dovuto studiare questa realtà un po’ misconosciuta dagli storici: un momento prolungato di confusione. Tuttavia è notevole che in aprile, nel momento in cui si moltiplicano annunzi e presagi, Clemente, confidando nella parola del viceré Lannoy, smobiliti le milizie pontificie, l’unica sua difesa efficace. Si può parlare di aberrazione e di calcolo sbagliato, di cattiva informazione49. Si può anche pensare alla reazione di fuga che precipita la vittima verso quello che intende evitare. Certo, noi non ne trarremo alcuna conclusione, per mancanza sia di competenza, sia d’informazione. Ci basta ricondurre l’indagine storica ai suoi punti di maggiore ambiguità. All’uopo non abbiamo trascurato nulla per raccogliere e raffrontare fra loro i documenti iconografici o letterari importanti e secondari: stampe, decorazioni particolari che evidenziano la situazione attraverso immagini e simboli. Vi furono scarse rappresentazioni dei fatti ma, viceversa, parecchi buoni esempi delle conseguenze dei fatti stessi. Non vorremmo essere fraintesi. Nell’intendimento nostro questo lavoro è destinato a servire la storia dell’arte, come lo fu il bel saggio del nostro rimpianto amico Millard Meiss50. Ma la storia dell’arte concepita in modo ch’essa non lascia intatta la storia pura e semplice. Vorremmo disturbare un tantino la sicurezza delle «sintesi». L’episodio
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scelto non sembra un caso molto favorevole, poiché il suo unico pregio pittorico è lo scatenarsi della forza bruta. Ma proprio l’evento che ha straziato e smembrato una città come Roma e un’istituzione come la Chiesa cattolica, rivela molto bene la stranezza profonda del sociale: è insufficiente attenersi all’analisi politica delle intenzioni; lo studio socioeconomico della congiuntura, dei bisogni e dei vari ambienti non può condurre ad altro che a vedere nel sacco un episodio secondario; ma non è cosí se seguiamo la strada tracciata dalle manifestazioni della fantasia popolare, dalle risonanze della cultura, dalle forme e dai simboli. L’indagine in questa direzione sembrava feconda per via dell’abbondanza e dell’atteggiamento della letteratura suscitata dall’avvenimento. A dire il vero, si ha l’impressione di assistere qui alla nascita del giornalismo con l’esplosione delle «notizie» (storie), delle pagine scandalistiche, e dei commenti piú o meno fantastici. Il «giudizio» era un breve rapporto sull’avvenimento, che subito veniva stampato e venduto in fogli sulle piazze. Intorno al 1527 quei giornali improvvisati avevano un successo sicuro. Il rapporto di un ambasciatore ne menziona la vendita sul Rialto nel 152851. Talune lettere dell’Aretino, stampate su fogli volanti per assicurarne la rapida diffusione, erano dei «giudizi», ossia articoli di quotidiani ante litteram. Il periodo del sacco vide fiorire un po’ dovunque queste «edizioni speciali», e fu allora che il mastro giornalista scoprí, di fatto, la sua vocazione: gli venivano richiesti in alto loco i propri «giudizi» e «pronostici» che erano semplicemente annunci buffoneschi, parodie dichiarate di pronosticationes astrologiche, con un commento facilmente comprensibile della situazione presente. Il tutto sotto il patronato di Pasquino, la cui licenziosità e violenza di tono, consacrate dall’antica tradizione romana, autorizzano l’asprezza del libellista52.
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Per l’Aretino, come per il signor Pasquino, non ci sono che pazzi come quelli che credono agli astrologi, o manigoldi come coloro la cui menzogna piú innocua è stata l’annunzio del diluvio53. Cosí l’Aretino pronosticava sul finire del 1526 per l’anno seguente, in base alla posizione del cielo e del sole: «l’aria sarà pronta a corrompersi per l’infezione dei piedi e del fiato degli Alamanni ubriachi di vino italiano». Alcuni anni piú tardi, nella Cortegiana, l’Aretino, ridendo di tutti quei ricordi, introduce il cantastorie, che propone i «grossi titoli» del momento: «Le belle storie, storie, storie: la guerra dei Turchi in Ungheria, i sermoni di frate Martino, il Concilio, storie, storie, gli avvenimenti d’Inghilterra, il corteo del papa e dell’imperatore, la circoncisione dei Voivodi54, il sacco di Roma, l’assedio di Firenze, l’incontro di Marsiglia e la sua conclusione, storie, storie»55. Nel bel mezzo di queste informazioni, non tutte ugualmente sensazionali, dobbiamo quindi collocare l’episodio del 1527. Il fatto che coincida con le prime manifestazioni di quel che si può già chiamare la stampa, è una ragione in piú per studiare le reazioni che vengono espresse attraverso varie forme di letteratura a partire dal sacco56. Il sacco di Roma non fu il primo esempio di atrocità commesse in una città illustre: la storia ne conosce un buon numero e si citava costantemente la presa di Gerusalemme per opera dei romani e l’ingresso dei goti di Alarico nella stessa Roma57. Alcuni episodi delle guerre recenti non erano stati dimenticati: il saccheggio di Vicenza da parte dei mercenari tedeschi al momento della Lega di Cambrai (1509), il sacco di Brescia da parte dei francotedeschi (1512), quello di Prato da parte degli spagnoli (1513)58. Ma l’entrata dell’esercito imperiale nella capitale della cristianità alla fine di una calata interminabile lungo la penisola, in un turbamento profondo degli spiriti angosciati da annunzi terribili, false notizie e presentimenti
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di ogni specie, fu ben altra cosa che un episodio militare particolarmente spiacevole. Pertanto abbiamo creduto utile esplorare l’antefatto di un attentato sacrilego, dove non sono mancate né le reazioni popolari, né quelle degli intellettuali, sondare insomma nella misura del possibile la profondità di un trauma su cui i documenti raccolti gettano nuova luce, che illumina tanto i privati quanto i gruppi. Uno dei nostri rari predecessori, il professore Friedrich Hartt, ne ha riconosciuto la gravità commentando la tensione che queste situazioni drammatiche fanno nascere fra gli organi del potere e l’individuo59. Le nostre conclusioni sono abbastanza diverse, ma il problema è pressappoco il medesimo. Questo studio non ha probabilmente raggiunto, nonostante i nostri sforzi, il grado di precisione e di rigore che desideravamo. Ogni capitolo cerca di aprire una prospettiva utile. Il nostro proposito è stato di illuminare «al tempo stesso» la parte dell’accidentale e la forza dei simboli; ossia da un lato gli slittamenti, l’instabilità, lo stato d’incertezza, di rischio, in cui l’azione umana è tanto piú vulnerabile via via che si fa piú audace, e dall’altro l’effetto reciproco tra le raffigurazioni di tale azione prima, durante e dopo i momenti di crisi. Speriamo di avere dimostrato che questi due fattori sono connessi, poiché le raffigurazioni s’inseriscono di continuo nell’azione, l’evento si proietta di continuo nell’immaginario. La narrazione storica può e deve essere migliorata continuamente; il nostro intento non è stato di accumulare particolari fini a se stessi, e neppure di disegnarne meglio gli episodi, ma piuttosto di segnalare le stranezze e le manchevolezze del «discorso storico». L’incertezza perpetua del vissuto, la pressione costante dei simboli sono tratti fondamentali dell’esperienza storica che si coglie in pieno soltanto nei momenti di effervescenza e di disordine.
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Il nostro tentativo è nato perciò da una sfida o, se vogliamo, dalla tentazione d’invadere il territorio dello storico con armi inconsuete, forse insufficienti, ma simili a razzi illuminanti. Abbiamo quasi unicamente affrontato quello di cui in genere non si tiene conto. Perché la storia dell’arte non può riferirsi unicamente alla ricostituzione dei soli «avvenimenti» artistici; questi costituiscono e rivelano ad un tempo, mediante la loro concatenazione, l’involucro fatto di narrazioni e di reazioni emotive in cui è contenuta tutta l’esperienza umana, la vita intera. Abbiamo tentato di esporlo altrove60, solo l’analisi delle opere e delle forme permette una esplorazione completa di quel che chiamiamo l’immaginario individuale e collettivo, il regno dei simboli. Questo lavoro, pertanto, mira a mettere in relazione fatti, fenomeni e opere d’arte che di solito non vengono collegati. Sarà forse il suo unico merito. Tale orientamento ha portato a giustapporre parti narrative – molto sommarie – e la presentazione di disegni, stampe, dipinti la cui analisi non poteva essere completa. Ne risulta nel ritmo stesso dei capitoli qualcosa di discorsivo e, sotto molti aspetti, troppo rapido. C’è rischio di non soddisfare nessuno, ma, almeno, avremo tentato di far luce sulle passioni e i loro sviluppi specifici, che sono la trama del vissuto. Le questioni qui trattate furono oggetto di un corso al Collège de France nel 1971-72. I principali risultati furono presentati in una conferenza a Roma il 13 aprile 1973 durante un congresso dell’Associazione Guillaume Budé. Quando mi fecero l’onore di invitarmi a tenere le Andrew Mellon Lectures al Museo Nazionale di Washington nella primavera del 1977, vidi in questo l’occasione di uno studio piú ambizioso, che fu abbondantemente sviluppato per la pubblicazione. Altre ricerche erano
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state condotte indipendentemente da Armand Brulhart (Ginevra). Consistevano di un «notiziario», un elenco quanto piú possibile completo sui documenti, le fonti e gli studi concernenti il sacco di Roma, che l’autore ha gentilmente messo a mia disposizione. Dapprima avevo sperato di poter pubblicare in appendice quella bibliografia critica. Sono debitore a Brulhart di un numero apprezzabile di riferimenti. Dopo la redazione finale di questo testo sono apparsi due studi storici sull’avvenimento: uno, M. L. Lenzi, Il Sacco di Roma del 1527, Roma 1978, raccolta di documenti commentati, l’altro: E. A. Chamberlain, The Sack of Rome, Londra 1979, che riprende la narrazione dei fatti militari e politici. Vorrei esprimere la mia gratitudine a tutti coloro che mi hanno indicato opere o ricerche in corso, che cortesemente hanno risposto ai miei quesiti, ricercato o verificato documenti, procurato libri o articoli, fornito fotografie. I miei ringraziamenti vanno particolarmente: a Roma, a Redig de Campos, a W. Lotz, a Olivier Michel; a Firenze, a Elio Gabbuggiani, ex sindaco di Firenze, che ha concesso di fotografare la Sala di Clemente VII a Palazzo Vecchio e al prof. P. Galluzzi; a Parigi, a Mme Bauermeister (Bibliothèque Nationale, sezione periodici) e a M. Destombes; a Ginevra, a Alain Dufour e p. Fraenkel. La bibliografia e l’indice sono stati compilati dalla mia assistente A.-M. Lecoq, che, inoltre, ha curato la stesura definitiva del manoscritto e controllato le correzioni, cosa di cui le sono gratissimo.
Avvertenza dell’editore. Le note poste tra parentesi quadre sono di Beth Archer, traduttrice dell’edizione americana del libro. Lettere sull’arte di Pietro Aretino, a cura di F. Pertile ed E. Camesasca, 4 voll., Milano 1957 (vol. II, n. cclxiv, p. 106). 1
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 [I Sonetti lussuriosi, una raccolta di poesie erotiche dell’Aretino, erano stati illustrati da Giulio Romano in maniera sconveniente. Cfr. cap. v, p. 147]. 3 g. vasari, Vita di Perino del Vaga, in Le vite de’ piú eccellenti pittori, scultori ed architettori, a cura di G. Milanesi, Firenze 1878-85, vol. V, p. 611. 4 Sviluppando le osservazioni convergenti di g. briganti, Il Manierismo italiano, Roma 1945; e di s. j. freedberg, Painting in Italy. 15001600, Harmondsworth 1971, proporremo piú avanti la nozione di «stile clementino». 5 j. burckhardt, Die Kultur der Renaissance, 1860 [trad. it. La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1968]; m. creighton, History of the Papacy, vol. VI, London, 1884, conclude il suo lungo studio con la rievocazione del sacco del 1527, che segna per lui la fine di un’epoca e l’inizio della Controriforma. 6 briganti, Il Manierismo italiano cit. 7 freedberg, Painting in Italy cit., p. 165. 8 L’abate Lanzi, nella sua Storia pittorica dell’Italia, Bassano 1789, pp. 243-44, ha soprattutto osservato la dispersione della scuola di Raffaello: «Felici le arti se Clemente com’ebbe il genio, cosí avesse avuto i bei giorni di Leone. Ma le guerre, le pestilenze, e ogni genere di avversità afflisse in quel tempo il Dominio ecclesiastico; e l’anno piú funesto fu il 1527, in cui Roma fu messa a sacco. La scuola di Raffaello si dissipò, e si disperse, gli eredi delle sue massime o morirono, o si stabilirono altrove; e sotto il pontificato di Paolo III, il solo Perino del Vaga sosteneva il credito della scuola». 9 b. cellini, La vita da lui medesimo scritta (c. 1559-62), a cura di G. Davico Bonino, Torino 1973, ad esempio libro I, cap. 30; cfr. cap. v. 10 La critica della Curia e le polemiche antiromane sono caratteristiche della fine del medioevo e del Rinascimento: il movimento ussita continuò a esprimerle in Europa centrale, il movimento piagnone le cristallizzò in Italia. Sulla libertà dei costumi e la corruzione nella Roma del Rinascimento cfr. l. von pastor, Geschichte der Päpste seit dem Ausgang des Mittelalters, Freiburg im Breisgau 1886-1907 [trad. it. Storia dei papi dalla fine del medioevo, Trento-Roma 1944-64, vol. III, libro I, pp. 305 sgg.]. 11 a. renaudet, Erasme et l’Italie, Genève 1954. Cfr. cap. iv. Sulle osservazioni satiriche di Erasmo circa il clima guerriero della capitale, che lo inorridí, cfr. r. p. adams, The Better Part of Valor: More, Erasmus, Coht and Vives on Humanism, War and Peace. 1496-1535, Seattle 1962, pp. 37 sg.: «Maledette siano queste guerre che m’impediscono di godere di una contrada d’Italia che mi piace ogni giorno di piú», lettera a Aldo, 1508. Giulio II era entrato a Roma la domenica degli ulivi del 1507 con 2
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 un «trionfo» militare senza precedenti. Ulrich von Hutten scrisse in questa occasione il suo feroce In tempore Julii, cfr. Opera Hutteni, München 1859, vol. I, p. 267, citato da h. hilman, Savonarola, Erasmus and other Essays, London 1870, pp. 98 sgg., al quale farà eco nel 1513 il Julius exclusus, che è piuttosto l’opera di un cardinale erasmiano che di Erasmo stesso, secondo renaudet, Erasme cit., p. 112. 12 Lutero a Roma, cfr. o. walz, Zur Kritik der Lutherlegende: Luthers Romreise, in «Zeitschrift für Kirchengeschichte», 2 (1877-78), pp. 611 sgg.; h. boehmer, Luthers Romfahrt, Berlin 1914. Abbiamo trovato questa utile informazione in g. k. brown, Italy and the Reformation to 1550, Oxford 1933. 13 [Le Pasquinate erano scritti satirici, chiamati cosí perché venivano tradizionalmente attaccati alla statua di un gladiatore soprannominato per scherzo dagli abitanti del luogo Pasquino, il 25 aprile. L’Aretino e altri celebri scrittori del Cinquecento parteciparono alle Pasquinate, che divennero la satira politica e curiale di Roma]. 14 e. chiorboli, Francesco Berni. Poesie e prose, Firenze 1934. 15 Cfr. cap. iv. 16 a. fliche e v. martin (a cura di), Histoire de l’Eglise, vol. XV: r. aubecas e r. ricard, L’Eglise de la Renaissance (1449-1517), s.l. 1951, p. 187 [trad. it. a. fliche e v. martin (a cura di), Storia della Chiesa dalle origini ai giorni nostri, vol. XV: r. aubenas e r. richard, La Chiesa e il Rinascimento (1449-1517) Torino 1972]: misure per rafforzare gli studi teologici (1513), frenare il lusso dei cardinali (Bolla supernae dispositionis arbitrio, 1514), impedire alla predicazione di dare troppo spazio ai pronostici e alle profezie apocalittiche, ecc... 17 Su Roma e la politica «internazionale», cfr. j. fraikin, Nonciatures de France. Nonciatures de Clément VII, 2 voll., Paris 1906, Introduzione, pp. xxxv sgg.: La politique de Clément VII et les nonces. 18 Purgatorio XXXII 101-2. Cfr. p. arcari, La Roma di Dante, in Studi su Dante, vol. VII, Roma 1944, pp. 169 sgg. Sulla forza di attrazione di Roma, m. r. scherer, Marvels of Ancient Rome, New York 1955, rimane una buona introduzione. 19 e. massa, Egidio da Viterbo, Machiavelli, Lutero e il pessimismo cristiano, in Umanesimo e machiavellismo, Padova 1949, pp. 75 sgg.; j. w. o’malley, Giles of Viterbo on Church and Reform. A Study in Renaissance Thought, Leiden 1968, cap. v. Il breve di Leone X, che autorizzava le questue nella cristianità, cfr. Breve Leonis X Papae quo indulgentiam plenariam concedit elemosynas praebentibus, è stato pubblicato in «Analecta Augustiniana», 6 (1921-22), pp. 26-28. 20 Sulle guide e la nozione di mirabilia, cfr. o. pollack e l. schudt, Le guide di Roma, Roma 1930, ristampato 1971; f. morgan-nichols, The Marvels of Rome, London 1889; a. graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del medioevo, Torino 1915, rimane l’opera fonda-
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 mentale. Sul posto particolare di Roma nel «mito» del Rinascimento, ci permettiamo di rimandare alle nostre osservazioni in Le mythe de la Renaissance, Genève 1969, pp. 216 sgg. 21 Cfr. sulla Sala di Costantino il cap. ii. 22 f. chabod, Il Rinascimento, in Problemi storici e orientamenti storiografici, Como 1942; id., Questioni di storia moderna, Milano 1948; cfr. d. cantimori, Chabod storico della vita religiosa italiana del Cinquecento, in «Rivista Storica Italiana», 72 (1960), pp. 687-711, ristampato in Storici e storia, Torino 1971, pp. 315 sgg. 23 j. coulomb, L’Étude de la terre par les ondes séismiques, in La Terre, Paris 1959, p. 101. 24 Questo aspetto è stato ampiamente trattato, in particolare nell’opera di von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, libro III, parte II, p. 253. D. Cantimori nell’introduzione alla trad. it. di l. ranke, Die Päpste [Firenze 1959, ristampata in Storici e storia cit., pp. 172 sgg.] ha ben dimostrato come l’opera di Pastor sia stata la risposta dell’erudizione cattolica alla storia protestante di Ranke. Le conclusioni degli storici sulla esatta natura delle estorsioni e dei sacrilegi sono state spesso distorte da preoccupazioni confessionali Ranke si è fatto un dovere di minimizzare sistematicamente gli eccessi delle truppe tedesche. A questo proposito, Pastor (Storia dei papi cit.), ha scritto: «Ranke vede in questi eccessi dei lanzichenecchi semplici scherzi in cui si rasserenava il loro spirito evangelico». 25 Non abbiamo potuto consultare s. maurano, Il Sacco di Roma, Milano 1967. 26 j. hook, The Sack of Rome, 1527, London 1972. Al quale si aggiungerà un eccellente articolo dello stesso autore, The Destruction of the New Italia. Venice and Papacy in Collision, in «Italian Studies», 28 (1973), pp. 10 sgg. 27 p. partner, Renaissance Rome. 1500-1559. A Portrait of a Society, Berkeley 1976, p. 33: «non sembra esserci nessuna buona ragione per operare una netta rottura nella storia del sedicesimo secolo, a Roma, a causa del sacco del 1527». Cfr. la nostra recensione nel «Journal of the Society of Architectural Historians», 37 (1978). Il punto di vista della «storia sociale», che è quello della continuità materiale e demografica, appare qui limitato; la popolazione di Roma ha subito uno sconvolgimento piú profondo di quanto non lo indichi l’autore, secondo j. delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, Paris 1959. Certamente le istituzioni ecclesiastiche si sono ricostituite, ma il pontificato di Paolo III ebbe uno «stile» completamente diverso da quello di Clemente VII, come abbiamo cercato di esporre nel capitolo sui Farnese nel volume collettivo sul Palazzo Farnese, Roma 1981. 28 Sull’incredibile instabilità del governo di Roma, le testimonianze sono innumerevoli. La sua debolezza interna stupiva e preoccupava
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 particolarmente i Veneziani. burckhardt, La civiltà del Rinascimento cit., ha citato Girolamo Negro di Venezia, che annunciava catastrofi: «L’esistenza di questo stato è apparsa a un filo. Dio voglia che non siamo ben presto obbligati a fuggire ad Avignone ...» (12 marzo 1523). 29 La tendenza a cancellare la rottura del 1527 fondendola in una prospettiva continua di sviluppo è abbastanza generale, cfr. p. pecchiai, Roma nel Cinquecento, Bologna 1949; j. delumeau, Rome au XVIe siècle, Paris 1975, p. 227: «È vero ch’essa conobbe gli orrori del sacco, ma il progresso della città non ne fu che momentaneamente fermato». p. portoghesi, Roma del Rinascimento, Roma s.d., considera – non senza ragione, ma in modo un po’ troppo rapido – la cesura del 1527 come parte della storia architettonica e urbanistica della città. 30 v. cian, La coscienza politica nazionale nel Rinascimento, in Scritti minori, Torino 1934, vol. II, pp. 143 sgg. Cfr. anche cap. iv. 31 d. gnoli, Le origini di Maestro Pasquino, in «Nuova Antologia», 25 (1890), n. 7, pp. 51 sgg.; f. e r. silenzi, Pasquino. Quattro secoli di satira romana, Firenze 1968. 32 g. milanesi, Les Correspondants de Michel-Ange, vol. I Sebastiano del Piombo, Paris 1890, lettera del 24 febbraio 1531. Cfr. cap. v. 33 Cfr. von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte I, p. 17, sulla gioia dei mercanti fiorentini di Roma alla notizia dell’elezione di Leone X. Sul gruppo di artisti fiorentini e il ruolo degli scrittori toscani sotto Clemente VII, cfr. anche cap. v. Al che si aggiungerà l’arrivo dei soldati di Giovanni dalle Bande Nere, inviati in rinforzo a Clemente contro i Colonna. Sul loro comportamento, cfr. cellini, La vita cit., XXXIV: «Era di tutto il mondo in arme. Avendo papa Clemente mandato a chiedere al signor Giovanni de’ Medici certe bande di soldati, i quali vennono, questi facevano tante gran cose in Roma, che gli era male stare alle botteghe pubbliche: fu causa che io mi ritirai in una buona casotta drieto a Banchi...» 34 Sullo stato d’animo dei romani prima del sacco, cfr. f. vettori, in Il sacco di Roma del 1527, a cura di G. Milanesi, Firenze 1867, p. 435: «E li romani erano tanto insolenti e bestiali che persuadevano chi per un mezzo e chi per un altro salvarsi e che l’imperatore avessi a pigliare Roma e farvi la sua residenzia e dovere avere quelle medesime comodità, onori e utili che avevano dal dominio de’ preti». 35 Il resoconto migliore della questione ci pare si trovi nel volume II della The New Cambridge Modern History: The Reformation. 1520-59, a cura di G. R. Elton, Cambridge 1958, ristampato nel 1975, cap. viii: d. cantimori, Italy and the Papacy; cap. ix: h. o. evennett, The New Orders. 36 È difficile sapere se vi fu un’accoglienza favorevole alle idee propriamente luterane a Roma prima del 1527. brown, Italy and the Reformation cit., p. 205, segnala il caso del domenicano Anghelart, che
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 abbandonò gli ordini nel 1525, e cita la lettera di un ambasciatore di Venezia nel 1530: «Vi sono molti eretici a Roma e voi non fate nulla contro di loro» (sanuto, Diarii, a cura di F. Stefani, G. Berchet e N. Barozzi, Venezia 1897, vol. LIV, col. 284). Sui libri eretici in Italia, cfr. d. cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Firenze 1939. 37 Di fatto, l’appoggio pontificio si ritirava non appena questi predicatori erranti provocavano difficoltà. E Clemente VII ebbe l’occasione di bandirli da Roma nel 1534. Ma sotto Paolo III i Cappuccini furono protetti dalla stessa Vittoria Colonna. Essi ebbero un immenso prestigio con la predicazione folgorante di Bernardino Ochino dopo il 1536 e una scandalosa notorietà con la fuga a Ginevra e l’apostasia clamorosa di costui nell’agosto 1542. Cfr. evennett, The New Orders cit., pp. 280 sgg. 38 È merito di von pastor, Storia dei papi cit. (vol. IV, parte II, libro III, p. 551), aver indicato la comparsa di questa corrente riformatrice; alla chiusura del concilio Laterano nel marzo 1517 la congregazione era stata fondata sotto la denominazione esatta di «compagnia ovvero oratorio del divino amore». Questi rigoristi presero il nome di Chietini, essendo Carafa vescovo di Chieti, poi di Teatini. 39 Gaetano sarebbe all’origine della pratica dell’adorazione perpetua e la preghiera delle quaranta ore (quelle che il Cristo passò nel sepolcro). Sulla devozione all’Eucaristia, cfr. Acta Sanctorum Augusti, 2, Antwerpen, agosto 1735, p. 267. Cfr. f. hartt, Power and the Individual in Mannerist Art, in «Studies in Western Art», New York 1963, vol. III, pp. 227 sgg. 40 Copia de una lettera da Roma, di S. Zener. 1526, in sanuto, Diarii cit., XLIII, coll. 609-12. 41 Sulle disgrazie di Gaetano da Thiene si soffermano tutti i cronisti ecclesiastici. Cfr. Acta Sanctorum Augusti, 2, alla data del 7 agosto; o. raynal, Annales ecclesiastici ab anno MCXCVIII, vol. XX, Roma 1663. Carafa fu maltrattato, fuggí a Venezia, dove il movimento trovò asilo prima di impiantarsi a Napoli, donde ritornò a Roma. Cfr. p. paschini, S. Gaetano, G. P. Carafa, e le origini dei Teatini, Roma 1926. Piú tardi, diventato papa Paolo IV, Carafa non dimenticò mai il sacco di Roma (cfr. Conclusione). 42 n. dacos, Les Loges de Raphaël, in Classical Influences, Cambridge 1976, cap. xxv; Le Logge di Raffaello. Maestro e bottega di fronte all’antico, Roma 1977. 43 Sugli attacchi di Erasmo al riguardo, cfr. cap. iv. 44 burckhardt, La civiltà del Rinascimento cit., parte I. 45 Il manuale del nostro collega j. delumeau, La civilisation de la Renaissance, Paris 1967, cosí prezioso sugli aspetti economici, sociali e religiosi dell’epoca, non sembra tenere sufficientemente in considerazione le «categorie» che per la loro importanza hanno trattenuto la
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 nostra attenzione. Non ci accontentiamo di questo apprezzamento: «Certamente, il mito imperiale ebbe vita tenace e continuò a ossessionare le menti» (p. 41). Lo studio di f. chabod, Del «Principe» di Niccolò Machiavelli, 1925, ristampato in Scritti su Machiavelli, Torino 1964, ha vigorosamente messo l’accento sul carattere personale del potere nel Rinascimento. Oltre al classico f. kampers, Vom Verdegang der abendländischen Kaisermystik, Leipzig 1924, cfr. f. yates, Charles-Quint et l’idée d’Empire, in aa.vv., Fêtes et cérémonies au temps de Charles-Quint, a cura di J. Jacquot, Paris 1960, pp. 57 sgg.; l. diez del corral, La monarquia hispanica en el pensamiento politico europeo, de Maquiavelo a Humboldt, Madrid 1975. 46 yates, Charles-Quint cit., p. 57. 47 Historiae sui temporis, citato da f. chabod, in Paolo Giovio, 1954, ristampato in Scritti sul Rinascimento, Torino 1967, p. 257, nota 3. 48 f. guicciardini, Storia d’Italia, Venezia 1580, ristampato da C. Panigada, Bari 1929, Vol. V. 49 Fra le Lettere scritte al signor Pietro Aretino, Venezia 1551, si trovano due lettere di Sebastiano (Luciani) del Piombo, dove questi riferisce che Clemente avrebbe dichiarato il 15 maggio 1527: «Se Pietro Aretino ci fusse stato appresso, noi forse non saremmo qui pressoché prigioni, però che ci avrebbe detto liberamente ciò che si diceva in Roma de l’accordo cesareo...» (citato da a. luzio, Pietro Aretino nei primi suoi anni a Venezia e la Corte dei Gonzaga, Torino 1888, p. 16 nota 1). 50 m. meiss, Painting in Florence and Siena after the Black Death. The Arts, Religion and Society in the Mid-Fourteenth Century, Princeton 1951 [trad. it. Pittura a Firenze e Siena dopo la Morte Nera, Torino 1982]. 51 «Un povero homo che va vendendo li giuditij per Rialto...», pronto, sembra, a farsi tagliare la testa se le prime lettere non annunziano che i francesi di Lautrec hanno battuto gli spagnoli. Rapporto di Jacopo Malatesta, ambasciatore di Mantova, citato da luzio, Pietro Aretino cit., p. 8. 52 Nell’abbondante letteratura su quest’usanza romana, si può citare silenzi, Pasquino cit. Cfr. anche cap. iv, nota 82. 53 «Li sopradetti manigoldi che la minore e di meno importanza e menzogna che habino detto è stato il diluvio...» (allusione al pronostico del 1524, di cui si parlerà oltre, cap. ii). Citato da luzio, Pietro Aretino cit., pp. 8 sgg. 54 [Alti ufficiali in Polonia e nei Balcani]. 55 La Cortegiana, atto I, scena iv, citata da luzio, Pietro Aretino cit., pp. 7 sg. Si ricorderà che l’Aretino aveva dedicato il 7 luglio 1527 una canzone al marchese di Mantova sulla sciagura di Roma (ibid., pp. 64 sgg.). 56 L’importanza di questo aspetto giornalistico rende il presente studio molto piú complesso di quello che ha potuto essere condotto in
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 modo esemplare da A. Pertusi sulla presa di Costantinopoli da parte dei turchi nel maggio 1453, La caduta di Costantinopoli, vol. I: Le testimonianze dei contemporanei e vol. II: L’eco nel mondo, Milano 1976. Ci si può d’altronde stupire che l’accostamento con questa catastrofe non sia mai stato fatto esplicitamente, benché gli spagnoli e i tedeschi dell’annata imperiale siano stati spesso trattati da turchi, ossia da nemici della Chiesa cristiana. La caduta della capitale della Chiesa d’Oriente era stata annunziata, come lo era stata quella di Roma; aveva riempito di spavento una cristianità incapace di riprendersi; suscitò «lamenti» greci, italiani, tedeschi, francesi, e «mottetti» (come quello di Guillaume Dufay; cfr. pertusi, La caduta cit., II, pp. 316 sgg., molto piú commoventi della famosa Déclaration en vers de la Sainte Eglise al Banchetto del Fagiano dato dal duca di Borgogna il 17 febbraio 1454). Inoltre, tutti i resoconti, contemporanei o successivi, insistono sugli stessi attentati disonorevoli per la cristianità: stupro di religiose, di donne e di ragazzi di nobile origine; Enea Silvio: «Aiunt […] Turchorum ducem [...] apud summam aram Sanctae Sophiae propalam videntibus omnibus nobilissimam virginem ac fratrem eius adolescentem regalis sanguinis constuprasse ac deinde necari jussisse» (pertusi, La caduta cit., p. 451 nota 21); profanazione e dispersione di reliquie, cfr. f. babinger, Reliquienschacher am Osmanenhof im xv. Jahrhundert, in «Sitzungsb. der bayer. Akademie der Wissenschaften, Philos.-Flist. Kl.», 2, München 1956, pp. 1-47. 57 Una lettera anonima di un segretario di ambasciata veneziano, datata da Civitavecchia il 20 maggio 1527, è stata pubblicata (Venezia 1527?) con il titolo Copia de una lettera del successo et gran crudeltade fatta dreto di Roma che non fu in Hierusalem o in Troia cosí grande (British Museum). Cfr. anche j. godard, Petit Traicté, Paris 1528. 58 Questa azione fu deplorata in un poemetto di Stefano Guizzalotti: «Non tanta crudeltà Turchi infedeli | Usaron mai cotanto alli Christiani | Quanto ch’a Prato gli Spagnoli crudeli». Cfr. «Archivio Storico Italiano», 1 (1842), p. 263. Durante questo saccheggio, uno dei capitelli del pergamo esterno di Prato (1438) fu portato via dagli spagnoli, secondo l’affermazione esplicita di Vasari: «l’altro dagli spagnuoli che quella terra misero a sacco, fu portato via» (vasari, Le vite cit., II, p. 314). 59 Cfr. f. gregorovius, Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter vom XV. bis zum XVII. Jahrhundert, 8 voll., Stuttgart 1859-724 [trad. it. Storia della città di Roma nel Medioevo, 3 voll., Torino 1973]; von pastor, Storia dei Papi cit., vol. IV, parte II; e sul medesimo filone, hartt, Power and the Individual cit. Comunque, presenteremo nel cap. iv un’interpretazione un po’ diversa del celebre discorso del vescovo Stafileo al tribunale della Rota nel marzo 1528. 60 Introduzione a Fables, Formes, Figures, 2 voll., Paris 1978.
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Capitolo primo «Misera caput mundi»
Triste estaba el Padre santo Lleno de angustia y de pena En sant’Angel, su castillo De pechos sobre una almena, La cabeza sin tiara, De sudor y polvo Ilena Viendo a la reina del mundo En poder de gente ajena*.
Questo è l’inizio di un romance spagnolo, che si cantava per le strade di Valladolid e di Valenza dopo la presa di Roma1. Più irrispettose ancora erano le strofe in cui ci si burlava della navicula di San Pietro che fa acqua. Durante i mesi estivi dell’«anno terribile» e ancora negli anni seguenti, la cristianità ha echeggiato di ritornelli del genere2. Non tutti avevano evidentemente l’insolenza di tono gradita ai seguaci di Carlo V. In Italia si conosce, in una buona mezza dozzina di esemplari, un tipo di lamento detto lamento di Roma, tutto grida di angoscia, imprecazioni contro la sorte, appelli a Romolo e alla gloria del mondo antico: Mi chiamo Roma capomondi Misera, che del tutto fui signora3. Misera Italia, a che condotta sei Suggetta al nome che più fiate hai vinto;
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La gloria, el pregio e quel vigore è estinto Che già dato ti fu da’ sommi Dei4.
Un breve poema anonimo in latino evoca, in un seguito di rapide repliche trasposte dal Vangelo, la «passione» di Clemente, ricalcata su quella del Signore, pare, senza intenzione ironica5. Si conosce di Costanzo Festa, membro della cappella papale fin dal 1517, un mottetto che, di fatto, e la messa in musica del Salmo 79 sulla rovina di Gerusalemme, Deus, venerunt gentes in hereditatem tuam: «0 Dio, le nazioni sono venute nella tua eredità, hanno contaminato il tuo santo tempio, hanno ridotta Gerusalemme in cumuli di rovine». La distruzione, i cadaveri, il sangue, erano evocati nel poema biblico con una forza che poteva applicarsi direttamente agli orrori del 1527. La ripresa dell’antifona Adjuva nos, deus salutaris noster, vi aggiungeva l’accento dell’implorazione6. Nelle descrizioni del sacco da parte dei testimoni, gli stessi termini biblici sono stati ripresi inconsciamente, sottolineando la temerarietà senza precedenti di un simile sacrilegio. Più inatteso, ma rivelatore proprio per il suo stile, un madrigale pubblicato in una raccolta del 1530, Madrigali di diversi musici, svolge, su una musica celebre di Philippe Verdelot, una specie di idillio pastorale convenzionale: Trist’Amarilli mia: donq’è pur vero Che di Titiro tuo sì stranamente Vada la gregge errante e lui dolente Lassi ’l bel Tevere e Vaticano altiero7.
Bisogna intendere: la Chiesa abbandonata si lamenta, il papa ha lasciato Roma. Siamo dunque nell’inverno 1527-28, quando Clemente VII, essendo «evaso» da Castel Sant’Angelo, risiedeva a Orvieto in attesa del-
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l’evacuazione definitiva della città, dove non rientrò che in ottobre. Su richiesta dell’arcivescovo Cornaro, l’Aretino scrisse una canzone, Roma coda mundi8 per gratia de li Spagnoli et dei Tedeschi, che emana indignazione o almeno ne ha tutte le apparenze: Il dí sexto di Maggio, ohimè l’orrendo Giorno infelice, paventoso e crudo Che fa scrivendo sbigotir gl’inchiostri. In mezzo al fuoco e drento al ferro nudo, In preda al temerario ardir tremendo D’Alemagna e di Spagna, a gli occhi nostri In man di cani e di spietati mostri De l’universo la diletta donna Trovasi inerme di consigli e d’armi9.
La raccolta di questi «lamenti» è abbondante; il loro tono piuttosto monotono esprime un sentimento popolare. Quest’accento accusatore per protestare contro una sorte odiosa si ritroverà in poeti come l’Ariosto10. Siamo un po’ meno bene informati sui canti trionfali delle truppe tedesche e delle popolazioni guadagnate alle idee luterane. Ne sono giunti a noi pochi brani; su un foglio del maggio 1527 stampato a Venezia in tedesco, Neu Zeitünge von Rome, si legge ad esempio un peana che evoca l’orribile donna dell’Apocalisse, la Prostituta di Babilonia: Sie ist gefallen, gefallen die grosse Stadt Darin[ne] die rote Hure lang gesessen hat Mit ihren Kelch der Gräulickeit**11.
Gli avvenimenti famosi hanno sempre avuto il loro accompagnamento popolare. Ma con la presa e il sacco di Roma nel maggio 1527, si possono seguire da vicino, attraverso la stampa, le reazioni dell’opinione pubblica
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all’interno del mondo cristiano. Da una trentina d’anni e più, le guerre d’Italia avevano veduto diffondersi fogli volanti con canards, cioè dicerie sensazionali generalmente false, chiamati Flugblätter, che avevano un ruolo del tutto nuovo nella vita pubblica12. Uno dei primissimi benefici della stampa fu infatti la diffusione più rapida e più ampia delle notizie, grazie al moltiplicarsi dei bollettini d’informazione. Le statistiche sono eloquenti; se ci fu a quel tempo un avvenimento sensazionale, il gran numero dei pamphlets e fogli volanti, seguiti da brevi relazioni, stampate in gran fretta, in numerose lingue, dimostra chiaramente che fu quello del maggio 1527, che vide Roma, caput mundi, cadere nelle mani degli imperiali. I particolari orribili e sbalorditivi del sacco ne facevano naturalmente una eccellente materia per questi primi prodotti della stampa che vuole far sensazione.
La marcia su Roma. In quella primavera del 1527, i protagonisti della politica europea erano prigionieri di una situazione bizzarra e confusa. L’exercitus caesareus, l’armata imperiale, era stata posta sotto il comando di Carlo di Borbone, il peggior nemico di Francesco I; ma la sua marcia attraverso l’Italia centrale non aveva più nulla a che vedere con la guerra. Il colpo di audacia che sarebbe stato la marcia su Roma non era ancora ineluttabile. La nuova contesa fra il sacerdozio e l’Impero non implicava necessariamente tale azione, e neanche l’escludeva: le disposizioni ufficiali non lo proibivano. Fu piuttosto per una specie di accelerazione interna e di slittamento aleatorio che le circostanze stesse del conflitto fra Clemente VII e Carlo V volsero la questione in catastrofe14. Era difficile immaginare situazione più cupa, più
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bloccata. La brutale sconfitta dei francesi a Pavia il 24 febbraio 1525 aveva aperto un periodo d’incertezza e di angoscia, dove tutto si svolgeva in un clima di minacce eccessive, di annunzi e di profezie terribili. Dall’interno della sua corte spagnola l’imperatore sembrava tenere in pugno tutta la situazione. Non sarebbe stato saggio riconoscerlo a Roma mediante quell’accordo che il clan «imperialista» della Curia sollecitava? Ma i due poteri si trovarono presto in opposizione. Il conflitto divenne manifesto per una questione di principio, con la promulgazione del breve del 23 giugno 1526, che ribadiva i diritti imprescrittibili del pontefice, e la relativa risposta, detta la «memoria di Granata», del 17 settembre 1526. Vi è detto che il linguaggio del papa non è cristiano e dovrà essere corretto dall’imperatore e riformato dal Concilio. Il che era una minaccia quanto mai grave. Questo pamphlet che dava il tono della politica imperiale fu stampato la primavera seguente ad Alcalá, è ristampato in estate a Magonza e ad Anversa sotto il titolo – e se ne capisce la ragione – Pro divo Carolo apologetici libri duo15. Non rimaneva quindi che manovrare per organizzare una guerra di liberazione contro il dominio spagnolo e tedesco, paragonabile a quella che Giulio II aveva condotto a buon fine quindici anni prima contro i barbari di allora, ossia i francesi di Luigi XII. Quella che fu chiamata la Lega di Cognac, per via del luogo in cui fu firmato l’accordo, il 22 maggio 1526, da Clemente e Francesco I, appena rientrato dalla prigionia, consolidò questa volontà. L’avvenimento fu debitamente celebrato in Italia16. Avevano luogo movimenti di truppe, in condizioni difficili, attraverso l’Italia del Nord; gli eserciti di entrambi gli avversari stentavano a saldarsi, tanto erano eterocliti. L’exercitus caesareus si adunava lentamente sotto la direzione di Carlo di Borbone; l’armata della Lega raggruppava contingenti veneziani, che con-
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tavano di essere rinforzati da soccorsi francesi; ma Lautrec, che avrebbe potuto, navigato com’era sulle cose d’Italia, essere l’uomo della situazione, valicò il passo di Susa soltanto all’inizio del mese d’agosto 152717. L’unico generale capace di condurre quelle forze era un Medici, cugino di Clemente, Giovanni dalle Bande Nere. Fu ferito mortalmente nel novembre 1526, durante un combattimento destinato a ostacolare il congiungersi dei lanzichenecchi di Frundsberg, che scendevano dai passi delle Alpi e Brescia verso la zona di Mantova, con Carlo di Borbone che arrivava da Milano18. La scomparsa del Gran Diavolo fu il primo colpo della sorte. Quale sarebbe stato l’esito di una campagna che avesse posto di fronte Borbone e Giovanni, i lanzichenecchi e le «Bande nere»? Questo fatale incidente lasciò all’exercitus caesareus la facoltà di riunirsi, non senza fatica, d’altronde, in ragione delle difficoltà di approvvigionamento e del cattivo tempo. La collaborazione di Alfonso d’Este, con il quale il Borbone era in ottimi termini, gli fu utile, specialmente grazie al ponte di barche19 preparato dai ferraresi per consentire il passaggio del Panaro e l’ingresso negli stati pontifici20. L’Italia imparava a conoscere un nuovo tipo di soldatesche: i lanzichenecchi, con i loro costumi a sbuffo, le lance e i pennacchi simili a quelli della Guardia svizzera. La loro brutalità in guerra superava perfino quella dei francesi. L’armata imperiale si componeva di tre gruppi principali che si urtavano di continuo: il primo, una schiera di diecimila lanzichenecchi, guidati da un Frundsberg, gigantesco e minaccioso, tutti luterani: erano venuti dalla Germania per abolire il potere pontificio sia spirituale sia temporale. Un bel capitano di venticinque anni, il principe d’Orange, comandava la cavalleria. Il secondo gruppo, un contingente spagnolo di tercieros, arrivato passando da Genova, era nuovo
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per l’Italia: forte di cinque-seimila uomini, veniva a umiliare il principe della Chiesa che aveva osato resistere a Carlo. Dal saccheggio di Prato nel 1513 se ne conosceva l’arroganza e la spietatezza. Vi erano infine irregolari italiani di ogni risma, contingenti condotti da capitani di ventura come Fabrizio Maramaldo, ma anche da gentiluomini d’alto rango come Marco Antonio Colonna e soprattutto Ferrante Gonzaga, figlio di Isabella d’Este. Queste truppe vivevano esclusivamente di saccheggi e estorsioni. Il Borbone non aveva abbastanza fondi per distribuire le paghe promesse21. Come conseguenza di un concatenarsi incredibile di illusioni, di lentezze, di tradimenti, dovuto al fatto che ognuno degli alleati calcolava i propri interessi prima di partecipare alla strategia comune, avvenne che al principio del 1527 la strada di Roma fosse pressoché aperta per quella massa turbolenta ed eteroclita. Negoziava, manovrava, mentre continuava a slittare verso il Sud. Dalle città che venivano risparmiate erano state ottenute condizioni sostanziali; così per Firenze e Bologna. Ma, come dimostra chiaramente il movimento delle truppe, Borbone non poteva tenere a freno lanzichenecchi e spagnoli se non promettendo il bottino di Roma; il saccheggio, normale obiettivo per i mercenari, qui assumeva un’attrattiva fantastica. Il Borbone era un giocatore formidabile – non disponendo ne d’amministrazione organizzata ne d’artiglieria, sapeva che il suo esercito non poteva condurre un assedio in piena regola. A Roma, Clemente, appena rimessosi dopo essere sfuggito dalle mani dei Colonna, cercava l’accordo con il viceré, Lannoy, che venne a Roma sotto una pioggia torrenziale, che da tutti fu giudicata di malaugurio, il 25 marzo22; fiducioso o fingendo di esserlo, il papa firmò la convenzione che, al prezzo di un enorme contributo, doveva allontanare l’esercito. Borbone ne fu informato.
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L’oro stava per scacciare la guerra. Clemente licenziò i suoi mercenari, che pure alcune settimane prima avevano difeso brillantemente Frosinone – a meno di cento chilometri da Roma – contro gli spagnoli del viceré23. Il Borbone, naturalmente, non rispettò l’accordo. Tagliando attraverso la Romagna, attraversò gli Appennini; a fine aprile avanzava lungo il Tevere verso il caput mundi. L’esercito della Lega seguiva a distanza, senza intervenire, l’esercito imperiale, di cui la marcia si fece repentinamente rapidissima. Il 5 maggio, una domenica, gli imperiali, arrivando dalla riva destra del Tevere, compaiono a nord e a ovest della città. Prendono posizione intorno al Borgo. Il lunedì 6, prestissimo, all’alba, nella fitta nebbia del mattino, fu dato l’assalto.
Le difese di Roma. Roma era rimasta, come nel medioevo, una città cosmopolita. Abbiamo la fortuna di possedere il censimento generale che ebbe luogo durante l’inverno 1526-27 e che consegna il quadro quanto mai preciso della popolazione romana alla vigilia della sciagura che stava per sconvolgere ogni cosa24. Essa contava poco più di 53 000 abitanti fissi; ammassati nei «rioni» del centro, il che da secoli provocava la emarginazione delle comunità collinari e della zona periferica, rinserrata dalle vecchie mura aureliane, ancora oggi in buono stato25. Ma la popolazione non era preparata a reagire energicamente. Circa un quarto di essa non era neppure italiana e appena un sesto era di ceppo romano. «I Romani formano una minoranza nella città; questa è il rifugio di tutte le nazioni e un domicilio comune al mondo intero», si legge in certe memorie che interessano l’anno terribile26. Era vero, e le notizie così vaghe, i pronostici così conturbanti degli ultimi mesi non pote-
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vano che esasperare la disunione e lo smarrimento di questa massa composita di chierici e di affaristi. Molti romani, inoltre, desideravano più o meno apertamente la venuta dell’esercito imperiale. Gli uni per ostilità al pontefice, diventato impopolare a causa delle tasse e della propaganda avversa, gli altri perché legati ai Colonna, che avevano trasformato in una piazzaforte il Palazzo dei Santi Apostoli e le terme di Diocleziano, dove avevano il loro quartier generale. I loro messaggi si facevano insistenti. Scriverà più tardi Alberini, «pareva a Borbone l’impresa difficile, la quale li Colonnesi li demostravano per molte ragioni più facile e riuscibile com’era»27. Era il 4 maggio; il capitano francese si trovava allora a Ronciglione. Affrettò il passo. A Roma, all’ultimo momento, si armava, nello smarrimento e nella confusione, una milizia che fu affidata a Guido Rangoni. Poiché gli imperiali comparivano ad ovest, la difesa si portò alle mura del Borgo; si fece appena appena in tempo a predisporre Castel Sant’Angelo, che avrebbe svolto un ruolo d’eccezione durante tutto il dramma. Cellini, a credergli, se ne incaricò28. La fisionomia stessa della città non era ancora cambiata. Non esisteva nessuna delle grandi strade moderne. La Via Giulia era soltanto un tracciato, poiché il palazzo dei Tribunali, progettato da Bramante, e il palazzo della Cancelleria Apostolica, che dovevano definirne la funzione e segnarne l’importanza, erano stati definitivamente abbandonati sotto Leone X. Gli unici itinerari praticabili da est a ovest attraversavano da un lato Campo dei Fiori, intorno al quale erano sorti in gran numero i palazzi connessi con la Cancelleria, e dall’altro Piazza Navona, vicina alla zona di sviluppo favorita dai fiorentini nel quartiere «Ponte» e più a nord. I Medici erano insediati nella zona di Sant’Eustachio. Giuliano da Sangallo, su richiesta di Leone, aveva con-
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cepito il piano di un grande palazzo che dava su Piazza Navona attraverso un portico. Ma Clemente non aveva dato seguito al progetto di suo cugino. E non ebbe il tempo di apportare mutamenti importanti alla situazione urbana. Il sistema difensivo di Roma risaliva ad Aureliano che, verso il 270, articolò il muro di cinta sul mausoleo di Adriano, e al papa Leone IV che, verso l’850, aveva circondato San Pietro e il Vaticano di fortificazioni che portano il suo nome. Nella cronaca della processione di consacrazione di quel Borgo leonino, si trova per la prima volta il nome di Castel Sant’Angelo; il nome ricordava l’apparizione dell’arcangelo Michele a Gregorio I nel 590, e uno dei miracoli a favore della città di San Pietro di cui abbondano gli annali di Roma29. Il mausoleo, divenuto la fortezza chiave del sistema difensivo romano, assunse importanza ancora maggiore dopo i lavori del secolo xv: vennero rialzate le mura sotto Nicola V e rinforzata la cittadella sotto Alessandro VI. Il Borgo, che era la città pontificia, fu collegato con la città antica attraverso il passaggio del Ponte Sant’Angelo, sorvegliato dall’enorme fortezza. La città era quindi ragionevolmente difendibile. Il Borgo si trovava dominato da Castel Sant’Angelo, dove non mancava l’artiglieria. In ogni modo, il Tevere costituiva un fossato non facilmente valicabile. E se anche fossero avvenute incursioni, la città stessa, molto aggrovigliata con passaggi stretti e viuzze tortuose, era piú che adatta ai combattimenti di strada; questo almeno secondo le conversazioni tenute cinquant’anni prima dal re Ferrante a Sisto IV e riferite da Infessura30. La popolazione si sentiva assolutamente sicura. Tutti dicevano: due o tre giorni di uno scalpicciare inconcludente, l’artiglieria di Castel Sant’Angelo che tiene gli assalitori a buona distanza, l’arrivo dell’esercito della Lega che i cavalieri di Guido Rangoni lasciano intravedere piutto-
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sto vicino..., e l’exercitus caesareus in stato di disorganizzazione latente verosimilmente sarebbe insorto, poi disperso saccheggiando la campagna, lasciando qualche gruppo ostinato31. La sua riuscita ha segnato lo scacco definitivo e spettacolare della tattica italiana, fondata da piú di un secolo sulla manovra e sul temporeggiare. Francesco Maria Della Rovere, fedele alla tradizione, l’applicò. E questa fallì. Il 6 maggio il grosso delle truppe della Lega era ancora a Cortona. Giunsero nei pressi di Roma soltanto il 21 maggio. Clemente negoziava per guadagnare tempo. Bisognava accerchiare la città, chiudere gli imperiali con le loro vittime? Nessuno ci pensò, a quanto pare. Come neanche di entrare in Roma. Il 2 giugno ci fu il ripiegamento generale. Guicciardini poté dichiarare che questa lamentevole condotta era avvenuta «per tradimento e per paura»32.
Il sacco. Il colpo di fortuna che favorì ancora una volta gli imperiali, il dono del cielo, furono le nebbie mattutine che, parecchio dopo l’alba, ricopersero la zona di Sant’Onofrio e di Santo Spirito dove si sferrava l’attacco33. L’artiglieria di Castel Sant’Angelo, impotente, rimase muta. Gli spagnoli tentarono la scalata verso la Porta Torrione, i lanzichenecchi al bastione di Santo Spirito. Ed è un punto dibattuto fra gli storici34 quale contingente mise piede in Roma per primo. Quasi ad accentuare il carattere fatidico, del tutto particolare, dell’azione, il suo iniziatore, il grande capitano che aveva condotto a marce forzate l’esercito imperiale sulla Città Santa, fu ferito mortalmente nei pressi della Porta Torrione nel momento in cui trascinava una seconda ondata d’assalto, dopo l’insuccesso della prima35. Una tradizione, che trae argomento dai rapporti accertati
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fra Borbone e l’umanista Cornelio Agrippa, vuole che costui abbia predetto al duca che «le mura di Roma sarebbero cadute al primo assalto», omettendo di aggiungere che anch’egli sarebbe caduto con esse36. Questo personaggio poco comune ebbe perciò un inizio da leggenda, la quale non poté svilupparsi, certo in ragione della trista rinomanza del sacco di Roma. Il Borbone ne avrebbe forse orientato diversamente il corso, mediante qualche impresa personale mirabolante. A Roma, nel secolo scorso, il babau «Barbone» spaventava ancora i bambini37. Pioveva. Gli spagnoli si accaniscono e finiscono per scalare il muro all’angolo della Porta Torrione, i lanzichenecchi a Santo Spirito. Continua la nebbia che preclude la vista ai cannonieri. Al Borgo si impegnano duri combattimenti. La Guardia svizzera resistette vicino all’obelisco, e la palla porta ancora le tracce degli spari38 L’iscrizione lapidaria in Via dei Penitenzieri rievoca il ricordo dell’orafo Bernardino Passeri che cadde dopo avere strappato uno stendardo agli assalitori39. Erano ormai giunti alle porte di San Pietro. Il papa pregava nella sua cappella, «non possendo credere che coloro entrassino», ha scritto Cellini. Fu una fuga precipitosa. Il papa aveva appena abbandonato il luogo con quattordici cardinali che già gli imperiali entravano nel Vaticano. Mancò poco – possiamo immaginarlo – ch’egli non fosse catturato, perfino ucciso. Clemente si infilò nel lungo corridoio alla sommità del muro di cinta; Paolo Giovio ha raccontato che egli ricoprí il pontefice del suo manto violetto da vescovo per evitare che fosse tradito dalla veste bianca40. A Castel Sant’Angelo affluivano i cardinali, gli ambasciatori, i funzionari della Curia. Quando si abbassarono le saracinesche, c’erano nella fortezza circa tremila persone. Sulla piattaforma superiore stavano i due scultori responsabili dell’artiglieria: «eravamo là, – ha scritto Raffaello da Montelupo nelle
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sue memorie, – e guardavamo tutto ciò come se assistessimo ad una festa»41. Poiché la nebbia si era finalmente alzata, le colubrine potevano sparare, ma il Borgo era già preso. Le truppe non potevano resistere sotto il fuoco delle artiglierie; ma già avevano fatto manovra verso Trastevere, che fu occupato senza difficoltà in giornata. Allora gli imperiali si spostarono e fecero pressione sul Ponte San Sisto, che – lo si constata con stupore – non era stato in precedenza né distrutto né fortificato42. Un gruppo di cavalieri si sforzò di fermare l’attacco. Ma invano. Non c’era più modo di ostacolare l’invasore. Il panico era totale: non vi fu nessun combattimento di strada. I luoghi di sosta erano così distribuiti: gli spagnoli occupavano Piazza Navona, i lanzichenecchi Campo dei Fiori, e il distaccamento italiano di Ferrante Gonzaga era schierato davanti a Castel Sant’Angelo43. Già era stato dato il segnale del saccheggio. Dall’alto della fortezza pontificia Cellini guardava: «Venuta la notte e i nemici entrati in Roma, noi che eravamo nel Castello, massimamente io, che sempre mi son dilettato vedere cose nuove, istavo considerando questa inestimabile novità...»44. Così terminava questa giornata vertiginosa con Castel Sant’Angelo di fronte a una città abbandonata alla piú folle violenza. L’armata imperiale aveva così ripetuto, trentatré anni piú tardi, la «calata» dei francesi nel 1494. Ma la venuta di Carlo VIII e del suo formidabile esercito era stata solo una parata. Quando erano apparsi a Roma, Alessandro VI aveva fatto un balzo in Castel Sant’Angelo e se l’era cavata con la paura45. I francesi puntavano su Napoli, non sullo stato romano. Questa volta l’armata dell’imperatore lontano, che non era al comando e che spesso piombava in strani silenzi, si buttò sulla città dopo un concatenarsi quasi troppo favorevole di circostanze, che non consente di stabilire le intenzioni e le
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responsabilità. Questa conquista, molti politici potevano desiderarla senza crederla attuabile; l’«aura», il prestigio religioso della città, sembrava a tutti, tranne che a dei luterani, proteggerla da una devastazione. Tutti si trovavano trascinati ben oltre le normali aspettative. La città non aveva dovuto sopportare un assedio, ma fu oggetto di un saccheggio atroce, interminabile, completo e insieme disordinato per l’assenza di un comando forte46. Filiberto di Châlon, principe di Orange, era succeduto a Borbone, ma la sua autorità era continuamente intaccata47. Infatti i contingenti non avevano all’inizio lo stesso comportamento e capitò che, rivaleggiando tra loro, rapinassero chi era già stato derubato. Ritorneremo piú avanti su aspetti particolari di tali aggressioni. Le taglie furono così sistematiche che ne risultò un trasferimento d’oro e di ricchezze piuttosto eccezionale. Nessun assalto era concepibile contro Castel Sant’Angelo. Filiberto fece scavare trincee a nord della fortezza, per prevenire l’eventuale arrivo delle truppe della Lega. Dentro le mura del castello i rifugiati erano troppo numerosi, ma non mancavano né le vettovaglie né le munizioni. Il morale, tuttavia, era basso. Le discussioni fra i principi della Chiesa continuavano, i negoziati pure. L’imperatore, reagendo tardivamente alla notizia, vide in questa vittoria inattesa la mano di Dio48. Ma non era chiaro quale seguito politico darle. La lunga esitazione di Carlo fu fatale alla città. La situazione assurda di un papa, accerchiato dalle milizie nemiche in quel blocco fortificato, famoso in tutto l’universo cristiano, si prolungava nell’incertezza. I lanzichenecchi luterani si battevano per deporlo49. Fra tutte le possibilità che si offrivano all’imperatore, la più semplice era convocare un Concilio, seguendo il consiglio di Mercurino Gattinara: «tamquam in pseudopontificem, scandalosum, incorrigibilem ac universum christianae religionis perturbantem concilium», il che significava deporre il
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papa50. Non si osò. Il temperamento di Carlo non era all’altezza di quello di Borbone e delle truppe. E poi, era difficile dichiarare che il papa, vinto e umiliato, turbava l’ordine della cristianità. Prima conseguenza della notizia fu una rivoluzione a Firenze. Si trattava di un violento ritorno antimediceo. Nel momento in cui Roma, soggiogata, abbandonata, ben presto esangue, avrebbe testimoniato per lungo tempo il trionfo della potenza imperiale e la inettitudine della resistenza militare italiana, Firenze, con una sollevazione impressionante e decisamente disperata, respingeva – il che era facile – l’autorità dei Medici, ma al tempo stesso – il che era audace – veniva a sfidare la potenza imperiale51. Questa nuova situazione, alla lunga, non poteva far altro che costringere Clemente, in quanto Medici, a cercare presto o tardi l’appoggio dell’imperatore, che lo stava invece sfidando a Roma. Se Firenze ritrovava il clima repubblicano, che le valeva l’aiuto entusiasta di Michelangelo, Roma vedeva, di disastro in disastro, andare in rovina la sua popolazione, il suo patrimonio, il suo prestigio. Si tenevano conciliaboli per uscire da una situazione sconfortante e vergognosa. Il 5 giugno fu stipulata una convenzione tra Clemente e i capi dell’armata imperiale. Il papa e tredici cardinali restavano a Castel Sant’Angelo, dove sarebbe stazionata una guarnigione imperiale, fino a che le piazzeforti dello Stato pontificio fossero state tutte consegnate e versate le riparazioni di guerra. I mesi estivi trascorsero fra i movimenti incontrollati delle truppe, perseguitate dalla carestia e dall’epidemia. Pompeo Colonna era rientrato a Roma, aveva veduto quel «cadavere di città» e si era riconciliato piangente con Clemente52. Il 28 novembre gli ostaggi lasciati in custodia degli spagnoli evasero in circostanze abbastanza pittoresche: si arrampicarono su per i camini, si travestirono, ecc... Il cardinale Giovanni Del Monte, il
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futuro Giulio III, era tra questi53. Finalmente, al principio di dicembre, Clemente poté fuggire a Orvieto e ritrovare in quella cittadella papale una parvenza di autorità. Soltanto nel febbraio 1528 ebbe luogo l’evacuazione definitiva di Roma. Gli imperiali, carichi d’oro e di bottino, scesero su Napoli. Roma, in cui infieriva oltre la malaria endemica, una specie di «peste»54, fu soltanto a poco a poco rioccupata dagli abitanti dopo un anno di disordini e di saccheggi. Clemente vi ritornò soltanto in ottobre. Nonostante l’immensa risonanza nella cristianità, nonostante il suo eterno valore di simbolo, la presa di Roma non aveva risolto niente sul piano militare. Nel 1528 la situazione era così mediocre per gl’imperiali che questi erano tornati all’idea di tenere, in mancanza di meglio, due solidi punti d’appoggio: Milano e Napoli. Un esercito supplementare, comandato da Brunswick e deciso a consolidare il centro di Lombardia, incontrò una seria resistenza a Lodi, difesa da Gian Paolo Sforza, e rientrò in Germania55. Finalmente i francesi si misero in moto: l’esercito di Lautrec, cui si erano uniti contingenti italiani delle «Bande Nere» guidate da Orazio Baglioni, giunse davanti a Napoli; l’impressione che l’ora della rivincita, per la Lega, fosse sul punto di scoccare, era tanto più verosimile in quanto la flotta di Doria bloccava il porto56. L’abile resistenza spagnola, l’epidemia devastatrice, l’improvvisa defezione dell’ammiraglio, e il ripiegare degli assediati su Aversa, capovolsero definitivamente la situazione a favore degli imperiali, a cui non restava altro se non occuparsi di Firenze.
Il «Pageant» del 4 agosto. Nell’enorme mole di relazioni storiche e opuscoli, due formule si oppongono in modo del tutto evidente.
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Da parte imperiale, si hanno i Flugblätter del tipo della Warhafftige und Kurtze Berichtung del 21 giugno, dove si menzionano la morte di Borbone, la punizione del papa, il fatto che i lanzichenecchi hanno gridato: «vivat Luther Papa»; la versione in latino Direptio expugnatae urbis Romae ab exercitu Caroli Quinti 1527, sarà pubblicata solo molto piú tardi, ma continuerà ad essere letta ancora avanti nel xvii secolo57. Questa Direptio, che insiste sulla meritata punizione della città pontificia, fu pubblicata nel 1623 di seguito a uno dei pungenti dialoghi fra cortigiane dell’Aretino: tale associazione può sembrare strana, ma conferma il carattere scandalistico che fatalmente presero, in seguito, le rievocazioni degli orrori del 1527: aneddoti su prostitute, orge e stupri, di cui s’impadronirono allegramente autori licenziosi come Brantôme58. In questo campo nessuno ha superato l’autore della Lozana andaluza (la Bella Andalusa), che conclude la descrizione della dissolutezza romana con una lettera in cui, «dopo avere veduto la distruzione di Roma e la grande peste che seguí, ringrazia Dio di avergli permesso di vedere il castigo da Lui inflitto, a buon diritto, a un così grande popolo»59. D’altro lato, il documento piú tipico e senza dubbio il pamphlet intitolato In urbis Romae excidia deploratio (Parigi 1528) dedicato a Luisa di Savoia, e datato ex urbis cadavere tertio cal. Decembris, che e una requisitoria storica contro gli abomini del sacco. L’exercitus caesareus ha sorpassato quanto si e visto di piú orribile in tutti i paesi e in tutti i secoli, in «avidità, sfrontatezza, perfidia, lubricità e crudeltà». «L’obbrobrio per le reliquie, la fiamma per le chiese, l’incesto per le religiose, lo stupro per le matrone, la schiavitú per i giovani» ecco quello che subirono i Romani60. Questo atto d’accusa sarà ripreso dai francesi in piú d’una occasione. Un altro di quegli opuscoli, Historia expugnatae et direptae urbis Romae per exercitum Caroli V Imp. di
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César Grolier, fu pubblicato soltanto nel 1637. Naturalmente, in seguito, apparvero numerose memorie e racconti per confermare e completare quei testi scritti da testimoni oculari e, in tal senso, sempre rivelatori, se non veritieri61. L’irrompere delle notizie da Roma incontrò dapprima, negli ambienti ufficiali di Spagna, un silenzio che possiamo definire imbarazzato. Ma misuriamo lo choc psicologico attraverso due scritti, di tono aspro e appassionato, che, databili alla fine del 1527 e all’inizio del 1528, diedero il tono all’inevitabile dibattito sulla giustificazione del sacco. Carlo non si era pronunciato. I suoi consiglieri presero pertanto l’iniziativa di parlare in suo nome. Alfonso de Valdés, il segretario privato dell’imperatore, redasse il Dialogo de las cosas ocurridas en Roma che giustifica il sacco di Roma come intervento «provvidenziale»: tutta la responsabilità ricade sul pontefice, che ha agito da capo di stato imprudente invece di incarnare lo spirito evangelico. Per quanto terribili siano gli orrori riferiti, bastano appena a cancellare gli abomini della città corrotta: «ognuno degli orrori del sacco e il castigo preciso, necessario, provvidenziale, di una delle vergogne che insozzavano Roma». Interpretazione da cui non si allontanerà, tranne qualche sfumatura, il partito imperiale62. Ma il Dialogo di Valdés non fu diffuso immediatamente, perché non tutti l’approvavano. L’imperatore stesso era esitante, in ragione della violenta protesta sollevata dal nunzio apostolico, che Carlo rispettava molto e che altri non era se non Baldassarre Castiglione, l’autore del Cortegiano63. La confutazione del Castiglione è un’aspra accusa, piena di nobile indignazione. Egli vede nelle spiegazioni tendenziose del Dialogo un affronto intellettuale e morale che viene a completare l’umiliazione sanguinosa del sacco. Nessuna delle debolezze, delle corruzioni, perfino delle sozzure della Roma
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moderna è negata: Castiglione risponde soltanto che la degradazione del Seggio Romano non può giustificare un attentato senza precedenti, scusare un simile sacrilegio. Egli attribuisce al dramma un significato che va ben al di là di quello puramente politico; accetterebbe la denuncia globale di una società indegna, ma colloca l’istituzione, i simboli, la tradizione al di sopra dei loro miserabili servitori; restituisce a Roma il suo significato unico, al quale non deve attentare nessuna nazione cristiana; ricorda che Roma, consacrata dalla Chiesa e dalla storia, non può in nessun caso subire abomini innominabili, sotto il pretesto di rigenerarla. È facile pensare che un discorso talmente grave, proveniente da un personaggio, un caballero, che Carlo stimava, non facesse che accrescere la perplessità del monarca. Egli si dimostrò, in seguito, desideroso di cancellare il ricordo del sacco. La presa di Roma aveva avuto una ripercussione sinistra in Inghilterra. Un po’ sul medesimo tono del Castiglione, Thomas More in A dialogue concernynge Heresyes, del 1528, introdusse un lungo ragionamento sugli orrori i cui responsabili erano «those uplandish Lutherans»64. Le vicende del paese sembravano essere dominate dal problema del divorzio di Enrico VIII, oppure, in altre parole, dalla sua passione per Anna Bolena. Il che, fra l’altro, portava il cardinale Wolsey a favorire un’alleanza contro l’imperatore e a ricercare l’appoggio del papa. Il crollo di Roma e la prigionia di Clemente fu perciò un serio contrattempo, ma le circostanze permettevano, almeno, al cardinale di proporsi come vicario-generale e di risuscitare vecchie ambizioni che risalivano al conclave del 152365. Per tutte queste ragioni l’Inghilterra lanciò minacce, reclami, richieste per la liberazione del pontefice; fu perfino messa in ridicolo l’armata imperiale: durante un banchetto Wolsey fece recitare a questo scopo il Phor-
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mio di Terenzio66. Il cardinale fu inviato in Francia per firmare trattati di alleanza contro l’imperatore; tale cerimonia ebbe luogo il 18 agosto ad Amiens. Wolsey era venuto in gran pompa; fu ricevuto con magnificenza. Fu allora che il problema del momento venne reso pubblico in Francia, e in modi propri al Rinascimento: con una serie di quadri viventi, trasposizione simbolica e mimata dell’avvenimento. Questo pageant o, come è stato chiamato, «a sort of display piece» – una specie di saggio dimostrativo – ebbe luogo meno di tre mesi dopo il sacco. Il cardinale Jean de Lorraine aspettava Wolsey a Calais. Il 22 luglio il legato fece il suo ingresso a Boulogne. Ne esiste un resoconto, dovuto al contemporaneo viaggiatore britannico Edward Hall: At the gate was made a pageant in which was a nun called Holy Church and three Spaniards and three Almaynes had her violated and a Cardinal her rescued and set her up of new again. Another pageant was a Cardinal giving a pax to the king of England and the French king in token of peace. Another pageant was the Pope lying under and the Emperor sitting in his majesty and a Cardinal poulled down the Emperor and set up the Pope67.
L’itinerario era dunque accompagnato da quadri viventi, non difficili da interpretare: per tre volte un cardinale – riconosciuto da tutti – salvava la monaca chiamata Santa Chiesa, riavvicinava Francia e Inghilterra e rovesciava l’imperatore, che stava calpestando il papa. Come succedeva per questo genere di spettacoli, il pageant conteneva un programma che aveva la funzione di richiamare l’illustre ospite al suo ruolo. C’è però da credere che il cardinale non fosse molto attento, perché, come scrisse al suo re, il suo mulo «era tanto spaventato dal rumore degli spari» che l’unica cosa che egli poté
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fare fu di stare a cavalcioni. Ma ne colse il significato generale: tutto trattava della «pace universale e della restituzione del papa e della Santa Sede apostolica alla loro dignità primitiva»68. Analoghi festeggiamenti ebbero luogo ad Abbeville. Ma lo sfoggio maggiore fu ad Amiens, dove il 4 agosto il re in persona aspettava il cardinale. Si ebbero cinque «teatri», ossia quadri viventi, che costituivano un’analisi politica e una dimostrazione per simboli. Non è stato trovato neppure un disegno o incisione dell’evento, ma ne esiste una descrizione dell’epoca, completata dai verbali del consiglio della città che aveva sostenuto le spese dello spettacolo. Il primo quadro raffigurava un tempio i cui due muri, Francia e Inghilterra, avevano bisogno di una pietra, lapis angularis, per congiungersi. È facile indovinare chi reggeva questa pietra. Nel secondo pageant si vedeva l’idolo di Nabuchodonosor schiacciato da una pietra miracolosa che poneva fine alla guerra. Questa pietra era ancora Wolsey. Il terzo era la navicula Petri che sobbalzava sulle onde69; San Pietro invocava aiuto. Due personaggi, l’uno con l’arme di Francia, l’altro con l’arme di Inghilterra, alzavano la spada. Dietro tutto questo, lo scenario di una città: Roma o Gerusalemme, dice curiosamente il testo. E un’iscrizione che minaccia della collera divina i principi che attaccano la dimora di Cristo, Christiferam domum70. Nel quarto quadro, due allegorie: la Santa Chiesa e la Pace riconciliate da un angelo rosso: Wolsey. Infine uno strano spettacolo in cui Pallade, grazie a Wolsey, guida il mondo ai saturnia regna, all’età dell’oro. Sydney Anglo, che ha attratto l’attenzione su questa serie di quadri viventi, cita la conclusione ironica di Edward Hall: «Quando i saggi videro quel pageant sorrisero e dissero: “Il re di Francia può ben sentirsi lusingato, perché fu difficile, per un solo cardinale, sconfiggere colui che abbatte il capo di tutti i cardinali”».
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Noi sentiamo, come quel signore, quanto avevano di artificioso questi spettacoli. Ma siamo colpiti nel vedere come gli avvenimenti di Roma, grazie alla diffusione rapida dei pamphlets, si traducessero alla fine in immagini simboliche. Niente è più familiare della navicula Petri, questo mosaico che Giotto aveva collocato sulla facciata di San Pietro, citato da tutti quanti e fatto conoscere attraverso innumerevoli dipinti e disegni. Il dramma del 1527, riecheggiato da tutto quel che possiamo chiamare la stampa, è stato anche tradotto in immagini viventi quasi subito, e queste immagini erano figure allegoriche.
«Imago Urbis». Se non fosse per quella specie di censura, consapevole o inconsapevole, che si è esercitata, a nostro avviso, nei riguardi del sacco e del suo responsabile, Carlo di Borbone, non si capirebbe perché nessuna incisione o dipinto contemporaneo all’avvenimento ci siano noti. Sarebbe stato facile trar partito, ad esempio, dalla battaglia di animali allegorici descritta piú tardi da Maurice Sceve in un endecasillabo bello ma oscuro: Il cervo volante alle strida dello struzzo Fuori della sua tana smarrito volò via; Sul sommo dell’Europa si appollaia, credendo là trovare sicurezza e riposo, Luogo sacro e santo, da lui violato, con mano a tutti profanamente notoria...71.
La stampa di Schön, datata al 1528, che in un lungo fregio evoca la lotta tra papisti e riformati sotto forma di una battaglia fra due eserciti schierati, è molto verosimilmente una eco delle vicissitudini romane. Il tema
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di un antagonismo, che si esprime con la lotta di due principî opposti, dominò l’enorme sviluppo della stampa popolare durante la Riforma. Nella stampa di Schön il soggetto è militare; i lanzichenecchi sono in evidenza72, l’accento è posto sulla battaglia. Tuttavia, nulla indica che si tratti dell’esercito di Borbone. Su una stampa dello stesso autore, datata anch’essa 1528, e di cui tratteremo piú avanti, un soldataccio si prepara a colpire un papa. Ma nulla permette di identificare né l’uno né l’altro. Per quanto ne sappiamo, non esiste alcuna rappresentazione contemporanea al sacco di Roma, e non ve ne furono se non molto tempo dopo73. È stato segnalato un pannello in una collezione privata, recante la firma fittizia di Brueghel, che mostra un panorama di Roma, in cui il riferimento a Borbo e caput mundi permette di identificare la scena. La veduta è presa da est; la topografia urbana è precisata con l’aiuto di piccole iscrizioni più o meno errate; minuscole scene di violenza e alcune installazioni militari sono state inserite per evocare il sacco del 152774. Tuttavia, si tratta soltanto di un piccolo rimaneggiamento di modelli apparsi alla fine del secolo xv, di cui il più celebre fu quello del Supplementum chronicarum orbis di fra Jacopo Filippo Foresti da Bergamo75. Su queste vedute di Roma – che, in parte a causa degli avvenimenti del 1527, non sono state sostituite prima del 1550 – si può nettamente distinguere, a destra, il quartiere del Borgo nuovo con la massiccia fortificazione di Castel Sant’Angelo, la piramide detta tomba di Romolo, la piazza e la scala di San Pietro, il Belvedere; nella zona centrale, la più popolata, i loci christiani si mescolano con i monumenti pagani che costituivano i riferimenti tradizionali dell’imago urbis. Queste «vedute» antiche non portano tracce delle trasformazioni realizzate al tempo di papa Borgia: la merlatura di Castel
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Sant’Angelo e il lungo corridoio costruito sul muro che conduce al Vaticano (1492-94), la grossa torre, il Torrione, innalzato davanti al castello per controllare il ponte (1445); l’angelo che sormontava la fortezza, a ricordo della visione di Gregorio Magno, era stato abbattuto dalla folgore nel 1497 e non ancora sostituito. Verso il 1505-1506, Giulio II aveva fatto aggiungere la Loggetta, che corre lungo gli appartamenti costruiti ai piani superiori. La meta Romuli era stata distrutta nel 1499, e un’aggiunta tipica del paesaggio urbano era stata, a partire dal 1507, la costruzione degli enormi pilastri di Bramante al posto del coro del primitivo San Pietro. Queste varie modificazioni non figurano evidentemente nella pianta del 1490 né nei panorami basati su di essa76. È questo il caso del piccolo pannello citato sopra. Una veduta di Roma nel corso dei cinque o dieci anni che seguono il sacco sarebbe preziosa per localizzare le distruzioni menzionate nei Flugblätter, e in particolare gli incendi. Invece è come se in Italia ci fosse stato un rifiuto di rappresentare l’avvenimento, una sorta di censura istintiva. Quando si rese necessario celebrare le grandi gesta dell’Impero – l’incoronazione di Bologna nel 1530, l’ingresso dell’imperatore a Roma nel 1536, gli accordi pacifici ottenuti dalla diplomazia di Paolo III – non era più questione di rappresentare la conquista e il saccheggio della Città Eterna, ma soltanto di mettere in evidenza l’incontro del papa e dell’imperatore77. Le cose andavano diversamente nei paesi dell’Impero. Verso il 1530 erano di moda i quadri di battaglia tratti dalla storia greca e romana. Siccome le truppe rappresentate da Burgkmair e Feselein sono vestite ed equipaggiate alla moderna, dobbiamo forse vedere in queste composizioni un’allusione indiretta alle campagne d’Italia78. Ma i riferimenti espliciti sono venuti piú tardi. Uno dei pittori-storiografi di Carlo V, Jan Cornelius
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Vermeyen, disegnò il ciclo di Tunisi che, tradotto in arazzo, divenne presto celebre79. Una serie di quadri, probabilmente cartoni per arazzo, furono segnalati alla fine del secolo scorso, ma e stato impossibile ritrovarne la traccia80. Questa serie pare comprendesse: Pavia, «captio Regis Fra.», 1525; il sacco: «Roma capta», 1527; La Goletta81: «Tannetum expugnatum», 1535. Immaginiamo abbastanza bene quel che dovettero essere quelle composizioni brulicanti di particolari militari, sparpagliati su uno sfondo topografico. Il repertorio delle battaglie imperiali si è arricchito considerevolmente intorno al 1540; ma la grande Battaglia dello Schiavone e la facciata dipinta da Girolamo da Carpi riguardano sempre Tunisi82. Direi che quasi tardivamente, al momento del melanconico declino dell’imperatore, vi fu una grande serie di incisioni pubblicate dall’editore Hieronymus Cock su disegni di Heemskerck. Apparve nel 1555 sotto il titolo generale Divi Caroli V Imp. opt. max. victoriae83. Dodici tavole illustrano le vittorie dell’imperatore sulla Francia, sui principi tedeschi, sui turchi, e il conseguente dominio su tutti i continenti. La più sorprendente mostra l’imperatore padrone dei re. Due tavole sono consacrate alle vicende del 1527: la morte di Borbone, ossia la vittoria militare, e l’assedio di Castel Sant’Angelo, ossia, attraverso il sequestro e poi la capitolazione di Clemente, la vittoria politica. Queste tavole ci mostrano come trent’anni dopo, in un momento in cui il dominio imperiale era diventato irremovibile, l’episodio piuttosto imbarazzante del 1527 venisse finalmente rappresentato. Sono stampe molto ben fatte, eseguite da qualcuno che conosceva bene la città di Roma. Heemskerck vi aveva soggiornato e lavorato dal 1532 al 1535, forse anzi fino al 153684. La prima stampa porta la dicitura «Borbone occiso, Romana in moenia miles Caesareus ruit, et miserandam
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diripit urbem»85, che si riferisce al tempo stesso all’assalto e alla morte dell’eroe. Però, per avere una veduta corretta, il foglio deve essere rovesciato. Difatti la veduta nello sfondo dovrebbe mostrare San Pietro a sinistra – dove il timpano della nuova basilica è chiaramente indicato – e a destra l’ansa del Tevere, e Castel Sant’Angelo. Su uno sfondo realistico c’è una raffigurazione simbolica: l’eroe è vestito da dux antico: era perito nell’assalto della Porta Torrione, indicata da un’enorme torre fortificata posta in evidenza nel disegno. La propaganda imperiale restava fedele alla memoria di Borbone. Dell’altra stampa, che porta la didascalia «capta urbe, Adriani praecelsa in mole tenetur obsessus Clemens, multo tandem aere redemptus»86, esiste un disegno ad Amburgo. Questa volta, il disegno è capovolto e la stampa e esatta87. Dal lato della statua di San Pietro, a sinistra, c’è la basilica vaticana con il campanile, le Logge vaticane e anche la galleria del Belvedere; l’enorme fortezza di fronte, e la grossa torre di Alessandro VI che blocca il ponte. Il muro è siglato con l’arme di Clemente VII: le palle medicee. Il papa appare alla loggia. Si pensa alla canzone spagnola: Triste era il Santo Padre Nel suo Castel Sant’Angelo.
