Amphitruo - Asinaria - Aulularia - Bacch - Tito Maccio Plauto

January 3, 2018 | Author: Francesca Brunello | Category: Comedy, Theatre, Latin, People
Share Embed Donate


Short Description

Download Amphitruo - Asinaria - Aulularia - Bacch - Tito Maccio Plauto...

Description

283

© 1978, 1992 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 9788854129061 www.newtoncompton.com Prima edizione digitale: gennaio 2011 Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl

Tito Maccio Plauto

Amphitruo • Asinaria Aulularia • Bacchides Cura e traduzione di Ettore Paratore

Edizioni integrali con testo latino a fronte

Introduzione Alla memoria di Luigi Almirante, Annibale Ninchi, Giulio Pacuvio e Camillo Pilotto, che collaborarono felicemente alla prima rappresentazione di commedie plautine da me tradotte.

Plauto è il gigante che torreggia ai primordi della letteratura latina in una posizione di isolamento, di distacco da tutta quella che sarà la tradizione più tipica della civiltà spirituale e letteraria espressa in quella lingua. Fra i commediografi del mondo classico uno solo gli può stare alla pari per veemenza di effetti comici e farseschi, per voluttà ed ebbrezza di abbandono alle seduzioni di uno sbrigliatissimo estro ridanciano e fallico, per sapiente irruenza e varietà di ritmi, per gransignoriale, multiforme, spericolatissimo dominio del mezzo espressivo: l’ateniese Aristofane. Ma Aristofane s’inquadra alla perfezione nei modi più tipici della civiltà attica giunta all’apogeo; Plauto invece ci appare come un prodotto abnorme della civiltà latina, come il frutto più sugoso e più caratteristico del cosiddetto arcaismo nella più essenziale accezione del termine, cioè come la voce indubbiamente più autentica della latinità del suo tempo, ma che, appunto per essere così inconfondibilmente profondata nel suo tempo, non ha nulla che vedere con la successiva conformazione aristocratica, elitaria della cultura latina, col suo ideale di un severo e pacato dominio degl’impulsi, del riflessivo rispetto per l’esemplarità delle gesta e delle figure più eccelse, e – sul piano più squisitamente letterario – del labor limae, della tendenza a un linguaggio che, con una sapiente esperienza di certe ben delimitate e catalogate volute espressive, sapesse assicurare alla resa formale di un ben calibrato contenuto di virile interiorità una prestigiosa duttilità di chiaroscurali movenze, fatta soprattutto di calcolata sprezzatura. L’epitafio che la nascente cultura grammaticale romana seppe costituire per il grande commediografo e che ne additava a buon diritto il più alto valore nella miracolosa ricchezza e versatilità dei ritmi e del linguaggio, fu il portato di un’epoca in cui egli era ritenuto ancora l’autore di maggior successo. Il prologo della Casina, nella parte rimontante a una ripresa postuma, lo rivendica e lo esalta come l’unico autore capace di sedurre i gusti del pubblico e di richiamare folla in teatro, a dispetto dei nuovi commediografi, dei banditori di quello che con moderna terminologia potremmo definire «il teatro dell’avvenire». Vi si avverte un atteggiamento che potrebbe essere ricondotto a quello, p. es., dei fanatici di Verdi nel periodo in cui il diffondersi della musica wagneriana poneva in discussione tutta la più recente nostra tradizione melodrammatica. Successivamente, se le sue commedie continuavano a esser recitate nell’ultimo secolo della Repubblica (come del resto anche le tragedie di Nevio, di Pacuvio e di Accio), l’opera sua trovava echi solo negli ambienti più caratteristicamente tradizionalisti e conservatori: Varrone gli dedicava il meglio delle sue capacità di filologo, fissando il canone delle ventuno commedie sicuramente autentiche, accanto al quale tracciò un elenco di altre diciannove commedie di autenticità probabile ma ancora discutibile1, e nutrendo le sue Menippee di vocaboli, movenze, situazioni e nomi di Plauto. Ma anche lui, nel passo di una Menippea dedicato specificamente ad un profilo critico della commedia latina nei secoli precedenti, il fr. 15 B. del Parmeno, lodò al solito di Plauto il magistero linguistico, ma riconobbe la superiorità di Cecilio Stazio nella struttura delle commedie e di Terenzio nella caratterizzazione dei personaggi. E Terenzio, come dimostrano i versi a lui dedicati da Cicerone e da Cesare, cominciava a conquistare le simpatie della nuova cultura di tipo raffinatamente aristocratico. Cicerone citava nella Pisoniana la fine di un verso del Trinummus, faceva avvertire una generica simpatia per Plauto, coerentemente alla sua gelosa rivendicazione di tutti i poeti dell’età arcaica, ma non manifestava in fondo quella predilezione che ci si sarebbe potuti attendere da un così ombroso tutore dei valori autonomi della civiltà latina per un poeta che sembrava profondere di quella tutta la più antica e intima forza. Poi, in età augustea, sopraggiunse l’aspra, perentoria condanna di Orazio, dell’arbitro del gusto: Plauto era un mestierante preoccupato solo di ottenere successi di cassetta, disposto a sacrificare il buon gusto pur di piaggiare i peggiori istinti del pubblico grosso e assicurarsi così il favore della platea. Fu un giudizio che non compromise la sopravvivenza del teatro plautino (tant’è vero che esso è riuscito a giungere fino a noi), ma che ad ogni modo lo bandì dall’Olimpo degli autori che ogni uomo d’alta cultura doveva sentire a sé congeniali e formativi del gusto e della coscienza letteraria e morale. E Quintiliano, nei §§ 99-100 del c. 1 del L. X dell’Institutio, arrivava a condannare, a paragone della tragedia, tutta quanta la commedia latina: «zoppichiamo soprattutto nella commedia, … arriviamo a raggiungere appena una pallida ombra». Ricorda il favorevole giudizio di Varrone sulla lingua e lo stile di Plauto, ma gli contrappone la grazia, le veneri concesse solo ai commediografi attici. In realtà, a ben guardare, il giudizio di Orazio contiene una buona dose di verità: anche la più spregiudicata critica dei più recenti decenni non ha potuto esimersi dal riconoscere che molte delle gags, delle trovate comiche, delle rielaborazioni e contraffazioni introdotte da Plauto rispetto agli originali erano calcolate per suscitare il riso del pubblico più rozzo, di quella maggioranza di illetterati, di sprovveduti che costituivano normalmente l’uditorio. Del resto a quei tempi, anche nelle classi socialmente ed economicamente predominanti, dove si potevano scoprire ambienti effettivamente permeati di cultura, educati a un gusto superiore? Tutto consiste nell’angolazione da cui queste constatazioni vanno prospettate. Il periodo storico in cui Plauto operò dominando le scene romane era appunto un periodo per il quale non si può ancora parlare di una consapevole e ben organizzata cultura letteraria. Egli ereditava, indipendentemente dai modelli greci (e sulla questione naturalmente torneremo), un tipo di teatro che, secondo le notizie di Livio e di Valerio Massimo, s’era organizzato a Roma un secolo prima di lui, sfruttando le capacità dei ballerini etruschi, trasformando lentamente un tipo di azione danzata in un tipo di farsa musicale, in cui la struttura portante era costituita da monologhi o dialoghi scanditi su ritmi muniti di accompagnamento musicale, varianti per assecondarne le movenze: i cantica. La commedia attica nuova, che aveva abolito il coro, e quando lo introduceva eccezionalmente come intermezzo lo segnava solo con una sigla, e poi procedeva con metri normali da dialogo, era quindi sottoposta a un rifacimento radicale per cui, pur rimanendo escluso il coro, i personaggi però erano introdotti a monologare o dialogare nella forma del canticum, cioè nei modi tradizionali della farsa etrusco-latina comportante la musica e il canto, che poi per la sua tematica si alimentava soprattutto del mondo buffonesco dell’atellana, con le sue maschere, i suoi frizzi, la sua condotta scenica convergente verso la più rutilante pagliacceria. In Livio Andronico, Nevio e nel Plauto meno maturo la tecnica del canticum corrispondeva a modi più semplici ed elementari, quali dovevano essersi fissati nella farsa d’origine etrusca; successivamente Plauto cominciò molto presto ad arricchire le forme del canticum, sfruttando in primo luogo le sue capacità personali di cui non sarà mai sufficiente valutare la sbrigliata originalità, testimoniataci anche dagli epigrammi a lui relativi e da notizie di grammatici, e poi la sempre più diffusa conoscenza dei metri della Grecia classica ed ellenistica, per non parlare di quelli sempre meglio assimilati della grecità italiota, a partire da Epicarmo, sì che c’è stato tutto un prevalente indirizzo filologico che ha voluto individuare arbitrariamente nel canticum plautino uno dei maggiori apporti della Graecia capta nell’opera di asservimento culturale del ruvido vincitore2. La palliata romana, cioè la commedia che riprendeva i copioni della commedia attica nuova sceneggiando l’azione in Grecia, vestendo gli attori col pallium, finiva, specie con i frenetici, estesissimi cantica del Plauto maturo, per costituirsi in una forma radicalmente diversa da quella

