Analitica Del Bello
March 19, 2017 | Author: Rocco Di Nardi | Category: N/A
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Riassunto della sezione "Analitica Del Bello" di Immanuel Kant....
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Nella Critica del giudizio (1790), Kant si sforza di superare gli esiti contrastanti ai quali è pervenuto nelle due precedenti Critiche, ovvero l’antinomia apparentemente insanabile fra necessità naturale e libertà morale. L’imperio della natura non può infatti, secondo Kant, essere tale da rendere vana l’aspirazione dell’uomo alla libertà e alla moralità; oltre la necessità naturale che impone all’uomo la propria legge, deve esistere in natura una sorta di ordinamento provvidenzialmente volto, finalizzato a che l’uomo possa comunque raggiungere (seppur stretto dalla necessità) gli scopi propri delle aspirazioni alla libertà e alla moralità. Per Kant, è il Giudizio la capacità della nostra ragione in grado di giustificare — sia pure solo come possibilità e non anche come realtà — una finalità della natura conforme alle aspirazioni e agli ideali dell’uomo in primo luogo appunto quello del bene, ma anche quello della bellezza; è il Giudizio, cioè, la facoltà che può tentare una mediazione fra l’intelletto teorico, che afferma la cieca fatalità degli eventi naturali — e la ragione pratica —che sostiene la libertà dell’agire umano, l’immortalità dello spirito e l’ordine del mondo. La sua attività è congiunta alle sensazioni di piacere e di dolore ed è sempre caratteristicamente individuale, soggettiva. La rappresentazione estetica (del bello, in particolare) è accompagnata dal piacere che sorge dalla percezione della pura forma di un oggetto, indipendentemente dalla sua materia e dal suo scopo. Nel giudizio di gusto si ha pertanto un piacere disinteressato.
ANALITICA DEL BELLO Momenti del giudizio del gusto: 1)(QUALITA') Bello è l’oggetto di un piacere mediante cui si giudica qualcosa senza interesse. 2) (QUANTITA') Bello è ciò che piace universalmente senza concetto. 3) (RELAZIONE) Bello è ciò che viene percepito secondo una finalità in cui manca la rappresentazione di uno scopo. 4) (MODALITA') Bello, infine, è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario
Primo momento del giudizio di gusto secondo la qualità. per distinguere se qualcosa è bella o meno ci si riferisce NON all’oggetto in se ma al soggetto che giudica mediante l’immaginazione. Quindi il giudizio di gusto (che è la facoltà di giudicare un oggetto mediante un compiacimento, che ha come oggetto il bello, senza alcun interesse) non è un giudizio di conoscenza (e quindi logico), quindi è soggettivo pertanto può dirsi “estetico”.
Secondo momento del giudizio di gusto, cioè secondo la sua quantità Se quindi ci si compiace per il bello senza alcun interesse, tale bello deve avere un principio di compiacimento universale. Infatti proprio perché il giudicante è libero in rapporto al compiacimento che dedica all’oggetto, egli non può trovare condizioni priviate e quindi deve presupporre tale compiacimento anche in ciascun altro. Al piacevole non potrà mai esser dato valore universale ma solo generale, al buono viene rappresentato sì come oggetto di compiacimento universale, ma solo mediante un concetto (cosa che non accade né nel piacevole né nel bello). Il bello media quindi tra buono e piacevole: dal piacevole prende la sua immediatezza ed il suo non esser basato su un concetto, mentre dal buono prende la sua universalità. l’universalità pretesa dal giudizio del bello non è logica in quanto non riposi nel concetto dell’oggetto, bensì è universalità estetica e quindi è di tipo speciale in quanto si estende alla sfera dei giudicanti. Se si giudicano quindi gli oggetti semplicemente secondo concetti, andrebbe perduta ogni rappresentazione del bello. Il giudizio di gusto non postula l’accordo di ciascuno, lo richiede semplicemente aspettandosi la conferma non da concetti ma dall’adesione degli altri, la voce universale è quindi solo un’ idea. Nel giudizio di gusto, proprio per questo motivo (avere capacità di comunicazione universale e non privata), non può precedere il sentimento del piacere. Per avere valore oggettivo la rappresentazione di un oggetto deve avere un punto di riferimento universale con cui la facoltà rappresentativa di tutti è obbligata ad armonizzarsi e visto che il principio di determinazione del giudizio deve essere pensato come semplicemente soggettivo, allora quel principio non può che essere lo stato dell’animo che si da nel rapporto tra facoltà rappresentative che riferiscono una rappresentazione data alla conoscenza in genere. Le facoltà rappresentative chiamate in causa si trova in un libero gioco che nessun concetto determinato le possa limitare ad una particolare regola conoscitiva, quindi lo stato d’animo su cui si fonda il principio per la quale ogni facoltà rappresentativa, nel giudizio puro di gusto, deve armonizzarsi, è appunto quello di un sentimento del libero gioco delle facoltà rappresentative in una rappresentazione data per una conoscenza in genere. Queste facoltà rappresentative sono l’immaginazione (per la composizione del molteplice dell’intuizione) e l’intelletto (per l’unità del concetto che unifica le rappresentazioni).