Le truppe sorvegliano l’ingresso dal lato della città, mentre cannoni e archibugi sono puntati sulla fortezza, e due lanzichenecchi giganti, con la loro pesante spada, ricordano a destra il vigoroso Frundsberg e i suoi mercenari. Un particolare, tuttavia, trattiene l’attenzione: le due statue gigantesche di San Pietro e di San Paolo da cui Heemskerck ha saputo trarre mirabilmente partito. Di fatto, come possiamo facilmente accertare sulle vedute di Roma del 1490, all’imbocco orientale del
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Ponte Sant’Angelo c’erano due cappellette, costruite in seguito a una di quelle disgrazie che talvolta mettevano a lutto i pellegrini: il crollo del ponte nel 1450. Le truppe di Ferrante Gonzaga, che tenevano quel settore nel maggio 1527, avevano utilizzato le due cappelle come riparo. Al ritorno del papa a Roma, furono distrutte e sostituite dalle due statue, si vedrà più avanti con quale intenzione88. Venuto a Roma nel 1532, Heemskerck le aveva vedute al loro posto. Ne ha tratto partito per introdurre una dimensione simbolica in una scena che rischiava di sembrare bizzarra e penosa. Mentre un araldo avanza per portare un messaggio a Clemente, San Pietro, stringendo quasi con rabbia le sue grosse chiavi, volge il capo verso l’immane lanzichenecco porta-stendardo, che, in realtà, sembra interpellarlo con insolenza. L’incredibile situazione del giugno 1527 e così riassunta nei due dialoghi muti che s’incrociano: quello dell’araldo con il papa, quello del lanzichenecco con San Pietro. Il papa sembra invulnerabile, Pietro e corrucciato. Attraverso il dramma, traspare l’ordine delle cose89.
* [«Triste era il Santo Padre | Pieno di angoscia e di pena | Nel suo castel Sant’Angelo | In cima a una torretta | La testa senza tiara | Sudata e sporca di polvere, |Vedeva la regina del mondo | In mani straniere»]. 1 Romance del Saco de Roma, por las tropas del condestable de Borbon, a cura di A. Duran, in Biblioteca de autores espanoles, XVI: Romancero general, vol. II, Madrid 1861, n. 1155, p. 162, Cf. «Triste estaba el Padre Santo | Lleno de angustia y de pena | En Sant’Angel, su castillo, | De pechos sobre una almena, | La cabeza sin tiara, | De sudor y polvo Ilena, | Viendo a la reina del mundo | En poder de gente ajena. | Los tan famosos romanos, | Puestos so yugo y melena; | Los cardinales atados. | Los obispos en cadena; | Las reliquias de los santos | Sembradas por el arena; | El vestimento de Cristo, | El pié de la Madalena, | El prepucio y Vera Cruz | Hallada por Santa Elena, | Las iglesias violadas, | Sin dejar cruz; ni patena. | El clamor de las matronas | Los
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 siete montes atruena | Viendo sus hijos vendidos, | Sus hijas en mala estrena | Consules y senadores | De quejas hacen su cena, | Por faltalles un Horacio, | Como en tiempo de Prosena. | La gran soberbia de Roma | Hora España la refrena: | Por la culpa del pastor | El ganado se condena. | Agora pagan los triunfos | De Venecia y Cartagena, | Pues la nave de Sant Pedro | Quebrada Ileva la entena, | El gobernalle quitado, | La aguja se desgobierna: | Gran agua coge la bomba, | Menester tiene carena, | Por la culpa del piloto | Que la rige y la gobierna. | Oh Papa, que en los Clementes, | Tienes la silla suprema, | Mira que tu potestad | Es transitoria y terrena! | Tu mismo fuiste el cuchillo | Para cortarte tu vena. | Oh fundador de los cielos, | Dadnos paz, pues es tan buena! | Que si falta a las cristianos, | Huelga la gente agarena, | Y crece la secta mala | Come abejas en colmena. | La justicia es ya perdida; | Virtud duerme a la serena; | Quien mas puede come al otro, | Como en la mar la ballena: | Fuerza reina, fuerza vale, | Dice al fin mi cantilena». 2 Per le canzoni in Francia, cfr. e. picot, Chants historiques français du XVIe siècle: Règnes de Louis XII et François Iee, Paris 1903. 3 a. medin e l. frati, Lamenti storici dei secoli XIV, XV e XVI, vol. III, Bologna 189o. Un altro lamento pone direttamente in causa Francesco I, a cui s’ingiunge di riparare i torti causati da Carlo V: «Italia afflitta, nuda e miseranda | Che or de’ principi suoi stanca si lagna, | A te, Francesco, questa carta manda» (pp. 405 sgg.). 4 La presa di Roma, a cura di F. Mango, Bologna 1886, citato da d. hay, Italy and Barbarian Europe, in Italian Renaissance Studies, miscellanee C. Ady, a cura di E. F. Jacob, London 1960. 5 Sonetto anonimo, trascritto da Pandolfo Nassino, «Memorie Mss. Bresciane», Cod. C.I., 15, Brescia, Bibl. Quiriniana. Pubblicato da g. milanesi, Il Sacco di Roma del 15-27. Narrazioni di contemporanei, Firenze 1867, p. lxii: «Passio Domini septimi Clementis | Secundum Marcum. – Papa dixit: Hebraei, | Quem queritis? – Responderunt ei: | Papam Clementem cum suis armentis. | – Ego sum: Sinite, sine tormentis. | – Tunc dixerunt: sunt omnes mortis rei. | Et ligaverunt eum Pharisaci, | Ad Caesarem trahentes caput gentis. | – Dixit Caesar: Tu es rex dericorum. | – Respondit papa Clemens: Tu dixisti. | – Blasphemavit; et eum percusserunt. | Papa stabat in medio Ispanorum. | Disse il Colonna: Amice, ad quid venisti? | Et super vestem suam sortem dederunt. | – Sitio, disse; et acetum gustavit. | Consumatum Clementem expiravit». 6 s. lowinski, A Newly Discovered Sixteenth Century Motet Manuscript at the Biblioteca Vallicelliana in Rome, in «Journal of American Musicological Society», 3 (1950). Questa raccolta contiene un mottetto politico dello stesso Festa, di sapore «savonaroliano», che deve risalire al periodo in cui Firenze,
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 sotto Capponi, respinse la «legge dei Medici»; e un altro mottetto che celebra l’intesa ritrovata fra il papa e l’imperatore alla fine del 1529. Cfr. cap. vi. 7 a. einstein, The Italian Madrigal, Princeton 1949; d. harsan, The Sack of Rome Set to Music, in «Renaissance Quarterly», 23 (1970), pp. 412 sgg. 8 [Gioco di parole sull’epiteto tradizionale di Roma, «caput mundi»]. 9 Dal ms della Biblioteca Marciana, pubblicato da luzio, Pietro Aretino cit., pp. 64 sgg. 10 Ariosto, strettamente legato alla corte «imperialista» di Ferrara, aveva introdotto nell’Orlando furioso una profezia rivelatrice (cfr. cap. ii); aggiunse una deplorazione del sacco nel 1532. ** [«È, caduta, caduta, la grande città dove la rossa Puttana è risieduta a lungo con il suo calice di abominio»]. 11 h. schulz, Der Sacco di Roma. Karls V. Truppen in Rom. 1527-1528, Halle 1894, p. 36. 12 Sui Flugblätter, oltre le opere antiche di e. weller, Die ersten deutschen Zeitungen (1505-1599), Tübingen 1872; e di k. schottenloher, Flugblatt und Zeitung, Berlin 1922; si veda anche h. washer, Das deutsche illustrierte Flugblatt, Dresden 1955; e i. neumeister, Flugblätter der Reformation und des Bauernkrieges. 50 Blätter aus der Sammlung des Schlossmus., Leipzig 1976. Una Bibliographie der deutschen und lateinischen Flugschriften des frühen 16. Jahrhunderts, su microfilm, è in corso di pubblicazione all’Università di Tubinga sotto la direzione di H-J. Köhler, H. Hebenstreit-Wilfert e C. Weismann. Gli avvisi del mondo, fogli d’informazione preziosi per la seconda metà del secolo (cfr. r. ancel, Etude critique sur quelques recueils d’«avvisi», in «Mélanges d’Archéologie et d’Histoire», 1908), non contano per gli anni 1520 sgg., tranne, naturalmente, le relazioni incorporate nel Diario di Sanuto. 13 Il foglio piú diffuso fu la Warhafftige eine kurtze Berichtung inn der Summa, redatta dopo il 22 giugno e diffusa durante l’estate o l’autunno. Cfr. schulz, Der Sacco cit., pp. 44 sgg., e cap. iii. 14 La migliore narrazione rimane quella di Gregorovius, seguito da Pastor; c. ravioli, La guerra di sette anni sotto Clemente VII... dall’anno MDXXIII al MDXXXI, sui documenti ufficiali, in «Archivio della Reale Società Romana di storia Patria», 6 (1883), pp. 303 sgg. Recentemente, cfr. hook, The Sack of Rome cit. Non abbiamo potuto consultare u. boncompagni ludovisi, Il Sacco di Roma, Albano 1929. 15 Analisi in von pastor, Storia dei papi cit., vol. iv, parte Il, libro III, p. 205 e p. 229 Sgg. Il testo era dovuto ad Alfonso de Valdés, che sarà l’autore del Dialogo sugli avvenimenti di Roma post factum, cfr. infra.
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 La conclusione ufficiale della Lega Santa del 1526 fu accompagnata da cerimonie che ebbero a Venezia un andamento sontuoso: processioni con costumi, figure allegoriche, carri di «quadri viventi», ecc. Cfr. sanuto, Diarii cit., XLIII, coll. 42 sgg. per l’8 luglio 1526, e Calendar of State Papers, Venice, vol. III: 1520-26, London 1869, n. 1343, p. 579. Si noterà nella tribuna dei confratelli di Santo Stefano, «una damigella in piedi, con in mano un globo, una ruota nell’altra»: Fortuna (la sorte), e sul palco della Scuola di San Marco, una nave allegorica da accostare a uno dei simboli analoghi studiati nel cap. ii, e nel pageant di Amiens. 17 hook, The Sack of Rome cit., p. 228. 18 Su Giovanni dalle Bande Nere, esiste un capitolo di g. g. rossi, Vita di Giovanni de’ Medici, nella raccolta Vite dei Sforzeschi, Milano 1853, pp. 195-245, e una narrazione di p. gauthiez, Jean des Bandes Noires, Paris 1901. Sui movimenti di massa e la guerra per scaramucce proprie del periodo, cfr. p. pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952, pp. 550 sgg e 574 sgg. Quest’autore non sembra considerare Giovanni uno stratega molto originale, ma gli attribuisce una decisa attitudine al comando. Sulle circostanze e le conseguenze della ferita mortale di Giovanni, cfr. p. gauthiez, Nuovi documenti intorno a Giovanni de’ Medici detto delle Bande Nere, in «Archivio Storico Italiano», 1902-903. Sulla statua in onore del condottiero eretta in piazza San Lorenzo, cfr. Epilogo. 19 È difficile mettere in relazione a questi avvenimenti il ritratto del seguace di Bacco (coll. priv.) che è apparso con un’attribuzione discutibile a Dosso all’esposizione di pittura ferrarese Esposizione della pittura ferrarese del Rinascimento, Ferrara 1933, n. 201. Un’iscrizione sull’alto del quadro porta: «Alfonso Duca Terzo con il fiasco e il bicchiere conservò il ducato di Ferrara e ricuperò quello di Modena e Reggio qua[n]do alli [=al dí] vi di marzo s’aboccò con Borbone nel Finale». Vi fu infatti un accordo fra il Duca e Borbone nel momento in cui questi ebbe bisogno di passare i fiumi, e Modena e Reggio erano l’oggetto di una vecchia contestazione fra Roma e Ferrara (cfr. gregorovius, Storia della città di Roma cit., e von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte II, libro III, pp. 234-35). Ma le ragioni per le quali quest’operazione, che fu di grande aiuto all’armata di Carlo V, è stata evocata al di sopra di un ritratto «bacchico» di Alfonso d’Este, non sono per noi cosí chiare come sembrano esserlo per e. wind, Bellini’s «Feast of the Gods». A study in Venetian Humanism, Cambridge (Mass.) 1948, p. 40. Per di piú, l’identificazione del ritratto è sicura? L’iscrizione è originale? 20 hook, The Sack ol Rome cit., pp. 127 sgg. 21 pieri, Il Rinascimento cit. cfr. cap. iv. 16
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 A proposito della visita di Lannoy a Roma il 25 marzo 1527, Marcello Alberini scrive: «e fu ben quel di presago delle future calamitati nostre, che me ricordo vederlo venire a Santo Apostolo, che era il tempo serenissimo et in un punto cader tanta e cosí subita pioggia che in la via Lata i cavalli nuotavano nell’acqua fino alli petti». Cfr. d. orano, I ricordi di Marcello Alberini, vol. I (l’unico uscito), in Il Sacco di Roma del 1527, Roma 1901, p. 230. 23 Paolo Giovio descrisse questo fatto d’armi con entusiasmo in una lettera del 14 febbraio a D. Contarini, ricopiata da sanuto, Diarii cit., XLIV, 1896, col. 99. cfr. anche g. g. ferrero, Politica e vita morale del Cinquecento nelle lettere di Paolo Giovio, Torino 1940, p. 68. 24 d. gnoli, «Descriptio Urbis», o censimento della popolazione di Roma avanti il sacco borbonico, in «Archivio, della Reale Società Romana di Storia Patria», A (1894), pp. 375 sgg.; delumeau, La vie économique cit., Paris 1957, vol. I. 25 Sulle fortificazioni di Roma, cfr. l. cassanelli, g. delfini e d. fonti, Le mura di Roma. L’architettura militare nella storia urbana, Roma 1974. 26 marcello alberini, Ricordi cit., p. 238. 27 Ibid., p. 229. 28 cellini, La vita cit., p. 78. 29 Su Castel Sant’Angelo e il miracolo dell’angelo cfr. e. rodocanachi, Le Château Saint-Ange, Paris 1909; m. borgatti, Castel Sant’Angelo in Roma, Roma 1931; cassanelli, delfini e fonti, Le mura di Roma cit., pp. 63 sgg. e nota 14, p. 77 (bibliografia). 30 Tali sono i discorsi di Ferrante a Sisto IV nel 1475: «Voi non siete signore di Roma e non potete regnarvi in ragione delle gallerie, strade strette e terrazze. Se dovete farvi passare delle truppe, le donne scagliando pietre dalle terrazze le metteranno in fuga e si stenterà a costruire barricate». Ferrante gli consigliò di abbattere terrazze e porticati e di allargare le strade. Il papa seguí il consiglio e da allora in poi le terrazze e i porticati vennero abbattuti nella misura del possibile e le strade allargate sotto il pretesto di rifare la pavimentazione e di dare piú luce. Da s. infessura, Diario della città di Roma, a cura di O. Tomasini, Roma 1890, p. 79, citato da delumeau, La vie économique cit., p. 289. 31 pieri, Il Rinascimento cit., p. 580. 32 guicciardini, Storia d’Italia cit., nell’ed. del 1929, V, pp. 142-46; gregorovius, Storia della città di Roma cit. 33 Secondo F. Vettori nel suo dialogo sul sacco (circa il 1530), l’attacco fu lanciato dietro la dimora del cardinale Cesi, dove da un lato c’è la vigna di Santo Spirito, dall’altro quella di maestro Bartolomeo da Bagnacavallo; cfr. Viaggio in Alemagna di F. Vettori... aggiuntavi… il Sacco di Roma del 1527, dello stesso..., a cura di C. Salvi, Firenze e Paris 1837. 22
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte II, libro III, p. 256, n.1; pieri, Il Rinascimento cit., p. 581, nota 1. 35 Cellini, come si sa, si dice l’autore di questa prodezza nella Vita. Sulle controversie concernenti la morte di Borbone, cfr. von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte II, libro III, p. 255, n. 3. 36 a. prost, Les sciences et les arts occultes au XVIe siècle. Corneille Agrippa, sa vie et ses œuvres, 2 voll., Paris 1882, app. xxv; f. cancellieri, Il Mercato, il lago dell’Acqua Vergine, il Palazzo Panfiliano nel Circo Agonale, Roma 1811, pp. 242-243. Cfr. hook, The Sack of Rome cit., p. 162. Secondo m. guazzo, Le historie di tutti i fatti degni di memoria nel mondo successi, Venezia 1546, p. 66, citato da hook, The Sack of Rome cit., p. 164, un vecchio aveva predetto che Borbone avrebbe trovato la morte prendendo una grande città. 37 «Fatta la ninna e passa via Barbone» si cantava in Trastevere, secondo cancellieri, Il mercato cit., p. 242. 38 Sul coraggio della guardia svizzera, cfr. r. durrer, Die Schweizergarde in Rom und die Schweizer in päpstlichen Diensten, Luzern 1927, vol. I, pp. 397 sgg. Sulla sfera radiata, cfr. c. maes, La sfera radiata di bronzo dorato già infissa al vertice dell’obelisco vaticano riconosciuta ora ed autenticata con iscrizione nel museo Capitolino, in «Il Cracas», 4, 1894, pp. 371 sgg. 39 Iscrizione antica: «D.O.M. | Bernardino Passerio Juli II Leone X et Clementis VII Ponttt.maxxx aurifici ac gemmario praestantiss. | qui cum in sacro bello pro | patria in prox. lanic. parte | hostium plureis pugnans occidisset | atque adverso militi vexilium abstulisset | fortiter occubuit pr.n. mai mdxxvii | V.A. xxx. viim.vi.d.xi | Iacobus et Octavianus Passerii | fratres patri amantiss. Posuere». Iscrizione moderna: «Il 6 Maggio 1527 | ravvolto nella bandiera | di sua mano strappata | alle irrompenti orde borboniche | qui presso cadde a difesa della patria nel proprio e nel nemico sangue | Bernardino Passeri Romano | orefice | padre di famiglia. | Perché tanto esempio frutti insegnamento ed emulazione ai posteri, la società degli orafi di Roma al loro fratello d’arte e di cuore nuovo ricordo consagrano | 25 Ottobre 1885». Cfr. ravioli, La guerra di sette anni cit., p. 374 nota 1. Si legge un’altra iscrizione all’interno di Sant’Eligio degli Orafi, via Giulia. 40 Si è obbligati a tenere conto della testimonianza di Paolo Giovio (1483-1552), ma con qualche prudenza. La sua credibilità di storico è stata messa in dubbio da F. Chabod nel saggio Paolo Giovio del 1954, ripreso in Scritti sul Rinascimento cit., pp. 243 sgg. Stretto alleato dei Medici, dopo la sua venuta nel 1513 al servizio di Leone X, non lasciò Clemente, e, nel maggio 1527, corse con lui fino 34
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 a Castel Sant’Angelo, secondo il suo famoso racconto: «Clementi autem plenis passibus evadenti proximus erat Paulus Jovius qui haec conscripsit, sustuleratque ei ab tergo talaris togae sinus ut expeditius iter conficeret, suumque item violaceo colorem. pallium et pileum capiti atque humens iniecerat ne pontifex a candore vestis agnitus, dum aperto demum et ligneo ponte in arcem transint a Barbaris accuratiore forte glandis ictu sterneretur» (p. giovio, Vita di Pompeo Colonna, Firenze 1549). La sua grande opera Historiarum sui temporis ab anno 1494 ad annum 1547 libri XLV, Firenze 1550-52, sarebbe andata in parte perduta (libri V-X) nel sacco del 1527; l’autore affronta non senza ripulsione il racconto degli anni penosi del pontificato di Clemente. Negli Elogia virorum illustrium, Firenze 1549 e Basilea 1577, ha riferito i suoi ricordi nella Vita di Pompeo Colonna, il nemico giurato di Clemente; egli coglie l’occasione per mostrare l’emozione del cardinale Colonna quando giunge l’8 giugno nella città devastata, e la riconciliazione a Castel Sant’Angelo. 41 Raffaello da Montelupo: frammenti delle sue memorie in g. gaye, Carteggio inedito di artisti dei secoli XV, XVI e XVII, Firenze 1840, vol. III, pp. 581-94. 42 Il La lettera del cardinale Guillaume du Bellay all’ammiraglio Chabot dell’8 luglio, conservata alla Bibl. Naz. di Parigi e pubblicata da l. dorez, Le Sac de Rome (1527). Relation inédite de Jean Cave, orléanais, in «Mélanges d’Archéologie et d’Histoire», xvi (1896), pp. 410 sgg., dà un’idea dell’incapacità di Renzo da Ceri, della confusione e della pusillanimità dei romani che non tagliarono i ponti e non chiusero le porte, nell’attesa delle truppe di Colonna, e infine dell’incredibile mancanza di carattere di Clemente, che «parlava di arrendersi» fin dal 6 maggio e «incominciò pratiche di trattativa a dispetto di tutti» fin dal 7. 43 Cfr. hook, The Sack of Rome cit., pp. 165 e 167. 44 cellini, La vita cit., cap. xxxiv. 45 La superba narrazione di michelet, La Renaissance, Paris 1855, vol. I, cap. 1, non dispensa evidentemente di ricorrere a von pastor, Storia dei papi cit., vol. III, libro Il, pp. 394 sgg. Alessandro VI portò con sé numerose reliquie, fra cui la Veronica (cap. iii). 46 Sui comandi, cfr. ravioli, La guerra di sette anni cit., pp. 362 sgg., con il catalogo dei capitani, pp. 342-44. 47 Su questo curioso personaggio, si è informati grazie al diario tenuto da un segretario. Cfr. a. d. pierrugues, Giornale del principe d’Orange nelle guerre d’Italia dal 1526 al 1530…, Firenze 1897. Filiberto fu ferito durante un’ispezione nei pressi del castello da Cellini, se c’è da credere al racconto di questi, Vita, cap. xxxviii: Filiberto conduceva una vita elegante e raffinata al Palazzo di San Marco, da cui fu slog-
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 giato in seguito a una delle innumerevoli sommosse dei lanzichenecchi, che saccheggiarono il palazzo al principio di luglio. 48 Cfr. cap. iv. 49 Cfr. cap. iii. 50 Historia vitae et gentorum per dominum magnum Cancellarium, a cura di C. Bornate, Torino 1915. 51 Sull’assedio di Firenze, cfr. hook, The Sack of Rome cit., pp. 200 sgg. 52 Ibid., p. 209. 53 È in memoria di questo episodio che, una volta diventato pontefice, avrebbe fatto innalzare dal Vignola la cappella-memoriale di Sant’Andrea in Via Flaminia (1554), vicino alla villa che porta il suo nome: secondo g. moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Venezia (a partire dal 1840), vol. III, p. 193. 54 Sulla fuga a Orvieto, cfr. hook, The Sack of Rome cit., capp. xiv e xv. Sulla «peste», o epidemia che porta questo nome generico, cfr. a. corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, Bologna 1863, vol. 1. 55 Sull’affare di Lodi, cfr. guicciardini, Storia cit., XIX, 4; pieri, Il Rinascimento cit., p. 583. Sull’esaltazione dell’eroismo italiano e l’Italus Bellax, cfr. cap. iv. 56 Su Napoli, cfr. hook, The Sack of Rome cit., pp. 233 sgg. 57 schulz, Der Sacco cit., pp. 47-48 (cfr. note 10 e 11). Direptio expugnatae urbis Romae.... ed. al seguito di p. aretino, Pornodidascalus seu muliebre, Frankfurt 1623. 58 brantôme, Les grands capitaines, vol. I: Les grands capitaines étrangers, Paris 1864. schulz, Der Sacco cit., p. 73, non ha torto a scrivere che Brantôme non aveva fatto altro che condire con «eine pikante Sauce für den französischen Geschmack» i dati forniti sui grandi capitani da p. de valles, Historia del fortissimo... capitán Don Hernando de Avalos, marqués de Pescara, con los hechos memorables de otros siete excelentissimos capitanes del Emperador Don Carlos V, rey de España, Anversa 1562. 59 f. delicado, La lozana andaluza, Venezia 1527. L’epistola finale alle «amiche e sorelle in amore» aggiunge alcune precisazioni sui «14 000 teutoni barbari, 7000 spagnoli senza armi e senza calzature, ma con fame e sete ...» che avrebbero tutto distrutto a Roma senza il rifugio che il «devoto sesso femminile» offrí a quei «pellegrini» di nuovo genere. 60 p. corsi, Ad humani generis servatorem in urbis Romae excidia p. Cursii civis rom. deploratio, Paris 1528: «Constat eandem Urbem a Visigotis direptam, ab Herulis occupatam, ab Ostrogotis possessam, a Vandalis deformatam, a Langobardis vexatam, a Graecis spoliatam, a Germanis oppugnatam, a Sarracenis ferro ignique vastatam. Sed nunc a Cesariano exercitu ita omni calamitatum genere afflicta est omnium
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 simul nationum omniumque seculorum avaritiam, audaciam, perfidiam, libidinem, crudelitatem superavit». 61 schulz, Der Sacco cit., pp. 52-53 sgg. 62 alfonso de valdés, Dialogo en que particularmente se tratan de las cosas ocurridas en Roma el año de MDXXVII, s.l. [1529], edizione a cura di J. F. Montesinos, Madrid 1928; [trad. it. a cura di G. de Gennaro, Napoli 1968]. Precisazioni sull’autore sono state portate da m. bataillon, Alfonso de Valdés, auteur du «Dialogo de Mercurio y Caron», in Homenaje a Menendez Pidal, Madrid 1926, pp. 403 sgg., e sulle circostanze della redazione in Erasme et l’Espagne, Paris 1937, cap. viii. È difatti lecito considerare quest’opera vivamente antiromana, come tipica della reazione degli erasmiani all’avvenimento. Cfr. cap. iv. Dalla parte degli imperiali, il rapporto ufficiale piú degno di attenzione è la lettera dell’abate Najera, ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede, all’imperatore, in data 27 maggio, pubblicata in a. rodríguez-villa, Memorias para la historia del asalto y saco de Roma en 1527…, Madrid 1875, pp. 135-36. Traduzione inglese abbreviata annotata e rettificata in p. de gayangos, Calendar of Letters. Despatches and State Papers relating to the negotiations between England and Spain preserved in the Archives at Salamanca, London 1877, vol. III, pp. 211-19. 63 La lettera di Valdés e la risposta del nunzio sono riprodotte nell’edizione di G. Prezzolini del Cortegiano, Milano e Roma, 1937, pp. 841 sgg. cfr. j. cartwright, The Perfect Courtier: Baldassarre Castiglione, his Life and Letters. 1478-1529, New York 1972, vol. II, Cap. liii. Il nunzio credeva nella buona volontà del principe e aveva spesso espresso il suo augurio di una riconciliazione, il che gli valse una lettera di rimprovero di Clemente in data 20 agosto per non averlo avvertito dei pericoli. Castiglione credette necessario fornire al riguardo lunghe spiegazioni, in data 10 settembre, cfr. Lettere del conte Baldassarre Castiglione, a cura di P. A. Serassi, Padova 1791, vol. II, pp. 147 sgg. 64 thomas more, A Dialogue Concerning Heresyes (1528), in English Works, London 1557, pp. 258-59. 65 Sulle ambizioni di Wolsey, cfr. a. f. pollard, Wolsey, London 1953, in particolare pp. 121-27; d. s. chambers, Cardinal Wolsey and the Papal Tiara, in «Bulletin of the Institute of Historical Research», 38 (1965), pp. 20-30. 66 r. brown, Calendar of State Papers and Manuscripts. Venice 1527-1533, Vol. IV, London 1871, Introduzione. 67 edward hall, The Union of the Two Noble and Illustre Families of Lancaster and Yorke, 1527, a cura di H. Ellis, London 1809, p. 729; s. anglo, Spectacle Pageantry and Early Tudor Policy, Oxford 1969. 68 Letters and Papers, Foreign and Domestic, of the Reign of Henry VIII, IV, ii, 3289; citata da s. anglo, Spectacle, p. 227.
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Sulla navicula Petri, cfr. h. rahner, «Navicula Petri». Zur Symbolgeschichte des römischen Primats, in «Zeitschrift für katholische Theologie», 69 (1947), pp. I sgg. La fonte: Luca, 5, 3. Nel Venerabile beda, Exposito in Joannem, a cura di J. P. Migne, Patres Latini, vol. 92, Paris 1850, col. 709 d: laborat nec mergitur. Una moneta di Nicola V porta la navis con Ecclesia. Cfr. Lexicon für Theologie und Kirche, 7 (1955), p. 588. 70 «Al terzo palco era raffigurata “Navicula Petri”, intendendo la nostra madre santa Chiesa che era al momento fra le onde. Flutti e procelle (tempeste) marine nella quale molto agitata e turbata dal vento erano alcuni personaggi naviganti come san Pietro che tende le mani a un altro di fuori come sulla riva. Ed era scritto “Domine salva nos perimus”. E il detto personaggio di fuori teneva un rotolo nella mano, sul quale rotolo era scritto “Modice fidei quare dubitasti”. E ai lati del detto palco erano due corpi adorni portanti ciascuno le loro armi, ossia Francia e Inghilterra, e la spada in mano che facevano roteare come pronti a proteggere, difendere e risollevare quella navicella. E lungo la parete in alto vi era una città che rappresentava Roma o Gerusalemme, dove era scritto “Et iustitia correctio sedes ejus”». E sul frontone in alto i quattro versi seguenti: «Destruet ira truces magni Jovis alta nocentes. | Innyxos propria pellerent sede matrem. Sic | innicta premet magna tum dextera reges. Ausos | christiferam tangere marte domum». Ballata: «Santa Chiesa dalle onde gravata | E gli sconfitti Gesú vuol sollevare | Al fine ch’ella sia preservata | Ecco il mezzo per lei risollevare | Il fior di giglio e la vermiglia rosa | Con il loro valore coloro faranno sprofondare | Che la Santa Chiesa vollero schiacciare, | Se uniti sono come lo si suppone». Les spectacles populaires à l’entrée du Légat d'Angleterre à Amiens (4 Août 1527), in L’entrée du Légat dedans Ville D’Amyans avecq le triumphe de la Ville..., a cura di V. Jourdain, Cayeux-sur-Mer 1910, pp. 13-16. 71 maurice scève, Délie, Lyon 1544, decina xxi. La composizione della raccolta può essere anteriore al 1540. Le decine xix, xx e xxi concernono il conestabile fellone. Il cervo-volante, emblema di Carlo VI, era stato adottato dal conestabile con l’impresa: «Cursum intendimus alis». Cfr. p. giovio, Dialogo dell’imprese militari et amorose, Lyon 1574, p. 12; e g. de tervarent, Attributs et symboles dans l’art profane, Genève 1958, 1, p. 67. L’autruche (struzzo) = l’Autriche (Austria), come nella decina lv, che descrive con ironia la trasformazione dell’aquila in struzzo. 72 Fra le altre vive reazioni nel campo imperiale contro le violenze dell’esercito, bisogna notare quella del generale dei Francescani, Quiñones, che voleva soprannominare i capitani imperiali «capitani di Lute69
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 ro» – da una lettera di Navagero del 27 luglio, in brown, Calendar of State Papers cit., iv, n. 117. 73 Un opuscolo contiene un poema di vasco díaz de frexenal, Triumpho pugnico lamentable sopra la profana entrada y saco del’alma ciudad de Roma, s.l. [1528], preceduto da una xilografia che rappresenta una città presa d’assalto. Pubblicato da a. rodríguez-villa, Italia desde la batalla de Pavia hasta el saco de Roma, Madrid 1885, pp. 223 sgg. 74 Pannello 0,29 x 0,64 m. cfr. m. destombes, A Panorama of the Sack of Rome by Pieter Bruegel the Elder, in «Imago Mundi», 14 (1959), pp. 64 sgg.; riproduzione in a. p. frutaz, Le piante di Roma, Roma 1962, p. 171. Altra versione di dimensioni doppie: 0,50 x 1,37 m è conservata nei Musei del Belgio; cfr. c. terlinden, Un panorama de Rome à la fin du XVIe siècle, in «Annuaire des Musées Royaux de Belgique», 3 (1940-42), pp. 29-40. 75 frutaz, Piante cit., n. xcv, tav. 165. 76 Sono quelli di hartmann schedel, Liber chronicarum, Nürnberg 1493 (frutaz, Piante cit., n. xcvi, tav. 116) e di sebastian monster, Cosmographiae universalis, Lib. VI, Basel 1550 (ibid., n. xcviii, tav. 170). 77 Per esempio alla Villa Imperiale di Pesaro: la decorazione, a gloria di Francesco Maria Della Rovere, porta in un medaglione l’Incoronazione di Bologna. Su questo tema, cfr. cap. vi. Cfr. b. patzak, Die Villa Imperiale in Pesaro, Leipzig: 1908, pp. 309 sgg.; g. martini, La Villa Imperiale di Pesaro, Pesaro s.d. 78 Melchior Feselein (attivo 1531-38), Assedio di Roma da parte di Porsenna, München 1529. Si troveranno in g. m. richter, Melcher Feselein, ein Beitrag zur Geschichte der oberdeutschen Kunst im XVI. Jh., in «Oberbayerisches Archiv für vaterländische Geschichte», 54 (1944), pp. 189 sgg., le indicazioni sui due cicli di battaglia ordinati per una sala del palazzo da Guglielmo IV di Baviera. 79 I cartoni sono conservati al Kunsthistorisches Muscum di Vienna. Cfr. h. göbel, Wandteppiche, I: Die Niederlände, Leipzig 1923, pp. 144-45, 311, 419-20. 80 e. jacobsen, Niederländische Kunst in den Galerien Mansi zu Lucca, in «Oud Holland», 14 (1896), p. 95. n. lieb, Die Fugger und die Kunst, vol. II, München 1958, p. 122, segnala in un inventario dei beni della famiglia Fugger del 1546, che riproduce probabilmente un’informazione del 1536 e del 1539. «drei grosse Quadre nemlich die Belagerung Wien, der Sacko zu Rom und die Schlacht vor Pavia». 81 [Porto sul canale che congiunge Tunisi al mare]. 82 a. chastel, Les entrées de Charles Quint en Italie, in Fêtes et cérémonies au temps de Charles Quint cit., p. 204. 83 f. w. hollstein, Dutch and Flemish Etchings, Engravings, and
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Woodcuts, vol. VIII, Amsterdam 1954, nn. 167-78. vasari, Le Vite cit., v, p. 220, cita la serie come se H. Cock ne fosse l’incisore. Cfr. l. preibisz, Martin van Heemskerck, Leipzig 1911, pp. 86 sgg. 84 Cfr. cap. vi. 85 [Dopo che il Borbone fu ucciso, l’esercito imperiale prese d’assalto i bastioni e saccheggiò la misera città]. 86 [Dopo l’occupazione della città, Clemente fu tenuto prigioniero nella grande fortezza di Adriano e venne poi liberato dietro pagamento di un pesante riscatto]. 87 w. stabbe, Hundert Meisterzeichnungen, Hamburg 1967, n. 53; Bilder nach Bildern. Druckgrafik und die Vermittlung von Kunst, esposizione al Westfälisches Landesmuseum, Münster 1976, n. 38, p. 56. 88 Cfr. cap. vi. 89 Vi sarà un seguito, piú tardi, alla prima incisione di Heemskerck. È dovuta ad Antonio Tempesta e incisa da C. Boel, in una serie sulla vita di Carlo V, nel 1614. Raffigura Borbone che lancia i suoi soldati all’assalto all’alba del 6 maggio. L’iscrizione dice: «Milite Caesareo, Borbonius occupat Heros | Magnanimus magni Capitolia celsa Quirini, | At fidens armis, duni moenia scanderet Urbis | Concidit, Heroes sic sic juvat ire per umbras». | hollstein, Dutch and Flemish Etchings cit., III, p. 7, nn. 148-51. Un arazzo, che può datarsi sulla fine del xvi secolo, è comparso sul mercato parigino ed è stato pubblicato in «Connaissance des Arts», dicembre 1969, p. 53. Questo pezzo, tessuto di lana e seta, è intitolato L’assedio di Roma da parte delle armate di Carlo Quinto. Può trattarsi infatti di Roma, vagamente segnalata da un torrione a due piani merlati. Ma l’identificazione rimane dubbia, perché vi è rappresentato un combattimento di cavalleria davanti alle tende di un campo di tipo antico senza nessun’altra indicazione esplicita. E le insegne lasciano piuttosto supporre che la parte di assediati sia, anzi, qui assegnata alle legioni romane.
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Capitolo secondo Roma-Babilonia
Nelle guide di Roma a stampa che si moltiplicano a partire dalla fine del secolo xv si trova, a uso dei pellegrini, la lista delle «stazioni» o santuari la cui visita procura delle indulgenze, come pure certi luoghi memorabili per la storia cristiana, dove le reliquie commemorano gli eroi della fede; vi si fa anche menzione di mirabilia profane, come il cavaliere del Laterano, le statue dei domatori di cavalli al Quirinale, l’obelisco di Cesare nel Vaticano1. Su un incunabolo xilografico diffuso per il Giubileo del 1475, sotto il pontificato di papa Sisto IV, il suo stemma compare nell’ultima pagina con lo stemma di Roma, entrambi sovrastati dal lino miracoloso chiamato la Veronica2. Sorretta dagli angeli, questa reliquia – che risale alla leggenda della salita al Calvario, ma in modo esplicito segnalata a Roma soltanto dal secolo xii – era diventata uno degli scopi della visita alla città santa. Arrecava ai pellegrini la conferma delle indulgenze che si erano guadagnati con il loro viaggio meritorio. La sua ostensione solenne simboleggiava dunque il compimento del pellegrinaggio. Questa immagine infinitamente diffusa nei secoli xv e xvi, ed essa stessa apportatrice di indulgenze, era diventata l’espressione comune della Roma christiana. Ma nell’incunabolo in questione, l’immagine della Veronica e seguita da un’evocazione delle origini di Roma: la madre di Romolo in preghiera e i
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gemelli nutriti dalla Lupa. Un po’ più discosto, in una iniziale ornata, si vede San Silvestro, il papa che battezzò Costantino, primo imperatore cristiano. La storia del mondo era cosí condensata in alcune immagini atte a impressionare. Di una guida di questo tipo dovette servirsi il monaco agostiniano Lutero nella sua visita del 15113, e forse anche Erasmo nel suo soggiorno del 1506, dal quale doveva riportare l’Elogio della pazzia e ch’egli ricordò nel Ciceronianus4. I due temi della religione e della politica riassumevano, il duplice prestigio di Roma. Nelle polemiche del secolo xvi, furono sempre piú violentemente denunziati come la superstizione delle reliquie e l’illegittimità del potere temporale dei papi.
La Sala di Costantino. Verso la fine del 1523 o agli inizi del 1524, uno dei primi atti ufficiali del pontificato di Clemente VII era stato quello di ordinare il compimento della Sala di Costantino, allora chiamata dei Pontefici per via delle otto teste di papi che dovevano inquadrare le «storie». Era l’ultima e la piú vasta delle quattro «Stanze» incominciate sotto Giulio II: la «Segnatura» del 1508; «Eliodoro», iniziata nel 1512 e continuata sotto Leone X: l’«Incendio» del 1514; e infine «Costantino», a partire dal 15175. Questa serie di decorazioni terminava nella Stanza contigua alla Stanza di Costantino, con la quale aveva in comune una storia analoga6. Come è stato notato da lungo tempo, ognuna di queste decorazioni contiene allusioni all’attualità attraverso i ritratti dei papi. La storia contemporanea è resa viva e, nel medesimo tempo, è sottolineato il perdurare dell’istituzione7. Niente è più famoso e, in un certo senso, familiare di queste stanze, ma vale la pena entrare nei meandri di una «dottrina» che aveva ritrovato tutta la sua attualità
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sotto il pontificato di Clemente. La Stanza di Eliodoro si articola come un’illustrazione della protezione singolare di cui beneficia la Chiesa di Roma, e al tempo stesso, come una vera cronaca delle traversie subite dalla potenza pontificia nel 1511 e 1512: la pressione delle truppe di Luigi XII nell’Italia centrale, e il Concilio di Pisa convocato dal re di Francia sulla fine del 15118. La decorazione della Stanza mostra, come è stato giustamente fatto notare, la sicurezza della Santa Sede, che ha reagito a tali minacce con la Lega Santa antifrancese (1511) e con la convocazione del Concilio Laterano nel luglio 1511. Le scene della volta ricordano la protezione del Signore sul popolo eletto9. Le «storie» incominciano con due episodi mirabilmente scelti per il loro valore programmatico e di una efficacia perfetta. Eliodoro espulso dal Tempio mostra la ingegnosa trovata della prospettiva «drammatica» fortemente arretrata, usata per presentare il gran sacerdote Onias in preghiera nello sfondo, Giulio II in trono a sinistra, e a destra il sacrilego Eliodoro ricacciato dagli angeli e il cavaliere celeste. I sacri tesori del Tempio non possono essere saccheggiati dagli empi. L’allusione alla minaccia straniera sul patrimonio romano era, di certo, trasparente, ma l’importante è qui l’accesa difesa della politica pontificia in corso. Molto verosimilmente bisogna interpretare allo stesso modo la Messa di Bolsena, dove la decorazione architettonica «romana» attornia l’evocazione del miracolo da cui era conseguita l’istituzione della festa del Corpus Domini. Accostando il papa in persona all’altare in cui il miracolo ha luogo, la composizione proclama la posizione unica del successore di Pietro in materia di fede; e con l’attribuirgli la fisionomia di Giulio, sopprime qualsiasi discussione sull’autorità di questi. La debolezza del Concilio scismatico riunito a Pisa è in tal modo indirettamente ma chiaramente denunziata. Queste due
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«storie» che illustrano il «programma» della seconda Stanza, sembrano, in realtà, essere state completate per prime; l’aver introdotto il ritratto di Giulio, in piena evidenza, in tutt’e due dà loro il valore di un manifesto, tanto meno contestabile in quanto la fisionomia del papa e quella del Pontifex barbatus che ha affrontato la crisi10. Nelle altre due «storie» Giulio non compare. Esse sono state terminate sotto Leone X, il che ne spiega la presenza nell’Espulsione di Attila: il papa, in sella sul cavallo bianco di rito, procede fra la duplice apparizione dei santi Pietro e Paolo che atterriscono il barbaro invasore. Nessuno ha mai dubitato dell’allusione trasparente al ripiegamento delle truppe francesi dopo la battaglia di Ravenna, alla quale Leone aveva partecipato11. L’idea della scena data, come il programma dell’intera Stanza, al Pontificato di Giulio, che però morì nel febbraio del 1513; conseguentemente la composizione subì importanti modifiche12. Non è sicuro che si debba dire altrettanto della Liberazione di san Pietro. L’ammirevole chiaroscuro della scena denota una preoccupazione «luminista» e una assimilazione delle tecniche della pittura veneziana che segna una nuova tappa per Raffaello. La sollecitudine dell’angelo per l’Apostolo non si riferisce a nessun fatto personale della vita di Giulio o di Leone, ma illustra semplicemente la protezione sovrannaturale, tema della Stanza. Tutti i critici concordano nell’interpretazione del soggetto. L’affresco deve ciononostante essere interpretato come un omaggio all’opera di colui che fu il titolare di San Pietro in Vincoli, luogo della sua tomba non finita13. Questa scena avrebbe avuto grande importanza per il regno di Clemente VII e i simboli di quel regno14. Quella che si deve chiamare la «dottrina» delle Stanze era stata formulata, sotto Leone, nella Stanza dell’Incendio. L’esistenza stessa della Chiesa è rappresen-
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tata come un miracolo continuo, ma con conseguenze precise nell’ordine politico. La nuova Stanza riafferma il predominio del papato sui principi, ma con minore invenzione della Stanza di Eliodoro. Qui tutto è accentrato intorno all’evocazione degli atti di Leone III (il giuramento di giustificazione, l’incoronazione di Carlo Magno), e di Leone IV (la vittoria di Ostia, il miracolo dell’incendio del Borgo), con il sottinteso che il prestigio di quei pontefici dei secoli viii e ix era trasmesso al loro successore omonimo. Il ritratto di Leone è ripetuto ogni volta, ma si è creduto opportuno esplicitare l’argomento sullo zoccolo della Stanza, dove appaiono dipinti in falso bronzo dorato, sotto ai sei episodi storici, sei sovrani «benefattori della Chiesa», secondo le parole di Vasari: la contessa Matilde, Pipino, Carlomagno, Ferdinando di Castiglia, Goffredo di Buglione. Il sesto è Lotario, identificato dall’iscrizione «Lotharius imp. Pontificae libertatis assertor». Questi dati rimanevano evidentemente validi al tempo di Clemente VII; lo erano anzi più che mai, in quanto i problemi del pontificato di Clemente tendevano a ripetere quelli della crisi del 1510-14, con poche differenze: la minaccia di dominazione esterna proveniva adesso dall’armata imperiale, l’exercitus caesareus, e non dai francesi, e la protezione divina non si manifestava più con miracoli. Se i problemi della politica contemporanea si leggevano nelle Stanze, per così dire, in trasparenza, la Stanza di Costantino pone un problema particolare. La cronologia e la esecuzione delle decorazioni sono state oggetto di vivaci discussioni15. La concezione di questa quarta Stanza risale al pontificato di Leone X (morto il 1° dicembre 1521) e il piano generale a Raffaello (morto nell’aprile del 1520). Giulio Romano prese in mano le operazioni nell’estate del 152016. Si tratta di sapere se quei troni pesanti, schiacciati dalle virtù, fossero già
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stati previsti per questa stanza. In ogni modo, la loro esecuzione porta il segno dello stile potente, e se possiamo dire, della brutalità di Giulio, che, in un certo senso, si accorda benissimo con il tema della «monarchia» pontificia. La realizzazione ha comportato una battuta d’arresto, precisamente fra la morte di Leone X e l’avvento di Clemente VII nel novembre 1523, cioè durante il regno dell’olandese Adriano VI, precettore di Carlo V quando il giovane principe era andato a studiare a Lovanio. Adriano era un pontefice austero, riformatore, che non nascose la sua antipatia e perfino l’avversione per quelle decorazioni del Vaticano. I lavori della quarta Stanza furono sospesi e un grande scompiglio regnò nella bottega di Raffaello. Questo intermezzo sgradevole durò soltanto venti mesi. Tra la fine del 1523 e l’autunno del 1524, che vide la partenza di Giulio per Mantova, la decorazione fu finalmente portata a termine. Gli emblemi, appropriatamente distribuiti lungo tutta la decorazione, indicano, in linea di massima, sotto quale pontificato ogni composizione sia stata dipinta. Lo spiegamento completo degli emblemi di Leone X si trova nella Stanza dell’Incendio, con i «motti»: semper, suave, glovis17 che si ritrovano nella Stanza di Costantino, nei fregi superiori di due dei finti arazzi: l’Apparizione della Croce e la Battaglia. Sugli altri appare un emblema legato a Clemente VII, una sfera di cristallo colpita dal sole, con il motto candor illesus, una mirabile sottigliezza. Vi sono associate tre penne sopra al Battesimo e si erge sola sopra la Donazione18. Questa indicazione importante ècompletata dal motivo delle cariatidi disposte sopra ai sei pontefici troneggianti nelle nicchie. Su tre delle pareti, queste figure portano il motto iugum suave di Leone X; sulla quarta, quella dell’ingresso, in cui si vede la Donazione, le figure sono diventate Apollo e Diana con la sfera di cristallo e una piccola messa in scena di candor illesus, ripetuta nella strombatura della finestra a
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oriente. Secondo queste indicazioni, è sembrato ragionevole concludere che la parete della Donazione data interamente alla fase di ripresa sotto Clemente, dopo il completamento del Battesimo, che dev’essere stato contemporaneo. Fra gli otto pontefici inquadrati dalle virtù, quattro scene evocano con una forza quasi aggressiva episodi storici raffigurati di rado. Prima di tutto l’azione e il trionfo di Costantino: l’Allocuzione alle truppe e la Visione della Croce e la Battaglia del Ponte Milvio. Le altre due «storie» mettono in evidenza il ruolo del papa Silvestro I di fronte all’imperatore: il Battesimo di Costantino e la Donazione della Città di Roma a san Silvestro. Tutto qui è romano: i paesaggi nelle due prime composizioni; gli edifici – il Laterano e San Pietro – nelle seconde. Se si radunano tutti gli elementi di questo riassunto grafico, vi si trova, dopo la lunga difesa della natura divina dell’istituzione e il primato dello spirituale sul temporale, la più autoritaria delle rivendicazioni che mai sia stata fatta della legittimità delle pretese pontificie: a) nei riguardi dell’imperatore, rappresentato qui da Costantino, e b) sulla città di Roma e lo Stato di San Pietro. Forse non è stato abbastanza sottolineato fin qui, ma erano precisamente questi i problemi piú scottanti del momento. L’ammonizione contenuta in questa sala coincide con ciò che e stato cosí violentemente negato nel 152719. Per rendere con forza ancora maggiore la dimostrazione e il richiamo a principî basilari, le effigi dei due papi medicei sono state introdotte in questa sala, che serviva da anticamera agli appartamenti pontifici. Le figure sotto il baldacchino hanno certo fatto parte del programma iniziale e dovevano riassumere la catena dei papi da san Pietro a san Silvestro, il papa che battezzò Costantino20. L’identificazione di Leone X è indubbia, in ragione di un celebre disegno a pastello di Giulio Romano21; quanto a Clemente egli appare, fatto piutto-
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sto eccezionale, in due versioni: imberbe, cosí come era prima del sacco, e barbuto, come l’ha raffigurato Sebastiano del Piombo verso il 1532. In queste ricostituzioni storiche, l’erudizione archeologica gioca un ruolo considerevole22; ne risulta un effetto globale di dispersione e di terribilità che è ben lontano dalla maniera di Raffaello, anche dalla cupa e drammatica Trasfigurazione. Gli elementi antichi, tratti dai rilievi degli archi di trionfo e della colonna traiana, sono posti in evidenza nelle vedute di Roma: il ponte sul Tevere con la silhouette delle statue, il mausoleo ricostituito, la piramide della tomba di Romolo, nell’Adlocutio; la linea sinuosa del Monte Mario a sinistra del Ponte Milvio, sul lato destro della Battaglia. Se il nano che si mette il berretto nell’angolo destro dell’Adlocutio – identificato con il buffone di Ippolito de’ Medici – stabilisce un legame con lo spettatore, non c’è nulla di simile nella Battaglia, che, invece, lo tiene a distanza. Le due scene in interni, ambientate nel Laterano per il Battesimo e nel vecchio San Pietro per la Donazione, instaurano un contatto con lo spettatore per mezzo di numerosi admonitores in abito moderno, perché si capisca bene l’attualità della scena23. È strano, ma non anormale, che queste strutture architettoniche familiari a tutti siano state un po’ semplificate per conferire alle due cerimonie una salda inquadratura di colonne24. Per due volte il vincitore di Ponte Milvio appare in atteggiamento rispettoso, sia dinanzi al pontefice che lo battezza che dinanzi al vescovo di Roma che ne accetta la donazione, con l’assenso manifesto del popolo romano. Non è soltanto interessante, qui, vedere riaffermata la dottrina papale, ma anche lo stile monumentale della disposizione, con la scelta premeditata delle figure allegoriche raggruppate a due a due a destra e a sinistra delle nicchie. È questa una delle primissime volte in cui compaiono queste personi-
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ficazioni che saranno indispensabili all’arte classica: formule retoriche tradotte in immagini allo scopo di mettere in mostra la dignità suprema dell’istituzione, che supera di gran lunga la dignità dei titolari che la incarnano; ma al tempo stesso questo corteo straordinario di Virtù li trasforma in eroi. I pannelli dello zoccolo sono dipinti a medaglioni, secondo il sistema già adottato da Raffaello nella Stanza della Segnatura, sotto il Parnaso. Sono illustrazioni poco esplicite, tranne due «quadri» nelle strombature, che sono stati incisi da Bartoli (s.d.) e Montagnani (1834). Qualcuno vi ha visto un’evocazione di san Gregorio, che scrive le sue omelie e altre opere edificanti, altri l’azione violenta di uno scultore che spezza gli idoli pagani. Se le scene si accordano con il tema dell’instaurazione pubblica e ufficiale della fede cristiana, ci si meraviglia un poco della scelta di san Gregorio, vissuto circa tre secoli dopo il tema storico della Stanza; si deve quindi intendere che questi pannelli furono attribuiti all’epoca di Gregorio XIII, il che, a dire il vero, sarebbe più appropriato25. La celebrazione della Chiesa romana non poteva essere più ripetuta e più solenne. Ma quest’insistenza implica un’intenzione polemica, un rifiuto calcolato dei temi antipapisti che innalzavano volta a volta l’Impero o il Concilio al di sopra del papa26. C’è forse anche nella Stanza di Costantino una punta molto precisa di attualità? Il quesito si pone a partire dal momento in cui si apprende che il progetto di Leone X non comprendeva inizialmente le due scene del Battesimo e della Donazione. Alla morte di Raffaello, nell’aprile 1520, «Sebastiano pictore in Roma», il futuro Sebastiano del Piombo, si sforza di ottenere la commissione della Stanza, rivendicata dagli allievi di Raffaello e attribuita invece a Giulio Romano.
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Avendo bisogno dell’appoggio di Michelangelo, Sebastiano insiste perché intervenga in suo favore, presentando, a quanto pare, la situazione sotto una luce un po’ migliore di quanto non fosse. Pertanto, il 6 e il 7 settembre viene invitato a indicare il suo programma per la futura Stanza, basato su quello che il papa stesso aveva espressamente detto: l’apparizione della Croce, una battaglia, poi «una presentazione dei prigionieri» all’imperatore, e, sull’altra parete, «i preparativi del fuoco destinato a scaldare il sangue dei fanciulli»27. La scelta non era molto felice. L’ultima scena, tratta dalla Leggenda aurea (tradotta in inglese nel Quattrocento da William Caxton, su una versione francese contemporanea della duecentesca opera in latino di Jacopo da Varagine, Vite dei Santi), era presa dal resoconto del giorno di san Silvestro, il 31 dicembre, in cui si racconta come l’imperatore, colpito dalla lebbra, doveva essere curato con un bagno di sangue, al quale rinunziò per pietà verso le vittime. Tale autosacrificio gli valse la visione dei santi Pietro e Paolo, l’incontro con san Silvestro e il battesimo. Le altre due scene dovevano sottolineare, senza dubbio, la potenza e la grandezza imperiale. Il tema cambiò completamente quando il programma fu definitivamente rielaborato sotto Clemente VII. Il Battesimo, che sostituisce con vantaggio il Bagno di sangue, dovette essere stato dipinto durante la campagna del 1520-21, poiché vi si legge a destra l’iscrizione «Clemente VII Pont. max. a Leone coeptum consumavit mdxxiii», e compaiono gli stemmi di entrambi. Sotto la Donazione, nulla di simile; il tema sembra emergere solo all’ultimo momento nella fiera iscrizione sulla colonna di destra «Ecclesiae dos a Constantino tributa». Perciò il programma può essere stato modificato in extremis. Le due scene principali sono state talvolta giudicate così inopportune che furono considerate una prova sorpren-
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dente di mancanza di irrealismo politico28. La mia opinione, invece, e che si tratti di una cosa assolutamente voluta. Oggi sappiamo che il battesimo impartito da Silvestro a Costantino e una leggenda che compare soltanto nel v secolo, così come la donazione della città di Roma non è menzionata prima del periodo di Stefano II nel secolo viii. Lorenzo Valla, e poi Erasmo, hanno analizzato i testi e dimostrato il falso29. Tuttavia la critica radicale della Donazione, redatta verso il 1440 da Valla nell’opuscolo De falso credita et ementita Constantini donatione, non fu pubblicata nel secolo xv; la sua tesi era comunque conosciuta e la comparsa nel 1478 e 1480 dei racconti leggendari della vita di Silvestro testimonia che gli ambienti romani rifiutavano istintivamente questa nuova diminuzione di autorità. Se l’opuscolo del Valla rispondeva a un atteggiamento critico nei riguardi del potere temporale, non era affatto una dichiarazione di guerra da parte dell’autore al papato30, e non lo fu neppure quando venne pubblicato nel 1506. Lo divenne improvvisamente nelle mani di Ulrich von Hutten che lo stampò nel 1518 e 1519. La riedizione del 1520 del testo del 1506, reca una denuncia decisa dell’autorità politica, destinata a completare quella dell’autorità religiosa fatta da Lutero. Nell’eccitazione antiromana del terzo decennio, un autore ceco trovò una prova ulteriore in questo duplice attacco al potere papale, arrivando al punto di negare la venuta di San Pietro a Roma. Era voler provare troppo e l’opera non fu accolta con favore neppure dai Luterani31. L’attacco di Hutten non consentiva più di accontentarsi dell’atto di Costantino. Su questo punto il programma antico aveva bisogno di essere reso attuale: nel 1523 si scatena la polemica generale32. Non vi si risponde con discorsi, o per lo meno non ancora, ma con affreschi. Secondo il Vaticano, i supposti rapporti tra Costantino e Silvestro sono l’illustrazione simbolica di una isti-
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tuzione divina, impossibile a contestarsi, che conferma il dono di Roma al papa e la superiorità del suo vescovo sull’imperatore. Lo provano le iscrizioni e i molteplici particolari, che datano dal 1524; ci è voluta una grande abilità per stabilire inequivocabilmente questi due punti33. Perché la Stanza, situata, come si ricorderà, all’ingresso degli appartamenti pontifici, era destinata alle riunioni ufficiali in cui si trovavano riuniti il Sacro Collegio dei cardinali e il corpo diplomatico. Consideriamo, ad esempio, la curiosa inserzione di due rilievi in stucco sulla parete nord. Uno di essi rappresenta l’adventus pontificalis, ossia l’entrata solenne del papa a Roma su un cavallo bianco: «equo imperiali cappa purpurea et aliis regalibus insignis ornatus», secondo la formula che si legge in un testo del secolo xii34. Il rilievo ricorda una scena che si trovava soltanto nella chiesa dei Santi Quattro Coronati a Roma e risaliva alla lotta per le investiture35. Il richiamo storico e indubbio e tutti capivano il significato di queste rappresentazioni, nel clima degli anni venti. Era il momento in cui circolava, tra altre raccolte profetiche, l’opuscolo gioachimita dei Vaticinia de summis pontificibus36, ristampato nel 1525, che interpretava i ritratti simbolici dei papi37. Vi compare il papa sul cavallo bianco, che annunzia gravi turbamenti per la Chiesa. Ma il fatto più sorprendente è che gli stessi temi, le stesse immagini erano parimenti al centro della denuncia accanita dell’autorità romana da parte dei Riformatori tedeschi, il cui movimento era adesso in pieno vigore. La seconda edizione dei Vaticinia era stata dedicata a Clemente, ma un’altra edizione della stessa raccolta, stampata da Hans Sachs nella primavera del 1527 a Norimberga, fu diffusa da un ministro luterano, Andreas Osiander; il suo commentario interpreta i simboli nel senso della fine dell’istituzione papale: vi si vede, ad esempio, un personaggio con la falce e la rosa. Secondo Osiander, questo simbolo indi-
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ca Lutero stesso, il quale approvò caldamente quanto alla falce, meno quanto alla rosa38. La dottrina del Vaticano era adesso il bersaglio di un nuovo genere di polemica. Come è stato spesso notato, la contestazione antiromana si era espressa con immagini; le caricature e le figure satiriche avevano conquistato la massa del popolo alle idee luterane. Fu il primo frutto dei nuovi media che consentivano la moltiplicazione all’infinito dei testi e delle immagini: la stampa e l’incisione, che avevano tutt’al più mezzo secolo di esistenza, permisero la trasformazione rapida e decisiva del pensiero della cristianità settentrionale39. Ma forse non è stato abbastanza evidenziato in precedenza il fatto che tutta questa azione ha ripreso esattamente i temi dominanti del pensiero romano, ma capovolti; al dogma della natura provvidenziale della Città e all’istituzione divina dell’autorità pontificia, si oppone la rappresentazione implacabile di Roma-Babilonia e del papa-Anticristo. E questa contestazione radicale dispone ora di mezzi nuovi.
Il papa-Anticristo. Intorno al 1520, qualsiasi allusione al papa di Roma, qualsiasi raffigurazione della sua persona o del suo ruolo, assumeva al nord delle Alpi una connotazione ostile, sgradevole e insolente. La simbolica pontificia e il cerimoniale romano diventarono sospetti e colpevoli. Aldegrever incorona la Superbia con una tiara. Baciare il piede, vecchio rito conosciuto attraverso innumerevoli rappresentazioni40, fu denunziato da Lutero e raffigurato in modo quasi ossessivo nelle stampe. Nella serie dei «Fanciulli planetari», Georg Pencz, ne ha fatto il centro della tavola illustrando, sotto il segno di Giove, il principio del potere terreno; non vi era nulla di simile
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nella tavola fiorentina che gli era servita da spunto. Nelle serie macabre sull’universalità della morte, H. Holbein e H. Aldegrever scelsero, per la parte riguardante il papa, una scena in cui un principe bacia rispettosamente il piede al pontefice in trono41. Nel Passional di Cranach, questo tema contrasta deliberatamente con la evangelica Lavanda dei piedi. La grande innovazione nel campo dei libelli illustrati doveva essere il Passional Christi und Antichristi, pubblicato verso la meta del 1521 dall’editore Grunenberg. Si suppone che l’opera sia uscita poco dopo la riunione della Dieta di Worms. Melantone e il giurista Johann Schwertfeger erano così decisi a trasformare l’opuscolo in un’arma efficace che ordinarono delle citazioni bibliche contro le Decretali. Ne uscì una edizione latina: Antithesis figurata Vitae Christi et Antichristi. Ma quella che contò veramente fu l’edizione tedesca destinata alla massa del pubblico laico. In una seconda edizione, l’incisione II – il Cristo e Pietro nella foresta – fu sostituita dalla Crocifissione. Delle copie con xilografie furono inviate a Erfurt e a Strasburgo; la diffusione fu considerevole42. L’incontro di Lutero e di Cranach è, a questo riguardo, un grande avvenimento: l’artista divenne il ritrattista dei Riformatori. Il Passional fu l’opuscolo più originale e più efficace mai concepito; secondo Lutero «ein besonders für Leien gutes Buch» *. Col suo simbolismo semplificato divenne il messaggio popolare per eccellenza, e non c’era possibilità che venisse frainteso. Il successo fu tale che nel 1536, nella grande sala del castello di Torgau, Cranach raffigurò l’ascesa al cielo e la caduta all’inferno, che concludono l’opuscolo43. Nel 1520 Lutero aveva pubblicato, in risposta alla scomunica, un commento della «Bolla dell’Anticristo», seguito immediatamente da un opuscolo, De captivitate babilonica Ecclesiae. Il conflitto tra li monaco agostiniano e il papa non aveva ancora una grande risonanza al
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di fuori degli ambienti clericali. Solo negli anni seguenti desterà un vasto interesse popolare e solleverà una ribellione dalle conseguenze incalcolabili, in particolare con il Passional Christi und Antichristi. Questo libello consisteva in tredici raffigurazioni affrontate del Bene e del Male, cioè il Cristo dei Vangeli e il papa, semplicemente commentate da un passo della Scrittura, in tedesco44. Lucas Cranach aveva trovato le illustrazioni-chiave per sostenere la dimostrazione che il papa di Roma aveva invertito la dottrina evangelica. Egli esercita il potere temporale mentre il Cristo rifiuta la corona; il tempio è un antro di ladri; e, mentre il Figlio di Dio sale al Cielo, la Bestia e il suo falso pontefice vanno all’Inferno. Abbiamo qui una confutazione completa e quasi parola per parola della dottrina delle Stanze del Vaticano; il papa-Anticristo ha i lineamenti di Leone X e le allusioni alla corte romana sono precise e ben scelte; ad esempio, l’illustrazione del torneo del Belvedere associa il papa all’aristocrazia guerriera, mentre il Cristo viveva fra gli umili. La rispondenza è così netta che si può immaginare in Cranach e in Lutero la volontà di replicare – questa volta a un livello popolare – alla dimostrazione data da Raffaello. Durante i venti mesi del regno di Adriano VI, il Passional non poté essere ignorato da Roma. Perciò il compimento della Stanza di Costantino nel 1524, con la sua affermazione della legittimità del potere temporale e la sua trionfale insistenza sulla Virtù dei pontefici, può e anzi deve essere considerato la risposta dottrinale di Roma. Tutte le critiche sollevate nel corso dei secoli contro l’istituzione del papato si trovavano raccolte, messe insieme, diffuse in un librettino portatile fatto tutto di illustrazioni. Questo non era che il primo passo di una campagna che si sarebbe ampliata straordinariamente in una guerra di immagini. La satira, però, non e tutto: contemporaneamente alle stampe nate da questa pole-
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mica fioriscono i fogli tratti dall’Apocalisse; questi intrattengono l’idea di una catastrofe mondiale imminente, rivelano quanto gli spiriti siano ossessionati dai presagi e dalle visioni profetiche di ogni genere. Il clima si appesantisce sotto questo sbarramento di segni celesti, di annunzi terrificanti; il pensiero escatologico sale si gonfia, riprende vecchi temi e, apparentemente, turba tutti45. Il primo stadio si stabilisce facilmente. Nell’autunno del 1522 esce la Bibbia tedesca, il September Testament di Lutero, a Wittenberg46. Solo l’Apocalisse è illustrata e le 21 tavole, opera di Cranach e della sua bottega, sono rese tutte attuali: così, a tav. 1, cavalieri e soldati recano allusioni anti-papiste; a tav. 11, il mostro che attacca i due testimoni ha la tiara; a tav. 16, la Bestia sul trono porta la tiara e, del pari, la Grande Prostituta della tav. 17. Questi attacchi erano così espliciti che offesero il duca di Sassonia. In dicembre la nuova edizione eliminò la triplice corona, inopportuna. Ma l’essenziale era stato detto in altro modo, sebbene sempre per immagini: a tav. 14, il crollo di Babilonia e il tema dell’intera illustrazione, a differenza della corrispondente stampa di Dürer, dove la distruzione della città maledetta per mezzo del fuoco celeste non compare che in margine alla scena. Cranach l’ha staccata, e se ne capisce il perché: il panorama della città condannata è direttamente trasposto dall’imago Romae di Hartmann Schedel (1493), che abbiamo già citato47. Si era così formato il contro-mito di Roma-Babilonia; e in questa utilizzazione del tutto nuova dei mass-media, il bersaglio principale era la Roma pontificia, ossia da una parte l’istituzione e dall’altra la città stessa, l’imago, che ne è il simbolo. I punti della denuncia sono semplici, e ripetuti con una violenza altrettanto terribile quanto monotona: città della corruzione abitata dal diavolo; città della falsa religione governata dall’Anticristo;
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in breve, città del male identificata con la città mostruosa dell’Apocalisse e, come questa, destinata a essere distrutta dall’azione divina perché possa emergere la vera religione. Non si tratta più dei temi anticlericali comuni alle polemiche di quei chierici moralizzatori come Petrarca o Erasmo, o agli attacchi feroci degli eresiarchi nordici come Wyclife, ma di una denuncia globale in cui le critiche tradizionali vengono a fondersi in un odio in certo qual modo metafisico, un orrore immediato ispirato dall’immagine48. In questa fase, l’intervento degli artisti è importante, se non fondamentale. Ma il caso di Hans Holbein è diversissimo da quello di Cranach49. Holbein collaborò a parecchie pubblicazioni luterane; per l’edizione dell’Antico Testamento nella traduzione di Lutero, pubblicata da Thomas Wolff a Basilea verso la fine del 1523, eseguì un gruppo di xilografie che riprendono il modello di Wittenberg. Ma, come è stato chiaramente dimostrato, questo intervento fu puramente professionale e non comportava affatto un impegno ideologico. Tuttavia, ci sono due stampe che suggeriscono una partecipazione incontestabile al conflitto antiromano. Nel Cristo vera luce che appare in un calendario stampato da Johann Copp a Zurigo per il 1527, l’abisso a destra aspetta Platone, Aristotele, gli scolastici e il papa, mentre i veri credenti si dirigono verso il Signore; la simmetria della composizione riporta ogni cosa nello spirito della polemica protestante. L’altra stampa, Il traffico delle indulgenze, è una caricatura virulenta, che mostra a sinistra il perdono del Signore e a destra l’indegno commercio al quale presiede il papa; gli stemmi a rilievo indicati nello sfondo mostrano chiaramente che si tratta di Clemente VII. Si è supposto che entrambe le incisioni fossero state fatte in occasione di una Disputatio, la prima probabilmente per Farel nel marzo 1524. Sarebbero dunque opere su ordinazione, che ci illumi-
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nano sul tono assunto dalla polemica, e non necessariamente sullo stato d’animo di Holbein. La famosa xilografia colorata dell’Hercules Germanicus, di cui vi è un solo esemplare, sembra, almeno, una leale testimonianza dell’ammirazione dell’artista verso Lutero. Eppure, forse anche qui non abbiamo che un documento di circostanza; Holbein ha potuto al massimo dare lo schizzo, perché la stampa non è al livello del suo disegno. Inoltre, sarebbe stata elaborata per certi amici di Erasmo, non del grande Riformatore, l’immagine di colui che la folla scambia per un Ercole tedesco – con il papa appeso al naso50 – raffigurazione alquanto ironica. La dissacrazione di Roma poteva avvenire solo attraverso quel che si potrebbe chiamare una «diabolizzazione», ossia una santificazione rovesciata. Tutta la cristianità gravitava intorno a questa città, che era la meta di tanti pellegrinaggi, grazie ai quali l’imago urbis si era diffusa in Occidente. Secondo quanto anche il ciclo monumentale del Vaticano aveva solennemente riaffermato, tutti pensavano che la città beneficiasse di uno statuto storico privilegiato. Ben lungi dall’affievolirsi, questo concetto di Roma aeterna era alimentato nell’ambiente pontificio da ogni genere di speculazioni sapienti51. Negli scritti di Egidio da Viterbo, Roma è la città santa, dove si compie la storia umana: la morte di Pietro, la conversione di Costantino, il rinnovamento in corso ai tempi di Giulio II e di Leone X52. Egidio era un monaco agostiniano come Lutero. È verosimile che si siano incontrati durante il soggiorno di Lutero a Roma nel 1510-11, che lo aveva fortemente disgustato. Lutero si ricordò che Egidio aveva denunziato gli abusi e i disordini della corte pontificia. È vero; ma Egidio attaccava le malefatte dell’ambiente romano e si doleva di «questa Babilonia», perché aspettava un rinnovamento spirituale che avrebbe fatto di Roma la nuova Gerusalemme. Per questo teologo, che riassume tutto un aspet-
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to del pensiero teologico al tempo di Giulio II e di Leone X, il cristianesimo raccoglie l’eredità ebraica e pagana. La Chiesa utilizza il luogo, gli edifici, i simboli stessi da lei sostituiti: Giano, divinità romana, porta le chiavi come San Pietro. Questa vocazione trae seco necessariamente lo splendore e la monumentalità. L’istituzione ha bisogno di essere riformata, i costumi devono essere purificati, ma le esigenze del culto divino, come il prestigio di Roma, richiedono un certo lusso nella liturgia e splendore di ambiente. Pertanto Egidio incoraggiava Leone X a proseguire l’opera gigantesca del nuovo San Pietro. Approvava la campagna delle vendite d’indulgenze per ottenere i fondi tanto necessari, senza supporre la ribellione che queste stavano per provocare, o meglio far precipitare in Germania. Invece di attenuarsi, le cause del conflitto e le incompatibilità si moltiplicavano di anno in anno. La potenza stessa delle forze che spingevano gli umanisti romani a celebrare il provvidenzialismo cattolico portò coloro che lo rifiutavano a scandalizzarsi delle esibizioni di fasto, dell’impegno nel cerimoniale e delle inclinazioni profane, di cui si aveva quotidianamente spettacolo. L’antagonismo era così profondo che si manifestava in due modi di discorsi figurativi totalmente opposti: la tradizione della pittura monumentale mediterranea al culmine dei suoi poteri da un lato, l’arte diretta, popolare, rapida delle stampe settentrionali dall’altro, che diventa per la prima volta nella storia una forza importante della vita culturale e religiosa53. Roma non utilizzava le armi adeguate, i media moderni; non poteva sperare di vincere. In una lettera ad Alberto di Brandeburgo nel 1525, Lutero dimostra fino a che punto fosse cosciente del ruolo delle immagini polemiche; scriverà, vent’anni più tardi, nel suo feroce trattato, Wider der Päpstum zu Roma vom Teufel bestifft, la celebre frase: «Ho pubblicato queste figure e queste immagini di cui ognuna rap-
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presenta tutto un volume, che bisognerebbe ancora scrivere, contro il papa e il suo regno. Oh! come la troia si rivoltolerà nel suo letamaio!»54. L’Anticristo e i pronostici. La Riforma, che prendeva rapidamente coscienza della propria forza nazionale e della propria responsabilità storica, era una somma di aspirazioni e di rivolte di cui nessuno poteva prevedere il modo di organizzarsi. Intorno alla formidabile energia polemica di Lutero, tre gruppi tendevano a formarsi: gli intellettuali, eredi della critica umanistica delle istituzioni religiose; i germanisti antiromani, preoccupati dell’autonomia e della dignità della nazione tedesca; i predicatori popolari, interpreti dei malesseri sociali. Appena raggruppatisi, costoro, già dal 1525, incominciarono a separarsi, a litigare. Ma, fra gli atteggiamenti comuni che potevano riunirli, quello più profondamente condiviso, insieme all’aspirazione a uno stato più puro, più «primitivo» della vita cristiana, era un intenso sentimento drammatico, l’attesa della catastrofe55. Nulla di più diffuso, di piú comune – vi partecipano del pari il popolino e i teologi – che la credenza nella venuta dell’Anticristo. «In papatu nihil magis celebre ac tritum est quam futuri Antichristi adventu», dirà Calvino, con il comprensibile disprezzo per la visione fantastica e superstiziosa legata a questo grande mito escatologico56. Nella Germania del secolo xv, ebbe grande diffusione la favola dell’antimessia grazie a due sistemi rappresentativi estremamente popolari: il teatro e le stampe. Facendo leva sull’antisemitismo delle masse, alcuni misteri, rappresentati in maniera efficace, evocavano una orrenda cospirazione anticristiana che talvolta faceva ridere a spese dell’alto clero, beffeggiato, ma
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talvolta si concludeva con l’annunzio meno buffonesco della venuta di Enoch e di Elia. La satira dei «Pazzi» e l’irrequietezza religiosa si alternavano; si mescolavano in miniature e xilografie strane, come quelle della «Nave dei Pazzi»57. Alla vigilia del sacco di Roma, non si trovano in Italia che calcoli superstiziosi e ossessioni. Tutti i fatti un po’ sorprendenti sono «segni»58. L’interazione della politica, dei sogni collettivi e della simbolica, è costante. Nel 1496 avevano pescato, a Roma, un bizzarro mostro che i nemici del papa chiamarono subito «Papstesel» (l’asino del papa); nel 1522, in Sassonia, apparve un altro mostro, metà vitello - metà monaco. Melantone e Lutero non esitarono a pubblicare un’esegesi di quei fenomeni straordinari, da cui risultava, evidentemente, che la fine del papismo e del monachesimo era vicina59. A. Warburg, F. Saxl e, piú recentemente, J. Baltru∫aitis hanno mirabilmente dimostrato che nel Rinascimento c’era stato un improvviso risveglio per la teratologia e una specie di mania per gli auspici. Quest’attenzione ai presagi s’intensificava notevolmente intorno al 1525. «Portenta et omina» ispirano le immagini fantastiche della raccolta De prodigiis di Polidoro Virgilio del 152660. Si possono misurare la profondità dell’ansia e lo smarrimento generale, in una situazione piena di avvenimenti mal definibili e di annunzi inquietanti, dall’ampiezza e dalla diversità dei pronostici di qualsiasi ordine. La brusca crescita dell’escatologia è innegabile61: non c’era apparentemente altro modo di manifestare un’angoscia generale. Se vi è un solo elemento caratteristico di quel periodo, è il miscuglio di calcolo e di rassegnazione determinato dalla dominante ossessione dell’astrologia62. In un succedersi incredibilmente rapido, ogni anno sono annunziati eventi spaventosi, catastrofi o riparazioni che impegnano il destino della cristianità. Non appena un pronostico è superato, un altro ne
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sorge con una colorazione politica diversa. La veneranda scienza del cielo, con le sue immagini antiche e le sue formule arabe, tiene vivo un senso di fatalismo corretto soltanto dall’opportunismo e dalla facilità di dimenticare. Talune indagini sono potenzialmente pericolose. La polemica sulla dottrina delle grandi congiunzioni, dovuta ad Abu Masar, è una minaccia alla solidità della fede perché, tanto per i «congiunzionisti» come per l’autore della Summa iudicialis de accidentibus mundi, i cicli astrali, attraverso le grandi rotture, annunciano i cambiamenti del potere e quelli della religione63. Un’indagine fondamentale viene quindi intrapresa dagli studiosi delle scienze fisiche e della storia naturale in Italia. I pronostici sono così numerosi, incrociati e contraddittori che si deve parlare di uno stato di eccitazione collettiva dove ciascuno sviluppa una profezia che dovrebbe battere le altre. Queste profezie si traducono in pamphlets o in opuscoli, spesso illustrati. E in questo settore se ne trovano tanto in Italia quanto in Germania, poiché le due culture sono rivali nell’attività «scientifica». In un certo numero di casi il pronostico si lega così da vicino al concatenarsi degli avvenimenti effettivamente realizzati, che si è costretti a interrogarsi sull’autenticità del testo, cioè a chiedersi se la data che porta non sia falsificata. Un Prognosticon di un astrologo italiano, Torquato, la cui prima edizione compare nel 1534 in latino e nel 1535 in tedesco, viene presentato come un messaggio rivolto al re d’Ungheria Mattia Corvino, e datato 148o: vi sono previsti lo scisma tedesco, la disfatta di Pavia e il sacco di Roma; eventi che preparano la purificazione della Chiesa e il trionfo dell’Impero sulla Francia e sui turchi. Si può solo supporre che si tratta di un annunzio post eventum64. Tutti i pronostici rivendicavano l’autorevolezza di un testo antico,
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di una dottrina dimenticata, di un astrologo del passato. Questa letteratura astrusa avocava a se tutto un passato di profetismo associato a movimenti mistici, e cercava sostegno nell’autorità di alcune grandi figure unanimemente rispettate. Il ritorno d’interesse per Gioacchino da Fiore ne è l’espressione più notevole65. Egidio da Viterbo si appoggia sulle sue prospettive simboliche, come fanno, dal canto loro, i riformatori. Aby Warburg ha messo in chiaro, qualche anno fa, la meravigliosa storia della congiunzione che doveva accadere nel novembre 1484 fra Giove e Saturno nello Scorpione, il che doveva significare niente di meno che un mutamento di religione66. Tutti i dotti italiani e tedeschi hanno rivolto grande attenzione a questo problema, prima e soprattutto dopo la data fatidica, in cui non accadde nulla di speciale. Un astrologo, Lichtenberger, pubblicò nel 1488 una pronosticatio studiando le conseguenze della congiunzione. Essa fu ripubblicata, come per caso, nel 1526 e nel 1528. Al cap. xxxiii tratta dell’apparizione di un falso profeta. Nella cerchia di Lutero, tutti avevano gli occhi fissi sulla data di nascita del grande Riformatore: 22 ottobre 148467. Va da se che il suo oroscopo era l’argomento del giorno. Su di un esemplare della pronosticatio qualcuno aggiunse un riferimento ad esso. Tutto si trovava spiegato. E al cap. xxxv, si legge: «L’imperatore entra a Roma, facendo regnare il terrore: i romani fuggono, chierici o laici, nei boschi, ma molti sono massacrati». Gli annunzi catastrofici: inondazioni, piogge di fuoco, devastazioni capaci di provocare vero panico, non finivano più. Si sono contati 56 autori e 133 opuscoli a base di presagi e di calcoli astrologici per gli anni 1520-30. Le due ossessioni che ricorrono costantemente sono la fine del mondo e la distruzione di Roma e del papato. Nella Prognosticatio di J. Carion, del 1521, un disegno esplicito mostra l’imperatore (Sole), il contadi-
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no (Saturno), il papa (Giove) e il cavaliere (Marte) che formano una composizione talmente inquietante che Warburg l’ha commentata in questi termini: «Senza il testo si potrebbe credere che il sacco di Roma per opera dei lanzichenecchi tedeschi fosse già rappresentato»68. Nella serie dei «Quattro temperamenti» (1528) liberamente tratti da un libretto di Hans Sachs, E. Schön ha curiosamente scelto il pontefice come un improbabile modello per esporre i diversi effetti del vino. Il tono satirico è evidente; la tavola che illustra il temperamento malinconico presenta, come il frontespizio di Carion, l’attentato di un cavaliere contro il papa69. Nulla è più significativo della violenza antiromana d’ispirazione germanica e insieme luterana, che il frontespizio del Gespräch Büchlin di Ulrich von Hutten, edito a Strasburgo nel 152170, che rappresenta la collera antipapista con un assalto di lanzichenecchi contro una folla di cardinali, teologi e pontefice. Nella fascia in alto, il Signore impugna la freccia della vendetta mentre Davide presenta una tavoletta con l’iscrizione: «exaltare qui iudicas terram, redde retribut[um] superbis». Parimenti, in un opuscolo anonimo in favore dei contadini apparso a Norimberga nel 1525 sotto il titolo An die Versamlung gemayner Bawerschafft, il frontespizio pone in evidenza la caduta del papa trascinato dalla ruota della Fortuna, intorno alla quale si affrontano «die Romanisten und Sophisten», ben presto vinti, e «die Bawerssmann güt Christen» con le picche71. Così, mentre la dottrina ostentata dai papi medicei – che di fatto corrispondeva al pensiero tradizionale della Chiesa – proclamava l’invulnerabilità della città pontificia, tutto cospirava per fare dell’umiliazione della Santa Sede e della distruzione della città eterna una catastrofe necessaria. Il subcosciente collettivo, in Italia come in Germania, era scosso dalla credenza popolare nei presagi e nei segni celesti: l’attentato contro
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Roma era considerato sintomatico della crisi finale del mondo cristiano. Per i luterani, dal punto di vista religioso, il saccheggio simbolico della Città diventava un’operazione indispensabile per il rinnovarsi della Fede cristiana. Questi timori e queste pulsioni oscure trovarono un punto di cristallizzazione nella tensione che seguì il 1525. La politica imperiale, come quella papale, si infilò in un processo di sviluppo fatale, dai particolari sorprendenti, ma che rispondeva bene alle idee fondamentali dell’ambiente di Carlo: il papa, ministro delle anime, deve essere subordinato all’Impero, amministratore del mondo. Riviveva la vecchia idea ghibellina, come ai tempi di Dante, con una forza straordinaria. I presagi poetici la celebravano, quando l’Ariosto, ad esempio, scriveva nel canto XV la famosa profezia di Astolfo: Del sangue d’Austria e d’Aragona io veggio nascer sul Reno alla sinistra riva un principe, al valor del qual pareggio nessun valor ...72.