originaria dei modelli greci; commedie della vecchiaia di Plauto, come la Casina (in cui per giunta il finale era integralmente trasformato con toni caratteristici dell’atellana), lo Pseudolus, il Truculentus assumevano la forma che oggi noi potremmo definire dell’opera buffa. Purtroppo nella versione, se siamo riusciti a conservare e addirittura a potenziare la sbrigliatezza dell’eloquio, non abbiamo potuto, salvo in rari casi, rendere il fascino, la trascinante musicalità dei numeri innumeri (del resto ci manca ogni nozione della musica che accompagnava i cantica e spesso doveva determinarne la compagine ritmica), sì che il lettore ignaro di latino e di metrica non potrà mai farsi, attraverso la versione, un’idea precisa di questo carattere fondamentale del teatro plautino. Proprio un teatro che piegava in questa maniera il nuovo repertorio ai gusti e agli schemi del teatro autoctono poteva apparire «cosa nostra» al pubblico romano. E Plauto infatti segna l’unica breve stagione di diffusa popolarità della letteratura latina; proprio questo fenomeno, che origina dall’arcaica adattabilità alla mentalità delle folle, spiega perché il Sarsinate costituisca un’eccezione nella cultura letteraria latina che sarà sempre più appannaggio di élites, sì che solo un poema come l’Eneide, secondo quanto dimostrano i graffiti pompeiani e di altri siti, trova una larga popolarità, ma p. es. ben presto quanto a spettacolo, mentre si scrivevano o si rappresentavano (e per Seneca lo si pone in dubbio) le tragedie di Pomponio Secondo e di Seneca, il grosso pubblico si appassionava solo al pantomimo ed ai giochi del circo. Ottimati e plebe, che la cultura non aveva ancora distanziati gli uni dall’altra, si appassionavano egualmente, nei tempi del maggiore slancio energetico della cittadinanza romana, nei tempi in cui si concludeva la seconda guerra punica e si vincevano le guerre contro Filippo V diMacedonia e Antioco III di Siria, a un teatro che camuffava giocondamente e sbrigliatamente in forma di atellana e di farsa musicale l’equilibrata commedia attica nuova in cui la cura dell’ethos era uno dei fondamenti originari. Plauto, che sembra aver esercitato, almeno a principio, il mestiere dell’attore, si presenta nell’Asinaria ancora col nome d’arte di Maccus, che non si sa come si sia conciliato col suo nomen, con quel Maccius che secondo alcuni fu addirittura un’arbitraria nobilitazione del soprannome iniziale; non gli sembrava cioè arbitrario assumere il nome di una maschera dell’atellana per porre in iscena e recitare la rielaborazione di una commedia attica obbediente a ben altro processo genetico di quello che costituiva la farsa rurale italica. E il pubblico andava pazzo per uno spettacolo in cui si faceva sempre più strada la recitazione a sfondo musicale, il canto tramato su ritmi mutevoli, e di conserto si dava largo spazio ai dialoghi più surrealisticamente assurdi, in cui l’insistenza sugli errori, sugli equivoci, il gusto della prolungata reticenza o quello di una serqua di vocaboli omofoni e omosemantici o quello delle ingiurie reciproche moltiplicate con sfrenata voluttà icastica erano spinti al diapason, e s’accordavano con l’esaltazione delle più sfrontate trappolerie o con l’esibizione delle condizioni sociali più equivoche e più losche, colte in tutta la travolgente aggressività del loro inserimento nel tessuto sociale. Quattro commedie plautine – Epidicus, Pseudolus, Stichus, Truculentus – s’intitolano dal nome di un servo, una – la Casina – dal nome di una schiava, una – il Curculio – dal nome di un parassita, categoria equiparabile a quella dei servi, e una – le Bacchides – dal nome di una coppia di cortigiane. E ad eccezione dell’Amphitruo, che è una tragicommedia, e dei Menaechmi, che sono basati proprio sull’equivoco nascente dal nome comune ai due gemelli simili come due gocce d’acqua, non ci sono altre commedie plautine che s’intitolino al nome di un personaggio. Questo demi-monde di faccendieri astuti e cinici, caroleggianti a un ritmo di birbanteria rigirantesi su se stessa, sì da non farci mai riuscire a distinguere commedia stataria da commedia motoria, riscuoteva le simpatie più vive di un pubblico ch’era ancora gonfio di una forza vitale primigenia, non ancora edulcorata e parzialmente attutita da una spessa coltre d’interessi culturali. I prologhi plautini, per i quali sta cessando la frenesia di molti filologi di volerli giudicare ad ogni costo non autentici, ci danno spesso interessanti spiragli per cogliere com’era fatto il pubblico che affollava i teatri posticci in cui erano rappresentate le commedie: i primi posti erano riserbati ai pezzi grossi, che spedivano in tempo gli schiavi o i clienti ad occuparli. Nelle frequenti rotture dell’illusione scenica che sono costituite dalle improvvise apostrofi agli spettatori (e che formano una caratteristica del teatro plautino al pari degli strabilianti e innumerevoli riferimenti a cose romane sovvertenti la canonica sceneggiatura dell’azione in Grecia) l’autore si rivolge di preferenza a questi spettatori più altolocati proprio perché più vicini, e talvolta fa loro complimenti, si mostra sollecito del loro giudizio, talvolta invece li svillaneggia (e altrettanto avviene con gli spettatori dei posti più popolari), sì che c’è stato chi ha voluto vedere anche in questo una prova dello spirito populistico della mentalità di Plauto. Ma il poeta ci fa avvertire spesso anche la molto più significativa e più vivace presenza della folla dei nullatenenti, dei proletari che gremiva le gradinate più lontane della cavea. Anzi il prologo del Poenulus ci fa intendere che spesso nel pubblico indugiavano e si frammischiavano anche gli schiavi; il poeta consiglia loro di sgombrare, di tornare subito a casa perché i padroni non li ripaghino a suon di staffile se non li trovano dediti ai loro compiti abituali, e a un certo punto dimentica questo consiglio e ne sostituisce un altro, quello di correre alla vicina osteria ove nel frattempo è già pronta una pizza la cui bontà fa faville. Sentiamo palpitare in complesso un cordiale mondo in cui le differenze sociali sembrano abolite, nella comune velleità di rinfrancarsi lo spirito con le buffonesche piacevolezze che il poeta ammannisce al pubblico. E che quel teatro fosse proprio lo specchio della mentalità di quel pubblico alla buona, affacciantesi appena alle finezze di una superiore civiltà, lo comprovano le ironie e le contumelie dedicate ai Greci, ai loro costumi, alla loro mentalità, alle loro usanze e culminanti in una celebre scena del Curculio. Persino le tracce di maggiore rilassatezza del costume, le sceneggiature in cui il libero amore, il postribolo, la febbre del piacere che formano il centro sono spiegate col fatto che ci troviamo in Grecia, che si tratta di quel popolo di scioperati, di perdigiorno, di damerini svirilizzati come appariva la Grecia d’allora (che pure era ancora la Grecia di Agide, di Cleomene, di Arato, di Sicione, di Filopemene, per non parlare di Agatocle) ai legionari del Metauro, di Zama, di Cinoscefale e di Magnesia. Quello che era il nascosto intendimento della commedia attica nuova – studiare la problematica dei rapporti sociali nella polis in evoluzione dell’età dei Diadochi – è completamente svisato da questo sguardo sdegnoso con cui l’ancor rozza e compatta romanità trionfante, sicura e soddisfatta di sé, irride alla allora decadente e declassata grecità. Notizie biografiche ci han parlato di un Plauto che, dopo aver acquistato un buon peculio in una compagnia di comici, avrebbe perduto tutto in speculazioni avventate. Gellio (III, 3, 14) ci narra ch’egli sarebbe stato costretto a girare la macina d’un mulino per campare la vita e che negl’intervalli di questo duro lavoro avrebbe composto tre commedie, di cui due, comprese nelle diciannove cosiddette pseudovarroniane, coi loro titoli Saturio («L’uomo satollo»)3 e Addictus («Lo schiavo per debiti») sembrano escogitate apposta in rapporto con le sue dolorose condizioni. Il fatto stesso, rimproveratogli da Orazio, che in seguito, giunto al successo e all’agiatezza, egli abbia avuto di mira soprattutto il guadagno a qualsiasi prezzo sembra giustificare la veridicità di quelle notizie. E indipendentemente dalla loro maggiore o minore attendibilità, sta di fatto che il suo teatro, come abbiamo già accennato, è tutto concentrato nella considerazione divertita, vivacissima, profondamente congeniale e simpatica, della condizione servile. Gli schiavi sono al centro delle sue commedie, le movimentano e le sostengono con inesauribile verve, con scatenata versatilità di trovate e di malizie. Basta già confrontare per questo motivo il teatro di Plauto con quello di Terenzio per cominciar a misurare l’abissale distanza che li separa: fra le opere del commediografo africano possiamo trovare al massimo solo nel Phormio una situazione e un carattere in cui riecheggi la centralità che la spericolata scaltrezza servile ha nel teatro di Plauto. Non ci si può sottrarre all’impressione che un che di autobiografico si annidi in questa sorprendente preminenza della mentalità, dell’operosità più irregolare e capricciosa, dell’importanza sociale del servo nelle commedie di Plauto. E ciò tanto più in quanto uno dei Leitmotiven con cui