Se la rappresentazione (che da occasione al giudizio di gusto) fosse un concetto unificante intelletto e immaginazione nel giudizio sull’oggetto si avrebbe una coscienza intellettuale di tale rapporto, a tal punto il giudizio di gusto non verrebbe dato in riferimento al piacere e dispiacere e quindi non sarebbe un giudizio di gusto. Per avere un giudizio di gusto bisogna quindi riconoscere l’unità soggettiva di quel rapporto soltanto mediante la sensazione, la cui universale comunicabilità è postulata dal giudizio di gusto.
Terzo momento del giudizio di gusto la relazione degli scopi che in essi è presa in considerazione Essendo uno scopo l’oggetto di un concetto in quanto questo sia la causa di quello e essendo la conformità a scopi la causalità di un concetto nei riguardi del suo oggetto, là dove un oggetto vien considerato possibile grazie ad un so concetto, si pensa dunque ad uno scopo. La coscienza della causalità di una rappresentazione rispetto al soggetto può designare il piacere. La facoltà di desiderare cioè di agire conformemente ad uno scopo è la volontà. Detto questo, un oggetto, stato d’animo o azione si può dire conforme a scopi anche se la loro possibilità non presupponga necessariamente la rappresentazione di uno scopo per il semplice fatto che essa abbia bisogno di essere spiegata mediante una causalità secondo scopi. Quindi possiamo almeno osservare una conformità a scopi secondo la forma anche senza porre a suo fondamento uno scopo e possiamo rilevarla negli oggetti sebbene solo con la riflessione. Ogni scopo quando è fondamento del compiacimento comporta sempre un interesse che determina il giudizio sull’oggetto, quindi non può stare a fondamento del giudizio di gusto uno scopo soggettivo, ma neppure la rappresentazione di uno scopo oggettivo. Di conseguenza né la piacevolezza né la perfezione dell’oggetto, né il concetto di buono possono contenere il principio di determinazione del giudizio di gusto. Quindi, nella rappresentazione di un oggetto, solo la conformità soggettiva a scopi senza scopo, e quindi la semplice forma della conformità a scopi, può costituire il compiacimento che è quindi il principio di determinazione del giudizio di gusto. Il piacere del giudizio estetico si distingue dal piacere morale in quanto quest’ultimo sia pratico, mentre l’altro è semplicemente contemplativo: la coscienza della conformità a scopi semplicemente formale nel gioco delle facoltà conoscitive del soggetto è il piacere stesso poiché essa contiene un principio di attività del soggetto in vista di un ravvivamento delle sue facoltà conoscitive quindi una causalità interna senza tuttavia essere limitata a una
conoscenza determinata. Questo piacere non è in alcun modo pratico né come quello che procede dal fondamento del piacevole, né come quello che procede dal fondamento del buono. Eppure ha una causalità in sé, quella di mantenere lo stato della rappresentazione stessa e l’attività delle facoltà conoscitive senza altro intento. Ogni interesse altera il giudizio di gusto soprattutto quando esso non da precedere la conformità a scopi al sentimento del piacere, avendo bisogno del miscuglio di attrattive ed emozioni per il compiacimento, o addirittura rendendo esse criterio d’approvazione. La conformità a scopi oggettiva o è esterna (utilità) o interna (perfezione), in caso fosse interna si avvicinerebbe tanto al predicato della bellezza da essere stata confusa con esso anche da filosofi rinomati, ma solo in caso essa venga pensata confusamente. Esistono infatti due tipi di perfezione: quella qualitativa in cui lo scopo di un oggetto precede il suo concetto e il molteplice si armonizza nella cosa rispetto a questo concetto; e quella quantitativa che è un semplice concetto di grandezza nel quale il concetto dell’oggetto è già determinato e ci si domanda se in essa ci sia tutto ciò che è richiesto a questo riguardo. Ciò che è formale nella rappresentazione di una cosa non dà a conoscere in alcun modo una conformità a scopi oggettiva poiché astraendo non resta che la conformità a scopi