Una corrente cavalleresca, aristocratica ed epica, la cui diffusione è stata aiutata dalla vanagloria militare e dai simboli tradizionali del potere, s’impadroniva di tutta una generazione sia in Spagna sia in Francia. Dietro questo fervore c’erano immagini chimeriche e ambizioni illimitate. Una di queste era il possesso di Roma. Non furono però dei cavallereschi paladini, ma una truppa eteroclita di ventura, che, in nome dell’imperatore, prese Roma nella primavera del 1527, mentre tutti l’annunziavano e i principali interessati rifiutavano di credervi. Coloro che conservavano la mente fredda in mezzo a tanta confusione erano rari. Le decisioni politiche erano prese tra avversari, collaboratori o alleati le cui
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fantasie turbate e conturbanti potevano a ogni momento modificare il corso dell’azione. Guicciardini, che lo sapeva meglio di ogni altro, non poté trattenersi dall’osservare ironico a questo riguardo: «A troppo dura condizione sarebbono sottoposti a’ consiglieri de’ principi se fussino obbligati a portare in consiglio non solo discorsi e condizioni umane ma ancora giudicii di astrologi o pronostici di spiriti o profezie di frati»73. Ma che peso ha questa lucida riflessione di qualcuno che ha veduto fallire tutto, di fronte alle ossessioni e ai presagi che hanno permesso agli storici spagnoli di concludere che il sacco «a causa más que material?»74. Come prova del sempre maggior numero di espliciti segni sovrannaturali, un testimone spagnolo anonimo ha riferito il susseguirsi dei fatti successi ogni giovedì santo del pontificato dal 1524 in poi; al primo, nulla; al secondo, il velo dell’altare bruciò; al terzo, il tabernacolo del Santo Sacramento cadde durante l’officio; il quarto, un loco (un pazzo) si alzò in piedi e insultò il papa75. Gran caso si è fatto delle manifestazioni e delle stravaganze pubbliche di quel predicatore da strada, soprannominato Brandano («colui che brandisce»), che perseguitava Clemente. Il giovedì santo 18 aprile 1527, durante la benedizione pontificia dalla Loggia di San Pietro, Brandano comparve nudo vicino alla statua di San Paolo e gridò: «Bastardo sodomita, pei tuoi peccati Roma sarà distrutta; confessati e convertiti. Se tu non lo vuoi credere, fra quattordici giorni lo vedrai». Ricominciò il giorno di Pasqua a Campo de’ Fiori: «Roma, fa penitenza. Con te si procederà come con Sodoma e Gomorra»76. Come tutti i predicatori ambulanti, portava un crocifisso e un teschio. Divenne così importuno che fu incarcerato fino all’arrivo degli imperiali, che lo liberarono. Incidenti del genere hanno sempre accompagnato le grandi ansie collettive. Queste esplosioni esprimevano il
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medesimo tipo di isterismo che, provocato dal bombardamento degli annunzi profetici, era scoppiato in passato a Firenze. «Si era arrivati – scrive lo storico toscano Varchi – al punto che non solo i monaci sul pulpito, ma anche dei Romani andavano per le piazze proclamando non solo la rovina dell’Italia ma la fine del mondo, con alte grida minacciose. E non mancavano persone che, persuase che la situazione presente non potesse essere peggiore, dicevano che papa Clemente era l’Anticristo»77. Esempio perfetto di autoesaltazione. In termini identici, il cardinal Francesco Gonzaga annunziava la notizia nelle sue lettere: «Si po ben hora dire che N. S. Dio vol dare flagello a la Cristianità...» (da Roma il 7 maggio); «Se ha da stare in gran.mo suspetto che de dì in dì non si scoprano nove angustie et exterminii et che tutto il mondo habia da andare in fracasso et anichilatione: che si po’ fare fermo iudicio che Dio habia evaginato la spada dela iustitia et revoltato il vaso del’ira sua sopra la generatione humana» (da Ostia, il 16 maggio)78. La caduta di Roma significa necessariamente l’inizio dello sconvolgimento totale del mondo. Alla fine del 1526, l’Aretino aveva pubblicato a Mantova un libretto di pronostici per l’anno 1527 che, oltre a espressioni virulente contro Roma e la corte pontificia, conteneva, pare, una vera premonizione del sacco di Roma79. Agli inizi del 1527 comparve a Venezia un opuscolo intitolato Triompho di Fortuna, libro che permetteva di interrogare la sorte mediante dadi e caselle che rimandavano le une agli altri in modo da comporre, addizionandoli, una serie di presagi. L’incisione del frontespizio è attribuita con valide ragioni a B. Peruzzi80. Esiste un disegno preparatorio a Oxford con alcune varianti – il Pantheon e la costruzione chiamata Horologium di Augusto a San Lorenzo in Lucina – che consentono di affermare che il disegno è stato leggermente modificato per precisare le allusioni alla città di
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Roma. Il dado e l’astrologia rispondono allo scopo del libro. Il celebre orologio ricorda gli oroscopi o le date di nascita. Il globo dell’universo si trova sottoposto alla spinta di forze avverse, il bene e il male, che, in forma di un angelo e di un demonio, girano l’enorme manovella in direzioni opposte. Seduto sulla sommità, il pontefice romano, senza trono, inquadrato da due figure allegoriche, appare in uno strano stato di precarietà. Vengono subito in mente i pontefici dominatori e gloriosi raffigurati tre anni prima nella Stanza di Costantino, fra coppie di Virtù, che sembravano al di là di qualsiasi attacco. L’intenzione pare esplicita; si è voluto prefigurare in quell’inizio del 1527 uno dei momenti più difficili. Si tratta di un pronostico figurato, che riprende e adatta alla situazione critica del potere pontificio uno dei più vecchi motivi iconografici dell’Occidente. Non è più una dea capricciosa a far girare la ruota di Fortuna, e neppure la mano della Provvidenza. Conformemente a un’evoluzione generale di questi schemi simbolici, abbiamo una drammatizzazione della scena mediante l’azione contraria di due forze soprannaturali e un’individuazione della potenza in causa, di cui le due virtù sembrano suggerire ch’essa ha ancora qualche mezzo d’intervento sul corso delle cose81; non tutto evidentemente è perduto, l’angelo vincerà forse ancora. La sostituzione del globo terrestre alla ruota di Fortuna si impone in un trattato astrologico che ha a che fare coi pianeti; la fascia dello zodiaco attraversa obliquamente la sfera82. Quest’equilibrio complesso, o meglio questa confusione tra fatalità astrale, lotta delle forze sovrannaturali e azione umana – preghiera o decisione – descrive la gravità della situazione di Roma. L’imminenza del dramma si coglie dalla stranezza dell’immagine.
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 La prima guida di questo genere risale al 1150 circa, l’Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis Romae del canonico F. Albertini è datato 1510 (ristampato nel 1515, 1522, 1523). Cfr. scherer, Marvels of Ancient Rome cit. 2 Si veda la piccola guida tedesca delle Mirabiliae Romae, stampata circa nel 1475, ristampata in facsimile, Weimar 1904, con introduzione di R. Ehwald. È tipica delle guide della fine del secolo xv e dell’inizio del xvi, cfr. pollak e schudt, Le guide di Roma cit., p. 23. Dà quattro illustrazioni: pagina di sguardia: pellegrini e Santo Volto di Veronica (cappella angolo Nord Est di San Pietro); la leggenda di Romolo e Remo; Imperium Romae; Santo Volto, con le armi pontificie dei Della Rovere (Sisto IV). Sulla Veronica cfr. a. chastel, La Véronique, in «Revue de l’Art», n. 40 (giugno 1978), pp. 71-82. 3 Su Lutero a Roma, cfr. introduzione, nota 12. 4 renaudet, Erasme et l’Italie cit. 5 La cronologia e la dottrina delle Stanze sono esposte nell’opera di d. redig de campos, Le Stanze di Raffaello, Roma 1950. 6 Questa stanza fu incominciata, almeno nella decorazione a grottesche della volta, prima del 1521, poi intrapresa da Perino del Vaga, interrotta nel 1523 e terminata poco prima del 1527. Cfr. m. v. brugnoli, Gli affreschi di Perin del Vaga nella cappella Pucci, note sulla prima attività romana del pittore, in «Bollettino d’Arte», 47 (1962), pp. 327 sgg. Vasari, nella vita di Giovanni da Udine, si riferisce all’epoca di Clemente, in quella di Perino del Vaga, a quella di Leone X, per il tondo centrale. 7 Come lo ha perfettamente formulato R. Wittkower: «In expressing one event through the other, and meaning both, the painting becomes the symbol of an exalted mystery: the miraculous power of the Church, which remains the same throughout the ages, whether we are in the year 452 or 1513» (in Interpretation of Visual Symbols, 1955, ristampato in Allegory and the Migration of Symbols, London 1977, p. 180). 8 La fusione di questi due registri: teologico e contemporaneo, è stata analizzata da vicino nell’articolo di m. j. zucker, Raphael and the Beard of Pope Julius II, in «The Art Bulletin», 59 (1977), p. 524, che sarà anche utilizzato e completato nel cap. vi. 9 f. hartt, The Stanza d’Eliodoro and the Sistine Ceiling, in «The Art Bulletin», 30 (1950), pp. 124 sgg. Non seguiamo l’autore nella sua esegesi della Sistina. 10 zucker, Raphael cit., p. 530. 11 Sulle avventure militari del futuro Leone X, cfr. von pastor, Storia dei papi cit., vol. III, libro III, p. 816. 12 s. freedberg, Painting of the High Renaissance in Rome and Florence, Cambridge (Mass.) 1961, p. 152. 1
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 [Giulio II aveva ideato la tomba più grandiosa che sia mai stata costruita, ma Michelangelo incontrò talmente tante difficoltà in quella ordinazione che non fu mai portata a termine. Giulio fu sepolto in San Pietro, dove giace tuttora senza alcun monumento commemorativo]. 14 Cfr. cap. vi. 15 f. hartt, Raphael and Giulio Romano with Notes on the Raphael School, in «The Art Bulletin», 26 (1944), pp. 67 sgg.; j. hess, On Raphael and Giulio Romano, in «Gazette des Beaux-Arts», 32 (1947), pp. 86 sgg., espone un’opinione completamente diversa. La sua interpretazione ha suscitato le dure obbiezioni di Hartt, The Chronology of the Sala di Costantino, in «Gazette des Beaux-Arts», 36 (1949), pp. 301 sgg. Si veda anche j. shearman, The Vatican Stanze Function and Decoration, in «Proceedings of the British Academy», 57 (1971), pp. 3 sgg. Rolf Quednau, dell’università di Monaco, ha scritto una tesi sull’insieme dei problemi della Stanza di Costantino. Secondo questo autore la parte decorativa è stata concepita da Raffaello, come pure le scene storiche; il programma d’insieme è in rapporto con la destinazione ufficiale della Stanza. Cfr. Die Sala di Costantino im Vatikan Palast, New York 1979, pp. 448 sgg. Quednau ha concluso ch’esso fu «attualizzato» nel 1523. 16 Sull’importanza dei progetti di Raffaello cfr. j. sherman, Raphael’s unexecuted Projects for the Stanze, in Walter Friedländer zum 9o. Geburtstag, Berlin 1965, pp. 177-80; l. dussler, Raphael, München 1966, pp. 96-97. 17 [Glovis è la lettura anagrammata di sivolg o volgersi, rispecchia l’ossessione propria dei Medici riguardo alla resurrezione e al rinnovarsi]. 18 m. ferry, «Candor illaesus»: The «Impresa» of Clement VII and other Medici Devices in the Vatican «Stanze», in «The Burlington Magazine», 119 (1977), pp. 676 sgg. Questo studio, di cui seguiamo qui le conclusioni, ci sembra porre termine alla discussione fra J. Hess e F. Hartt sull’utilizzazione delle imprese. Il soffitto, che è stato rialzato alla fine del secolo xvi, era in origine più basso, dorato, sistemato con «imprese del suave», e disposto in modo da toccare la cima delle nicchie dei pontefici (shearman, The Vatican Stanze cit., n. 45). 19 «The association of the history of Constantine with the persons of the Papacy is of course generally sensible, and in the circumstances of this moment in the history of the Church it was evidently intended as a homily on the proper relation of the temporal and especially of the Imperial, to the papal, spiritual power: this room contains the admonition that was so drastically to be disobeyed in 1527» (freedberg, Painting of the High Renaissance cit., p. 570). 20 Come ha dimostrato hess, On Raphael and Giulio Romano cit., pp. 79 sgg., con l’aiuto delle Vitae Pontificum (1479) del Platina. Non 13
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 vi è dubbio che l’ordine primitivo è stato alterato dai ritocchi sopra le iscrizioni e dalle false identificazioni posteriori, destinate a mettere in valore il titulus dei papi regnanti. I due pontefici che inquadrano il Battesimo sarebbero quindi a destra Clemente I (e non san Leone I) e a sinistra Evaristo (e non Urbano I). Il primo, fra Innocentia e Veritas, raffigurerebbe Clemente VII, come appariva quando era cardinale e nei quattro primi anni del suo regno (identificazione confermata dalla raffigurazione originale di Candor illesus segnalata sopra, nota 7). La seconda figura, quella dello Pseudo Urbano I, è stata identificata come quella di Clemente barbuto da crowe e cavalcaselle, Raphael, his Life and Works, London 1885, vol. II, p. 535, poi da o. fischel, I ritratti di Clemente VII nella Sala di Costantino in Vaticano, in «Illustrazione Vaticana», 1937, pp. 923 sgg. Il che è stato contestato da j. hess, On Raphael and Giulio Romano cit., p. 82, perché il volto è troppo vecchio; l’argomento non è valido, poiché Clemente era stato invecchiato dalle disgrazie, e, pertanto, non si poteva che presentarlo così se si giudicava opportuno introdurre una seconda volta la sua effigie, adattando la testa del papa tra Justitia e Veritas – il che non ha nulla d’impossibile. Infatti si tratta di una parte che è stata rifatta a olio, e, dal punto di vista iconografico, il duplice gesto del pontefice che fa appello con l’indice alla Carità senza rifiutare, d’altra parte, la Giustizia, poteva sembrare adattarsi a un pontificato così tumultuoso e difficile come quello di Clemente. In ogni modo, il suggerimento emesso da hess, On Raphael and Giulio Romano cit., pp. 84 sgg., che il ritocco riguardasse Sisto V, non può essere accettato. Torneremo più avanti sui vari problemi legati al fatto di portare la barba a Roma. 21 Chatsworth, Collezione Devonshire. f. hartt, Giulio Romano, New Haven 1958, p. 51 e tav. 79. 22 Un insieme di disegni di antichità datati circa il 1515 è stato messo in rapporto con la Stanza di Costantino, dove hanno potuto essere utilizzati nelle due prime composizioni: ipotesi di e. robert, Über ein dem Michelangelo zugeschriebenes Skizzenbuch auf Schloss Wolfegg, in «Römische Mitteilungen», 16 (1901), accompagnata con un’attribuzione a Giulio Romano che è stata respinta da H. Wickhoff, 1902, e hess, On Raphael and Giulio Romano cit. L’interesse di Giulio per la Colonna Traiana è segnalato da vasari, Le vite cit., V, p. 530, come pure il progetto di produrre una serie di incisioni. 23 hess, On Raphael and Giulio Romano cit., p. 90, ha identificato un certo numero di ritratti: Philippe de Villiers de L’Isle-Adam, Gran Maestro dei Cavalieri di Rodi; Camillo Caetani, duca di Sermoneta; «il cavalierino» disegnato da Vasari. 24 Le differenze di stile e di concezione fra i due affreschi militari
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 e tardo-antichi e le due composizioni paleocristiane sono già state sottolineate da h. dollmayr, Rafaels Werkstätte, in «Jahrbuch der Kunsthist. Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses», 12 (1895), pp. 231 sgg. 25 t. buddensieg, Gregory the Great, the Destroyer of Pagan Idols, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 28 (1965), pp. 53 sgg. ha dato delle ragioni per non seguire l’interpretazione di J. Hess, che vi vede aggiunte posteriori del tempo di Gregorio XIII e Sisto V, in concomitanza con la pittura centrale del soffitto del 1585: Il Trionfo della Croce sugli dei pagani di T. Laurenti. La «caricatura» di Michelangelo nel Trionfo di Fortuna del 1527 ripete gli elementi principali del pannello e perciò lo datano. Ma la relazione può invertirsi e il dipinto avere sfruttato una vecchia composizione. 26 Qualcosa del genere è stato indicato da hess, On Raphael and Giulio Romano cit., p. 91: «perhaps the beginning of the controversy over the Donation of Constantine was one of the reasons for the change» (suggerimento di C. Mitchell). Sotto questa forma, l’indicazione non è esatta: la controversia durava da generazioni: ma il libello di L. Valla l’aveva resa più stringente e la ribellione luterana implacabile. 27 milanesi, I corrispondenti di Michelangelo cit.; hartt, Giulio Romano cit., I, p. 43. 28 hartt, Giulio Romano cit., I, p. 45, nota 10. 29 m. petrassi, La leggenda di San Silvestro, in «Capitolium», 45 (1970), pp. 33 sgg.; w. levison, Konstantinische Schenkung und die Silvesterlegende, in Miscellanea F. Ehrli, Roma 1924, vol. II, pp. 159 sgg. 30 w. setz, Lorenzo Vallas Schrift gegen die Konstantinische Schenkung: «De falso credita et ementita Constantini donatione», «Bibl. des deutschen historischen Instituts in Roma», 44, Tübingen 1975. 31 a. j. lamping, Ulrichus Velenus and his Treatise against the Papacy, «Studies in Mediaeval and Reformation Thought», 19, Leiden 1976. 32 Non basta dunque dire con j. hess, in Kunstgeschichtliche Studien zu Renaissance und Barock, Roma 1967, p. 414: «Das zur Ausführung gekommene Bildthema ist offenbar in polemischer Absicht als Reaktion gegen Valla gewählt worden» (II tema che sviluppava era evidentemente stato scelto con intenzione polemica contro Valla). Il programma comporta un richiamo calcolato allo statuto di Roma e alla supremazia dei papa, contestati sia dai luterani sia dagli imperiali. 33 Già Wyclife aveva dichiarato che Costantino era ispirato dal demonio; era stato condannato dal Concilio di Costanza, sessione XLV, 33. Si veda il trattato del cardinale G. Paleotti (1581), Discorso intorno alle immagini sacre e profane, in Trattati d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, vol. II, Bari 1961, p. 277. La discussione sulla validità della Donazione di Costantino ha
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 accompagnato nel xi e xii secolo il conflitto tra l’imperatore e il papa, cfr. m. pacaut, La Théocratie, l’Eglise et le pouvoir au Moyen-Age, Paris 1957, p. 238. La diffusione del tema di Costantino cavaliere nella scultura e nel mosaico romani deve essere messo in relazione con il successo dell’ideologia imperiale; il battesimo di Costantino raffigurato verso il 1170 nel portico orientale di San Giovanni in Laterano (incisione in g. ciampini, De sacris aedificiis a Costantino Magno constructis, Roma 1693; acquarello in s. waetzoldt, Die Kopien des 17. Jahrhunderts nach Mosaiken und Wandmalereien in Rom, Wien 1962, tav. 84) e nel ciclo dei Santi Quattro Coronati del 1246, ricorda invece il primato del sacerdozio. Cfr. h. lavagne, Triomphe et Baptême de Constantin. Recherche iconographique à propos d’une mosaïque médiévale de Riez, in «Journal des Savants», luglio-settembre 1977, pp. 164-90. 34 Bisogna riaccostare questa tradizione all’informazione contenuta in una lettera del segretario Pérez all’imperatore, datata da Roma, il 4 agosto 1527: Lannoy gli aveva scritto che la corte gli ingiungeva di offrire al papa il tributo e un cavallo bianco. Cfr. de gayngos, Calendar of Letters cit., n. 145. 35 j. träger, Der reitende Papst, München e Zürich 1970. La cavalcata del papa e dell’imperatore esprime la concordia dei due poteri (cap. ii). Così l’ingresso di Sigismondo al Laterano, sulla porta di bronzo dei Filarete a Roma (1465), e nel 1530 la processione a cavallo di Bologna debitamente divulgata dall’incisione (cfr. cap.vi). È verosimile che la coppia dell’imperatore sul cavallo baio e del papa su un cavallo bianco, nel Carro di fieno di H. Bosch (Prado), debba essere interpretata come una derisione del simbolo. I due rilievi hanno catturato l’attenzione soltanto di J. Hess, ma i suoi suggerimenti iconografici sono erronei. La conclusione «that there need not necessarily he any relation between them and the Popes sitting below», è troppo facile. Non sappiamo se bisogna riagganciarli al progetto iniziale (ipotetico) di Raffaello. L’autore può essere, come propone J. Hess, Lorenzetto, il collaboratore di Raffaello a Santa Maria del Popolo, al quale, dopo i combattimenti di Castel Sant’Angelo, Clemente ordinerà la statua di San Pietro all’imbocco del ponte (cap. vi). 36 [Gioachino da Fiore, monaco cistercense del secolo xii, predicava una età di rinnovata spiritualità, che avrebbe reso non più necessaria la gerarchia della Chiesa. Dante lo colloca nel Paradiso]. 37 Sui Vaticinia, cfr. r. bainton, Ein wunderliche Weyssagung: Osiander, Sachs, Luther, in «Germanic Review», 16 (1946), 3, ristampato in Studies on the Reformation, Boston 1963, pp. 62 e sgg.; m. reeves, The Infuence of Prophecy in the Later Middle Ages. A Study in Joachimism, Oxford 1969.
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 a. osiander e h. sachs, Eyn wunderliche Weyssagung von dem Babstumb..., Nürnberg 1527. Cfr. a. warburg, Heidnisc-antike Weissagung in Wort und Bild zu Luthers Zeiten, 1920, stampato in Gesammelte Schriften, vol. II, Leipzig 1932. 39 Sul ruolo delle stampe cfr. m. geisberg, Die Reformation in den Kampfbildern der Einblattsholzschnitten, München 1929; a. blum, L’estampe satirique en France pendant les guerres de religion, Paris 1916. Gli autori del secolo xix hanno tutti messo in rilievo che la Riforma ha ottenuto la partecipazione delle masse grazie al carattere polemico, diretto, caricaturale e implacabile delle stampe: o. schade, Satiren und Pasquillen aus der Reformationszeit, vol. I, Hannover 1856. e. fuchs, Die Reformation, in Die Karikatur der europäischen Völker, Berlin 1901, cap. iv, ha ben dimostrato quanto Lutero fosse cosciente di quest’azione presso le masse. 40 k. a. wirth, «Imperator pedes papae deosculatur». Ein Beitrag zur Bildkunde des 16. Jahrhunderts, in Festschrift für H. Keller, Darmstadt 1963, pp. 175-221. 41 h. zschelletzschky, Die «drei gottlosen Mayer» von Nürnberg. Sebald Beham, Barthel Beham und Georg Pencz, Leipzig 1975, pp. 143 sgg. 42 d. koeplin e t. falk, catalogo della mostra Lukas Cranach, vol. I, Basel e Stuttgart 1974, pp. 330 sgg. * [«un libro straordinariamente buono per i laici»]. 43 f. buchholz, Protestantismus und Kunst im sechzehnten Jahrhundert, Leipzig 1928, pp. 36 sgg. 44 h. grisar e f. heege, Luthers Kampfbilder, vol. I, Freiburg im Breisgau 1921; a. schramm, Luther und die Bibel, vol. I: Die Illustrationen der Lutherbibel, Leipzig 1923. 45 h. preusz, Die Vorstellungen vom Antichristi im späteren Mittelalter, bei Luther und die konfessionnellen Polemik, Leipzig 1906; p. picca, Il Sacco di Roma del 1527: profezie, previsioni, prodigi, in «Nuova Antologia», 16 (1929), pp. 120 sgg. 46 Sul September Testament, cfr. f. schmidt, Die Illustration der Lutherbibel (1522-1700), Basel 1962. 47 Cfr. cap. i. Nelle Conversazioni a tavola di Lutero, si misura la profondità della rottura con Roma, che riduce gli avvenimenti del 1527 alla sciagura dei cattivi: «Ex Satana enim est Papa» (1531), Tischreden, n. 210, Weimar 1913, p. 323; (1538), ibid., n. 3717, p. 559. 48 j. janssen, L’Allemagne et la Réforme, trad. franc. Paris 1892, ha particolarmente insistito sull’aspetto antiromano e antiitaliano della Riforma, e in particolare sugli scritti estremamente violenti di U. von Hutten. 49 h. reinhardt, Einige Bemerkungen zum graphischen Werk Hans Holbein des Jüngeren, in «Zeitschrift für schweizerische Archäologie 38
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 und Kunstgeschichte», 34 (1977), pp. 242 sgg.; Catalogo della mostra Die Malerfamilie Holbein in Basel, Basel 1960, nn. 403, 407 e 408. 50 t. burckhardt-wertheman, Über Zeit und Anlass des Flugblattes: Luther als Hercules germanicus, in «Basler Zeitschrift», 4 (1905), pp. 48 sgg.; citato da reinhardt, Hans Holbein des Jüngeren cit., p. 242. 51 Sulla nozione di Roma aeterna, cfr. k. j. pratt, Rome as Eternal, in «Journal of the History of Ideas», 25 (1965), pp. 25 sgg. 52 Su Egidio da Viterbo si veda j. w. o’malley, Giles of Viterbo on Church and Reform. A Study in Renaissance Thought, Leiden 1968; Fulfillment of the Christian Golden Age under Pope Julius II: The text of a Discourse of Giles Viterbo, 1507, in «Traditio», 25 (1969), pp. 265 sgg.; e le indicazioni date sopra, nella introduzione. 53 blum, L’estampe satyrique cit., t. wright, Histoire de la caricature et du grotesque, trad. franc., Paris 18752 p. 58, cita Eck: «Infinitus iam erat numerus qui victum ex lutheranis libris quaeritantes, in speciem bibliopolarum Ionge lateque Germaniae provinciae vagabantur». 54 Citato da fuchs, Die Reformation cit., cap. iv. 55 «A heightened sense of eschatology»: r. bainton, The Left Wing of the Reformation, in «Journal of Religion», 21 (1941), 2; ristampato in Studies on the Reformation cit., pp. 119 sgg. 56 preusz, Die Vorstellungen cit., pp. 28 sgg.; reeves, Infuence of Prophecy cit., cap. iii: The Antechrist; a. chastel, L’Antéchrist à la Renaissance, 1952, ristampato in Fables, Formes, Figures cit., n. 6. 57 In un manoscritto tedesco, l’Anticristo, nella sua sanctitas simulata, porta un enorme reliquiario e si rivolge all’assemblea cristiana, rappresentata da un papa e un cardinale, e alla famiglia umana, rappresentata dagli esseri più inverosimili. Cfr. preusz, Die Vorstellungen cit., p. 35. 58 Le pietre che cadevano, gli accidenti e le anomalie erano segni. Essi si moltiplicavano. Un francese ha raccontato nel suo opuscolo sugli avvenimenti: Bellum romanum, che «il signore del cielo ci manifestò con segni indubbi la prossima venuta della sciagura» (dorez, Le sac de Rome cit., pp. 356 sgg.). 59 grisar e heege, Luthers Kampfbilder cit., cap. i; j. céard, La Nature et les prodiges. L’insolite au XVIe siècle en France, Genève 1977, pp. 79-83. 60 warburg, Heidnisch-antike Weissagung cit.; f. saxl, Illustrated Pamphlets and the Reformation, 1948, ristampato in Lectures, London 1957; j. baltru∫aitis, Réveils et prodiges. Le gothique fantastique, Paris 1960, cap. ix. 61 Lo spirito di contrizione che invase numerosi elementi della Curia dopo il 1527 si tradusse con la medesima formula Roma-Babilonia, e il medesimo riferimento alla profezia di Isaia e all’Apocalisse
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 rivolte contro Roma stessa. Così nel discorso al Tribunale della Rota del 15 maggio 1528, Che fu pubblicato a Roma e – e cosa che non stupisce – tradotto in tedesco (cfr. cap. vi). 62 Oltre a warburg, Heidnisch-antike Weissagung cit., si veda l. thorndike, A History of Magic and Experimental Science, vol. V, New York 1941, p. 2-33; e. garin, Lo Zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Bari 1976. 63 lorenzo bonincontri, De rebus caelestibus, 1472-75, edito a Venezia da Luca Gaurico nel 1526. Sulla congiunzione di Giove e di Saturno nell’Ariete, l’autore aveva molto da dire; ne conosceva tre, coincidenti con il Diluvio, la venuta del Signore Gesù e quella di Maometto; la quarta sembrava corrispondere a una nuova potenza universale: «Et regem dabit innocuum qui terminet orbem». Sulla teoria delle grandi congiunzioni, e sulla sua importanza nei dibattiti sull’astrologia, cfr. garin, Lo Zodiaco cit. 64 Su Torquato, cfr. reeves, Influence of Prophecy cit., p. 364; cantimori, Eretici cit., pp. 18-20. 65 reeves, Influence of Prophecy cit. 66 warburg, Heidnisch-antike Weissagung cit; garin, Lo Zodiaco cit. 67 L’importanza annessa all’oroscopo di Lutero sussiste nella polemica antiprotestante fino al secolo xvii e oltre; per esempio, f. de raemond, Histoire de la naissance, progrez et décadence de l’hérésie de ce siècle, Rouen 1629, pp. 28 sgg., nota che dopo Jonctin, «Marte e Venere si trovarono nella terza casa della sua natività, il che significa la caduta della fede». 68 warburg, Heidnisch-antike Weissagung cit. pp. 510-11; saxl, Illustrated Pamphlets of the Reformation cit., pp. 255 su.: «The books are only a fraction compared with the pamphlets which were produced». Su questa questione, cfr. m. pegg, A Catalogue of German Reformation Pamphlets (1516-46) in Libraries of Great Britain and Ireland, vol. I, London 1973, vol. II, 1977; r. w. brednick, Die Liedpublizistik in Flugblatt des 15. bis 17. Jahrhunderts, 2 voll., Baden-Baden 1974 e 1975. 69 Die vier Eigenschaften des Weins. Cfr. catalogo della mostra Von der Freiheit eines Christenmenschen (Kunstwerke und Dokumente aus dem Jahrhundert der Reformation), Charlottenburg Schloss, Berlin 1967, pp. 22-23. 70 Catalogo della mostra Hans Baldung Grien, Karlsruhe 1959, fig. xxxiv. 71 a. wass, Die Bauern im Kampf um Gerechtigkeit 1300-1525, München 1964, p. 223. Altra versione di Glücksrad, obbediente all’azione energica delle persone abbienti. Cfr. l’Epilogo. 72 [Carlo era nato a Gand, pertanto in territori posti a occidente (sulla riva sinistra) del Reno].
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 guicciardini, Consolatoria fatta di settembre 1527 a Finocchieto, tempore pestis, citata nell’edizione, a cura di S. Volpicella, di L. Santoro, p. 256. È stato osservato non senza meraviglia che lo stesso Guicciardini ha passato del tempo, pare nel 1528, a compilare una scelta dei testi profetici di Savonarola. Vi si legge, in particolare, il passo: «O Roma, o prelati di Roma, io vi avviso che voi non avete a guastare questa opera» (25 febbraio 1497). Cfr. palmarocchi, Scritti autobiografici e rari di F. Guicciardini cit., p. 313. 74 Il sacco «a causa mas que material» fu la conclusione del conte de la roca, Epitome de la vida y echos del emperador Carlos, Milano 1646; parimenti antonio canovas del castillo, Del assalto y saco di Roma por los Españoles, Madrid 1858. Nella sua Cronaca, il milanese Grumello si adopera a discolpare il conestabile; a tale scopo, sottolinea il fatto che il saccheggio della città era un atto voluto dal cielo, l’adempimento della profezia di Samuele: «Roma declinabit vires et carebit ecclesiastico duce et Rex Romanorum possedebit eam», e di quelle di santa Brigida di Svezia (Cronaca di Antonio Grumello pavese [1465-1529], a cura di Muller, Milano 1856). 75 rodríguez-villa, Memorias cit., pp. 140 sgg. 76 von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte Il, libro III, cap. 3, p. 247. Il vero nome del personaggio era Bartolomeo Carosi. Esiste una biografia non pubblicata dovuta a Camillo Turci, cfr. orano, Marcello Alberini cit., p. 246 nota 2; g. b. pecci, La Brandaneide, Lucca 1757; picca, Il Sacco di Roma cit., pp. 235 sgg. 77 b. varchi, Storia fiorentina, Colonia 1721, libro X, cap. 18, citato da picca, Il Sacco di Roma cit., p. 122. Secondo lo stesso autore, una lettera indirizzata al datario Giberti da Venezia, l’11 dicembre 1526, annunziava il sacco di Roma. 78 Lettere al marchese di Mantova, pubblicate da a. luzio, Isabella d’Este e il Sacco di Roma, Milano 1908, pp. 121-22 (7 maggio) e 124-26 (16 maggio). 79 luzio, Pietro Aretino nei primi suoi anni cit., pp. 8 e 9, Introduzione. 80 r. eisler, The Frontispiece to Sigismondo Fanti’s «Trionfo di Fortuna», in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 10 (1947), pp. 155-59. 81 Un’incisione a guisa di fregio, da un arazzo del secolo xv intitolato precisamente l’arazzo di Michelfeldt, descrive in cinque scene il corso immorale del mondo e il regno dell’ingiustizia. Le tre figure del professore, del prete e della Provvidenza tengono in equilibrio la ruota della Fortuna, nella quale le condizioni sono raffigurate da uccelli, mentre la volpe (Fuchs) si volge in senso contrario al tempo (Zeit). Cfr. zschelletschky, Die «drei gottlosen Maler» von Nürberg cit. Questo non è ritenuto (con ragione, a nostro avviso) opera di Dürer da e. 73
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 panofsky, Albrecht Dürer, Princeton 1943, n. 391 [trad. it. La vita e le opere di Albrecht Dürer, Milano 1967]. 82 La formulazione di un tema accettabile per il medioevo cristiano risale alla Consolatio Philosophiae di Boezio (vi secolo). Cfr. p. courcelle, La Consolation de Philosophie dans la tradition littéraire, Paris 1967. La più antica rappresentazione della ruota con le quattro posizioni: regnabo (a destra), regno (in alto), regnavi (a sinistra), sum sine regno (in basso), appare in un manoscritto dell’xi secolo a Monte Cassino, di poco anteriore, sembra, a un pavimento a mosaico in San Salvatore di Torino. Cfr. e. kitzinger, World Map and Fortune’s Wheel: A Mediaeval Mosaic Floor in Turin, 1973, in The Art of Byzantium and the Mediaeval West, Selected Studies, a cura di F. Kleinbauer, 13 voll., Bloomington e London 1976, p. 345. L’allegoria è di due tipi: la Fortuna gira il meccanismo ciclico, o è essa stessa all’interno del sistema. Su una miniatura celebre dell’Hortus deliciarum (xii secolo), la Fortuna troneggia sulla terra, azionando la manovella della macchina. Di faccia alla personificazione di Fortuna, potenza cieca e fatale, è regolarmente posta quella di Sapientia. Il motivo illustrava la futilità degli onori e la «vanità delle vanità»; ha subito trasformazioni notevoli durante il xv e il xvi secolo, cfr. a. doren, Fortuna im Mittelalter und in Renaissance, in «Vorträge der Bibl. Warburg», 2 (1922-23). Ne è stato cambiato il carattere, un po’ come quello dell’Ercole al crocicchio delle strade studiato da E. Panofsky. Cfr. anche Epilogo, nota 35.
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Capitolo terzo «Urbis direptio»
«A dí 6 de magio 1527 fo la presa di Roma», questa iscrizione fu ritrovata sul muro sud del salone della Villa Lante, ex villa di Baldassarre Turini sul Gianicolo1. Occupata fin dall’inizio dall’esercito imperiale, è uno dei punti della collina da dove indubbiamente si poté seguire in modo mirabile, dopo che si era diradata la nebbia, la corsa delle truppe vittoriose attraverso le vie. Altre iscrizioni fatte con la punta della daga furono ritrovate in posti non meno significativi. Ma prima di annotarle, dobbiamo osservare che parecchi capitani dell’esercito imperiale, hanno lasciato memoriali. Avevano partecipato a fatti troppo straordinari per non essere tentati di riferirli. Uno di loro ha raccontato in una sola pagina come fosse avvenuta l’occupazione dei lanzichenecchi nel 1527. Il 6 maggio abbiamo preso d’assalto Roma, ucciso seimila uomini, saccheggiato le case, portato via quello che trovavamo nelle chiese e dappertutto, e finalmente incendiato una buona parte della città. Strana vita davvero! Abbiamo lacerato, distrutto gli atti dei copisti, i registri, le lettere, i documenti della Curia. Il papa è fuggito in Castel Sant’Angelo con la sua guardia del corpo, cardinali, vescovi, abitanti di Roma e membri della Curia sfuggiti al massacro. L’abbiamo assediato per tre settimane fino a che, spinto dalla fame, dovette consegnare il castello. Quattro
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capitani spagnoli, fra cui un nobile, l’abate de Najera, e un segretario imperiale, sono stati delegati dal principe d’Orange per la consegna del castello. Il che fu fatto. Là abbiamo trovato il papa Clemente con dodici cardinali in un ripostiglio. Il papa ha dovuto firmare la convenzione di resa che gli ha letto il segretario. Tutti si lamentavano miseramente; piangevano molto. Siamo tutti ricchi. Avevamo occupato Roma solo da due mesi che già cinque mila dei nostri morirono di peste, perché non si seppellivano i cadaveri. In luglio, mezzi morti, lasciammo la città per le Marche allo scopo di trovare un’altra aria migliore... In settembre, di ritorno a Roma, saccheggiammo la città ancora più a fondo e trovammo grandi tesori nascosti. Vi siamo rimasti alloggiati altri sei mesi2.
Molte cose in poche parole. Veniamo a conoscere le tre fasi dell’occupazione o del saccheggio. Prima la grande settimana che esordì il 6 maggio e che, veduta retrospettivamente, assume un carattere «strano»: case distrutte, chiese messe a sacco, documenti ecclesiastici perduti per sempre. Poi il periodo dell’assedio, la resa, il bottino di guerra, tutto riassunto nelle parole «piangevano molto; siamo tutti ricchi». Quindi, dopo l’ondata di epidemia che costringe a evacuare la città, il ritorno in settembre, che significò sei mesi di saccheggio metodico, turbato soltanto da violente liti interne fra i corpi nazionali e i capitani. Questo calendario spiega molte cose. In un clima di anarchia totale, l’occupazione fu interminabile, con gli andirivieni di gruppi rivali, le diserzioni, i disordini, i traffici, fino alla partenza delle truppe nel febbraio 15283. A questa data, secondo Guicciardini, l’exercitus caesareus contava circa cinquemila tedeschi, quattromila spagnoli, duemilacinquecento italiani, ossia circa la metà dei suoi effettivi del 1527. Gli altri? Morti per l’epidemia o partiti alla ventura4. Il Vaticano fu occupato dai lanzichenecchi luterani di
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Frundsberg. Lo conferma un insieme di graffiti reperiti di recente, durante i lavori di restauro, nelle Stanze decorate da Raffaello5. Nella Disputa si legge verso il centro, sulla destra, un’iscrizione incisa con la punta della daga: V. K. Imp.e, quasi cancellato: Martinus Lutherus. Si è anche notato che nel gruppo delle Decretali, la faccia del cardinale Giulio de’ Medici, poi Clemente VII, ha ricevuto un colpo di lancia sul naso. Ci furono certamente altri sfregi; sono stati eliminati dai restauri successivi. Le tracce rimaste bastano a ricordarci che l’esercito imperiale era animato da uno spirito di crociata antipapista. Nella Stanza di Eliodoro, sotto lo zoccolo dipinto, si legge di nuovo: V. K. Imp.e, chiaramente distinguibile «Got hab dy sela Borbons»*, seguito da un nome Dietwart e da una data may. Il che riassume tutto in poche parole. Non si è trovato nulla, che io sappia, nella Stanza di Costantino e me ne stupisco. I nemici del potere temporale dei papi avrebbero trovato lì di che tenersi occupati. Ma la loro preoccupazione volgeva altrove, come vedremo. Di recente e venuta alla luce un’altra testimonianza rivelatrice: durante il restauro della «Sala della prospettiva» alla Farnesina, sono apparse due iscrizioni fatte l’una con la punta di una daga e l’altra a matita. Entrambe sono in stretto rapporto con il nostro studio: la prima, che attraversa un campanile appartenente ad un paesaggio romano sulla parete nord, dice semplicemente: «Babilonia»; la seconda, sulla parete orientale, sotto la data 1528, consiste in un lungo testo tedesco in cui si legge: «perché, io che scrivo, non dovrei ridere: i lanzichenecchi hanno fatto correre il papa». Una specie di addio a Roma degli occupanti. Due problemi sussistono a proposito delle Stanze. Uno è emerso riflettendo sul soggiorno di Tiziano a Roma nel 1545. Un autore veneziano riferisce nel 1567 il seguente aneddoto:
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Tiziano mi ha raccontato di recente che, al tempo in cui Roma fu messa a sacco dai soldati di Borbone, alcuni Tedeschi che occupavano il palazzo del papa, senza alcun riguardo avevano acceso un fuoco in una delle stanze di Raffaello e alcune teste furono rovinate dal fumo, a meno che non lo siano state dai loro colpi. Il papa ritornato dopo la partenza delle truppe, triste all’idea di lasciare quelle belle teste rovinate, le fece restaurare da Sebastiano. Durante il suo soggiorno a Roma, Tiziano andò un giorno in quelle Stanze insieme a Sebastiano, ben deciso a guardare con la massima attenzione e a occhi ben aperti quelle pitture di Raffaello che non aveva mai vedute; e così, dinanzi alla parete sulla quale Sebastiano aveva fatto i restauri, gli chiese chi fosse il presuntuoso ignorante che aveva imbrattato quei volti. Non sapeva che Sebastiano li avesse restaurati e non faceva che osservare l’enorme differenza che c’era fra quelle teste6.
Anche tenendo conto della malizia di Tiziano nei riguardi di un discepolo di Michelangelo, l’aneddoto deve essere vero, ma i restauri successivi degli affreschi rendono difficile accertare la verità. È importante che vi siano stati guasti per via del fumo, il che suppone un focolare improvvisato o un camino e del combustibile7. Questo particolare può chiarire un altro atto più grave di vandalismo. Si tratta degli armadi intarsiati disposti intorno alla Segnatura (che doveva – come si sa – servire inizialmente da biblioteca), opera di fra Giovanni da Verona e di Gian Barili8. Questi sono scomparsi. Si è detto spesso che dovevano essere stati danneggiati durante il sacco; cosa che è stata contestata di recente9, ma la storia precedente la rende verosimile. I «chiaroscuri» attuali sotto gli affreschi sono opera di Perin del Vaga; furono dipinti sotto Paolo III, quindi dopo il 1534, nel momento del trasporto di un caminetto dalla camera vicina nella «Stanza», e ciò ebbe luogo nel
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1541. Ma questa sistemazione si capisce meglio se la decorazione di tarsia, rovinata più o meno completamente, aveva bisogno di essere rifatta o sostituita: nel 1527 si bruciarono in Roma porte e finestre; plinti di legno, anche «intarsiati» potevano benissimo alimentare il fuoco durante un inverno di occupazione. Un’altra vittima, e questa totale, dell’occupazione militare, furono le vetrate decorate. Il Vaticano, in ispecie al piano delle «Stanze», era appena stato adornato, sotto Giulio II e Leone X, con finestre eseguite dal vetraio francese Guillaume de Marcillat10. Tutte le finestre vennero frantumate per ricuperare il piombo utile per fabbricare palle da archibugio. Cellini, con i suoi cannoni, proteggeva il castello, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Egli si mostrava assai orgoglioso di quel che chiamava un «esercizio diabolico». Ma, col passare dei giorni, l’artigliere ridiventò orafo e coniatore di monete. Clemente era costretto a versare un’enorme indennità di guerra e si dovettero fondere i pezzi preziosi del tesoro: «Il Papa e uno dei suoi servitori, il Cavalierino, mi posero davanti le tiare con pietre preziose della camera apostolica. Il Papa mi ordinò di smontarle. Il che io feci. Ogni pietra fu avviluppata in un pezzo di carta e cucita nella fodera delle vesti del Papa e del Cavalierino. Il restante oro, circa duecento libre, mi fu lasciato con l’ordine di fonderlo»11. In tal modo il papa poté versare, dopo l’accordo di capitolazione del 5 giugno, la somma fantastica di 70000 ducati d’oro. Ma si dovevano coniare sempre un maggior numero di monete d’oro e d’argento per pagare il tributo colossale necessario per far partire le truppe. L’estate del 1527 trascorse così in condizioni inverosimili, con la città completamente dissanguata, quasi senza rifornimenti, con gli abitanti trattenuti di forza e adoperati come domestici, con la minaccia di peste incombente perché le fontane erano state distrutte mentre il
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papa e gli alti dignitari cercavano disperatamente di prendere a prestito somme sempre più elevate a Napoli o altrove, o battere altra moneta. Frattanto, ogni casa era stata frugata e saccheggiata; ogni palazzo perquisito e i suoi abitanti tassati. Vi fu per alcuni giorni un’eccezione: il Palazzo Colonna, occupato dai nemici personali del papa, dove si era rifugiata Isabella d’Este. Molti disgraziati vi furono raccolti, ivi comprese talune personalità note per i loro sentimenti favorevoli all’imperatore. Ciò nonostante tutti quanti dovettero pagare ripetute tasse, e, cosa ancora più terribile, a ogni nuovo contingente. La cosa importante per i saccheggiatori, infatti, era estorcere monete o oggetti preziosi, facilmente convertibili in denaro12. L’importanza dell’esercito, l’astuzia dei capitani sollecitati nei loro appetiti dalla marcia su Roma, il fatto che la capitale cristiana fosse anche un centro bancario e commerciale, tutto convergeva per imprimere allo sfruttamento dei vinti un carattere sistematico che sembra del tutto eccezionale. Questo sistema di tassazioni, o «taglie», permetteva di ottenere sotto le peggiori minacce e, sicuramente, le peggiori violenze, somme variabili secondo il rango e la fortuna di ogni membro della curia, di ogni notabile, di ogni cittadino romano. Le cronache hanno fornito alcune informazioni sulle vittime e, talvolta, sui beneficiati. Così scopriamo che il cardinale Ponzetti pagò 20 000 scudi d’oro, il cardinale Enckenvoirt ne versò 40 000 al capitano tedesco Oddone. Il cardinale di Santa Maria in via Lata, Alessandro Cesarini, s’impegnò a versare 35 000 corone d’oro a nome di circa duecento persone rifugiate nel suo palazzo; il documento o instrumentum esiste con le ricevute, datato 10 maggio. Spesso bisognava ricorrere a prestiti. Ci si rivolgeva a un cambiavalute o a un usuraio per fare il versamento di esonero; atti notarili di tal genere ne sono rimasti in gran numero13.
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Le incarcerazioni e le sevizie avevano per lo più lo scopo di cavare fuori l’oro, i gioielli, le pietre preziose. Nella città si ebbero perciò durante tutte quelle settimane soltanto vendite precipitose, traffici, promesse davanti al notaio, ecc. che fecero del sacco una delle più grandiose imprese finanziarie mai conosciute, almeno per il passaggio di mano delle monete e degli oggetti di valore. Fu un grande salasso di ricchezza. E con quella emorragia se ne andarono in massa le opere d’arte. Non mancano le informazioni sullo straordinario mercato che si organizzò a Campo de’ Fiori, al Borgo e a Ponte Sisto. Là, secondo un testimone, il notaio Gualderonico: «si vendeva tutto quello che era stato rubato durante il sacco, vestiti ricamati d’oro, sete, velluti, drappo di lana e di lino, anelli, gioielli, perle; i tedeschi avevano sacchi pieni di oggetti da vendere, e si vendeva di tutto su una grande piazza del mercato, e poi il saccheggio ricominciava ...»14. Rodrìguez-Villa ha pubblicato una identica testimonianza oculare, proveniente da un soldato spagnolo: «...Coloro che le hanno rubate, non essendo intenditori, pellicce e pietre preziose che valgono cento ducati, si danno per due ducati. Gli arazzi e gli arredi, i bei vestiti, tutto ciò non ha quasi più alcun valore. Ho veduto vendere dodici arazzi tutti lavorati in oro e una magnifica alhombra di seta, il tutto per quattrocentocinquanta ducati»15. Nel racconto pubblicato dal francese Jean Cave, abbiamo la descrizione pittoresca della partenza dei lanzichenecchi carichi di vestiti e di stoffe, coperti di catene e di anelli d’oro, con vasi, gioielli, sacchi pieni di ducati e di cose preziose, che fanno portare dai loro prigionieri: una scena che ricorda quelle riprodotte sulla Colonna Traiana16. Il 19 febbraio 1528, si viene a sapere a Roma che Filippo Doria ha catturato, al largo di Ostia, dodici imbarcazioni spagnole che portavano a
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Napoli più di centocinquanta casse di oggetti provenienti dal sacco17. Due aspetti meritano maggiore attenzione: in questa gara di rapacità, le opere d’arte furono implicate molto presto, soprattutto quelle che avevano un evidente valore negoziabile, e, molto presto, nacquero traffici favoriti dalla confusione. Sebbene sia possibile delinearne più o meno le caratteristiche, non si riesce a ricostruire i particolari di simili traffici. Questi movimenti interessano naturalmente anche le biblioteche: talune furono devastate, altre vendute18; quella del Vaticano, fondata da Sisto IV, fu particolarmente colpita: un breve del 1529 ne menziona l’impoverimento (diminutionem)19. La perdita delle biblioteche più di qualsiasi altra cosa affligge gli umanisti; proprio attraverso la distruzione dei libri la sciagura s’impone alla loro attenzione; praticamente è il punto essenziale su cui si soffermano. Così Erasmo, nella lettera a Sadoleto, dove esprime preoccupazione per la sorte degli studiosi, vede nel saccheggio della biblioteca dell’amico un atto di barbarie degno degli sciti20. Quanto ai Riformati, la reazione di Melantone fu identica; la sciagura di Roma e ricordata soltanto per l’unico disastro che preoccupa gli umanisti: la distruzione delle fonti del sapere21. È evidentemente in questo evento terribile la ragione di indignazione degli studiosi che vedevano in Roma il paradiso dell’erudizione. Erasmo non parla d’altro evocando con nostalgia il suo soggiorno del 1509, nella lettera del 1529 a proposito del sacco. Per quanto riguarda le opere preziose dei santuari, la razzia sconsiderata dei vincitori incorse necessariamente – insieme alla violazione delle reliquie – in ogni sorta di atti sacrileghi, che, naturalmente, nelle notizie orali e scritte, assunsero un’importanza difficile da minimizzare. Di fatto, il sacco di Roma, se fu l’occasione di un rastrellamento metodico dei tesori della città, prese subito un’altra
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dimensione, quella di un’immensa profanazione. Quando Guicciardini parla de «la più mesta, la più spaventevole, la più vergognosa tragedia», pensa sia all’umiliazione e alla degradazione politiche che alle estorsioni. E ne ha misurato amaramente la portata22. Proprio la risonanza degli atti empi, più o meno gratuiti, commessi durante quelle settimane fece apparire il sacco, a una gran parte del popolo cristiano, come un attentato inaudito contro il centro tradizionale della cristianità.
Opere d’arte. L’evento più memorabile del sacco fu la morte del connestabile Carlo di Borbone; l’operazione fraudolenta più notevole fu il furto degli arazzi pontifici. Tessuti dieci anni prima sui cartoni di Raffaello, erano destinati alla Cappella Sistina nelle grandi occasioni. Proprio nella Cappella Sistina, decorata «dei ricchi e bellissimi arazzi di Sua Santità», furono celebrati i funerali del connestabile, per citare un rapporto veneziano del giugno 152723. Molto tempo dopo, si e notato con un po’ di sarcasmo che «quella fu probabilmente l’ultima occasione in cui la serie completa fu disposta secondo l’ordine voluto da Raffaello»24. Le vicissitudini di quei pezzi famosi costituiscono un episodio bizzarramente complicato, fra i tanti del periodo. Isabella d’Este si trovava a Roma quando si verificò il disastro, e procurò rifugio a molte vittime in Palazzo Colonna, dove era alloggiata. Suo figlio Ferrante, uno dei capitani imperiali, aveva lo zampino in ogni genere di traffici loschi. Siccome gli arazzi erano di enorme valore, e si sarebbero dispersi, la marchesa mandò cinquecento scudi a Ferrante perché li acquistasse al fine – diceva – di restituirli un giorno al papa, dietro adeguato rimborso, naturalmente. Due pezzi, la Conversione di
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Saul e Paolo di fronte all’Areopago, furono imbarcati su un battello che conteneva i beni personali di Isabella. Il carico venne catturato dai pirati. Essendosi sparsa la voce che si trattava di genovesi, Isabella reclamò i suoi averi da Andrea Doria, ma non ottenne nulla. Erano corsi allora sul suo conto apprezzamenti sfavorevoli. Dovette perciò difendersi dalle accuse di un certo Benedetto Centurione, ribadendo che i due arazzi erano stati acquistati per essere restituiti al papa. In ogni modo, Isabella non li ritrovò mai piú25. Nel 1528 i pezzi sono segnalati in una collezione veneziana. Venticinque anni dopo, furono ricomprati a Costantinopoli dal conestabile Henri de Montmorency e offerti nel 1554 al Vaticano: il particolare è precisato in una nota d’inventario dell’anno seguente26. Altri pezzi ricomparvero a Napoli. Là infatti si ritrovò un buon numero di opere d’arte e di reliquie rivendute dai soldati. Nell’autunno del 1532, si cominciò a trattare per quattro degli arazzi e per un frammento che erano stati riportati da Napoli. Alcuni avevano perduto i bordi. Anche quando furono tutti restituiti, gli arazzi non furono mai ricollocati come erano prima del 1527, perché sul muro di fondo, dal 1541, il gigantesco affresco di Michelangelo impediva qualsiasi altra decorazione. Queste vicissitudini illuminano adeguatamente su ciò che poteva capitare, in quel periodo tormentato, a opere celebri. Ma siamo ancora lontani dal riuscire a farci un’idea soddisfacente dei tesori perduti. Si sono ritrovati in Vaticano una trentina di frammenti di arazzo, soprattutto parti dei bordi, che portano lo stemma di Clemente. I fregi verticali sono molto interessanti per lo sviluppo delle forme decorative a Roma27. Sono forse residui degli arazzi scomparsi, o frammenti di altri pezzi tessuti durante il secondo papato mediceo. In un breve apostolico del 22 luglio 1531, si legge:
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a proxima urbis direptione, Joannes Barsena, miles caesarei exercitus, [rubavit] a cubiculo et camera nostra quamdam tabulam depictam, pietatis Domini nostri Jesu Christi et Beatae Mariae Virginis in medio, in portulis vero illam claudentibus, hinc Beatae Annae Virginem filiam in manibus tenentis, inde autem Beatae Margaritae imagines devote egregieque pictas habentem.
Si trattava di un trittico fiammingo destinato a una cappella, come se ne conoscono in gran numero; il pannello mediano del tipo di Roger van der Weyden, i portelli del tipo di Gérard David28. Opera modesta, che il cardinale Medici doveva avere acquistato in Fiandra durante il suo viaggio con il cugino Leone X. L’interessante è nella storia finale del trittico. Il saccheggiatore aveva portato il bottino in Sardegna, ma finì per consegnarlo agli Agostiniani di Cagliari; costoro lo portarono alla cattedrale, dove, dopo l’identificazione, Clemente decise di lasciarlo, con l’obbligo, esplicitamente stabilito nel breve, di presentarlo ai fedeli ogni anno alla festa dell’Assunta «honorifice ac devote». Si vedrà più avanti come la restituzione delle reliquie rubate, in seguito a un rimorso di coscienza, avvenne spesso dopo il 1528. Si parlava molto di atti di vandalismo nei confronti di pezzi antichi: «ipsa etiam in marmora et antiquas romanorum statuas sacritum est», dichiara Paolo Giovio29. Corse la voce persino che il Laocoonte fosse stato rotto. Ma è difficile precisare la parte dell’esagerazione dovuta allo spavento30. Sappiamo, però, di taluni traffici di opere. Molti intrighi si allacciavano intorno ai Gonzaga. Il capitano Fabrizio Maramaldo, con Ferrante uno dei capi del corpo italiano, fu un bell’esempio di militare avventuriero. Questo Maramaldo era in ottimi rapporti con il marchese di Mantova, che gli scrisse una lettera divertente e rivelatrice:
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Ci sono qui due gentiluomini dabbene di cui sono grande amico: Vostra Signoria ne conosce uno personalmente e l’altro di fama. Entrambi vi considerano generoso e amabile e pronto a soddisfare le persone meritevoli. Entrambi desiderano una grazia da voi e quindi hanno sollecitato la mia raccomandazione a voi. Uno è Marmirolo, l’altro Té. Desiderano possedere alcuni pezzi antichi: teste, gambe, busti o statue complete, di bronzo o di marmo. Poiché sanno che tenete Roma alla vostra merce apprezzerebbero la vostra liberalità riguardo a quelle cose di cui non fanno caso né voi né i vostri soldati, perché a voi interessa altro genere di bottino. Perciò, mio caro Fabrizio, non mancate di soddisfare i miei due amici perché non perdano la buona opinione che hanno di vostra Signoria. Altrimenti, lo so, sparlerebbero di Fabrizio Maramaldo peggio di quel che si sia mai detto dei più grandi pirati del mondo. Fate in modo che io possa difendere il vostro onore. Sempre vostro il Marchese di Mantova31
Questa lettera abbastanza fuori del comune è in data 22 maggio. Ferrante Gonzaga chiedeva all’amico avventuriero pezzi antichi per le sue collezioni. Marmirolo e Té erano le sue due ville. Purtroppo non ne sappiamo di più. Il figlio di Isabella non guardava troppo per il sottile sulla provenienza dei pezzi32. Le sculture antiche, troppo pesanti, ponevano problemi di trasporto: ma i frammenti e le teste, i bronzetti e le medaglie, erano assai più maneggevoli. Bisognerebbe sapere ciò che contenevano le casse evacuate nel febbraio 1528 e catturate dai genovesi davanti a Ostia. Noi sappiamo che i prelati collezionisti avevano motivo di essere inquieti. Una pagina piuttosto sarcastica di Ciaconius descrive l’angoscia di uno dei maggiori collezionisti romani, il cardinale Cesi: «Dopo la triste catastrofe della città, quando erano rinchiusi nella fortezza di Adriano, incerti su quanto stava succedendo, in una situazione personale
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disperata, niente gli stava più a cuore che vigilare perché le sue iscrizioni antiche e i suoi quadri non scomparissero nelle mani dei soldati che avrebbero potuto impadronirsene e portarsele via»33. Due giardini archeologici importanti sono segnalati sotto Leone X e Clemente VII, quelli del cardinale Cesarini e della famiglia Massimo. Il primo, situato nei pressi di San Pietro in Vincoli, esisteva fin dal 1500, se si presta fede a un epigramma conservato da Schrader e a un’iscrizione dell’ottavo anno del pontificato di Alessandro VI34. Un certo numero di pezzi – colonne di cipollino, diciotto teste di filosofi – sono ricordati in vari testi e, come al solito, nel catalogo di Aldovrandi; ma questi riferimenti sono troppo tardivi per farsi un’idea della collezione al momento del sacco o precisare possibili furti. La ricca famiglia dei Massimo fu particolarmente colpita. Domenico, il capo famiglia, fu ucciso e il Palazzo della Via Papalis «presso la valle» distrutto. La collezione di antichità, conosciuta per una entusiastica descrizione del 1512 circa, fu saccheggiata, senza che ne sappiamo di piú35. In seguito a un accordo concluso fra i tre figli nel 1532, il maggiore, Piero, fece costruire un nuovo palazzo da Baldassarre Peruzzi. Questa fu l’origine dell’attuale Palazzo alle Colonne, dove non si ritrovano purtroppo i marmi scomparsi36. Lo stesso avvenne per il palazzo del cardinale Del Monte a Campo de’ Fiori, sebbene fosse un Ghibellino autentico, e parimenti anche per altre personalità, i cardinali Enckenvoirt e Cesarini, residenti al «rione» Sant’Eustachio. Per alcuni giorni poterono farsi proteggere dai soldati spagnoli, ma il desiderio di bottino e la minaccia dei lanzichenecchi li costrinsero a fuggire, dopo di che i palazzi furono messi sottosopra37. I cortili erano depositi di antichità. Queste furono distrutte? portate via? cedute? oppure, cosa piú probabile, lasciate intatte per forza di cose? Non sappiamo.
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Un epigramma latino conservato in una raccolta vaticana costringe a interrogarsi sulle statue del cardinale Della Valle: Perché stupirti, visitatore, che queste mute divinità Trattengono il loro respiro in questi luoghi, sotto la pietra? Al giungere del nemico, la paura le ha pietrificate; e nonostante la protezione del Val, i marmi tremano ancora38.
Questo giardino archeologico si trovava al «rione» Sant’Eustachio; e noto grazie a un’incisione di Hieronymus Cock, molto verosimilmente tratta da un disegno di Heemskerck39. Il cardinale morì nel 1534; la sistemazione della collezione alla sua morte era ben lungi dall’essere completa. Fu suo nipote Camillo Capranica che finí di installare la collezione, resa famosa dal catalogo di Aldovrandi. È perciò difficile dire se l’edificio e le antichità abbiano sofferto dell’occupazione imperiale. Il «cortile», in ogni caso, era ben provvisto di frammenti, che talvolta e stato possibile identificare nella stampa fiamminga, e se questa risale a uno schizzo del 1533 o ’34, parrebbe che i guasti non siano stati gravi.
Reliquie. Secondo i termini dell’atto di capitolazione del 5 giugno, che prevedeva un risarcimento di quattrocentomila ducati, una clausola indicava che il pontefice avrebbe tolto «ogni censura, scomunica, pena, interdetto, in cui [capitani e soldati] fossero incorsi per atti commessi anteriormente contro Sua Santità e il Seggio apostolico». Il che significava un’assoluzione in piena regola per le azioni perpetrate durante il sacco. Poiché le cose si trascinarono tutta l’estate, una bolla, preparata, pare, al principio di settembre e conosciuta in un solo esem-
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plare, confermava che il papa perdonava ai vincitori40. Una lettera del segretario imperiale Pérez segnala infatti il 2 settembre la buona notizia all’imperatore. Si capisce questa preoccupazione nei capi dell’esercito imperiale. Ma i gesti di conciliazione annunciati, poi dichiarati, da Clemente, lasciarono le cose com’erano e sprofondarono nell’immensa confusione della fine dell’anno. La lista delle chiese saccheggiate e profanate è lunga quanto imprecisa. Resta molto da fare per controllare e completare le informazioni episodiche e frammentarie. È certo però che tutto quanto poteva avere un qualche rapporto con gli avversari dell’imperatore, con il partito francese, ad esempio, fu trattato con particolare crudeltà. Per quanto male informati si sia sulla prima chiesa di San Luigi dei Francesi, il tempio tondo con i grandi medaglioni scolpiti nel travertino ammirati da Vasari fu interrotto nel 1527, data in cui scompariva il suo autore, Jean de Chennevières41. Si sa anche che contro Trinità dei Monti, centro di propaganda francese, vi fu una vera spedizione punitiva, a causa dei legami del convento con il partito francese42. Fu una brutta vicenda, di cui dovremo riparlare. Il disastro fu irreparabile per le oreficerie sacre: oggetti liturgici, reliquari preziosi e simili, di cui le chiese erano ricchissime: Si sono ricercate le bolle papali, le lettere e i registri nei monasteri e nei conventi per bruciarli e strapparli: i loro brandelli sono serviti al posto della paglia nelle case e nelle scuderie per gli asini e i cavalli. In tutte le chiese, San Pietro, San Paolo, San Lorenzo e anche in quelle piccole, calici, pianete, ostensori e ornamenti sono stati sottratti e i saccheggiatori non trovando la Veronica hanno preso altre reliquie.