questa tematica si dipana è l’ossessiva considerazione dei castighi, delle catene, delle sferzate cui il servo è sottoposto. Non c’è occasione in cui il servo s’incontra con un collega o con un altro personaggio e comincia a esercitarsi nello sport degli scambi ingiuriosi (e si badi che a questo punto entriamo nel più vivo delle originali aggiunte plautine), che non spuntino subito fuori termini alludenti al logorio che i ceppi producono agli stinchi o alla gragnuola di staffilate che piovono sulle spalle e di cui lo schiavo vanta l’eroica sopportazione. Si ha più volte l’impressione che il poeta voglia far quasi masochisticamente emergere l’imponenza di queste crudeli esperienze: nei Captivi l’immagine delle catene domina la commedia sin dall’inizio e pesa ossessivamente su tutto lo svolgimento; nelle Bacchides e nell’Epidicus il servo trappolone ha quasi una maliziosa civetteria a farsi incatenare dal vecchio padrone per mortificarlo poi nel fargli constatare l’assurdità del suo gesto; nel finale del Miles gloriosus gli autori della beffa manifestano un gusto particolare nel caricare di frustate Pirgopolinice, che pure è un uomo libero; nel Truculentus Bellacchione, con sadismo sornione, celebra il proprio carattere mite e pacioso proprio nel tenere agganciate entro duri legami due giovani schiave, dopo averle fatte lungamente staffilare appese a un trave. Ne è venuta di conseguenza (e di questi tempi era inevitabile) l’inclinazione a scorgere nel teatro di Plauto una velleità di rivendicazione sociale, un colorito politico di aperta adesione agl’ideali e al programma della plebe. Non ci nascondiamo che spunti del genere si possono spigolare nel teatro plautino: sembra che il commediografo in gioventù abbia collaborato con Nevio, e nel Miles gloriosus sembra indiscutibile una protesta contro la prigionia inflitta al poeta maestro e amico per volontà degli Scipioni e dei Metelli; nella medesima commedia e altrove sembrano reperibili allusioni maliziose alle scappatelle giovanili di Scipione Africano e contro il nascente culto della personalità verso cui s’andava indirizzando la classe aristocratica, all’inizio del Poenulus si può ravvisare un’allusione parodistica a Ennio, il cantore delle gesta degli ottimati; echi della polemica catoniana contro i «signori della guerra» si possono rinvenire frequentemente, come nel Truculentus in cui un’allusione al discorso del Censore de falsis pugnis è servita addirittura a far datare la commedia. Perciò p. es. Enrico Flores4 ha ravvisato in Plauto, come in Nevio, una tipica corrente di rivendicazione dei valori nazionali, del tradizionalismo autoctono ingranato nelle classi popolari di fronte al filellenismo delle classi elevate, e quindi anche delle aspirazioni della plebe. La triste vicenda della sua giovinezza avrebbe legato stabilmente Plauto ai destini, all’anima delle classi diseredate; e anche in questo egli costituirebbe una clamorosa eccezione nella cultura letteraria latina, sempre infeudata agl’interessi degli alti ceti sociali. Ma a parte il fatto che nell’età di Cesare l’opposizione alla dittatura ha sempre assunto nelle lettere toni di libertarismo integrale, e che durante l’Impero la letteratura – anche se rispecchiando le ragioni dell’opposizione senatoria – ha nutrito di sé la condanna dell’autocrazia dei principes, tornando a Plauto va notato anzitutto che non si spiegherebbe il suo successo, la sua instancabile operosità se i suoi atteggiamenti politici avessero irritato le potentissime famiglie degli ottimati; e poi va sorpreso ogni tanto in lui qualche atteggiamento che contraddice a quelli in cui si è voluto ravvisare un preciso atteggiamento politico: p. es. nello Stichus è facilmente individuabile una coperta esaltazione di quel Fulvio Nobiliore, contro le cui imprese si è creduto di poter scoprire altrove in lui alcune frecciate, di quel Fulvio Nobiliore di cui Plauto sembra fosse cliens non meno di Ennio. In realtà quindi nel teatro plautino, in un momento in cui l’union sacrée delle classi saldatasi dopo Canne non s’era ancora definitivamente incrinata e le competizioni si profilavano se mai fra opposti gruppi di ottimati, sembra trionfare piuttosto l’ombroso senso d’orgoglio nazionale che portava a valorizzare tutto quanto incontrasse il gusto già costituito della cittadinanza. A ciò s’accordano le frequenti orgogliose allusioni alle vittorie, all’ascesa della patria quali s’incontrano dall’Amphitruo alla Casina, dalla Cistellaria al Truculentus . In fondo anche l’attaccamento ai valori morali e sociali tradizionali, che non manca di essere espresso sempre e che è l’unica eredità della commedia nuova passata in forma piuttosto rilevante nel teatro plautino, era fatto apposta per conciliare tutti i ceti cittadini in un momento in cui Roma aveva pienamente fiducia in se stessa. I moti graccani sarebbero esplosi a mezzo secolo dalla morte di Plauto; e già prima nel teatro di Terenzio era cominciata quella chiaroscurale, problematica, ansiosa discesa dell’anima romana nelle sue intime pieghe, quell’inquisitoriale bilancio delle proprie capacità di esercitare le nuove sgomentanti funzioni di centro del mondo civile di cui la romanità trionfante si sentì presto investita. Erano cominciati quel crollo del ceto medio italico che la guerra annibalica aveva reso irrimediabile e quel drammatico processo di autocoscienza che, come determinò il cozzo insanabile degli opposti programmi politici e quindi l’irrimediabile deterioramento di quello stesso ordine costituzionale che aveva pure assicurato il miracolo del passaggio di Roma da modesto centro del Lazio a città egemone del mondo civile, come rese irresolubile il complesso dei gravi problemi economici e sociali nati dalle stesse conquiste, dall’abnorme prevalere degl’interessi militari su quelli agricoli e dall’istituzione di nuovi rapporti commerciali con le terre conquistate, così moltiplicò l’insoddisfazione nell’ambito della maturazione spirituale, favorì il sorgere del più riottoso e problematico individualismo e quindi portò la cultura ad assorbire e far proprie le combattive filosofie dell’ellenismo, a racchiudersi progressivamente in cerchie di raffinati intenditori del tutto distaccati dall’anima popolare con la quale s’era smarrito il contatto, e che del resto era destinata a perdere ben presto la fresca ingenuità originaria dei bei tempi di Plauto, per l’anormale elefantiasi cui la plebe della metropoli si trovò presto condannata avendo inglobato masse di senza patria, di avventurieri d’ogni provenienza, essendo discesa al livello di un Lumpenproletariat avido, secondo Giovenale, di pane e circenses. Terenzio comincia già a farci intravvedere una nuova concezione del teatro, quel «teatro dell’avvenire» cui abbiamo già accennato, che si presenta subito agli antipodi del fresco, spregiudicato, aproblematico, spensieratamente farsesco teatro di Plauto. Viene ripresa integralmente e integralmente riproposta in termini attuali la problematica etica della commedia nuova coi suoi nascosti intenti sociali; il problema dell’educazione dei figli, della diversità di reazione degl’individui ai metodi pedagogici domina gli Adelphoe e l’Heautontimorumenos, mentre Plauto nelle Bacchides lo aveva accantonato con fastidio e con ironia nel più volte irriso e subsannato personaggio di Lido; la Taide dell’Eunuchus, nonostante il giudizio che direttamente o indirettamente ne derivò padre Dante, appare col profilo autentico di birichina e in fondo innocente amoralità in cui il modello del Truculentus doveva raffigurare quella Sagaciona che nella commedia plautina appare invece come il pauroso modello del cinismo postribolare; e accanto a lei grandeggia la Bacchide dell’Hecyra, tipica rivendicazione dell’intima bontà della natura umana, che nel colloquio con Lachete sembra precorrere la dame aux camélias dumasiana, mentre in Plauto solo nella Cistellaria e nella Mostellaria avvertiamo, forse per influsso dei modelli, qualche leggero accenno di umana autocoscienza della donna perduta, e le effusioni sentimentali partono solo dalle ragazze accesamente incapricciate dei loro giovanotti. Formalmente ne discende in Terenzio che il canticum si riduce al minimo e quasi scompare, che la commedia si configura esattamente com’era nell’Atene del quarto secolo, fuori da tutte le prestigiose e imprevedibili trasformazioni cui l’aveva assoggettata l’estro che potremmo chiamare operettistico o rivistaiolo di Plauto, appunto perché il suo impianto ideale era tornato ad essere quello delle origini; Terenzio finisce per apparire più menandreo di Menandro. Non ci potrebbe essere maggiore diversità ideale e tecnica di quella che divide Plauto da Terenzio, facendo due cose essenzialmente opposte e contrastanti delle loro produzioni teatrali. E lo strano è che già nella cultura latina portata a fare il bilancio completo della propria letteratura comica, e più che mai a partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento Plauto e Terenzio finirono per costituire nella cultura un tutto unico, un modello unitario per la commedia moderna, come se fossero rappresentanti di un’attività uniforme, e non già portatori di due concezioni del teatro diametralmente