soggettiva, la quale indica l’agevolezza del soggetto ad apprendere nell’immaginazione una forma data, ma non una perfezione di un qualche oggetto, che non è qui pensato mediante un concetto di uno scopo. Rappresentarsi una conformità a scopo formale e oggettiva, ma senza scopo, cioè solo la forma di una perfezione è una vera contraddizione, quindi visto che la bellezza è basata su conformità a scopi formale e soggettiva, riguardo la perfezione dell’oggetto essa non viene pensata né formale né oggettiva. Vi sono due specie di bellezza: bellezza libera (non presuppone alcun concetto di ciò che l’oggetto deve essere), bellezza aderente (presuppone un tale concetto e la perfezione dell’oggetto secondo quel concetto). Nel giudicare la bellezza libera il giudizio di gusto è puro, non è presupposto un concetto di qualche scopo e quindi ciò che questo debba rappresentare con il che verrebbe soltanto limitata l’immaginazione. Anche se il giudizio di gusto si allaccia con il primo tipo di bellezza, comunque, né la perfezione guadagna dalla bellezza, né la bellezza guadagna dalla perfezione, ma dal momento che quando paragoniamo ad un oggetto la sua rappresentazione mediante un concetto, non si può evitare di tenerla insieme nel soggetto con la sensazione, allora quando sia armonizzano tra loro entrambi gli stati d’animo, ne guadagna la facoltà rappresentativa. Ogni giudizio di gusto è estetico quindi non può esserci alcuna regola che determini il bello mediante un concetto, bensì soltanto un sentimento soggettivo che funge da suo principio di determinazione. Tale principio ammetta l’universale comunicabilità della sensazione senza concetto,
ma come concordanza: questo è il criterio empirico . Essendo il gusto una facoltà che ciascuno esercita da se, chi imita un modello, nella misura in cui lo realizza con successo, da prova soltanto della propria abilità, mentre da prova di gusto solo nella misura in cui può giudicare da se tale modello. Il più alto modello, ovvero l’archetipo di modello, è una semplice idea (idea = concetto della ragione; ideale = rappresentazione di un essere in quanto adeguato ad un idea). Essendo dunque l’archetipo di modello non rappresentato mediante concetti ma solo in una singola esibizione, può esser meglio detto “ideale di bellezza”, tale che, se non lo possediamo, ci sforziamo di produrlo in noi. La bellezza per la quale va ricercato tale ideale non è vaga, ma fissata da un concetto di conformità oggettiva a scopi e di conseguenza deve competere a un giudizio di gusto non interamente puro, ma in parte intellettualizzato e solo ciò che ha lo scopo della sua esistenza in se stesso, l’essere umano, può o determinare da sé con la ragione i suoi scopi oppure, prendendoli da una percezione esterna, può coordinarli con scopi essenziali e universali e quindi giudicarne l’armonia esteticamente. Ad esso appartengono l’idea normale estetica (singola intuizione) e l’idea della ragione (che fa degli scopi dell’ umanità il principio del giudizio su una figura attraverso la quale quegli scopi si manifestano nel fenomeno). L’idea normale deve prendere dall’esperienza i suoi elementi per formare la figura di un animale di un genere particolare, ma la massima conformità a scopi nella costruzione della figura, l’immagine, sta semplicemente nell’idea del giudicante, la quale però, in quanto idea estetica, può essere esibita del tutto in concreto con un’immagine che è modello. L’ideale, nell’essere umano, consiste nell’espressione della moralità e anche se l’espressone visibile di idee morali nell’essere umano può essere presa solo dall’esperienza, il loro legame con ciò che collega la ragione con il buono morale nell’idea della più alta conformità a scopi, può esser colta da idee pure della ragione e grande potenza dell’immaginazione. La giustezza dell’ideale di bellezza è provata dal fatto che esso non permette che si mischi l’attrattiva dei sensi e tuttavia lascia che vi si prenda un grande interesse, il che prova che giudicare secondo tale criterio non può mai essere puramente estetico.