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È ciò che si legge nell’opuscoletto tedesco Die Warhafftige und Kurtze Berichtung: «[Veritiera e breve relazione], scritta da un soldato di Frundsberg, forse tirolese, e pubblicato nell’estate o nell’autunno del 1527, probabilmente per informare della vittoria dei contadini diventati lanzichenecchi»43. Due indicazioni sono importantissime: l’assalto alla città del papa era stato, per una buona metà dell’esercito imperiale, una specie di pellegrinaggio alla rovescia, o, se si vuole, un atto di profanazione calcolata, che aderiva alle linee tradizionali della devozione che attirava a Roma migliaia di fedeli. La legittimità dell’autorità pontificia si esprimeva con le bolle sigillate; le somme ricevute in pagamento delle indulgenze erano scritte sui registri. Pertanto ciò che venne buttato nel letamaio, calpestato e disperso, furono i conti dell’obolo di San Pietro e gli archivi delle rendite delle regalie. Gli invasori presero di mira anche i ricordi storici, come la croce d’oro di Costantino e la tiara di Nicola V, di cui non si trovò più traccia44. Gli oggetti liturgici – calici, patene ecc. – scomparvero dalle sacrestie con le reliquie, ossia quegli oggetti di venerazione familiari a tutti i pellegrini, nelle loro preziose custodie45. L’apice del sacco di Roma fu quest’accanimento contro gli oggetti sacri e gli oggetti tradizionalmente legati nella mentalità popolare alla devozione. Tutte le relazioni insistono con orrore su questo punto. In una si legge che «gli imperiali hanno preso le teste di San Giovanni, di San Pietro e di San Paolo; hanno rubato l’involucro d’oro e d’argento e hanno buttato le teste nelle vie per giocare alla palla; di tutte le reliquie di Santi che hanno trovato, hanno fatto oggetto di divertimento»46. Le teste degli Apostoli evidentemente erano venerate in modo particolare: quella di San Giovanni nella chiesa di San Silvestro, quelle di Pietro e Paolo nel Laterano, quella di Sant’Andrea in San Pietro, dove
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era stata collocata in un reliquiario di marmo al tempo di Pio II. Vanno ancora ricordati molti frammenti della Vera Croce, il ferro della Lancia consegnata solennemente a Innocenzo VIII dal sultano Bajazet, e, naturalmente, il Sudario, la Veronica. Ve n’erano altre centinaia47. Tutta la cristianità che credeva all’importanza religiosa di tali reliquie tremava per la Veronica. Questa, l’abbiamo già ricordato, era la reliquia per eccellenza; la sua popolarità presso i pellegrini ne aveva fatto il vero palladium della Città Santa48. Quando Carlo VIII era arrivato a Roma nel 1494, il papa, incerto sulle intenzioni del re, si era rifugiato in Castel Sant’Angelo portando con sé la Veronica e le reliquie dei santi Pietro e Paolo49. Nel 1527, Clemente VII non ebbe il tempo di metterle in salvo. Ben presto si sparsero le notizie più apocalittiche a proposito di questi oggetti, e le relazioni diplomatiche ne parlarono. È una questione dibattuta se la tomba di San Pietro sia stata violata o meno. Una lettera indirizzata da uno «scriptor brevium» apostolico, un canonico di Spira, in data 17 giugno, menziona «la profanazione di tutte le chiese, l’esecuzione di parecchie persone sull’altare di San Pietro, l’effrazione dell’urna o tomba che racchiudeva i resti dei santi Pietro e Paolo e anche la profanazione delle reliquie». Non è sicuro che questo sacrilegio totale abbia avuto luogo; ma la voce è corsa con insistenza50. La Cappella Sancta Sanctorum, al Laterano, meta di un pellegrinaggio particolarmente solenne, racchiudeva un tesoro celebre, gelosamente custodito51. Si trattava di una reliquia dal duplice significato: le teste di Pietro e Paolo erano state deposte sull’altare maggiore della basilica vicina da Urbano VI, al ritorno da Avignone. Altri oggetti erano ancora stati mostrati alle folle di fedeli sotto Leone X. Un rapporto ufficiale inviato all’imperatore segnalava che il santuario «oggetto della massima
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venerazione più di qualsiasi altro» era stato saccheggiato. Si era pensato che la cavità sotto l’altare fosse stata risparmiata, grazie al sistema complicato di chiusura a chiavi multiple. I reliquiari murali e quelli che si trovavano sopra l’altare furono spezzati e vuotati. Il reliquiario contenente la Santa Croce, dell’epoca di Paolo II, veniva collocato nei giorni festivi sull’altare della Cappella Sistina. Scomparve in maggio e anch’esso fu ritrovato in seguito. Clemente fece disporre il legno in una croce di cristallo conservata nella sacrestia52. Panvinio, che ha citato una specie d’inventario redatto sotto Leone X, spiega come sia difficile recensire le perdite, perché i pezzi erano tutti confusi insieme: «arca cum multis reliquiis, multae sine nomine reliquiae, capsulae, arculae et pyxides»53. Tutto quel che manca è stato rapinato durante il sacco, o distrutto dal tempo, a meno che non siano stati fatti prelievi dalla stessa amministrazione pontificia per cavarne oro. Nei casi in cui i reliquiari furono asportati, gli oggetti che contenevano poterono essere ritrovati anche lontano da Roma. Per esempio, una grande croce d’argento cesellata, di un modello del xv secolo piuttosto corrente, è stata ritrovata, secondo la tradizione, ed è oggi conservata a Poggio Mirteto54. La reliquia detta della Circoncisione, rubata da un lanzichenecco nella Cappella Sancta Sanctorum del Laterano, ricomparve a Calcata nel Lazio; ricollocata, in circostanze impossibili a stabilirsi, in un elegante reliquiaria, valse alla piccola collegiata un’indulgenza plenaria durante la visita del papa Sisto V nel 1585. L’oreficeria originale è evidentemente scomparsa, ma è possibile che il tipo del nuovo reliquiario, con i suoi due angeli d’argento che reggono il ricettacolo, ne riprendano lo stile55. Una recente esposizione ha permesso di constatare quanto poco rimanga: praticamente il sacco di Roma ha annullato la maggior
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parte dell’oreficeria di Chiesa e a questa causa va attribuita la nostra scarsa informazione su questo genere di arte nell’Italia centrale. Molto presto, a quanto pare, corsero voci su interventi miracolosi destinati a impedire sacrilegi, e, in ogni caso, la letteratura posteriore ne ha spesso fatto menzione56. Si dice che talune immagini sacre manifestassero il loro dolore57. La storia delle reliquie non può infatti essere cosa comune. Il ricupero delle preziose vestigia di cui Clemente si preoccupava fin dall’ottobre 1527 avvenne in un tempo record58. Quando l’esercito imperiale ebbe definitivamente evacuato Roma, nel 1528, alcuni ufficiali spagnoli, per scrupolo di coscienza o obbedendo a ordini superiori, si diedero a raccogliere le reliquie e a restituirle a Roma. Il capitano Giuliano de Castillo è ricordato a questo titolo in un documento degli archivi vaticani Instrumentum relationis reliquiarum a militibus Borboni ab urbe extractis [sic], ossia: constatazione del ritorno delle reliquie portate via dalle truppe di Borbone59. I pezzi ricuperati a Roma e all’estero furono portati in San Marco e il 26 novembre 1528 una processione solenne li trasportò in Vaticano. L’importanza di questa azione riparatrice è stata così ricordata: «Molte sacre reliquie rubate nelle chiese di Roma essendo state portate nel reame di Napoli da quell’esercito feroce, ne fu ricuperato un gran numero e furono riportate a Roma»60. Il documento, detto Instrumentum, è dei più sconcertanti. Contiene centinaia di riferimenti per cui ci si chiede come e da chi gli oggetti possano essere stati identificati. Le menzioni sono una più inverosimile dell’altra: una stoffa dove si vede la traccia di una goccia del latte della Vergine, ossa di martiri e così via61. Tutto dimostra che durante quei mesi vi fu uno sforzo crescente per ritrovare a qualunque costo le vestigia, in un ritorno di attività superstiziosa, che rivela un attacca-
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mento più forte che mai anche ai tratti più banali della devozione. In pari tempo cominciava a diffondersi la notizia che le grandi reliquie erano state miracolosamente preservate. I primi rapporti avevano potuto esagerare nella precisazione di particolari sensazionali. In una lettera del 21 maggio rivolta da un «messere Urbano» alla duchessa di Urbino e ricopiata in Sanuto si legge: «Le sacre reliquie sono state disperse. La Veronica è stata rubata; la si è passata di mano in mano e in tutte le taverne di Roma, senza che nessuno se ne indignasse; un Tedesco ha piantato il ferro della lancia che ha colpito il Cristo su di una picca ed è corso attraverso il Borgo per scherno»62. Questo forse è giornalismo «a sensazione». Provocò commenti vivaci di tono ma un po’ imbarazzati di Valdés e le proteste indignate di Castiglione. Ma a poco a poco le indicazioni mutarono di segno, e uno dei testimoni oculari del sacco, sopravvissuto alle tragiche settimane, Alberini, scrisse, nelle sue memorie (redatte, e vero, molto più tardi): «La Veronica, la testa di Sant’Andrea in San Pietro, quelle dei Santi Apostoli Pietro e Paolo in San Giovanni in Laterano, e l’effigie miracolosa del Salvatore nel Sancta Sanctorum... non hanno potuto essere profanate da quelle mani infami». Si raccontò come i soldatacci sacrileghi che demolirono il tabernacolo delle reliquie al Laterano, fossero atterriti da rumori insoliti e fuggissero63. Tutte queste tradizioni furono raccolte in documenti manoscritti utilizzati dall’archivista – archeologo di San Pietro, Jacopo Grimaldi, nell’opera da lui pubblicata nel 1621, che segna il punto finale di questa curiosa faccenda. Era il momento in cui il nuovo San Pietro era appena terminato. Non dobbiamo dimenticare che la basilica-madre della cristianità era rimasta incompiuta e, per così dire, sventrata per un buon mezzo secolo. All’e-
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poca del sacco, i continui lavori di ricostruzione avevano creato un tremendo disordine nelle cappelle, tombe e reliquiari. E non c’è quindi da stupirsi che si creasse confusione nei saccheggi come nelle riparazioni. Dopo il compimento della cupola di Michelangelo, poi della navata e della facciata del Maderno, ebbe luogo un solenne trasporto delle opere e in ispecie delle reliquie ricuperate da circa un secolo, che aspettavano una sistemazione definitiva. L’opera di Grimaldi Instrumenta autentica translationum sanctorum corporum et sacrarum reliquiarum e veteri in novam basilicam, apparve come il «dossier» finale sulle grandi reliquie. Annunciava la prodigiosa sistemazione realizzata dal Bernini alcuni anni dopo delle quattro maggiori reliquie, ognuna raffigurata da una statua spettacolare: San Longino del Bernini per la Lancia, Sant’Andrea di Duquesnoy per il suo capo (reliquia che nel 1964 fu riportata a Patrasso, donde era venuta nel secolo xv, in omaggio alla chiesa greca ortodossa), Santa Veronica di Francesco Mochi per il Sudario, Sant’Elena di Andrea Bolgi per il Legno della Vera Croce. Da molto tempo era stato diffuso il Trattato delle reliquie di Calvino e si era compiuta la rottura fra la cristianità riformata del Nord e il mondo cattolico. Con il nuovo San Pietro, Roma cercava di riparare una delle profanazioni risentite più fortemente nel 1527. Era un modo di riparazione magnifico, ma non aboliva il sacrilegio. C’era stata una specie di ondata enorme contro le reliquie e le immagini, non solo nella Sassonia di Lutero, nella Svizzera di Calvino, ma anche nell’Inghilterra di Enrico VIII e di Elisabetta. Erasmo e Thomas More avevano messo in guardia contro la «ciarlataneria di una certa fede nelle ossa e nei santi». Ma nel novembre 1538, dieci anni dopo la processione riparatrice sotto Clemente VII, quando Enrico VIII fece cancellare Thomas Beckett dal calendario, e distruggere la teca di Can-
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terbury, l’importanza del mutamento di atteggiamento saltò agli occhi di tutti. Il sacco di Roma divenne per tutti gli iconoclasti della cristianità occidentale una prova che la protezione divina non riguardava le immagini, e ciò tanto più chiaramente in quanto si trattava delle reliquie più venerate della cristianità, delle reliquietipo64. Una grande parte dell’arte antica era destinata a scomparire per sempre perché l’oro e le gemme dei reliquiari, se venivano profanati, diventavano di proprietà pubblica. Non solo si ebbe un vasto rimodellamento di oggetti preziosi, dei quali si perse in tal modo il significato religioso, ma l’arte stessa cambiò di significato e di contenuto, e questo può essere una conseguenza del sacco di Roma. L’avvenimento fu visto in tutta la cristianità come una gigantesca profanazione. In una lettera inviata da Portofino il 27 giugno al nunzio d’Inghilterra, Sanga scrisse: Quali Goti, quali Vandali, quali Turchi, sono mai stati pari a questa armata imperiale negli atti sacrileghi commessi? Occorrerebbero volumi per descrivere uno solo dei loro delitti. Hanno buttato a terra il sacro corpo del Cristo, rubato il calice, calpestato le reliquie dei santi per rovinarne gli ornamenti. Né chiesa, né convento sono stati risparmiati. Hanno violentato le monache tra le urla delle loro madri, bruciato gli edifici più splendidi, trasformato le chiese in stalle, usato i crocifissi e le immagini come bersaglio per gli archibugi. Non è più Roma, ma la tomba di Roma. Hanno vestito da lanzichenecco il vecchio crocifisso di legno venerato da tutti i popoli che si trovava su uno dei sette altari di San Pietro. I santi Pietro e Paolo che da così lungo tempo erano sepolti sotto l’altare di San Pietro, non hanno mai sofferto nulla di così indegno, perfino da chi li aveva martirizzati65.
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Una lettera di Vincenzo da Treviso, datata 15 giugno afferma: «Non c’è Christo per le chiese che non habia cento et duxento costelade»66. Ci furono anche altri episodi. Si sapeva che periodicamente, all’ingresso del ponte, la dove Heemskerck aveva collocato i suoi portastendardi, si levavano scherni e grida ingiuriose. L’Historia direptionis riferisce quella che possiamo definire la massima parodia: «Uno di quelli, che si distingueva un poco per la maestà del portamento e per la statura, rivestì l’abito pontificio, si mise sul capo la triplice corona, si avvolse delle bende e delle vesti più preziose e si fece portare con tutta la pompa di una processione papale su un magnifico cavallo. Parecchi altri avevano vesti vescovili, taluni mitrie e mantelli di porpora». Come non ricordare a proposito di questa mascherata l’ingresso solenne del papa su un cavallo bianco, sul bassorilievo della Stanza di Costantino? Il vero e proprio simbolo del potere pontificio è distrutto da questa parodia. La processione di scherno si fermò davanti a Castel Sant’Angelo, proclamò fedeltà a Cesare reclamò l’abolizione del fasto pontificio, e richiese che Clemente cedesse a Lutero vele e remi della «Navicella». Allora la massa gridò: «Vivat Lutherus pontifex!»67; e tutto ciò, sottolinea l’Historia, si svolgeva sotto gli occhi di Clemente VII. In tal modo tutto il cerimoniale esteriore del papato, e con questo la dignità stessa della liturgia, erano degradati e dissacrati. La crisi del rituale, già seria in tutta la cristianità, non poteva che risultar aggravata da queste pantomime. Il capitano Schertlin von Burtenbach non poté trattenere il suo turbamento e scrisse nel suo diario: «Signore! A che punto è la Chiesa e la religione cristiana, se ha potuto verificarsi una così terribile vittoria, sì che noi, cristiani, abbiamo devastato la capitale della nostra religione! Come si saranno rallegrati i turchi, i pagani, i giudei!»68.
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Molto tempo dopo, il figlio del Bernini, Domenico Bernini, ritornò sull’argomento nella sua opera in quattro volumi Historia di tutte l’Heresie, apparsa a Roma all’inizio del xviii secolo. Secondo lui, gli avvenimenti del 1527 fanno parte di una grande ribellione antiromana: «Queste nostre perdite in Italia furono i maggiori fattori del trionfo degli eretici in Germania». Domenico ha attinto da «diarii» allora ancora inediti, come quello di Armellini, e al tempo stesso da fonti di storia ecclesiastica già pubblicate. Egli riassumeva il pensiero di autori precedenti. In linea generale, preti e prelati furono maltrattati; quanto più li si poteva supporre di grado elevato nella gerarchia, tanto più venivano tassati e, per costringerli a pagare, la soldataglia rivaleggiava in invenzioni sinistre. Queste sono state riferite da tutti gli storici, senza che vi sia modo di distinguere il vero dal falso. Il cardinale Caetano per esempio, avversario di Lutero, fu malmenato, beffeggiato, e portato in giro per le strade con le mani legate, come Ponzetti, che però era un vecchio imperiale, «ottantenne e più morto che vivo». Al cardinale Numalio, generale dei Francescani, toccò una parodia di sepoltura e fu portato in una bara fino all’Aracoeli69. Vi fu la festa dell’asino, addobbato con ornamenti sacerdotali, al quale un povero prete rifiutò a costo della vita di dare la comunione70. Tutto questo avveniva precedentemente alla prima – e falsa – partenza dell’estate. Ostili o no al Santo Padre, alla Curia romana, agli italiani, gli autori di relazioni sul sacco hanno spesso sottolineato, come nel caso di un rapporto spagnolo, lo strano vuoto creatosi improvvisamente nella capitale della cristianità: «non si odono più campane, nessuna chiesa è aperta, non si celebra più la messa... Non si sa che dire o a che cosa paragonare tutto ciò, se non alla distruzione di Gerusalemme. Non credo che vi sia mai
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stato qualcosa di simile»71. Ma – aggiunge il medesimo testo – questo evento inaudito, scandaloso racchiude una grande lezione. La città di Roma era la dimora di tutti i vizi. «Tutto questo non è avvenuto per caso, ma per effetto della giustizia divina. Se ne erano avuti, infatti, ben più che numerosi presagi». L’annuncio della catastrofe significava ch’essa era un castigo del cielo. Il silenzio terribile della città morta sul finire del 1527 e nel 1528 è quindi denso di significato.
Il prestigio dei soldati mercenari. Una cosa che non si era ancora mai veduta, era quel miscuglio internazionale, quell’assalto violento di spagnoli e di tedeschi, quella lunga agonia degli abitanti di Roma – loro stessi di così varia origine – in una città disorganizzata, in mano a soldati di ventura, diversissimi per costume, linguaggio, comportamento. Ne risultò un odio duraturo tra spagnoli e tedeschi72, ma con curiose sfumature: «Mali fuere Germani, pejores Itali, Hispani vero pessimi», scrisse il priore dei canonici di Sant’Agostino, Kilian Leib73. Questo apprezzamento è sfumato nell’Historia direptionis: «La rabbia degli Spagnoli fu più viva e più atroce mentre quella dei Tedeschi più ignobile nei tormenti inflitti ai preti74. È certo in ragione di questa voce insistente, e molto verosimilmente, ben fondata, che il generale dei Francescani, Francisco Quiñones, parlava dei «capitani di Lutero» e ingiungeva all’imperatore, a quanto riferisce Navagero, di disarmare le sue truppe per non meritare egli stesso questo appellativo75. Si riversava perciò sui lanzichenecchi eretici tutto l’obbrobrio del saccheggio e dei sacrilegi. Ma, per quanto ne conosciamo, nessuna immagine ci è giunta che ne illustri le gesta. Gli italiani avevano periodicamente esaltato i loro
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comandanti militari; i grandi «condottieri» hanno fornito un magnifico tema a pittori e scultori, come, del resto, ai poeti. Nella confusione del 1527, le uniche grandi figure che emersero, furono Giovanni dalle Bande Nere – che fu onorato a Firenze dopo il 1540 dalle statue del Bandinelli76 – e Carlo di Borbone – la cui tomba conobbe varie vicissitudini77. Il carattere alquanto eccezionale del periodo dipende dal fatto che, dal punto di vista militare, tutto è dominato dagli andirivieni della temuta truppa dei lanzichenecchi. Ogni età possiede un tipo particolare di furfante, avventuriero, buonanulla, dotato di uno strano e discutibile prestigio. Questo personaggio, dopo il 1525 era il lanzichenecco, Landsknecht, miles provincialis, rivale degli svizzeri sul mercato dei mercenari. Questo interesse per i soldatacci terribili si nota chiaramente nei disegni dei pittori svizzeri, prima di tutto Nicolas Manuel, e Urs Graf78. Su uno schizzo di quest’ultimo, apparentemente tratto dal vero, un ufficiale reclutatore francese si sforza di attirare uno svizzero accanto al quale e seduto a un tavolo un lanzichenecco; a sinistra la morte, a destra la follia incorniciano la scena. Non esisteva nulla di paragonabile in Italia e ancor meno a Roma. Le splendide xilografie di Weiditz, il «Maestro del Petrarca», anteriori di poco agli avvenimenti, prefiguravano in modo notevole le scene di violenza, di saccheggio, e i gesti sacrileghi79. Poiché in Italia non usavano incisioni illustrative di scene di genere e le stampe di avvenimenti d’attualità quasi non esistevano, è difficile immaginare chi avrebbe potuto fare cose di questa specie. Comunque sia, c’è forse un’allusione contemporanea in certi quadri d’altare, per esempio nella Deposizione dovuta a un pittore marchigiano, Vincenzo Pagani80. La composizione, priva di finezza e di originalità, è dominata dal Calvario. Al piede delle croci si collocavano tradizionalmente solda-
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ti romani e orientali con il turbante, ad indicare coloro che, storicamente o simbolicamente, avevano crocifisso e continuavano a crocifiggere il Cristo. Si vedeva negli ottomani, gli infedeli, l’incarnazione del male. I soldati romani spesso venivano identificati con i guerrieri contemporanei. Nell’opera del Pagani si riconosce un distaccamento di lanzichenecchi nella truppa, che, bandiera in testa, marcia verso la città di Gerusalemme ai piedi della collina. Il sacco di Roma avrebbe potuto essere evocato indirettamente raffigurando le truppe in carattere moderno, o con qualche cenno aneddotico. I soldati di Frundsberg avrebbero potuto essere riconoscibili dall’abbigliamento. Ma testimonianze del genere sono eccezionali. Quest’assenza stessa è interessante in quanto ci ricorda che le arti, a differenza della fotografia, non avevano lo scopo di registrare l’attualità. Quando ne trattengono una figura o un episodio, si opera una trasposizione all’interno delle strutture abituali. Oppure, come vedremo con le reazioni di Clemente, avviene su un piano del tutto inatteso di proiezione religiosa80. Naturalmente e impossibile ricostruire la sorte di molti soldati dell’exercitus caesareus, ma si può supporre che un certo numero di loro conobbero, se non il rimorso, per lo meno le ingiunzioni di confessori che li predisposero alla contrizione. L’abbiamo veduto con la storia del trittico di Clemente VII in Sardegna e con il caso del capitano spagnolo Giuliano de Castillo, che si adoperò per ricuperare le reliquie rubate. Tutti sapevano che molto oro era stato estorto e molte opere portate via in segno di disprezzo. Gli scrupoli degli spagnoli riguardo ai reliquiari e alle reliquie consentirono la processione riparatrice del dicembre 1528. Ma le fortune nate dal sacco hanno anche creato ai loro beneficiari talune difficoltà. A questo proposito quel capitano Maramaldo, che aveva trafficato così bene coi pezzi
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antichi, non lasciò questo mondo con tutti gli onori: «Un colonnello della fanteria di Borbone, Fabrizio Maramaldo di Napoli, volle lasciare alla sua morte una certa somma di danaro alla casa di San Paolo di Napoli. Il pio padre Giovanni Marionò non lo accettò, temendo che si trattasse di danaro rubato durante il sacco della santa città di Roma»82.
c. prandi, Villa Lante, Roma 1955. p. 4) fig. 2. Dei graffiti del 1527 sono forse esistiti anche negli appartamenti Borgia. r. lanciani, The Destruction of Ancient Rome, London 1901, cap. XVIII, pp. 222-23, ha segnalato che vi erano «names scratched with a pointed instrument on the lower surface of the wall... but whether they are the names of the mercenaries of Charles Vth or of more penciful visitors of later times I cannot say». 2 Questo testo si trova in g. kirchmair, Denkwürdigkeiten seiner Zeit (1519-1553). Fontes rerum austriacarum, sez. 7, vol. I, Wien 355, pp. 7 e 8. Un testo analogo è parzialmente citato come proveniente da Sebastian Schertlin von Burtenbach, uno dei capitani dei lanzichenecchi, di janssen, L’Allemagne et la Réforme cit., III, p. 140; e von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte 11, libro II, p. 113. Sulle condizioni dell’accordo del 5 giugno, cfr. hook, Sack of Rome cit., pp. 209-10. 3 von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte II, libro III, pp. 311-12; hook, The Sack of Rome cit., pp. 226-28. 4 guicciardini, Storia d’Italia cit., XVII (V, pp. 189-90). 5 d. redig de campos, Il nome di Martin Lutero graffito sulla «Disputa del Sacramento», in «Ecclesia», 6 (1947), pp. 648-49; Un altro graffito del Sacco nelle Stanze di Raffaello, in «Ecclesia», 19 (1960), pp. 552 sgg.; Raffaello nelle Stanze, Milano 1965, pp. 20 sgg. André Malraux ha sviluppato curiosamente questi temi in un finto colloquio con Picasso: «Quando il conestabile di Borbone ha preso Roma, i suoi arcieri hanno scelto come bersaglio la Scuola di Atene. – Non amavano Raffaello? Già cubisti? – Per mesi, tutti i personaggi: Platone che era Leonardo da Vinci, e non so più quale che era Michelangelo, e tutti gli altri, hanno avuto frecce conficcate negli occhi... Bella scena per un film» (andré malraux, La corde et la souris, Paris 1976, pp. 410-11). Il graffito sulla parete nord della «Sala della prospettiva» è stato riprodotto in: La Sala della prospettiva. Storia e restauro, catalogo della mostra organizzata a Roma, alla Farnesina, nel giugno-luglio 1981, a 1
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 cura dell’Istituto Centrale del Restauro. Ringrazio la dott.ssa Rosalia Varoli-Piazza per avermi procurato la fotografia. 6 l. dolce, L’Aretino, 1567, in Trattati d’arte del Cinquecento, a cura di p. Barocchi, I, Bari 1960, pp. 151-52; r. pallucchini, Sebastian Viniziano, Milano 1944, p. 123; l. düssler, Sebastiano del Piombo, Basel 1942, pp. 112 e 213. * [«Dio abbia l’anima di Borbone»]. 7 Non vediamo su che cosa si fondi hess, On Raphael and Giulio Romano cit., p. 72, per applicare alla Stanza di Costantino l’informazione data da Dolce: «il fuoco... in una delle camere dipinte da Raffaello». Secondo j. d. pas savant, Rafael von Urbino und sein Vater Giovanni Santi, vol. I, Leipzig 1839, p. 264, deve trattarsi della Stanza dell’Incendio, il che è assai improbabile, poiché vi si trova un caminetto. Ciò non cambia nulla al ragionamento a proposito dei rivestimenti in legno della Segnatura. Sui restauri delle Stanze, cfr. b. biagetti, Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie nel quadriennio 1930-1934, relazione in «Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia», 10 (1935), p. 91. 8 Gli autori sono indicati da vasari, Le vite cit., IV, p. 363. Cfr. p. lugano, Fra Giovanni da Verona e i suoi lavori alla Camera della Segnatura, Roma 1908. 9 Secondo j. klacko, Jules II, Paris 1898, p. 75 nota 218, le tarsie sono scomparse al tempo del sacco. shearman, The Vatican Stanze cit., p. 414 nota 96, pensa piuttosto che «almost certainly they survived until the insertion of the fireplace». La probabilità ci sembra andare nell’altra direzione. Il fatto che la stanza continuò a chiamarsi «camera della Tarsia» non è una prova. Un piccolo particolare che forse non è trascurabile, la mancanza di legna nella città alla fine dell’estate: «ed è l’ultima ruina di questa città». Lettera di S. Fanzino del 23 ottobre 1527, citata da sanuto, Diarii cit., coli. 294 sgg. 10 Vasari riferisce nella vita di Guillaurne de Marcillat che i vetrai francesi «ne fecero per le camere papali infinite», tutte distrutte nel 1527 tranne una ch’egli segnala nella Camera del fuoco (la Stanza dell’Incendio). Cfr. redig de campos, Raffaello nelle Stanze cit., p. 19. 11 cellini, La vita cit., cap. xxxviii. 12 Questo è stato bene indicato da e. rodocanachi, in Rome au temps de Jules II et de Léon X, Paris 1912, che contiene un lungo esposto sul sacco di Roma. 13 Documenti di questo tipo, del 9 maggio, del 21 luglio, del 13 agosto, del 6 ottobre, sono stati pubblicati da p. marzio, Della guerra fra Clemente VII e gli imperiali, e documenti inediti in proposito, nel giornale romano «Il Saggiatore», 1844, n. 10, pp. 305 sgg., e n. II, pp. 337 sgg.; g. cavalettialondini, Nuovi documenti sul sacco di Roma del
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 MDXXVII, in
«Studi e Documenti di Storia e Diritto», 5 (1884), pp. 221 sgg., ha dato un certo numero di documenti sulle «taglie» e le loro vittime, i debiti, depositi, prestiti, ecc. 14 m. armellini, Gli orrori del saccheggio di Roma l’anno 1527 descritti da un cittadino romano di quel tempo, in «Cronachetta Mensuale di Scienze Naturali e d’Archeologia», 20 (1886), p. 93. 15 rodríguez-villa, Memorias cit., p. 139. 16 dorez, Le Sac de Rome cit., p. 400. 17 h. omont, Les suites du sac de Rome par les Impériaux et la campagne de Lautrec en Italie, in «Mélanges d’Archéologie et d’Histoire», 16 (1896), p. 52. 18 Per i furti e distruzioni delle biblioteche, non possiamo che rimandare allo studio di L. Dorez (cfr. nota 16), che ha tratto notevole partito dalla testimonianza di César Grolier, che fu presente al sacco, pubblicata nel 1637. 19 g. müntz, La bibliothèque du Vatican au XVIe siècle, Paris 1887, con le osservazioni di v. cian, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 9 (1887), pp. 454 sgg. Sulla visita dell’ottobre 1529 fatta dal cardinale A. Del Monte, cfr. g. mercati, Cenni di A. del Monte e G. Lascaris sulle perdite della Biblioteca Vaticana nel 1527, 1910, ristampato in Opere minori, vol. III, Città del Vaticano 1937, pp. 130 sgg. 20 erasmo, Letters, a cura di p. S. Allen, 12 voll., Oxford 1966-68, VII, n. 2059. 21 p. melantone, Oratio de capta et direpta urbe Roma, pubblicata in latino da s. schard, Historicum opus, Basel 1574, vol. II, pp. 1860-65. Ne parla per sentito dire: «Hacc monumenta, cum aeterna esse debuerint, tamen furore militum aliqua ex parte corrupta dicuntur. Et haud scio an impia flamma per urbem vagata, bibliothecas etiam attigerit» (p. 1863). A questo proposito, cfr. cap. vi. 22 Cfr. cap. iv. 23 Lettera di G. Barozzi al fratello, 12 maggio 1527, in sanuto, Diarii cit., XLV, col. 418. 24 j. shearman e i. white, Raphael’s Tapestries and their Cartoons, in «Art Bulletin», 45 (1958), pp. 193-221. 25 Nella corrispondenza dei Gonzaga si parla sempre del recupero di questi arazzi «ricomprati ai soldati». In una lettera di Ferrante alla madre Isabella del 15 dicembre 1529, pubblicata da Gaye, Carteggio cit., vol. II, p. 222, si accenna al recupero della Conversione di San Paolo e di Paolo predica ad Atene. Cfr. luzio, Isabella d’Este e il Sacco di Roma cit., pp. 234 sgg. Una lettera a Felice Della Rovere del 22 maggio 1528 informa che, da una nave presa dai Mori, il capitano Cazadiavolo ha riportato «la bella tapezzaria del papa». Le attività di Isabella in favore delle sue collezioni sono state esaminate da e. malcolm-brown, «Lo insaciabile desiderio nostro di cose
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 antique». New Documents on Isabella d’Este’s Collections of Antiquities, in Cultural Aspects of the Renaissance, a cura di Cecil H. Clough, Manchester 1976, n. 18, pp. 32 sgg. Numerosi acquisti, negoziati, ecc. vengono segnalati, pp. 335 sgg., per il periodo 1527-29. 26 shearman e white, Raphael’s Tapestries cit., pp. 215-16. 27 von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte I, libro 1, p. 474. b. biagetti, Relazione III: monumenti, musei e gallerie pontificie nel quadriennio 1930-34, in «Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia», 9 (1933), p. 138, ill. 60-61. 28 154 x 57 cm. Cattedrale di Cagliari. c. aru, Il trittico di Clemente VII nel Tesoro del Duomo di Cagliari, in Mélanges Hulin de Loo, Bruxelles e Paris 1931, pp. 16 sgg. 29 Citato da dorez, Le Sac de Rome cit., p. 369. 30 gregorovius, Storia della città di Roma cit., ha probabilmente avuto ragione di affermare che i vincitori non si sono preoccupati delle antichità; lanciani, The Destruction of Ancient Rome cit., pp. 237 sgg., ha ripreso questo punto di vista, che bisogna tuttavia sfumare in ragione dei rapporti d’affari di Maramaldo e di altri con collezionisti principeschi. 31 a. luzio, Fabrizio Maramaldo. Nuovi documenti, Ancona 1883, p. 26. 32 Alfonso d’Este cercava, come il marchese di Mantova, di fare provvista di opere d’arte: lettera di Girolamo Naselli al duca di Ferrara, datata 25 giugno (Archivio di Stato di Modena), pubblicata da g. salviolo, Nuovi studi sulla politica e le vicende dell’esercito imperiale in Italia nel 1526-27, e sul Sacco di Roma, in «Archivio Veneto», A (1878), pp. 27-33. In una lettera del 5 giugno 1527, di un certo Sigismondo Fanzino della Torre a Federico (?), si parla di «cinque teste e una gran figura» (luzio, Fabrizio Maramaldo cit., pp. 27 sgg.). Secondo e. verheyen, The Palazzo del Tè in Mantua: Images of Love and Politics, Baltimore 1977, gli oggetti promessi da Maramaldo arrivarono effettivamente a Mantova nonostante le prevedibili difficoltà di trasporto. Clifford M. Brown, nella recensione uscita in «The Art Bulletin» del marzo 1980, p. 164, nota che la lettera del Della Torre del giugno 1534 esclude tale possibilità perché fa riferimento a «lo inganno dei Signor Fabritio [sic] e la disgratia de la peste». Maramaldo aveva ricevuto cento corone da Chigi per risparmiare la sua collezione; era infatti capace di fare il doppio gioco. 33 Paolo Cesi (1481-1537) cardinale nel 1517. a. chacón [ciaconius], Vitae et resgestae Pontificum romanorum, vol. III, Roma 1677, p. 414: «Post urbis miseram cladem cum adhuc in Hadriani arce custodiretur, cum suae res aliae omnes in incerto essent, cum de salute desperaret, nihil antiquius habuit quam curare ne antiquae inscriptiones aut
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 tabulae a militibus perderentur, auferrentur, alienarentur». Citato da c. hulsen, Römische Antikengärten des XVI. Jahrhunderts, in «Abhandlungen der Heidelberger Akademie der Wissenschaften», 4, 1917, 1, n. 4. Cfr. anche d. gnoli, Il giardino e l’antiquario del cardinale Cesi, Roma 1905. 34 lanciani, Storia degli scavi cit., vol. I, pp. 153 sgg. 35 La collezione di antichità riunita «in aedibus Maximorum Rome» è ricordata nella raccolta di Claude Belièvre, c. 1512. Ma bisogna tenere conto dell’esistenza di numerose case e «vigne» ugualmente piene di frammenti antichi, possedute da quella ricca famiglia. fr. ibid., vol. I, pp. 172-74- e. müntz, Le Musée du Capitole et les autres collections romaines, in «Revue Archéologique», 43 (1882). 36 L’estinzione della famiglia Massimo e la distruzione del loro palazzo è segnalata in una lettera di Sigismondo Fanzino, rappresentante del marchese di Mantova. Cfr. sanuto, Diarii cit., XLV, COI. 294. Sui palazzi della famiglia Massimo, cfr. c. l. frommel, Der römische Palastbau der Hochrenaissance, Tübingen 1973, vol. II, nota 20. 37 gregorovius, Storia della città di Roma cit.; von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte II, libro III, p. 266. 38 «Quid mirari hospes tot numina muta, et anhelo | Sedibus his aram ducer[e] sub lapidi? | Ho[s]tes adest, vertere metu se i[n] saxa licet[que] | Tuta tegat vallis marmora, adhuc trepida[n]t». Cod. Vat. lat . 7 182, f. 1051. Citato da h. brummer, The Statue Court in the Vatican Belvedere, Stockholm 1970, p. 119 nota 76. Olivier Michel ha gentilmente controllato la lezione del testo. 39 a. michaelis, Römische Skizzenbücher Marten Van Heemskercks und anderer nordischer Künstler des XVI. Jahrhunderts, in «Jahrbuch des Kaiserlich deutschen archäologischen Instituts», 6 (1891), p. 226; c. hülsen e h. egger, Drei römischen Skizzenbücher von Martin Van Heemskerck, 2 voll., Berlin 1913 e 1916; ried. 1975, tav. 128, pp. 56 sgg. 40 Testo pubblicato da c. scaccia scarafoni, Un documento storicamente e bibliograficamente ignoto relativo al Sacco di Roma, in «La Bibliofilia», 40 (1938), pp. 46-53. Per la lettera di Perezoft, cfr. rodríguez-villa, Memorias cit., p. 275. 41 vasari, Della scultura, § 13, in g. baldwin brown, Vasari on Technique, London 1907, p. 130. Si veda j. lesellier, Jean de Chennevières, sculpteur et architecte de l’église Saint-Louis-des-Français à Rome, in «Mélange d’Archéologie et d’Histoire. Ecole française de Rome», 45 (1931), pp. 239 sgg. 42 Mgr. f. bonnard, Histoire du couvent royal de la Trinité du Mont Pincio à Rome, Paris 1933, pp. 82 sgg. 43 Cfr. cap. i. 44 von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte II, libro III, p. 270.
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Scherdin von Burtenbach, capitano dei lanzichenecchi, si vanta di avere portato via vesti lussuose e 15000 fiorini d’oro puro, e in più la corda di Giuda. Riguardo a questa «reliquia», cfr. le Mirabilia Romae cit., p. 129: «vicino all’altare di San Pietro, dove il papa ha consacrato l’imperatore, è sospesa la corda di Giuda». 46 g. a. saluzzo di castellar, Memoriale (1482-1528), a cura di V. Promis, Torino 1869. 47 e. müntz e a. l. frotingham, Il Tesoro della Basilica di San Pietro in Vaticano dal XIII al XV secolo, con una scelta di inventari inediti, in «Archivio della Reale Società Romana di Storia Patria», 6 (1883), pp. 1-138 (pp. 82 sgg., Inventarium, 1454-55; pp. 99 sgg., Inventarium sacristie, 1489). x. barbier de montault, Les souterrains et le trésor de Saint-Pierre à Rome, Roma 1866, dà un’idea delle perdite. Queste sono commentate da f. m. torriglio, Le sacre grotte vaticane, Roma 16392, p. 265. Cfr. e. müntz, Ricerche intorno ai lavori archeologici di G. Grimaldi, Firenze 1881, p. 445. 48 chastel, La Véronique cit., pp. 71 sgg. 49 rodocanachi, Rome au temps de Jules II cit., p. 98. 50 Lettera di Theodorus Vafer alias Gesscheid, pubblicata da i. mayerhofer, Zwei Briefe aus Rom aus dem Jahre 1527, in «Historisches Jahrbuch», 36 (1891), pp. 747 sgg.; h. grisar, Le tombe apostoliche di Roma, in «Studi e Documenti di Storia e Diritto», 13 (1897), p. 345 nota 40, ha creduto di poter sostenere che la tomba dell’Apostolo non era stata violata, nonostante la testimonianza citata. j. ruysschaert, Le Sac de Rome de 1527 et la tombe de Saint Pierre d’après deux notaires contemporains, in «Römische Quartalschrift», 58 (1963), pp. 133 sgg. è meno sicuro sulla base di testimonianze complementari. 51 h. grisar, Die römische Kapelle Sancta Sanctorum und ihr Schatz, Freiburg im Breisgau 1908, p. 24. 52 a. rocca, De particula ex pretioso et vivifico ligno Sacratissimae Crucis. Roma 1609, citato in f. steinmann, Die Sixtinische Kapelle, Berlin 1921, vol. I, p. 582. 53 panvinius, De praecipuis urbis Romae sanctioribusque basilicis... Liber cit., p. 192. Sul catalogo delle reliquie dell’oratorio compilato nel 1624 da Lorenzo Bonincontri, segretario della confraternita, cfr. grisar, Die römische Kapelle cit., p. 62. 54 Cfr. il catalogo della mostra Tesori d’arte sacra di Roma e del Lazio dal Medioevo all’Ottocento, Roma 1975, nota 86. 55 Ibid., n. 100. P. de Sandoval nel 1604 ha segnalato la scoperta di questa reliquia nel villaggio che chiama Calcata nel 1557. Cfr. Epilogo. 56 o. panciroli, Tesori nascosti dell’alma città di Roma, Roma 1625, p. 195, ha riferito che il crocifisso dipinto della chiesa di Santo Spirito a Roma (Rione Monti) aveva versato lacrime durante il sacco; inol45
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 tre, la sacra immagine avrebbe protetto le monache del monastero facendole apparire agli occhi dei soldatacci imperiali come vecchie e brutte, mentre erano giovani e belle: «incontrandosi i soldati in una di quelle monache, tanto brutta gli parve (ancorché fosse delle più vistose) che venutagli a schifo, voltarono le spalle a tutte. Del che ne fa fede una di 90, che entrando in questo monasterio, quand’era fanciulla, l’intese dall’altre, che presenti vi furono, essendo occorso il sacco l’anno 1527. E tanta gratia la riconoscono dalla detta imagine del Salvatore...» Questo delizioso aneddoto è citato da picca, Il Sacco di Roma del 1527 cit., p. 122. 57 Una lettera d’un ecclesiastico, Baldassarre da Pescia, a un monaco di Santa Giustina da Padova, del 15 febbraio 1528 (sanuto, Diarii cit., XLV, coll. 87-88) riferisce un fatto portato a conoscenza di chi scrive dal cardinale Campeggio: una Madonna vicina al Pantheon, mutilata da uno spagnolo, si mise a piangere; il soldato fu catturato e strangolato dai compagni. Questo miracolo avvenne il 10 o l’11 febbraio 1528. A quest’episodio molto celebre fa probabilmente allusione G. B. Giraldi nella prima novella degli Hecatommithi, Monte Regale 1565, dove si trova una lunga descrizione del sacco (cfr. Epilogo). 58 Un breve del 26 ottobre 1527, concernente le reliquie rubate «in tam detestabili et abominabili almae urbis nostrae direptione», che si dovevano ritrovare e riportare a Roma, è stato pubblicato da b. fontana, Renata di Francia duchessa di Ferrara, in Sui documenti dell’archivio estense, del mediceo, del Gonzaga e dell’archivio segreto vaticano (1510-1536), Roma 1889, vol. I, appendice X, p. 430. 59 Secondo un documento degli Archivi Vaticani, Don Giuliano de Castillo, toccato dalla grazia, abbandonò il servizio per consacrarsi al salvataggio delle reliquie. La riconsegna solenne, che ebbe luogo il 26 novembre 1528, secondo la sua dichiarazione, riguardava le reliquie di san Biagio, un piede di santa Maria Maddalena, la mano destra di santa Barbara, un frammento della mangiatoia, un frammento della tavola della Cena, due pannicelli volgarmente chiamati bavaglini di Nostro Signore Gesù con una macchia di latte. m. armellini, Un documento del Sacco di Roma del 1527, in «Cronachetta Mensuale di Scienze Naturali e d’Archeologia», n. 24 (dicembre 1890), pp. 179 sgg. 60 torrigio, Le sacre grotte vaticane cit., p. 264. 61 Secondo un documento di «Maestro Giovanni Antonio» (Archivio Segreto), citato da p. balan, Clemente VII e l’Italia dei suoi tempi, Milano 1887, pp. 62 sgg. sono stati rubati: «Unus pes beatae Mariae Magdalenae | Duo panniculi vulgari sermone dicti bavaroli ı sanctissimi domini nostri Jesu Christi cum macula | lactis et una parva macula pannilini». 62 sanuto, Diarii cit., XLV, col. 122.
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Quando chiese ai canonici di San Giovanni in Laterano come avessero potuto salvare le reliquie degli Apostoli, Leonardo Santoro ottenne come risposta: «Divinamente i barbari spaventati mentre si apparecchiavano di abbattere il ciborio, fuggirono via» (santoro, Dei successi del Sacco di Roma cit., p. 14). 64 Cfr. per l’Inghilterra, j. phillips, The Reformation of Images: Destruction of Art in England (1535-1660), Berkeley 1973; e per i Paesi Bassi, d. freedberg, The Problem of Images in Northern Europe and its Repercussions in the Netherlands, in Hafnia, K°benhavn 1977, pp. 25-45 (con bibliografia sull’iconoclastia nordica). 65 27 giugno 1527, in Letters and Papers Foreign and Domestic of the Reign of Henry VIII, a cura di J. S. Brewer, London 1872, VOI. IV, parte II. 66 sanuto, Diarii cit., XLV, col. 436. 67 Questo episodio è ricordato come tipico del comportamento luterano da un polemista antiprotestante, de reamond, Histoire de la naissance... de l’hérésie cit., p. 280: «Dopo che ebbero fatto una stalla per i cavalli della cappella papale, i luterani rivestiti degli ornamenti ecclesiastici, scelsero fra loro un lanzichenecco, che tenendo il posto di Lutero fu creato Papa, mentre tutti i soldati alzando la mano gridavano: Lutero Papa, Lutero Papa». 68 Lebensbeschreibung des berühmten Ritters Sebastian Schertlin von Burtenbach, a cura di C. S. von Holzschuher, 2 voll., Nürnberg 1777-82. 69 Tutto questo in gregorovius, Storia della città di Roma cit., ed è essenzialmente tratto dalle narrazioni raccolte da G. Milanesi ne Il Sacco di Roma del MDXXVII cit. 70 Da un manoscritto della Biblioteca Angelica; schulz, Der Sacco cit., p. 71. 71 Pubblicato da rodríguez-villa, Memorias cit., pp. 134 sgg. Traduzione parziale in von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte II, libro III, pp. 277-78. 72 Secondo canovas del castillo, Del asalto y saqueo de Roma... cit., l’odio che ne è risultato durò fino al secolo xvii. 73 La frase proviene dal giurista Fabius Arcas de Narnia, citato da Kilian Leib nella sua cronaca pubblicata da j. döllinger, Beiträge zur Politischen, Kirchlichen und Kulturgeschichte der letzten sechs Jahrhunderte, Regensburg 1862, vol. II, p. 512. 74 Direptio expugnatae urbis Romae... cit., p. 108. 75 Secondo una lettera del 27 luglio indirizzata da Navagero al doge di Venezia (brown, Calendar of State Papers cit., vol. IV, pp. 76-78), ci si è talvolta interrogati su una collusione possibile fra il conestabile di Borbone e Zwingli: f. de boni, Gli eserciti stranieri in Roma nell’anno 1527, in «Il Politecnico» serie II, vol. 47 (1860), pp. 405 sgg. 63
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Cfr. a. venturi, Storia dell’arte italiana, X: La scultura del Cinquecento, parte II, Milano 1936, pp. 207 sgg. 77 Carlo V aveva chiesto a Filiberto di Chalon, principe di Orange, di curarsi di fare erigere per il conestabile una tomba «trionfale» a Milano o a Napoli (lettera da Valladolid, 30 giugno 1527, pubblicata da r. ulysse, Philibert de Chalon, prince d’Orange (1502-1530). Lettres et documents, in «Boletin de la Real Academia de la Historia», 39 [1901], n. 71). Si era dapprima pensato a Milano: cfr. il rapporto (citato) dall’abate di Naiera, il 27 maggio 1527 (rodríguez-villa, Memorias cit., p. 139), ma finalmente l’esercito imperiale, lasciando Roma, portò i resti del conestabile a Gaeta. Cfr. a. lebey, Le Connétable de Bourbon (1490-1527), Paris 1904, pp. 442 sgg. Questi riposò dapprima sotto un mausoleo innalzato nella cappella del castello. Nel 1562, essendo stato scomunicato il conestabile, il Concilio di Trento ne ordinò l’esumazione e il corpo fu collocato all’esterno della cappella, dove parecchi viaggiatori poterono vederlo nel corso dei secoli xvi, xvii e xviii. Il castello di Gaeta fu distrutto nel 1860. 78 Si veda la serie dei disegni e incisioni di Urs Graf in h. koegler, Urs Graf, Basel 1947; e. major e e. gradman, Urs Graf, Basel s.d. Su Nicolas Manuel, c. a. beerli, Le peintre poète Nicolas Manuel et l’évolution sociale de son temps, Genève 1953, cap. v: Le guerrier, mythe et réalité. Il lanzichenecco tedesco, copiato dal fantaccino svizzero, appare nel Corteo trionfale di Massimiliano (H. Burgkmair, Dürer e altri, verso il 6-18, pubblicato nel 1526), dove guida e accompagna i carri. Nel 1520, Barthel Beham incise una serie di lanzichenecchi in maniera comica; Cfr. zschelletschky, Die «drei Gottlosen Maler» von Nürnberg cit., p. 315. La migliore raffigurazione dei lanzichenecchi è senza dubbio il piccolo pannello in grisaglia firmato Bruegel, datato 1568 (?), se si fosse certi della sua origine e del suo autore. Probabilmente è un frammento ritagliato da, o uno dei pezzi di, un insieme che fisserebbe un significato complessivo a questo gruppo del porta-stendardo, tamburino e pifferaio, tutti e tre in azione, nel costume tipico dei mercenari, molto simile all’incisione di Barthel Beham (1525): Coli. Frick, New York, pannello di quercia: cm 20,3 x 17,8, firmato e datato in basso a sinistra. Nella data manca la L che s’impone. L’opera è segnalata nella collezione di Carlo I nel 1639. Cfr. il catalogo della Frick Collection, New York 1968, vol. I, pp. 142 sgg. 79 w. scheidig, Holzschnitte des Petrarca-Meisters, Berlin 1955, p. 72. 80 w. berenson, Italian Pictures of the Renaissance. Central and North-Italian Schools, London 1968, tav. 994. 81 Cfr. cap. vi. 82 torrigio, Le sacre grotte vaticane cit., p. 262. L’autore rimanda a Giovanni Battista del Tuso nella Historia dei chierici regulari, cap. 18. 76
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Capitolo quarto Polemiche: italiani e barbari
A colpire ancora più profondamente l’immaginazione popolare, il sacco di Roma, già annunciato in molti modi1, ebbe ulteriore conferma dalle «profezie retrospettive». Si trattava di un avvenimento di tale importanza che non poteva non essere esplicitamente segnato negli annali della storia celeste e rivelato attraverso prodigia di un titolo più classico di quelli del 1526. Tra la fine del 1527 e il corso del ’28, numerosi opuscoli parlavano di una cometa comparsa nell’ottobre 15272, che altro significato non aveva se non quello della sciagura abbattutasi sul mondo cristiano. Gli opuscoli recavano un’illustrazione, con una mano in cielo che stringe un pugnale, sopra o nel mezzo di una pioggia di armi e di teste mozze. Il prototipo di questa figurazione va ricercato in Plinio e nella sua spada – cometa, detta ’Eigàai3. L’attuale vignetta ricordava un’immagine della propaganda «piagnona»4 diffusa intorno al 1495: il pugnale in cielo, in forma di cometa, indica la minaccia legata all’apparizione del corpo celeste5. In un opuscolo francese le asce e le picche stanno ad indicare i tedeschi, le spade corte gli spagnoli e le teste mozze le loro vittime – gli italiani. Due decenni più tardi, nelle raccolte di «prodigi»6, si ritrova la medesima cometa in forma di spada come annuncio della distruzione di Gerusalemme nel 72, del sacco di Roma dei goti di Alarico nel 413, e degli avvenimenti del 1527, per i quali il segno celeste
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corrisponde a due immani sciagure: l’invasione turca dei territori del Danubio e il saccheggio di Roma «ab exercitu caesariano duce Borbonio». Anche nelle raccolte del xviii secolo si associa la cometa con il sacco7.
L’esoterismo ghibellino. I pronostici che comportavano annunzi troppo precisi, come il diluvio pronosticato per il 1524, erano stati smentiti. Ma quelle anticipazioni illusorie erano dimenticate di fronte al successo che ebbero gli annunzi catastrofici su Roma. Dopo quel che era capitato, qualsiasi cosa poteva accadere. I libretti profetici si moltiplicarono di nuovo dopo il 1528-30, spesso re-interpretando testi più antichi, o fingendo di essere stati pubblicati in data più antica. Tuttavia il loro colore politico e il loro tenore generale aveva subito un mutamento. Il nuovo tono è esemplificato da un opuscolo piuttosto notevole intitolato De eversione Europae pronosticon, che comparve al più tardi nel 1534, forse già nel 15328; descrive la futura cristianità dopo mezzo secolo di tormenti e afferma che la comunità delle nazioni non ha altra scelta che quella di rivolgersi all’autorità riconosciuta dell’imperatore per impedire ai turchi di invadere l’Europa. Il dramma del 1527 è solo un momento di una crisi assai più vasta, che richiederà l’aiuto dell’imperatore. Il tema delle crociate ricompariva periodicamente come la persistente coscienza di un’ansietà che urge tanto profondamente quanto non trova sbocco. L’astrologia era diventata ghibellina dopo il 15279. Fra i prodigia che contarono davvero e non furono dovuti a pure allucinazioni, ci fu l’inondazione dell’8 ottobre 1530, una delle più gravi del secolo10, che portò l’altezza delle acque a 13 palmi11. Un tedesco scrisse, in un resoconto del disastro in tre fogli, che le acque erano
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salite fino a San Marco e ai Santi Apostoli, ricoprendo il Campo dei Fiori e la Piazza Navona. Egli concludeva che dal punto di vista dei danni alle case provocati dall’acqua: «si ebbero rovine ancora maggiori che durante il sacco, quando Roma fu depredata»12. Il nuovo cataclisma apparve ai romani e alla Curia quasi un supplemento al sacco voluto dalla Provvidenza, una minaccia di rovina fisica totale che si aggiungeva a quella della rovina morale. Che è l’idea che esprime il poema di Luigi Alamanni Il diluvio romano13. Questa terribile disgrazia, che tutti si affrettarono a commentare, sovreccitò tanto più gli animi in quanto seguiva l’incoronazione di Bologna e la conclusione di una pace auspicata ma umiliante. Ancora una volta Roma era sommersa dall’orrore, dalla miseria e dalla morte; simili orrori non mostrano nulla di naturale. Ne è una prova lo strano e prolisso trattato intitolato Scechina (dal nome del decimo tra i Safiroth o attributi di Dio, secondo la Cabala)14. Nel luglio 1530 Clemente aveva inviato una lettera urgente al cardinale Egidio da Viterbo, invitandolo ad abbandonare il suo riserbo dottrinale e a rivolgersi ai grandi testi esoterici ebraici per essere illuminato nella interpretazione della Sacra Scrittura15. È una richiesta che rivela un pensiero inquieto, che cerca nuovi lumi. Egidio, generale degli Agostiniani, sotto Giulio II e al momento del concilio laterano, aveva avuto un ruolo importante nel definire la plenitudo temporum; la sua autorità di teologo incuteva grande rispetto16. Incoraggiandolo a ricorrere alle esegesi non tradizionali, il papa pensava forse al tentativo di Pico della Mirandola, interrotto nel 1492. L’occultismo scritturale è un rimedio spirituale per i tempi torbidi. Il trattato della Scechina (o «Presenza di Dio») è rimasto incompiuto. La personificazione dell’attributo divino si rivolge all’imperatore con un lungo ragionamento sulla simbolica dei numeri, delle lettere e dei nomi,
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mescolando costantemente allusioni agli eventi contemporanei, e più precisamente a due fatti di alto significato: il sacco di Roma, largamente profetizzato, e l’inondazione del 1530. La concatenazione dei due eventi e spiegata in una pagina sorprendente che merita di essere conosciuta perché proviene da un letterato vicino a Clemente, e da conto del nuovo corso del profetismo dopo quei tragici anni. È la «Presenza di Dio» che parla: Avevo fatto di Roma la capitale; dimenticando la mia bontà, essa si è abbandonata più di ogni altra al peccato. Io l’ho protetta finché fu possibile: spesso l’ho spaventata con voci profetiche, minacciandole il saccheggio; l’ho esortata alla riforma morale, alla resipiscenza, al ritorno a modi salutari. i fatti sono seguiti alle minacce; ho fatto intervenire la tua mano con il Borbone; ho preso la città, l’ho saccheggiata, l’ho riempita di assassinio, di sangue, d’incendio. Tutte queste torture, tutte queste afflizioni, tutte queste calamità, sono stato io a provocarle, ma benché ne fossi l’autore, avevo orrore di uno spettacolo così crudele. Mossa a pietà davanti a questo cumulo di dolori, ti invitavo – tu lo sai – a risparmiare la città, a liberare i prigionieri, a richiamare l’esercito, a ristabilire posti di guardia e cittadella, a recarti in Italia, a fare la pace con i nemici, a rendere ai miei sacerdoti un omaggio quale non avevano ricevuto prima. Tornando alla città, mi aspettavo che, avendo ricevuto prima queste ferite, poi questi onori, capisse l’azione delle due mani di Dio, la sinistra che lacera per mezzo del Borbone, la destra, che, grazie a te, abbraccia, risolleva, restituisce a Bologna. E io vedo che niente è stato compiuto; non solo il rimedio non ha guarito, ma ha provocato maggiore licenza colpevole, insolenza audace, avidità, lussuria e rabbia. Ho voluto dare un nuovo avvertimento: dopo l’aggressione di Borbone a ferro e fuoco, provocai quella dell’inondazione facendo salire il Tevere a un’altezza eccezionale, per cui invase tutto quanto, trascinò via la
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riserva di grano, distrusse le case e provoco guasti a tal punto che il Tevere toscano parve a tutti – o quasi – un nemico più crudele del barbaro straniero Borbone. Ma tutto ciò non è servito a nulla. È certo che non risparmierò più una corruzione che resiste alla mano del medico17 ; la taglierò con la falce di nemici atroci, rovescerò il vecchio ordine e ne stabilirò uno nuovo»18.
Secondo questo discorso, tutto si lega, dunque, nel susseguirsi degli avvenimenti: le minacce profetiche, la catastrofe del 1527, l’intervento dell’imperatore e la pace di Bologna nel 1530. La collera e il perdono divini si sono alternati. Tutto ciò annunzia che la collera provocherà nuove e terribili sciagure. Siamo al primo stadio; altre prove si devono temere, poiché non vi e alcun indizio di pentimento o di riforma morale. Orbene, Scechina Provvidenza ha scelto come interlocutore, per il suo severo discorso, l’imperatore Carlo V: «manum tuam adduxi cum Borbonio»*. La salvezza verrà da lui: se porta il numero cinque nel suo nome, e perché questo numero e legato alla liberazione dal male, come si può vedere – scrive Egidio – nelle cinque ferite del Messia Gesù19. La confusione mentale del teologo era completa e la sua conversione alla causa di Cesare senza riserve. Non sembra che il suo trattato sia stato diffuso. Non se ne conosce alcuna risonanza, alcuna illustrazione. Ma esso illumina di una luce obliqua il clima di angosciosa inquietudine dell’inverno 1530-31, e dei tre ultimi anni del pontificato di Clemente.
La fine dell’Italia. È impossibile districare da tanti scritti e dichiarazioni veementi ciò che era razionale da ciò che fatti senza precedenti avevano suscitato nell’immaginazione. Emerge
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un senso, che non trova attenuazione nella coscienza di trovarsi in un momento eccezionale. Si distinguono due atteggiamenti contraddittori con una caratteristica oscillazione: ora s’invoca la fatalità, il che generalmente si accompagna al sentimento di un’orribile ingiustizia, ora l’azione provvidenziale interpretata come invito alla penitenza dopo il castigo. La prima è, più che altrove, presente tra i lamenti e le imprecazioni che si possono qualificare popolari, la seconda appare più diffusa tra i chierici, con una differenza importante, a seconda se essi continuano a credere oppure hanno perso la fede nella vocazione essenziale di Roma. Spesso sono guidati da preoccupazioni politiche. Il poema Canzone dove si narra la strage e il sacco di Roma, di Girolamo Casio de’ Medici, si presenta come una deplorazione, ma di fatto ètutto orientato a dimostrare che l’imperatore e la sua politica vanno «nel senso della storia»: la sciagura di Roma non è quella di Troia o di Cartagine20. Abbiamo la fortuna che quel periodo convulso abbia avuto uno dei testimoni più lucidi e meno disposti a lasciarsi ingannare, Francesco Guicciardini. Nelle successive discussioni riguardo alle responsabilità delle varie parti, nell’apprezzamento dei ruoli svolti e dell’attitudine dei protagonisti a svolgerli, dal secolo xvi in poi, niente è stato prospettato che già non fosse stato enunciato nella Storia d’Italia21. Questo capolavoro della letteratura storica fu redatto da Francesco Guicciardini a cominciare dal momento in cui, con la morte di Clemente, fu chiaro che la sua carriera politica era finita. Nel 1534, egli lasciò pertanto il posto di vicelegato a Bologna, dove il papa l’aveva destinato tre anni prima, tornò a Firenze e si ritirò ben presto nelle sue proprietà22. Fu allora che Giuliano Bugiardini dipinse il ritratto ricordato da Vasari23. Guicciardini, consigliere di Clemente, e fautore con Giberti di una politica decisamente antiimperiale, che
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solo poteva, ai suoi occhi, salvare la libertà d’Italia, aveva sperimentato tutto e aveva veduto fallire tutto. Il ritiro in cui lo relegò l’avvento di Paolo III fece di lui il più grande storico del suo secolo. Forse ebbe la speranza, come è stato notato24, di ottenere come storico la gloria negatagli come politico. Scrittore magistrale, per scioltezza, vigore e sottigliezza degni di un grande romanziere moderno, seppe analizzare in profondità la tremenda degradazione dell’Italia, a cominciare dalle guerre della fine del Quattrocento. Perché questa fu la sua motivazione e il suo tema. Smontando pezzo per pezzo il meccanismo implacabile dei fatti provocati dagli errori e dalle illusioni italiane, egli trasformò a poco a poco la cronaca delle guerre europee condotte nella penisola in una grandiosa tragedia, ch’egli vedeva guidata più dal caso che dal destino. Il suo disincanto ha imprestato per la prima volta alla «fortuna», al moto fortuito e all’instabilità delle forze, un valore di principio che illumina tutto25. E quindi il più elevato dei discorsi storici si colloca accanto al Trionfo di fortuna, di cui abbiamo riconosciuto l’idea basilare nelle stampe popolari, che traduce in un’immagine di grande plasticità un senso generale di incertezza. E, al tempo stesso, il ragionamento del più grande storico dell’epoca non può alla fine che rinviare alla nozione, appoggiata sullo schema generalmente diffuso del Trionfo, di un principio quasi demoniaco di alternanza e di mutamento. Guicciardini si trovava a Città della Pieve quando seppe della presa del Borgo. Credette ancora alla resistenza di Trastevere. Il 10 maggio conobbe «la crudelissima nuova di Roma»26. Come per convincerci che la sua cupa intuizione era veramente nata dalla sconfitta totale, irrimediabile, della politica di Clemente, come per invitarci a misurare completamente il suo tormento, Guicciardini ha scritto, ancora sotto l’impressione della prova, una specie di meditazione sul modello di
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Seneca e di Boezio, dove il dramma del sacco è analizzato nelle sue conseguenze personali e illustrato da un monologo interiore. Quest’opera è la Consolatoria27. Scosse dal disastro di Roma tutte le sue convinzioni, lo storico s’interroga pertanto dolorosamente. Come Petrarca nel Secretum, Guicciardini dialoga con se stesso. «Sono concorsi in un tempo medesimo troppi accidenti perturbanti; né è solo la roba in che tu patisci, ma di più la grandezza, la dignità, e quello che io credo che ti pesi sopra tutte le cose, l’onore»28. Guicciardini muore di vergogna. Vorrebbe pur superare la sua bruciante angoscia con una elevazione morale o religiosa che lo distaccherebbe da queste miserie; ma non può e neanche tenta di farlo, osservando che bisognerebbe essersi spogliato della debolezza umana, il che non è possibile: «Come io desidero che tu sia in questa perfezione, così confesso io di essere alieno». Il suo nome, la sua posizione sociale, avrebbero dovuto metterlo in grado di porsi a una buona distanza dal passato, dal presente e dalle vicissitudini attraversate. Ma questo non può essere, ed egli decide di intrattenersi «più bassamente» con se stesso su tutto ciò che gli è capitato. Vi è qui una sorprendente e, secondo noi, ammirevole riflessione su una vocazione che si decide sotto lo choc e vuole costringersi ad affrontare il reale nell’amarezza. Nessun altro potrebbe, senza dubbio, abbandonarsi a un simile esame di coscienza; il documento che ne risulta è per noi fondamentale, perché fornisce la chiave dell’analisi storica alla quale abbiamo creduto necessario agganciarsi. Intendiamo dire che il sacco di Roma ha preso le proporzioni di un disastro che rimette tutto in causa. Qualunque cosa l’avvenire riservasse, qualcosa di irrimediabile era accaduto. Le conseguenze appariranno a poco a poco in tutti i campi, ma l’importante è sapere perché nulla sarà più come prima. Questo sen-
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timento di lacerazione così profonda da raggiungere l’identità stessa, ci pare che l’abbia conosciuto e meditato Guicciardini, il quale seppe trarne una sintesi degli eventi. Il suo resoconto poggia sulla storia politica, ma è troppo penetrante per non indurci a esaminare alla luce delle sue analisi gli altri aspetti della storia di Roma e del Rinascimento. Machiavelli era morto in Toscana nel giugno del 1527, vecchio, in disparte, ma ancora vagamente temuto. Che cosa si riteneva della sua opera? L’idea che solo un principe, un politico intrepido, potesse assicurare l’unità dell’Italia. Oltre le riserve morali che sempre ispirava, in Spagna come a Roma, la teoria della «politica pura», questa posizione non coincideva più con il problema posto dal conflitto dei due poteri dominanti. Non conveniva né alla monarchia spagnola né alla politica del partito romano orientato da Giberti e Guicciardini29. Ma quello che non si dimenticava del Principe era la celebrazione minuziosa della grandezza della Roma antica, esemplare nell’arte della guerra, quanto in quella del governo; ed era l’affermazione delle possibilità proprie all’energia umana, la «virtù». Guicciardini non credeva più senza riserva né all’una né all’altra. «Quale errore citare a ogni proposito i vecchi Romani»: scrive testualmente per sbarazzarsi di un modello smentito dal corso delle cose30. Le Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, che distruggono metodicamente il vecchio modello, datano, sembra, dal 1528. Per quanto riguarda la «virtù», questa svanisce nell’impotenza e nella confusione che nasce dall’inestricabile groviglio delle circostanze. Si direbbe che il crollo del 1527 debba una volta per sempre aprire gli occhi sul vacuo turbinare dell’attività umana. È stato scritto molto a proposito: «L’impressione più forte, la più costante che da la Storia d’Italia è quella della debolezza e dell’impotenza umane di fronte al destino»31.
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Nulla è più impressionante che la famosa e malinconica conclusione dei Ricordi: «Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmità, di caso, di violenza e in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo, quante cose bisogna concorrino nello anno a volere che la ricolta sia buona, non è cosa di che io mi meravigli più che vedere uno uomo vecchio, uno anno fertile»32. Quello che Guicciardini ha vissuto, quello che ha sperato di impedire ad ogni costo, quello che ha tentato di rendere intelligibile risalendo al punto di partenza del 1494, seguendo passo passo illusioni e errori, è la sconfitta dell’italianità. Spinto dal dolore di questo smacco, egli si accinse a cogliere, nei quarant’anni di storia durante i quali tutto è messo in movimento ed è scomparso l’equilibrio del Quattrocento, la genesi, l’evidenza e lo sfacelo della politica razionale. La parola d’ordine «libertà d’Italia» copriva al tempo stesso l’indipendenza degli stati della penisola e l’autonomia della Chiesa. Perciò taluni storici recenti hanno ritenuto che salvando l’unità religiosa dell’Italia, la politica antiimperiale preservava l’unica forma di unità esistente33. Ma questa posizione stessa non mette in evidenza il fatto che l’«italianità» non era solamente, né veramente, un fattore politico? In un mondo vieppiù dominato dalla politica separatista, questa ne era la debolezza essenziale. Il solo momento in cui, come bene ha notato F. Chabod, si delineò una specie di «sentimento nazionale», quando l’unione degli stati della penisola, e in particolare della cooperazione politica e militare di Venezia e dello Stato pontificio si realizzarono sotto il segno dell’«italianità», si ebbe nel breve periodo fra la sconfitta di Pavia (febbraio 1525) e l’incontro di Bologna (autunno 1529), ossia durante gli anni in cui la minaccia di predominio spagnolo si precisa, si rafforza e culmina in maniera clamorosa con il sacco di Roma34. L’unico modo in cui la «barbara servitù» poteva essere evi-
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tata, al momento della Lega di Cognac, e ancora dopo l’odioso sacco, si sarebbe potuto avere se gli stati avessero saputo rinunciare alle loro piccole ambizioni e si fossero uniti con il pungolo di un’azione francese più decisa. Per due volte, la ruota ha girato nel senso sbagliato e ha collocato al posto buono la potenza imperiale, il che significava la schiavitù politica e morale. Con un senso del dramma che richiama Shakespeare, Guicciardini constata che, se gli eventi di rado obbediscono alle intenzioni degli uomini, le motivazioni psicologiche, i moti e le passioni intervengono costantemente nell’oscillare tra menzogna e verità, tra azione e inazione; soltanto la fortuna è fattore decisivo, e nessuno la controlla a lungo. Possiamo chiederci se quella specie di tetraggine, il disfattismo, il senso di un’irrimediabile debolezza politica, che hanno tanto dominato il pensiero italiano fino al Risorgimento, non siano state per le generazioni seguenti al sacco il prolungamento naturale della delusione subita nel secondo quarto del secolo xvi, e del crollo del mito dell’Italia, che Guicciardini, disperato e lucido, si è adoperato a definire e a registrare. Analizzando il proprio caso personale, lo storico osserva che dovrebbe prendere le distanze dagli avvenimenti; ma non può. Preoccupato di cogliere il moto della storia, rifiuta l’interpretazione teologica e propriamente religiosa, che forse s’impone e che tanti altri scrutavano non lontani da lui, rifiuta la finalità per ricercare l’intelligibilità complessa e contraddittoria del comportamento umano. Egli applica magistralmente, in un testo celebre, questo stesso teorema alla condizione della Santa Sede: la cui vocazione è «la cura spirituale» senza il temporale, ma essa andrà incontro all’annientamento se si limita a questo35. Il pensatore più rigoroso del Rinascimento è dunque costretto a enucleare le situazioni contraddittorie che gli stanno intorno, trovando l’origine, ma non la
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causa ultima, della sconfitta in quella complessità naturale. Lo stesso tipo di analisi dovrebbe valere per i campi da Guicciardini non affrontati, come da nessun altro storico del suo tempo, che si possono, grosso modo, chiamare la «cultura», di cui nessuno allora si proponeva la formulazione precisa, perché rientrava genericamente nel concetto di «italianità». Questo, appunto, emerge da una serie di polemiche che documentano un improvviso mutamento in materia di costumi, di modo di vivere, d’interessi profondi dopo il sacco di Roma.
La disperazione dei letterati. Le disgrazie degli intellettuali romani sono più conosciute di quelle degli artisti, che non furono minori. Ma la terribile condizione degli scrittori fu oggetto di un’opera vendicatrice di Pierio Valeriano, apparsa agli inizi del 1529, con il titolo De litteratorum infelicitate libri duo36 . Questo trattatello è uno dei quadri più cupi che mai siano stati tracciati sulla condizione degli scrittori laici. Uno degli interlocutori esclama: Tutti gli uomini di lettere sono votati, soprattutto al tempo nostro, ai tormenti e alle sciagure. Tutti quelli che avrei voluto vedere sono stati in gran numero, a loro perdita, sottomessi ai più atroci rigori della sorte, colpiti dalle più indegne vicissitudini, talvolta morti di peste, talvolta gettati in esilio e lasciati nel bisogno, chi ucciso di spada, chi assalito da tormenti quotidiani, altri ridotti, il che è il peggiore degli infortuni, al suicidio.
Valeriano parla come un intellettuale che non si è rassegnato agli orrori della guerra e della brutalità. Ancora in preda allo spavento generalizza indubbiamente una situazione che ha conosciuto troppo da vicino37.
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È vero che l’ambiente romano era stato colpito molto duramente. Fra gli archeologi più noti, Andrea Fulvio era stato ucciso in maggio, Fabio Calvo morì entro l’anno. Paolo Giovio, che era fuggito in Castel Sant’Angelo accompagnando e, stando a lui, proteggendo Clemente, aveva perduto libri e carte. Del pari Tebaldeo, che non perdonò mai al potere imperiale quell’abominevole entrata in Roma nel mese di maggio38. Giraldi, abbandonando ogni cosa, era fuggito a Bologna, dove manifestò la sua desolazione in un lungo dramma dedicato a Tebaldeo, per dimostrare in forma di catalogo l’irreparabile dispersione dei letterati. Per quanto il testo sia ampolloso, rivela l’autentico dolore per la perdita di quel porto di salvezza per gli intellettuali che Roma offriva. Lo spirito non ha più una dimora: «nunc quo me vertam?»39. Questo smarrimento rivela, ove ve ne fosse bisogno, il valore insostituibile della Città nel mondo letterario italiano. L’Oratio di Melantone conferma la preoccupazione degli scrittori di fronte al saccheggio delle biblioteche romane, le più ricche del mondo, e la scomparsa di autori ammirevoli, concludendo: «in questa sciagura, la cultura letteraria stessa e in pericolo»40. Il giudizio complessivo dato da Valeriano sulla vita intellettuale non si discosta dal giudizio dato da Guicciardini sulla vita politica: nulla è durevole e i letterati non hanno una base salda nella società. Essi dipendono dal potere dominante; tentano di conciliarsi i principi e i pontefici, ma, per ragioni non meno accidentali, sia sotto il favore di Clemente che sotto il pontificato antiumanista di Adriano VI, sono alla mercé della sorte. Se i padroni mutano o sono loro stessi colpiti, se scompare il clima favorevole, i letterati sono le vittime predestinate dell’infortunio. Non contano più. Lo choc del sacco porta senza dubbio Valeriano a drammatizzare all’eccesso. La sua natura emotiva gli suggerì un po’ più tardi un curioso opuscolo sulla responsabilità di coloro
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che rifiutano ai preti il diritto di portare la barba41. Ma la disorganizzazione totale dell’ambiente romano lo obbligò a osservare un fatto capitale: i letterati non hanno alcun peso «effettivo» nella società e la loro condizione è di totale dipendenza. Questa condizione era dovuta prima di tutto all’equilibrio instabile che si era di colpo stabilito fra i laici e i chierici. A Roma era meno possibile che altrove distinguere le funzioni dello Stato da quelle della Chiesa. Si è giustamente osservato42 il potere di attrazione esercitato a questo riguardo da Roma e la confusione che ne risultava. Per un Guicciardini che si vanta di avere rifiutato la condizione sacerdotale, e la cui ostilità al predominio del clero sarà costante, quanti intellettuali e specialmente umanisti, scelgono alla fine la carriera dove il cardinalato può seguire l’episcopato, come Giovio, Bembo e altri? Questo era successo nel 1521 a Castiglione: tanto come nunzio a Valladolid, quanto come letterato, egli intervenne nel 1528 a difendere l’onore di Roma. Nessuno poteva prevedere se il clima favorevole sarebbe mai rinato. Si cominciava a capire l’immensa perdita di prestigio che avrebbe colpito quegli scrittori e letterati romani. Anch’essi, avevano potuto pensare che, come la Curia, avrebbero beneficiato di una specie di privilegio, d’immunità durante i torbidi politici, nella misura stessa in cui potevano considerarsi indispensabili al mondo. Questa idea era fondata su due elementi: chierici o no, detenevano, con le humaniores litterae, il tesoro della nuova cultura, quella di cui i principi abbisognavano, soprattutto nei paesi del Nord, come gli uomini d’arme, per accedere alla civiltà, ossia a costumi meno feroci e più raffinati. D’altra parte, la formazione morale completa inizia con la conoscenza del mondo antico: la favola e la poesia che quella alimenta sono gli strumenti pacifici del sapere. Nello stesso
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tempo, l’accesso alla cultura supponeva anche il rinnovamento del gusto di cui l’arte romana moderna, ispirata dai modelli antichi, si riteneva avesse dato l’esempio. Roma, ora sede del papato, è stata un tempo il centro di un grande impero. In ragione di questa duplice collocazione storica, essa è anche la scuola dell’universo, il centro da cui irradia una pedagogia per l’uomo moderno, riconoscibile da una qualità particolare «umanistica» e suscettibile di essere estesa a tutta l’aristocrazia europea. «Artibus emineat semper studiisque Minervae | Italia et gentes doceat pulcherrima Roma», scriveva Vida nella sua raccolta poetica del 152543. Tale era allora il pensiero comune del gruppo romano che si era formato sotto Leone X e che, dopo un periodo di allarme e di demoralizzazione sotto Adriano VI, godeva di nuovo favore presso Clemente VII. Si troverebbe lo stesso atteggiamento complessivo in Pietro Bembo, che era appena rientrato a Venezia nel 1525, dopo avere pubblicato le Prose della volgar lingua, dedicate a Clemente VII. E non si potrebbe imprestare una opinione diversa a Castiglione, rispettato in tutta Europa come autore del Cortegiano, che propone a tutte le corti il modello di cultura e di vita nobile italiana. Già da lungo tempo la sicumera e la superiorità degli intellettuali italiani, e specialmente dei romani, non erano soltanto oggetto di ammirazione. La caduta del prestigio della loro Città non poteva non liberare animosità latenti. Sotto questo aspetto il sacco fu una rivelazione. L’amor proprio italiano fu messo a dura prova in due vivaci polemiche, condotte da Erasmo. Il maestro incontestato dell’umanesimo settentrionale pare avesse deciso da alcuni anni di non lasciar passare più niente delle pretese dell’ambiente romano; non lo distolsero da tale decisione i lacrimevoli avvenimenti del 1527. Ci si poteva aspettare una polemica concernente il coraggio militare degli italiani. «Questi barbari tratta-
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no li italiani per poltroni e manigoldi», scrive un italiano il 6 agosto ’2744. Le deplorevoli avanzate e ritirate dell’esercito della Lega, la debole resistenza dei cittadini di Roma agli imperiali, sembravano avere dimostrato che la virtù guerriera aveva disertato i figli della Lupa. Nelle sue Historie, Paolo Giovio scriverà più tardi, dopo le battaglie perdute dall’inizio del secolo, «abbiamo cominciato a essere disprezzati dalle nazioni straniere, che avevamo fin allora impaurite»45. Uno dei fuggiaschi del sacco, collega e amico di Valeriano, Pietro Corsi, aveva raccontato in De romanae urbis direptione gli orrori del maggio 1527, per suscitare nell’opinione internazionale simpatie per i miseri romani. A questo seguirono il riaccostamento del papa e dell’imperatore, la ribellione di Firenze, le ultime scaramucce della guerra. Un amico di Pietro Corsi gli segnalò che nella sua famosa raccolta di Adagia, Erasmo aveva inserito nell’edizione del 1520, e riproposta nell’edizione del 1533, una formula ingiuriosa per l’Italia46. Commentando l’adagio Myconii calvi («dei calvi a Micene»), che indica qualcosa di estremamente eccezionale, Erasmo aveva citato divertito queste altre rarità: «uno scita colto, un italiano guerriero (Italum bellacem), un negoziante integro, un soldato pio, un cartaginese leale». In risposta a queste parole insolenti, Corsi redasse una vibrante protesta, una Defensio pro Italia, dove traspariva una fondamentale opposizione a Erasmo, suscitata da innumerevoli allusioni e critiche. Il tema, esiguo all’inizio, si allarga in due direzioni: 1) Erasmo disprezza gli italiani; 2) ha torto. Il suo scherno mira evidentemente all’Italia odierna, ed è un’indegnità perché si potrebbe enumerare più di un atto di coraggio e di competenza nelle guerre del nostro tempo. Tutto è stato perduto a causa delle rivalità politiche, dell’incapacità di unirsi. Niente altro. Questa constatazione continuerà a riapparire in tutta la storia italiana. Alcune
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gesta di rilievo potevano certo essere evocate, come la difesa di Frosinone contro gli imperiali nel marzo 152747, e Corsi non mancò di farlo. Possiamo domandarci se talune abitudini romane recenti non aggiungessero una nota involontariamente ironica a questa polemica senza sbocco. Da un quarto di secolo le decorazioni di facciata a graffiti si erano diffuse nella città. Quando le truppe imperiali si sparsero in Roma, poterono vedere, come l’avevano visto le folle di pellegrini nel 1525, un numero già notevole di palazzi che esibivano, in bianco e nero o in chiaroscuro, fasce istoriate che illustravano talvolta allegorie o più spesso scene eroiche: Orazio Coclite e Muzio Scevola che salvano Roma con il loro coraggio, Perseo che impietrisce i nemici. Al Palazzo Milesi, poche settimane prima del sacco, Polidoro e Maturino avevano dipinto, sulla facciata, gruppi trionfanti e figure potenti, come quella di Ercole48. Questa commemorazione degli eroi e dei fatti romani, già ampiamente praticata fin dal tempo di Nicola V e di Sisto IV, sembra avesse preso maggiormente piede nel periodo di crisi che metteva in causa la Chiesa come Stato. Dobbiamo dare un valore «apotropaico» a queste raffigurazioni? Esse apparivano come la conseguenza naturale della familiarità che esisteva a Roma con le particolarità dell’arte antica, dove abbondavano, soprattutto nella scultura, i trionfi e le immagini guerresche. Si pensava quindi di dare un colore antico alle dimore romane con queste decorazioni di facciata, che d’altronde corrispondevano a una moda generale dell’Occidente. Nel momento del disastro, i simboli dell’eroismo erano visibili ovunque in Roma, ma, salvo nelle prime ore del 6 maggio nel Borgo, essi non furono che i testimoni derisori di una sconfitta. In tal modo appariva evidente agli occhi di tutti quale abisso ci fosse fra la storia antica e la debolezza del Pre-
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sente, l’inutile retorica di un’arte celebrativa che altro non era se non una decorazione impotente. Questo contrasto convalidava il rifiuto di Guicciardini, di riconoscere la minima coincidenza fra la storia antica e il presente. Ma la tradizione profondamente radicata dell’arte monumentale ebbe la meglio. Ecco un caso in cui la nostalgia di un passato concluso e la negazione di un presente miserabile crearono le condizioni per una retorica figurativa. Dopo la metà del secolo, l’Italus bellax riapparve. A Palazzo Spada le nicchie non sono più finte; le abitano vere statue; i bassorilievi in chiaroscuro sono sostituiti da iscrizioni49. Si tratta di una specie di esortazione. Ma capitava anche che alcune facciate fossero decorate con scene in stucco illustranti il prestigio della Santa Sede romana50.