opposte. In realtà, per il suo incomparabilmente maggiore dinamismo comico, Plauto fra gli amatori di teatro aveva conservato maggiore autorevolezza e capacità di stimolo. Sul finire del mondo antico la sua Aulularia aveva suggerito la composizione di quello strano camuffamento in termini moralistici che fu il Querolus sive Aulularia . E sulle sue orme Mathieu de Vendôme e altri autori della rinascente ispirazione delle lettere pagane nella Francia dei secc. XII e XIII mutuarono titoli di commedie plautine forse note loro solo indirettamente, mentre nel sec. X la monacella Rosvita di Gandersheim, appunto perché mirante a creare un teatro mosso da intenti morali e religiosi, profilò l’opera sua in concorrenza con quella di Terenzio. In età umanistica, a partire dal Petrarca, la figura di Plauto conservò una decisa preminenza. Già s’erano cominciate a scrivere commedie in latino nutrite di influssi plautini quando nel 1429 il trasporto a Roma da parte di Nicola Cusano di un codice (lo Ursinianus della Vaticana ora rubricato D) contenente 16 commedie di Plauto, di cui 12 assolutamente sconosciute fino allora, determinò una vera e propria fiammata d’interesse per Plauto. Le rappresentazioni di commedie antiche nelle corti dei principi furono soprattutto di commedie plautine, Plauto fu il modello anche delle prime commedie regolari in volgare, a partire dalla Cassaria dell’Ariosto, e forse anche la sua eccezionale vivezza verbale fu il segreto della predilezione dei nostri comici per il suo teatro, sì cbe p. es. un autore toscano come il Cecchi, notevole soprattutto per vivezza espressiva, non si stancò mai di sceglierlo a modello e di proclamarlo come maestro. Ma p. es. quel Terenzio che sostanzialmente gli era sempre affiancato come esempio classico ed era per tradizione trasmesso con la divisione delle commedie in cinque atti, appunto perché più legato alla commedia attica nuova ove gl’intermezzi determinavano questa divisione, determinò l’applicazione anche a Plauto della five-act-law5, mentre il poeta in sostanza aveva impiantato ben diversamente la condotta scenica. E a poco a poco, nel sempre maggiore schematizzarsi della commedia in forme regolari e secondo spiriti di prevalente interesse morale, Terenzio finì per soppiantare Plauto come effettivo modello di commedia classica, sì che p. es. agl’inizi del sec. XIX il commediogralo piemontese Alberto Nota fu definito «il Terenzio italiano», e altrettanto praticamente fu considerato il commediografo spagnolo Moratín. Il tipo di comicità plautina non poteva più trovare un autentico corrispettivo; e solo oggi, in seguito a così radicali trasformazioni del gusto e della tecnica, l’eredità di Plauto comincia a risorgere più o meno consapevolmente nel campo dell’avanspettacolo, della rivista, del teatro musicale, del fllm comico, che ha ripreso anche temi plautini, specie quello dell’Amphitruo. Non per niente oggi sono di nuovo frequenti – spesso in arbitrarie revisioni – le rappresentazioni di commedie plautine. Proprio questa vicenda dell’influsso plautino contribuisce a spiegare il grosso problema dei modi con cui la critica moderna ha successivamente considerato in vario modo il teatro di Plauto. Per intenderlo dobbiamo parlare più direttamente della questione dei rapporti fra Plauto e i modelli. Plauto – come anche Terenzio e tutti gli altri commediografi latini di cui non ci sono pervenuti che frammenti – costituisce nella storia della letteratura mondiale un caso particolare, perché non si presenta come autore di opere originali, ma come un più o meno abile riduttore di commedie greche trasposte in lingua latina. Nella storia del teatro, specie quando si tratta di opere che riprendono temi, soprattutto mitologici, ispirati al mondo classico, l’originalità di un autore si misura particolarmente in base al modo con cui egli rielabora il volgatissimo argomento. Ma in fondo il caso di Plauto (e di Terenzio) non è riducibile neanche a questo tipo di rapporto coi precedenti. Tutta la letteratura latina è ancora gravata dal giudizio d’essere una produzione di riporto sugli stimoli e i modelli forniti dalla letteratura greca, l’unica veramente originale del mondo antico. Tuttavia nessuno si sogna di contestare che Lucrezio, Catullo, Virgilio, Orazio, Properzio, Ovidio sian riusciti ad affermare la loro personalità, pur tenendo d’occhio le suggestioni della poesia greca. Invece per Plauto e gli altri autori di palliatae ha un peso raggelante il fatto ch’essi hanno trasportato più o meno di peso in veste latina copioni di autori greci. Nei prologhi Plauto è spesso il primo ad affermarlo chiaramente: egli vortit barbare, «ha tradotto in latino» una commedia greca di cui ci dà o il titolo o il nome dell’autore o talvolta entrambi. E per quanto si sia lungamente cercato d’illustrare l’elasticità, la libertà di quell’azione di vortere, resta il fatto che per ciò ch’è ritenuta la sostanza dell’originalità di un’opera, specie teatrale, la sua struttura, la sua trama, Plauto e i suoi colleghi siano debitori integralmente agli autori dei copioni ch’essi hanno tradotti o rielaborati. Perciò il problema del rapporto coi modelli ha costituito per lungo tempo il fondamento di tutta la critica plautina e terenziana. E ha dominato a lungo, specie in Germania, il pregiudizio che Plauto, proprio per la sua incapacità di penetrare il complicato impianto etico delle commedie da lui elaborate e di essere portato alla superficiale comicità farsesca (queste sue caratteristiche sono state subito individuate dalla critica), sia stato un riduttore grossolanamente inabile, atto solo a guastare, a storpiare, a sconciare la calibrata grazia dei modelli. A lungo si è agognato di scoprire un testo greco di commedia sicuramente ripresa da Plauto; e solo oggi un lungo frammento del Dìs exapatón («Il due volte ingannatore»), la fonte menandrea delle Bacchides, pubblicato la prima volta da E. Handley6, ci ha permesso di misurare con precisa conoscenza di causa l’estensione delle libertà presesi da Plauto di fronte ai modelli, e naturalmente col risultato di profilare questo dato, già universalmente previsto e atteso, non come prova di una rozza incapacità dell’imitatore latino, ma come conferma delle sue personali capacità di libero e avveduto rielaboratore. Ma prima di questa così normativa scoperta aveva dominato gli spiriti la persuasione che Plauto avesse solo mal ridotto la struttura dei modelli, e quando ci avesse messo le mani sopra lo avesse fatto solo inzeppando nella struttura del modello scene o brani desunti da altri copioni greci, praticando cioè quell’operazione che, sulla base di come se ne parla nei prologhi di Terenzio che l’ha praticata molto più spesso di Plauto, è stata definita contaminatio. E come Günther Jachmann per Terenzio, sulla base delle indicazioni dei prologhi, ha sostenuto che in Terenzio non v’è un solo rigo che non rimonti a testi greci, con buona pace di Elio Donato che nel suo commento indica specifici luoghi in cui Terenzio avrebbe fatto da sé7, così per Plauto la Kontaminationsphilologie ridusse tutta la libertà di Plauto all’introduzione di qualche battuta o relativa a cose romane o contenente qualche elemento di più aggressiva comicità farsesca, e quanto al resto, quando la struttura della commedia denunciava evidenti scompensi e contraddizioni, si rifugiò nell’ipotesi di arbitrarie inserzioni di scene desunte da altri copioni da parte di un Plauto voglioso d’indisciplinati ritocchi. Le cose erano a questo punto quando Eduard Fraenkel pubblicò nel 1922 a Berlino la celebre opera Plautinisches im Plautus8, un libro meritamente fortunato e ricco di pregi decisivi, pur partendo da una base critica illusoria e sfociante in una metodica fatta più per confondere le idee che per chiarirle. Egli ebbe, p. es., il merito di togliere alla Kontaminationsphilologie la sua funzione predominante, arrivando anzi all’eccesso opposto di negare la grande contaminatio nel Miles gloriosus, dove è invece evidente, e restringendola a una sola scena, mentre la asseriva fermamente nel Poenulus, sia pure anche lì per una sola scena, dove invece non è il caso di postularla, e non ne scorgeva troppo chiaramente la presenza nello Pseudolus, l’opera della vecchiaia dove, per ragioni inerenti ai nuovi criteri strutturali del Plauto più tardo, essa si ripresenta. Ma il suo merito maggiore fu quello di profilare l’unità di condotta, la costanza d’ispirazione dei giochi con cui Plauto svisava i modelli, di rapportare la natura della rielaborazione a una tipica plautinità, ad esigenze puntualmente affioranti di temperamento. Si comincia a delineare la possibilità di scorgere un’originale natura d’artista, anche se limitata a un’opera di capricciosa contraffazione di modelli preesistenti. Ma il punto di partenza restava sempre quello di scorgere quasi con rammarico nei modelli greci un esempio di equilibrata, classica felicità strutturale, in bilico fra una sorvegliata ispirazione morale e una ferma, nitida condotta scenica, che le sbrigliate velleità plautine di esuberanza verbale fine a se stessa avrebbero finito sostanzialmente per sconciare. Ecco perché la stessa versione del titolo