Quarto momento del giudizio di gusto la modalità del compiacimento per l’oggetto Del bello si pensa che abbia un riferimento necessario al compiacimento, questa necessità è di tipo speciale: non è teoretica oggettiva, né è una necessità pratica, ma può essere chiamata, soltanto esemplare, vale a dire: una necessità dell’accordo di tutti in un giudizio considerato esempio di una regola universale che non si può addurre. Il giudizio di gusto richiede l’accordo di ciascuno, dichiarare bello qualcosa vuol dire quindi intendere che ciascuno debba dare la medesima approvazione all’oggetto giudicato. Nel giudizio estetico dunque ci si pronuncia riguardo al
dovere solo condizionatamente, si aspira cioè a ottenere l’accordo universale perché si ha un principio che è comune a tutti. Il giudizio di gusto deve avere un principio soggettivo, che solo mediante il sentimento, e non mediante concetti, ed in modo universalmente valido, determini ciò che piace o meno. Ma tale principio può essere considerato solo come un senso comune, il quale è essenzialmente distino dal comune intelletto. Solo nella presupposizione di questo senso comune (con il quale si intende un libero gioco delle nostre facoltà conoscitive) può essere pronunciato il giudizio di gusto Se le conoscenze si debbono poter comunicare universalmente, allora deve essere comunicabile universalmente anche lo stato dell’animo, vale a dire la disposizione dell’accordo delle facoltà conoscitive per una conoscenza in genere e precisamente quella proporzione che si addice a una rappresentazione per farne una conoscenza. Questa disposizione all’accordo delle facoltà conoscitive ha una diversa proporzione secondo la diversità degli oggetti dati. Tuttavia ce ne deve essere una (disposizione), in cui questo rapporto per il ravvivamento dell’una facoltà con l’altra sia il più favorevole possibile per entrambe le facoltà dell’animo, questa disposizione deve essere determinata dal sentimento e, visto che, sia essa che il sentimento di essa devono essere comunicati universalmente, presupponendo il sentimento un senso comune, allora questo può essere ammesso con ragione e non mediante osservazioni psicologiche. Tale senso comune, che non concede a nessuno di essere di altro parere, nonostante il giudizio non sia fondato su concetti, ma solo sul nostro sentimento, non può essere fondato sull’esperienza poiché non dice che ciascuno si accorderà con il nostro giudizio, ma che deve armonizzarsi con esso. Bisogna quindi attribuirgli validità esemplare in quanto sia una semplice norma ideale, e tale principio preso soggettivamente e tuttavia come soggettivamente universale e addirittura, riguardo alla concordanza universale, come principio oggettivo, potrebbe richiedere un accordo universale se si fosse sicuri di aver sussunto correttamente sotto quella regola. In conclusione solo una conformità a leggi senza legge e un accordo soggettivo dell’immaginazione nei riguardi dell’intelletto senza accordo oggettivo (in cui la rappresentazione è riferita a un concetto determinato di un oggetto) possono coesistere con la libera conformità a leggi dell’intelletto e con la peculiarità di un giudizio di gusto.
DEDUZIONE DEI GIUDIZI ESTETICI PURI Nella natura solo il sublime può essere considerato come del tutto privo di forma o informe e tuttavia come oggetto di compiacimento puro e può mostrare una conformità soggettiva a scopi della rappresentazione data. Tale
sublime propriamente deve essere attribuito solo al modo di pensare, infatti l’apprensione un oggetto privo di forma e non conforme a scopi fornisce semplicemente l’occasione di divenirne consapevoli, il quale oggetto viene inteso solo soggettivamente conforme a scopi ma ovviamente non in ragion della sua forma. Perciò la nostra esposizione dei giudizi sul sublime della natura era nello stesso tempo la loro deduzione. Quindi bisogna andare in cerca solo della deduzione di giudizi di gusto cioè dei giudizi sulla bellezza delle cose di natura e non sul sublime poiché in esso deduzione ed esposizione coincidono. L’obbligo di una deduzione ricorre solo se il giudizio avanza un’esigenza di necessità ed anche nel caso in cui richiede un universalità soggettiva. Bisogna quindi provare solo la validità universale di un giudizio singolare che esprime conformità soggettiva a scopi di una rappresentazione della forma di un oggetto per spiegare come qualcosa possa piacere sia semplicemente nel giudizio sia come il compiacimento di uno qualsiasi possa esser dichiarato universale. Tale validità universale non deve fondarsi su un autonomia del soggetto che giudica intorno al sentimento di piacere ne deve derivare da concetti, in tal modo un giudizio cosiffatto possiede in primo luogo la validità universale a priori, non logica ma l’universalità di un giudizio singolare, e in secondo luogo una necessità che non dipende da argomenti a priori grazie ai quali la sua rappresentazione possa essere imposta all’ approvazione che il giudizio di gusto esige. Il giudizio di gusto consiste nel reputare una cosa bella in rapporto alla quale essa si regola sul nostro modo di apprenderla. Si dovrebbe pensare che