L’intervento di Erasmo. Il primato politico e religioso era stato rimesso in causa. Ma il primato culturale, altrettanto incontestabile agli occhi dei romani quanto gli altri due, non lo era stato anch’esso? Il terribile verdetto di Alfonso de Valdés, che poteva passare per l’espressione ufficiale del pensiero imperialista, sottolineava l’impotenza e la corruzione di Roma e ne rendeva responsabile la «paganizzazione», trasformandola nell’accusa centrale. Su questo tema si sarebbe d’un tratto concentrato lo sforzo per svalutare la cultura romana. Il colpo finale fu inferto da uno dei dialoghi più brillanti e feroci di Erasmo, il Dialogus Ciceronianus. Redatto proprio nel 1527 e pubblicato nel marzo 1528, lanciava un attacco in piena regola contro l’umanesimo romano. Erasmo era da parecchi anni irritato dalle critiche che, a Roma, ponevano in dubbio la sua buona fede nelle discussioni con i luterani51. A dire il vero, la posizione
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dell’umanista era estremamente ambigua. Tutti a Roma sapevano come si utilizzassero negli ambienti protestanti i suoi libelli e le sue reprimende. Anche in questo caso la stampa aveva parlato; un foglio popolare, il «mulino di Dio» («Die göttliche Mühle») aveva divulgato l’idea che la critica di Roma condotta da Erasmo servisse direttamente l’aspirazione verso una nuova devozione, più vicina al Cristo52. Inoltre i testi sulla vita religiosa di Lutero apparivano spesso in Italia sotto il nome di Erasmo53. Erasmo aveva sempre detestato la Roma pontificia. Il militarismo di Giulio II l’aveva spaventato: l’estetismo raffinato di Leone X non lo affascinava. Le sue reazioni al momento del sacco non hanno niente di paragonabile alle esclamazioni di dolore e di scandalo dei confratelli romani, come ha osservato Augustin Renaudet54. Era difficile per i filosofi cristiani considerare tale avvenimento null’altro che la salutare umiliazione del papa. Perfino vicino all’imperatore, ci si rattristava, ci si velava il volto per la vergogna. La reazione di Erasmo è stata molto più complessa. Parecchi tra i suoi amici aspettavano, data la sua autorità morale, una pubblica condanna non dell’atto di guerra, ma del sacrilegio. Tuttavia gli erasmiani erano divisi. Vives, il 13 giugno 1527, prese l’iniziativa. A suo avviso, la vittoria dell’imperatore e la prigionia del papa davano una nuova occasione alla cristianità di rinnovarsi55 e avrebbero ridotto la superbia dei monaci, che odiavano l’autore di quei «Colloqui» tanto irritanti. Uno dei prelati romani legati a Erasmo, Jacopo Sadoleto, che nel 1526 aveva assunto il seggio episcopale di Carpentras, inviò al suo maestro una lettera rivelatrice: «Ritengo che la deplorazione delle sciagure di Roma non possa essere fatta degnamente da nessun altro all’infuori di voi». E il prelato umanista, che non aveva provato imbarazzo nel criticare, da buon erasmiano, i costumi e il com-
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portamento della Curia, aggiungeva un commento eloquente, e quasi minaccioso: «È incredibile, tutta la tragedia e il danno che la rovina di questa città arreca al genere umano. Nonostante i suoi vizi, è la virtù a occuparvi il più gran posto. Un asilo di umanità, di ospitalità, di saggezza e quello che Roma è sempre stata: se taluni si sono rallegrati, a quanto voi mi scrivete, di quel sacco, non sono uomini ma bestie orribili...»56. Questa deploratio di stile elevato, Erasmo non la scrisse. Egli non ha provato nulla di paragonabile all’indignazione di Castiglione di fronte alla gioia degli imperialisti e degli avversari della Curia. Il suo contributo fu il Ciceronianus57, che pertanto va considerata come la sua risposta all’avvenimento. Se scrisse a Clemente nell’aprile 1528, fu per denunciare vivacemente le critiche di Aleandro e di Alberto Pio da Carpi, e chiedere che il papa vi ponesse fine58. La lettera ritornava sul dramma del maggio 1527 soltanto in termini convenzionali: «Non sviluppando, per essere breve, la deplorazione della sciagura di Roma, che non poté non essere crudelissima per qualsiasi uomo dotato di pietà...» Quando rispose a Sadoleto, nell’ottobre 1528, Erasmo scrisse solo luoghi comuni e dichiarò in tutta semplicità: «In quel momento tumultuoso eravamo pieni di timore per Bembo e per voi; e soprattutto e forse quasi unicamente in voi che mi sembra sopravviva nella sua integrità l’antica purezza e la dotta pietà». Soltanto due giusti in tutto il Vaticano! Gli altri non contavano. Erasmo non voleva tornare sulla critica distruttrice dell’«intelligencija» romana da lui pubblicata nel 1528. L’autore del Ciceronianus dichiarò con freddezza: «Il mio Ciceronianus ha ferito numerosi Italiani; come pensavo veramente accadesse»59. Sarebbe stato sorprendente il contrario, perché l’opera è una satira dei vizi letterari dell’ambiente romano, abilmente presentati come la copertura di qualcosa
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di più grave. I romani si erano mostrati ridicoli nell’incoronare un francese per il suo stile anticheggiante e per la sua eloquenza alla maniera di Cicerone. La retorica ufficiale di quelli che furono chiamati per semplificare «ciceroniani», si compiaceva degli effetti di stile ricercati. Giunse a un punto in cui l’affettazione dell’antico, con il suo perpetuo travestimento del linguaggio, corruppe il latino e, oltre il latino, il pensiero stesso. Erasmo riprende qui un vecchio tema di discussione tra gli umanisti: quali erano i pericoli o i meriti di una stretta imitazione dei modelli? Ne avevano dibattuto quindici anni prima Bembo e Giovanni Pico. Ma Erasmo sviluppò la discussione fino a rimettere in causa tutto il sistema: prima di tutto, qualsiasi cosa si affermi, esso non detiene il monopolio del purismo e della qualità letteraria; in secondo luogo, i «ciceroniani» vivono in un sogno pagano che suscita soltanto orrore in un cristiano degno di questo nome. Il primo argomento risponde a una irritazione personale, provocata da tante critiche noiose e pretenziose sul suo stile; il secondo vuole andare a fondo della cosa, e mettere a nudo un fatto grave, l’accusa principale che ora non si esita più a formulare, e che era già stata enunciata due anni prima: le buone lettere... devono «far risonare il nome del Cristo; con gli Italiani, voi non lo ignorate, queste fanno soltanto risuonare il paganesimo»: «Quam apud Italos hactenus nihil aliud quam paganesimum crepent ipse non ignoras»60. La diatriba di Erasmo vuole, come indica il titolo, rivolgere agli umanisti romani la rimostranza che san Girolamo aveva rivolto a se stesso nell’Epistola a Eustachio: il Cristo, apparso in sogno, gli avrebbe detto: «non christianus es sed ciceronianus» per invitarlo a liberarsi degli inutili legami con la letteratura e le bellurie dello stile61. Ma la polemica si spingeva ancora più lontano. Durante quegli anni 1527-30, la comunità intellettuale appariva intorpidita. Il futuro dell’Italia pesava
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greve su di lei, come un gran silenzio inquieto, turbato solo dai lamenti degli intellettuali rovinati, dai pianti dei poeti. Proprio allora Erasmo ebbe l’idea crudele e geniale di produrre il suo pamphlet sferzante contro il neopaganesimo della Roma medicea62. La mascherata permanente di questi «ciceroniani» con il loro linguaggio pomposo preso a prestito dagli antichi autori, apparve assurda. Credere, o fingere di credere, che si viva come gli antichi romani, parlare di Giove e dei consoli, è mania ridicola. Perché «Roma non esiste più, non è altro che rovine e macerie, tracce e vestigia della sua antica sventura». La Roma attuale, quella della Curia, non ha nulla in comune con il mondo antico. Che tipo di persone sono «queste che ancora sognano della Roma signora del mondo con i suoi cittadini in toga?» Questi sciagurati ignorano che la faccia del mondo è mutata e che un cittadino di Roma conta meno in Europa di un bottegaio di Basilea63. E soprattutto ignorano che questa sedicente scuola del mondo non è più che un cenacolo di gente «con più lettere che religione». Erasmo si sente costretto ad analizzare lo stile stesso del Rinascimento romano. Gli pare che nel mondo cristiano non ci si renda conto a sufficienza delle aberrazioni di questa gente. Per esempio, il discorso «ciceroniano» pronunciato da Fedra Inghirami il giovedì santo del 1509 davanti a Giulio II, con le sue formule pagane malamente adattate, le sue allusioni a eroi quali Decio, Curzio e al sacrificio di Ifigenia, il suo sforzo di fondere in un unico stile romano il cerimoniale antico e la commemorazione cristiana64, finisce con l’essere una mostruosità, una follia vergognosa. Né i pontefici suoi successori hanno tentato in alcun modo di cambiare le cose. Il male è inerente alla vita, alla cultura, alla religione di Roma. Questa Roma dei moderni è invasa da immagini pagane. Qui il discorso di Erasmo si fa più duro:
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Nei quadri, i nostri sguardi sono più spesso attratti da Giove che scivola dal tetto tra le braccia di Danae, che da Gabriele annunziante alla Santa Vergine la concezione divina; il ratto di Ganimede ci seduce più dell’ascensione del Cristo; i nostri occhi si attardano con maggior diletto sulla rappresentazione dei Baccanali o delle feste del dio Termine, piene di turpitudini e di oscenità, piuttosto che su quella della resurrezione di Lazzaro o del Battesimo del Cristo per opera di Giovanni.
La pittura mitologica è sconveniente e pericolosa; la moda romana è sospetta. Fin allora, ci si era accontentati di sorridere. Nel 1528, Erasmo non è più disposto ad accordare all’arte troppe libertà in un clima spirituale così corrotto. L’adattamento dei modelli antichi all’arte religiosa non è desiderabile. Ganimede non deve fornire il profilo dell’angelo Gabriele65. Bisognerebbe denunciare come pratica immorale il travestimento mitologico dei fatti umani, e peggio ancora, la mescolanza indecente, ma così frequente a Roma, della favola pagana con la verità cristiana. Ovidio occupa un posto eccessivo nella poesia moderna. Ancora una volta, Erasmo condanna quello che fu il rinnovamento della poesia cristiana. la poesia di Pontano e di Sannazaro, uno dei grandi momenti dei pontificati di Leone X e di Clemente. Nel 1526 era stato edito il De partu Virginis di Sannazaro66. Per l’ambiente romano quel capolavoro rappresentava il ritorno alla grande poesia cristiana. Il movimento si era iniziato sotto Leone X, con artisti minori come Vida e Giano Vitale. Nessuno aveva dimenticato le dichiarazioni di Leone X. In un breve del 21 agosto 1521, aveva messo bene in evidenza che questo movimento letterario era destinato a controbilanciare gli attacchi di quanti «per sembrare più dotti attaccano la Chiese con penna malevole», evidente allusione a Lutero e ai suoi. Il papa
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concludeva con la speranza di trovare «fra le minacce di Golia e le armi di Saul in delirio, il soccorso di Davide capace di respingere l’impudenza del primo con la sua fionda, e la follia del secondo con la lira»67. Questo programma espresso in termini biblici abilmente scelti, poteva adattarsi a qualsiasi celebrazione della dottrina cristiana nel contesto di una politica moderna. È, in fondo, il pensiero delle «Stanze», ivi compresa quella di Costantino. Leone X indubbiamente sottovalutava la situazione se contava sull’arma della poesia per combattere i libelli antiromani. Per Erasmo sono condannabili e lo stile di queste opere e la stessa intenzione dotta. Non si deve trattare un argomento cristiano in stile profano, zeppo di immagini e di formule pagane68. «A che serve invocare così spesso le Muse e Febo?» Il portavoce di Erasmo nel Ciceronianus preferisce l’inno di Prudenzio al poema di Sannazaro, «del tutto incapace di abbattere il Golia che minaccia la Chiesa con la fionda e di domare la follia di Saul»69. Secondo Erasmo c’è incompatibilità fra quel tipo di letteratura e l’ispirazione evangelica. Dimentica che egli stesso è nutrito di immagini e di formule classiche, che deve la propria eloquenza agli autori pagani; non tiene conto di Dante e dei bisogni poetici del tempo. Diventa deliberatamente reazionario. Per la prima volta si giunge a una rottura fra l’umanesimo cristiano e la cultura moderna. L’ostilità di Erasmo ha trovato nella situazione del 1527 un’occasione di manifestarsi più apertamente di quanto fosse accaduto prima. Il Ciceronianus mirava a dissipare una vecchia illusione, una menzogna. Il mondo degli intellettuali romani, che si credeva alla testa della cultura universale, non era cristiano se non di nome; lo spirito che lo animava era decisamente impuro e perfino empio. Mai Erasmo si era spinto così lontano n’è aveva conglobato tante attività letterarie e artistiche in una unica ripro-
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vazione senza sfumature. È giunto il tempo di respingere e, se possibile, di porre un termine a un’intossicazione talmente profonda di favole pagane e di colore antico che tutto quanto proviene da quell’ambiente romano «sprizza paganesimo». Già da tempo Erasmo ironizzava sulla superbia degli italiani che «si vantano di essere i soli a essere usciti dalla barbarie», ed esasperano il resto d’Europa con la loro pretesa a una naturale superiorità70. Erasmo non era disposto a tollerare alcun rimprovero da parte di questi retori, soprattutto quando venne a sapere da uno dei suoi corrispondenti spagnoli, Pedro Juan Olivar, che Castiglione, Navagero e Andrea da Napoli, tutti e tre ambasciatori in Spagna, si erano permessi di burlarsi di lui, con sarcasmo e pubblicamente. A queste ferite di amor proprio si aggiungeva l’irritazione di vedere contestata la sua posizione religiosa dagli pseudoteologi di Roma. Il Ciceronianus si disponeva a squalificare una buona volta tutto quell’ambiente. Era l’offensiva finale. In settembre, scrivendo a Vergara, Erasmo non poteva che denunziare quel male irrimediabile: «Paganesimus est, mi crede»71. Che cos’è in fin dei conti, questo paganesimo nefasto? La polemica di Erasmo non punta, come tante altre, sulla scarsa spiritualità e la rilassatezza dei costumi della Curia; e neppure punta sul commercio delle cose sacre e sulle superstizioni, di cui Erasmo ha trattato altrove. E nemmeno punta sulle ingenue affettazioni dello stile ciceroniano. Si occupa invece del culto dell’antichità; della nostalgia per un ordine non cristiano che traspare sotto l’amore incondizionato dell’antichità e sotto l’attrattiva che esercitano le sue vestigia. Erasmo inveisce contro la passione intellettuale per la storia, l’arte, il pensiero del mondo antico, che la coscienza cristiana non può controllare. L’archeologia, l’accumularsi delle sculture nei palazzi, la riesumazione dei modelli roma-
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ni, non sono più manie anodine e ausiliari legittimi del sapere, se portano un sentimento di superiorità inammissibile, di attaccamento totale e di sensibilità formale; pertanto sono pericolosi72. Se non c’inganniamo, il Ciceronianus rivela il ripiegarsi del pensiero di Erasmo verso un nuovo rigorismo, una più rigida concezione della cultura. Ma, fatto più importante, è la prima volta, nella storia del Rinascimento, che una critica profonda del «culto dell’antico» non proviene da un uomo di convento limitato o da un teologo diffidente, ma da un umanista, formatosi alle discipline classiche, l’autore degli Adagia. Era un vero avvenimento; lo si può spiegare con il sommovimento generale di quegli anni difficili, con la pressione dell’evangelismo dei Riformati, con la logica stessa delle posizioni erasmiane. Il trattato ci costringe a riconoscere l’ampiezza della «paganizzazione» che si poteva osservare non soltanto, ovviamente, nell’eloquenza, ma in tutta la cultura e la vita romana. Il che apre una questione di interesse innegabile e più importante di quanto non si abbia l’abitudine di ammettere per l’interpretazione dello sviluppo artistico della Roma medicea. Si vede chiaramente quanto sia grande l’indifferenza di Erasmo e dei suoi amici verso l’aspetto propriamente artistico del Rinascimento. Il problema del rapporto di Erasmo con le arti73 è forse un falso problema. La passione italiana per le forme gli sfugge e lo scandalizza. L’arte appartiene all’esteriorità e manca dell’essenziale; la formula di Bulephoros è precisa: «quae sunt hominis praecipua, pictori sunt inimitabilia»74. Erasmo era così consapevole che l’atteggiamento romano nei confronti dell’arte non era un concetto isolato, ma formava un tutto, che introdusse una digressione critica contro la pittura, prendendosela con quel che può sembrare moralmente inoffensivo: l’arte del ritratto. La
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pittura non raggiunge che un aspetto dell’uomo e precisamente quello che è inferiore. L’attenzione di un pittore al particolare è ridicola. «Se avesse saputo esprimere la forma veramente profonda dell’uomo, non si sarebbe rifugiato in questi parerga»75. Il Ciceronianus ha solo aggravato la rottura. Non ci fu discussione di fondo del problema. Già esposto ai sospetti dei colleghi italiani, Erasmo fu metodicamente confutato, punto per punto, da Alberto Pio da Carpi. Questo principe letterato76 aveva già risposto nel maggio 1526 all’accusa di «paganizzazione». Trovandosi a Roma nel maggio 1527, era riuscito a fuggire in Francia e a Parigi preparò durante l’inverno 1528 la Responsio accurata et paraenatica, che Erasmo avrebbe pur voluto un po’ più mitigata. Era troppo tardi. L’Apologia di Erasmo non impedì la pubblicazione a Parigi nel 1531, poco dopo la morte del principe, di un enorme trattato in ventun libri, In locos lucubrationum variarum D. Erasmi Roterodami, che conteneva molte cose imbarazzanti per l’accusato e osservazioni importanti su culti, riti, procedure della religione romana. Anche così l’animosità e il sospetto restavano elevati. I conventuali, più limitati, semplificavano decisamente le cose; il francescano Luìs de Carvajal giunse perfino a rendere Erasmo responsabile del sacco77.
Adriano VI. Una delle ragioni per cui gli erasmiani giudicavano così severamente l’ambiente romano e lo stimavano incapace di dirigere la Chiesa, può essere stato semplicemente il fallimento del pontificato di Adriano VI. Il suo regno, per quanto breve, era stato eccezionale in tutti i sensi. Era stato eletto inaspettatamente, nel disperato tentativo di sbloccare un conclave giunto a un punto
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morto. Benché fosse stato precettore dell’imperatore, si rivelò fin dall’inizio poco incline a piegarsi alle esigenze della politica imperiale, sentendosi innalzato a una carica suprema che sta al di sopra dell’arrendevolezza. Sbarcando a Genova il 17 agosto 1522, dopo il sacco della città da parte degli imperiali, Adriano VI rifiutò di concedere il perdono ai responsabili con il celebre: «non posso, non devo, non voglio»78. A Roma la pomposità dei cardinali lo urta; la richiesta di aumento di rendite da parte dei membri della Curia lo scandalizza: «me gusta la pobreza». Il pontefice assume una posizione contraria a tutte le pratiche romane; dà l’esempio di un sacerdozio umile e pio, che non sembra rispondere alla dignità della sua posizione. Egli rappresenta una critica di fatto agli usi e al cerimoniale romani, l’attuarsi improvviso di quella riforma della Curia di cui si parlava da decenni. Il risultato di questo ammirevole e pio tentativo fu catastrofico. Gli umanisti del Nord e, in primo luogo, Erasmo, che conosceva il prelato batavo da più di trent’anni, erano fiduciosi. Nel settembre 1522, Campeggi scriveva a Wolsey che Adriano «con il suo linguaggio e i suoi modi», sarebbe stato un papa eccellente. Adriano però, nei due grandi eventi del momento, non riuscì ad assicurarsi la collaborazione necessaria. Erasmo rifiutò di impegnarsi e non offrì il proprio aiuto a Roma per risolvere la questione di Lutero. L’avanzata dell’Impero Ottomano si accentuava con la caduta di Rodi; Carlo V promise di agire «au plus tôt que faire se pourra», ma senza fare una sola mossa. Il lato più disastroso e, dal nostro punto di vista, il più significativo, fu l’impopolarità immediata e irrimediabile del papa «barbaro» presso i romani. La critica sgarbata dei suoi atti più semplici assunse fin dall’inizio proporzioni incredibili. In una lettera del luglio 1522, fatta passare come di Pasquino, l’Aretino, rifugiato con
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il cardinale Medici a Firenze, arriva a mettere in caricatura le processioni di reliquie guidate dal nuovo Papa, in termini buffoneschi e irrispettosi degni di un Rabelais79. Non si perdonava ad Adriano la mancanza di decoro, l’indifferenza alle tradizioni locali e alla grandezza capitolina. Non basta essere un prete onesto e pio per comportarsi da sovrano degli Stati della Chiesa. Mai la contraddizione fra i due aspetti del pontificato era apparsa così chiara. «Non attribuì il minimo pregio alle grandi pitture e alle statue antiche; Vianese, legato a Bologna faceva un giorno l’elogio del Laocoonte che Giulio II aveva comprato a gran prezzo e fatto collocare nel giardino del Belvedere per abbellire il luogo. Adriano volse subito lo sguardo e si mise a imprecare contro quelle statue di un popolo empio»80. Queste manifestazioni sistematiche di ostilità contro l’arte degli antichi si estesero, tra lo scandalo generale, ai capolavori moderni, e prima di tutto al soffitto della Sistina. Vasari lo ha riferito accuratamente. ... nel pontificato del quale [Adriano VI] furono talmente tutte l’arti e tutte le virtù battute, che se il governo della Sede apostolica fusse lungamente durato nelle sue mani, interveniva a Roma nel suo pontificato quello che intervenne altra volta, quando tutte le statue avanzate alle rovine de’ Gotti (così le buone come le ree) furono condannate al fuoco. E già aveva cominciato Adriano... a ragionare di volere gettare per terra la cappella del divino Michelagnolo, dicendo ch’ella era una stufa d’ignudi; e sprezzando tutte le buone pitture e le statue, le chiamava lascivie del mondo e cose obbrobriose ed abominevoli81.
Questo atteggiamento non dipendeva da un gusto personale, ma da una convinzione. Adriano intendeva riformare tanto la vita romana quanto le pratiche della Curia. Non si poteva restaurare la dignità della Chiesa
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senza sacrificare le piacevolezze di qualsiasi genere che Adriano, anticipando di cinque anni il Ciceronianus, denunziava come l’infezione del paganesimo. Le sue frasi sprezzanti nei confronti dei capolavori non sono soltanto sentite come un insulto ai suoi predecessori e agli artisti, ma come un’offesa alla «romanità», all’«italianità» della Chiesa. Nella storiografia italiana, il pontificato di Adriano VI apparve come l’intrusione violenta dell’incultura e dell’errore nel mondo romano. Naturalmente non furono recepite le mirabili intenzioni di un sant’uomo, che desiderava sinceramente una riforma; ma unicamente il comportamento di un «barbaro». Berni, che apparteneva alla cerchia dei Bibiena e scriveva «capitoli satirici», tipici dello humour italiano, riversò contro Adriano ingiurie di grossolanità folle: O furfante, ubbriaco, contadino Nato alla stufa, or ecco chi presume Signoreggiar il bel nome latino82.
Vasari usò sistematicamente la «controleggenda» di Adriano per esaltare il mecenatismo glorioso del secondo papa mediceo, che, con sollievo di tutti, gli successe: Fu l’anno 1523 creato papa Clemente VII che fu grandissimo refrigerio all’arte della pittura e della scultura...83.
In un epigramma dal finale minaccioso: «Heu, heu, quam tibi, Christe, jam cavendum est», un poeta esprimeva il proprio disappunto per il Pontificato di Adriano VI e i timori ispirati dalla conquista turca di Rodi nel 152284. Roma è il Cristo; e lui che viene oltraggiato non proteggendo la sua città. Secondo la critica evangelistica – e riformata – bisogna, per ritrovare il Cristo, spogliare quel che Roma rappresenta. Usando le stesse paro-
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le, gli italiani e i loro avversari non parlavano però della medesima cosa. La tomba di Adriano non poteva essere collocata che nella chiesa dei settentrionali di lingua tedesca, Santa Maria dell’Anima. Il cardinale Enckenvoirt chiese al Peruzzi di disegnarla. Peruzzi, a detta del Vasari, affidò l’esecuzione a un certo Michelangelo da Siena, e ne sarebbe l’opera migliore, tanto per le combinazioni dei marmi colorati, quanto per la qualità delle statue85. Le quattro virtù cardinali circondano la figura giacente; al di sotto di questa, unico elemento storico della tomba, è un bassorilievo dove si vede «il suo ingresso in Roma con la folla romana che gli muove incontro per venerarlo». Non sapendo come illustrare il regno così breve del pontefice olandese, Peruzzi ricorse al tema sempre valido dell’adventus, tema che era stato trattato nella Stanza di Costantino; ma come presentare lo scenario romano, senza profilare, dietro la folla dei fedeli un colosseo e una piramide di Sestio? Furono così collocate davanti ad Adriano quelle antiche rovine di cui non aveva mai smesso di pensare che facevano troppa concorrenza all’eredità cristiana.
Archeologia e paganizzazione. Erasmo era disposto a tenere conto del fascino di Roma, soggiorno ideale dell’umanesimo e paradiso dei dotti; ma la sua concezione erudita era esclusivamente letteraria, libresca. Come non lo interessavano le opere d’arte, così non lo interessavano l’archeologia e gli scavi; niente era più lontano dalla sua mentalità. Invece proprio l’archeologia era entrata da quindici anni in una fase nuova e notevole, sotto l’impulso di Raffaello e dei suoi amici. Certamente, si poteva dire che questa nuova moda artistica era ispirata dalla nostalgia della Roma
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repubblicana e imperiale. I pezzi più svariati, i frammenti, le tabulae si accumulavano nei cortili dei prelati: questa mania irresistibile, che tutta Europa ammirava e imitava, può essere vista come il supporto del «ritorno al paganesimo». Se comprendiamo bene Vasari, è allora, sotto Clemente, che fu inventato da Lorenzetto un modo di presentare pezzi antichi destinato ad avere un immenso successo. Proprio nel giardino del cardinale Della Valle lo scultore avrebbe avuto l’idea di raggruppare i frammenti e completare i pezzi. Rimettendo insieme colonne e capitelli, li forniva di uno zoccolo costituito da elementi coperti di rilievi; al di sopra componeva un fregio di frammenti a forma di nicchia e coronava il tutto con statue «le quali sebbene non erano intere per essere quali senza testa, quali senza braccia ed alcune senza gambe, ed insomma ciascuna con qualche cosa in meno, l’accomodò nondimeno benissimo avendo fatto rifare a buoni scultori tutto quello che mancava: la quale cosa fu cagione che altri signori hanno poi fatto il medesimo, e restaurato molte cose antiche, come il cardinale, come i cardinali Cesi, Ferrara, Farnese, e per dirlo in una parola tutta Roma. E nel vero hanno molto più grazia queste anticaglie in questa maniera restaurate, che non hanno que’ tronchi imperfetti, e le membra senza capo, o in altro modo difettose e monche»86. Vasari colloca dopo la sepoltura di Raffaello nel 1520 la comparsa di questo «nuovo tipo di decorazione archeologica» che si impose dovunque; cita due delle collezioni che furono «visitate» nel 1527 dagli occupanti87. In quanto al «fregio di scene antiche in semirilievo bellissime e rarissime» che portò all’apice la gloria di Lorenzetto, si tratta probabilmente di una mescolanza di elementi antichi e di ricostituzioni. Appunto questa modernizzazione delle antichità affascinava.
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C’era di più. Era a Roma che le vaste collezioni dei modelli antichi, disponibili e certe, venivano ora studiate con cura per decorare all’antica e quindi in stile pagano le dimore, tanto sulle facciate che all’interno. La retorica «ciceroniana», con le sue formule imitate, i suoi dei e i suoi templi, era nulla a confronto di quell’invasione delle forme e dei tipi. Erasmo, che non era tornato a Roma da vent’anni, ne era a conoscenza abbastanza per protestare contro quei quadri indecenti che piacevano ai prelati della Curia88. La nuova generazione gli avrebbe fornito cento ragioni supplementari per indignarsi e per denunziare come una licenza il comportamento degli amatori d’arte. Alla fine ebbe luogo una spaccatura fra due mondi spirituali: il senso della purezza evangelica mancherà per sempre a quei retori, così come i monaci e gli sciagurati che hanno soffocato la religione sotto i riti non capiranno mai le superstizioni e le immagini. Erasmo nutriva soltanto diffidenza per quei prelati troppo numerosi, e non soltanto in Italia, che si mostravano talmente attaccati alle lettere e alle arti della Rinascita. Quando, nella Battaglia di Costantino, Giulio Romano aveva voluto rappresentare i dintorni della città, aveva introdotto nel paesaggio una villa «all’antica»; era la villa innalzata a cominciare dal 1517 sul monte Mario, ma non ancora ultimata, del cardinale Giulio de’ Medici, prima ricostruzione moderna di una villa suburbana. In quell’edificio spazioso e incantevole, destinato a dominare tutto un paesaggio di terrazze digradanti verso il Tevere, c’era una decorazione di stucchi e di affreschi, i cui motivi tratti da Ovidio erano stati approvati dal futuro Clemente VII. Egli non faceva che seguire una moda «ovidiana» di cui la «stufetta» di lusso era il più piacevole, ma, per un chierico aggrondato, il più abominevole esempio. La stanza da bagno neopagana di Castel Sant’Angelo, di cui il pontefice ebbe ben sovente l’occasione di servirsi, avrebbe ispirato a Erasmo e ai
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suoi amici, a maggiore ragione che non qualche sermone ampolloso, un’indignazione atta soltanto a dimostrare la loro ignoranza delle usanze d’Italia. Queste innovazioni artistiche andavano di pari passo con lo sviluppo del sapere sotto i papi medicei. Una delle ultime preoccupazioni di Raffaello, morto nella primavera del 1520, era stato di proteggere quanto rimaneva delle rovine dell’antica Roma89. Questo non poteva concepirsi senza rilevamenti archeologici, senza una pianta della città antica. L’intellettualità della Roma rinascimentale contava molto su queste iniziative. In un poema in memoria del giovane artista. Castiglione aveva scritto: «Tu quoque dum toto laniatam corpore Romani componis»*. Negli anni seguenti, sotto Clemente, questi progetti avevano cominciato a prendere corpo. La passione archeologica aveva saldato un gruppetto di eruditi. Nello stesso 1527, alla fine dell’inverno, uscirono due libri elaborati da quegli umanisti archeologi. Uno, Antiquitates di Andrea Fulvio, è una rarità bibliografica90. Attraverso descrizioni ed evocazioni abbastanza precise, e grazie alle citazioni, il volume finisce per essere un elogio sconfinato della Roma antica, la città più bella, più nobile, più felice. L’autore conclude che Roma ha sempre trionfato dei barbari. L’altra pubblicazione è la notevole pianta archeologica di Fabio Calvo, Antiquae Urbis Romae cum regionibus simulacrum, dedicata a Clemente. Si tratta di un’analisi sistematica dei «rioni» e della collocazione degli antichi resti91. L’autore non può trattenersi dal deplorare quel che il tempo e la malvagità umana hanno fatto delle meraviglie del passato. Il povero Calvo, già vecchio, uomo di storica probità, dicono i contemporanei, «fu portato fuori di Roma dalle bande mercenarie, perché non aveva denaro sufficiente per pagare la taglia; finì miserevolmente in un ospedale»92.
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La prefazione di Fulvio è un documento notevole: riferendosi al libro molto precedente di Flavio Biondo, Italia illustrata, l’autore si pone nella tradizione dell’umanesimo romano; sottolineando il ruolo di Raffaello e dei suoi rilevamenti delle rovine, precisa l’orientamento propriamente archeologico del suo lavoro. E celebrando la grandezza passata e presente di Roma in una forma ardente e appassionata, colloca la «Città Eterna» al centro di ogni civiltà, attribuendole un valore ideale e insieme concreto. Vediamo qui il culto di Roma sviluppato in mito di Roma. L’opera, ovviamente, era dedicata a Clemente. Il contenuto è un po’ deludente, dato che si tratta di una compilazione piuttosto sommaria; ma c’è tuttavia un progresso in confronto alle descrizioni e localizzazioni di Biondo. Soprattutto, Andrea Fulvio mostra diligentemente come la città antica continui a vivere nella città moderna. Nel 1525, componendo un poemetto in onore del giubileo tradizionale, aveva redatto un esposto cronologico dell’istituzione e non aveva esitato a risalire ai ludi saeculares degli antichi romani. Nella sua raccolta delle Antiquitates, fa dell’archeologia nascente la chiave dell’interpretazione storica del fenomeno romano. Ma queste affermazioni sulla grandezza del mondo pagano, sulla continuità dei suoi usi e pratiche all’interno del mondo cristiano, e l’esaltazione della Roma moderna che era riuscita a conciliarli, erano proprio quelle che urtavano di più gli erasmiani. L’elogio di Fulvio mescola con la massima naturalezza l’antico e il cristiano: Retinet adhuc Roma quandam priscae maiestatis umbram ut gentes ex toto orbe tamque membra ad caput recuprant. Nusquam tanta aedificiorum laxitas, tanta rerum pompa, tot loca sacra, tam solida peccatorum venia et tot (ut plebis vocabulis utar) indulgentiae, tot martyrum triumphi quorum
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cruore aspersa, consecrata omnia habentur. Sub Christo principe totus mundus patefactus est (fol. xvi).
Un po’ più avanti, si trova un lungo passo sulle vicissitudini di Roma, «de inclinatione et mutatione Imperii et Urbis excidio», con il lungo elenco degli attentati barbarici e la conclusione che voleva essere patetica: «Roma ludibrio fuit barbaris. Sed ipsa demum victrix» (fol. cii). Più che l’eloquenza ciceroniana, è quest’ordine di preoccupazioni che caratterizza la Roma di Clemente VII e, più generalmente, la cultura che era maturata sotto i due papi medicei. A quale punto Roma fosse colpita dalla sciagura del 1527, la lentezza della ripresa basta a dimostrarlo. Il simulacrum fu ristampato nell’aprile 1532, ma senza suscitare l’entusiasmo che meritava. I lavori sulla topografia romana subirono un arresto deciso. Si dovette aspettare la metà del secolo perché uscissero nuove piante di Roma e avesse luogo la grande restituzione della città antica per opera di Pirro Ligorio nel 1552.
Cfr. cap. ii. La fonte è un opuscolo tedesco, Auslegung Peter Creutzers... über den erschröcklichen Cometen..., s.l.s.d.; combinato con un opuscolo francese, La terrible et espouventable comete laquelle apparut le XI. Doctobre Lan MCCCCC XX VII en Vuestrie region Dalemaigne..., s.l.s.d. (indicazioni fornite da Anne-Marie Lecoq). 3 plinio, Nat. hist., I. xxii. warburg, Heidnisch-antike Weissagung cit., p. 533, ha notato che Melantone si spaventò nel 1531 per l’apparizione «in occasu solstitiali» di una cometa di questo tipo. 4 [«Piagnoni» erano chiamati i seguaci del Savonarola, che piangevano la condizione della Chiesa]. 5 Cfr. r. ridolfi, Vita di Girolamo Savonarola, Roma 1952, vol. I, pp. 73-75; d. weinstein, Savonarola and Florence. Prophecy and Patriotism in the Renaissance, Princeton 1970, capp. iii-iv. Sulla medaglia di Savonarola con la mano del Signore che brandisce la spada, cfr. g. f. 1 2
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 hill, A Corpus of Italian Medals of the Renaissance before Cellini, London 1930, nota 1080. 6 Per esempio c. lycosthenes, Prodigiorum ac ostentorum chronicon, Basel 1557, p. 273. In un manoscritto astrologico intitolato Des comettes et de leurs signifiances..., redatto nel 1587 (Bibl. Warburg, Londra: cfr. j. m. massing, A Sixteenth-Century Illustrated Treatise on Comets, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», [1977], pp. 33 sgg.) sono menzionate le comete storiche: Scutella alla morte di Costantino, Veru alla distruzione di Gerusalemme e al sacco di Roma del 1527. 7 m. pingré, Cométographie ou traité historique et théorique des comètes, Paris 1783, vol. I, p. 485. 8 Sulla pseudo-profezia di Torquato, cfr. cap. ii. 9 Cfr. reeves, Influence ol Prophecy cit., cap. vi. 10 Se n’era già avuta una nel gennaio 1526, e vi sarà di peggio nel 1557 e nel 1598 Cfr. lanciani, The Destruction of Ancient Rome cit., p. 94. Vasari ricorda i guasti subiti da un’opera di Perino del Vaga, cfr. j. shearman, An Episode in the History of Conservation: the Fragments of Perino’s Altarpiece from S. Maria sopra Minerva, in Scritti di storia dell’arte in onore di Ugo Procacci, Milano 1977, vol. II, pp. 356 sgg. 11 [Unità di misura pari alla larghezza (7-8 cm) o alla lunghezza (1415 cm) della mano, tuttora usata per misurare i cavalli]. 12 Neue Zeytung auss Rom, wie das grausam und erschröcklich gross wasser der Tyber schaden than hat, s.l. 1530 (The Folger Shakespeare Library, Washington). 13 L. Alamanni, nato a Firenze nel 1495, avversario dei Medici, aveva fatto parte di un complotto contro il cardinale Giulio de’ Medici; condannato a morte, si era rifugiato a Venezia poi a Lione, e si pose quindi al servizio di Francesco I. Alla notizia della cacciata dei Medici, rientrò in Italia, dove svolse un’intensa attività diplomatica. Nel 1530 dovette rifugiarsi di nuovo in Francia. L’edizione delle Opere toscane, di cui il vol. I (Lione 1532, pp. 316–42) contiene Il Diluvio Romano, è dedicata a Francesco I, presentato come la speranza dell’Italia. Cfr. Dizionario biografico degli Italiani, Roma 1960, vol. I. Non abbiamo potuto trovare l’opuscolo di ludovico gomez, De prodigiosis Tiberis inondationibus, Roma 1531. 14 egidio da viterbo, Scechina e Libellus de litteris hebraicis, a cura di F. Secret, Roma 1959. 15 Testo completo in j. f. ossinger, Biblioteca Augustiniana, Ingolstadt 1768, s.v. «Casinius», pp. 191-93. Devo questo riferimento alla cortesia di F. Secret. 16 Cfr. o’malley, Giles of Viterbo on Church and Reform cit. 17 Secondo un vecchio gioco di parole emblematico, i Medici diventavano facilmente i medici inviati dal cielo, e la loro azione era medicina Dei. Cfr. j. shearman, Raphael’s Tapestries, London 1976.
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 «Urbem Romam caput feceram: quae beneficii oblita nulli peccando cedit: ego quoad licuit defendi: per multorum voces territavi: excidium minata: mutare mores: resipiscere: ad sanitatem redire: hortata sum. Quia minas facta secuta sunt: manum adduxi tuam cum Borbonio: Urbem expugnavi diripui: caede sanguine incendiis complevi. Tot supplicia: tot plagas tantum calamitatum invexi: ut quamquam ipsa facerem: ipsa a tam crudeli spectaculo abborream Tantum miseriarum cumulum miserata: iussi, ut scis, te Urbi parcere: clausos liberare: revocare exercitum: praesidia arcesque restituere: Italiam petere: hostibus pacem dare: meis sacerdotibus tantum honorum tribuere: quantum nunquam fuerat antea tributum. Reduco in Urbem expecto ob suscepta illinc vulnera: hinc honores: utramque agnovisse manum dei laevam cum Borbonio dilacerantem, destram per te Bo(r)boniae complexantem: sublevantem: restituentem. Video actum nihil: medicinam non modo non sanasse: sed ad maiorem peccandi licentiam: audendi petulantiam: habendi cupiditatem: famem rabiem irritasse: volui iterato commonefacere: feci impetum prius ferro atque igne per Borbonium: nunc illuvie: aquisque per Tyberum qui insolito incremento omnia complevit annonam rapuit: domos evertit: atque adeo afflixit: ut plerique iudicaverunt barbaro externo Borbonio Thuscum Tyberim fuisse crudeliorem: At nec sic quidem quicquam profeci. Nunc certum est ultra non parcere: morbum medici manum refugientem: immanium hostium falce resecare: antiqua evertere: nova instaurare» (egidio da viterbo, Scechina cit., p. 105). 19 Ibid., p. 116. * [«Ho fatto intervenire la tua mano col Borbone»]. 20 g. casio de’ medici, Canzon’ove si narra la strage e il sacco di Roma, diritiva al Catolico Re di Spagna e dei Romani…, [Roma 1529], 21 strofe di 11 versi. 21 Al seguito di v. luciani, Francesco Guicciardini e la fortuna delle opere sua, Firenze 1944; diez del corral, La monarquia hispanica cit., ha sottolineato quanto siamo debitori alla relazione e all’analisi dei fatti date da Guicciardini. 22 Cfr. r. ridolfi, Vita di Francesco Guicciardini, Roma 1960. 23 vasari, Le vite cit., VI, p. 205: «[fece] a messer Francesco Guicciardini che allora, essendo tornato da Bologna, si stava in villa a Montici scrivendo la sua storia, il ritratto di lui, che somigliò assai ragionevolmente e piacque molto». Fondo porpora; blasone dei Guicciardini sul seggiolone, su un libro in mano allo storico si legge: «Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla | memoria n[ostr]a in Italia». Yale Art Gallery (45 V4 x 33 318). Cfr. c. seymour, The Rabinowitz Collection of European Paintings, New Haven 1961, pp. 30-31. 24 f. gilbert, Machiavelli and Guicciardini, Princeton 1965, cap. VII, p. 271. 18
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 r. ramat, Il Guicciardini e la tragedia d’Italia, Firenze 1953; m. santoro, Fortuna, Ragione e Prudenza nella civiltà letteraria del Cinquecento, Napoli 1967, pp. 290 sgg. 26 Ricordi autobiografici e di famiglia, in Opere inedite, a cura di G. Canestrini, Firenze 1857, vol. X, p. 436. 27 f. guicciardini, Consolatoria, fatta di settembre 1527 a Finocchieto, tempore pestis cit., pp. 165 sgg. 28 m. guglielminetti, Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini, Torino 1977, pp. 286 sgg. 29 Cfr. le notevoli analisi di diez del corral, Maquiavelo y Guicciardini, in La monarquia hispanica cit. 30 «Quanto s’ingannano coloro che a ogni parola allegano i Romani!» Ricordi cit., vol. X, p. 121 nota 110. Vedi anche santoro, Dei successi del Sacco cit., p. 275 nota 2; d. cantimori, Francesco Guicciardini, in Storia della letteratura italiana, IV: Il Cinquecento, Milano 1966, pp. 102 sgg. 31 gilbert, Machiavelli e Guicciardini cit., p. 288; r. ridolfi, Genesi della «Storia d’Italia» guicciardiniana, in «La Bibliofilia», 40 (1938), pp. 369 sgg., ha potuto stabilire, dall’esame di una prima stesura, che Guicciardini ha incominciato la sua opera da quello che è diventato il libro XVI, che tratta della battaglia di Pavia, della formazione della Lega di Cognac, e del sacco. Egli è andato diritto agli «anni terribili» che lo esortarono a intraprendere l’opera. 32 Ricordi cit., vol. X, p. 130 nota 161. 33 e. pontieri, Gli ultimi ambiti della indipendenza italiana, in Nei tempi grigi della storia d’Italia, Napoli 1949, con le note limitative di cantimori, Italy and the Papacy cit., p. 274. 34 Dopo le considerazioni di f. chabod, Y a-t-il un État de la Renaissance?, in «Actes du Colloque sur la Renaissance», Paris 1958, pp. 57–74, seguiamo lo studio di hook, The Destruction ol the New Itatia cit., pp. 25 sgg. 35 «Io confesso essere proprio ufficio del papa la cura spirituale; e dico di più, che molto maggiore e più potente farebbe uno pontefice la autorità spirituale che tutta la temporale che lui potessi avere; e che il dimettere le cose temporali lo farebbe più grande, più reverendo nel cospetto di tutta la cristianità. Ma poiché il mondo è pieno di malignità, chi dubita che se uno pontefice non aiutasse le cose sue con ogni specie di armi o di potenza, che sarebbe annichilato non manco nello spirituale che nel temporale» (Discorsi politici, I, p. 389, citato da gregorovius, Storia della città di Roma cit.). 36 Ioannis Pierii Valeriani Bellunensis de litteratorum infelicitate libri duo. Ejusdem Bellunensia. Nunc primum e Bibliotheca Lolliniana in lucem edita, Venezia 1620, 1. 1, p. 7 (Laurentius Grana): «... sed, bone Deus, cum primum coepi Philosophos, Oratores, Poetas, Graecarum 25
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Latinarumque litterarum professores, quos in Commentario conscriptos habebam, perquirere, quanta, quamque crudelis tragoedia mihi oblata est, qui litteratos viros, quos me visurum sperabam, tanto numero comperiebam miserabiliter occubuisse, atrocissimaque fati acerbitate sublatos, indignissimisque affectos infortuniis, alios peste intereceptos, alios in exilio, et inopia oppressos, hos ferro trucidatos, illos diuturnis cruciatibus absumptos; alios, quod erumnarum omnium atrocissimum arbitror, ultro sibi mortem conscivisse...». 37 c. e. trinkhaus, Adversity’s Noblemen, the Italian Humanists on Happiness, New York 1940, p. 137. 38 Cfr. cap. vi. Si troveranno elenchi nelle opere solite: von pastor, Storia dei papi cit., IX, pp. 299 sgg.; gregorovius, Storia della città di Roma cit. 39 l. gregorii giraldi, Epistola in qua agitur de incommodis quae in direptione urbana passus est..., in Dialogi duo de poetis nostrorum temporum, Firenze 1551, pp. 113 sgg.; ristampato in Opera omnia, 1696, vol. II: Poemata, pp. 913 sgg. 40 «Deinde in hoc misero casu videntur etiam studia literarum in quoddam discrimen venisse...» (in Historicum opus cit., II, p. 1855). 41 l. dorez, Antonio Tebaldeo, les Sadolet et le Cardinal Jean du Bellay, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 26 (1895), p. 384. Cfr. cap. vi. 42 c. dionisotti, Chierici e laici nella letteratura italiana del primo Cinquecento, in Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, Padova 1960, ripreso in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, pp. 55 sgg. 43 Citato da cian, La coscienza politica nazionale nel Rinascimento cit. 44 Citato da salviolo, Nuovi studi cit., 1878, p. 25. 45 giovio, Historiarum sui temporis cit. 46 m. philips, The «Adagia» of Erasmus, Cambridge 1964, pp. 16061; r. valentini, Erasmo da Rotterdam e Pietro Corsi, in «Rendiconti Accademia dei Lincei», serie VI, vol. 12 (1936), pp. 11-12; m. p. gilmore, Anti-Erasmianism in Itaty: the Dialogue of Ortensio Lando on Erasmus Funeral, in «The Journal of Medieval and Renaissance Studies», 4 (1974), p. 9, fig1. 47 Sulla difesa di Frosinone, cfr. cap. i. 48 vasari, Le vite cit., V, pp. 142 sgg. Cfr. a. marabottini, Polidoro da Caravaggio, Roma 1969, vol. 1, cap. xi; vol. II, tavv. cxxviii sgg. (Palazzo Milesi: tavv. cxlvi a cliv). Cfr. cap. v. 49 j. wasserman, Palazzo Spada, in «The Art Bulletin», 43 (1961), 2, pp. 58 sgg. Il palazzetto di Antonio da Sangallo il Giovane, in via Giulia, costruito circa il 1535-36, quando fu ereditato da Cosimo I, verso il 156o, venne ornato con una decorazione tutta a gloria dei Medici, con
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 ritratti di Giuliano, stemma di Clemente. Cfr. l. salerno, l. spezzaferro e m. tafuri, Via Giulia, Roma 1973, pp. 272-79. 50 Cfr. cap. vi. 51 renaudet, Erasme et l’Italie cit., III, cap. iii, p. 140; cap. v, pp. 164-65. 52 Su «Die göttliche Mühle», si veda infine, zschelletzschky, Die «drei gottlosen Maler» von Nürnberg cit., pp. 236 sgg. e fig. 188. 53 La prima traduzione italiana degli scritti di Lutero è notevolmente precoce, poiché si conosce «uno libretto volgare con la dichiarazione de li dieci comandamenti, del Credo, del Pater noster...» in una edizione del 1525 di Venezia, che adatta un testo devozionale del 1520 (rist. 1540 e 1543), segnalato come opera anonima da c. ginzburg e a. prosperi, Giochi di pazienza, Torino 1975, p. 131; studiato da s. seidel menchi, Traduzioni italiane di Lutero, in «Rinascimento», 18 (1977), pp. 40 sgg.; (il «libretto» contiene inoltre «una breve annotatione del vivere cristiano», di cui non si è identificato l’originale tedesco). L’anno seguente, la stessa piccola raccolta appariva, sempre a Venezia, sotto il nome di Erasmo, cfr. d. cantimori, Erasmo e la vita religiosa italiana del secolo XVI, in Umanesimo e religione nel Rinascimento, Torino 1975, p. 43. Nel 1525 e 1526, non era già più possibile far circolare senza rischio gli scritti di Lutero, anche quelli solo sulla religione; ma si trovò l’espediente, in taluni casi, di mettere in copertina il nome di Erasmo, con un interessante adattamento delle ingiunzioni cristiane del riformatore per il pubblico italiano. 54 a. renaudet, Etudes érasmiennes (1521-1529), Paris 1939, pp. 98 sgg. A rischio di una totale incomprensione l. halkin, Erasme de Turin à Rome, in Mélanges d’histoire du XVIe siècle offerts à Henry Meylan, Genève 1970, p. 16 nota 112, ha affermato: «Erasmo deplorerà il Sacco di Roma del 1527. Ci si chiede come Renaudet […] abbia potuto scrivere il contrario». I due passaggi citati di Erasmo devono essere letti nel contesto che li illumina. Mal informato ancora il 27 maggio, Erasmo esprime soltanto il suo vecchio timore dei disordini: «Mea senectus in haec tempora satis infeliciter incidit» e «Romae turbatissima sunt omnia nec epistolis patet iter. Putant foedus Caesari cum Pontifice coiturum». Se si tratta dell’accordo di capitolazione, la formula è esposta in modo curioso (erasmo, Letters cit., VII, n. 1831). Quando giunsero a Erasmo notizie più precise egli non tradì alcuna emozione particolare nella lettera a Federico Grau: «De Roma diri rumores adferuntur: qui sive veri sunt, sive falsi, nullam video spem pacis inter monarchas» (ibid., n. 1834). Nell’ottobre 1528, la lettera a Sadoleto commenta più ampiamente i fatti riassumendo, con un’ironia fredda notata da A. Renaudet, la situazione: «Vidimus Romam crudelius captam quam olim fuerit a Gallis aut post a Gottis. Vidimus Ecclesiae principem Clementem inclementissime tractatum...» (ibid.,
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 n. 2059). La lettera prosegue estendendosi alla sorte, che sarebbe stata probabilmente infelice, degli studi umanistici (cfr. cap. iii). 55 Questo punto di vista riflette una lettera di Carlo V a Pierre de Veyre, inviato presso Lannoy, datata 21 luglio 1527: l’inviato deve far conoscere al viceré la posizione dell’imperatore: «...sembra che sia per la mano di Dio e per il suo divino permesso, per giungere e dare avvio a qualche buona pace nella cristianità per il bene e il riposo di questa, e per conseguenza ne risulterà un concilio per riforma della Chiesa tanto desiderata e necessaria che ognuno sa, e anche per estirpare l’erronea setta Luterana. E in tal caso, pensando al successo di così grandi benefici abbiamo avuto più piacere che altro di quel che è piaciuto a Dio di disporre in questa vittoria di Roma» (l. e. halkin e g. dansaert, Charles de Lannoy, vice-roi de Naples, Paris 1934, doc. cxxxiii). 56 sadoleto, Epistolarum libri XVI, Lyon 1550, p. 48. 57 Dialogus ciceronianus, sive de optimo genere dicendi, marzo 1528. [Trad. it. di A. Gambaro, Brescia 1965]. 58 Erasmo non aveva mai pensato ad altro. Fin dal 26 giugno 1527, in una lettera inviata da Roma all’imperatore, il segretario Juan Pérez segnala di avere chiesto un breve a Clemente VII perché l’arcivescovo di Siviglia possa imporre silenzio ai contraddittori di Erasmo (de gayangos, Calendar ol Letters cit., n. 94). 59 erasmo, Letters cit., VII, nn. 1987, 2059; ibid., p. 506: «Ciceronianus meus non paucos offendet Italos; quod satis divinabam fore». 60 Ibid., VI, p. 90, n. 1581. Sul Ciceronianus come un’opera cardine, cfr. g. vallese, L’Umanesimo al primo Cinquecento: da Cristoforo Longolio al «Ciceronianus» di Erasmo, in Da Dante a Erasmo. Studi di letteratura umanistica, Napoli 1962, pp. 103-28. 61 girolamo, Epist. XXII 30. Cfr. dom f. cabrol e dom h. leclercq, Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, Paris 1927, vol. VII, coll. 2243-44 (con bibliografia); h. hagendahl, Latin Fathers and the Classics, Göteborg 1958, pp. 91 e 310. L’episodio figura nella Leggenda aurea. 62 Sull’erasmianismo dei critici italiani dell’umanesimo a partire dal 1530, cfr. p. f. grendler, Critics of the Italian World, Madison (Wisc.) 1969, pp. iii sgg. 63 renaudet, Etudes érasmiennes cit., p. 294. j. w. o’malley, Preaching for the Popes, nella raccolta In Pursuit of Holiness in Late Medieval and Renaissance Religion, a cura di Trinkhaus e H. A. Obermann, Leiden 1974, pp. 08 sgg., ha notevolmente ridotto lo scandalo dei pretesi sermoni «pagani» di cui Erasmo ha fatto la satira attraverso la voce di Bulephorus, analizzando la vera natura della «teologia retorica» della corte pontificia, cosa che non hanno avvertito né Burckhardt né Pastor, né beninteso, l’autore del Ciceronianus. 64 Cfr. renaudet, Erasme et l’Italie cit., p. 96 e nota A, che parla
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 del giovedì santo; Ciceronianus cit., p. 57; poiché Erasmo non nomina l’oratore, si suppone che si tratti di Tommaso Fedra Inghirami, di cui parla altrove come del predicatore «ciceroniano» più in voga a Roma, insieme a Giulio Camillo. 65 «Si quis argumentum rapti Ganymedis eleganter constructum opere musaico dissolvat et iisdem tessellis aliter concinnatis exprimere conetur Gabrielem coelesteque nuntium adferentem Virgini Nazarenae, nonne durum parumque felix opus nascetur ex optimis quidem tessellis sed minus argumento congruentibus» (Ciceronianus cit., p. 409). Questo passo basta a dimostrare che la polemica di Erasmo non si limita ai testi letterari. Come lo ha notato bene panofsky, Erasmus and the Visual Arts cit., pp. 205 sgg., Erasmo, nella sua preoccupazione di moralista «evangelico», attento a quel che succede «magis in moribus quam in parietibus», è ugualmente ostile ai particolari realistici, al lusso delle forme, ai modelli antichi, in breve a tutto ciò che allora poteva importare agli artisti. Sul problema delle tombe, cfr. la risposta di Alberto Pio, citata in g. scavizzi, La teologia cattolica e le immagini durante il XVI secolo, in «Storia dell’Arte», 21 (1974), p. 200. 66 De partu Virginis, a cura di A. Altamura, Napoli 1948. 67 «Gratulamur tibi quod tantum unus praestes quantum antea nemo: Ecclesiae... nostro saeculo... nobis denique ipsis, quibus imminente hinc Goliade armato, hinc Saule a furiis agitato, affuerit pius David illud funda a temeritate, hunc lyra a furore compescens». Questo testo è stato pubblicato come premessa all’edizione dei Poemata di Sannazaro, Roma 1793, pp. xliii-iv. È citato da dacos, Le loge cit., pp. 69-7o e nota 196. 68 «Io non so se sia più reprensibile, essendo cristiano, trattare in modo profano soggetti profani non dando a vedere di essere cristiano, oppure trattare al modo pagano soggetti cristiani» («Haud scio utrum sit magis reprehendem, si christianus, prophana tractet prophane, christianum se esse dissimulans, an si materias christianas tractet paganice») (Ciceronianus, ed. Amsterdarn 1966, vol. I, p. 701). 69 Ciceronianus, ed. Leida, I, col. 1020; citato da renaudet, Etudes érasmiennes cit., p. 102; dacos, Le loge cit., p. 7o nota 197. 70 Elogio della pazzia, cap. 43. Nel vivo della disputa «ciceroniana», Erasmo non esitò a dichiarare che in fatto di «litterae», non doveva nulla all’Italia, Apologia brevis ad XXIV libros Alberti Pii, in Opera omnia, Leiden 1706, vol. IX, coll. 1123-96. 71 Lettera del 13 marzo 1527 a erasmo, in Letters cit., VI, pp. 47175, n. 1791 (bataillon, Erasme et l’Espagne cit., p. 249, non vi fa che una breve allusione); n. 1875 «Fervet illic paganesimus quorumdam quivis nihil placet nisi ciceronianum».
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Gli storici più antichi si sono molto affannati per fare di Erasmo un ammiratore dell’arte moderna. j. d. passavant, Rafael von Urbino und sein Vater Giovanni Santi, Leipzig 1839, ha immaginato ingenuamente una visita guidata da Inghirami nella bottega di Raffaello. Disgraziatamente, tutto ciò che Erasmo ricordava è il sermone di Inghirami del giovedì santo del 1509. Di fatto, r. giese, in Erasmus and the Fine Arts, in «The Journal of Modern History», settembre 1935, p. 273, ha bene osservato che se Erasmo non parla degli edifici, delle pitture, dei capolavori dell’arte italiana, dipende dal fatto che non l’interessano e che non ha nulla da dirne. 73 Lo studio che E. Panofsky ha fatto dell’elogio di Erasmo a Dürer: «Nebulae in pariete»; Notes on Erasmus’ Eulogy on Dürer, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 14 (1951), pp. 34-41, e dell’atteggiamento di Erasmo verso le arti: Erasmus and the Visual Arts cit., xxxii (1969), pp. 200 sgg., dimostra finalmente l’importanza secondaria e puramente occasionale delle osservazioni dell’umanista. Se è vero che egli abbia disegnato e dipinto, come si è supposto, questa esperienza ha solo confermato la sua opinione sull’interesse mediocre delle arti visive in confronto alle lettere, debitamente presentate, nell’agosto 1518 a Amerbach, come le sole degne di attenzione. La pittura e l’incisione sono ausiliari poco sicuri del pensiero morale, che solo può essere espresso con il discorso scritto. Le distruzioni iconoclaste di Basilea nel 1529 lo indignano soltanto per l’orrore della violenza e degli eccessi (renaudet, Etudes érasmiennes cit., p. 356). È soprattutto per Erasmo l’occasione di sottolineare che quelle statue di santi e quei crocifissi non sono state in grado di produrre un miracolo. 74 Il pensiero fisso di Erasmo è il valore esclusivo, insostituibile, dell’uomo interiore (Enchiridion, 1503, cap. iv: De homine exteriore et interiore). L’uomo interiore non si esprime realmente che con il linguaggio, che merita tanto più tutta l’attenzione in quanto la verità fu rivelata dalle Scritture. Il resto non conta. Cfr. d. marsh, Erasmus on Body and Soul, in «Journal of the History of Ideas», ottobre–dicembre 1976, pp. 976 sgg. 75 Ciceronianus cit., pp. 102 Sgg.: «Istius generis pictor quidam nuper risui nobis fuit». 76 Alberto, nello spirito del Rinascimento italiano, aveva trasformato il suo castello, rifatto la cattedrale di Carpi sul modello di San Pietro, lavorato con i maestri. Cfr. vasari, Le vite cit., IV, 264. m. p. gilmore, Erasmus and Alberto Pio, Prince of Carpi, in Action and Conviction in Early Modern Europe, Princeton 1969, pp. 299-318. 77 Citato da bataillon, Erasme et l’Espagne cit., p. 380. 78 r. carande, El sorprendido y sorprendente Adriano VI, papa, in Homenaje a Johannes Vincke, Madrid 1963, vol. II, pp. 1 sgg. 79 Su Adriano VI cfr. Adrien VI. Le Ier pape de la Contre-Réforme. Sa personnalité, sa carrière, son oeuvre, Louvain 1959, con bibliografia. 72
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Può sembrare sorprendente che Paolo Giovio abbia consacrato tutta una biografia a Adriano VI: al suo avvento, il nuovo papa gli tolse titolo e pensione, che gli doveva a Leone X; in compenso gli accordò un canonicato a Como, a condizione che scrivesse la storia del pontificato di Adriano. Nel suo trattato sui pesci, De Piscibus, scritto nel 1524 e pubblicato a Basilea nel 1531, p. 8, egli si esprime ogni tanto senza riguardi sulla debole capacità di Adriano, a proposito dei pesci ricercati dall’aristocrazia che sono abbandonati per capriccio e cadono a vile prezzo: «Uti modo merlucciae plebeio admodum pisci Hadrianus pontifex sicuti in administranda republica habetis ingenii vel depravati judicii ita in esculentis [= in fatto di tavola] insulsissimi gustus, supra mediocre pretium, ridente toto foro piscario, jam fecerat». 79 «La scuffia de l’Unico Aretino..., il brachiere di Flischio, la cintura della mamma di Trani…, la statua equestre del Sre Renzo intagliata di pane fresco...» Cfr. Luzio, Pietro Aretino nei primi suoi anni cit., p. 7 nota 1. 80 p. giovio, De Vita Hadriani VI, in Vitarum illustrium aliquot virorum libri X, Basel 1577, tomo II, p. 128. 81 vasari, Le vite cit., V, p. 456. 82 chiorboli, Francesco Berni, Poesie e prose cit. Cfr. e. bonora, Francesco Berni e la poesia bernesca, in Storia della letteratura italiana, vol. VI: Il Cinquecento, Milano 1966, cap. x, p. 290. Berni in seguito avrebbe dato un giudizio meno volgare ma più duro di Clemente. Questi pamphlets o «pasquinate» sono notevoli per la loro grossolanità xenofoba Pasquinate di Pietro Aretino ed anonime per il conclave e l’elezione di Adriano VI, a cura di V. Rossi, Palermo e Torino 1891, n. XI., p. 55: a proposito del papa «tedesco» sono evocati Alarico e Genserico, i distruttori di Roma. 83 vasari, Le vite cit., V, p. 352. 84 c. dionisotti, Battista Fiera, in «Italia Medioevale e Umanistica», 1, 1958, p. 408. 85 vasari, Le vite cit., IV, p. 600 e V, p. 92. 36 Ibid., IV, p. 579. 87 Cfr. cap. iii. 88 La moda era diffusa. Il Palazzo Della Valle è stato descritto nel 1536 da un visitatore: «A destra, si scendeva verso una sala affiancata da un bagno tra i più eleganti e decorato di pitture molto lascive di giovanette nude alla toeletta, composizione di stile romano più grande e più sontuosa del bagno dei papa a Castel Sant’Angelo». Cfr. holsen e fager, Drei römischen Skizzenbücher cit., p. 56. 89 f. castagnoli, Raffaello e le antichità di Roma, in Raffaello, l’opera le fonti, la fortuna, Novara 1968, vol. II, cap. vi; r. lanciani, La pianta di Roma antica e i disegni archeologici di Raffaello, in «Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei», V serie, vol. 3 (1894), pp. 797 sgg.
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 r. weiss, Andrea Fulvio antiquario romano, in «Annali Scuola Normale Superiore di Pisa», 18 (1969), pp. 1-2. * [«Tu restituirai nel suo corpo Roma fatta a brandelli»]. 91 Su Marco Fabio Calvo, cfr. lanciani, La pianta di Roma antica cit., p. 240; a. jammes, Un chef-d’oeuvre méconnu d’Arrighi Vicentino, in Studia bibliografica in honorem de la Fontaine Verwey, Amsterdam [19651, pp. 297-316; p. n. pagliara, La Roma antica di Fabio Calvo. Note sulla cultura antiquaria e architettonica, in «Psicon», 8-9 (1976), pp. 65-87. 92 valeriano, De litteratorum infelicitate cit., p. 81. 90
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Capitolo quinto Lo stile clementino
Il cardinale Giulio de’ Medici si era scelto un emblema personale al tempo di Adriano VI. Nel momento in cui certi nemici minacciavano la sua vita, egli ci tenne a mostrare che «la purezza della sua anima non poteva essere colpita ne dalla malevolenza né dalla violenza», secondo quanto ci dice Paolo Giovio1. Al di sopra del motto candor illesus (candore intatto), erano collocati dei simboli che ne illustravano l’«impresa» per così dire «scientifica»: un sole ardente, un fascio di raggi che sfiorano una sfera di cristallo, e un albero i cui rami si incendiano. Giovio precisa che esso fu escogitato dal tesoriere del cardinale, un fiorentino di nome Domenico Buoninsegni, che aveva il gusto delle speculazioni fantasiose in fisica: «volentieri ghiribizzava sopra i secreti della natura». E Giovio fornisce una spiegazione necessaria, sebbene incompleta, della composizione: «I raggi del sole, attraversando una sfera di cristallo, assumono un’unità e un’intensità così grandi che, per un effetto di propagazione ottica, bruciano tutti gli oggetti tranne ciò che è assolutamente bianco». Questa impresa, come si è visto, era già apparsa nella Stanza di Costantino, e quindi è assai anteriore al Sacco; ma fu facilmente resuscitata per difendere una reputazione compromessa2. Il «broncone», o tizzone ardente, era un emblema di Lorenzo de’ Medici3. L’emblema di Clemente, oltre a
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essere una variante del tema della «palla» medicea, diventava così una versione allargata di una vecchia «impresa». Ma esso invita inoltre a un accostamento tra le congetture del Buoninsegni sui segreti della natura e i raggi luminosi; fa pensare ai diagrammi di Leonardo sulla rifrazione della luce: furono questi all’origine della sua idea?4. La scelta dell’«impresa» da parte del cardinale denota, o meglio, secondo la regola, ostenta una volontà di purezza, di trasparenza morale; era una risposta agli avversari e una sfida alla sorte, una ricerca di giustificazione un po’ eccessiva. Ma era anche associata ad un’altra affermazione, che acquistava il suo pieno significato dopo l’austero pontificato di Adriano VI, vale a dire un programma di cultura elevata, un richiamo alle scienze e alle arti. Difatti, nella Stanza di Costantino, sopra il vano della finestra ad est, due allegorie alate di Pittura e Scultura incidono l’emblema sui loro scudi, la prima con un pennello, la seconda con uno scalpello. Clemente dichiarava con decisione che il rapporto tra papato e creazione artistica non doveva essere nuovamente rimesso in causa. Tutt’altro. Non si dovrebbe parlare del mecenatismo nel Rinascimento senza tener presente un doppio impulso perfettamente esemplificato dal ruolo personale di Clemente VII. Da un lato, i grandi signori del suo tipo avevano sempre invitato, aiutato e favorito molti letterati, artisti, uomini dotti. Il cardinale Giulio seguiva in questo il modo di vita mediceo. Sotto Leone X si era occupato soprattutto di Firenze, mentre suo cugino attendeva a questioni romane. Diventato papa, si verificò un nuovo fenomeno con l’improvviso moltiplicarsi delle iniziative, che gli veniva chiesto di patrocinare. L’appoggio del potere supremo galvanizzò immediatamente le forze intellettuali e artistiche che aspettavano un momento più favorevole, dopo il gelido intermezzo di
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Adriano. In quel mondo impaziente e irruente, parve d’un tratto che tutto diventasse possibile con un secondo papa mediceo di un gusto e una raffinatezza incontestate5. Il 25 novembre 1523, Michelangelo scriveva a un collaboratore: «Avrete appreso che un Medici è stato fatto papa; tutti mi sembrano rallegrarsene. Penso che per l’arte si faranno laggiù molte cose...»6. Nel giardino del Belvedere, ornato di piante di aranci e di grandi statue – che divennero celebri in tutto il mondo –, disposte in nicchie, Clemente recitava al mattino il breviario. La sera, cenava ascoltando l’orchestra da camera diretta da «Gianicomo piffero da Cesena»7. Tutto quanto la cultura umanistica aveva prodotto di più incantevole – di più «pagano» avrebbe detto Erasmo, – gravitava con naturalezza estrema intorno a Clemente. Le cose avvennero molto in fretta. Per le lettere come per l’archeologia, e ben presto per la pittura, una tendenza interessante cominciò a delinearsi fin dal 1525. Non abbiamo l’abitudine di pensare alla Curia romana come responsabile di una riforma linguistica o di uno stile letterario. Ma non vi era altra istituzione al mondo capace di assicurare un simile magistero e i partigiani dell’italiano («lingua toscana») sul latino se ne erano impadroniti. Non è per caso se nel 1525 apparve l’opera fondamentale di Pietro Bembo: la cosa era matura da lungo tempo. Nell’ottobre 1524 Pietro Bembo presenta al papa il manoscritto con dedica delle Prose della volgar lingua, dove la finzione di una conversazione situata nel 1502 consente di mettere in scena Giuliano de’ Medici, cugino del papa. È stato dimostrato che quest’opera fece epoca per la definizione del linguaggio letterario8. Il flusso di pubblicazioni, le concorrenze e le polemiche di quegli anni, sono perfettamente rivelatrici. Pierio Valeriano componeva nel 1524 il Dialogo della volgare lingua, ugualmente orientato verso la giustificazione di un toscano epurato come lingua delle corti d’I-
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talia, che gli eventi impedirono di pubblicare. Altra opera didattica, in cui l’umanista Colocci riferisce una supposta conversazione in casa dello stesso cardinale de’ Medici. Molte questioni culturali sembravano perciò giungere proprio allora a maturazione. C’era un interesse generale per la lingua pura, per il discorso elegante e lo stile. La svolta decisiva fu presa dal Bembo, dal Firenzuola e dal Della Casa, cioè da coloro che domineranno il mondo letterario alla meta del secolo. Si è giustamente ricordato che la traduzione dell’Asino d’oro, lo scabroso romanzo di Apuleio, per opera di Firenzuola, ha dotato la letteratura italiana, verso il 1525-26, di un modello di raffinatezza e di preziosità9. Ma non si dimentichi che la preziosità petrarchesca e la poesia quintessenziata incontrerà, in quella stessa Roma di Clemente, l’ironia incisiva di Berni, che rifiuterà di lasciarsi gabbare e non esiterà a parodiare con insolenza Bembo e le sue aggraziate formule convenzionali. Il Dialogo contra i poeti del 1526 adotta il tono terra terra di una critica che sgonfia le pretese altisonanti10. Se Anfione ha costruito Tebe, dipende dal fatto che era muratore11, dice Sanga, interlocutore del Berni. Gli scrittori romani non avevano aspettato Erasmo per canzonare i letterati. Quest’orientamento dell’ambiente clementino coincide con una specie di «toscanizzazione» dello stile, del gusto, delle maniere stesse di Roma12. Nella banca e nel mondo degli affari, i tedeschi, i lombardi, o altri gruppi soppiantati non lo sopportavano senza impazienza, e neppure la maggior parte dei romani. Clemente non fu mai popolare. Le memorie di Cellini lasciano intendere a meraviglia il modo in cui gli artisti vivevano a Roma: il loro lavoro, le loro ordinazioni e i loro piaceri. L’orafo, con la sua abituale vivacità, ha descritto la vitalità della colonia fiorentina: «Essendo una mattina del nostro San Giovan-
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ni a desinare insieme con molti della nazione nostra, di diverse professioni, pittori, scultori, orefici; infra gli altri notabili uomini ci era uno domandato il Rosso pittore, e Gian Francesco (Penni), discepolo di Raffaello da Urbino, e molti altri»13. Un po’ più avanti, Cellini aggiunge che al gruppo, in prevalenza toscano, si erano recentemente uniti Giulio Romano e Penni. Si tratta quindi di un gruppo omogeneo di amici che formano una scuola. La presenza di Rosso è fondamentale, giacché ci consente di pensare che il proto-manierismo incominciasse a subentrare al raffaellismo romano. La partenza di Giulio, alla fine del 1524, una volta terminata la Stanza di Costantino, avrebbe accelerato l’allontanamento dallo stile romano. Giulio portava con sé a Mantova, dove si sarebbe svolta la sua carriera accanto a Federico Gonzaga, il suo soprannome di «Romano». Ci si ricordava ch’egli aveva decorato per il cardinale Giulio, prima del 1520, le grandi volte della villa di Monte Mario. Di fatto, egli avrebbe «romanizzato» l’arte di Mantova, mentre a Roma l’eredità di Raffaello avrebbe, in un certo senso, perso terreno e sarebbe cambiata di mano. Durante il 1523, Perino del Vaga lasciò Roma per Firenze. Secondo Vasari, a causa della peste. Si può anche pensare che la scoraggiante situazione degli artisti sotto Adriano VI abbia contribuito alla sua partenza. A Firenze, gli capitò qualcosa di strano: Avvenne che trovandosi un giorno seco per fargli onore molti artefici, pittori, scultori, orefici ed intagliatori di marmi e di legnami, che secondo il costume antico si erano ragunati insieme, chi per vedere ed accompagnare Perino, ed udire quel che ei diceva, e molti per vedere che differenza fusse fra gli artefici di Roma e quelli di Fiorenza nella pratica, ed i più v’erano per udire i biasimi e le lode che sogliono spesso dire gli artefici l’un dell’altro...
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Una discussione ebbe luogo davanti agli affreschi di Masaccio in Santa Maria del Carmine, insuperabili a detta dei fiorentini. Perino ne condivideva l’ammirazione, ma pensava che vi fossero nei moderni cose altrettanto belle, se non di più. Gli proposero di darne una dimostrazione perché, precisa Vasari, «avevano caro veder questa maniera di Roma». Perino schizza un Sant’Andrea che, se fosse stato dipinto, avrebbe potuto reggere il confronto con il San Pietro di Masolino e il San Paolo di Masaccio14. L’interessante è qui il fatto che ci si aspettava, dal giovane artista, delle informazioni su ciò che andava succedendo a Roma. L’andare e venire degli artisti aveva creato, fra le due «scuole», uno spirito competitivo e allo stesso tempo, un vincolo di solidarietà, che sarà fondamentale in seguito. Gli artisti fiorentini sentivano che dopo la morte di Raffaello stava succedendo qualcosa d’importante a Roma: in un primo tempo, fu probabilmente la nuova maniera di Giulio Romano che fece parlare di sé. Perino, collaboratore di Raffaello alle Logge, incaricato della «Stanza dei Pontefici», godeva della stima di Giulio e di Penni. Era quindi in ottima posizione per mostrare ai fiorentini la robustezza e la forza dello stile romano. Viceversa, quei pochi mesi del 1523 trascorsi a Firenze in un clima di interesse e di simpatia piuttosto eccezionale, gli avevano assicurato un contatto fruttuoso con i rappresentanti più attivi della maniera toscana, e innanzi tutto con il Rosso. Questo risulta da un’ipotesi ingegnosa, secondo la quale, confrontando il cartone preparatorio della pala per Santa Maria sopra Minerva, eseguito da Perino prima della partenza, con quel che si può ricostituire del quadro finalmente eseguito dopo il ritorno a Roma, si scorgono nettamente delle affinità con il Rosso. Disgraziatamente non è più possibile esaminare quest’opera; essa fu danneggiata
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durante l’inondazione dell’autunno 1530, tagliata e dispersa15. Il Rosso doveva essere arrivato a Firenze poco dopo Perino, più giovane di lui di sei anni. Secondo Vasari, lo si aspettava con molto interesse, perché la qualità eccezionale dei suoi disegni era già conosciuta. Questa indicazione, per quanto sia difficile controllarla, merita di essere presa in considerazione. Incominciavano a stabilirsi legami privilegiati tra Firenze e Roma, preparando la «toscanizzazione» che sarebbe stata uno dei fatti dominanti dei due anni precedenti il sacco. Al pari di Leone X, Clemente non aveva creduto necessario attirare Michelangelo a Roma. Aveva, qualche tempo prima, negoziato con lo scultore i progetti per la facciata di San Lorenzo (1518), poi della Cappella Medici (1520). Progetti più o meno importanti gli furono sottoposti: la Biblioteca Laurenziana (gennaio 1524), il Colosso davanti al Palazzo (ottobre) e il ciborio di San Lorenzo16. Ma soprattutto contavano le tombe dei Medici. Forse la presenza stessa di Michelangelo a Firenze può essere stata sufficiente per influenzare la situazione. Quindici o vent’anni prima, l’attrazione di Roma tendeva a vuotare la Toscana. Questa aveva adesso una linea più decisa, lasciando all’ambiente romano, dominato da Raffaello e da Giulio Romano, la cura di mantenere un certo «classicismo»17. Dal 1520, gli allievi di Andrea del Sarto avevano preso un orientamento sempre più immaginoso e stilizzato. Era stato il Pontormo a compiere il passo decisivo, e il suo stile elegante, chiaro e infinitamente sottile, si accordava con gli interessi di Michelangelo. Il termine di proto-manierismo è quello che meglio lo descrive. Pertanto una polarità degna d’attenzione cominciava a delinearsi fra i due centri.