compiuta dal Munari – quello Elementi plautini in Plauto, al cui posto noi ci saremmo attesi Ciò ch’è plautino in Plauto – trova piena giustificazione, in quanto l’analisi del Fraenkel, pur rivendicando la costanza d’intenti e di toni delle superfetazioni plautine, le riduceva pur sempre a casuali sovrapposizioni sopra un telaio che sarebbe stato molto più logico e attraente se non avesse dovuto subire quelle operazioni di svisamento. L’esempio più eloquente di questo atteggiamento si manifestò nel fatto che, considerando finalmente i cantica come elemento fondamentale della rielaborazione plautina riguardo ai modelli, il Fraenkel ne fece rimontare tuttavia il merito principale e l’intima natura alla progressiva diffusione della conoscenza della metrica greca, additata come loro unica matrice. Ce n’era abbastanza perché in connessione all’opera del Fraenkel e per reazione Günther Jachmann facesse seguire nove anni più tardi il suo Plautinisches und Attisches 9, in cui riprendeva con esemplare rigore tutta la metodica della vecchia Kontaminationsphilologie per rovesciare sulle spalle di Plauto la condanna per la sua opera di sacrilego contraffattore dei modelli greci. Da allora in poi il lavorio critico su Plauto si trasferì in gran parte dalla Germania ai paesi anglosassoni, in cui gli studiosi ebbero il merito di gettarsi dietro le spalle la problematica consueta, considerando le varie componenti dell’arte plautina nella loro specifica contingenza come strutture portanti. Di qui i loro fondamentali contributi alla fissazione della cronologia delle commedie principalmente in base ai criteri stilometrici10, e in genere lo studio dell’attività di Plauto come responsabile fornitore di temi teatrali, come organizzatore di una tecnica di spettacolo indipendentemente dagli specifici problemi posti dalla struttura delle singole commedie. Per questa via ci si poté avviare a una più precisa configurazione della coerente personalità di Plauto come uomo di teatro nella costante manifestazione delle sue esigenze. E più che mai venne in chiaro – in un senso che le indagini del Fraenkel avevano già additato, ma che solo ora acquistava valore sistematico – che Plauto sottoponeva ogni compagine scenica a un procedimento tendente a sacrificare la logica e la dinamica della trama (coi connessi scopi di natura etica o psicologica) al potenziamento dei valori in cui trovasse sfogo il gusto ritmico e linguistico meglio connaturato alla personalità del rielaboratore latino. Infatti delle commedie plautine solo una delle prime, il Miles gloriosus, e tre della vecchiaia, le Bacchides, la Casina e lo Pseudolus, puntano sullo sviluppo della vicenda. In generale, a non parlare della progressiva parte del leone fatta ai cantica, ciò in cui si concentra e sprizza la comicità dell’insieme sono la lunghezza festiva e sbrigliata dei dialoghi, in cui l’ansia della sempre ritardata conclusione o il gusto delle digressioni descrittive o scommatiche o polemiche raggiunge spesso il vertice della suspense, la tendenza scapigliata alla figurazione caricaturale, l’insistenza ossessiva sullo sfogo delle debolezze o delle manie dei singoli caratteri; di ciò che riguarda la trama l’elemento che calamita la fantasia dell’autore è sempre la beffa, il tiro birbone, di cui il frizzo, la battuta pungente è spesso il surrogato occasionale. Così si è giunti ai felicissimi saggi del compianto Marino Barchiesi11, fissante ciò ch’egli ha definito «il metateatro» come angolazione visuale creata da Plauto con la sua tecnica in seno alla coscienza teatrale del tempo suo. Potremmo sollazzarci a documentare almeno un particolare per ogni commedia in cui questa tendenza si afferma: nell’Amphitruo il centro ideale consiste nelle ripercussioni che l’imbrogliatissima situazione provoca nel personaggio integralmente e ingenuamente comico, nel servo Sosia; nell’Asinaria l’interesse, la vita della commedia si concentrano nella minuta preparazione, nella voluttà con cui i due servi dirigono la trappola e godono delle risonanze ch’essa produce nello spirito dei giovani nel cui interesse essa è stata architettata; nell’Aulularia il Leitmotiv è la frenesia con cui Tienichiuso si precipita ad ogni istante a controllare se la pentola è stata scoperta; nelle Bacchides esso è costituito invece dall’orgogliosa coscienza con cui Rubaloro pone a frutto o esalta la sua eccezionale astuzia; nei Captivi ancora una volta un personaggio destinato per il suo stesso carattere a sprigionare tutta la carica del Plautinisches, il parassita Faccendiere, crea l’eccezionale controcanto alla drammatica trama impiantata nel modello; nella Casina tutto il pepe si concentra nella maliziosa consapevolezza con cui le donne, queste precorritrici delle allegre comari di Windsor, mandano sistematicamente per aria le senili caldane di Lisidamo; nella Cistellaria l’interesse è volto essenzialmente a potenziare proprio le sfumature sentimentali insite nell’originale; nel Curculio, come rivalsa delle larghe sforbiciature con cui la commedia è stata ridotta ad essere la più breve del teatro di Plauto, il palpito pullula nella veemenza veramente inesauribile delle movenze verbali sulla bocca di tutti i personaggi; nell’Epidicus si scorge in evidenza il gusto che l’autore si piglia nel far cadere successivamente in briciole tutte le situazioni che sembravano aver assicurato un illusorio godimento al vecchio padrone; nei Menaechmi la comicità non può non concentrarsi in tutte le scene in cui trionfa lo scambio fra i due gemelli; nel Mercator il gusto della quasi tormentosa reticenza struttura il dialogo in tutti i momenti di maggiore rilievo; nel Miles gloriosus la caratterizzazione, attraverso l’esuberanza verbale, di Pirgopolinice in primo luogo, di Palestrione e di Periplecomeno sovrasta anche l’energica condotta del gioco scenico; nella Mostellaria il polso della commedia batte secondo l’ansia con cui Trappola è chiamato ininterrottamente a rimediare ai guai che gli si accavallano senza tregua; nel Persa si avverte subito che l’attenzione del poeta si volge con simpatia ad approfondire quel mondo ambiguo di schiavi e di parassiti in cui domina la smaniosa tendenza a spremere dalla vita quel po’ di goduria ch’essa può offrire ai miserabili; nel Poenulus la coppia delle cortigiane ancora integre ma vibranti del calore sensuale della loro esuberante giovinezza suscita intorno a sé tutta una fiammata di reazioni confusamente intrecciantisi fra loro, finché all’ultimo l’attenzione del poeta è tutta richiamata verso i giochi e gli spassosi equivoci che l’eloquio punico di Annone provoca in chi non può intenderlo; nello Pseudolus, indipendentemente dallo svolgimento della trama, l’acme è raggiunto dalla capitale contrapposizione, fin dall’inizio, dei due poderosi caratteri del lenone e del servo in mortale duello fra loro, dal cui scontro il linguaggio di Plauto sa trarre accensioni prestigiose; nella Rudens il fascino del paesaggio, eccezionalmente comunicato dalla poesia di Difilo, condiziona tutta l’esasperatamente lenta procedura dell’azione suggerendone tutte le modalità; nello Stichus il personaggio di Ridicolo assolve la medesima funzione di quella di Faccendiere nei Captivi, finché poi nel finale l’interesse dell’autore si sposta di nuovo verso il festoso scapricciamento dei servi in libertà; nel Trinummus è palese lo sforzo dell’autore a scrollarsi di dosso il peso dell’ingombrante moralismo della trama, grazie all’esemplare vivezza e quadratura ritmica dei cantica e a scene fatte apposta per esasperare il gusto plautino per la discorsività sapida e sconcertante, come quella fra Gioioso e l’imbroglione e quella del monologo di Tranquillone; nel Truculentus tutti i monologhi, i dialoghi e i contrasti mirano a farci giungere al naso le graveolenti zaffate di un mondo decisamente e irrimediabilmente postribolare. Adusati a fiutare in ogni commedia ciò che determina chiaramente il più vivo palpito della resa espressiva, riusciamo a distinguere quasi agevolmente il Plautinisches sullo sfondo dei dati mutuati dal copione originario. Perciò si riesce a tenersi lontani dall’ingenuità di certi critici, che han voluto valutare integralmente il teatro di Plauto come una creazione completamente originale, dando merito alla sua humanitas anche dei pirandelliani dubbi che turbano Anfitrione e Alcmena dopo la scoperta della duplice visita, del contrasto morale ch’è alla base dei Captivi, della crepuscolare melanconia che ravvolge Pirgopolinice dopo lo choc della beffa, del senso di dignità che caratterizza nel Persa la figlia di Panciapiena (e che del resto è rapidamente contraddetto dal suo contegno), dei fremiti di amor paterno di Annone nel Poenulus, della fedeltà di spose delle due sorelle nello Stichus, dell’ombroso senso di dignità che Redamore conserva nel Trinummus pur essendo caduto così in basso, del brivido di sentimentale nostalgia che sembra pervadere nel Truculentus lo spirito di Sagaciona e di Capotremendo al momento del loro distacco12. Va da sé che, in conseguenza, da questo complesso di atteggiamenti più tipici colti in ciascuna commedia come obbedienti a un unico