un giudizio a priori debba contenere un concetto dell’oggetto, per la cui conoscenza contiene il principio, eppure il giudizio di gusto non si fonda su concetti e non è affatto un giudizio di conoscenza, ma solo estetico; esso trova nel proprio desiderio di approvazione un motivo per accomodarsi al comune abbaglio. Il gusto semplicemente avanza un esigenza di autonomia. Pertanto il seguire, non l’imitazione, è la giusta espressione per designare come ogni influenza che possono avere su altri i prodotti di un autore esemplare e, tra tutte le altre facoltà e talenti, è proprio il gusto, poiché il suo giudizio non è determinabile mediante concetti ad aver bisogno più di tutti di esempi di talentuosi. Il giudizio di gusto non è affatto determinabile per mezzo di argomenti, come se esso fosse semplicemente soggettivo: l’approvazione degli altri non da alcuna prova valida per il giudizio sulla bellezza, infatti ciò che molti hanno visto allo stesso modo può servire solo come argomento finalizzato ad un giudizio teoretico, non quindi estetico. Alla rappresentazione di un oggetto bello si sente il piacere immediatamente ed esso non può essermi imposto a parole mediante argomenti. Quindi un principio adeguato di determinazione del proprio giudizio possono aspettarselo non dalla forza degli argomenti, ma solo dalla riflessione del soggetto sul
proprio stato. I critici dunque non dovrebbero ragionare a fine d’esporre questa specie di giudizi in una formula universale utilizzabile, bensì far ricerca intorno alle facoltà conoscitive e ai loro compiti in questi giudizi, analizzando la reciproca conformità a scopi soggettiva. La critica del gusto è l’arte o la scienza di riportare a regole il rapporto reciproco di intelletto e immaginazione nella rappresentazione data. È arte quando mostra ciò in esempi è scienza quando deriva la possibilità di tal giudicare dalla natura queste facoltà. Qui in quanto critica trascendentale, ha funzione di scienza. Il giudizio di gusto si distingue da quello logico in quanto quest’ultimo sussume una rappresentazione a concetti dell’oggetto, mentre il primo no, tuttavia è simile a quello in quanto vanti un universalità e necessità (ma soltanto soggettiva). Non essendo, pertanto, il giudizio di gusto fondabile su oggetti, esso si fonda soltanto sulla condizione soggettiva formale di un giudizio in genere, tale condizione soggettiva è la stessa capacitò di giudicare che richiede l’armonizzarsi delle due facoltà rappresentative: immaginazione e intelletto. Con una percezione può anche essere legato immediatamente un sentimento di piacere, un compiacimento che accompagna la rappresentazione dell’oggetto e sta ad essa in luogo di predicato, così può nascere un giudizio estetico che non è un giudizio conoscitivo. Alla base di tale giudizio (formale di riflessione che esige da ciascuno quel compiacimento) deve stare un principio a priori che può essere soltanto soggettivo, ma che ha bisogno comunque di una deduzione con la quale si comprenda la possibilità di avanzare esigenza di necessità da parte del giudizio estetico. Quindi: come è possibile un giudizio che, a partire dal proprio sentimento del piacere, indipendentemente da concetti, giudichi a priori quel piacere come condiviso da qualsiasi altro soggetto? Visto che i giudizi di gusto sono sintetici (aggiungono all’intuizione di un oggetto un predicato che non è nemmeno conoscenza ma sentimento di piacere), la domanda si trasforma: come sono possibili i giudizi sintetici a priori? A priori non si può legare un sentimento determinato a una rappresentazione, se non nel caso in cui sta a fondamento, un principio a priori che determina la volontà, ma poiché il piacere ne è la conseguenza esso non piò essere in alcun modo paragonato con il piacere nel gusto dato che quello richiede un concetto di legge mentre questo deve essere legato immediatamente al semplice giudizio. Quindi non il piacere, ma la validità universale del piacere, è ciò che nel giudizio di gusto viene rappresentato a priori. Ora, dal momento che la facoltà di giudizio può rivolgersi a ciò che di soggettivo può essere presupposto in tutti gli uomini, allora deve poter essere ammesso come valido a priori per ciascuno l’accordo di una rappresentazione con queste condizioni della facoltà di giudizio.
Quando la sensazione si riferisce ad una conoscenza, si chiama sensazione dei sensi e può essere comunicata solo se si assume che ciascuno abbia lo stesso senso. La piacevolezza o spiacevolezza associata alla sensazione del medesimo oggetto dei sensi non può assolutamente pretendere universalità (un piacere di questo tipo può esser chiamato di godimento). Il compiacimento per un azione morale non è di godimento ma di una spontaneità e della sua conformità all’idea della propria destinazione, tale sentimento (detto morale), richiede però dei concetti ed esibisce una conformità a scopi non libera, ma in accordo con leggi. Il piacere per il sublime della natura in quanto piacere della contemplazione ragionante, avanza un’ esigenza di partecipazione universale, ma già presuppone tuttavia un altro sentimento, ovvero quello della propria destinazione