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Il cambio della guardia. Il segretario del papa, Paolo Valdambrini, di passaggio ad Arezzo, condusse con sé a Roma un giovane artista di nome Giovanni Antonio Lappoli. E questi, per citare Vasari: «andato dunque con esso m. Paolo a Roma, vi trovò Perino [del Vaga], il Rosso, ed altri amici suoi, ed oltre ciò gli venne fatto per mezzo di m. Paolo di conoscere Giulio Romano, Bastiano Viniziano, e Francesco Mazzuoli da Parma, che in quei giorni capitò a Roma»18. Uno storico può difficilmente immaginarsi un’indicazione più preziosa, tanto più ch’essa si completa con un’informazione non meno importante sulla venuta del Parmigianino a Roma a metà del 1524: «Il Datario [Giberti] veduti i quadri e stimatigli quello che erano, furono subito il giovane ed il zio introdotti a Papa Clemente, il quale vedute le opere, e Francesco così giovane, resto stupefatto, e con esso tutta la corte»19. Il giovane Parmigianino, nella freschezza dei suoi ventun anni, fu, insomma, scoperto dal papa, per l’apprezzamento favorevole di Giberti. Si formava così, sul finire del 1524, un nuovo gruppo20, favorito dai collaboratori più intimi di Clemente. E non è forse eccessivo parlare di una specie di cenacolo artistico: Paolo Valdambrini si adoperava ad attirare a Roma persone di merito, e le metteva in contatto le une con le altre. Il giovane artista aretino Giovanni Antonio Lappoli pare che abbia anche assicurato un legame fra gli artisti. Attorniato da intellettuali ed egli stesso musicista e pittore, era, se comprendiamo bene Vasari, non tanto un artista notevole quanto una figura sociale importante21. In ogni caso è chiaro che le nuove stelle, Rosso, Parmigianino e i loro amici, avevano gli stessi ammiratori e gli stessi mecenati. Per quanto difficile sia seguire l’evoluzione individuale di quegli artisti ombrosi e sensibili,
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non si possono trascurare le loro numerose esperienze comuni durante quella breve felice stagione. Erano reciprocamente in contatto, le loro ambizioni seguivano linee parallele. Nella Roma clementina si formò questa specie di «clima» comune, che facilita come una serra il dischiudersi dei fiori rari. Valdambrini, che sembra essere stato così attivo, fu una delle vittime del maggio 1527. Se proponiamo qui la nozione di uno stile «clementino» è per rendere conto di un certo numero di tratti comuni che si possono osservare intorno al 1525, e di un particolare orientamento che cercava di tenere lontani gli artisti dell’epoca da una troppo stretta adesione ai «modi raffaelleschi» e da una sottomissione troppo forte alla «maniera michelangiolesca». Sebastiano, richiamato a Roma dal papa nel 1523 quando aveva trentotto anni22, rappresentava il decano. Doveva il suo prestigio alla forza dei suoi ritratti: dopo la morte di Raffaello, non aveva rivali in questo campo. Vasari ha lasciato una descrizione entusiasta delle raffinatezze con le quali raffigurò l’Aretino nel 1524: pittura stupendissima per vedervisi la differenza di cinque o sei sorte di neri che egli ha addosso, velluto, raso, ermesino, damasco e panno, ed una barba nerissima sopra quegli neri, sfilata tanto bene che più non può essere il vivo e naturale. Ha in mano questo ritratto un ramo di lauro ed una carta, dentrovi scritto il nome di Clemente VII e due maschere innanzi, una bella per la Virtù e l’altra brutta per il Vizio23.
Essendo pessimo lo stato attuale di conservazione del dipinto, è naturalmente impossibile rendere giustizia al brio dell’esecuzione: solamente paragonandolo con il ritratto del Castiglione, dipinto dieci anni prima da Raffaello, se ne possono apprezzare le qualità pitto-
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riche: il nero sul nero che rivaleggia con il grigio sul grigio dell’opera più antica, la barba di colore nero lucente rispetto all’altra, rada e bionda, lo sguardo sensibile del teologo e l’occhio sfrontato del libellista che s’imponeva a Clemente tanto da provocarne il patronato e che ostentava la duplice capacita di satirico e di adulatore. Su tutti i piani, il ritratto eseguito da Sebastiano mostra un grado di sofisticazione più alto. Nella Flagellazione di San Pietro in Montorio (1525), nella Sacra Famiglia di Burgos (1526-27), la maniera superaffinata di Sebastiano si appesantisce. Ma se teniamo conto degli antecedenti dei suoi toni cupi, delle esigenze monumentali del suo disegno, quello stile appare allora trattenuto fino all’artificio: nobile, ma un po’ vuoto, già, come si è detto, classicheggiante24, predisposto dalla volontà piú che dalla convinzione. Donde le grandi riuscite nel ritratto di quello stile interamente controllato, quando dipinge la distinzione aristocratica di Clemente o l’autorevolezza dell’ammiraglio Doria. Nel gruppo di pittori che diventava così solidale intorno al 1525, Rosso Fiorentino (nato nel 1495) era il più vecchio, Francesco Mazzola, con i suoi ventidue anni, il più giovane; gli altri due, Perino e Polidoro, erano sui venticinque anni. Circostanze di ogni specie sembravano riunite per ripetere, su un modulo più raffinato, più «esteta», quello spirito di rivalità che aveva stimolato così fortemente a Roma, vent’anni prima, l’arte e la cultura. Quegli artisti non erano modesti artigiani, ma personalità brillanti e colte. Rosso era «dotato di bellissima presenza: il modo del parlar suo era molto grazioso e grave, era bonissimo musico ed aveva ottimi termini di filosofia». Quanto a Francesco Mazzola, era la seduzione stessa con la sua bella fisionomia, e per citare ancora Vasari, «...aveva il volto e l’aspetto grazioso molto e piuttosto d’angelo che d’uomo...»; rampollo di una famiglia di elevato grado sociale, fu allevato dagli
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zii che gli procurarono, venuto il momento, facile accesso presso Clemente. Il famoso autoritratto a forma di specchio convesso deve essere stato dipinto durante quegli anni25. Esso restituisce alla perfezione il fascino, l’intelligenza e l’audacia della giovane generazione che, in quegli anni, era incoraggiata a esprimere la propria originalità. Nessuno fra quelli era propriamente romano, ma l’entusiasmo per le cose antiche, per la Città Eterna, era diventato per loro una specie di religione artistica ed erano tutti estremamente sensibili alle nuove tendenze culturali. Perino del Vaga, tornato da Firenze, si metteva al lavoro nella Cappella Pucci di Trinità dei Monti. La data di ogni affresco non può essere fissata che approssimativamente: la Visitazione, così vicina alla scena corrispondente dell’Annunziata a Firenze, sembra collocarsi subito dopo il 152326. Interessante è il bisogno di introdurre la fluidità e il movimento libero dello stile toscano in una composizione dominata da una piattaforma lastricata, ritmata di gradini – un’idea raffaellesca. I due profeti all’arco d’ingresso, rievocati a causa della dedica mariana della cappella, hanno un valore di citazione allargata: al di là degli evidenti riferimenti a Raffaello e a Michelangelo, si osserva un’improvvisa analogia con le lunghe figure dinoccolate del Parmigianino. Gli affreschi di San Marcello al Corso, incominciati nel 1525 e interrotti dal sacco, furono ripresi dodici anni più tardi27, dopo il soggiorno di Perino a Genova, con tutt’altro spirito. «Mentre Roma tutta sorridente si abbelliva delle loro opere...», ha scritto Vasari, parafrasando Dante, a proposito della nuova decorazione delle facciate28. Essa era diventata alla moda con i tentativi del Peruzzi, quindici anni prima, ma trovava adesso la sua piena maturità con i lavori «all’antica» di Polidoro da Caravaggio29. È stato detto molto bene
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da Freedberg: «la ricreazione per immagini della storia romana, dispiegata in vasti fregi panoramici attraverso le facciate di una dozzina di palazzi romani decorati fra il 1524 e il 1527, deve essere annoverata fra i più grandi splendori di cui si è arricchita la Città nel breve ma fecondo spazio del regno di Clemente prima del sacco»30. L’arte di decorare pannelli, plinti, zoccoli veniva in tal modo destinata a impieghi nuovi. Queste composizioni han finito di scomparire soltanto nel secolo scorso. Forse concepite per perpetuare le decorazioni effimere delle entrate trionfali, offrono una indubbia analogia con gli «apparati», i monocromi collocati sugli archi di trionfo provvisori o le finte facciate. In passato era stata sufficiente una specie di formula artigianale, ma Polidoro, evidentemente, vi vedeva maggiori possibilità. Le elaborò in veri e propri manifesti a favore di Roma, quel che Lomazzo chiamerà felicemente la «maniera marziale»31. Polidoro si era a poco a poco svincolato dall’idea di Raffaello di uno stile puro. Il suo interesse per l’arte del Nord si manifestò verso il 1525 in certi disegni di paesaggio di una densità e di una forza del tutto nuove nell’esplorare il fogliame, lo spazio rurale, gli sfondi. Ma staccandosi così dal modello classico, Polidoro si preparava a dare una nuova prova delle sue ambizioni artistiche: la grande innovazione di quegli anni – la creazione straordinaria che la rottura del 1527 fece dimenticare per più di mezzo secolo – furono i paesaggi «all’antica» della cappelletta di Fra Mariano in San Silvestro al Quirinale32. Lavorando con Maturino, Polidoro dispose la raffigurazione di due sante, la Maddalena e Caterina da Siena, in paesaggi completi e avvolgenti, di cui non si aveva ancora nessun esempio. Si tratta di una stupefacente ricreazione della pittura antica, con citazioni esplicite di templa, di loci, ripresi dai modelli che da allora in poi si sarebbero potuti studiare nelle
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cosiddette «grotte»33. Ci pare che ciò rappresenti un risultato «clementino», che per ragioni evidenti non ebbe un immediato futuro.
L’incisione. Raggruppando tutte le possibili informazioni e facendo un inventario delle opere realizzate o in corso durante il 1526 e i primi mesi del 1527, si ha a poco a poco l’impressione che un organismo in piena forza sia stato bruscamente spezzato. Un inventario più completo di cui non si può ancora disporre e confronti metodici consentirebbero indubbiamente di formarsi un’idea più precisa dell’originalità di quel gruppo di artisti. I miti antichi, l’arte antica, vi intervenivano come fattori poetici costanti. Ma non ci si sentiva più legati a un repertorio troppo pesantemente archeologico, come quello di Giulio Romano. Si tendeva a selezionare il repertorio, a sottili elaborazioni dell’eredità dei maestri, a sfumature rare e voluttuose. Questo orientamento generale diventa immediatamente evidente all’esame delle incisioni. Quasi tutti gli artisti dell’epoca erano in relazione con incisori, e l’affermarsi della scuola d’incisione romana34 rappresenta un punto essenziale di quegli anni. Raffaello aveva già accolto Marcantonio nella propria bottega e formato Baviera, l’uno per incidere, l’altro per tirare le stampe, e niente altro era stato di tanto aiuto per la diffusione del suo stile. Questo metodo di «pubblicizzare» l’arte attraverso le stampe ha cambiato il corso della storia artistica e, per di più, ha rafforzato il concetto che avevano gli artisti di Roma di trovarsi al centro della vita artistica. Marcantonio lavorò anche con Giulio Romano, non sempre, come si sa, a opere molto raccomandabili. Lo scandalo dei «modi disonesti»35 scoppiò dopo la parten-
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za di Giulio da Roma, ma procuro gravi noie a Marcantonio che fu imprigionato36 su richiesta di Giberti, e all’Aretino la cui lite con il Datario si concluse con la partenza per Venezia nel 1525. Quest’incidente rimane rivelatore dell’accelerazione nel libertinaggio avvenuta durante quegli anni di «dolce vita» di cui Cellini, come più tardi l’Aretino, parleranno con la nostalgia dei gaudenti. L’episodio dimostra anche lo sviluppo della stampa, la sua capacità di trovare vie nuove. È possibile che l’erotismo infinitamente più elegante degli Amori degli dei sia stata una risposta alla pornografia un po’ pesante di Giulio Romano. Il grande progresso della incisione durante quei due o tre anni è dovuto in gran parte allo stesso Clemente. Data la sua indole di gran signore illuminato, curioso e sensibile, non fa meraviglia constatare ch’egli godesse la fama di esperto d’arte. Non si ha nessuna ragione di dubitare dell’autenticità dell’aneddoto riferito al riguardo da Vasari: Marcantonio, uscito di prigione, finì d’intagliare per esso Baccio Bandinelli una carta grande, che già aveva cominciata, tutta piena d’ignudi che arrostivano sulla graticola san Lorenzo; la quale fu tenuta veramente bella ed è stata intagliata con incredibile diligenza, ancorché il Bandinello, dolendosi col papa a torto di Marcantonio, dicesse, mentre Marcantonio l’intagliava, che gli faceva molti errori; ma ne riportò il Bandinello di questa così fatta gratitudine quel merito, di che la sua poca cortesia era degna: perciocché avendo finito Marcantonio la carta, prima che Baccio lo sapesse, andò, essendo del tutto avvisato, al papa che infinitamente si dilettava delle cose del disegno, e gli mostrò l’originale stato disegnato dal Bandinello, e poi la carta stampata; onde il papa conobbe che Marcantonio con molto giudizio avea non solo non fatto errori, ma correttone molti fatti dal Bandinello e di non piccola importanza, e che
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più avea saputo ed operato egli con l’intaglio che Baccio col disegno; e così il papa lo commendò molto, e lo vide poi sempre volentieri37.
La stampa è nota38. Corrisponde piuttosto alla formula robusta ereditata da Giulio Romano, che alla maniera elegante del gruppo del 1525. Questa maniera si espresse a meraviglia in due serie di incisioni che rendono perfettamente intelligibile l’orientamento di quei giovani artisti, in quanto la stampa sprigiona sempre l’essenza degli stili. Gian Jacopo Caraglio di Verona lavorava soprattutto con Rosso39; questi forniva i disegni che Baviera tirava dalle incisioni di Caraglio. Dall’unione del loro lavoro uscì un registro voluttuoso e graziosamente frivolo, la serie degli Dei della Mitologia e quella degli Amori degli dei che fu, se seguiamo Vasari, interrotta nel mese di maggio, poi completata sotto l’occupazione da Perino del Vaga, su richiesta di Baviera, che ne aveva i diritti di vendita. Si tratta di una delle più raffinate raccolte di incisioni mai eseguite: nicchie decorative incorniciano le figure che tutte prendono la forma «serpentinata», il «contrapposto» o la veduta di schiena, con una scioltezza e una freschezza di tono, una movenza voluttuosa, per cui questo lavoro si distingue fra tutti. Ancora più libera e più immaginosa, la serie degli Amori sviluppa abilmente allacciamenti reciproci in cui la complicazione manierista si presta mirabilmente a mettere in evidenza il gioco erotico40. Il ruolo di questo Baverio de’ Carocci detto Baviera, secondo tutte le indicazioni di cui disponiamo, è stato dunque considerevole per lo sviluppo dell’incisione. Non soltanto si era imposto nell’ambiente di Raffaello con le sue iniziative editoriali, ma aveva afferrato così bene le novità dello stile degli anni 1520 che ne sfruttò arditamente le risorse nel registro profano allora di moda. Se ha potuto, come tutto sembra lasciarlo credere, conti-
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nuare la sua produzione dopo il maggio 1527, questo avvenne perché ha utilizzato le sue lastre di rame per una clientela di militari. Disgraziatamente, la primavera del 1527 pose termine a quel periodo notevole. Caraglio continuò a lavorare, a viaggiare, ma lontano da Roma. Marcantonio perdette tutto: «i suoi rami, già consumati per essere stati adoperati troppo, furono rubati dai soldati tedeschi e da altri durante il sacco di Roma»41; tornato a Bologna, non se ne ebbero più notizie, e così neppure del suo collega. Quanto all’ultimo incisore che ha contato in questo periodo, il vecchio Ugo da Carpi, questi aveva seguito la sorte del Parmigianino42 con il quale era venuto a Roma, e con cui, non appena poté, se ne filò a Bologna; ma anch’egli, come il Parmigianino, non riuscì a continuare a lungo la sua attività. Specialista in Italia del «chiaroscuro», la stampa a due toni, si adoperò a divulgare le composizioni religiose dell’amico, rendendo con estrema fedeltà la flessibilità e anche, se così si può dire, la fluidità delle forme. Questo convergere di talenti, d’iniziative e di mezzi è piuttosto sorprendente e dà significato all’esistenza di questi gruppi, di queste «compagnie» del 1525. Dopo tutto quanto abbiamo ricordato, compresi gli esempi libertini, potremmo essere tentati di considerare Roma – non dal punto di vista della Curia, ma da quello degli artisti – come un centro vivace ma poco edificante, e di concordare con il rimprovero di «paganesimo» a rischio di estendere a tutto quanto lo stile clementino l’accusa che Erasmo rivolgeva ai ciceroniani: un compiacimento per le forme vuote, una sensualità priva di contenuto. Che ne è dunque della pittura religiosa nella Roma del 1525? Come rendere conto dei due capolavori alquanto sconcertanti che ne esprimono le caratteristiche essenziali: il Cristo morto del Rosso, e la Visione di san Gerolamo del Parmigianino?
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Il «Cristo morto» del Rosso. Il Cristo morto era stato dipinto per il vescovo Tornabuoni di Arezzo, un protetto di Clemente, che, anche lui, conobbe le traversie del sacco. Ignoriamo per chi fu dipinta, o per quale chiesa, la seconda opera in causa – la Madonna con san Giovanni e san Gerolamo del Parmigianino, oggi alla National Gallery di Londra. Entrambe le opere sono ugualmente utili per illustrare «il manierismo di Rosso e degli altri giovani artisti di quel gruppo brillante riunito a Roma, in quei pochi anni edonistici che hanno preceduto il Sacco», per riprendere le parole di John Shearman43. È stato spesso attribuito un ruolo di primo piano, per lo meno in passato, alla personalità di Rosso44. Lo Sposalizio della Vergine in San Lorenzo a Firenze (1525) possiede una grazia, una distinzione che provengono da Michelangelo. Rosso era stato, con Pontormo, l’iniziatore a Firenze della scuola della composizione «verticale», di cui non bisogna minimizzare le conseguenze. Una delle prime incisioni in cui appare questa sovrapposizione di figure e lo Sposalizio della Vergine di Caraglio; deriva dal pannello di Rosso, ma ha subito molteplici trasformazioni. Il registro superiore è al tempo stesso rialzato e allontanato; due figure intermedie sono state aggiunte al centro; alcune colonne accentuano l’effetto ascensionale. Il disegno del Parmigianino, che è stato messo in relazione con questo pannello e questa stampa, rivela come il giovane maestro abbia corretto Rosso, con o senza il suo consenso45. Fatto importantissimo, dimostra come i due artisti lavorassero fianco a fianco, in una specie di rivalità continua. La venuta a Roma provocò in Rosso uno smarrimento in cui Vasari credette di vedere una legge storica: il Toscano a Roma è turbato e la sua arte diventa confusa46. La Cappella Cesi di Santa Maria della Pace ne è
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forse la dimostrazione: la Creazione di Eva comporta torsioni fittizie che nella Caduta non appaiono più47. Gli incontri favoriti dalla nuova corte papale, le conversazioni che dobbiamo immaginare in casa di Valdambrini, dove Rosso brillava per la sua cultura e la sua distinzione, gli devono essere stati congeniali, poiché il suo gusto della raffinatezza complessa si accordava perfettamente con l’orientamento dell’ambiente romano48. Il Cristo morto, che bisogna datare dal 1525-26, rappresenta certamente il culmine di quella evoluzione; non si può affatto renderne conto senza evocare gli scambi fra i quattro o cinque artisti favoriti di Clemente. Se ci sforziamo di ricostituire il dosaggio delicato degli influssi e delle affinità, che l’esistenza stessa di questo gruppo invita a immaginare, entriamo nell’intimo di quel che bisogna pur chiamare il «manierismo clementino»49. Lo stile lineare e dinoccolato del Rosso cede qui a una fluidità plastica, a un finito sottile, in cui si tradisce l’attaccamento a Michelangelo, quello dei prodigiosi ignudi della Cappella Sistina e del Cristo nudo di Santa Maria sopra Minerva, portato da poco a Roma. Il tema, che procede da un quadro di Andrea del Sarto da noi conosciuto soltanto attraverso un’incisione, contiene un duplice messaggio: da un lato la morte e resurrezione, ossia il mistero stesso del Cristo della Passione, e dall’altro l’analogia del corpo del Cristo con l’Eucaristia, chiamata appunto Corpus Domini. La tendenza comune a queste Pietà è la rappresentazione mistica del mistero eucaristico e non soltanto l’immagine della Passione50. La ineffabile dolcezza del volto, che sembra sorridere nella morte, giustifica l’attenzione degli angeli portafiaccole. Sydney Freedberg, a commento di questo quadro scrisse: «Vi è qui una dimostrazione del miracolo eucaristico della presenza reale del Cristo. Ma la presenza qui rivelata ai sensi è descritta con una sensualità che contraddice un valore più
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essenzialmente cristiano del dogma stesso, e la sensualità si confonde con un estetismo che sembra più importante del significato religioso del quadro»51. Aggiungeremo soltanto che questa stessa soavità si accorda con la convinzione che un accesso al divino esiste anche grazie all’impatto della bellezza pura, bellezza dolce e spirituale come quella degli ignudi della Cappella Sistina; questa è, secondo noi, la loro vera ragion d’essere52. Lo stesso avviene per la grazia imprestata all’apparenza terrena del Cristo nel quadro del Rosso. Il periodo clementino non è durato abbastanza a lungo perché si possa discernere un’evoluzione significativa nell’iconografia religiosa. Ma la tendenza che si abbozzava sembra emergere con sufficiente vivezza in quest’opera eccezionale. Il Cristo morto, o meglio Cristo con angeli, a ragione è apparso a storici recenti come un capolavoro di anticonformismo, ma anche come l’espressione suprema dello stile «clementino», sia perché rispecchia un certo tipo di spiritualità – la mistica dell’amor divino, che aveva la simpatia e gli incoraggiamenti del datario Giberti –, sia perché rappresenta il culmine di una lunga elaborazione formale.
La «Madonna» del Parmigianino. Fra i lavori del Parmigianino a Roma, il Matrimonio mistico di santa Caterina è quello più squisitamente elaborato. Tutti i principî di composizione sono stati abilmente modificati in modo da produrre un effetto di distorsione sorprendente: la Madonna è vista di schiena con un profilo sfumato nell’ombra perché per contrasto spicchi la faccia della santa, dolce, piena, e l’elegante acconciatura; la mano si dispiega al centro della composizione, come un oggetto fluttuante in uno spazio indefinibile, nel quale si apre una porta che incornicia
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due visitatori, due testimoni. I colori scivolano sulle forme dalle molteplici curvature; lo sfondo serve a separare l’oculus al di sopra, il drappeggio in alto a destra, la ruota al di sotto, e del profeta o santo nell’angolo in basso a sinistra lascia soltanto apparire una testa enigmatica e pensosa. L’eccentricità raggiunge qui un grado sconcertante e meraviglioso, che però la Visione di san Gerolamo supera in sofisticazione e in fascino. È fuori dubbio che questo lungo pannello sia l’opera a cui lavorava il giovane pittore al momento dell’ingresso delle truppe imperiali nella città. «Una nostra Donna in aria che legge ed ha un fanciullo tra le gambe; ed in terra con straordinaria e bella attitudine ginocchioni con un piè fece un san Giovanni, che torcendo il torso accenna Cristo Fanciullo, ed in terra a giacere in iscorto è un san Girolamo in penitenza che dorme»53. Ogni termine di Vasari sottolinea un paradosso della composizione attirando l’attenzione su tratti singolari, come l’aerea sospensione della Madonna (la quale non legge, ma sembra guardare un libro tenuto dal Bambino), la posizione del Bambino, la linea contorta del Battista, il sonno inspiegabile di san Gerolamo. Queste lievi anomalie creano una sorpresa intellettuale che contribuisce in un certo modo all’effetto. Le bizzarrie iconografiche invitano a un esame più attento delle forme. L’opera è stata così sovente e così felicemente commentata che è come avvolta da elaborate definizioni del manierismo. Il virtuosismo del pittore si prende ostensibilmente gioco delle difficoltà attraverso le perfette combinazioni proposte e soprattutto attraverso la sua abilità a sposare i contrari. Non c’è più bisogno di parlare di fonti quando queste sono elaborate così brillantemente: la composizione è, nel complesso, quella della Madonna di Foligno di Raffaello, ma la Vergine ricorda Michelangelo, quantunque la Madonna di Bruges da cui
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procede abbia sostituito la sua «terribilità» con una dignità sognante. Il Bambino ricciuto solleva il braccio destro e la gamba sinistra in un movimento ironico e scherzoso che può sembrare strano. Il Battista, piegato obliquamente, il braccio smisurato puntato all’indietro, forma una base di sostegno. Si tratta del gesto e della funzione tradizionale del Battista: non manca la croce di giunco, e tuttavia il movimento si dispiega in uno spazio dove nulla gli risponde; la sua vivace animazione è come sottolineata dall’inerzia del santo disteso, forse una sapiente allusione, pare, a qualche episodio che ci sfugge piuttosto che puro capriccio dell’artista. Tutti questi particolari hanno dei precedenti nelle opere di Correggio: la Madonna con san Sebastiano dipinta per Modena nel 1524 o 1525 presenta già una forte assialità sottolineata dalla figura cardine di san Gimignano, sotto alla Madonna54. L’effetto di verticalità, soluzione già sperimentata dal Rosso, è spinto all’estremo; la divisione dei due registri, celeste e terrestre, è ancora accentuata dal cerchio che racchiude l’apparizione celeste. I disegni preliminari mostrano quanto la composizione sia stata studiata, motivo per motivo, prima di raggiungere quel movimento ritmico, teso e insieme aggraziato, che la unifica55. L’artificio stesso della composizione trova forse una giustificazione supplementare nel fatto che la visione soprannaturale appare più reale della figura del dormiente che la sogna, e anche del nunzio che la indica senza guardarla. Mai si era dimostrato più chiaramente che una pala d’altare è uno spazio per la fantasia; mai i simboli sono stati elaborati con maggiore sottigliezza. Se raduniamo le informazioni sparse sugli artisti attirati a Roma sotto il pontificato di Clemente e tracciamo un elenco delle opere realizzate in quel breve periodo, tenendo presente la diversità dei generi e l’ingegnosità dei modi di trattarli, non è più possibile, cre-
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diamo, non attribuire a quel momento una certa portata. Fra l’ultima maniera di Raffaello e il ritorno di Michelangelo a Roma, il vuoto fu colmato da uno sviluppo più sofisticato di quanto si fosse mai visto prima nell’uno o nell’altro, uno sviluppo che ha consentito a giovani artisti dall’acuta sensibilità di sfruttare grandi temi. Se è davvero stato così, allora il sacco, di cui ci rimane ancora da descrivere l’impatto, fu un accidente storico che colpì l’arte in profondità tanto quanto condizionò la vita politica dell’Italia, e anche di più in ragione di quanto ha definitivamente interrotto e capovolto.
Le sciagure. Nel suo studio sulla peste del Trecento, Millard Meiss ha dimostrato che un’epidemia catastrofica come quella del 1348 ha necessariamente due e anche tre conseguenze interessanti per le arti56. Prima di tutto ci ricorda che gli artisti sono uomini mortali come gli altri e sottoposti alle vicissitudini comuni. Periscono o sono cacciati, e questa dispersione può cambiare tutto: la morte di Pietro Lorenzetti ha modificato la storia della pittura. Queste sciagure collettive indeboliscono e talvolta distruggono lo spirito di innovazione. Non c’è più lavoro, o, se ce n’è ancora, tende a obbedire a norme nuove che saranno, ad esempio, il ritorno a modelli giudicati più devoti, nella misura in cui lo spirito di penitenza domina la comunità. A questo seguì un graduale oblio, poi la ripresa dell’attività, con ogni sorta di movimenti riequilibratori. A noi interessa scoprire in quale misura il disastro del maggio 1527 abbia potuto avere un effetto analogo. Le pagine truculente di Cellini ci rendono a meraviglia l’impressione di seguire dall’interno della fortezza l’assedio e il saccheggio57. Dall’alto delle mura inespu-
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gnabili, si vedono gli avversari, si odono gli spari e si aspettano, tra l’andirivieni, dei negoziatori. Della colonia di artisti, gli orafi soltanto, adatti a servire ai pezzi d’artiglieria, trovarono posto dentro Castel Sant’Angelo. Insieme a Cellini, vi fu Raffaello da Montelupo, anch’egli scultore e orafo, venuto a Roma su invito di Lorenzetto nel 1524. Aveva trascorso tre anni in lavori minuti prima di ritrovarsi in Castel Sant’Angelo con due pezzi di artiglieria, ad aspettare l’esercito della lega che doveva venire in soccorso del papa. Più tardi egli stese dei ricordi di cui abbiamo il manoscritto autografo. Vi riferisce con semplicità che un amico lo esortò a fuggire quando si seppe dell’arrivo dei lanzichenecchi, che fu arruolato per puro caso a sei scudi al giorno, che vide giungere il papa correndo per i corridoi mentre si stava alzando il ponte levatoio. Tale era la mischia nei pressi del castello che era impossibile sparare: pertanto «eravamo lì a guardare come a una festa»58. Gli altri artisti, pittori e incisori, rimasero nella città, dove furono colti di sorpresa dall’arrivo dell’esercito imperiale. Le loro disavventure, talvolta spaventevoli, sono state riferite con qualche particolare da Vasari, che raccolse a Roma, verso il 1540, tutti i possibili racconti sul sacco. Poté parlarne, tra gli altri, con Peruzzi, con il Rosso, con Perino. La sua opera, apparsa nel 1550, è piena di aneddoti che basta raggruppare per ricostruire le amare vicissitudini di sedici artisti di primo piano. Un capitolo da romanzo giallo. Vi furono dei morti, come l’incisore Marco Dente59. Dei due famosi decoratori di facciate, Maturino e Polidoro, il primo volle fuggire, ma fu ripreso e morì, dicono, di peste; il secondo riuscì a svignarsela verso Napoli. Altri furono arrestati, malmenati, fatti lavorare come facchini, come schiavi, sottomessi inoltre all’obbligo di pagare una taglia alle truppe imperiali. Rovinato, umiliato e senza scampo, il Rosso dovette, scalzo, trasportare pesanti
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fardelli e traslocò la bottega di un salumiere60. Talvolta fu riservata loro una sorte particolare: Peruzzi, con i suoi quarantasei anni, e un nobile portamento, fu scambiato per un prelato grazie alla sua aria dignitosa, il che gli valse mille fastidi; infine, gli fu ordinato di dipingere un ritratto di Borbone61. Perino del Vaga aveva moglie e figli; credette di lasciarci la vita con tutti i suoi beni, ma invece fu costretto a dipingere guazzi e altre opere secondo il gusto degli spagnoli62. Il caso del giovane e bel Parmigianino è eccezionale. Quasi per miracolo rimase a Roma senza essere infastidito, se seguiamo Vasari come sembra ragionevole fare. Per tutti gli altri, in quel momento, l’unico problema era infatti quello di fuggire da Roma a qualsiasi costo, anche straccioni; alla prima occasione, probabilmente durante l’estate quando l’epidemia disperse i vincitori nei dintorni, Peruzzi raggiunse Siena, Rosso Borgo San Sepolcro donde si recò a Venezia poi in Francia; Giovanni Lappoli arrivò, tremante di paura, ad Arezzo; Marcantonio, «ridotto in miseria, avendo perduto tutto e per di più costretto a pagare una forte tassa, lasciò Roma e non vi ritornò mai più», racconta Vasari63. Di fatto, non si sa gran cosa dell’attività di Marcantonio dopo il 1527. Iacopo Sansovino ritornò a Venezia, Giovanni da Udine nel suo Friuli nativo. Quando Perino del Vaga, che si trovava in città con l’incisore Baviera, ebbe la possibilità di essere condotto a Genova, evidentemente non esitò. Quanto al Parmigianino, il racconto di Vasari è straordinariamente preciso. È un classico racconto della «leggenda aurea» della storia dell’arte, che deve essere riportato per intero: Ma quest’opera [la Visione di San Gerolamo] non gli lasciò condurre a perfezione la rovina ed il sacco di Roma del 1527; la quale non solo fu cagione che all’arti per un
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tempo si diede bando, ma ancora che la vita a molti artefici fu tolta; e mancò poco che Francesco non la perdesse ancor egli; perciocché in sul principio del sacco era egli si intento a lavorare, che quando i soldati entravano per le case, e già nella sua erano alcuni Tedeschi, egli per rumore che facessero non si moveva dal lavoro: perché sopraggiugnendoli essi, e vedendolo lavorare, restarono in modo stupefatti di quell’opera, che come galantuomini che doveano essere, lo lasciarono seguitare. E così mentre che l’impiissima crudeltà di quelle genti barbare rovinava la povera città, e parimente le profane e sacre cose, senza aver rispetto né a Dio né agli uomini, egli fu da que’ Tedeschi provveduto e grandemente stimato e da ogni ingiuria difeso. Quanto disagio ebbe per allora si fu, che essendo un di loro molto amatore delle cose di pittura, fu forzato a fare un numero infinito di disegni d’acquerello e di penna, i quali furono il pagamento della sua taglia. Ma nel mutarsi poi i soldati, fu Francesco vicino a capitar male; perché andando a cercare d’alcuni amici, fu da altri soldati fatto prigione, e bisognò che pagasse certi pochi scudi che aveva di taglia; onde il zio dolendosi di ciò e, della speranza che quella rovina avea tronca a Francesco di acquistarsi scienza, onore e roba, deliberò, vedendo Roma poco meno che rovinata ed il papa prigione degli Spagnuoli, ricondurlo a Parma...64.
Questo racconto, che nessuno ha mai trovato ragione di mettere in dubbio, si accorda benissimo con quel che sappiamo del comportamento dei contingenti tedeschi e spagnoli che infierirono, gli uni dopo gli altri, sulle stesse vittime. Siamo lieti di apprendere che nell’esercito di occupazione vi furono degli ufficiali amatori d’arte e abbastanza intelligenti per estorcere al giovane pittore disegni a penna e ad acquerello. Due cose, tuttavia, vanno considerate: prima di tutto l’aneddoto dell’artista indifferente agli avvenimenti, che lavora mentre il
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nemico invade la città, è meraviglioso, ma ci ricorda qualcosa di noto. Il modello, se vogliamo, possiamo trovarlo nel libro XXXV di Plinio. Protogene, al momento dell’assedio di Rodi per opera di Demetrio, lavorava in un giardinetto fuori della città, ossia in mezzo al campo nemico; e non s’interrompeva, nonostante l’infuriare della battaglia. Quando Demetrio se ne stupì, Protogene gli rispose che sapeva bene che il re faceva guerra ai Rodii, non all’arte. Da allora, Demetrio andò regolarmente a vederlo lavorare. Non intendiamo dire che il racconto di Vasari sia stato copiato da Plinio, ma che lo storico ha ideato quello svolgimento edificante come una controparte della antica saga delle arti. Tutto, qui, è importante: il distacco del pittore dal mondo e quella incredibile concentrazione che lo salva dalla catastrofe che colpirà gli artisti. Il Parmigianino sembra essere l’unico, di tutti i pittori di Roma, che se la sia cavata così bene. La maggior parte dei sopravvissuti si risollevarono, chi prima chi dopo, ripresero il loro lavoro e ricevettero di nuovo anche commissioni lusinghiere. Ci fu chi, a Venezia, si rallegrò del sacco di Roma perché fece ritornare il Sansovino65. Altrettanto si poteva dire per Genova o per Fontainebleau. É questo il rovescio positivo della catastrofe, ma non si dovrà ciò nonostante trascurare l’impatto degli avvenimenti sulle diverse personalità degli artisti. Vi furono pittori il cui comportamento fortemente alterato colpì i contemporanei; quelli che R. Longhi ha chiamato le vittime «traumatizzate» del sacco66. Vasari, a cui piaceva questo genere di analisi, ha proceduto a un piccolo studio di psicopatologia. A proposito di Vincenzo Tamagni, un toscano di trentacinque anni, decoratore di facciate «all’antica» e molto vicino al Ghirlandaio e a Raffaello, ci riferisce:
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perché egli oltremodo dolente se ne tornò alla sua patria San Gimignano. Là dove, fra i disagi patiti e l’amore venutogli meno delle cose dell’arti, essendo fuor dell’aria che i begl’ingegni alimentando fa loro operare cose rarissime, fece alcune cose, le quali io mi tacerò per non coprire con queste la lode ed il gran nome che s’aveva in Roma onorevolmente acquistato. Basta che si vede espressamente che le violenze deviano forte i pellegrini ingegni da quel primo obietto e li fanno torcere la strada in contrario67.
Anche se stentiamo a indovinare a quali quadri allude lo storico, non abbiamo difficoltà a credere a quell’irrimediabile calo di qualità in seguito al grave choc psicologico. Ciò è confermato dal caso, assai più notevole, di Sebastiano Luciani, alias Sebastiano del Piombo. Clemente, l’abbiamo veduto, gli era legatissimo; non appena innalzato al pontificato, lo chiamò a Roma. Sebastiano fece il ritratto del papa nel 1526, bell’esempio di quello stile romano che precedette il sacco68. Quando a Roma, nel 1531, la vita riprese quasi normale, Clemente richiamò di nuovo Sebastiano e nell’autunno di quell’anno gli fece dare una delle più gradite prebende vaticane, l’ufficio del Piombo. L’artista non aveva ancora cinquant’anni, ma divenne allora, a quanto pare, il cinico più pigro che si fosse mai visto69. (Ciò spiega forse le osservazioni poco lusinghiere di Tiziano, quando visitò la Stanza della Segnatura, citate in precedenza). Vasari racconta tutto questo con molta arguzia, ma allegando come ragione per l’atteggiamento increscioso di Sebastiano la concessione di quella rendita generosa, che gli permetteva di vivere senza fare nulla. Nella fretta di condannare le dannose conseguenze di simili benefici, Vasari ha dimenticato di ricordare la presenza di Sebastiano vicino a Clemente nei giorni opprimenti di maggio70, la fuga nella sua città natia, il ritorno che fece
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seguito al richiamo del papa, e lo stato di depressione da lui descritto nella famosa e importante lettera del febbraio 1531. «Non mi par esser quel Bastiano che era avanti il sacco; non posso più tornare in cervello ancora»71. Nella stessa lettera, concludeva: «Dopo essere passato attraverso il fuoco e l’acqua e aver subito prove inimmaginabili, ringraziamo Dio e passiamo quel poco di vita che ci resta in tutta la tranquillità possibile». Si deve quindi indubbiamente far entrare in conto il «trauma» del 1527 in questa disposizione all’inerzia e all’indifferenza che ha tanto stupito i contemporanei di Sebastiano. Egli visse per altri vent’anni circa; dipinse ancora, e specificamente opere cupe, patetiche, dagli effetti duri – come la Via Crucis, in parecchie versioni – che pongono più di un problema72. Un ultimo caso tipico è quello del croato Giulio Clovio. Egli si trovava al servizio di un cardinale romano; catturato dagli spagnoli, ebbe talmente paura che fece voto, nel caso in cui se la fosse cavata, di entrare in convento73. Essendo scampato alle disavventure, andò a cercare la quiete dello spirito nel monastero di San Ruffino vicino a Mantova, dove per svago imparò l’arte di miniare i manoscritti. Alcuni anni più tardi, dopo che in seguito a un incidente dovette curarsi una gamba, passò al servizio del cardinale Alessandro Farnese che ne apprezzò il talento di miniatore. Insomma, senza il sacco non ci sarebbe stato quel piccolo capolavoro sofisticato della tarda miniatura che sono le Ore Farnese, adesso alla Pierpont Morgan Library. Questi aneddoti fanno parte della documentazione. Più difficile è valutare fino a che punto le traversie dell’uomo abbiano o meno agito sullo sviluppo dell’artista. Ci guarderemo da eccessive semplificazioni. È già importante osservare che certe persone possono non essere state toccate dagli eventi e averne evitato il trauma, come accadde al Parmigianino certamente; altri, di
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temperamento più nervoso, emotivi, se non addirittura nevrotici, rivelarono nel modo stesso di condurre la loro arte un’irritabilità e un’instabilità inquiete, come avvenne probabilmente per il Rosso. C’è un contrasto impressionante fra il Cristo morto e la Deposizione di San Sepolcro, dipinta alcuni mesi dopo. Il Rosso, esausto, si era precipitato a San Sepolcro dove il vescovo Leonardo Tornabuoni, il committente del Cristo e angeli, si era appena rifugiato «anch’egli fuggendo il sacco». Là tutti quanti si adoperarono per facilitare le cose al Rosso, e Raffaello dal Colle gli cedette l’esecuzione della pala dei Battuti per la chiesa di Santa Croce. In questa Deposizione, Vasari ha rilevato la insolita particolarità dell’effetto di tenebre in occasione della morte del Cristo74. La si può accostare all’accento lugubre delle Pietà dipinte da Sebastiano alcuni anni dopo. Un simbolismo semplice, quasi elementare, interviene qui per mescolare un senso di lutto personale, di reale tristezza, alla rappresentazione tradizionale e devota della morte. Occorre spingerci più oltre? I quadri dipinti dal Rosso nel 1528 e 1529 sono discordanti e confusi tanto che vi si scorge un nervosismo mal controllato, una strana mancanza di capacità tecnica. Si può fare, forse, un altro esempio. Polidoro, rifugiato a Napoli, non sognava che di tornare a Roma75. Si sa che nel 1528 era stato a Messina, dove dipinse una Salita al Calvario sovraffollata e disordinata che testimonia, nella sua veemenza, la condizione del pittore, perché si è lontani dallo stile controllato di Roma. La sorte ha voluto che il pittore scoperto da Clemente VII fosse ancora in rapporto con il papa nell’ultimo grande atto politico della sua vita. È infatti a Bologna, ossia là dove si era rifugiato il Parmigianino, che ebbe luogo l’evento decisivo della venuta di Carlo V in Italia e la sua incoronazione. Parmigianino eseguì a memoria il ritratto dell’imperatore, opera di una sconcertante
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freddezza (conosciuta per mezzo di un duplicato che in realtà sembra sia una copia). Per suggerimento del papa, il quadro fu presentato all’imperatore che l’avrebbe tenuto se il pittore non se lo fosse riportato via per aggiungere qualche tocco finale76. Un altro quadro, dipinto per l’Aretino, fu offerto al papa in occasione della sua visita. Si tratta di una delle Madonne più sorprendenti – e per molti la più scandalosa – che sia mai stata dipinta77. La sua dignità nell’eleganza, il suo fascino nella mondanità, sono stati commentati ampiamente. Un autore della fine del xviii secolo ha anche diffuso la voce che si tratterebbe di una Venere e Cupido frettolosamente trasformata – battezzata, se così possiamo dire – per essere offerta al papa. Qualcuno l’ha considerata un esempio di prodigiosa disinvoltura, quasi il pittore non conoscesse la buona educazione. La figura di Maria è sempre stata lo spunto per un’immagine leggiadra; forse non se ne attendeva un profondo sentimento religioso, ma piuttosto un omaggio alla bellezza, confusa qui con un’immagine di eleganza. Qualcosa quindi sopravviveva dello stile clementino, per lo meno in Emilia.
Il rifugio veneziano. Non è senza interesse considerare i confini della «diaspora» degli artisti. Gli uni, come Polidoro, hanno colto l’occasione di raggiungere città «imperiali» come Napoli; ma, una volta arrivata fin là la guerra, dovette raggiungere la Sicilia. Perino salì a Genova, città alleata dei francesi, ma il voltafaccia di Doria sul finire del 1529 ne fece una città imperiale, il che non cambiò nulla né nei lavori né, beninteso, nelle disposizioni dell’artista. Taluni abbandonarono le proprie case, ma, per ragioni diverse, non si trattennero lontani a lungo, come Rosso.
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Il rifugio immediatamente ricercato dagli artisti e dagli intellettuali più celebri, fu Venezia. Ciò che ha permesso a questa città di rappresentare tale ruolo salutare non è affatto oscuro, data l’altalena politica del Cinquecento; ma possiamo chiederci che cosa gli emigrati sperassero di trovarvi. L’Aretino vi si era stabilito nell’inverno 1526-27; Serlio, sopravvissuto al sacco, fu subito assunto per pubblicare degli inventari di edifici romani78. Sansovino, quando decise di passare al servizio del re di Francia, venne trattenuto dalla Serenissima79, mentre non fu così per il Rosso Fiorentino. Se si aggiunge che nel medesimo anno Adrian Willaert diventava maestro di coro in San Marco, sembra quasi che la repubblica di Venezia stesse elaborando una «politica culturale» per trarre beneficio dalle difficoltà che incontravano talune personalità di spicco – non i pittori, ma gli architetti e i musicisti. Grazie a Serlio, che lo ha ringraziato nella prefazione al suo Libro IV del 153780, sappiamo che il responsabile di queste iniziative fu Andrea Gritti81, il quale manifestò chiaramente la propria ambizione di fare di Venezia la «nuova Roma». Il tono degli elogi si sarebbe modificato in questo senso: l’onore dell’Italia consisteva adesso in Venezia.
p. giovio, Ragionamento sopra i moti e disegni d’arme e d’amore..., Venezia 1556, p. 33. Più recentemente ferry, «Candor illaesus», cit., pp. 676 sgg. 2 Tre medaglie, riprodotte in bonannus, Numismata Pontificum Romanorum, Roma 1960, XII, XIII e XIV, e commentate alle pp. 195 e 196, riproducono questa impresa: su una di queste versioni la tiara appare al di sopra della pila medicea. Bonannus cita Tipotius: «Voluit Clemens integritatem suam ab injuriis Fortunae et hominum vindicare, incendium Urbis quod in arbore apparet, majori vi quam humanae tribuens et invidia qua illa flagrabat se esse superiorem in lucida imagine ostendens». Ercole Tasso vi scorse un atto di vanità orgogliosa. 1
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Come ha ricordato w. hecksher, Emblem, Emblembuch, in Reallexicon zur deutschen Kunstgeschichte, vol. V (1967), col. 142. 4 Se si fa l’accostamento con i disegni ben noti di Leonardo che obbediscono al medesimo schema generale: centro solare, raggi rifratti, oggetto incendiato, si discernono tre fenomeni: l’attraversamento a sfera di cristallo, la concentrazione dei raggi su un punto di combustione, la diffrazione dello spettro in colori primari. Candor illesus sottolinea il fatto che il vetro rimane intatto, mentre i rami s’infiammano e – secondo Giovio – accentua l’immunità del bianco: le cose candidissime. Come al solito si ha a che fare con tutto un prisma di concetti. 5 Sulle grandi speranze fondate sul pontificato di Clemente VII, cfr. von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte Il, libro III, pp. 159-61. 6 Le lettere di Michelangelo Buonarroti, a cura di G. Milanesi, Firenze 1875, p. 123, n. ccclxxx, lettera del novembre 1523. 7 cellini, La vita cit., cap. xxiii. È allora che Benvenuto fu presentato al papa (verso il 1523-24). 8 p. bembo, Prose della volgar lingua, a cura di C. Dionisotti, in P. Bembo, Prose e rime, Torino 1971, pp. 39 sgg.; m. vitale, La questione della lingua, Palermo 1960; f. foffano, Prose filologiche. La questione della lingua, Firenze 1908; ried. Firenze 1961. 9 j. shearman, Mannerism, Harmondsworth 1967, pp. 38-39. 10 f. berni, Poesie e prose, a cura di E. Chiorboli, Firenze 1934, p. 283. 11 [Non perché sapesse suonare la lira; secondo la leggenda, il suono della sua lira teneva insieme le pietre delle mura di Tebe]. 12 Cfr. von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte II, libro III, p. 161, che cita la lettera di Albergati, da Roma del 7 dicembre 1523: «Tutta Firenze concorre qua». 13 La vita cit., cap. 26, dove Cellini fornisce il quadro della «dolce vita» degli artisti: banchetti, balli mascherati, galanterie... 14 vasari, Le vite, cit., V, pp. 603-4. 15 Ibid., p. 600. Cfr. a. popham, On Some Works by Perino del Vaga, in «The Burlington Magazine», 86 (1945), pp. 56 sgg.; a. griseri, Perino, Machuca, Campaña, in «Paragone», n. 87 (1957), pp. 13-21; freedberg, Painting in Italy cit., pp. 140-41; più recentemente: j. shearman, An Episode in the History of Conservation: the Fragments of Perino’s Altarpiece from S. Maria sopra Minerva, in Scritti di storia dell’arte in onore di Ugo Procacci, Milano 1977, vol. II, pp. 356 sgg. 16 c. de tolnay, The Medici Chapel, Princeton 1948, p. 9. 17 freedberg, Painting in Italy cit., pp. 114-15. 18 vasari, Le vite cit., VI, p. 10. Questo passo ha attirato l’attenzione di briganti, Manierismo cit.; e freedberg, Painting in Italy cit., p. 319. 19 vasari, Le vite cit., V, p. 222. 3
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 cellini, La vita cit., cap. xxx: «Di già era quasi cessata la peste, di modo che quelli che si ritrovavano vivi molto allegramente l’un l’altro si carezzavano. Di questo ne nacque una compagnia di pittori, scultori, orefici, li meglio che fussino in Roma; ed il fondatore di questa compagnia si fu uno scultore domandato Michelagnolo. Questo Michelagnolo era Sanese...». 21 vasari, Le vite cit., VI, pp. 10 sgg. Lappoli dipinse tuttavia una Madonna per Clemente, su ordinazione di Valdambrini. Cfr. anche freedberg, Painting in Italy cit., pp. 64 sgg. e 319-20. 22 «Essendo poi creato pontefice Giulio cardinal de’ Medici che fu chiamato Clemente settimo, fece intendere a Sebastiano per il vescovo di Vasone [Girolamo da Schio, vescovo di Vaison] ch’era venuto il tempo di fargli bene e che se n’avederebbe all’occasione» (vasari, Le vite cit., V, p. 575). 23 Ibid., pp. 575-76. Quanto di questo ritratto rimane è così rovinato che non si può dire se si tratti di una copia o dell’originale (Arezzo, Palazzo del Comune). Cfr. pallucchini, Sebastian Viniziano cit., p. 65 e tav. 64. 24 pallucchini, Sebastian Viniziano cit., pp. 58 sgg. Sulla qualifica dello stile: freedberg, Painting in Italy cit., p. 150. In attesa della pubblicazione dell’opera su Sebastiano, cfr. gli studi di m. hirst, tra i quali Sebastiano’s Pietà for the Commendador Mayor, in «The Burlington Magazine», 114 (1972), pp. 585 sgg. 25 vasari, Le vite cit., V, pp. 155, 218-19, 221-22. Cfr. il catalogo della mostra Le triomphe du Maniérisme européen, Amsterdam 1955, n. 88 (con bibliografia). Offerto al papa, il ritratto fu da questi donato all’Aretino e passò poi all’incisore Valerio Belli che lo vendette nel 1560 allo scultore Vittoria. Nel 1608 costui lo donò all’Imperatore Rodolfo II. 26 Su questo problema cronologico fondamentale, cfr. m. brugnoli, Gli affreschi di Perino del Vaga nella Cappella Pucci, in «Bollettino d’Arte», 47 (1962), pp. 327350; b. davidson, Early Drawings by Perino del Vaga, in «Master Drawings», 1 (1963), n. 3, p. 14; freedberg, Painting in Itaty cit., p. 150 e nota 57, p. 487. 27 vasari, Le vite cit., V, p. 611: «Talmente andò in lungo questa pratica che l’anno 1527 venne la rovina di Roma che fu messa quella città a sacco». 28 Ibid., VI, p. 150: «Mentre che Roma ridendo si abbelliva delle fatiche loro». Questa frase sembra fare eco al passo sulla miniatura, citato da Vasari stesso nella vita di Giotto. 29 Più di recente marabottini, Polidoro da Caravaggio cit., I, cap. xi, pp. 102-35, e catalogo pp. 351-76. 30 freedberg, Painting in Italy cit., p. 146. 31 g. p. lomazzo, Idea del Tempio della Pittura (1590), a cura di R. Klein, Firenze 1974, vol. 1, p. 1131. 20
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 marabottini, Polidoro da Caravaggio, I, pp. 99, 135-49; r. a. turner, Two Landscapes in Renaissance Rome, in «The Art Bulletin», 43 (1961), pp. 275-87. 33 [In scavi romani quali ad esempio la Domus Aurea di Nerone, dove gli allievi di Raffaello andavano a studiare le pitture parietali, note più tardi con il nome di «grottesche»]. 34 Cfr. m. pittaluga, L’incisione italiana del Cinquecento, Milano [1930]. 35 [Marcantonio incise sedici tavole dei disegni pornografici di Giulio Romano sulle posizioni sessuali, destinati a illustrare i Sonetti lussuriosi dell’Aretino]. 36 vasari, Le vite cit., V, p. 418. Marcantonio fu rapidamente liberato per le istanze del cardinale Ippolito de’ Medici e di Baccio Bandinelli. 37 Ibid. 38 B. 104, Museo di Providence. Il disegno di Bandinelli, al Louvre, Inv. 99. Cfr. b. f. davidson, Marcantonio’s Martyrdom of S. Lorenzo, in «Bulletin Rhode Island School of Design», 47 (1960-61), pp. 1-6; m. g. ciardi-dupré, Per la cronologia dei disegni di Baccio Bandinelli fino al 1540, in «Commentari», 17 (1966), pp. 146 sgg. Vedi anche il catalogo Italienische Zeichnungen, München 1977, n. 5. 39 Dal 1524 al 1527 Caraglio lavorò anche per il Parmigianino; cfr. a. e. popham, Catalogue of Drawings by Parmigianino, New Haven 1971, pp. 11-12. Sulle sue relazioni con Ugo da Carpi, ibid., I, pp. 12-17. 40 Si tratta di mettere d’accordo le due affermazioni di Vasari: 1) nella Vita di Marcantonio, V, p. 425: «Avendo poi il Baviera fatto disegnare al Rosso per un libro venti Dei posti in certe nicchie con i loro instrumenti, furono da Gian Jacopo Caraglio intagliati con bella grazia e maniera, e non molto dopo le loro trasformazioni. Ma di queste non fece il disegno il Rosso se non di due, perché venuto col Baviera in differenza, esso Baviera ne fece fare dieci a Perino del Vaga; le due del Rosso furono il ratto di Proserpina e Fillarre trasformato in cavallo [in realtà Saturno e Filira]»; 2) nella Vita di Perino, p. 611: «[durante il sacco] fra tanti il Baviera che teneva le stampe di Raffaello, non aveva perso molto, onde per l’amicizia ch’egli aveva con Perino, per intrattenerlo gli fece disegnare una parte d’Istorie, quando gli dei si trasformano per conseguire i fini de’ loro amori. I quali furono intagliati in rame da Jacopo Caraglio eccelente intagliatore di stampe». La serie degli Dei: B. 24-43, tra cui Saturno, 1526, firmato «Jacobus Caralius Veronensis»; la serie degli Amori degli Dei: B. 9-23. Il disegno di Perino per Vertumno e Pomona è conservato al British Museum. 41 vasari, Le vite cit., V, p. 414. 42 l. servolini, Ugo da Carpi, Firenze 1977, p. 10. 32
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Sul Cristo Morto, cfr. j. shearman, The «Dead Christ» by Rosso Fiorentino, in «Boston Museum Bulletin», 64 (1966), pp. 148-72. 44 w. friedlander, Die Entstehung des antiklassischen Stiles in der italienischen Malerei um 1520, 1925. 45 È necessario supporre che «Rosso avrebbe dato un disegno del suo album a Francesco con il permesso di rielaborarlo per Baviera»? (s. freedberg, Parmigianino, His Works in Painting, Cambridge [Mass.] 1950, p. 65). 46 a. chastel, «L’aria»: théorie du milieu à la Renaissance, 1973, ristampato in Fables, Formes, Figures cit., p. 395. 47 m. hirst, Rosso, a Document and a Drawing, in «The Burlington Magazine», 106 (1964), pp. 120 sgg.; freedberg, Painting in Italy cit., p. 130. 48 Pertanto è difficile vedere in Eliézer e Rebecca e Le figlie di Jetro, opere romane, come propone brugnoli, Gli affreschi di Perino del Vaga cit., e come rifiuta di fare, giudiziosamente a nostro avviso, hirst, Rosso cit. 49 Non possiamo che riprendere, riassumere e confermare a modo nostro le indicazioni di j. shearman, «Maniera» as an Aesthetic Ideal, in «Studies in Western Art. Acts of the XXth International Congress of the History of Art», 1961, Princeton 1963, pp. 200 sgg., ristampato in Renaissance Art, a cura di C. Gilbert, New York 1970, pp. 182 sgg., in particolare: «If the germ of Mannerism exists in the High Renaissance and the seeds were sown in the second decade, the vital place of its growth is in Rome between the death of Raphael and the Sack» (p. 203). 50 Secondo l’eccellente osservazione di hartt, Power and the Individual cit., p. 229. 51 freedberg, Painting in Italy cit., p. 131. 52 a. chastel, Les «ignudi» de Michel-Ange, 1975, in Fables, Formes, Figures cit., pp. 273 sgg. 53 c. gould, The Sixteenth Century Italian Schools, London 1962, pp. 131 899. Si può ammettere che sia stato l’andamento del suo racconto a indurre Vasari (Le vite cit., V, p. 225) a dichiarare l’opera incompiuta. L’edizione del 155o cita Lorenzo Cibo come «committente»; quella del 1568 rettifica parlando del ritratto di Cibo e dell’ordinazione della Nostra Donna in aria fatta da Maria Bufolini, il che concorda con la presenza dell’opera nella famiglia Bufolini nel xviii secolo. 54 Museo di Dresda. L’opera ha molto sofferto. La data generalmente accettata è il 1525, avendo Anselmi tratto partito dalla composizione nella cattedrale di Parma nel 1526. Cfr. a. c. quintavalle, L’opera completa del Correggio, Milano 1970. 55 freedberg, Parmigianino cit., p. 74. 56 meiss, Painting in Florence and Siena cit. 43
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 cellini, La vita cit., 1, capp. xxxiv-xxxviii. raffaello da montelupo, La vita, a cura di G. Gaye, 1840, n. cccclxiii, pp. 581-598. 59 Nell’orazione funebre di Luca Longhi di Ravenna (1580), V. Carrari parla di Marco Dente «intagliatore di meravigliosa, anzi unica eccellenza…, ammazzato, con gran perdita di quest’arte, nel Sacco di Roma». Citato da a. petrucci, Una vittima del Sacco di Roma, in «Il Messaggero», 17 marzo 1959, p. 3. 60 vasari, Le vite cit., V, pp. 150-162. Sul viaggio a Napoli di Polidoro, cfr. marabottini, Polidoro da Caravaggio cit., pp. 149-50. 61 Peruzzi era da più di vent’anni a Roma. Aveva ricevuto nel 1520 l’incarico di dirigere i lavori di San Pietro, che procedevano sempre a rilento. Era stato lui ad organizzare l’apparato dell’incoronazione del 1524. Non se la cavò molto bene, riferisce Vasari (ibid., IV, pp. 601-2): «Quando sopravvenne l’orrendo sacco di Roma, il povero Balthazar rimase prigioniero degli spagnoli: non perdette soltanto tutti i suoi beni ma inoltre subì molti cattivi trattamenti perché, siccome aveva un aspetto imponente, nobile ed elegante, lo credevano qualche prelato travestito o un personaggio adatto a pagare una grossissima taglia. Dopo che quei barbari empi ebbero finalmente scoperto che era soltanto un pittore, uno di essi, molto legato a Borbone, gli fece fare il ritratto di quello scellerato capitano, nemico di Dio e degli uomini, sia che gli abbia fatto vedere il cadavere, sia che glielo abbia descritto con disegni e parole. «Uscito dalle loro mani, Balthazar [Baldassarre] si imbarcò per Porto Ercole e per Siena, ma per istrada fu svaligiato e spogliato di tutto; giunse a Siena in camicia. Accolto con riguardi dai suoi amici, che lo riequipaggiarono, ricevette ben presto uno stipendio pubblico per occuparsi delle fortificazioni della città». 62 Ibid., V, p. 61 63 Ibid., p. 419. 64 Ibid., p. 225. 65 «Ecco, dal male del Sacco di Roma è pur uscito il bene, che in questo luogo di Dio fa la vostra scultura e la vostra architettura», scrive l’Aretino il 20 novembre 1537 (Lettere sull’arte di Pietro Aretino, I, p. 81). 66 r. longhi, Ricordo dei manieristi, in «Approdo», 1, 1953, pp. 55-59, ripreso in Da Cimabue a Morandi, Milano 1973, p. 731: «Non vorrei trarre oroscopi artistici, come oggi è di moda, da avvenimenti e calamità varie del tempo; ma se di più d’uno dei «manieristi» si sa per certo che a Roma lavorò con lo stocco dei lanzichenecchi alle costole; di qualche altro che si salvò fuggendo (quando non ci rimise la buccia), quasi si vorrebbe chiamarli dei “traumatizzati” del sacco di Roma». 67 vasari, Le vite cit., IV, pp. 491-92. 57 58
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Napoli, Capodimonte. vasari, Le vite cit., V, pp. 576 sgg. La rendita era di 8o ducati all’anno. «Quest’uomo aveva tanto piacere in stare ghiribizzando e ragionare, che si tratteneva i giorni interi per non lavorare; e quando pur vi si riduceva, si vedea che pativa dell’animo infinitamente». Vasari aggiunge che Sebastiano era «tutto faceto e piacevole... e nel vero non fu mai il miglior compagno di lui». 70 Dei brutti giorni del 1527 si ha una singolare lettera indirizzata all’Aretino: «Bastiano pittore al divino signor Pietro Aretino. Compare, fratello e padrone, è pur vero che i Pietri Aretini bisogna che ci naschino; io dico ciò che ha detto il disperato Papa Clemente in Castel Sant’Angelo. Sua Santità ha fatto imporre a tutti i dotti che faccino una lettera allo Imperatore, raccomandando alla maestà sua Roma, ogni di saccheggiata peggio che prima. E il Tebaldeo, insieme con gli altri, serratisi per tal cosa in gli studi, hanno fatto presentare le lor lettere a nostro signore, il quale, lettone quattro versi per una, le gettò là, con dire che da voi solo era materia tal soggetto; in fine egli vi ama, e assai assai. E un di qualche cosa sarà, al dispetto degl’invidiosi, pur sanità. Di Roma nel ’27» (g. bottari e s. ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, Milano 1822-25, p. 188, n. lxxxvi). 71 milanesi, Les Correspondants de Michel-Ange cit., p. 38. 72 Cfr. i. fenyö, Der Kreuztragende Christus Sebastiano del Piombo’s in Budapest, in «Acta Historiae Artium», i, (Budapest 1953), pp. 151 sgg. Si può trascurare lo studio di e. larsen, A Contribution to Sebastiano del Piombos Changing Conception of «Christ carrying the Cross», in «L’Arte», 59 (1960), pp. 209 sgg. 73 vasari, Le vite cit., VII, p. 558. 74 Ibid., V, p. 163: «È cosa molto rara e bella, per avere osservato ne’ colori un certo che tenebroso per l’eclisse che fu nella morte di Cristo...» Sulla Deposizione di Borgo San Sepolcro, cfr. k. kusenberg, Le Rosso, Paris 1931, pp. 31 sgg. 75 vasari, Le vite cit., V, p. 151. marabottini, Polidoro da Caravaggio cit., cap. xiv. 76 f. bologna, Il Carlo V del Parmigianino, in «Paragone», n. 73 (1956), pp. 3-16. 77 La Madonna dalla rosa, Museo di Dresda. Cfr. freedberg, Parmigianino cit., pp. 80-81 e 181-82. 78 l. olivato, Per il Serlio a Venezia: documenti nuovi e documenti rivisti, in «Arte Veneta», 21 (1967), pp. 284 sgg., ha pubblicato il testamento redatto da Serlio il 1° aprile 1528, nel momento in cui, giunto a Venezia gravemente ammalato, credette opportuno dettare le sue ultime volontà. Dovette ristabilirsi abbastanza presto poiché il 1° settembre dello stesso anno presentava al Senato la domanda di «copyright» per le sue tavole di architettura, pubblicata da d. howard, Seba68 69
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 stiano Serlio’s Venetian Copyright, in «The Burlington Magazine», 115 (1973), pp. 512 sgg. 79 d. howard, Jacopo Sansovino: Architecture and Patronage in Renaissance Venice, New Haven 1975. 80 s. serlio, Regole generali di Architettura sopra le cinque maniere de gli edifici..., Venezia 1537, libro IV, p. 111: «In Venetia ricetto di tutto il ben humano e divino, il Sereniss. et non mai apieno lodato Principe, messer Andrea Gritti, ha condotto al servigio de la sua inclita Republica questi singular huomini, che così fanno stupenda questa città di nobili, et d’artificiosi edifici come la fece Dio mirabile di natura e di sito...». 81 Per la nozione della nuova Roma, cfr. d. s. chambers, The Imperial Age of Venice. 1380-1580, London 1970, pp. 12-32.
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Capitolo sesto Riparazione pontificia, trionfo imperiale
Il 6 ottobre 1528, Clemente rientro a Roma con una scorta di fanteria e di cavalleria1. Per sei mesi la caput mundi non era stata che un fantasma di città. I Tercieros spagnoli, la fanteria italiana e la cavalleria avevano lasciato Roma definitivamente la domenica 16 febbraio; i lanzichenecchi l’indomani. L’esercito imperiale raggiungeva Napoli, dove la guerra si sarebbe riaccesa con l’arrivo dei francesi di Lautrec e il blocco del porto da parte di Doria. Quest’ultimo episodio, che a un certo momento sembrò avere esito incerto, confermò, con la decimazione degli assedianti, la morte di Lautrec e la defezione dei genovesi, il trionfo degli imperiali. Il 6 ottobre c’era un temporale sulla città, tutte le relazioni diplomatiche lo ricordano2. Il primo atto del pontefice fu di recarsi a San Pietro che aveva lasciato a precipizio e in mezzo al frastuono delle armi esattamente diciassette mesi prima. Le misure prese per rimettere un po’ d’ordine – quelle che concernevano l’alimentazione e l’igiene – e, specialmente per porre fine alle rappresaglie contro i sudditi imperiali negli Stati della Chiesa, sono state ampiamente commentate; dimostrano che Clemente poteva essere un principe avveduto e capace. Meno attentamente è stata esaminata la natura delle reazioni specifiche del pontefice e dei suoi alla situazione spirituale e morale del momento. A Roma, «l’autorità e
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la dignità di Sua Santità traspaiono meglio che in qualsiasi altro luogo». I cardinali furono richiamati il 14 ottobre. Tutti, e specialmente gli inviati dell’imperatore, osservavano che anche fra quanti in precedenza lo avevano sostenuto, era sopravvenuto un mutamento. Evidentemente le milizie imperiali avevano lasciata dietro di sé una diffidenza irreparabile, non soltanto a Roma ma in tutto il Lazio, dove avevano imperversato3. Intorno alla città, un certo numero di borgate, di chiese e di conventi, si rallegrarono di essere sfuggite alla devastazione da parte dei soldati a cavallo grazie alla protezione celeste e, quindi, furono fatte offerte di ringraziamento, ad esempio alla chiesa di Frascati. Nella chiesa della Madonna della Quercia vicino a Viterbo, si trova un dipinto del chiostro dove si vede l’esercito di Borbone che passa al largo dalla citta4. La lettera indirizzata da Clemente VII il 24 ottobre all’imperatore da un quadro esatto della situazione: Dovremmo rallegrarci dopo un tale naufragio e benché spoglio di tutto, di essere giunto in porto; ma il nostro dolore per la rovina dell’Italia, visibile a tutti gli sguardi, e soprattutto per la miseria di questa città, la nostra stessa sventura, sono stati aumentati dall’aspetto di Roma. Ci resta l’unica speranza di poter sanare le numerose ferite dell’Italia e della Cristianità, con i mezzi che tu ci offri, e di risuscitare questa città con la nostra presenza e quella della Curia, perché, figliolo amatissimo, non abbiamo più davanti ai nostri occhi, che un cadavere a brandelli, e niente può moderare il nostro dolore, niente può risollevare questa infelice città e la Chiesa, tranne la speranza della pace, della tranquillità, che dipende unicamente da te5.
L’Italia è un essere ferito, Roma un «cadavere a brandelli». Dopo la partenza dei lanzichenecchi e degli spagnoli, la vita non era tornata alla normalità. Il popolo
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aspettava un segnale, il ritorno del papa e della Curia, non solo per riparare i guasti e porre fine ai saccheggi, ma per ridare ai giorni, alle settimane, il tradizionale ritmo di attività. Dal 1527 si diceva la messa soltanto nella chiesa dei Tedeschi, Santa Maria dell’Anima, e in quella degli Spagnoli, San Pietro in Montorio. La ricomparsa di Clemente e la sua volontà di «restaurare» la città furono decisive. Ma non abbiamo – o non siamo riusciti a ritrovare – particolari sufficienti sulle azioni intraprese allora dai romani. La città aveva perduto almeno la metà dei suoi abitanti. L’epidemia infettiva, restava, naturalmente, latente, e riprendeva a infuriare con il ritorno del caldo. Si cominciava appena a respirare quando la terribile e scoraggiante piena del Tevere dell’autunno 1530 ripiombò i romani nella desolazione: l’accanimento della sorte, interpretato come un nuovo avvertimento del cielo, provocò manifestazioni più violente di disperazione, e insieme, come abbiamo veduto, lo strano sforzo di Egidio da Viterbo per interrogare la Cabala6. È sempre sorprendente e, se vogliamo, rassicurante osservare l’ostinazione testarda con la quale le società umane superano i peggiori disastri. Era improbabile non rimanere colpiti dalla coincidenza di una data ricorrente dello stesso giorno del mese: 6 maggio (assalto), 6 giugno (capitolazione), 6 dicembre (evasione del papa), 6 ottobre (1528, suo ritorno a Roma)7. In circostanze tragiche, accadimenti e simboli assumono un’importanza vitale, e ancora di più in una città, che, nota al mondo come un insieme di grandi nomi e di grandi eventi, aveva appena conosciuto la più straziante umiliazione della sua storia. Nel caos di Roma qualsiasi atto del pontefice diventava significativo. La prima grande cerimonia ufficiale fu, nel novembre, la processione per celebrare il ritorno delle reliquie, di cui si e parlato in precedenza8. I testimoni essenziali della sacralità di
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Roma si ritrovavano di nuovo al loro posto, e assumevano una maggiore importanza in quanto tutti sapevano a quali sacrilegi fossero stati esposti. Nella basilica di San Pietro, tuttora incompleta, dove i lavori erano stati interrotti, e non c’era neppure da discutere di riprenderli e, tanto meno, di portarli a termine, – l’ostensione della Veronica ridiventava possibile, se i pellegrini fossero tornati9. Non se ne parlò per lungo tempo. Il lento sfascio dell’esercito della Lega e l’installarsi delle forze imperiali in Lombardia, a Genova, a Napoli, continuavano a tenere l’intera penisola in uno stato di confusione e di abbattimento a cui esisteva ormai un solo rimedio: la sottomissione diretta o indiretta all’autorità imperiale, di cui i pronostici e le profezie proclamavano con sempre maggiore sicurezza il dominio universale10. Un epigramma sarcastico circolava nel 1528: «Septimus inferior Quinto, quis credat? habetque imperium Quintus, Septimus exilium»*11. Non si trattava di riprendere le strade verso la Città Eterna finché il nuovo equilibrio dei poteri non fosse stato chiarito. Ci vollero altri due anni: ma nel frattempo continuarono le sventure. Innanzi tutto, la malattia del papa. Il 10 gennaio 1529, lo si considerò perduto. In quel «momento della verità» la gente che l’aveva tanto disprezzato e svillaneggiato, sembrava manifestargli il suo favore: si capiva bene ch’egli era la sola difesa contro il dominio totale dell’imperatore e dei suoi alleati12. Clemente non celebrò la messa di Pasqua, ma, già fuori pericolo, impartì la benedizione tradizionale urbi et orbi da San Pietro. Gli avvenimenti si sviluppavano implacabili. A Firenze, che fin dal maggio 1527 non riconosceva più l’autorità dei Medici, qualsiasi accordo che significasse una restaurazione discreta diventava impossibile con l’eliminazione di Capponi dal governo repubblicano nell’aprile 152913. Le misure antimedicee si aggravavano e la pressione
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diplomatica non aveva più alcun potere contro un’evoluzione che costringeva ineluttabilmente Clemente a ricercare l’accordo con Carlo V per conservare a Firenze la signoria dei Medici. Il che fu ottenuto con il trattato di Barcellona del giugno 1529. Nella primavera del 1527, i fiorentini erano riusciti a stornare l’esercito imperiale, che aveva maggiore interesse a prendere Roma. Ma adesso per loro e, in più di un significato, per il loro onore, dovevano tentare quella lotta contro il dominio straniero che i romani non avevano saputo condurre. Era anche il momento più paradossale di quella lunga battaglia per l’indipendenza italiana: affrontando al tempo stesso l’autorità del papa e quella dell’imperatore, senza alcuna speranza di un sostegno da parte di una Lega completamente disorganizzata, la ribellione di Firenze significava piuttosto, come giustamente la considerava il Guicciardini, un sussulto di disperazione che non un tentativo di rimettersi in piedi con una minima prospettiva di riuscita14. In agosto, il re di Francia aveva concluso a Cambrai la pace con Carlo V, abbandonando Napoli, Milano e Genova, lasciando costernati i suoi ex alleati italiani. Il mutamento dei fattori politici in Italia e nel resto d’Europa provocò una ridistribuzione dei poteri nell’entourage dell’imperatore. L’Inghilterra di Enrico VIII, ampiamente coinvolta negli avvenimenti internazionali nel 1527, attraversava adesso un periodo difficile che non le permetteva di occupare un posto importante nella politica europea. Clemente non badò molto all’inviato di Enrico15. E in una situazione di distrazione generale si compì lo scisma e ancor più il passaggio di un grande paese alla Riforma. Nessuno pensava più alla «libertà dell’Italia», tranne Venezia e, ancora per qualche tempo, Firenze allora assediata. La sua caduta avvenne soltanto nell’autunno del 1530, dopo la serie abituale delle illusioni, degli eroismi e dei tradimenti. Se
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ne ha traccia in alcune composizioni musicali e in qualche particolarità dell’iconografia religiosa16. Ma neppure questa resistenza alle due potenze adesso unite poté ritardare il giorno della resa dei conti della storia. Sul finire del 1529, Carlo V riuniva a Bologna i principi italiani e si faceva incoronare solennemente da Clemente VII nella navata di San Petronio il 24 febbraio 1530, anniversario della sua nascita e della vittoria di Pavia. La coincidenza delle date aggiunge sempre qualcosa all’importanza degli avvenimenti. Ne sono ben noti i particolari17. Tutto fu disposto con l’arte che gli italiani sanno mettere in queste faccende: a Bologna e, in special modo, a San Petronio si ebbe uno splendore che permetteva il paragone con Roma e San Pietro18. Era indispensabile. Quando Clemente entrò in città il 24 ottobre 1529, passò sotto tre archi successivi, con fregi che raffiguravano scene bibliche, con fregi guarniti di statue; un dipinto che rappresentava Assuero ed Ester illustrava l’unificazione dei due poteri. Per l’ingresso di Carlo, il «messaggio» degli archi non era meno esplicito: sul fregio del primo, era evocata la vita di Costantino, il cui battesimo dato da papa Silvestro con l’omaggio dello scettro e della corona era un richiamo alla dottrina della Stanza di Costantino19. Il rituale dell’incoronazione era evidenziato con grande cura dai responsabili e dai gerarchi; ogni insegna era esposta e ben sottolineata: la spada, lo scettro, il globo e il diadema. Si capisce l’interesse immenso che ebbero quelle giornate per i pittori preoccupati di fissare l’iconografia ufficiale, giornate che facevano misurare l’immenso cammino percorso dall’erede di Massimiliano dalla modesta incoronazione a Aquisgrana dieci anni prima. La processione finale, che fu accuratamente commemorata dalle due straordinarie serie di incisioni di N. Hogenberg e di R. Péril20, portava allo stesso livello di sacralità il papa e l’imperatore, con i loro emblemi;
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distribuiva intorno a loro i membri dell’autorità religiosa e le figure del potere politico, ciascuna con il posto, la collocazione, il costume e gli attributi appropriati. Si è potuto riaccostare questo corteo «in fregi» al Trionfo antico del Mantegna, al Trionfo della Chiesa di Tiziano21. Aggiungeva ancora dell’altro, che le stampe hanno colto perfettamente: la valorizzazione delle gerarchie e dei simboli, il riordinamento di una società e di un mondo che usciva da una confusione destabilizzante. I simboli universali avevano ripreso corso. Ma qualcosa mancava ancora: Roma. Gli avvenimenti troppo scottanti, troppo vicini, dei 1527, avevano costretto ad accontentarsi di una specie di copia della Città Santa. Lo spettacolo di Bologna non fu che la prova generale del grande atto che restava da rappresentare proprio a Roma, nessuno sapeva quando. Nel frattempo, a nord delle Alpi, la polemica delle immagini continuava più di prima. In Germania gli avversari cattolici di Lutero incominciavano ad attaccarlo con le sue stesse armi. Su una stampa di Cochlaens, pubblicata a Lipsia nel 1529, il septiceps Lutherus appare come la Bestia dell’Apocalisse attualizzata. L’anno seguente a Norimberga la stessa figura mostruosa a sette teste è riferita da Georg Pencz al papato diabolico, accompagnata dalle insegne medicee. Il testo è di Hans Sachs: «Guardate questa bestia a sette teste simile per la forma e i modi alla bestia che san Giovanni ha veduto in riva al mare»22.