orientamento fantastico, e non più visti, come dal Fraenkel come occasionali reazioni imbroccate dall’autore di fronte ai modelli, è possibile profilare un modo costante d’emergenza della personalità di Plauto. La sua sensibilità volta a cogliere solo gli aspetti più caricaturalmente e disincantatamente comici e farseschi della vita13, a insistere su tutto quello che è cinica o buffonesca o rassegnatamente ironica contraffazione dei modi normali dell’esistenza e della civica convivenza finisce per farcelo apparire come uno di quei critici della vita romanescamente ridanciani, che la sanno lunga e sono muniti di un’inesauribile riserva d’indulgenza e di sorniona consapevolezza rispetto alle umane miserie. Egli è perfettamente persuaso che l’umana esistenza è un amaro coacervo di scontri e di duelli fra gli opposti egoismi, che lupus est homo homini, com’è affermato nell’Asinaria, ma su questa in fondo pessimistica visione del mondo egli accende la luce di un sorriso, che sembra apparentemente di scherno e di soddisfatta sgignazzata, ma che in fondo propende verso l’indulgente ammiccamento del compromesso. A questa non illegittima caratterizzazione di Plauto contribuisce anche l’ormai sempre maggiore coscienza che già da tempo e soprattutto nell’ultimo periodo della sua attività Plauto, appunto perché costantemente indirizzato a considerare l’azione scenica e lo stesso mondo umano delle commedie sotto una determinata angolazione, si sia avviato a sfruttare sempre più sistematicamente un determinato repertorio di espressioni, di trovate, di gags o addirittura di situazioni già da lui sfruttato (basti pensare al parallelismo fra il Mercator e la Casina, fra le Bacchides, l’Epidicus e la Mostellaria, fra la Rudens e il Poenulus e fra la Rudens e la Vidularia, fra la Cistellaria e il Truculentus, fra il Curculio e lo Pseudolus, fra il finale dello Stichus e quello del Persa e alla lontana fra l’Amphitruo e i Menaechmi), che ci illumina anche sul metodo con cui egli ha proceduto alla scelta dei modelli; e si pensi che nel finale della Casina egli risuscitava il mondo dell’atellana, cui all’inizio era stato così vicino, sì che Pirgopolinice ci appare un Bucco. Già H. Kellermann14 e P.J. Enk 15, pur limitandosi per lo più a riscontri verbali, hanno composto scritti dal titolo De Plauto sui imitatore; e l’autore di questa versione, dopo avere decisamente posto in chiaro come lo Pseudolus, anche a costo di determinare nuovamente una contaminatio, ponga decisamente a frutto lo schema scenico del Curculio16, ha recentemente riaffrontato il problema nel complesso17. Ciò contribuisce decisamente a chiarire la costante coerenza con cui Plauto, pur rielaborando copioni di diversissimo carattere, ha finito per imprimere al suo teatro una tipica, inconfondibile modalità. Avendo pubblicato il testo a fronte della versione, ci siam venuti a trovare a contatto coi problemi della sua costituzione. È noto che fino al 1815 il testo delle commedie di Plauto era noto solo attraverso i codici chiamati Palatini, perché due dei tre principali rappresentanti del gruppo si trovarono riuniti ad Heidelberg, nella biblioteca del principe elettore del Palatinato. Ora in essa è rimasto solo il Codex Decurtatus (C), mentre il principale, il Codex vetus Camerarii (B), è passato da Heidelberg alla Vaticana, ove si trova anche l’altro principale codice della famiglia, il già ricordato Ursinianus (D) portato a Roma da Nicola Cusano, e archetipo di tutti i codici umanistici del sec. XV. Altri codici appartengono alla medesima famiglia, che rimonta, più o meno direttamente, a un medesimo archetipo minuscolo, probabilmente del sec. VIII, discendente a sua volta, direttamente o meno, da un proarchetipo in scrittura maiuscola. A questa famiglia si affiancava un codice perduto del sec. IX-X, chiamato codex Turnebi, perché utilizzato da Adriano Turnèbe, di cui nel 1897 il Lindsay, nella biblioteca Bodleiana di Oxford, scoprì una collazione nei margini di un esemplare dell’edizione lionese di Plauto del 1540. Essa comprende varianti di cinque commedie, che ci fanno supporre che il codice fosse più vicino all’archetipo dei Palatini di quanto non lo siano i principali codici conservati. Nel 1815 il card. Angelo Mai scoprì nella biblioteca Ambrosiana di Milano un palinsesto del sec. IV, che conteneva tutte le ventuno commedie varroniane (e che infatti è il solo a conservarci i frammenti che abbiamo della Vidularia), tanto che nel sec. VIII aveva subìto strappi e asportazioni, tanto che ha perduto interamente quattro commedie (l’Amphitruo, l’Asinaria, l’Aulularia e il Curculio) e quasi interamente, oltre la Vidularia, i Captivi; molto poco ha anche di altre commedie. In complesso esso ci offre (e ormai ne possiamo consultare solo la trascrizione operatane da W. Studemund 18) un testo complessivamente più attendibile di quello dei Palatini, anche se in fondo le due tradizioni si manifestano sostanzialmente risalenti a una sola corrente di trasmissione. Dove l’autorità del palinsesto è indiscutibile è nella trascrizione dei cantica secondo la loro esatta costituzione (colometria), mentre i Palatini si mostrano più arbitrari, anche se in origine la colometria doveva essere unitaria per entrambe le tradizioni. Non abbiamo preteso di pubblicare una nuova edizione critica. Le ottime edizioni di Plauto del resto spesseggiano. A non parlare delle molte pubblicate agl’inizi dell’età moderna, dall’editio princeps di G. Merula19 a quella di J.F. Gronov 20, molte furono le buone edizioni che presero le mosse da quella incompleta di F. Ritschl21, il grande sistematore degli studi plautini e maestro di F. Nietzsche. Basti ricordare quella di G.L. Ussing22, quella capitale di F. Leo 23, quella di J. Goetz e F. Schoell 24, quella di W. Lindsay25 e quella di A. Ernout26. Abbiamo conciliato secondo nostri personali criteri il testo delle varie edizioni, attenendoci di preferenza a quello del Lindsay e spiegando spesso nelle note le ragioni del nostro comportamento. Va da sé che per un editore di Plauto il compito che fa tremar le vene e i polsi è quello connesso coi problemi metrici. Abbiamo omesso – perché per un’edizione che non ha l’ambizione d’essere critica ci sarebbe sembrata un’ostentazione – di pubblicare l’appendice metrica. È risaputo che i metri normali del dialogo in Plauto, e quindi quelli più frequenti nelle commedie, sono il senario giambico e il settenario trocaico. Nei cantica se ne alternano innumerevoli, a parte metri che andrebbero qualiflcati più che altro quali recitativi, come il settenario od ottonario giambico e l’ottonario trocaico. Troviamo i cosiddetti versi Reiziani, i Wilamowitziani, le varie forme di versi anapestici, i gliconei, i cretici e bacchei, che sembrano proprio un’eredità estranea alla più tipica tradizione della melica greca tradizionale, i dimetri giambici e le tripodie trocaiche. Ma anche se la struttura dei cantica è ancora sub iudice e sono stati finora accantonati tutti i tentativi di fissarne una simmetria27, non è proprio la struttura metrica a costituire la massima difficoltà per l’intelligenza della verseggiatura plautina, quanto l’arduo complesso delle particolarità prosodiche, nascente anche dal fatto che il progressivo affermarsi dei cantica in Plauto è sentito come una prova della complessità del processo di adattamento della metrica e della poesia latina (di una lingua cioè, a quanto pare, priva di accento musicale) alle esigenze della metrica e della poesia greca (in cui, per la diversa natura dell’accento, campeggiava la diversità fra ictus metrico e accento tonico) e insieme come causa ed effetto a un tempo del progressivo adattamento dell’orecchio latino alla non coincidenza di ictus e accento, mentre la coincidenza sarebbe stata invece tipica della sensibilità poetica delle genti italiche, le cui tracce in Plauto sarebbero già scarse. La problematicità del fenomeno determina le singole, ardue indagini sulla metrica e soprattutto sulla prosodia plautina (legge della correptio iambica o brevis brevians, che si vorrebbe far risalire ai poeti precedenti Plauto, come sforzo per ovviare alla povertà di brevi nella lingua latina e per adattare questa medesima lingua alla metrica dei metri greci senza forzarne le modulazioni originarie). Basta citare il caso della correptio iambica per entrare nello sconcertante stato di tensione cui gli studiosi sono condannati quando s’accostano alla prosodia plautina, che C. Questa, nella sua ormai classica opera Introduzione alla metrica di Plauto28, definisce «Proteo ribelle a ogni freno», che «crea allo studioso problemi di una difficoltà, a volte, veramente scoraggiante». Basta ad ogni modo consultare quell’opera per ricevere piena consapevolezza dei problemi della prosodia plautina e vedere elencata – sulle orme della terminologia del Maas – la lunga serie delle norme e dei divieti che costellano la metrica di Plauto come p. es. la norma di Ritschl (divieto di formare un elemento bisillabico con parola che inizia prima e finisce all’interno di esso), la norma di Hermann-Lachmann (divieto di formare un elemento bisillabico con parola