soprasensibile che ha un fondamento morale. Tale compiacimento è attribuibile a ciascuno mediante legge morale che per parte sua è fondata su concetti della ragione. Invece il piacere per il bello non è del godimento, né di un’attività in accordo con leggi, neppure di contemplazione ragionante, ma è un piacere della semplice riflessione. Questo piacere accompagna la comune apprensione di un oggetto mediante l’immaginazione in riferimento all’intelletto per mezzo di un procedimento della facoltà di giudizio per percepire la conformità della rappresentazione all’attività armonica di entrambe le facoltà conoscitive nella loro libertà. Alla facoltà di giudizio si da spesso il nome di senso, e il comune intelletto umano, ha anche l’onore di essere etichettato con il nome di senso comune (comune= si trova dappertutto). Ma con sensus communis si deve intendere l’idea di una facoltà giudicante che nella sua riflessione ha riguardo a priori nel pensiero di ognuno. Dunque il gusto può essere detto sensus communis con più ragione del sano intelletto, e che la facoltà di giudizio può portare il nome di senso che abbiamo in comune. Solo là dove l’immaginazione risveglia l’intelletto e questo, senza concetto, mette l’immaginazione in un gioco conforme a regole, là si comunica la rappresentazione in quanto sentimento interno di uno stato d’animo conforme a scopi. Il gusto dunque è la facoltà di giudicare a priori la comunicabilità dei sentimenti legati a una rappresentazione data. Da tutto ciò segue che essendo dato un giudizio estetico puro, possa esservi legato un interesse, anche se questo legame può essere soltanto indiretto (legato quindi con qualcosa d’altro). Tale qualcosa d’altro può essere empirico (inclinazione umana) o intellettuale ( proprietà di esser determinata a priori dalla ragione). Empiricamente il bello interessa solo nella società, ma ‘interesse empirico non ha nessuna importanza se si deve considerare solo ciò che può avere relazione con il giudizio di gusto a priori. Il sentimento per il bello non è molto diverso dal sentimento morale anche se ha con questo, poca compatibilità. Chi ha un interesse immediato per la
bellezza della natura è sempre contrassegno di un anima buona che denota una disposizione dell’animo favorevole al sentimento morale. Ed un interesse immediato ed intellettuale per la bellezza della natura è di chi apprezza i prodotti della natura non semplicemente per la forma, ma anche per l’esistenza senza che vi abbia parte un attrattiva di sensi o uno scopo. Tale primato della natura rispetto alla bellezza artistica si accorda con quegli uomini che hanno coltivato il proprio sentimento morale. Poiché inoltre interessa la ragione che le idee abbiano anche realtà oggettiva e quindi che la natura dia un cenno di contenere un principio per ammettere un accordo tra le leggi dei suoi prodotti e il nostro compiacimento, allora la ragione deve avere un interesse per ogni manifestazione della natura di un accordo simile a quello e quindi l’animo non può meditare sulla bellezza senza trovarsi anche interessato. Questo interesse non è comune ma è solo di coloro il cui modo di pensare si è già formato rispetto al bene e allora l’analogia tra giudizio di gusto (che fa provare compiacimento universale) ed il giudizio morale che fa lo stesso sulla base di concetti, porta un pari interesse immediato per l’oggetto del primo (interesse libero) e per quello del secondo (interesse fondato su leggi oggettive). Nel giudizio di gusto puro per il compiacimento per l’arte bella l’interesse non è legato con un interesse immediato come quello per la natura poiché l’arte bella o è imitazione della natura (e quindi produrrà l’effetto di una presunta bellezza naturale) oppure è intenzionalmente diretta al nostro compiacimento e quindi non potrà mai interessare per se stessa ma solo per il suo scopo. 1) L’arte è distinta dalla natura come il fare lo è dall’agire. Si dovrebbe chiamare arte solo la produzione mediante libertà, cioè mediante un arbitrio che ponga la ragione a fondamento delle sue azioni 2) l’arte in quanto abilità dell’uomo è anche distinta dalla scienza, quale facoltà pratica della facoltà teoretica, quale tecnica della teoria. Pertanto non si chiama arte ciò che si può fare basta che si sappia ciò che si deve fare, bensì solo ciò che anche se lo si conosce completamente, non si ha già tuttavia l’abilità di farlo appartiene all’arte. 3)l’arte è anche distinta dal mestiere: la prima si dice arte liberale ed è un occupazione piacevole, l’altro può anche essere detto arte mercenaria, non è piacevole ed è allettante solo per il suo effetto. Se l’arte, adeguata alla conoscenza di un oggetto possibile, esegue per realizzarlo semplicemente le azioni a ciò richieste, è arte meccanica, ma se ha come immediato intento il sentimento del piacere, si chiama allora arte estetica. Questa o è arte piacevole (mirata semplicemente al godimento) oppure è arte bella che è modo rappresentativo conforme a scopi ma senza scopo che promuove la cultura delle facoltà d’animo in vista di comunicabilità universale che porta piacere non del godimento ma della riflessione.