La barba del pontefice. Durante quegli anni difficili, in cui in tutti i campi si facevano sentire le conseguenze della catastrofe del 1527, l’ambiente pontificio usciva lentamente dall’atmosfera di lutto e di dolore di cui non sono la sola testi-
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monianza «i lamenti» e i pianti dei chierici. Il diplomatico veneziano Sanuto scrivendo nell’aprile 1528 da Orvieto, dove continuava a trovarsi la Curia, riferiva che: «La domenica degli Ulivi il papa ha esortato i cardinali e i prelati a cambiare vita, a fare penitenza per i loro peccati, perché questi avevano provocato il flagello abbattutosi su Roma»23. Un anno dopo il dramma, il 15 maggio 1528, il vescovo Giovanni Stafileo al Consiglio della Sacra Rota24 tenne un discorso sulle cause del sacco di Roma, Oratio ad Rotae auditores excidii urbis Romae sub annum Christi mille quingenta viginti septem causas continens25. Testo spesso citato, ma che è indispensabile scorrere per intero, perché in certo qual modo vi si trova l’esposto ufficiale dell’avvenimento dal punto di vista teologico. Il prelato ricorda innanzitutto la distruzione per opera di scellerati, o meglio di belve crudeli, del seggio e del santuario stesso della giustizia, la profanazione dei libri che racchiudono le leggi divine e umane in uso in tutto l’universo. A ciò si aggiungono le sciagure degli abitanti della città, la morte dei sacerdoti, la miseria di tutti. E a questo punto cade la celebre esclamazione: «Perché ci sono accadute così tremende sventure? Perché i peccati della carne avevano corrotto la missione di Roma; non eravamo più cittadini e abitanti della santa città di Roma, ma della città meretrice di Babilonia. E il nostro tempo ha veduto adempiersi la parola del Signore che si legge in Isaia». Tutta l’orazione mira a dimostrare che la condanna di Babilonia nelle parole dei Profeti e dell’Apocalisse non si riferisce a un episodio della storia biblica, bensì alla Roma moderna. Perciò i sovvertimenti sacrileghi che hanno avuto luogo vanno compresi al tempo stesso nell’orrore che suscitano e nell’insegnamento che impartiscono: cardinali condotti vergognosamente in giro, vescovi prigionieri, preti uccisi, pie donne già vecchie violentate sull’altare, scuderie
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installate in palazzi apostolici, reliquie di martiri profanate. Tutto ciò significa un tempo da Apocalisse dove il sacro non può più essere rispettato. Serve però come immane avvertimento per tutti, e in particolare, per i responsabili della giustizia, i quali devono dedicarsi soltanto a placare la collera del Signore. Il grande argomento degli avversari del papato: Roma-Babilonia, è quindi riaffermato, assimilato e oltrepassato. L’esortazione alla penitenza è la reazione normale dopo ogni calamita. Ma Stafileo non parla soltanto di pregare «ad placandam iram Dei»; l’appello alla contrizione riceve una dimensione apocalittica; la visione dell’Apostolo Giovanni «annuncia per questa città castighi che sono ancor più atroci di quelli già da noi subiti». La denuncia globale dei costumi e della vita romana non si capisce se non in rapporto allo scandalo inaudito che ha disonorato Roma. Non è pertanto esatto equiparare le parole del vescovo alle dichiarazioni di Alfonso de Valdés, ad esempio, il quale, prima di tutto, intendeva giustificare le azioni dell’esercito imperiale come effetto del castigo divino. Non una sola voce della Curia si è elevata a scusare o a giustificare l’orrore del sacco. Proprio il suo carattere mostruoso, ingiustificabile, richiede un’interpretazione alla luce delle sue estreme conseguenze, con riferimento all’Apocalisse. Infatti, dal punto di vista della Chiesa, si tratta di un episodio al di là della storia; inoltre, per il fatto stesso che a taluni può apparire come una sconfessione dell’istituzione stessa, richiede una prospettiva più elevata, affinché la peggiore prova che il seggio romano abbia mai conosciuto possa, malgrado tutto, essere considerata come volta al suo bene. Quando rientrò a Roma, Clemente aveva mutato aspetto. Era invecchiato e portava la barba lunga, come notarono tutti i diplomatici. Così si legge nel Diario di Sanuto: «Ha una barba longa e canuta»26. Questo segno
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tradizionale di lutto assumeva in un pontefice una grande importanza. Molti membri del clero lo imitarono a perpetuare il ricordo e il dolore delle sventure comuni. Clemente conservò la lunga barba del 1528 fino alla morte. Il ritratto nobile e teso opera di Sebastiano del Piombo – a cui fecero seguito altri analoghi – è anzi diventato la rappresentazione-tipo di Clemente: è il modello che Vasari adotterà nel 1540 per raffigurare il papa mediceo in veste di san Gregorio a Bologna27. Se il volto del papa Urbano I nella Stanza di Costantino ricorda un ritratto di Clemente, non è affatto improbabile che sia stato ritoccato dopo il 152828. Comunque sia, in ragione delle circostanze, la barba penitenziale di Clemente sollevò un certo numero di problemi che costrinsero a ripensare all’effettiva natura della tradizione e degli usi. Si può dire con certezza che, se il Quattrocento fu un’età glabra, il secolo seguente favorì i volti barbuti29. Dall’xi e xii secolo in poi, fu convinzione generale presso i Latini che quell’ornamento non convenisse al clero, soprattutto all’alto clero, e su questo punto il mondo latino era in totale opposizione con il mondo greco, dove prevaleva l’uso contrario, con una evidente volontà di discredito per gli occidentali. Una lunga barba indicava un penitente, un prigioniero, un eremita, o un appartenente alla Chiesa d’Oriente. Giustamente è stato fatto notare che la decisione di Giulio II di portare la barba e di farsi ritrarre così da Raffaello poneva un problema relativamente importante30: era una decisione simbolica di rimanere barbatus fino alla liberazione dell’Italia, decisione presa alla fine del 1510 e mantenuta fino all’inizio del 1512, quando l’ornamento virile e insolito scomparve di fronte alla fortunata evoluzione degli eventi presagita dal Concilio del Laterano e dal rivolgimento delle alleanze. In altre parole, portare la barba, che non corrisponde all’apparenza normale e desiderabile di un ecclesiastico, diven-
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ne una manifestazione pubblica in risposta a una vicissitudine drammatica, e insieme un impegno personale. La moda, che esisteva nel clero italiano come altrove, provocò un discusso mutamento nell’aspetto esteriore dei preti. Molti fra loro avevano imitato Giulio II, tanto più che la voga della barba aveva incominciato a diffondersi da quindici o vent’anni negli ambienti cortigiani e principeschi; il ritratto di Castiglione (1515) ne è una prova sufficiente, come le esitazioni di Bembo a proposito di quest’ornamento facciale31. Il risultato finale fu un’ordinanza di Adriano VI alla fine del 1523 che proibiva agli ecclesiastici un’usanza «che li faceva assomigliare a soldati piuttosto che a preti»32. All’avvento di Clemente, sembra che in Curia fosse di nuovo di moda essere glabri. La comparsa di Clemente «colla barba longa» nel 1528 non fu forse una sorpresa, ma fu necessariamente notata. Portare la barba, segno di lutto diventato d’un tratto piuttosto diffuso a Roma, tra i sacerdoti, sembra avere avuto il carattere di protesta contro chi aveva perpetrato il sacco. Per lo meno, in tal senso parla l’informazione secondo la quale «con un gesto di perdono verso gli imperiali, Clemente emanò un proclama in cui vietava agli ecclesiastici di uscire per le vie della città con lunghe barbe»33. E in questa occasione fu pubblicato da Giovanni Pierio Valeriano, l’umanista schiacciato dal dolore e autore del De litteratorum infelicitate, un libello munito dell’approvazione del papa, Pro sacerdotum barbis34. L’argomentazione è innanzi tutto antropologica: La soppressione del pelo in quasi tutti i paesi e in quasi tutte le epoche ha qualcosa di effeminato. Nell’antichità un filosofo senza barba difficilmente passava per filosofo. D’altronde il Cristo stesso si presentava diversamente? Se la barba non fosse un indice di pietà, di moralità di serietà,
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di dignità, la si sarebbe portata così spesso? La troveremmo sui ritratti ufficiali di Giulio II, o sulle monete coniate di Clemente?
Fin qui si tratta della ripresa del vecchio dibattito. Ma il tono cambia quando l’autore risponde a quanti pretendono dal clero un aspetto sorridente. Come sarebbe possibile ciò in un’epoca di dolore, dopo la rovina dell’intera Italia, dopo il sacco di Roma, vergognoso sconvolgimento del mondo cristiano? Il segno di una condizione infelice conviene più che mai alla chiesa d’Italia, della quale i paesi del Nord hanno dimenticato le sacre istituzioni. «Ma l’Italia intera ha subito niente di più deplorevole». E si chiederebbe al clero di adottare un aspetto più femmineo che virile! Perché è proprio su questo punto, alla fine, che poggia il ragionamento di Valeriano in favore della barba dei preti. Egli non esita a sostenere che abitudini effeminate e corrive, come quella di radersi, abbiano potuto attirare su Roma le catastrofi che sappiamo. Radersi sarebbe un insulto al Signore; e questi non può essere placato se non da una riforma morale, da un ritorno al ritegno, alla decenza, alla dignità virile, di cui è buon segno che sia ridiventato generale il portare la barba. Questo factum aveva ricevuto l’autorizzazione del papa. Si ebbe dunque una piccola disputa a proposito dell’uso da raccomandare al clero romano35. Verso il 1530, lo vediamo, diventava difficile eliminare, fosse anche per diplomazia, i segni di lutto, che, inoltre, venivano interpretati come indizi di dignità e, persino, di buon contegno professionale. Da questi piccoli particolari e da queste discussioni accidentali si può misurare fino a un certo punto l’ampiezza dei cambiamenti portati nella mentalità della Curia dalle sciagure del 1527. Si tendeva a riesaminare tutto, a sottoporre tutto a un’indagine severa. Si preparava la Contro-Riforma, con i suoi minu-
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ziosi regolamenti. E il Pontefice manteneva, con tutte le implicazioni connesse, la sua nuova effigie nei ritratti sulle monete, ai quali affidava un messaggio ancora più esplicito.
Medaglie e monete. C’era un urgente bisogno di mettere in circolazione monete d’oro nella città rovinata. Per un’antica consuetudine, il verso delle monete ha sempre svolto la funzione emblematica e simbolica a commento degli avvenimenti. Benvenuto Cellini tornò a Roma nell’aprile 1529 e realizzò il suo sogno di lavorare alla Zecca, dove fu nominato «maestro delle stampe» il 16 aprile. Secondo Vasari, «non sono mai state vedute più belle monete di quelle che allora furono stampate in Roma»36. Un doppio ducato che era stato coniato per l’ascesa del pontefice mostrava i santi Pietro e Paolo nella «Navicella»37; conteneva quasi un presentimento dei futuri guai. Il «doppione largo d’oro», o doppio scudo, ordinato da Clemente VII in persona all’orafo mostrava sulle due facce le preoccupazioni del pontefice. C’era da una parte «un Cristo nudo, le mani legate, con la scritta “Ecce homo”, e dall’altra un papa e un imperatore che raddrizzavano una croce che minaccia di cadere, con l’iscrizione “Unus spiritus et una fides erat in eis”». Il che da un lato comportava un apprezzamento cristiano delle prove subite a immagine del Salvatore, e dall’altro un voto o un annuncio anticipato della concordia fra i due poteri. Di fatto, Cellini ha creato due monete distinte: un doppio ducato che comprende l’effigie del papa e l’Uomo dei dolori, e un altro dove il gruppo del papa e dell’imperatore corrisponde ai santi Pietro e Paolo38. Un’altra moneta d’argento, del valore di un doppio carlino, mostra sul verso l’immagi-
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ne del Cristo che trattiene san Pietro al di sopra dei flutti con il motto «Quare dubitasti?», che è un commovente richiamo del dramma. Se si pensa che battere moneta è la prima affermazione dell’autorità politica, non è inutile esaminare attentamente quanto mostrano i conii di Cellini. Si esprime a tre livelli, e in tre immagini: l’esitazione dell’Apostolo, la Passione del Signore, l’invocazione immutata ai due santi fondatori della Chiesa. É come una narrazione compendiata della prova vissuta da Clemente. La conclusione da trarre è che la Chiesa è sopravvissuta e una nuova politica è ufficialmente proclamata: l’alleanza pacifica dei due poteri. Una medaglia, sempre di Cellini, mostra la Pace che distrugge le armi; in esergo si legge «Clauduntur belli portae»39. Questa medaglia è riprodotta, come quella del Giubileo del 1525, nell’opera classica di Bonannus del 169940, che la mette in rapporto con i colloqui di Bologna e l’incoronazione del 1530: in mezzo a strumenti bellici giace una figura incatenata, è Marte che morrà dinanzi al tempio di Giano dalle porte chiuse, come vuole la tradizione antica. Lo stesso autore stabilisce un nesso tra un’altra medaglia, che esiste in due versioni, e la fuga da Castel Sant’Angelo: il pontefice a cavallo in una – e a dorso di una mula nell’altra – saluta un soldato supplichevole (due nell’altra); l’iscrizione «Justitia ex Deo» indica sufficientemente che questo atto di clemenza è stato compiuto41. Bonannus è stato attratto dalla curiosa medaglia, per noi di gran lunga più significativa, coniata a ricordo della liberazione del 6 dicembre: una larga inferriata a sinistra, e su una piattaforma l’angelo che precede san Pietro; in esergo «Misit D[ominus] Ang(elum) suum et liberavit me», o nell’altra versione «Mitsit Dominus angelum, suum. Roma». Il commento indica appunto che questa frase viene dagli Atti, 12, 11, in cui Pietro parla della sua liberazione miracolosa dall’Hero-
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dianum. Per Clemente «la figura di san Pietro che fugge dalla prigione, significava la sua evasione da Castel Sant’Angelo»42. Questa medaglia merita attenzione per la composizione stessa. L’inferriata ricorda immediatamente il mirabile affresco della Stanza di Eliodoro, dove l’angelo sveglia san Pietro dormiente. L’episodio vissuto da Clemente illustra le costanti della storia religiosa, e il simbolo – san Pietro che tiene la sua enorme chiave e segue il movimento deciso dell’angelo, reso con molta evidenza dal medaglista – dà all’avvenimento la sua dimensione definitiva. L’azione provvidenziale è avvenuta con l’aiuto di Castel Sant’Angelo, di dove, al momento opportuno, fu possibile scappare. La fortezza, posta sotto la protezione di san Michele, ha salvato in due occasioni il pontefice, prima riparandolo il 6 maggio, poi permettendone la fuga il 6 dicembre. La coincidenza rende evidente l’intervento divino. Quel che conta non è più l’atroce sacco della città, ma il fatto che, grazie all’angelo, o, se vogliamo, grazie ai meandri della fortezza che ne porta il nome, dove quegli ha vigilato sul papa, Clemente ha potuto riparare a Orvieto e riprendere in mano il governo della Chiesa43.
Il ciclo di san Michele. Per Clemente e per i suoi, vi era dunque un risvolto provvidenziale degli eventi, degno di essere celebrato persino tra gli orrori della catastrofe. Da ciò che sappiamo delle iniziative di Clemente dopo il 1528, fu quello il filo conduttore della sua azione di restaurazione e di riparazione. Per accorgersene basta raggruppare un certo numero di indicazioni fornite da Vasari: concernono tutte Castel Sant’Angelo, e il grande interesse che Clemente vi portava. Esse provano quanto l’insistenza
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sul soccorso dell’Angelo fosse cosa seria, e come se ne possa scoprire tutta la portata soltanto attraverso i simboli dell’arte. Rientrando da Bologna, il papa condusse con se Baccio Bandinelli e lo alloggiò al Belvedere. Dimorando quivi Baccio, pensò Sua Santità di satisfare a un voto il quale aveva fatto mentre che stette rinchiuso in Castel Sant’Agnolo. Il voto fu di porre sopra la fine del torrione tondo di marmo, che è a fronte al ponte di Castello, sette figure grandi di bronzo di braccia sei l’una, tutte a giacere in diversi atti come cinte da un angelo, il quale voleva che posasse nel mezzo di quel torrione sopra una colonna di mischio, ed egli fusse di bronzo con la spada in mano. Per questa figura dell’angelo intendeva l’Angelo Michele custode e guardia del Castello, il quale col suo favore ed aiuto l’aveva liberato e tratto di quella prigione; e per le sette figure a giacere poste significava i sette peccati mortali: volendo dire che con l’aiuto dell’angelo vincitore avea superati e gettati per terra i suoi nemici, uomini scellerati ed empi, i quali si rappresentavano in quelle sette figure de’ sette peccati mortali. Per questa opera fu fatta fare da Sua Santità un modello, il quale essendole piaciuto ordinò che Baccio cominciasse a fare le figure di terra grandi, quanto avevano a essere, per gittarle poi di bronzo44.
Si trattava di ricollocare al sommo della fortezza l’angelo famoso, ricordo del miracolo romano riportato dalla Leggenda aurea: san Michele che rinfodera la spada per significare a san Gregorio e a chi lo seguiva in processione che la peste era finita45. La preoccupazione di restituire all’edificio la sua fisionomia storica e cristiana si accordava con il sentimento di riconoscenza concepito da Clemente: il san Michele restaurato sarebbe servito da ex voto; al tempo stesso un «concetto» più complesso sarebbe sorto nel cielo di Roma.
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Ma la collocazione della statua era diversa, poiché Vasari precisa che si aveva in animo il coronamento del torrione rotondo di faccia al ponte, il che data l’allusione al 1527. L’arcangelo che schiaccia i sette peccati era una variante alquanto inaspettata della vittoria dell’angelo su Lucifero e la sua coorte. Non sappiamo esattamente a che cosa essa rispondesse, al di fuori della preoccupazione di Clemente di stigmatizzare i nemici del papato e della Chiesa. Ma, per esempio, contava fra questi Borbone? In ogni caso, un breve del 27 agosto 1528 denunciava come principali responsabili del sacco gli eretici luterani46. Conosciamo un disegno di Bandinelli, di fattura un po’ rozza, che indica un primo stadio del progetto47. Secondo Vasari Baccio cominciò le sue enormi figure, ma quell’impresa grandiosa non si concluse mai. Dieci anni più tardi, sotto Paolo III, che manifestò lo stesso interesse del suo predecessore alla decorazione al tempo stesso esterna e interna del castello, Raffaello da Montelupo realizzò una statua di marmo di nove metri, «e cioè l’angelo di Castello che è in cima del torrion quadro di mezzo, dove sta lo stendardo», a commemorazione della visione gregoriana48. Al tempo stesso la fortezza ritrovava il suo angelo eponimo, la grande stanza che si ornava del ciclo di Alessandro in omaggio al papa regnante e accoglieva la figura sorprendente di Perino del Vaga. L’arcangelo che balza attraverso la finestra dimostra nella sua «terribilità» l’autorità del protettore celeste dei pontefici e della loro fortezza49. Clemente non aveva soltanto pensato a collocare un simbolo eloquente di fronte al Ponte Sant’Angelo. Concepì tutta una composizione per riplasmare il castello50. A Lorenzetto, ossia Lorenzo Lotti di Firenze, fu commissionata dal papa, poco dopo il ritorno a Roma. Vasari è chiarissimo:
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Perciocché avendo il papa veduto, quando si combatté Castel Sant’Agnolo, che due cappellette di marmo che erano all’entrata del ponte51 avevano fatto danno, perché standovi dentro alcuni soldati archibugieri, ammazzavano chiunque s’affacciava alle mura, e con troppo danno, stando essi al sicuro, levavano le difese, si risolvé Sua Santità levare le dette cappelle, e nei luoghi loro mettere sopra due basamenti due statue di marmo: e così fatto metter su il san Paolo di Paolo Romano, del quale si è in altro luogo ragionato, fu data a fare l’altra, cioè un san Pietro, a Lorenzetto, il quale si portò assai bene, ma non passò già quella di Paolo Romano; le quali due statue furono poste e si veggiono oggi all’entrata del ponte52.
Tutti questi particolari sono interessanti: la distruzione delle due cappelle vuole eliminare un doloroso ricordo; ma la cappella di destra conteneva un affresco che mostrava il Cristo fra i due fondatori della Chiesa53. Sostituire le due edicole era un’idea brillante per dare un’inquadratura monumentale al castello e, con il progetto del san Michele per la torre rotonda, imprimere un significato nuovo, eloquente e romano, al lato della fortezza verso la città. Non meno brillante fu l’idea di riadoperare in quell’occasione una statua inutilizzata della basilica di San Pietro. Questo particolare ha colpito Vasari, che riferisce come una statua di san Paolo, opera di Mino e Paolo Romano, rimasta in Vaticano dal 146o circa, fermò una volta l’attenzione di Clemente: «Per il che egli deliberò di far fare un san Pietro della grandezza medesima, ed insieme alla entrata di ponte san’Angelo, dove erano dedicate a questi apostoli due cappellette di marmo, levar quelle che impedivano la vista al castello, e mettervi queste due statue»54. Il trasporto di una statua e l’approntamento di un’altra dovettero avere luogo poco dopo il 1530, perché Torrigio fornisce una precisazione utile: «Le cappelle gemel-
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le, danneggiate dalla guerra, avevano parimenti sofferto della piena del 1530. La loro sostituzione con le statue ebbe per iscopo di conservare a quel luogo il suo ornamento e il suo carattere religioso»55 La collocazione delle statue, esattamente sulla soglia del ponte56 sovrastato dalla fortezza, assume il suo pieno significato come richiamo dell’autorità privilegiata dei santi patroni di Roma, di cui i Riformatori riconoscevano l’importanza e veneravano l’immagine. Qui ancora, il monumento corrisponde alla stampa e al libro. Le iscrizioni non sono prive di interesse. Quella sul basamento del San Pietro – ce l’assicura Torrigio – è opera di Pietro Bembo: «Clemens VII p. M. Petro e Paulo Apostolis Urbis Patronis anno salut. humanae mcxxxiv. Hinc humilibus veniam.». Le iscrizioni, prima collocate di fronte al castello, sono state poi spostate57. Il completamento di queste disposizioni, che possiamo chiamare riparatrici e si svolgono come un ciclo di San Michele, si trova alla Trinità dei Monti58. La nostra informazione proviene sempre da Vasari. Nella Vita di Michelangelo egli spiega come si giunse a concepire il Giudizio universale nella Sistina; nel primo progetto ideato da Michelangelo, si trattava di due grandi «facciate»: il Giudizio universale sopra all’altare, e, sopra l’ingresso: ... «quando per la sua superbia Lucifero fu dal cielo cacciato, e precipitati insieme nel centro dello inferno tutti quelli angeli che peccarono con lui»59. La relazione con il ciclo di San Michele sembra evidente – Michelangelo non realizzò questo affresco, ma le indicazioni che se ne traggono, orientano appunto verso la Trinità dei Monti. Tutto il passo del Vasari deve essere citato: elle quali invenzioni molti anni innanzi s’è trovato che aveva fatto schizzi Michelangelo e varii disegni, uno de’ quali poi fu posto in opera nella chiesa della Trinità di
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Roma da un pittore ciciliano, il quale stette molti mesi con Michelangelo a servirlo a macinar colori. Quest’opera è nella croce della chiesa alla cappella di san Gregorio dipinta a fresco, che ancora che sia mai condotta, si vede un certo che di terribile e di vario nelle attitudini e gruppi di quelli ignudi che piovono dal cielo, e de’ cascati nel centro della terra conversi in diverse forme di diavoli molto spaventate e bizzarre; ed è certo capricciosa fantasia.
Per questa via si è tentato di ritrovare il filo conduttore del progetto, certamente imponente, di Michelangelo. Un disegno di casa Buonarroti mostra una cascata di figure, che forse traspone nel precipitare dei dannati alcuni elementi della caduta degli angeli60. L’affresco del «garzone» ignoto è pur esistito, le guide ne fanno menzione, come una specie di modello ridotto di un più grande progetto61. Esso scomparve nel 1739, quando fu abbattuto il muro del transetto per edificare l’attuale cappella terminale. Della primitiva decorazione della Trinità dei Monti, quando il santuario dei «frati calavresi e franciosi che vestono l’abito de San Francesco di Paulo», incominciava ad attirare l’attenzione, rimangono poche tracce. A quale fase apparteneva la cappella della Concezione ornata di affreschi da un Calabrese di cui Vasari non ha ricordato il nome, un compagno di Marco Calavrese?62. L’unica cosa notevole è che sotto Leone X numerose cappelle ebbero decorazioni interessanti, e spesso per mano di meridionali – il che non deve stupire. La cappella del transetto, detta Chateauvillain, dal nome dell’ambasciatore francese sotto Leone X, dovette parimenti accogliere pitture di cui non si conosce più il tema; sussistono sulle volte quattro sibille e quattro profeti – raggruppati a due a due – stranamente appollaiati sugli orli degli archi. Sotto Clemente VII, la Cappella Pucci, che occupava il braccio sinistro del transetto, fu commissionata a Perino del Vaga: il suo
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straordinario brio e messo in evidenza dalle due notevoli figure dei profeti «mariani» Isaia e Daniele, sopra all’arco spezzato d’ingresso; ma tutto fu interrotto nel maggio 152763 Grazie alla sua posizione elevata che lo metteva in evidenza e ai suoi dichiarati rapporti francesi, il convento dei Minimi era un punto di attrazione inevitabile per l’armata imperiale64. Nella cronaca dell’anno terribile, fu uno degli episodi più spietati. Questo serve a spiegare come la Cappella Chateauvillain sia diventata la Cappella San Gregorio. A nostro giudizio, e dopo il 1530, e a titolo di «riparazione» per il sacrilegio e per la dissacrazione da parte dei vandali, che fu ideata la nuova decorazione, imperniata sulla caduta degli angeli ribelli. La scelta del tema, presa a prestito dal progetto iniziale della Sistina, ci porta a datare al 1534 l’opera di quel Jacopo Siculo, del quale nulla si sa, tranne che si trattava, ancora una volta, di un meridionale, e che per la sua composizione si era valso del disegno inutilizzato di Michelangelo65. Ma è già molto. Perché l’avere sviluppato la leggenda di san Michele in tutta una cappella conferma il legame con il ciclo concepito da Clemente VII, e inversamente, questa indicazione ci assicura che il progetto di Michelangelo rispondeva allo stesso disegno. Intorno alla caduta degli angeli precipitati nella Geenna dall’arcangelo, che costituisce il centro della scena, si svolgevano gli episodi classici: da una parte il toro bianco e la freccia di Gargano (da cui la denominazione del Monte Gargano consacrato a San Michele); dall’altra l’apparizione dell’angelo al sommo del mausoleo di Adriano a significare la fine della peste a Roma66. Il primo episodio e sdoppiato nelle lunette, il secondo occupa tutto il resto della parete. A giudicare da queste scene, Vasari, che ha ricordato soltanto l’affresco «michelangiolesco» ora scomparso, non ha torto di
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affermare che lo stile del pittore sente lo sforzo. Tuttavia la composizione più originale per le sue dimensioni e, dal nostro punto di vista, la più conclusiva, è l’affresco che descrive il miracolo di Castel Sant’Angelo. È cosa eccezionale che questo episodio sia stato esteso fino a coprire tutta una parete. Infatti, lo si trova di solito, per lei meno in Italia, in predelle e piccole composizioni. Ad esempio, per rimanere nello stesso periodo, fra le «storiette», oggi ben identificate, che accompagnavano il grande pannello di san Michele e gli angeli ribelli del Beccafumi67. Ma a Trinità dei Monti si avevano buone ragioni per dare alla scena uno sviluppo particolare, come dimostrerà l’analisi che segue. L’angelo, simile a una figura di bronzo, si libra sopra la fortezza, più di quanto non vi sia appoggiato. La croce di processione, sorretta dal diacono inginocchiato in primo piano, sembra rispondergli. È infatti il momento, in cui, come racconta la Leggenda aurea, l’apparizione dell’angelo che rinfodera la spada significa la fine della peste, essendo esaudite le preghiere e processioni di Gregorio: sul ponte, colto di sorpresa durante la cerimonia propiziatoria, un gruppo di leviti che porta delle «icone» si ferma, stupito. Gli assistenti formano due gruppi stranamente separati; un personaggio avvolto in un drappo, guardando verso lo spettatore, domina il gruppo a sinistra; a destra, una folla inaspettata di prelati e di chierici – tra i quali, alcuni certamente sono identificabili – sta dritta dietro al pontefice in preghiera. Questa accolta di personaggi mitrati intorno alla tiara non appartiene evidentemente alla leggenda, ma attualizza la scena in un significato che non è difficile, da indovinare. Un tale raggruppamento di alti dignitari accanto al papa davanti a Castel Sant’Angelo non poteva che ricordare a tutti i presenti tra la folla, o meglio ai membri della Curia accalcati, un certo giorno di maggio 1527.
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Il «profilo perduto» non consente di identificare il papa che impresta i suoi lineamenti a san Gregorio, ma il cappuccio della cappa pontificia reca un San Michele che atterra il demonio sopra un blasone mediceo con sei palle. Lo stesso blasone è scolpito sulla torre rotonda di Castel Sant’Angelo. La scena deve essere perciò riferita a un papa della famiglia Medici che non potrebbe essere altri che Clemente. Lo precisa ancora un ultimo particolare: il pittore ha dato una sagoma priva di vigore alla fortezza, al fine di magnificare l’angelo. Ma, con una cura sorprendente, ha dipinto due piccoli edifici collocati all’ingresso del ponte, uno dei quali porta l’immagine sacra del Cristo fra Pietro e Paolo, che identifica una cappella68. Si tratta infatti delle due cappelle di cui si conosce ora l’importanza negli atti «riparatori» compiuti da Clemente. La ricorrenza della processione gregoriana si celebra il 7 maggio, secondo la Leggenda aurea. Il papa si chiudeva nella fortezza la sera del 6 maggio. È difficile che proprio questo pontefice, così attento alle coincidenze, non ne fosse a conoscenza quando formulò il voto di cui l’ordinazione della grande statua a Bandinelli fu la conseguenza. In ogni caso, quest’insieme di circostanze parve abbastanza eloquente perché, in conformità delle pratiche religiose più costanti, si potesse leggere l’episodio moderno nell’antica leggenda; si commemorava con la massima naturalezza l’intervento provvidenziale dell’angelo nel 1527 celebrando il miracolo del 590. La devozione all’arcangelo si intensifica sempre quando si temono scempi dell’Anticristo e dei nemici della chiesa. La dedica della cappella è ampiamente significativa di questa preoccupazione. Avere reso attuale la leggenda gregoriana basta a spiegare l’ampio spazio che le è riservato. Se fossimo in grado di identificare i personaggi lo si capirebbe ancora meglio. Trinità dei Monti appare
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pertanto, sulla fine del pontificato di Clemente VII, come la chiesa dove l’esecrazione degli orrori del 1527 assunse la forma più spettacolare e più esplicita69.
Il «Giudizio universale». Cellini era tornato a disegnare monete; anche Bandinelli era ricomparso. Sebastiano non rimase a Venezia, ma lo spettacolo deprimente di Roma provocò in lui una psicastenia, di cui si lagnò con Michelangelo. Lo trasse fuori la generosità di Clemente. Senza volere dare un’interpretazione eccessiva alla depressione del pittore, dobbiamo tuttavia osservare che negli anni successivi egli gettò le basi di un nuovo tipo di arte religiosa, dove uno stile semplificato, formalmente spoglio, con zone avvolte nell’oscurità, segna un ripudio dei bei modellati precedenti. «La prima manifestazione di questo atteggiamento è la Via Crucis»70. Il quadro doveva ispirarsi al gruppo di Michelangelo, ma tiene anche conto del Cristo morto del Rosso, di cui Sebastiano annulla in certo qual modo l’idea centrale. Si tratta ora di elaborare uno stile severo, che convenga a una devozione dolorosa, l’unica adatta alla situazione. E quest’orientamento apparirebbe un fatto importante di per sé se non ne annunziasse un altro. L’opera fu ripetuta per lo meno in tre versioni, di cui è interessante conoscere i destinatari: una per il conte di Cifuentes, ambasciatore dell’imperatore a Roma (oggi all’Ermitage); un’altra per Domenico Grimani, patriarca d’Aquileja, versione menzionata da Vasari (probabilmente quella al Museo di Budapest)71; una terza è ora al Prado. Se ci fidiamo del ricorso alle medaglie, possiamo pensare che il pittore, familiare del papa, abbia commemorato nelle sofferenze del Cristo quelle del suo servo e della sua città; o, almeno, che la prova subita
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dalla Chiesa, era servita a porre in evidenza l’atroce e pietoso Calvario del Signore. La semplicità della composizione ricorda immagini pie; con la trovata del legno diritto e del Sacro Volto visto di fronte – che a tutti doveva evocare la Veronica – Sebastiano ha saputo impiegare in modo nuovo le risorse del suo stile. C’è quasi l’inversione, l’autonegazione di un’arte72. E neppure pare esagerato scorgere nella Pietà (oggi a Ubeda) un richiamo calcolato della angoscia della cristianità. L’opera fu ordinata alla fine del 1533 da Ferrante Gonzaga in persona per Francisco de los Cobos, Commendayor Mayor e consigliere dell’imperatore. La realizzazione del lavoro durò sei anni, e l’esasperazione di coloro che erano coinvolti in quell’impresa è divertente da seguire73. La cosa importante, anzi notevole, è che il papa avrebbe provocato, in quei pochi anni dedicati a riparare e a ricominciare da capo, la fine di quello che abbiamo chiamato lo stile «clementino» a Roma. La «diaspora» era un fatto compiuto: né il Rosso né il Parmigiano sarebbero tornati. Peruzzi ricomparve nel 153074. Il papa si adoperava a richiamare tutti quelli che ancora potevano dare lustro al suo pontificato, e d’altronde essendo tornata la pace, giovani artisti della Toscana, delle Fiandre, trovavano la via di Roma: Salviati, Vasari, Martin van Heemskerck. Ippolito de’ Medici, che aveva ricevuto il cappello cardinalizio nel 1529, faceva lavorare i fiorentini, mentre il cardinale Enckenvoirt si faceva committente di artisti del nord. Clemente dopo tante umiliazioni invecchiava, ma con dignità; non avrebbe lasciato che il suo pontificato attraversasse il peggiore momento della storia della Chiesa senza fare un ultimo sforzo. Comprendeva che lo stile artistico doveva mutare. Sentiva a sua volta il fascino della «terribilità». Non poteva evitare Michelangelo. E così, infine, lo chiamò a intraprendere nella Cappella Sistina qual-
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cosa che segnasse una conclusione – un ciclo escatologico adatto – del ciclo storico di Sisto IV, anteriore di un mezzo secolo, del ciclo teologico di Giulio II, anteriore di un quarto di secolo. Per un riflesso tipico, Clemente desiderava che un’opera d’arte illustrasse proprio la catastrofe del suo pontificato. Il sacco di Roma, l’abbiamo veduto, non è stato raffigurato direttamente; lo è stato invece, secondo il modo proprio del Rinascimento, mediante un simbolo, elevato di per sé sufficientemente da essere commisurato all’avvenimento. I concetti, le sfumature intellettuali o affettive, prospettate dagli storici per rendere conto della singolarità del Giudizio universale sono tutti degni di attenzione: secondo L. von Pastor, l’attesa escatologica è creata dall’ossessione degli errori del 152775; per C. Lanckoronska, vi domina piuttosto un pungente senso di colpa e il richiamo alla contrizione76; per D. Redig de Campos, con cui concorda C. de Tolnay, l’angoscia cristiana è qui espressa dal Dies irae77. Queste opinioni sembrano davvero far convergere l’attenzione sull’effetto di oppressione dolorosa voluta dall’artista per suscitare nell’animo dei fedeli la meditazione sul giudizio finale. Ma l’interpretazione può e deve essere articolata in nozioni più precise. Non è proprio della composizione figurativa racchiudere tutto il ventaglio delle «lezioni», fra le quali gli storici, per la fretta di trarre conclusioni, sono forse troppo inclini a operare delle scelte? Non è proprio di un’opera che si svolge tanto ambiziosamente su così ampio spazio il potere giustapporre forme ricche di suggestioni complementari, perfino contrarie? Il tema è stato adottato onde permettere un dirompere imprevedibile, incredibile all’interno della composizione, non per tenersi nei limiti di un unico argomento. Michelangelo fu l’ultimo degli artisti con il quale Clemente prese contatto. L’incontro del perdono – indispensabile per via dell’adesione del Buonarroti alla ribel-
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lione antimedicea – ebbe luogo il 22 settembre 1533 a San Miniato al Tedesco. Michelangelo venne a Roma in novembre, o forse in dicembre. Il progetto, di cui Condivi dice che fu elaborato «dopo aver considerato molte soluzioni», doveva già essere stato oggetto di conversazioni precedenti fra Clemente e Michelangelo e riguardava senza dubbio le due facciate. La lettera di Sebastiano del 17 luglio 1533 annunzia alcune novità sensazionali: «tal cosa che non ve lo sogniassi mai»78. Che cosa di più sorprendente se non manifestare due volte il potere terribile del cielo, all’origine sugli angeli e alla fine sui mortali? Ci volle un anno a Michelangelo per prendere tutte le disposizioni necessarie al suo definitivo ritorno a Roma; arrivò il 23 settembre 1534, pochi giorni prima della morte di Clemente sopravvenuta il 13 ottobre. Paolo III confermò il progetto del predecessore e convinse non senza fatica Michelangelo a darvi inizio; ma la preparazione delle pareti non era cosa semplice e quindi l’esecuzione cominciò solo l’8 novembre 153579. Frattanto Michelangelo aveva rotto con Sebastiano, che aveva creduto di potergli essere di aiuto preparando l’immenso muro per la pittura a olio, come aveva egli stesso sperimentato con successo a San Pietro in Montorio quindici anni prima80; Michelangelo dichiarò che «la pittura a olio è un’arte di donne e di ricchi fannulloni come fra Bastiano»81. Si decise pertanto per il metodo duro, paziente e tradizionale dell’affresco. Il lavoro durò sei anni. Fu tolto il velo all’affresco la Vigilia di Ognissanti del 1541, in un mondo che incominciava a dimenticare il sacco di Roma, ma che non avrebbe mai dimenticato l’opera di Michelangelo. A noi pare che si debba annettere alla composizione vera e propria, alla «storia», un’importanza ancora maggiore di quella accordatale da tanti importanti interpreti. Se si tiene conto dello stupore prodotto sui contem-
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poranei – effetto ricercato fin dalla concezione dell’affresco nel 1534 – e dell’impressione duratura che, per la collocazione, il rigore, l’unita di forme e di colore, il Giudizio provoca tuttora, dobbiamo evitare di identificare l’insieme dell’opera con «un singolo concetto», per quanto sublime sia, ma piuttosto radunare tutte le idee che essa suscita come potenzialità attive all’interno di un sistema formale senza precedenti. In altre parole, lo scopo dell’esegesi ci sembra non tanto quello di ricollocare l’impresa di Michelangelo in una cornice di cultura teologica o nella prospettiva di un variato dibattito religioso, ossessionato dal mito della escatologia, quanto di situarla nell’ordine della pittura ecclesiastica, a cui innanzi tutto appartiene. Dalle sue particolarità nasceranno le questioni effettive. Senza rompere con la formula convenzionale del Giudizio universale concepito come una facciata a registri sovrapposti, Michelangelo ha voluto, grazie a un immenso lavoro di selezione e di semplificazione, dare piena espressione al suo valore universale. Si può interpretare in questo senso l’effetto rotatorio prodotto dal contrapporsi di un movimento ascensionale a sinistra e discensionale a destra, mentre la gigantesca figura del Cristo serve come centro di questa rotazione. Non è necessario introdurre la nozione dell’eliocentrismo del cosmo per rendere conto di una disposizione così potente e così necessaria come questa; ma l’unità formale, la coerenza del disegno suggeriscono effettivamente l’esistenza di un sistema dietro questa immensa composizione, in cui ogni corpo è soggetto alla forza di gravità se sta tra i dannati, e si eleva grazie all’attrazione celeste se appartiene alla schiera degli eletti. Vi è un’opposizione fondamentale – come ha compreso molto bene C. de Tolnay82 – fra la tranquilla gravità del Cristo e la confusione generale degli esseri che lo circondano.
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L’altro elemento dominante, che non può essere misconosciuto, è la realtà della Chiesa, presente con una grande ricchezza di movimenti contrastanti nella larga fascia del secondo livello. La Madonna, arretrata dietro il Cristo, ne afferma la grandezza. I santi, ognuno portatore del proprio attributo o designati da gesti tradizionali, sono al loro posto di intercessori. Ma Michelangelo non era interessato a caratterizzarli con troppa esattezza. Quel che è poco abituale, è il tumulto degli eletti, che paiono perorare una causa, presentare il loro martirio come un pegno; tremano per loro stessi o per l’umanità peccatrice? Se si identificano le due figure negli angoli superiori con Adamo ed Eva, si tratta allora, in realtà, di un riferimento alla intera Chiesa trionfante e alla sua partecipazione all’ultimo atto della Salvezza. L’umanità, anche salvata, perde la propria sicurezza in presenza di Dio, nell’avvento prodigioso dell’Ultimo Giorno. Dobbiamo porre all’origine del tema dell’affresco un pensiero teologico più esplicito, come quello della giustificazione per la sola grazia83, o quello della negazione valdese dell’Inferno?84. Noi pensiamo di no. Da un canto, vi sono esempi di pietà: il rosario appare fra gli strumenti di salvezza, trattato meravigliosamente come una catena a cui si aggrappano le anime per salire al cielo. Gli emblemi dei santi sono evidenti. I culti particolari non sono rifiutati, sono solamente sottoposti a una grande semplificazione. Il culto di Maria, quello dei santi, appaiono ridotti all’essenziale senza particolari inutili, senza ristrettezza di vedute. L’effetto è tanto formale quanto spirituale. D’altro canto, l’Inferno esiste, i diavoli lo occupano, le anime vi precipitano, il peccato c’è. Non bisogna rimproverare a coloro che hanno scritto ancora sotto choc per la novità del Giudizio universale, di non avere colto l’essenziale, quando dicevano, come Condivi: «In quest’opera Michelangelo espresse
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tutto quel che d’un corpo humano può far l’arte della pittura»85, o come Vasari: «l’intenzione di questo uomo singulare non ha voluto entrare in dipignere altro, che la perfetta e proporzionatissima composizione del corpo humano et in diversissime attitudini»86. Per lo spettatore di oggi, come per quello del Cinquecento, l’originalità dell’opera sta nel fatto di avere abolito cornice, spazio, natura, a beneficio di raggruppamenti ora fitti, ora radi, il cui elemento unico e costante è il corpo nella sua nudità. Iniziativa possente, che merita di essere meditata. All’inizio del Cinquecento, presso i maestri fiorentini e romani, era diventato abituale comporre una «storia» religiosa con figure nude, disposte – da Leonardo o Raffaello, ad esempio – come manichini viventi di cui si abbozzavano le pose prima di ricoprirli dei drappeggi tradizionali. Michelangelo usava, nei suoi disegni, lo stesso metodo ed era diventato per lui naturale, quasi istintivo, comporre iniziando da figure nude, poiché, come Leonardo e più tardi Vasari, capiva che in esse si trovano «insieme gli affetti delle passioni e contentezze dell’animo». Il corpo umano esprime ogni cosa: è il codice universale dell’espressione. La decisione presa nel 1534 di ricoprire l’immensa «facciata» con una coreografia di nudi in una luce poco variata e senza armatura architettonica appariva manifestamente come un passo indietro rispetto al soffitto della cappella; l’importanza assunta dal Giudizio dopo vent’anni implica un rifiuto dell’opera giovanile. Nei drappeggi, nei raggruppamenti e soprattutto nei colori chiari, nel leggero rilievo, le preoccupazioni pittoriche sembrano essere state soppiantate dalle esigenze proprie allo scultore: il corpo umano è l’oggetto primordiale. Vi è una specie di rinuncia nel Giudizio universale: una severità che riflette il cupo stato d’animo dell’artista, con il suo umore vieppiù turbato e angosciato che
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lo riavvicina a Vittoria Colonna87. Proprio durante l’esecuzione dell’opera si sviluppano le sue preoccupazioni devozionali e hanno luogo i loro colloqui teologici a San Silvestro sul Monte Cavallo88 Questo fatto è stato spesso e opportunamente sottolineato per rendere conto del tetro colore del mondo terreno, dell’aspetto doloroso e teso della Chiesa celeste. Tuttavia, non è da trascurare un tratto singolare che saltò agli occhi della Curia e dei fedeli nell’autunno del 1541 e fu all’origine di una delle più violente e rivelatrici polemiche del secolo. «Non mancano persone per condannare l’opera, – scrisse il cardinale Ercole Gonzaga al suo corrispondente a Roma. – I padri Teatini sono i primi a dire che le figure nude, mostrando le parti intime, non si addicono a un tale luogo»89. L’aneddoto famoso e divertente del Maestro di cerimonia che viene a vedere l’opera con Paolo III e critica «come cosa disonestissima in un luogo tanto onorato avervi fatto tanti ignudi»90, deve coprire qualcosa di serio: un tentativo disperato dei teologi e dei prudenti membri della Curia per cercare di ottenere un minimo di decenza ed evitare lo scandalo. Perché scandalo vi fu, come attesta una serie monotona di critiche, dalla lettera piuttosto odiosa dell’Aretino nel 1545 al trattato antimichelangiolesco di Gilio nel 1564. Quando il Maestro di cerimonia disse incollerito che questa è «non opera di cappella di papa ma da stufe e d’osterie», non fece che riprendere le critiche formulate da Adriano VI, quindici anni prima, contro la volta della Sistina. Il papa riformatore detestava l’arte moderna e, in particolare, la Cappella Sistina, che per lui non era che «una stufa di ignudi»91. Per quanto provocante fosse la loro bellezza, i giovanetti nudi della volta non erano, in realtà, che una variante originale e poetica della formula tradizionale dei «putti» portaghirlande, che l’arte non aveva mai smesso di adoperare92.
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La «facciata» del Giudizio estende alla «storia» intera una concezione che, sebbene accettabile nelle parti ornamentali, era già stata spinta un po’ troppo oltre nella volta della Sistina. Se Michelangelo ha segnato una netta rottura con le ambizioni decorative e lo stile brillante della sua giovinezza, ha tuttavia conservato, e anche ampliato al massimo, il ricorso alla nudità. Per questo ha offeso tutti i critici93. È stato inflessibile e ha sostenuto che nessun altro genere di figurazione era possibile per rappresentare la resurrezione dei corpi. La nudità conferiva ai personaggi sacri un valore primordiale, estraneo alla storia in cui domina la bellezza. Non è necessario sottolineare che questo solo aspetto basta a tenere l’opera lontana da qualsiasi concezione ristretta e puritana della penitenza. Gli ultimi anni trascorsi nell’eseguire l’affresco furono quelli in cui Michelangelo secondo le conversazioni fedelmente registrate da un ammiratore portoghese94 – formulò in maniera definitiva i suoi concetti sull’arte e lo stile. Egli era assai cosciente dei problemi, ma il suo pensiero ultimo riguardo al corpo umano è esposto, con maggiore ingegnosità e forza di quanto non lo possa fare alcun testo, nel poema biblico della Sistina. Nel registro inferiore, le facce laide e stravolte dei diavoli e dei dannati mostrano la degenerazione del corpo nella bruttezza – segno della maledizione. Al di sopra del grande cerchio della Chiesa trionfante, alcuni angeli portano, volteggiando, le arma Christi, simboli della Salvezza. Questi angeli, senza ali, rappresentano la perfezione atletica e, per Michelangelo, armoniosa del corpo. Essi prolungano gli ignudi della volta: introducono il medesimo sfolgorio di bellezza in una composizione in cui questa sembrava non trovare posto, ma, questa volta, con una giustificazione tematica. La bellezza è il segno acuto e avvincente di una condizione superiore: «Ne altro saggio abbiam ne altri frutti del cielo in
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terra», aveva scritto Michelangelo verso il 1534-3595. È il momento in cui intraprendeva la «facciata»; ma aveva appena incontrato Tommaso Cavalieri e celebrava questo amico meraviglioso in poemi ardenti e in disegni grandiosi. Il ritorno di Michelangelo nel 1534 e il suo affresco ambizioso significavano una nuova svolta della vita artistica a Roma. Lo stile della «terribilità» richiedeva il monocromo azzurro e bruno e le forme pesanti alle quali si atteneva Sebastiano del Piombo. Ciò era in opposizione totale con la suavitas dello «stile clementino» e a questo riguardo si potrebbe parlare di una riforma artistica, o di uno stile in armonia con il nuovo tono della Curia. Ma mantenendo ad ogni costo, come privilegio dell’artista, come sua quidlibet audendi potestas96, la preminenza assoluta della nudità sacra, Michelangelo sosteneva qualcosa di essenziale, precisamente la fantasia dei toscani e le esigenze romane che, a partire dalla volta della Sistina, avevano nutrito l’arte «clementina». Senza inquadratura, la «facciata» di Michelangelo restava incredibilmente sobria quanto a elementi decorativi. È la prima opera importante dell’artista che non comporti alcun genere d’invenzione ornamentale. Ma c’è dell’altro. Aveva scoperto già Michelangelo nella cappella del papa la facciata del Giudizio, e vi mancava sotto a dipignere il basamento, dove si aveva ad appiccare una spalliera d’arazzi tessuta di seta e d’oro, come i panni che parano la cappella: onde avendo ordinato il papa che si mandasse a tessere in Fiandra, col consenso di Michelangelo fecero che Perino cominciò una tela dipinta della medesima grandezza, dentrovi femmine e putti e termini che tenevano festoni, molto vivi, con bizzarrissime fantasie, la quale rimase imperfetta in alcune stanze di Belvedere dopo la morte sua: opera certo degna di lui e dell’ornamento di si divina pittura97.
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Un disegno al British Museum, che fece parte delle collezioni di Rubens e che l’artista ha ritoccato qua e là, da un’idea di questo programma98. Questo progetto, che non si concluse, fornisce almeno qualche nozione dello stile della «terribilità» nell’ornamento, indispensabile, a nostro giudizio, per apprezzare la portata dell’opera di Michelangelo. Era forse l’ultimo tentativo del pontefice di fare iscrivere il suo stemma nella cappella, perché Michelangelo non aveva voluto che le armi del Farnese comparissero in quella composizione, che, tutto sommato, non gli doveva nulla, per lo meno quanto alla concezione99. Paolo si sarebbe rifatto con la Cappella Paolina, di cui diede l’ordine all’artista nel 1541.
L’imperatore a Roma. Gli sforzi di Clemente VII per sfruttare le sciagure del sacco e il suo ingombrante ricordo al fine di correggerne gli effetti, erano riusciti solo in parte. Aveva negoziato con l’imperatore senza perdere la faccia, ma nessuno si faceva illusioni, come prova la relazione dell’ambasciatore di Venezia, Antonio Soriano, nel luglio del 1535100. Clemente è menzionato a proposito della sua paura del Concilio: «rappresentandosi il Concilio come pericolosissimo alle cose sue», e del suo pietoso smacco: «essendo seguito il sacco infelice di Roma, tanto dannoso e di tanta vergogna di sua Santità e di quella sede...» Segue una tipica digressione sul matrimonio dei bastardi (la figlia dell’imperatore e Alessandro de’ Medici), che Clemente (lui stesso sospettato di bastardaggine), era stato costretto ad accettare nel 1530. Non aveva compiuto alcun passo avanti dalla parte dei riformatori. La guerra dei libelli e delle stampe era più feroce che mai. Il problema del Concilio restava irrisolto. Quando
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nell’ottobre del 1534 il papa morì, fu sostituito con una premura e un’unanimità insolite. Il cardinale Farnese, che aveva sempre appoggiato Clemente e aveva tratto tutte le lezioni possibili dai drammatici avvenimenti, appariva come il solo pontefice adatto a rivitalizzare Roma e la Chiesa101. La sua azione fu precisa e di grande portata sia sul piano locale sia su quello diplomatico. Non ce ne rendiamo conto se consideriamo Paolo III soltanto come «l’ultimo papa del Rinascimento», un principe della Chiesa destinato ad assicurare il trapasso con l’età del Concilio. La maggior parte delle sue iniziative furono dettate dagli errori, le sconfitte, le manchevolezze del suo predecessore, ed erano dirette a restituire al seggio pontificio la dignità e il prestigio perduti102. La preoccupazione fondamentale di questo pontificato sarebbe stata, e non poteva essere altrimenti, solo quella di cancellare le ultime tracce e perfino qualsiasi ricordo dell’umiliazione del 1527. Le due idee congiunte della riconciliazione dei principi cristiani e della preparazione del Concilio, diedero al pontificato Farnese una fisionomia assai particolare; la politica di Paolo III ebbe una duttilità e al tempo stesso una coerenza notevoli. Non era più in potere della Santa Sede trasformare d’un tratto la situazione. Egli riuscì, per lo meno, a modificarla alquanto grazie a quelle operazioni spettacolari – simboli più che portatori di veri risultati – quali i tempi richiedevano. La tregua di Nizza del giugno 1538, significava la pace delle armi, la missione di Caetano in Germania e la sua disputatio con Lutero volevano ricercare la fine della guerra di religione a qualsiasi prezzo. A Roma stessa, si seppe molto presto che ci sarebbe stata una politica attiva di rinnovamento urbano. C’erano rovine dappertutto, a cominciare dalle mura aureliane e dai recinti del Belvedere, attraverso i quali passavano i lupi103. L’incoronazione di Paolo III ebbe
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luogo il 3 novembre 1534 con grande pompa. L’anno seguente fu rimesso in vigore il carnevale; il tempo del lutto era terminato. Fin dal novembre 1534 veniva nominato un commissario alle antichità: suo compito era proteggere, o per lo meno tentare di sorvegliare le rovine antiche, frenare gli scavi clandestini e lo sfruttamento incontrollato che avevano trasformato il Colosseo e il Foro in cave di pietra. La scelta di Latino Giovenale Manetti, segretario particolare del papa, umanista e archeologo, era significativa. Si riesumavano così tutte le dotte preoccupazioni dell’età clementina. Il breve di nomina è chiaro: «Non senza un profondo dolore abbiamo veduto i venerabili monumenti dell’arte dei Romani abbattuti, distrutti, dispersi dai Goti, dai Vandali e da tutti i Barbari, dai danni del tempo e anche dalla nostra stessa negligenza e cupidigia»104. Tutti capivano l’allusione ai saccheggi dei barbari e alle cattive abitudini dei moderni. La nozione di un patrimonio romano assumeva d’un tratto un significato più completo. Il corso della politica portò tuttavia a una conseguenza inattesa: la sistemazione del Foro e la ripresa di una processione trionfale attraverso la città in onore di Carlo V. Dopo l’incontro di Bologna e l’incoronazione dell’imperatore nel febbraio 153o, questa visita era inevitabile. Entrare a Roma ed esservi accolto dal papa era per Carlo il modo ideale per consumare apertamente la sua vittoria e, al tempo stesso, sostituire all’invasione tutto sommato un po’ imbarazzante del 1527 un «trionfo» in buona e dovuta forma. La campagna di Tunisi nel 1535 e la vittoria, impossibile a contestarsi, sugli infedeli, fornivano l’occasione attesa, tanto più che egli doveva risalire la penisola per ritornare negli Stati degli Asburgo. Si consolidavano gli anelli della catena che rinserravano l’Italia invitando ogni città e ogni principe a manifestare la propria gioia di accoglie-
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re l’imperatore. Il dominio spagnolo era adesso così ben radicato che Carlo raggiunse facilmente il suo scopo105. A Roma l’operazione era piuttosto delicata. Il ricordo del sacco era rimasto così forte, che si credette prudente porre in stato di allarme Castel Sant’Angelo. Una parte della popolazione si senti assai a disagio da questi preparativi. Rabelais scrisse, certo mezzo per burla: «il papa ha fatto apprestare tre mila letti alla romana, ossia delle materassa, perché la città ne è sprovvista dal sacco dei lanzichenecchi»106. I francesi (compreso Rabelais)107 e gli ambasciatori degli stati antiimperiali abbandonarono la città in segno di protesta contro le demolizioni abusive alle quali si era messo mano fin da gennaio per creare una strada di Parata attraverso la zona archeologica. Un elenco degli edifici e delle chiesette distrutte in quell’occasione, conservato in un manoscritto al Vaticano, giustifica in gran parte l’indignazione di Rabelais108. Ma più interessanti sono i particolari: la piccola cappella di San Lorenzo degli Speziali al Foro fu eliminata «perché si vedessero le colonne di Antonino e Faustina»; altri edifici subirono la stessa sorte «per ingrandire la piazza davanti a palazzo Carafa». Questa operazione del tutto occasionale anticipava di mezzo secolo i lavori urbanistici eseguiti sotto Sisto V, che hanno aperto viali e creato pubbliche piazze e usato i grandi edifici come punti focali di prospettive. Quella era una vera novità. Un comitato per i festeggiamenti, presieduto dal Sangallo, regolava i preparativi per il corteo trionfale. Le sue decisioni indicarono una tendenza che in seguito portò a numerosi abbattimenti metodici sotto Paolo III, in particolare a quelli che consentirono di aprire una prospettiva assiale su Palazzo Farnese, incorniciato da una piazza regolare109. Il Colle Capitolino era in abbandono. Fu deciso di trasportarvi la statua di Marco Aurelio del Laterano per riaffermare in tal modo che era per tradizione il centro municipale110.
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Doveva essere stata prevista una sistemazione monumentale, poiché Michelangelo, che per il momento non voleva sentirne parlare, promise di occuparsene in seguito. E questo doveva portare al meraviglioso ordinamento che tutti conosciamo111. L’ingresso dell’imperatore ebbe luogo il 5 aprile 1536. Per il protocollo del cerimoniale, Paolo III si ispirò al precedente più vicino, l’ingresso dell’imperatore Federico III sotto Paolo II (1° gennaio 1469). Se ne conoscono i particolari attraverso le numerose relazioni diplomatiche, una cronaca, e due libretti – sfortunatamente non illustrati –, pubblicati in francese ad Anversa e in italiano a Roma112. Una parte delle «storie» dipinte fu affidata a Salviati, un’altra alla bottega di un Martino Tedesco, che si è creduto, un tempo, di poter identificare con Heemskerck113. Si hanno maggiori informazioni sulle trovate del programma che sulle reazioni dei romani, le quali furono, a dir molto, disparate. Un vecchio poeta, Tebaldeo, che non aveva dimenticato il 1527, chiuse le imposte della sua abitazione, che si trovava sul passaggio del corteo, e trattò l’imperatore da criminale114. Ma non vi furono, a quanto pare, manifestazioni ostili. In occasione della venuta del suo vincitore, Roma ritrovava l’antico splendore ed esibiva il suo scenario monumentale e le sue antichità. L’itinerario comportava dapprima un giro attraverso la città antica, che, cominciando a Porta Capena (San Sebastiano), attraversava tutti gli archi famosi: Costantino, Tito, Settimio Severo, per terminare, dopo l’attraversamento del foro, a Palazzo San Marco. Battista Franco aveva collocato, ai lati della Porta San Sebastiano, le statue del Cristo e di San Pietro (questa «rassomigliava all’immagine di san Pietro che sta sul ponte») evocando la scena del «quo vadis?»115. Alla sommità della porta, fra Numa Pompilio e Tullio Ostilio, «Quirinus pater» teneva nella destra la tiara, al di sopra dello
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stemma pontificio, e nella sinistra la corona, al di sopra dello stemma imperiale. Già dall’inizio, Roma si presentava contemporaneamente come la città del Cristo e di Pietro, e insieme l’erede della Roma antica, regia e imperiale. L’iscrizione: «Carolo V Rom. Imp. semer Augusto, tertio Africano» era illustrata nella decorazione delle due torri, in cui si vedevano i trionfi dei due Scipioni, il vincitore di Annibale e il distruttore di Cartagine116. La vittoria d’Africa, che faceva di Carlo un altro Scipione, veniva a collocarsi nella gloriosa storia di Roma. Per l’occasione, un quarto arco «quasi abbastanza simile all’arco di trionfo di Costantino, era stato aggiunto ai tre grandi archi antichi». Innalzato da Antonio da Sangallo in Piazza San Marco, era dedicato a «Carolo. V. Augustus a Deo coronato, magno, pacifico, Romano Imperatori». Sulle due facciate erano otto riquadri monocromi. Alcuni rappresentavano le battaglie di Tunisi e della Goletta e un combattimento di cavalleria contro i turchi; gli altri mostravano Carlo che restituisce al re di Tunisi la corona, libera i prigionieri cristiani, e lascia la città con i suoi prigionieri di guerra turchi. La decorazione era completata da statue: sopra a ognuna delle quattro coppie di colonne d’argento con capitelli dorati stavano dei prigionieri incatenati, e fra le colonne gli imperatori Massimiliano, Federico, Alberto e Rodolfo. Ma Roma, rappresentata come una dea vittoriosa circondata da trofei, sormontava l’intera costruzione. Lasciata Piazza San Marco, il corteo doveva imboccare la Via Papalis fino al Castel Sant’Angelo. Alla vecchia Cancelleria, accanto al quadro vivente che raffigurava il suicidio di Cleopatra, ce n’era un altro con il suicidio di Lucrezia Romana – esempio di virtù romana imitato, dicevano, nel 1527117. Otto statue (Evangelisti e Dottori) furono allineate sul Ponte Sant’Angelo da Raffaello di Montelupo dietro le effigi di Pietro e di Paolo118. Finalmente, attra-
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verso il Borgo «coperto d’arazzeri a guisa del giorno del Corpus domini», la sfilata giungeva a San Pietro. A partire di lì, l’accento poggiava non più sul trionfo militare, ma su quello della Chiesa e della fede cristiana. La prima porta era trasformata in arco trionfale con la scritta: «Carolo. V. Imperatori semper Augusto Christianae R. P. propagatori». Due quadri viventi vi rappresentavano san Paolo, convertito, che si metteva alla ricerca di san Pietro, e san Clemente convertito da san Barnaba119. Al di sopra del cornicione, san Pietro era in piedi fra due Vittorie. Finalmente, alla porta del Vaticano dedicata a «Carolo. V. Augusto mahometanorum Pavori, pallorique», lo stemma del papa figurava in mezzo alle quattro Virtù cardinali e la porta era inquadrata dalle statue di Cesare Augusto e di Costantino. La retorica umanistica si era così impegnata a fondo per celebrare l’imperatore. Pallido, lento e avaro di parole, la sua dignità, il suo nobile portamento impressionarono il popolo romano, sempre sensibile alle apparenze. La grandiosa sfilata, ordinata come una processione, si concludeva con una parata di truppe destinata a mettere bene in vista l’onnipotenza imperiale. Ma tutta la cerimonia era stata abilmente organizzata in modo che davanti al Colosseo, ai piedi del Campidoglio, l’erede degli imperatori capisse che una storia millenaria lo dominava. A ogni passo Roma si presentava attraverso i suoi eroi e i suoi simboli come la capitale dei Cesari latini e la città della Chiesa. Non era più nello stile ingenuo delle xilografie per pellegrini, ma nel linguaggio sofisticato e colto dello scenario trionfale che si celebrava la duplice grandezza romana. Il discorso sottile ma preciso degli umanisti di Paolo III, eredi dei «ciceroniani» di Leone X, consentiva di insinuare un ammonimento politico nella parata militare. L’atroce sacco sembrava dimenticato, cancellato. Al Ponte Sant’Angelo i cannoni tuonarono «come se l’u-
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niverso sprofondasse», dice la cronaca. Non avevano sparato da nove anni, dal giorno in cui il cardinale Alessandro Farnese stava accanto a Clemente in lacrime sotto la protezione dell’artiglieria di Cellini. Il papa ora aspettava seduto all’ingresso di San Pietro, vestito del piviale e della tiara. Carlo, in abito semplice, di un violetto omogeneo che ne accentuava il pallore, si accostò, si genuflesse una poi due volte, e baciò il piede del pontefice, «etiam aliquantum retrahentis pedem», dice il cronista romano. Poi il papa gli prese la mano, l’abbracciò e lo introdusse nella basilica. Veniva ripreso il rito seguito per Costantino da Silvestro. La Curia vi annetteva grandissima importanza poiché si riaffermava così il primato dell’autorità spirituale. Si trascorse una settimana in passeggiate archeologiche, colloqui politici, dichiarazioni antifrancesi, attestazioni di fedeltà alla Chiesa. La domenica 16 aprile, il giorno di Pasqua, l’imperatore ricevette l’incenso, dopo il papa, all’Offertorio. Terminata la funzione, il papa e l’imperatore si recarono in uno spazio all’interno della basilica, sempre chiuso da un coro provvisorio – dove era stato eretto un baldacchino. La ebbe luogo in loro onore l’ostensione delle grandi reliquie ritrovate: il ferro della lancia e il Vultus Sanctus. La visita di Carlo assumeva il valore di un pellegrinaggio. Tutto aveva ritrovato il proprio posto, in un certo qual modo, e anche la storia. Così, attraverso il cerimoniale, le scene simboliche venivano di nuovo rappresentate. La Chiesa riaffermava la propria autorità. Roma riconquistava il proprio prestigio antico e cristiano insieme, culturale e devozionale. La cerimonia, che celebrava la vittoria della Chiesa sugli infedeli e sugli eretici, discolpava definitivamente Carlo della responsabilità del sacco e lo collocava nella linea dei grandi imperatori. L’evento non fu celebrato da stampe o da poesie di circostanza.
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Sussisteva un cerio riserbo. Tutto lo sforzo degli artisti era stato concentrato sulle decorazioni e sugli archi. Come diceva un epigramma: «Omnia nunc merito cedant miracula Romae: | Qui Paulus priscum, reddidit omne decus»120. Quello di cui si intendeva serbare il ricordo fu espresso, al modo romano, con una decorazione di facciata. Sul Palazzo Crivelli, costruito due anni più tardi a Via Giulia con una decorazione sfarzosa a fasce e pannelli, vennero collocati al di sopra di due finestre due bassorilievi, raffiguranti l’uno Carlo V che bacia il piede di Paolo III, l’altro l’abboccamento di Nizza121. Un pageant francese in onore di Wolsey, dell’estate 1527, fu la prima raffigurazione del sacco di Roma. Un altro pageant, esclusivamente romano, ha concluso nella primavera del 1536 il penoso episodio politico e militare aperto fin dal tempo di Pavia e della Lega di Cognac – dieci anni di violenze e di confusione in Italia. All’arrivo delle bande cenciose e litigiose del conestabile di Borbone si contrappose la sfilata impeccabile di quattromila fanti imperiali in ranghi di sette, seguiti da cinquecento cavalieri, dai Grandi di Spagna, dai cardinali e dalla guardia cesarea. Alla figura di Carlo di Borbone morente, ferito da un colpo di balestra nella grigia alba del 7 maggio 1527, si contrappose la sottile silhouette dell’imperatore su di un cavallo bianco. Se possiamo stabilire questa equivalenza, lo dobbiamo al fatto che la storia passa sempre attraverso rappresentazioni del genere – nel duplice significato di simbolo e di spettacolo; il loro susseguirsi ne costituisce appunto l’essenza.
Secondo sanuto, Diarii cit., XLVI, p. 645. Citato da hook, The Sack ol Rome cit., p. 239. 2 sanuto, Diarii cit., XLIX, p. 134. Citato da hook, The Sack of Rome cit., pp. 241-242. 1
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 hook, The Sack of Rome cit., p. 245. d . gnoli, Il Sacco di Roma e la peste, in «Nuova Antologia», II serie, 26 (1880), 15 dicembre, pp. 746 sgg. 5 Citato da von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte II, libro III, p. 323. 6 Cfr. cap. iv. 7 Lettera di Iano Calvo Salimbeni alla Balia di Siena, datata da Viterbo, il 4 ottobre 1528, a proposito del ritorno di Clemente a Roma: «... Così intendano V. S. ill.me che a li sei [maggio] fu presa Roma, a li sei [giugno] si arrese il castello, alli sei [dicembre] si partì verso Orvieto, et alli sei [ottobre 1528] vol far la tornata. Cosa che mi è parsa degna di annotazione». Pubblicata da c. p. falletti-fossati, Clemente VII e l’impresa di Siena, il Sacco di Roma, l’assedio di Napoli, Siena 1879. 8 Cfr. cap. iii. 9 Il Giornale di Biagio da Cesena (Blasius de Martinellis) menziona l’ostensione del Volto Santo per la settimana santa del 1533. Cfr. chastel, La Véronique cit., p. 78 e nota 38. 10 Cfr. cap. iv. 11 m. dell’arco, Pasquino e le Pasquinate, Milano 1957, p. 108. 12 hook, The Sack of Rome dt., pp. 245-46. 13 c. roth, The Last Florentine Republic. 1527-1530, London 1925, p. 133. 14 Dopo la sconfitta di Gavinana (vicino a Pistoia), il 3 agosto 1530, che vide la morte di Ferruccio, il migliore sostegno della causa fiorentina, e nello stesso tempo quella del principe d’Orange, «i Fiorentini – scrisse il Guicciardini – rimanevano senza risorse; la carestia produceva sofferenze terribili senza speranza di alleviarle, una situazione che, invece di indebolire l’ostinatezza di una parte 1 dei cittadini, serviva solo a rafforzarla: questa gente disperata sognava unicamente di sacrificarsi e far perire con loro la nazione. Non si trattava più di salvarla al prezzo della loro vita o di quella di altri concittadini, ma solo di far sì che le sue rovine fossero la loro tomba» [questo passo corrisponde a L. XX, p. 143, dell’ediz. della Storia d’Italia, Pisa 1824]. g. parenti, Prime ricerche sulla rivoluzione dei prezzi in Firenze, Firenze 1939, ha sottolineato l’effetto che ebbero gli avvenimenti del 1530 sulla vita economica di Firenze. * [«Il Sette è inferiore al Cinque, chi lo crederebbe? Il Cinque ha l’impero, il Sette l’esilio»]. 15 Questo visitatore, al quale né l’imperatore né soprattutto il papa annetterono sufficiente importanza, fu il padre di Anna Bolena diventato conte di Wiltshire. Intervenne a nome di Enrico VIII per ottenere un accordo politico e il famoso divorzio chiesto dal re. Egli fu congedato. Wolsey doveva morire sul finire del 1530; la mediazione che 3 4
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 aveva sognato durante l’estate del 1527 (cfr. cap. i) non aveva più senso. La Spagna dominava l’Italia e l’Inghilterra lasciava, con Enrico VIII, la chiesa romana. Le preoccupazioni di Enrico VIII riguardo al suo divorzio non smisero di manifestarsi durante tutto il periodo: s. ehses, Römische Dokumente zur Geschichte der Ehescheidung Heinrichs VIII. von England. 1327-1534, in Quellen und Forschungen aus dem Gebiete der Geschichte, Paderborn 1893. 16 Un certo numero di manifestazioni artistiche portano la traccia di questa «liberazione» di Firenze e del suo ritorno alla «repubblica cristiana». Un mottetto, Florentia tempus est penitentiae, dovuto a C. Festa, riprende l’appello «piagnone» alla penitenza, concludendo con una supplica: «Clemens peccavi, miserere mei», che sembra veramente preparare un accordo con il papa. Cfr. «Journal of American Musicological Society», 3 (1950). Un retroscena politico preciso è stato messo in luce da j. f. o’gorman, An Interpretation of Andrea del Sarto’s Borgherini Holy Family, in «Art Bulletin», 47 (1965), pp. 502-4, nella pala d’altare dipinta per Giovanni Borgherini, che apparteneva all’opposizione antimedicea e fece parte con Niccolò Capponi del gruppo di aristocratici che presero il potere dopo l’espulsione del maggio 1527. Questa notizia è stata recentemente completata e leggermente sfumata da f. gilbert, Andrea del Sarto «Heilige Familie Borgherini» und florentinische Politik, in Festschrift für Otto von Simson zum 65. Geburtstag a cura di L. Grisebach e K. Renger, Frankfurt 1977, pp. 284-88. La composizione è posteriore al febbraio 1528, quando il Cristo fu proclamato «Rex populi florentini» (il che non implica una teocrazia, ma il ritorno alla libertà repubblicana, sottolineato dal fatto che il globo è sorretto dal Giovannino fiorentino, che lo presenta al Bambino Gesù); essa è anteriore all’aprile 1529, che vide l’eliminazione del gonfaloniere Capponi. 17 Sull’ingresso a Bologna e le pubblicazioni che lo illustrano, cfr. in Fétes et cérémonies au temps de Charles-Quint cit.; v. terlinder, La politique italienne de Charles-Quint et le «triomphe» de Bologne, pp. 29 sgg.; j. jacquot (a cura di), Panorama des fêtes et cérémonies du règne. Entrée et couronnement de Bologne... 1 pp. 43 sgg., con bibliografia. Lo studio di g. giordani, Cronaca della venuta e dimora a Bologna del Sommo Pontefice Clemente VII per la coronazione di Carlo V imperatore, Bologna 1842, contiene la documentazione completa sui preparativi della città di Bologna e le modalità dell’incoronazione. 18 GIORDANI, Cronaca cit.: «tutte cose essendo a similitudine della Basilica Vaticana». 19 Stanza di Costantino. Cfr. cap. ii. 20 N. Hogenberg: 40 tavole, rist. da W. S. Maxwell, Edinburgh 1875. R. Péril: 16 tavole, unico esemplare completo conservato all’Albertina, Vienna. Testo dell’iscrizione nella serie di R. Péril: «Carolus
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 ille ego sum quintus hoc nomine Caesar. Natus ad Imperium Romana ut sceptra tenerem. Est animus fessas mutasque reponere leges jura tribunorum fasces priscosque Quirite Patricios revocare reducere pacem antiquam correcta morum omnia in servato tramite legibus et veterum jurisque vetusti consiliis armisque meis frenare superbos oppressos relevare manu primevo Capitolia prisca nitori viros sanctumque senatum reddere». 21 jacquot, Panorama cit., p. 425. 22 geisberg, Die Reformation cit., III (1930), tav. 139; g. stuhbfauth, Dreizeitgeschichtlichen Flugblättern des Hans Sachs mit Handschriften des Georg Pencz, in «Zeitschrift für Bücherfreunde», 10 (1918-19), pp. 237 sgg. 23 sanuto, Diarii cit., XLVII, col. 349. Cfr. anche XLV, coll. 488-89; una lettera di Alvise Lippomani al vescovo di Bergamo, datata da Orvieto il 7 gennaio 1528, indica che il tenore di vita della corte pontificia a Orvieto era simile a quello dei primi tempi della Chiesa. 24 [Uno dei tre tribunali curiali, costituiti da dieci Prelati (auditores), che svolgevano le funzioni proprie della corte d’appello]. 25 In schard, Historicum opus cit., pp. 1858 sgg. 26 sanuto, Diarii cit., XLVIII (1528), 6 luglio, col. 226. Svetonio riferisce che Cesare ebbe la stessa reazione dopo il massacro del distaccamento di Titurio (Cesare, 67). Cfr. r. reynolds, Beards, an Omnium Gatherum, London 1950, e l’articolo di zucker, Raphael and tbe Beard of Pope Julius II cit. 27 Nella Cena di San Gregorio destinata a San Michele in Bosco. p. barocchi, Vasari pittore, Milano 1964, p. 17 e tav. v (pp. 114-15). 28 È stato identificato, nella Stanza di Costantino, il ritratto di Clemente imberbe nell’effigie di San Leone 1 (o Clemente 1) fra Innocentia e Veritas a destra del Battesimo. A sinistra di questa stessa scena, fra Pax e Prudentia, quello di Urbano 1 (o Evaristo) sarebbe il ritratto di Clemente barbuto. Cfr. fischel, I ritratti di Clemente VII nella sala di Costantino in Vaticano cit., pp. 923 sgg. Se è davvero così, l’inserzione simmetrica in questa sala, al posto del ritratto precedente, è significativa. 29 reynolds, Beards cit. 30 zucker, Raphael and the Beard of Pope Jutius II cit., pp. 524 sgg. Noi accettiamo la linea generale di questo studio eccellente, di cui il «Poscritto» nei riguardi di Clemente VII ha soltanto bisogno di essere completato e sfumato. 31 In una lettera del 1518, Bembo scrive: «Ho buon viso et sommi levato la barba che era assai lunga». Sembra che sia rimasto fino al 1536, quando il suo ritorno alla barba lunga fu notato da B. Cellini in una lettera citata da Bottari e ticozzi, Raccolta cit., vol. I, p. 14. Fu il suo aspetto definitivo, ben noto dai ritratti di Tiziano, dal mosaico
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 degli Zuccati, ecc. Cfr. g. coggiola, Per l’iconografia di Pietro Bembo, in «Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 74 (1914), pp. 473 sgg. 32 e. rodocanachi, Les Ponfificats d’Adrien VI et de Clément VII, Paris 1933, p. 57. 33 hook, The Sack of Rome cit., p. 240. In uno dei suoi poemi umoristici, Berni rimpiange che Domenico d’Ancona, il quale ha sacrificato la sua bella barba su richiesta di Giberti, non si sia fatto piuttosto tagliare la testa per esporla degnamente: «Almen. gli avessi tu tagliato il collo | più tosto che guastar si bella cosa; | che si saria potuto imbalsamare, | e fra le cose rare | poner sopra ad un uscio in prospettiva | per mantener l’imagine sua diva» (berni, Poesie e prose cit). 34 pierio valeriano bolzani, Pro sacerdotum barbis, Roma 1531. (L’esemplare consultato è stato quello della Biblioteca dei Congresso a Washington). 35 Da parte dei Riformati, ci furono anche problemi di toeletta del clero. In Die Gantz Bibel, presso Köppel, Basel 1530, fol. lxiiv, l’incisione, forse dovuta a Vogtherr il vecchio, illustra la tonsura dei preti, che è da respingere, in contrasto con la raccomandazione del testo biblico in favore della barba: «Er soll auch kein blatten machen auf seinem Haupt noch seinen Bart abscheren...» (questo riferimento è dovuto alla cortesia di Jean Wirth). 36 vasari, Le vite cit., VII, p. 44. 37 e. martinori, Annali della Zecca di Roma: Clemente VII (1523-1534), in «Atti e Memorie dell’Istituto Italiano di Numismatica», vol. 3, Roma 1917. 38 e. camesasca, Tutta l’opera del Cellini, Milano, 1955, n. 2 D; ed e. e. plon, Benvenuto Cellini, Paris 1883, p. 196 sgg. I due pezzi sono descritti separatamente nel Trattato d’oreficeria. Gli eserghi del rovescio «Pro eo ut me diligerent: Ecce Homo. Roma» (martinori, Annali della Zecca di Roma cit., n. 6); «Ut omnis terra adoret te» (n. 7). 39 camesasca, Tutta l’opera del Cellini cit., n. 2 A e B. 40 bonannus, Numismata Pontificum Romanorum cit., vol. I, pp. 184 sgg., n. xi. 41 Ibid., nn. xvii e xv, testo p. 196. 42 Ibid., n. ix, testo p. 192. Secondo rodocanachi, Le Cháteau Saint-Ange cit., p. 138, la medaglia sarebbe esistita in tre tipi; il modello riprodotto da Bonannus sarebbe quindi apocrifo. 43 Con lo stesso spirito, l’iniziativa di costruire un pozzo profondo a doppia rampa (per il passaggio dei cavalli) al fine di assicurare l’approvvigionamento della città di Orvieto nel 1527-28, fu commemorata con la medaglia di Mosè che colpisce la roccia (Esodo 17,6): bonannus, Numismata Pontificum Romanorum cit., n. X, p. 192. 44 vasari, Le vite cit., VI, p. 153.