che inizi prima e finisca con lo stesso elemento), la norma dei loci Jacobsohniani relativa agli elementi giambici e trocaici in fine di parola, la norma di Bentley-Luchs che nei versi giambici o trocaici a clausola giambica ammette fine assoluta di polisillabo nell’ultimo longum solo se l’anceps che lo precede immediatamente è lungo o bisillabico29, la norma di Meyer vietante in date sedi di versi giambici o trocaici fine assoluta di polisillabo se l’elemento immediatamente precedente è lungo o bisillabico; e così via. Chi traduce un testo già ampiamente sottoposto a precedenti traduzioni non può far a meno di tenerne conto. Per Plauto, da quando è apparsa la versione francese dell’Ernout accompagnante la già ricordata edizione, essa ha finito per far testo più ancora dell’edizione, che non ha riscosso in massima il consenso dei dotti. In precedenza in Italia s’erano avute la versione di Temistocle Gradi e Giuseppe Rigutini 30, quella di Gaspare Finali31, quella incompleta di S. Cognetti De Martiis32, quella di A. Alterocca33. In seguito, ma solo in parte, è uscita la versione in tre volumi a cura di Giulio Vitali34 e poi quella integrale per la BUR, a cura di Mario Scandola35. In precedenza ancora Ettore Romagnoli, per il Miles gloriosus e l’Aulularia, aveva dato inizio, per la «Collezione Romana»36 a un tipo di versione in prosa che, al modo di quella celeberrima in versi di Aristofane, la rompeva con le versioni blandamente letterali e inaugurava una maniera di tradurre che cercasse di riprodurre la scapricciata sbrigliatezza del testo. A questo criterio si sono ispirate, fra le innumerevoli versioni di singole commedie, quella del Truculentus a cura di Francesco Della Corte nel volume sansoniano La Commedia Classica37, e più ancora quella delle Bacchides a cura di Luca Canali per l’edizione di C. Questa38 e la versione integrale in tre volumi a cura di Giuseppe Augello 39. Queste sono state le versioni che abbiamo maggiormente tenute d’occhio. Con quella dell’Augello, che ha il merito di fare largo posto all’odierno fraseggio familiare, con frequenti sfumature dialettali, ci siamo spesso dovuti battere per evitare di ripeterne cadenze che ci sembravano le più ovvie per una buona resa del testo di Plauto; e solo per mostrare con quale attenzione l’abbiamo considerata, ci siamo permessi di registrare puntualmente tutti i casi in cui dissentiamo da essa. A proposito di nostre precedenti versioni plautine (sono già uscite in diverse sedi nostre versioni dell’Amphitruo, della Casina, del Curculio, dei Menaechmi, del Miles gloriosus, della Mostellaria e dello Pseudolus) ci è toccato di sentir riprendere il tono spericolatamente moderno, attuale della nostra traduzione. Molto peggio accadrà con questa versione integrale, che obbedisce al criterio di far intendere al lettore contemporaneo (nei modi in cui ormai le forme più veristiche della letteratura militante, il parlato cinematografico, il linguaggio dei cabarets consentono di avvertire il battito espressivo della mentalità della massa) quello che Plauto doveva rappresentare per il pubblico del suo tempo, così come ci siamo sforzati di configurarlo all’inizio di questo saggio, la mentalità, l’urto con la realtà di cui egli ambiva a farsi voce. Se p. es. il v. 1159 delle Bacchides non fosse stato tradotto da noi nella forma brutalmente veristica con cui l’abbiamo reso, ma nella forma letterale con cui parecchi lo tradurrebbero, e cioè: «Ma per Polluce, sarebbe molto più giusto che ti trafiggesse l’anca», sparirebbe tutto il tipico tono della scena. I pol e gli hercle che gremiscono il testo di Plauto corrispondono alle più crude bestemmie e scurrilità che fioriscono oggi sulla bocca di chi s’abbandona irriflessivamente o volutamente al più icastico linguaggio dell’aggressività plebea. Del resto già al v. 56 del prologo dei Captivi Plauto constata che di solito nella commedia ci sono spurcidici… versus immemorabiles; e nel suo testo s’incontrano autentiche parolacce come gerrae. Né è da tacere in lui la frequente presenza di doppi sensi osceni. Tutto il tono, l’eloquio, il mondo espressivo delle sue commedie, di cui abbiamo già rilevato la scanzonata e quasi cinica grassezza popolaresca, esigono oggi, perché le si possa intendere e rivivere per quello ch’effettivamente dovevano essere, una resa che le equipari all’odierno linguaggio più ricco d’afrori. Già per Aristofane qualcosa del genere fu iniziata dalla celebre versione di E. Romagnoli ed è stata coerentemente e felicemente continuata da B. Marzullo. Per questo ci siamo impegnati anche a rendere quasi sempre nel loro significato i nomi greci dei personaggi coniati da Plauto, e nell’inevitabile inserzione di coloriture dialettali ci siamo orientati verso i toni romanesco e meridionale, che, oltre che storicamente meglio connessi alla vita della plebe romana e ai caratteri, d’origine anche atellanica, dell’arte plautina, ci sono sembrati anche più consoni allo spirito del controllato inserimento di Plauto nella mentalità popolare. Al lettore, quali che siano i suoi interessi e le sue ascendenze culturali, il giudizio sulla nostra dura e ambiziosa fatica. ETTORE PARATORE, 1978

NOTA AL TESTO LATINO Le parentesi ad uncino (< >) indicano i supplementi giudicati necessari ed opportuni dai filologi dal sec. XVI ad oggi; le parentesi quadre ([ ]) indicano lettere, sillabe o parole che, tramandate dai manoscritti, sono tuttavia da espungere; l’asterisco (*) indica lacuna; il segno di croce (†) indica parti corrotte del testo alle quali sono stati apportati degli emendamenti; infine la barretta perpendicolare segna lo iato nel corso del verso.