Dinnanzi ad un prodotto dell’arte bella si deve essere consapevoli che si tratta di arte e non natura, tuttavia la conformità a scopi nella forma di esso deve parere così libera da ogni costrizione di regole che se fosse un prodotto di natura. In generale il bello è ciò che piace nel semplice giudicare. Ora l’arte ha sempre l’intento di produrre qualcosa; Se questo qualcosa fosse semplice sensazione soggettiva che dovesse essere accompagnata da piacere, allora il prodotto piacerebbe solo per mezzo del sentimento dei sensi, se invece l’intento fosse indirizzato alla produzione di un oggetto determinato, la realizzazione di questo mediante l’arte piacerebbe solo mediante concetti. Quindi la conformità a scopi nei prodotti dell’arte bella, pure se intenzionale, deve parere non intenzionale: bisogna guardarla come se fosse natura. Genio è il talento che da la regola all’arte. Poiché il talento appartiene esso stesso alla natura si potrebbe dire: genio è quell’attitudine innata dell’animo mediante la quale la natura dà la regola all’arte. È possibile provare quindi che le belle arti debbano essere necessariamente considerate come arti del genio. Infatti se ogni arte presuppone regole secondo le quali un oggetto artistico dev’esser possibile e visto che il concetto di arte bella non permette che un giudizio su un suo prodotto derivi da regole determinate da un concetto, quest’arte bella non può trarre da se stessa la regola secondo la quale sia possibile un suo prodotto perciò tale regola deve venirle conferita dalla natura: per questo motivo l’arte bella è possibile solo come prodotto del genio. Per giudicare gli oggetti belli in quanto tali è richiesto gusto, ma per l’arte bella in sé, cioè per la produzione di tali oggetti è richiesto il genio. Per giudicare una bellezza naturale non ho bisogno di avere in anticipo un concetto di che cosa l’oggetto deve essere (scopo), ma basta la sua semplice forma senza conoscenza dello scopo. Se, invece, l’oggetto giudicato è dato come prodotto dell’arte e in quanto tale è bello, deve essere allora presupposto a suo fondamento un concetto di ciò che la cosa deve essere (dato che l’arte presuppone sempre uno scopo). La natura non viene giudicate in quanto appare come arte, ma in quanto è realmente arte (sovraumana), e il giudizio teleologico serve al giudizio estetico da base e condizione, di cui questo deve tener conto. L’arte bella mostra la sua superiorità nel fatto che essa descrive bellamente cose che in natura sarebbero brutte o spiacevoli. Per dare forma dell’esibizione di un concetto ad un prodotto dell’arte bella è richiesto semplicemente il gusto a quale l’artista s’attiene nella sua opera finché non trovi quella forma che lo appaghi. Il gusto però è semplicemente una facoltà di giudicare e non una facoltà produttiva, dunque ciò che gli è conforme non è appunto necessariamente un opera della dell’arte bella. In un opera quindi che dovrebbe essere dell’arte bella, si può scorgere spesso genio senza gusto o gusto senza genio. Per spirito si intende il principio vivificante dell’animo, ma ciò per cui questo principio vivifica l’anima è ciò che da impulso alle facoltà dell’animo. Tale
principio non è nient’altro che la facoltà dell’esibizione di idee estetiche, per idea estetica si intende la rappresentazione dell’immaginazione senza che però qualche concetto possa esserle adeguato. Si vede facilmente che essa è il correlato dell’idea razionale (che viceversa è un concetto cui non può essere adeguata alcuna intuizione). Si possono chiamare idee le rappresentazioni dell’immaginazione poiché da una parte tendono a qualcosa che sta al di là dei confini dell’esperienza e così cercano di approssimarsi a un’esibizione dei concetti razionali, dall’altra parte perché ad esse, in quanto intuizioni interne, nessun concetto può essere completamente adeguato. Le forme che costituiscono non l’esibizione stessa di un concetto dato ma esprimono soltanto le conseguenze che vi si collegano e la parentela di quel concetto con altri si chiamano attribuiti (estetici). Essi rappresentano ciò che della sublimità e maestà della creazione sta nei nostri concetti, ma qualcosa d’altro che da occasione all’immaginazione di diffondersi su una quantità di rappresentazioni imparentate. Dunque l’idea estetica è una rappresentazione dell’immaginazione associata a un concetto dato, la quale, nel libero uso dell’immaginazione, è legata a una moltitudine di rappresentazioni parziali che non può esserne trovata un espressione che designi un concetto determinato. Le facoltà dell’animo la cui unione costituisce il genio sono dunque immaginazione e intelletto, ma, poiché l’immaginazione è sottoposta alla costrizione dell’intelletto e alla limitazione di essere adeguata al suo concetto e, tuttavia, dal punto di vista estetico, libera per fornire materia all’intelletto (che però applica soggettivamente per vivificare le facoltà conoscitive), allora il genio consiste in quel felice rapporto nel rinvenire idee per un concetto dato e per altro verso nell’indovinarne l’espressione mediante la quale la disposizione dell’animo così provocata sia comunicabile universalmente. Quest’ultimo talento si dice spirito (rende comunicabile agli altri lo stato d’animo di una cerca rappresentazione). Ci sono due diversi modi di comporre nella loro esposizione, i propri pensieri: maniera ( non ha altro criterio che il sentimento dell’unità dell’esibizione) metodo (segue principi determinati) quindi per l’arte bella vale solo il primo, ma manierato si chiama il prodotto dell’arte solo se l’esposizione della sua idea mira in esso alla stranezza e non è resa in modo adeguato all’idea. Ai fini della bellezza non è richiesto in modo così necessario l’essere ricchi e originali nelle idee, ma piuttosto richiesta l’adeguatezza dell’immaginazione, nella sua libertà, alla conformità a leggi dell’intelletto. Ed è proprio la facoltà di giudizio che possiede la capacità di adattare l’immaginazione all’intelletto. Se quindi nel conflitto dei due tipi di qualità (gusto e genio) bisognerò sacrificarne uno, ciò dovrebbe accadere piuttosto dal lato del genio: La facoltà di giudizio permetterà che si danneggi la libertà e la ricchezza dell’immaginazione piuttosto che l’intelletto.