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 borgatti, Castel Sant’Angelo in Roma cit., pp. 165 sgg. La storia dell’angelo dell’incoronazione è piuttosto complicata: a ricordo della processione votiva e del prodigio sopravvenuto al tempo di Gregorio Magno, Nicola III fece collocare sulla cima un angelo, che da allora si vede raffigurato sulle miniature e sui quadri; questa figura fu distrutta nel 1379 durante certi torbidi di Roma; Nicola V si adoperò a restaurare il Castel Sant’Angelo e nel 1453 è terminato «l’Agniolo nuovo messo in chastello» (secondo il documento del pagamento), di marmo, o, più probabilmente, di legno con ali di bronzo. Il 29 ottobre 1497, il fulmine provocò l’esplosione di una polveriera che distrusse «la statua dorata dell’angelo tenente la spada fuori del fodero». 46 b. fontana, Documenti vaticani contro l’eresia luterana in Italia, in «Archivio della Reale Società Romana di Storia Patria», 15 (392), pp. 71 sgg. 47 Louvre, Inv. 92. 48 vasari, Le vite cit., IV, p. 226. Sostituita dal bronzo, ancora visibile, di Giardoni. 49 Cfr. j. a. gere, Two Late Fresco Cycles by Perino del Vaga: the Massimi Chapel and the Sala Paolina, in «The Burlington Magazine», 102 (1960), pp. 8-19. 50 Cfr. a. chastel, Two Roman Statues: Saint Peter and Paul, in Collaboration in Italian Renaissance Art, a cura di Sheard e Paoletti, New Haven 1978, pp. 59-63. 51 Un fatto di cronaca drammatico del giubileo del 1450 è, fra gli altri, riferito da un cronista, Andrea Fulvio: «La grande folla ritornava dall’aver visitato il Sudario, essendosi imbattuta in una mula e non potendo indietreggiare né dall’una né dall’altra parte per quelli che dietro incalzavano, molti furono schiacciati sotto le zampe de’ cavalli e sotto i piedi della folla stessa, molti altri caduti dai lati annegarono». In seguito a ciò il pontefice Nicola V fece erigere le due cappellette all’ingresso orientale del ponte, l’una edificata a Santa Maria Maddalena, l’altra ai Santi Innocenti. Cfr. borgatti, Castel Sant’Angelo in Roma cit., pp. 167 sgg. 52 vasari, Le vite cit., IV, p. 580. 53 e. mâle, Les Apôtres Pierre et Paul, in «Revue des Deux Mondes», 15 luglio e 1° agosto 1955. Su questa duplice devozione fondamentale: c. pietri, Roma christiana. Recherches sur l’église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie, de Miltiade à Sixte III (311-440), Roma 1976, cap. xviii: Iam regnant duo apostolorum principes. 54 vasari, Le vite cit., 11, p. 649- Secondo v. golzio e g. zander, L’arte in Roma nel secolo XV, Roma 1968, pp. 338 e 435, il San Paolo di Paolo (Taccone) Romano (1463-64) doveva essere stato collocato in Cima alla scala della basilica vaticana. 55 torrigio, Le sacre grotte vaticane cit., p. 385. L’autore aggiunge: 45
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 «Haec duo sacella visuntur depicta in templo sanctissimae Trinitatis in Monte Pincio». Tratteremo un po’ più avanti di questo affresco della Trinità dei Monti. 56 La ricostruzione del ponte che conduce al mausoleo, il futuro Ponte Sant’Angelo, è degna di attenzione, anticipa le due serie di quattro statue che verranno innalzate nel 1536 per l’ingresso di Carlo V, e saranno esse stesse un punto di riferimento per il futuro progetto del Bernini (m. s. weil, The History and Decoration of Ponte Sant’Angelo, University Park [Pa.] 1974, pp. 90 sgg.). 57 f. spada, Alcune mie congetture intorno ad una iscrizione monumentale di Pietro Bembo quale essa leggesi sotto la statua di San Paolo nella faccia posteriore del suo piedestallo al Ponte Sant’Angelo in Roma, Roma 1886; cfr. c. d’onofrio, Il Tevere a Roma, Roma 1968. 58 Abbiamo pubblicato una parte di queste osservazioni sotto il titolo La cappella di San Michele alla Trinità dei Monti, negli «Atti» del colloquio sulle pie fondazioni francesi, tenuto a Roma nel maggio 1978, Roma 1981. 59 Questo si spiega chiaramente con ciò che segue. Il testo è un’aggiunta del 1568 (VII, p. 204). Cfr. p. barocchi, Giorgio Vasari, in La vita di Micbelangelo nelle due redazioni del 1550 e del 1568, Milano 1.962, VOI. III, p. II. 60 c. de tolnay, Michelangelo, vol. V: The Final Period, Princeton 1960, p. 103, fig. 133; h. thode, Michelangelo. Kritische Untersuchungen ∆über seine Werke, vol. II, Berlin 1913, p. 75, ha suggerito che la straordinaria composizione di Rubens (Monaco) sul tema deve probabilmente qualcosa a Michelangelo. 61 In particolare Gaspare Celio nel 1638, menzionato da de tolnay, Michelangelo cit., fig. 17; e da f. titi, Descrizione delle pitture, sculture e architetture di Roma, Roma 1763, p. 377. Sono vivamente grato a Isabella Balsamo delle indicazioni che mi ha cortesemente fornito al riguardo. 62 vasari, Le vite cit., V, p. 213. 63 Ibid., pp. 601-2. Cfr. lo studio fondamentale di brugnoli, Gli affrescbi di Perin del Vaga nella Cappella Pucci cit., pp. 327 sgg. (per la datazione, p. 328). 64 Cfr. cap. iii e lo studio di pecchiai, Roma nel Cinquecento cit. 65 Si noterà il lapsus caratteristico di f. titi, in Nuovo studio di pittura, scultura ed architettura nelle chiese di Roma, Roma 1721, p. 397: «Nella croce della chiesa vi sono molte pitture nella volta e da per tutto, e fra l’altro il Giudizio e benche sia mal condotto, vi si vede non so ché di terribile e vario nell’attitudine e grupi di queli ignudi, il tutto condotto da un siciliano, che serviva Michel’angelo Buonarota; ed è uno de’ disegni che fu. fatto per il Giudizio da dipingersi nel Vaticano». Non si tratta evidentemente del Giudizio ma della Caduta degli angeli ribelli, confusi in una stessa definizione della «terribilità».
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 La leggenda di san Michele è riferita con tutti questi episodi nella Leggenda aurea alla data del 29 settembre. Cfr. o. rojdestvensky, Le culte de saint Michel et le Moyen-Age latin, Paris 1922. 67 Si tratta della seconda versione del tema, al Carmine di Siena. Si è d’accordo oggi nel datare la pala del Carmine intorno al 1528, dati i suoi legami stilistici con la pala Saraceni del 1528 (d. sanminiatelli, Domenico Beccalumi, Milano 1967, n. 43, pp. 101-2). Vasari (Le vite cit., V, p. 638) parla di cinque «storiette». L’apparizione di san Michele sul mausoleo di Adriano: disegno agli Uffizi, e disegno acquarellato a Windsor (pubblicato da c. brandi, Disegni inediti di D. Beccafumi, in «Bollettino d’Arte», serie 28 [1934], pp. 35 sgg. r sanminiatelli, Domenico Beccafumi cit., pp. 139-40); pannello al Carnegie Institute a Pittsburgh: f. zeri, Due storie di san Michele di Domenico Beccafumi, in Diari di lavoro, Bergamo 1971, pp. 79-80. Il miracolo di Monte Gargano figura parimente fra gli altri episodi. 68 Il Cfr. cap. 1, e chastel, Two Roman Statues cit. 69 Nel 1575, nella Sala degli Angeli di Caprarola, le medesime scene furono dipinte all’interno di un ciclo più completo poiché include Gedeone, Daniele ed episodi biblici che illustrano l’intervento di esseri celesti. L’apparizione sul mausoleo è opera di Giovanni de’ Vecchi, che manifestamente si è ricordato della composizione sulla Trinità dei Monti, con la visione delle mitrie episcopali dinanzi all’immagine della Madonna; soprattutto, le due statue anacronistiche sono in evidenza, come nella cappella Chateauvillain. L’interpretazione tutta moderna dei costumi e dei tipi dipende da un principio generale, il riferimento alla storia recente non è esplicito. Cfr. r. roli, Giovanni de’ Vecchi, in «Arte Antica e Moderna», 29 (1965), p. 52; f. zeri, Pittura e Controriforma, Torino 1957, p. 109. 70 Cfr. cap. v. 71 fenyö, Der Kreuztragende Christus Sebastiano del Piombos in Budapest cit., pp. 151 sgg. 72 freedberg, Painting in Italy cit., p. 488 nota 72. 73 hirst, Sebastianos Pietà for the Commendayor Mayor cit., pp. 585 sgg. 74 Vasari spiega il perché risalendo agli avvenimenti del 1529: «Intanto venuto l’esercito del papa all’assedio di Firenze. Sua Santità mandò Baldassarre in campo a Baccio Valori commissario, acciò si servisse dell’ingegno di lui n’bisogni del campo e nell’espugnazione della città. Ma Baldassarre amando più la libertà dell’antica patria, che la grazia del papa, senza temer punto l’indignazione di tanto pontefice, non si volle mai adoperare in cosa alcuna di momento; di che accortosi il papa, gli portò per un pezzo non piccolo odio. Ma, finita la guerra, desiderando Baldassarre di ritornare a Roma, i cardinali Salviati, Trivulzio e Cesarino, i quali tutti aveva in molte cose amorevolmente serviti, lo ritornarono in grazia del papa, e ne’ primi maneggi; onde poté 66
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 liberamente tornarsene a Roma» (Le vite cit., IV, p. 603). Fu allora che Peruzzi studiò la costruzione nel nuovo Palazzo Massimo, 1532 sgg. 75 von pastor, Storia dei papi cit., vol. V, pp. 747 sgg. 76 Non riusciamo a scorgere un rapporto interessante fra la lettera del 27 settembre di Sadoleto spesso – forse troppo spesso – citata, che commenta di lontano, e in modo religiosamente prudente, gli avvenimenti di Roma, e il presunto stato d’animo di Clemente e di Michelangelo, come lo suggerisce c. lanckoronska, Appunti sulla interpretazione del Giudizio Universale di Michelangelo, in «Annales Institutorum», 1932-33, p. 125. 77 L’umanità perde la sua sicurezza in presenza del Signore. Quel che Michelangelo manifesta o invita imperiosamente i fedeli a provare dinanzi a questo vasto avvenimento figurato, è il peccato. L’uomo deve sapere che la sua natura è colpevole nei confronti del Signore, e gli Eletti stessi sembrano tremare ancora (de tolnay, Michelangelo cit., V, p. 40). 78 milanesi, I corrispondenti di Michelangelo cit., p. 106; de tolnay, Michelangelo cit., V, pp. ig, 98 sgg. 79 Sulle date, barocchi, Giorgio Vasari cit., pp. 1404 sgg. 80 vasari, Le vite cit., V, pp. 579-80. Cfr. m. chiarini, Pittura su pietra, in «Antichità viva», 9 (1970), fasc. 2, pp. 29-37. 81 Michelangelo a Sebastiano (vasari, Le vite cit., V, p. 584); «la scarpa di mattoni» (ibid., VI I, pp. 209- 10). 82 Questo concetto di un centro calmo e del tumulto che esso provoca, corrisponde a quello di Leonardo nella Cena di Santa Maria delle Grazie. 83 lanckoronska, Appunti sulla interpretazione del Giudizio cit. L’articolo di m. b. hall, Michelangelo’s «Last Judgment» Resurrection of the Body and Predestination, in «The Art Bulletin», 58 (1976), pp. 85 sgg., ha formulato un punto di vista nuovo, che non riteniamo dover discutere qui. 84 l. steinberg, Michelangelo’s Last Judgement as Merciful Heresy, in «Art in America», 63 (1975), pp. 48-63: Le idee eretiche di Michelangelo (ereditate da Erasmo e soprattutto da Valdés), successivamente ignorate dalla critica e nelle riproduzioni incise eseguite dopo lo scoprimento dell’opera, consistono nel rifiuto di una dannazione eterna (Cristo esitante, privo di collera, assenza di iatus fra il cielo e l’inferno, piccolo numero di dannati in rapporto agli eletti...) 85 a. condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, Roma 1553, in p. d’ancona, a. pinna, i. cardellini (a cura di), Michelangelo, Milano, 1964, p. 231. 86 vasari, Le vite cit., VII, p. 210. Le riserve sugli apprezzamenti di Condivi e Vasari si trovano in de tolnay, Michelangelo cit., p. 122. 87 Probabilmente fin dal 1536, anno in cui la venuta di Carlo V
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 attirò a Roma la contessa. Cfr. steinmann, Die Sixtinische Kapelle cit., II, p. 499. 88 Queste conversazioni del 1538 circa, a cui partecipava Vittoria Colonna, e in cui Fra Ambrogio Caterino svolgeva le sue esegesi paoline, sono riferite da Francisco de Holanda di seguito al Tractato de pintura antiqua (1548), in Dialoghi micbelangioleschi di Francesco d’Olanda, a cura di A. Aureli, Roma 1926. Caterino pronunzierà nel 1555 la condanna degli ignudi della Cappella Sistina: «Commendo artem in facto; at factum ipsum vehementer vitupero ac detestor» (citato da r. de maio, Riforme e miti nella Chiesa del Cinquecento, Napoli 1973, p. 98 nota 1). 89 barocchi, Giorgio Vasari cit., p. 126o: lettera di Nino Sernini del 19 novembre 1541. 90 vasari, Le vite cit., VII, p. 211. 91 Ibid., V, p. 456. Cfr. a. chastel, Les «ignudi» de Michel-Ange, in Fables, Formes, Figures cit., p. 284. 92 Ibid., p. 285. 93 Un documento del 1545, a quanto pare parla dell’«Inventore delle porcherie» (l. dorez, La Cour du Pape Paul III, Paris 1932, vol. I, p. 154 nota 4). In una lettera del 15 agosto 1546 di Paolo Giovio al cardinale Alessandro Farnese, si legge: «Qual si è scandalizzato per esser dipinto il simulacro del Vaticano coi segno di maschio et il Ricciotto pittore se n’è appellato a Michelangelo in Capella Xysti: pur, per levar il rumore, gli faccio attaccare un foglio di platano». Cfr. a. ronchini, Giorgio Vasari alla corte del cardinal Farnese, in «Atti e Memorie delle R. R. Deputazioni di Storia Patria per le Provincie Modenesi e Parmensi», 2 (1864), p. 126 nota 1. 94 Francisco de Holanda, citato nota 88. La critica recente propende per l’autenticità dei Dialoghi, cfr. r. j. clements, Michelangelo’s Theory of Art, London 1961, pp. xxiv sgg.; e i. cardellini, Michelangelo e i contemporanei, in Michelangelo cit., p. 66. 95 Sonetto «Veggio nel tuo bel viso, Signor mio», in Rime, a cura di E. N. Girardi, Bari 196o, p. 46. c. l. frommel, Michelangelo and Tommaso dei Cavalieri, Amsterdam 1979, data dall’anno 1533 l’inizio della passione di Michelangelo per T. Cavalieri; vi vede, come altri, una delle ragioni della sua venuta definitiva a Roma, e pone il rinnovamento dell’ispirazione «platonica» dell’artista-poeta, in rapporto con la concezione del Giudizio universale (pp. 93 sgg.). 96 Cfr. a. chastel, Il dictum Horatii quidlibet audendi potestas e gli artisti (XII-XVI secolo), in «Académie des Inscriptions et Belles Lettres. Comptes rendus», gennaio-marzo 1977, pp. 30 sgg., ripreso in Fables, Formes, Figures cit., I, pp. 363 sgg. 97 g. vasari, Le vite cit., V, pp. 623-24.
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 p. pouncey e j. a. gere, The Drawings of Raphael’s Circle, London 1962, n. 194; j. rowlands, Rubens, Drawings and Sketches, London 1977, n. 53. Il disegno è stato utilizzato per un fregio di Palazzo Spada. 99 Cfr. vasari, Le vite cit., VII, p. 209: «Desiderando Sua Santità che sotto il Iona di Cappella ove era prima l’arbore di Papa Giulio II mettervi la sua, essendone ricerco, per non fare torto a Giulio e a Clemente non ve la volse porre dicendo non istare bene» (condivi, Vita di Michelangelo cit., p. 231). «Nella qual opera, per essere stata invenzione di Papa Clemente, ed al tempo di lui aver avuto principio, non pose l’arma di Paolo, contuttoché il Papa ne lo avesse ricercato». A. Bertini-Calosso ha creduto di poter identificare i ritratti di Clemente VII e di Paolo III in due figure accovacciate l’una dietro san Pietro, l’altra dietro Adamo: Ritratti del Giudizio Universale, in Michelangelo Buonarroti nel IV centenario del Giudizio Universale, 1541-1941, Firenze 1942, pp. 45 sgg. Le figure inserite in secondo piano negli spazi come personaggi celebri facilmente riconoscibili sono abbastanza numerose; esse non ci sembrano prestarsi a un’interpretazione così precisa come è stata proposta. 100 Pubblicata in e. alberi, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante il secolo decimosesto, Firenze 1855, VOI. III, p. 299. 101 lanciani, The Golden Days of the Renaissance cit., p. 107. Questo punto è stato sviluppato nel nostro capitolo La cour des Farnèse, nell’opera collettiva Le Palais Farnèse, Roma 1981, vol. II. 102 chastel, La cour des Farnèse cit. 103 a. michaelis, Geschichte des Statuenhofes, in «Jahrbuch des deutschen Instituts», 5 (189o), p. 32; citato da dorez, La cour de Paul III cit., p. 214. 104 lanciani, The Golden Days cit., p. 110. 105 Sui «trionfi» italiani di Carlo V nel 1535-36, cfr. chastel, Les entrées de Charles Quint en Italie cit., pp. 197-206; e jacquot, Panorama de Fétes et cérémonies du règne. Entrées italiennes (1535-1536) cit., pp. 427-33. Nel volume a cura di M. Fagiolo, Roma 1979, La città effimera e l’universo artificiale del giardino, c’è alle pp. 63 sgg., un saggio di m. l. madonna, L’ingresso di Carlo V a Roma, con ricostruzioni precise degli «apparati». 106 Lettres écrites d’Italie, a cura di V. L. Bourrilly, Paris 1910, p. 38. 107 Lettera del 28 gennaio a geoffroy d’estissac, ibid., p. 56. 108 Giornale di alberini, Ricordi cit. Cfr. lanciani, Storia degli scavi cit., vol. II, pp. 58 sgg.; e dorez, La Cour de Paul III cit., I, pp. 250-60. 109 Sulla sistemazione urbana intorno a Palazzo Farnese, cfr. p. murray, Italian Renaissance Architecture, London 1969, pp. 166 sgg.; e il mio La Cour des Farnèse cit. 98
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 t. buddensieg, Zum Statuenprogramm in Kapitolplan Pauls III., in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 39 (1969), pp. 177-228. 111 Cfr. j. s. ackermann, The Architecture of Michelangelo, London 1959 [trad. it. L’architettura di Michelangelo, Torino 1968, pp. 50-66 e 179-981. 112 z. ceffino, La triumphante entrée de l’Empereur nostre Sire Cbarles le Cinquiesme toujours auguste faicte en sa très noble cité de Rome, testo francese, Anversa 1536, versione italiana, Roma 1536; andrea sala, Ordine, pompe, apparati, et ceremonie della solenne entrata di Carlo V Imperatore sempre Augusto nella città di Roma, riedito in v. forcella, Tornei e giostre, ingressi trionfali e feste carnevalesche in Roma sotto Paolo III, Roma 1885, pp. 39-50; b. podesti, Carlo Quinto a Roma nell’anno 1536, in «Archivio della Società romana di Storia Patria», 1 (A78), pp.-303-44; f. cancellieri, Storia dei solenni possessi de’ sommi pontefici da Leone III a Pio VII, Roma 1803, VII: Dell’ingresso solenne di Carlo V sotto Paolo III; m. mitchell, The SPQR in two Roman Festivals of the Early and Mid-Cinquecento, in «The xvith Century journal», 9 (1978), n. 4, pp. 99 sgg. Non abbiamo potuto consultare a. de santa-cruz, La Cronica del Emperador Carlos V, Madrid 1920-25, vol. III, pp. 322-53, che contiene una narrazione dell’ingresso e del soggiorno di Carlo V a Roma secondo un testimone oculare (informazione che dobbiamo alla cortesia di Bonner Mitchell); e neppure c. scheurl, Einrit Keyser Carten in die alten Keyserlichen haubtstatt Rom, den 5. Aprilis, 1536. 113 Due problemi interessanti si pongono a proposito delle decorazioni per questo ingresso. Innanzitutto, a chi spetta la concezione e l’organizzazione? Si hanno i nomi di Antonio da Sangallo il Giovane, e dei suoi collaboratori Battista da Sangallo, Raffaello da Montelupo, Battista Franco, Francesco Maso, Girolamo Pilotto, Francesco Salviati. Ma si è pensato, sulla base di un taccuino di disegni, al ruolo possibile di Peruzzi stesso: g. de angelis vossat, Gli archi trionfali ideati dal Peruzzi per la venuta di Carlo V, in «Capitolium» A (1943), pp. 287 sgg. Solo che Peruzzi non era più in grado di lavorare (morì il 6 gennaio 1536) e la critica del Taccuino di Siena ha dimostrato che questa raccolta non è omogenea: contiene note molto diverse (tra cui f. 29v: tre archi; f. 4or: un quarto arco, concernente l’ingresso del 1536) e può risalire a quel Jacopo Meleghino da Ferrara, di cui Paolo III aveva fatto il suo uomo di fiducia e che dovette sorvegliare gli apparati. Cfr. m. toca, Osservazioni sul cosiddetto «Taccuino senese» di Baldassarre Peruzzi, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di lettere e filosofia», serie III, 1 (1971), pp. 161 sgg. Possiamo quindi attenerci all’indicazione di Vasari, il quale descrive con precisione l’arco del Palazzo di San Marco e aggiunge: «Non solo questo arco fu da Antonio ordinato, ma tutto l’apparato della festa che 110
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 si fece per ricevere un si grande e invittissimo imperatore» (Le vite cit., V, pp. 464-465). Il secondo problema concerne la partecipazione di Martin Heemskerck. Avendo Vasari segnalato «un Martino tedesco ed altri giovani tedeschi, che pur allora erano Venuti a Roma per imparare», ammirandone la capacità di lavorare in fretta e bevendo molto (ibid., VI, p. 673), è sembrato semplicissimo riconoscervi Martin Heemskerck, la cui venuta nel 1532 è stata segnalata da Vasari stesso nella sua autobiografia, e i cui taccuini sono così pieni di vedute di Roma. Tuttavia h. egger e c. holsen nella loro introduzione ai Römische Skizzenbücher cit., I, p. ix, hanno sollevato delle obiezioni: Heemskerck non poté rimanere più dei tre anni indicati da C. Van Mander, poiché il suo protettore, il cardinale Enckenvoirt, era morto nel luglio 1534; il panorama di Roma vista dal Campidoglio, datato 1536, è di un imitatore. Bisogna escludere la partecipazione di Heemskerck alle decorazioni del 1536. H. Egger è tornato su questo punto: Zur Dauer von Martens van Heemskerck Aufenthalt in Rom (1532-1535), in «Mededeelingen van het Nederlendsch Instituut te Rom», 5 (1925), pp. 119 sgg. Ma se il disegno della facciata del Vaticano decorata per ricevere l’imperatore, disegno conservato a Chatsworth, è davvero di Heemskerck, allora l’artista deve avere collaborato alla decorazione del 1536, poiché si vedono sulla facciata gli «addobbi provvisori». 114 p. giovio, Elogia…, Venezia 1546, p. 60 («Antonius Tibaldeus»): «... Periit in via lata octogenarius senex, firmissimo corpore, et celsa prosperitate, semper erecto, stranguria cruciatus, adeo graviter, ut ex atra demum bile se ipso factus amarior saepe, nec insulse delirare videretur, quum iarma, fenestrisque penitus occlusis Carolum Caesarem ex Africa, relato insigni triumpho, ad eius limen transeuntem spectare noluerit, quod eum minime iustum Imperatorem putaret, qui sub fide publica captae, deletaeque urbis scelus, quo Maiestas ejus vel extra culpam sugillari potuit; decumatis legionibus minime uindicasset, quasi non satis fuerit, in tantae cladis solatio Borbonium, Dorbinium, Moncatam, et Aurantium, quattor Summos Duces, et patrati facinoris authores, singulis ictos fulminibus, ultore magno numine spectavisse». 115 Iscrizioni: sotto la statua del Cristo, «Domine, tu hic eris» (Ceffino) [o eras (secondo Sala)]; sotto quella di San Pietro, «Redi, hic sedem meam constitue». 116 Iscrizioni: per Scipione il Vecchio, «Quintus Fulvius Flaccus Capena illatus Afros depulit»; per Scipione Emiliano, «Deo pro nobis stante, Afri repulsi». Un’altra era ripetuta sotto ogni arco trionfale, «Scipiadis medium Caesar te moenibus infers, Quamlibet a victo tertia palma manet».
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Sull’atteggiamento e la sorte delle donne romane durante il sacco, cfr. alberini, Ricordi cit., p. 272 nota 1. F. Guicciardini suggerisce che talune seguirono l’esempio di Lucrezia [Lucrezia era una matrona romana diventata leggendaria per la sua virtù (cfr. The Rape of Lucrece di Shakespeare). Violentata dal figlio di Tarquinio il Superbo, chiese al marito e ai suoi amici di vendicarla, poi si uccise con un pugnale. Nella rivolta che seguì i Tarquinii vennero cacciati da Roma]. Cfr. anche la lettera di Niccolò Vitelli a Vitello Vitelli, 11 maggio 1527, in Lettere di diversi... scritte a Vitello Vitelli, Firenze 1551. Alcuni gentiluomini romani preferirono uccidere la loro moglie piuttosto che abbandonarla ai nemici, per esempio accadde così a palazzo Cesarini. 118 Un disegno attribuito a Lafréry o a Du Pérac (Berlino Dahlem, Kupferstichkabinett, verso il 1580. Cfr. weil, History and Decoration cit., fig. 17) conserva forse il ricordo di questa sistemazione, che, d’altra parte, si presenta come una ricostituzione conforme a ciò che mostra l’affresco del Labarum nella Stanza di Costantino. 119 Iscrizioni: al di sopra di san Paolo convertito, «Religionis assertori»; al di sopra della conversione di san Clemente, «Presidi securitatis». 120 Biblioteca Vaticana, Cod. Barb. Lat. 1903, f. 38r. 121 venturi, Storia dell’arte italiana cit., XI, 2, p. 992; portoghesi, Roma del Rinascimento cit., I pp. 172 e 466. 117
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Epilogo
Gli undici anni del pontificato di Clemente VII lasciano un’impressione di tensione e di crisi, se paragonati con gli otto in cui ha regnato il cugino Leone X. Descrivendoli come un concatenarsi sinistro di minacce, di disastri e di resipiscenze, parrebbe di cogliere in profondità quel che successe a Roma; e ci inganneremmo. Perché in quella corre un’altra storia, e abbiamo tentato di identificarla, di riscoprirne le origini e l’originalità. Prima che la sciagura della collettività trascini con sé la miseria e la spaccatura, il corso della vita artistica è o può apparire come estraneo alla forte spinta degli avvenimenti. È qui tuttavia (e anche un’analisi incompleta dei fatti lo dimostra con evidenza), un aspetto essenziale della situazione; infatti l’attività artistica non fiorisce in un centro come Roma senza iniziative e incoraggiamenti stimolati dall’atteggiamento stesso del principe. Lo si vide non appena Clemente successe a Adriano, e di nuovo, in un modo alquanto diverso, quando Clemente successe a se stesso nel 1528. Abbiamo ricercato e trovato numerose relazioni precise fra le passioni politiche e religiose dell’epoca e lo spirito delle opere d’arte dipinte o incise. Prima di tutto, abbiamo già notato quale contrasto vi sia tra il mezzo popolare e spesso semplificato della stampa e lo stile nobile della grande pittura in Italia. Questo segno, questa rigidità relativa del comportamento sociale italiano,
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meritano un esame più approfondito. Parlando di «stile clementino» proponevamo un accostamento abbastanza arrischiato tra la figura di questo raffinato gentiluomo diventato papa e l’orientamento artistico. Ciò che è mancato al politico – il pensiero rigoroso, il giusto calcolo delle proprie possibilità, l’esatta valutazione delle forze – e forse quel che ha permesso al «mecenate» di mantenere l’originalità del clima artistico di Roma, grazie alla sua mente duttile e alle sue molteplici curiosità, alla sua apertura di principe colto al talento e alla iniziativa1. Si sconfina quasi sempre negli elogi iperbolici o ufficiali – attribuendo troppe cose alla personalità del principe; inversamente si può trascurare un’articolazione interessante, anzi decisiva, se non si dà sufficiente rilievo al ruolo che ha sostenuto. Il potere richiede alcune idee precise. A Clemente non e mancato un progetto complessivo di ciò che il potere papale doveva essere, gli è venuta meno la strategia per assicurarselo, ed è questo che Guicciardini e Giberti si sforzavano di conquistargli opponendosi a Schömberg e al gruppo «imperialista». Le esitazioni, l’ambiguità che furono fatali al potere politico, diventano duttilità e seduzione nel campo in cui poté esercitare la sua duplice vocazione medicea e pontificia. In quale modo opere così ricche di sensibilità come quelle degli artisti del 1525 hanno potuto aver realizzazione in una situazione socio-politica così confusa, tra la pioggia di cattive notizie e di minacce terrificanti? Domanda non diversa dall’altra, come Raffaello e Michelangelo abbiano potuto concepire la loro opera romana sotto Giulio II, nel tumulto di un pontificato tanto teso quanto quello del 1525 era instabile. L’intera interpretazione del Rinascimento discende dalle risposte date a simili questioni. Clemente aveva un’idea generosa e intelligente dei doveri culturali del suo pontificato. Competente e aper-
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to, ispirava fiducia agli artisti che ricercavano la sua protezione, soprattutto dopo il rude comportamento di Adriano VI. Anche se non interveniva personalmente si sapeva che la sua cerchia favoriva le iniziative abili e brillanti, che si apprezzavano le opere in cui le favole antiche, la storia romana, erano trattate in maniera originale. Paragonato alle grandi ambizioni dell’età precedente, il tono generale era forse minore, più preoccupato della leggiadria che della grandiosità, come si nota anche in letteratura. Ma la partenza di Giulio Romano aveva segnato una svolta; gli artisti in auge dal 1525 al 1527 tendevano – come è normale in una generazione che segue quella di grandi maestri – a elaborare uno stile elegante e quintessenziato, «iperclassico» se vogliamo. La cultura umanistica vi rappresentò una parte più particolare e più diffusa che mai in precedenza. Agli occhi degli osservatori che ignoravano la diversità delle correnti e delle aspirazioni all’interno della città, Roma si «paganizzava» irrimediabilmente; i grandi amatori stranieri, innamorati di modernità, venivano a cercarvi quello stimolo intellettuale che proprio agli spiriti più religiosi appariva rovinoso per la cristianità. La caduta di Roma, che segnò la fine della libertà d’Italia, doveva quindi essere considerata anche nelle sue ripercussioni morali e culturali. Essa affrettò la sfaldatura fra la «via romana» e il rigore dei riformatori. Fece scoppiare le contraddizioni interne di quel che si chiama il Rinascimento. Clemente fu talvolta compianto, raramente ammirato. A Roma stessa. dove la sua politica fiscale e la preferenza data ai toscani avevano sempre danneggiato la sua immagine pubblica, egli dovette alla solidarietà che nasce dal condividere. le sventure una specie di consenso forzato. Alla sua morte furono pubblicati dei libelli2. Ma il giudizio comune si espresse in due modi. Innanzitutto nel famoso sonetto sarcastico e crudelmente penetrante di Berni:
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Un papato composto di rispetti, Di considerazioni e di discorsi; Di più, di poi, di ma, di se, di forsi, Di pur assai parole senza effetti.
Questo non è tanto una caricatura quanto un’analisi senza compiacenze e l’irritazione di un testimonio – non a caso segretario di Giberti. La conclusione feroce diceva tutto: Lo dirò pur, vedrete che pian piano Farà canonizzar papa Adriano3.
A Firenze, apprezzamenti più sfumati insistevano sulla dignità di una vita che meritava altra sorte4; ma sarà soprattutto ricordato il giudizio che Vasari, trattando proprio di Michelangelo, credette alla fine di dovere dare del pontefice: «Ma morto Adriano, e creato Clemente VII, il quale nelle arti dell’architettura, della scultura e della pittura fu non meno desideroso di lasciar fama, che Leone e gli altri suoi predecessori»5. Una vocazione realizzata soltanto in parte. Occorrevano a quell’età immagini forti e rappresentazioni simboliche: il Giudizio universale di Michelangelo apparve come la conclusione estrema, la dichiarazione sublime e difficile che esprimeva la coscienza del presente. Visibile al pubblico nel 1541, quest’opera, che è priva di riferimento attuale, non parve a nessuno fuor di proposito. Gli altri artisti avevano reagito, secondo la loro natura, alle delusioni e alle sofferenze con la fuga, con l’emotività, con il ripiegamento o con la confusione. Michelangelo manifestò nella composizione eccezionale, grazie allo stile tragico, le esperienze straordinarie vissute: una constatazione personale straziante della sciagura e della debolezza umana dinanzi al Signore.
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La rappresentazione di fatti gravi e profondamente sconcertanti richiedevano il ricorso alla Scrittura. Clemente, che era stato il più manovriero ma il meno fortunato dei diplomatici, il capo di stato più furbo e il più severamente colpito, non poteva «spiegare» il sacco di Roma con la propria indecisione e i proprii errori. Qualsiasi ritorno sul passato richiedeva un altro modo di vedere. La storia della Chiesa si svolge secondo un piano divino, che bisogna cercare di capire. Se l’esercito imperiale avesse aggirato Roma, come aveva fatto a Firenze, per timore di un assedio lungo e difficile, il papa avrebbe ricordato San Leone che ferma Attila. Se, in mezzo ai saccheggi, la città fosse stata attaccata, le forze imperiali ricacciate, forse annientate dall’esercito della Lega (ciò sarebbe potuto succedere tra l’8 e il 9 maggio a poche miglia da Roma), l’episodio biblico di Eliodoro avrebbe fornito l’indispensabile antefatto registrato dalla sacra scrittura. Poiché era accaduto il peggio, e il papa ne era scampato, la Liberazione di san Pietro dava all’episodio drammatico la sua dimensione sovrannaturale. Era un’interpretazione perfettamente normale per una cultura satura di riferimenti ai libri sacri. Michelangelo non procedette in altro modo, nel dispiegare il vasto simbolo che gli avevano affidato: la realtà cupa e pericolosa della vita esposta al giudizio di Dio. Ma egli la descrive nel più potente stile romano. Lo schema generale delle reazioni di una comunità cristiana a gravi catastrofi e sempre il medesimo: sentimenti di abbandono e di disperazione; evocazione del Giudizio universale, di cui le presenti sventure annunciano il sopraggiungere imminente; appello alla penitenza e alla correzione dei costumi. La ricerca delle cause naturali immediate e perseguita, certamente, con l’intenzione di agire su di queste, ma la spiegazione d’insieme, che ne sta alla base, e di altro ordine. È un fenomeno comune: lo si nota bene, ad esempio, a Firen-
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ze dopo il gran diluvio, l’inondazione catastrofica di Ognissanti nel 13336. Due secoli dopo, l’Oratio di Stafileo al tribunale della Rota era esattamente dello stesso tono; l’esercito era stato mandato per stabilire la pace, non per commettere misfatti quali «razzie», sconvolgimento della città imperiale, profanazione dei templi, saccheggio delle biblioteche, assassinio dei preti, stupro di vergini e matrone». Questi eccessi, che non si tratta più di negare o di minimizzare (come faceva inizialmente Valdés) sono da imputarsi per intero alla folle «avarizia» delle truppe trascinate in una autentica seditio. Bisogna affidarsi a Cesare per ristabilire l’ordine. Questo interessante discorso presenta anche un altro risvolto, perché il suo autore tradisce la propria origine umanistica nell’insistenza del secondo «sacrilegio»: insieme al saccheggio delle chiese, quello delle biblioteche: «non minus sacrilegium est bibliothecas quam phana diripere». La ricchezza di quelle romane era stata opera dei pontefici; contenevano il tesoro stesso dello spirito umano, gli stati non possono conservarsi «sine honestarum artium cognitione et sine libris». Questo lato del ragionamento di Stafileo si ritrova nel sommario «politico» di un oratore noto dalle iniziali «p. M.», che non e altri se non Filippo Melantone. Non vi e alcun dubbio sui sentimenti di Melantone. In una lettera scritta a Wilhelm Reiffenstein il giorno stesso in cui cadde la città, così li espone: «Nulla di nuovo a parte le voci della presa di Roma. Vorrei che fossero false per molte ragioni, ma soprattutto per timore per le biblioteche, che in nessun luogo della terra sono più ricche. E tu conosci l’odio dei nostri soldati e di Marte per i libri, e soprattutto come il nostro secolo, per non so quale fatalità, sia più crudele verso i libri di qualsiasi altro»7. La reazione da umanista di Melantone risulta quanto mai chiara, e quel che l’Oratio di Stafileo può avere di sorprendente, cioè la sua preoccupazione esclu-
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siva per i libri, si spiega benissimo nel prolungarsi di questa reazione immediata del giugno 1527. Le distruzioni di cui si è parlato, dice Stafileo, furono un atto di pura follia, inspirato dall’odio per la cultura. Non si è mai veduta una cosa simile: un esercito senza capi abbandonato per dodici giorni a se stesso in una città. Orbene, questa città e la patria comune di tutti gli uomini, e la cultura è tornata a rinascervi: «hic nuper bonae disciplinae tamquam renatae sunt». Colpirla sotto pretesto di alcune debolezze esagerate in modo eccessivo e un parricidio. Si deve rimetterla in onore. La gente può ridere delle disgrazie con sarcasmo; ma i buoni cittadini hanno un altro atteggiamento, sapendo quanto il mantenimento della cultura importi alla dignità della città. Restaurare la cultura moderna è non soltanto possibile ma necessario. L’Oratio enunciava gli orientamenti che, grosso modo, avrebbe seguito Clemente a partire dal 1529 e che avrebbero caratterizzato gli anni seguenti sotto Clemente e sotto Paolo. L’imperatore meritava più che mai questo titolo. La presa di Roma seguita dall’incoronazione e dall’entrata in Urbem diedero al termine e all’istituzione stessa il senso che le mancava. Fin dal 1528 si poteva designare Carlo V «imperatorem caesarem augustum; pium, felicem, victorem Galli, pontificis, patrem patriae»8. Nel 1555, nella prima stampa della serie famosa in gloria dell’Imperatore dove si oserà ricordare la morte gloriosa di Carlo di Borbone, Heemskerck avrebbe mostrato l’aquila che tiene incatenate le grandi potenze: il Turco, il papa, il re di Francia9. Non solo, come disse Frances Yates, «il sacco di Roma per opera degli eserciti del nuovo Carlo Magno è stata la risposta terribile della storia ai sogni degli umanisti italiani»10, ma ha provocato questo stupefacente slittamento: il mito di Roma – l’idea del grande retaggio antico – sembra adesso essere passato dalla parte della potenza imperiale, a spese della
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realtà italiana. È anzi possibile che la teoria «imperialista» del potere politico unico, superiore, abbia preparato la strada alla teoria «assolutistica» del xvii secolo11. Questa non avrebbe assunto l’ampiezza ossessiva che ebbe sotto Carlo V e Filippo II, senza gli eventi spettacolari che abbiamo preso in esame. Alcuni mesi dopo la visita dell’imperatore, fu pubblicata, alla fine di maggio 1536, la Bolla che proclamava il Concilio12. Fin dalle prime riunioni un gran discorso di Sadoleto aprì il dibattito risalendo a ciò che era avvenuto a Roma nove anni prima, naturalmente alla luce dei sacri testi13. Il vescovo di Carpentras faceva parte dei «ciceroniani» che Paolo III aveva pensato di invitare per sottolineare la sua volontà riformatrice e insieme la preoccupazione di risollevare il prestigio romano. Egli non era di quelli che, come Erasmo, consideravano il sacco un castigo meritato; piuttosto lo vedeva come un avvertimento del Cielo. La nuova Curia, di cui faceva parte, era meno preoccupata della riparazione richiesta da una profanazione orribile (ancorché tale preoccupazione potesse manifestarsi di nuovo), o della penitenza resa necessaria dalla corruzione «babilonese» del caput mundi, che non della comune restaurazione di Roma e della Chiesa. La volontà ostinata dei riformatori di dissociare l’una cosa dall’altra non doveva più trovare eco. Il dinamismo di ciò che si sarebbe concretizzato nella Riforma cattolica rinsaldava il ruolo della Città Eterna, riconosciuta nella propria originalità e come centro di un’istituzione religiosa irremovibilmente salda in una vasta parte d’Europa. Quel che conta, ricorda Sadoleto ai suoi ascoltatori, e il ruolo di consiglio, di equilibrio, di rifugio che, nel disordine e nella crudeltà delle vicende umane, solo il sovrano pontefice può assicurare. Egli si impone alle potenze temporali. Leone, in altri tempi, con la sola forza della parola, non costrinse Attila ad abbandonare
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l’Italia? La dignità, la purezza, il disinteresse del magistero cristiano sono indispensabili all’ordine del mondo. È spaventoso pensare che simili valori abbiano potuto per un momento offuscarsi dinanzi ad altre considerazioni. È terribile che certe sette, per ripulsione contro la pratica romana, siano potute giungere a una denuncia generale dell’istituzione: «Il Nostro nome è diventato così odioso, si è creata nei nostri riguardi una tale opinione di perfidia e di avidità, che tutto ciò che e detto contro di noi da chiunque e subito ritenuto verità». Pare incredibile che «in questi anni in cui siamo stati conquistati, saccheggiati, fatti a brandelli, non solo non abbiamo avuto l’aiuto e il soccorso di chi ci è più vicino, ma neppure la commiserazione e la pietà degli altri». Come esitare in tali condizioni a riunire questo Concilio, che solo può ristabilire l’unita del mondo cristiano? Dalle esperienze dolorose, scoraggianti, del passato deve nascere una volontà riformatrice in seno alla Chiesa di Roma. Nello sfondo di tutte le preoccupazioni romane, c’erano adesso le vicende della Germania14. La vittima più crudelmente colpita e più indifesa politicamente per lungo tempo fu in definitiva l’Italia. L’analisi di Guicciardini ci illumina inesorabilmente su questo punto. Durante il corso del secolo si ebbero molteplici testimonianze del senso di abbandono provato dagli italiani15. Nascevano nuove società governate con maggior rigore, come la Toscana del Gran Ducato, con principi moderni di organizzazione, e con due ordini di conseguenze: la celebrazione precoce delle glorie locali; l’esigenza incomprimibile di un risarcimento attraverso l’arte, di cui ogni provincia, ogni città conosceva da molto tempo l’esigenza e il prezzo. Il generale ottimismo del Rinascimento era cosa del passato. Il fallimento di una egemonia «italiana» ha mantenuto la penisola nella condizione più favorevole alle celebrazioni immaginarie, alle vuote parate.
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È curioso che non appena tornato a Roma, Bandinelli, al servizio di Clemente, abbia denominato il suo «studio»: «accademia». L’incisore Agostino Musi, il compagno di Serlio, tornato fin dal 1530, ci ha lasciato un documento piuttosto importante incidendo la famosa tavola dello «studio», con l’iscrizione «Academia di Bacchio Brandin in Roma in luogo detto Belvedere mdxxxi», seguita dalla sigla «A. V.». Il che ci fornisce un’informazione sul posto di lavoro dello scultore non meno interessante dei suoi accessori: le statuette, i lucignoli, gli utensili16. La denominazione stessa di «academia» e abbastanza pomposa; sembra convenire al carattere orgoglioso di Baccio, a meno che il termine non sia già stato di uso corrente. In ogni caso, questa incisione, ripresa poi in una versione poco diversa da Enea Vico verso il 155017, segna abbastanza bene la posizione di favore di cui godeva Bandinelli al momento in cui Clemente tentava di riportare l’attività artistica a Roma. A dispetto delle recriminazioni degli erasmiani, niente poteva alterare l’attrazione profana di Roma per gli umanisti, gli amatori d’arte, gli artisti. Rabelais vi segue il cardinale Du Bellay; Heemskerck, protetto del cardinale Enckenvoirt, disegna le collezioni di antichità18. Nel 1531 un giovane artista, Francesco Salviati, era giunto a Roma su raccomandazione di Benvenuto Della Volpaia19; poco dopo, mandato da Tommaso de’ Neri al cardinale Ippolito de’ Medici, Giorgio Vasari arrivava a sua volta da Arezzo. I due amici si buttarono con foga sui palazzi, le collezioni, le rovine, studiando e disegnando tutto ciò che era loro accessibile20. Il loro unico interesse erano le antichità. La prima opera che a Vasari capitò di produrre in quella intensa stagione fu una Venere con le Grazie, a grandezza naturale, di cui il cardinale de’ Medici fu così estasiato che raccomandò il giovane pittore a papa Clemente. Dato il momento, non era un’opera di grande importanza, ma rappresentava il
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modo con cui un artista aveva modo di evolvere. I giovani dell’epoca non hanno più la freschezza e la libertà di invenzione di quelli del 1525; sono più affettati, cortigiani e, se possiamo dirlo, la mentalità «storicistica». Uno dei più vecchi familiari di Clemente era l’umanista Paolo Giovio, esemplare perfetto del «ciceroniano», ossia del letterato imbevuto dell’eleganza latina nello stile e convinto della superiorità romana nella cultura. Era rispettato come il futuro storiografo del periodo. Aveva accompagnato Clemente il mattino del 6 maggio nella fuga precipitosa a Castel Sant’Angelo. Ne uscì incolume e, avendo protezioni da parte dei Colonna, poté ritirarsi nel 1528 a Nocera in Campania, dov’era vescovo. Compose un dialogo alla maniera antica, De viris illustribus, situandolo nell’isola di Ischia dove allora si trovava Vittoria Colonna. Dopo i tragici avvenimenti di Roma la sua reazione, tutto sommato, era di occuparsi di lettere e di arti, il che può essere considerato una reazione tipica; ma, meglio ancora, ci sono in questo testo molteplici allusioni ai pittori contemporanei per analizzare il problema dell’invecchiamento degli artisti, come nel caso del Perugino, o quelli dell’imitazione, ad esempio tra gli allievi di Leonardo. Paolo Giovio cominciò a redigere biografie dei grandi maestri, con l’idea di comporre una specie di galleria ideale dell’arte italiana «da Cimabue al tempo nostro»21. Era la prima iniziativa del genere, e fu realizzata vent’anni più tardi da Vasari, d’altronde in pieno accordo con Giovio. Durante il suo soggiorno giovanile ed entusiasta dal 1531-32, e poi nel 1540, al momento in cui seppe procurarsi le buone grazie della corte Farnese, Vasari, in contatto con tutte le maggiori personalità, si prefisse, in particolare, di raccogliere tutto il materiale disponibile per una storia del sacco e delle sue conseguenze. Dobbiamo a lui se oggi siamo informati sulla portata di quell’avvenimento. Conformemente al suo metodo. ne
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distribuì i particolari all’interno delle varie biografie. Ciascuna di queste rimanda alle altre, non fosse che per la ripetizione degli stessi riferimenti. Sommando aneddoti e notazioni, si hanno tutti gli elementi di una relazione sul «Sacco di Roma e gli artisti», il cui tenore e quasi esattamente parallelo a quello di Giraldi e Pierio Valeriano per i letterati22; ma la lettura e meno cupa. Le doti di storico innate in Vasari lo hanno portato a scegliere proprio i punti che appaiono più interessanti. È lui ad illuminarci sulla importanza del pontificato di Adriano VI, sulle speranze all’avvento di Clemente. Dei lavori, le ambizioni, le amicizie, le sventure degli uni e degli altri egli sa una quantità di cose, di cui consegna il particolare con un instancabile brio toscano ma con un’indignazione piuttosto convenzionale. Una volta sola cambia tono, nella vita di Jacopo Sansovino, aggiunto nell’edizione del 1568. Con una certa meraviglia vi si trova una formula che non aveva mai adoperato: «quando Dio – scrive – per castigo di quella città, e per abbassare la superbia degli abitatori di Roma, permise che venisse Borbone con l’esercito a’ sei giorni di maggio 1527, e che fu messo a sacco e ferro e fuoco tutta quella città...»23. Castigare questa città orgogliosa? Non si capisce esattamente ciò che Vasari voglia dire. Egli non stigmatizza la «corruzione» di Babilonia, ma la superbia dei romani. È forse l’eco delle delusioni provate sotto Giulio III o della decadenza che il predominio toscano stava allora sperimentando? Dopo quarant’anni vediamo ancora sussistere due versioni opposte dell’avvenimento: il sacco come sacrilegio che squalifica l’autorità imperiale responsabile, oppure come giusto castigo a dimostrare che questa autorità e lo strumento privilegiato di Dio. La polemica poteva accendersi in qualsiasi occasione e, di fatto, così avvenne periodicamente verso la meta del secolo. La diffidenza nei confronti del clero romano ispirò la pub-
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blicazione a Venezia nel 1545 di un’edizione italiana del Dialogo di Valdés. Quando sorse un conflitto tra Filippo II e Paolo IV, questi affermò che Carlo V era un eretico; e in Spagna venne ristampato Savonarola per dimostrare che Borbone aveva attuato la profezia del santo predicatore che si era scagliato contro papa Alessandro VI24. Il ricordo del 1527, grazie alla sua inesauribile forza di simbolo, riviveva in una situazione che poteva sembrare una ripresa. Il cardinale Gian Pietro Carafa era stato coinvolto negli orrori del sacco; giurò a se stesso di non ricadere nella politica debole di Clemente. Divenuto Paolo. IV, la sua reazione autoritaria si manifestò nel tentativo di estirpare qualsiasi eresia: condannò Erasmo e gli scritti riformati; promosse processi ingiusti e impolitici contro il cardinale Pole e i suoi amici. Al tempo stesso chiedeva a Michelangelo di affrettare i lavori della cupola e istituiva la festa della «Cattedra di san Pietro». Il riaffermarsi del primato romano coincideva con una viva tensione fra il papa e l’imperatore25. «E Roma tutti i giorni aspetta un altro sacco». Nell’inverno 1556-57, i preparativi militari di Paolo IV creavano uno stato di agitazione che Joachim du Bellay guardava con ironia26. Nella primavera del 1557, Paolo IV, ripetendo punto per punto le iniziative di Clemente VII, aveva preso posizione contro gli imperialisti e aveva attaccato chi ne costituiva il grande sostegno, la famiglia Colonna. Trovò perfino un’occasione, il 10 maggio, per rimproverare ai cardinali spagnoli il comportamento delle truppe di Carlo V ventinove anni prima27. Parimenti cercava un appoggio, lento a giungere, in Francia. La risposta partì finalmente da Napoli in settembre, con l’esercito del duca d’Alba, che, avvicinandosi a Roma, ravvivò i ricordi del 1527 e provocò un panico. Un giovane artista, Giovanni Armenini, ritenne prudente lasciare la città al più presto, come ricordò
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egli stesso in un trattato pubblicato trent’anni più tardi28. Trent’anni dopo, si ripetevano le circostanze che avevano portato al dramma del 152729: «non si vedevano che soldati, insegne, gonfaloni». Rinascevano le profezie escatologiche, per esempio nei sogni di renovatio e nell’annunzio del «papa angelico» formulato da Guillaume Postel30. In un sonetto piuttosto bizzarro dei Regrets, Joachim du Bellay riprende tutti i temi che si erano cristallizzati intorno alla vicenda del 1527: la Babilonia dell’Apocalisse, l’umiliazione di Roma victrix. L’angoscia della devastazione possibile, l’idea che la Città della storia avesse perduto la sua immunità provvidenziale, fanno adesso parte, insieme all’intuizione di una gloria schiacciante, dell’eredità romana. La storia della tomba di Clemente nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva, progettata da Bandinelli nel 1542, contiene parecchi indizi importanti. La tomba è accanto a quella di Leone. L’idea di congiungere i due papi medicei mediante monumenti simmetrici risale al 1525, all’inizio del pontificato di Clemente, all’epoca in cui Michelangelo lavorava alla Cappella Medici a Firenze. Lo scultore fu invitato a disegnare una tomba doppia per i due cugini mentre sistemava la Sacrestia Nuova di San Lorenzo. Ma le cose andarono altrimenti31. Quando morì Clemente alla fine del 1534, si parlò di erigere due tombe in stile trionfale nella chiesa di Santa Maria Maggiore, su un progetto di Michelangelo che sarebbe stato eseguito da Alfonso Lombardi. Ma dopo molte rivalità, Bandinelli si accaparrò l’ordinazione del disegno e ad Antonio da Sangallo il Giovane fu affidata l’architettura. Il luogo indicato era ancora Santa Maria Maggiore, come si vede da una serie di progetti notevoli per un monumento a sé stante. Alla fine la scelta cadde su Santa Maria sopra Minerva, dove venne rifatta l’abside con una spesa non indifferente per inserirvi le due tombe.
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I disegni di Bandinelli conosciuti sono assai strani perché non hanno alcun rapporto con il monumento finito. Tra questi il più bello e più significativo propone una costruzione a tre piani: l’effige dei morti è posta tra due figure celesti che reggono le torce, l’anima dei defunti prega in una mandorla tenuta da cinque angeli e, sopra un cornicione, Cristo e la Madonna sono circondati da sei santi in atto di intercedere mentre si volgono verso Dio Padre e la colomba dello Spirito Santo. È stato osservato che composizioni del genere non si facevano più da due secoli e non hanno riscontro nel Rinascimento. L’anima e una figura di adolescente che somiglia al David di Michelangelo. Questa apparizione celeste e stata messa in relazione con la bolla Apostolici Regiminis, che ricorda il dogma dell’immortalità dell’individuo proclamato dal Concilio Laterano nel dicembre 1513 da Leone e da suo cugino il cardinale Giulio. Ma tutti i monumenti funerari presuppongono la fede nella vita ultraterrena e l’ingresso in Paradiso per grazie divina. L’originalità di questo disegno sta nel porre in risalto l’ascensione dell’anima, rappresentata qui da una creatura giovane e pura, che molto probabilmente fa riferimento alla condizione del giusto e all’aspetto fisico dei mortali nel regno dei cieli. Questi sono argomenti dottrinali ben noti ai platonisti della cerchia di Clemente, come ad esempio Egidio da Viterbo, e certamente interessavano il pontefice. Non era appunto il problema posto da Michelangelo nel Giudizio universale? D’altro canto il progetto mette l’accento sull’intercessione di Maria accanto a quella di Cristo per ricordare il ruolo della Vergine, rifiutato dai Riformatori, ma sostenuto energicamente dal papa defunto. Questo disegno pertanto parrebbe rappresentare la tomba ispirata dalla vita di Clemente. Evoca il destino personale e la speranza di salvezza di un papa che era stato duramente provato.
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Non si confaceva più al papato di Paolo III, che cominciava a seguire una politica di restaurazione militare; e questo spiega il carattere trionfalistico dell’opera finita, la simmetria dei due monumenti, e l’insistenza sui due momenti politici, inseriti con abilità: l’incontro di Bologna con Francesco I nel 1515 (tomba di Leone X) e l’incontro con Carlo V nel 153o nella medesima città papale (tomba di Clemente VII). Gli interessi teologici erano stati superati dal fatto che la Santa Sede aveva riacquistato autorità politica. Baccio, a quanto ne riferisce Vasari, se la cavò malissimo, e trovò il modo di partire per Firenze lasciando l’opera incompiuta; alla fine si dovette ricorrere a Montelupo per la statua di Leone e a Nanni di Baccio Bigio per quella di Clemente. Ma l’interessante è il progetto di Bandinelli e la critica che ne fa Vasari: era una specie di arco trionfale con nicchie per le statue sedute dei pontefici accompagnati l’uno dai santi Pietro e Paolo, l’altro dai due san Giovanni; alcuni bassorilievi illustravano, sotto il cornicione, l’incontro di Bologna fra Leone e Francesco I e l’incoronazione di Carlo V da parte di Clemente e altri, collocati più in basso, episodi della vita dei quattro santi. Concezione indegna, esclama Vasari, che non tralascia nessuna occasione di denunziare la presunzione di Baccio: «Mostrò in questa fabbrica Baccio o poca religione o troppa adulazione, o l’uno e l’altro insieme; mentre che gli uomini deificati ed i primi fondatori della nostra religione dopo Cristo ed i più grati a Dio, vuole che cedano a’ nostri papi, e gli pone in luogo a loro indegno, a Leone e Clemente inferiori...»32 In questa discussione tutto merita attenzione. La preoccupazione della convenienza devozionale, che si fa più stringente e impone il rispetto della gerarchia fra Chiesa trionfante e Chiesa militante; la scelta delle «storie» destinate a presentare i fatti salienti di ogni ponti-
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ficato: nei due casi l’intervento del papa presso i principi. Questo riferimento all’autorità era diventato in certo qual modo obbligatorio. Tanto meglio si osserva fino a che punto essa sia ora stereotipata, limitata a scene-modelli fisse, mentre si moltiplicano dovunque i cicli di glorificazione dinastica. A Firenze, la storia medicea, poneva nonostante tutto problemi delicati. Rimane da esaminare il modo con cui furono risolti nella serie delle sale di Palazzo Vecchio dove dopo il 1556 fu deciso di illustrare i fasti di tutta la famiglia. Niente del genere era ancora stato tentato a Firenze. Per la grande Sala di udienza, che doveva sostituire il Salone dei Cinquecento del tempo repubblicano, Baccio propose una serie di nicchie: su un lato la statua di Leone X che riportava la pace in Italia, e quella di Clemente VII che incoronava Carlo V, con statue più piccole nelle nicchie secondarie: le virtù dei Pontefici33. La ripetizione del Programma sottolinea la monotonia del «concetto». Sulla grande parete, vi sarebbero le statue di Giovanni dalle Bande Nere34, dei duchi Alessandro e Cosimo. Negli appartamenti, una sala era consacrata a Cosimo il Vecchio, una a Lorenzo, una a Leone X, una a Clemente VII, una a Giovanni dalle Bande Nere, una al duca Cosimo35. L’ideatore di questo ciclo non e altri che Vasari. I lavori durarono dal 1556 al 1562. Il programma è stato commentato nei particolari nei Ragionamenti (redatti a partire dal 1557) che il pittore-storico concepì come una guida per il visitatore36. Il vero scopo era quello di identificare gli innumerevoli ritratti di cui ha ornato le composizioni e di spiegare il «concetto» politico ed elogiativo di ognuna. L’articolazione dei medaglioni e il concatenarsi dei grandi pannelli, compongono una specie di romanzo dinastico dove si legano «quei fatti, le storie che sono stati cagione della grandezza di casa Medici». È la ricapitolazione di un secolo di vita
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fiorentina e italiana, quale il duca regnante desiderava vederla. Nella Sala di Clemente VI I l’incoronazione di Carlo V occupa il quadro centrale, formando il nocciolo della composizione. Le «storie» scelte hanno soltanto interesse dinastico: evocazione del cardinale Ippolito, nipote di Clemente; matrimoni di Caterina con il delfino di Francia e di Margherita, figlia di Carlo V, con Alessandro; investitura e ingresso di questi; e infine due scene dove Clemente è rievocato per se stesso: l’apertura della Porta Santa a San Pietro per il Giubileo del 1525 e un episodio bizzarro, il ritorno di Clemente VII a Roma. Sulle pareti, con un’importante soluzione faccia a faccia, Leone e Francesco I, Clemente e Carlo V, e, in un grande panorama, l’assedio di Firenze. Il programma adottato per la Sala di Clemente era un po’ scucito. Non si trattava di introdurvi un medaglione che ricordasse la sciagura del 1527, di cui Vasari aveva saputo così bene indicare altrove l’orrore e l’importanza. Tuttavia, una certa allusione si insinua nel pannello dove «vi è il ritorno di papa Clemente a Roma dopo molte iniziative difficili ma onorevoli». Vasari precisa: ed ho finto che quattro virtù lo riportino in sedia, cioè la Quiete, la Vittoria, la Concordia e la Pace, la quale mostra dopo tanti travagli di abbruciare con una face in mano molti trofei, sopra i quali ho posto a sedere il Furore ignudo, incatenato e legato ad una colonna di pietra; similmente ci ho messo il popolo romano, che li viene incontro; e, perché si riconosca che ritorna in Roma, ho fatto il Tevere ignudo con la lupa che allatta Romulo e Remo (Ragionamenti sopra le Pitture di Palazzo Vecchio, VIII)37.
La pia menzogna e la generalizzazione vaga si combinano a meraviglia in questo tessuto di allegorie che nasconde il dramma. Si e pensato, per ritrovarvi un elemento aneddotico, al ritorno di un’ambasceria, ma ciò
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non si accorda con un discorso così complesso. È più logico supporre che Vasari abbia deliberatamente rievocato in quella composizione confusa, che può adattarsi al ritorno da Bologna nel marzo 1530, le vicissitudini del pontificato; dopo aver voluto la guerra, Clemente effettivamente si decise per la pace. Nella Sala vicina, decorata per la gloria di Giovanni dalle Bande Nere, si trova una filosofia della storia alquanto diversa. Ai combattimenti contro gli imperiali, che lo hanno reso famoso, è aggiunta la rievocazione del Ponte Sant’Angelo «com’era prima del sacco, dove il signor Giovanni assalito dagli Orsini alla testa di più di duecento armati, dimostrò il proprio valore attraversando con soli dieci uomini intrepidi»38. Questo ciclo richiama, oltre le «virtù» allegoriche che ornano, come per la Sala di Clemente, gli angoli della sala, il vecchio simbolo della Fortuna, «con la vela, che calca il mondo». Il tema di Fortuna appare come un filo scuro attraverso l’episodio storico di cui qui abbiamo tentato di radunare gli sparsi elementi. A questa dea capricciosa infatti riconducono sempre i diversi specchi del pensiero e dell’arte dell’epoca, dove appaiono a volta a volta l’ondeggiare della sorte, le rappresentazioni confuse ma passionali che anticipano l’evento, la fermezza che domina le sventure, la vigliaccheria che le amplifica, la debolezza che consente di produrre tutte le conseguenze, che costituiscono il disastro. Tutto il periodo, nel modo di concepire la politica strana, impulsiva e orgogliosa del tempo, e ossessionato dalla «Fortuna», dea del destino che offre o che riprende i suoi favori, favori che la virtus saprà afferrare e trattenere. Ma tenendo conto della duplice accezione di «virtù», che significa tanto l’energia pura «al di là del bene e del male» quanto la nobiltà dell’azione. La «Fortuna con la vela, che tiene il mondo sotto i suoi piedi», è la variante fiorentina, sempre ricorrente, che si oppo-
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ne al fatalismo della ruota e del mutamento39. L’ideologia del Gran Ducato, fedele in questo a Machiavelli, rimette in onore la volontà politica. In un ritratto recentemente riportato alla luce40 di Giovanni, attribuito a Carlo Portelli e molto probabilmente ordinato dal gran duca Cosimo, figlio dello stesso Giovanni, una bandierina dietro il casco del «condottiere» reca la figura della «Fortuna»; l’eroe afferra con gesto deciso il ciuffo di capelli che la dea seduta sulla ruota, in movimento, gli presenta. La scritta «S.S.R» deve essere sciolta così: «Sapiens supra Fortunam», il che aggiunge una dimensione intellettuale e morale, di spirito ficiniano, alla figura del guerriero. Pare che si sia faticato alquanto per trovare post mortem un emblema confacente al personaggio. Quarant’anni dopo l’avvenimento, bisognava celebrare nell’intelligente capitano delle Bande Nere virtù presenti nel figlio che era adatto più alla politica che alla guerra. L’emblema non fa che guadagnarci in forza simbolica e commemorativa. Pressappoco nello stesso momento, la riduzione della storia a un episodio ben scelto era evidente anche in una città «imperialista» dichiarata come Verona41. Nel 1564, fu decorata la Sala d’onore del Palazzo Da Lisca (più tardi Ridolfi) con un fregio veramente monumentale che circonda tutta la camera. Domenico Brusasorzi vi raffigurò con una ricchezza di particolari e un’abbondanza di ritratti che eccitano la curiosità, la cavalcata di Clemente VII e di Carlo V dopo l’incoronazione di Bologna. Era ispirata, naturalmente, alla serie di incisioni di Hogenberg; tutta l’aristocrazia spagnola e italiana degna di passare ai posteri, e presente in abbigliamento solenne. Si commemorava l’ordine nuovo della politica; e questo non appare più soltanto, come sul sepolcro di Clemente, il fatto saliente del suo pontificato, ma piuttosto come l’avvenimento capitale del secolo42. Il pageant del 1530 permetteva di respingere il ricor-
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do della sciagura del 1527. I simboli hanno sempre l’ultima parola. Nel 1565 usci una raccolta di cento novelle, Hecatommithi overo Cento novelle43, dove si ritrova l’antica tradizione dei novellatori ma senza la grazia di Boccaccio. La preoccupazione di moralizzare e posta in evidenza dall’introduzione, che dà tono alla raccolta. In fuga da Roma in preda al dramma del 1527, un gruppo di giovani, sull’imbarcazione che li porta a Marsiglia, si raccontano delle storie. Questo artifizio permette all’autore di dare una rievocazione molto particolareggiata del sacco, in cui si trovano i dettagli più crudi tratti da informazioni e dalle cronache: «un grandissimo e potentissimo esercito di Alamanni macchiati dell’eresia mortale di Lutero e dei suoi attraversò l’Italia con l’orribile intenzione non solo di distruggere Roma, patria comune di tutte le nazioni, ma di mettere veramente a morte il papa». Questi cavalieri selvaggi volsero la loro rabbia contro le cose divine: reliquie spezzate, chiese saccheggiate. Tutto e ricondotto a un’immagine spaventevole, dove la santità di Roma e inesplicabilmente violata, e le sue ricchezze rubate. Quest’opera finge di essere stata concepita nel 1528, dal trauma degli avvenimenti. Ma in realtà appartiene a un periodo in cui l’accidente del sacco appare come un attentato doloroso dovuto all’azione diabolica degli avversari di Roma. Visto in questa luce, l’evento poteva apparire come il punto di partenza di un’età nuova, quella della Controriforma44.
Si può menzionare il fatto che Clemente non ometteva nulla dei doveri principeschi. Nel 1533, in occasione del matrimonio di sua nipote Caterina con Enrico, delfino di Francia, fece montare un corno di liocorno sontuoso che, secondo Cellini, non valeva meno di 17000 ducati di camera. L’orafo ha raccontato anche come, per montarlo, egli 1
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 fu posto in concorrenza con Tobia di Camerino che prevalse (libro 1, cap. 60). Cfr. g. schönberger, Narwal-Einhorn. Studien über einen seltenen Werkstoff, in «Städel Jahrbuch», 9 (1935-36), pp. 204 sgg. 2 Per esempio quello del notaio Macinocchi, «De Clemente VII. Pont. Max. Obitu». Cfr. a. bertolotti, Note sincrone sui papi dalla metà del secolo XV a quella del XVI e sul sacco di Roma del 1527, in «Archivio Storico, Archeologico e Letterario della Città e Provincia di Roma», 4 (188 1), pp. 24,-55. 3 Poesie e prose cit., p. 76, n. xx. 4 vettori, Narrazione della presa di Roma per Borbone cit., pp. 423-24, citato da von pastor, Storia dei papi cit., vol. IV, parte II, libro III, p. 511. «Clemente VII non era né crudele, né orgoglioso, né simoniaco, né avaro, né stravagante, ma temperante, semplice, pio, zelante nell’adempimento dei suoi doveri religiosi. Nonostante ciò, sotto di lui Roma ha conosciuto le più grandi sventure, e gli altri papi, che erano pieni di vizi, vissero e morirono felicemente, agli occhi del secolo». 5 vasari, Le vite cit., VII, p. 191. 6 a. smart, Taddeo Gaddi, Orcagna and Eclipses, in Studies in Honour of Millard Meiss, New York 1977, p. 403. 7 «Nihil novi habemus praeter rumores de capta Roma, quos optarim vanos esse cum ob alias multas causas, tum quia metuo bibliothecis, quae nullo in loco totius orbis terrarum lucopletiores sunt quani ibi. Et tu scis, non modo milites nostros et Martem odisse libros, sed et hoc totum seculum nescio quo fato literis iniquius esse, quam ullum unquam fuisse credibile est». La lettera è datata «Die jovis post Exaudi» (Corpus Reformatorum, Halle 1834, vol. I, col. 869). 8 Lettera di Gerard Geldenhauer («Noviomagus») a Carlo V, in Collectanea, Amsterdam 1901, p. XLII. 9 Divi Caroli V Imp. Opt. Max. Victoriae, 1556; hollstein, Dutch and Flemish Etchings cit., n. 167. Un medaglione d’argento (Bibl. Vat.) attribuito a Leone Leoni riproduce la composizione (e. plon, Benvenuto Cellini, Paris 1883, p. xxxiv). Al contrario di ciò che è detto nella raccolta Fêtes et cérémonies au temps de Charles-Quint cit., p. 373 e nota 38, riteniamo che il rilievo derivi piuttosto dall’incisione, attenuando i suoi elementi polemici contro il re di Francia e il papa, che non viceversa. 10 yates, Charles-Quint cit., p. 79. 11 Ibid., pp. 88 sgg. 12 von pastor, Storia dei papi cit., vol. V, p. 102. 13 Oratio Rmi Sadoleti, in Concilio Tridentinum diarorum, actorum, epistularum, Tractatum nova collectio, pubblicazione della Societas Goerresiana, vol. XI, Freiburg im Breisgau 1930 n. 15, pp. 108 sgg. Questo importante discorso concorda perfettamente con la lettera spesso citata del 27 settembre 1527, in cui Sadoleto esponeva a Clemente prigioniero la sua reazione alle sciagure di Roma: «...Sempre vidi
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 e prospettai più chiaramente che si dovesse mutare o l’ordine pubblico o precipitare nell’estrema rovina. Avvenne ciò che non desideravo affatto... Ma se con i nostri tormenti si è placata l’ira e la verità di Dio e la durezza della pena dischiude la via a migliori costumi e più sante leggi, non fu forse per noi il peggiore dei mali» (Anecdota letteraria ex mss. codicibus, a cura di G. C. Amaduzzi, Roma 1783, vol. IV, p. 335). 14 Pietro Paolo Vergerio scrisse più tardi: «Tutte le facende di Clemente erano rivolte in ogni altro luogo che in Germania, queste di Paolo sono qui quasi tutta hora» (lettera all’Aretino del 1° luglio 1535, citata da von pastor, Storia dei papi cit., vol. V, p. 32. 15 Per esempio il sonetto di Nicolò Franco da Benevento, La misera Italia questi infelici tempi (1548): «Non ti piace, ser Carlo, che i Romani | oggi posti in un sacco | e scavallata | Fiorenza e tutta Napoli spogliata | e postala negl’unghie a’ Catalani?... | Non ti piace egli che a’ Veneziani | oggi la Lega rotta e mirinolata? | e che ne l’Alemagna scristianata | sia Fedinando re dei Luterani?» (Rime, Firenze 1916, pp. 53 Sgg.). Cfr. grendler, Critics of the Italian World cit., cap. v. 16 Bartsch, 418. Cfr. n. pevsner, Academies of Art Past and Present, London 1940 [trad. it. Le accademie d’arte, Torino 1982]. 17 Bartsch, 49. Con la menzione «Baccius Bandinellus inv.». 18 egger e hülsen, Drei Römischen Skizzenbücher cit. 19 vasari, Le vite cit., VII, pp. 10-11. 20 Ibid., pp. 653-55. Al punto di cadere malato, riferisce non senza fierezza lo storico. Probabilmente nel luglio 1532, egli dovette rientrare a Firenze. 21 j. von schi.osser, La letteratura artistica, Firenze 1964, pp. 196-97. 22 Cfr. cap. iv. 23 vasari, Le vite cit., VII, p. 499. 24 bataillon, Erasme et l’Espagne cit., p. 540. 25 de maio, Riforme e miti nella Chiesa del Cinquecento cit., cap. iv, pp. 93 sgg. 26 j. du bellay, Les Regrets, 1558, sonetto lxxxiii. g. gadoffre, Du Bellay et le sacré, Paris 1978, ha collocato il poema «in forma di visione» intitolato Le Songe nella turbata atmosfera di quel periodo. 27 von pastor, Storia dei papi cit., vol. VI, libro II, p. 402. 28 g. b. armenini, De’ veri precetti della pittura, Ravenna 1586, parte III. 29 Come indicato nel cap. iii, un reliquiario rubato durante il sacco in San Giovanni in Laterano fu ritrovato precisamente nel 1557 nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano di Calcata. p. de sandoval, Primera parte de la vida y hechos del emperador Carlos Quinto (1500-28), Valladolid 16o4, pp. 470-71, riferisce i miracoli che permisero di identificare allora «el sancto Prepucio».
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 Su Postel, cfr. j. secret, Les Kabbalistes chrétiens de la Renaissance, Paris 1964, pp. 171 sgg. 31 Per particolari sulle tombe medicee cfr. de tolnay, The Medici Chapel cit., cap. XI; d. heikamp, Die Entwurfszeichungen für die Grabmäler der Mediceerpäpste Leon X. und Clement VII., in «Albertina-Studien», 4 (1966), pp. 134 sgg.; v. l. goldberg, Leo X, Clement VII and the Immortality of the Soul, in «Simiolus», 8 (1975-76), pp. 16-25; e m. g. dupré, Per la cronologia dei disegni di Baccio Bandinelli fino al 1540, in «Commentari», 17 (1966), pp. 146-50. 32 vasari, Le vite cit., VI, p. 165. 33 Ibid., p. 172. Questi gruppi sono sempre sul posto a Palazzo Vecchio. Sul Palazzo Caffarelli-Vidoni, i fregi dipinti intorno al 1560-70 nello stile di Perino del Vaga contengono scene «all’antica»: glorificazione, exhortatio, incoronazione, trionfo sul carro, vittoria di Tunisi, ingresso a Roma, glorificazione da parte delle Virtù, tutte collocate tra un busto e l’altro degli imperatori. Cfr. fagiolo, La città effimera cit., figg. 88-92. 34 È la statua che sarà trasportata in Piazza San Lorenzo nel 1851, sul basamento – diventato fontana – della tomba di Giovanni dalle Bande Nere lasciato incompiuto da Baccio. 35 p. bargellini, Scoperta di Palazzo Vecchio, Firenze 1968, figg. 213-19. Il modello del soffitto della Sala di Giovanni dalle Bande Nere è al Louvre (cfr. barocchi, Vasari pittore cit., fig. 54). 36 vasari, Ragionamenti sopra le pitture di Palazzo Vecchio, in Le Opere di Giorgio Vasari, 1878-85, vol. VIII (382). 37 Ibid., p. 182. 38 Una serie di ventidue composizioni di Stradano incise sotto la direzione di Philip Galle celebra le vittorie della casa Medici. Cfr. hollstein, Dutch and Flemish Etchings cit., vol. VII, p. 80: «Mediciae Familiae rerwn feliciter gestarum o in victoriae et triumphi jobanne Stradano Flandro... delinuta... Philippo co in aes incisa et edita, 1583». Vi si trova tra l’altro una sorprendente Uscita delle truppe da Castel Sant’Angelo al tempo di Giovanni dalle Bande Nere, che capovolge completamente la situazione dei 1527. 39 Nel secolo xv era apparsa un’immagine di Fortuna del tutto diversa dalla figura allegorica con la ruota, dei medioevo (cfr. cap. ii, nota 81): quella della divinità che regge la vela e il timone, di origine antica. Alberti ne trasse partito a Palazzo Rucellai e sulla facciata di Santa Maria Novella (nel fregio decorativo). Verso il 1480, un medaglista fiorentino sfruttò il motivo che godeva di un elevato patrocinio della filosofia: Platone (Leggi, IV, 709 A), e Ficino (epistola a Giovanni Rucellai). Cfr. a. warburg, Francesco Sassetis Letzwillige Verfügung (1907), in Gesammelte Schriften, Leipzig 1932, vol. I, p. 147; a. chastel, Art et Humanisme à Florence au temps de Laurent le Magnifique, Paris 1961, 30
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André Chastel - Il sacco di Roma. 1527 pp. 205-6 [trad. it. Arte e umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico, Torino 197-99; e f. wind, Platonic Tyranny and the Renaissance «Fortuna», in De artibus opuscula XL. Essays in Honor of Erwin Panofsky, New York 1960, pp. 492 sgg. 40 e. p. pillsbury, A Medici Portrait by Carlo Portelli, in Essays presented to Myron p. Gilmore, Firenze 1978, vol. II, pp. 289 sgg. 41 p. brugnoli, Maestri della pittura veronese, Verona 1974, p. 222, fig. 155; v. filippini, Il Palazzo Ridolfi e l’affresco di Domenico Brusasorzi, prefazione di P. Gazzola, Verona 1953. 42 Il tema fu ripetuto pochi anni più tardi al Palazzo Ridolfi (1582). Alcuni disegni per questa composizione, ritrovati recentemente, attestano la qualità piuttosto forte dello Stile: r. harpath, Graphische Sammlung (München), Italienische Zeichnungen, München 1977. 43 g. b. giraldi, Hecatommithi cit. 44 m. righetti, Per la storia della novella italiana al tempo della reazione cattolica, Teramo 1921.
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