Dialettica della facoltà estetica di giudizio
Una facoltà di giudizio per essere dialettica deve essere innanzi tutto ragionante, cioè i suoi giudizi debbono avanzare l’esigenza dell’universalità. Non resta quindi altro concetto di una dialettica, che possa riguardare il gusto oltre quello di una dialettica della critica del gusto sotto il profilo dei suoi principi. La critica trascendentale del gusto quindi conterrà una parte che può portare il nome di dialettica della facoltà estetica di giudizio solo se si trova un’antinomia dei principi di questa facoltà che rende dubbia la sua conformità a leggi e perciò la sua interna possibilità. Il primo luogo comune del gusto è contenuto nella proposizione “Ciascuno ha il gusto proprio” ed il giudizio non ha alcun diritto al necessario accordo degli altri; il secondo luogo comune è “Sul giudizio non si può disputare e cioè il suo principio di determinazione non può essere riportato a concetti determinati. Manca una proposizione che, nonostante non sia proverbiale, è nella mente di ciascuno: sul gusto non si può discutere. Dunque si crea la seguente antinomia: 1) Tesi: Il giudizio di gusto non si fonda su concetti 2) Antitesi Il giudizio di gusto si fonda su concetti (altrimenti non se ne potrebbe neppure discutere) Per risolvere l’antinomia non c’è altro modo se non quello di mostrare che il concetto non deve essere preso nel medesimo senso nelle due massime della facoltà estetica, infatti esso ha duplice senso fondamentale alla nostra facoltà trascendentale di giudizio. Ogni contraddizione dunque cade se si dice: Il giudizio di gusto si fonda su un concetto a partire dal quale però nulla può essere conosciuto e provato riguardo all'oggetto, poiché esso (il concetto) è in sé indeterminabile e idoneo alla conoscenza e tuttavia proprio mediante esso il giudizio acquista nello stesso tempo validità per ciascuno. Quindi nella tesi si dovrebbe dire: il giudizio di gusto non si fonda su concetti determinati; nell’antitesi invece; il giudizio di gusto si fonda su un concetto, sebbene indeterminato, e tra di essi non ci sarebbe più conflitto. Il giudizio di gusto e la distinzione del suo realismo e idealismo possono essere posti solo nel fatto che la conformità a scopi viene assunta, come scopo reale della natura di accordarsi con la facoltà di giudizio o per quanto riguarda la natura e le sue forme generate secondo speciali, soltanto come un accordo conforme a scopi che si manifesta, senza uno scopo, da sé e in modo contingente, per il bisogno della facoltà di giudizio. La proprietà della natura di contenere l’occasione per noi di percepire quando giudichiamo i suoi prodotti l’interna conformità a scopi dichiarata universale, non può essere uno scopo naturale, altrimenti il giudizio cadrebbe nell’eteronomia e non sarebbe dunque libero. Il principio dell’idealismo della conformità a scopi si vede chiaro anche nell’arte bella poiché qui non può essere assunto un realismo estetico della conformità a scopi per esempio mediante sensazioni, di conseguenza ne sta a fondamento l’idealità degli scopi non la loro realtà, anche perché deve essere considerata non un prodotto dell’intelletto, ma del genio che ottiene la sua
regola mediante idee estetiche che sono distinte da idee razionali e scopi determinati. Per attestare la realtà dei nostri concetti sono sempre richieste intuizioni. L’ipotiposi in quanto presentazione sensibile è duplice: o è schematica (a un concetto vien data a priori la corrispondente intuizione) o è simbolica (se con un concetto, a cui non può essere adeguata alcuna intuizione, si accorda solo la regola di questo procedimento e non l’intuizione stessa, quindi solo secondo la forma della riflessione e non secondo il contenuto). Il bello dunque è il simbolo del bene morale e anche solo sotto questo riguardo esso piace, con esigenza d’accordo universale. Questo è l’intelligibile rispetto a cui le nostre facoltà si armonizzano e senza di cui non sorgerebbero nient’altro che contraddizione tra esigenze del gusto e natura di quelle facoltà.
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