Nota biobibliografica

LA VITA

La questione biografica più dibattuta intorno al celebre commediografo è quella del nome. Festo ci dice ch’egli ebbe il «cognomen» Plauto «a pedum planitie», e quindi da principio si chiamò «Plotus», poi agghindato nella forma più aulica «Plautus»; ma l’incertezza domina circa il «praenomen» e il «nomen». Plinio il vecchio, Frontone, Festo, e sembra anche Varrone e Suetonio hanno tramandato la forma «M. Accius», che fu adottata nel sec. XV, ma che i più ritengono dovuta a falsa trascrizione del nomen «Maccius»; e forse in questo errore entra anche la confusione col poeta drammatico Accio, come sembra provare un luogo del libro VII di sant’Isidoro di Siviglia. I filologi ora sono quasi concordi sulla forma «T. Maccius», che è attestata dal palinsesto Ambrosiano alla fine della Casina; e «Maccius» è nome osco, che quindi poteva trovarsi anche in Umbria, patria di Plauto. Ma nel prologo dell’Asinaria il nome del poeta è dato nella forma «Maccus» che sembra confermata da un passo scherzoso del prologo della Casina, che però non è di Plauto ma rimonta ad una ripresa postuma della commedia: salta subito agli occhi la connessione con la maschera Maccus dell’atellana; ed essa non ci deve stupire, dato il sapore così inconfondibilmente plebeo ed italico dello spirito plautino. Nel Mercator c’è la forma «Macci Titi», in cui il primo nome può derivare sia da «Maccius» sia da «Maccus». I più pensano che Plauto abbia storpiato il suo «nomen» nella forma della maschera dell’atellana, per giocare sopra se stesso e affermare la sua valentia di commediografo immedesimato nell’arte da lui coltivata; ma alcuni illustri filologi hanno supposto che Titus Plotus, affermatosi come autore comico, abbia ricevuto il nomignolo Maccus dalla maschera dell’atellana, con allusione alla sua buffonesca bravura, e poi questo nomignolo, o per volontà dello stesso poeta o per errore di grammatici, sia stato trasformato in Maccius. Per coloro che contestano l’autenticità dell’Asinaria, dato che anche il luogo del prologo della Casina ove si allude al «nomen» non è plautino, il problema dell’esistenza della forma Maccus non esiste: anzi proprio il Maccus del prologo dell’Asinaria ha spinto i sostenitori della non autenticità a ritenere la commedia opera di un ignoto Macco di età sillana. Plauto era di Sarsina, nell’Umbria. San Girolamo dice che egli è morto nel 200 a.C. Ma è un errore nascente dal fatto che il santo doveva trovare in Suetonio, sua fonte, l’indicazione che Nevio e Plauto avevano esercitato l’attività di poeta comico pressappoco nel medesimo periodo ed erano morti a non grande distanza l’uno dall’altro. Avendo fissato al 201 la morte di Nevio, san Girolamo fissò senz’altro quella di Plauto all’anno successivo. Ma l’anno certo della morte ce l’ha tramandato Cicerone, sulla scorta di Varrone: il 184 a.C. Né è il caso di pensare con taluni che la data sia stata fissata induttivamente (come il 204 per Nevio), solo poiché il 184 era l’anno in cui, negli atti dei «ludi», doveva essere registrata l’ultima rappresentazione di una commedia di Plauto. L’anno della nascita è stato ricavato in questo modo: la didascalia contenuta nel palinsesto Ambrosiano ci avverte che lo Pseudolus fu rappresentato nel 191; d’altro canto Cicerone ci testimonia che questa commedia fu scritta da Plauto nella vecchiaia; siccome per i romani la «senectus» cominciava a 60 anni, Plauto, quando fece rappresentare lo Pseudolus, doveva avere almeno questa età, onde non doveva esser nato dopo il 251 a.C.; molti propendono, «ad abundantiam», per la data del 254. Gellio, sulla traccia di Varrone, ci ha tramandato tutta la storia della giovinezza di Plauto, fino alla sua affermazione. Da molti critici essa è stata tacciata di esagerazione romanzesca; ma un fondo di vero ci deve essere. In gioventù Plauto sarebbe entrato al servizio di una compagnia di comici: il più grande commediografo latino avrebbe perciò rivelato confusamente la sua vocazione alla stessa maniera del massimo commediografo francese, Molière, che fu attore comico egli stesso, e del massimo commediografo italiano, il Goldoni, che da ragazzo fuggì a Chioggia con una compagnia di comici. Avendo sprecato in speculazioni avventate il modesto peculio procuratogli dal suo lavoro, Plauto dovette ridursi a girare la macina di un mugnaio per campare la vita; negl’intervalli del suo ingrato e faticoso lavoro scrisse tre commedie, due delle quali intitolate rispettivamente Saturio (L’uomo satollo) e Addictus (Lo schiavo per debiti). Sembrano titoli escogitati apposta per la sua dolorosa condizione o tali, se le commedie sono realmente esistite, da aver suscitato la tradizione sulla miseria e il lavoro servile del poeta: ché Plauto, se era veramente affamato e costretto per debiti a un lavoro da schiavi, doveva proprio avere scritto la prima commedia a sfogo della sua famelica povertà e la seconda a commento della sua miseranda situazione. Le tre commedie lo avrebbero rivelato poeta e gli avrebbero assicurato la fama e l’inizio dell’agiatezza. Nella tradizione riferita da Gellio c’è questo almeno di profondo, che essa adombra il carattere tipicamente plebeo, di nativa freschezza, dell’arte di Plauto, che sembra essersi educato in un ambiente di tavernieri, di schiavi e di prostitute, a contatto con la feccia del popolo, data l’efficacia incomparabile con cui egli ne sa rendere il linguaggio. Il favore del pubblico non abbandonò mai Plauto, che sapeva solleticarne i gusti, pur senza abdicare alle esigenze essenziali della poesia. La fama che circondò il nome di Plauto fu anzi tale che dopo la sua morte circolarono sotto il suo nome non meno di 130 commedie: la fatica principale della critica plautina, fiorente per un secolo e mezzo e divenuta il cavallo di battaglia dei filologi, fu dunque quella di sceverare le commedie autentiche dalle spurie e da quelle di dubbia autenticità. Vi dettero opera Elio Stilone, Volcacio Sedigito, Ser. Clodio, Aurelio Opillo, il poeta e filologo Accio, L. Manlio e finalmente Varrone Reatino, scolaro di Elio Stilone, che pose fine all’annosa ricerca, guadagnandosi soprattutto per questo la fama di massima autorità nel campo della filologia latina. E tacciamo di Cornelio Sisenna e del più tardo Terenzio Scauro, che forse dedicarono a Plauto solo un commento. Elio Stilone aveva riconosciuto l’autenticità di 25 commedie: Varrone divise le 130 commedie in tre gruppi: novanta sicuramente spurie, diciannove di dubbia autenticità (le cosiddette «pseudovarroniane»), ma che per tradizione e per ragioni di carattere stilistico potevano essere ritenute plautine (e fra queste anche le tre commedie che Plauto avrebbe scritto quand’era al servizio del mugnaio, ed una, Commorientes, desunta da Difilo), ventuno sicuramente plautine, le cosiddette «varroniane». La distinzione varroniana ebbe valore definitivo, perché solo le ventuno varroniane continuarono ad essere lette e trascritte, e ci sono pertanto pervenute. I manoscritti, di cui, fra i più autorevoli, il più completo è il Vaticanus Palatinus 1615 del sec. X (il cosiddetto vetus codex Camerarii), ce le tramandano in un ordine che in massima si avvicina a quello alfabetico, e cioè: 1 - Amphitruo, 2 - Asinaria, 3 - Aulularia, 4 - Captivi, 5 - Curculio, 6 - Casina, 7 - Cistellaria, 8 Epidicus, 9 - Bacchides, 10 - Mostellaria, 11 Menaechmi, 12 - Miles gloriosus, 13 Mercator, 14 - Pseudolus, 15 Poenulus, 16 - Persa, 17 Rudens, 18 - Stichus, 19 - Trinummus, 20 - Truculentus, 21 - Vidularia. Qualche filologo, come abbiamo già accennato, ha voluto essere più severo di Varrone ed ha negato l’autenticità dell’ Asinaria. Dell’ultima commedia, la Vidularia (La commedia del baule), ci sono giunti solo frammenti nel palinsesto Ambrosiano; nel resto della tradizione manoscritta essa manca, evidentemente perché nell’archetipo di questa tradizione si erano perduti gli ultimi fogli. Anche l’ Amphitruo ci è pervenuto lacunoso, e l’Aulularia (La commedia della pentola) e la Cistellaria (La commedia della cassetta) incomplete; manca il principio delle Bacchides. Anche dopo la definitiva revisione varroniana, la diffusione delle commedie plautine fu tale che il loro testo si tramandò in maniera non sempre omogenea. Fino ai primi del secolo scorso la nostra tradizione,

basata principalmente sul vetus Camerarii, era univoca, anche se molti dei codici tramandavano solo gruppi delle venti commedie. Ma quando il cardinale Angelo Mai scoprì il già ricordato palinsesto Ambrosiano proveniente da Bobbio, non solo si ricuperarono i frammenti della Vidularia, ma ci si rivelò una «recensio» diversa: il palinsesto conserva interi solo lo Pseudolus e lo Stichus e buona parte o frammenti di altre quindici delle ventuno commedie; ma l’ordine è diverso e spesso varia anche la lezione. Dal prologo dell’Eunuchus di Terenzio sappiamo dell’esistenza di un Colax di Plauto, desunto da Menandro. Sulla cronologia delle commedie plautine, benché molti tentativi siano stati fatti anche di recente, specie sulla base di argomenti stilistici, sappiamo di certo solo quello che ci tramanda il palinsesto Ambrosiano, nel quale le due commedie ivi integralmente conservate, lo Pseudolus e lo Stichus, sono accompagnate dalle didascalie, cioè da notizie sulla data della prima rappresentazione, sui personaggi che curarono, in un senso o nell’altro, l’esecuzione e talvolta sull’esito dello spettacolo: da queste sappiamo che lo Stichus fu rappresentato nel 200 e lo Pseudolus nel 191. Di recente è stato tentato di revocare in dubbio la validità di queste notizie; ma il tentativo non è apparso persuasivo. Quanto alle altre commedie, aperto è ancora il dibattito per assodare se le più antiche siano i Menaechmi o il Miles gloriosus: questa è databile con precisione al 205, per la già ricordata allusione alla prigionia di Nevio, e in favore della sua priorità militerebbe anche la preminenza che hanno in essa, nelle parti recitate, i settenari trocaici, il metro della «satura» popolare; a favore dei Menaechmi milita il fatto che in essa si allude a Ierone II di Siracusa come vivente, e Ierone morì nel 215. Di recente, ponendo i Menaechmi come la commedia più antica, si è tentato d’inserire fra questa e il Miles l’Asinaria e l’Amphitruo; l’Asinaria, che per un gioco di parole sul nome di Scipione si vorrebbe datare al 212, e l’Epidicus potrebbero essere considerate fra le più antiche per la loro relativamente minore ricchezza di metri. La Cistellaria sembra scritta verso la fine della seconda guerra punica per la sua allusione alle vittorie sui Cartaginesi. Il Poenulus, che introduce sulla scena il cartaginese Annone e suo nipote Agorastocle e intercala nel dialogo brani in lingua punica, è stato scritto evidentemente subito dopo la seconda guerra punica, per far conoscere ai Romani tipi e lingua del popolo vinto: ciò deve supporsi almeno per la sua prima redazione, perché la commedia palesa di essere stata rifatta, come dimostra fra l’altro la duplice chiusa e il duplice titolo, ché essa si chiama anche Patruos Pultiphagonides («Lo zio mangiatore di polenta», come tutti i Cartaginesi, secondo lo sprezzante appellativo affibbiato loro dai Romani), che forse era il titolo della seconda redazione, se pure non è vero il contrario, che cioè la commedia, come ora l’abbiamo, non sia il prodotto di una seconda redazione ove il poeta avrebbe contaminato il primitivo canovaccio con scene tolte da un’altra commedia. Si è voluto datare il Persa al 196; alcuni han voluto datare l’Amphitruo al 189, considerandolo contemporaneo all’Ambracia di Ennio. Sono state poste le Bacchides in rapporto con lo scandalo dei Baccanali (186). L’ Aulularia sembra posteriore al 195, data dell’abrogazione della legge Oppia contro il lusso delle donne. Il Trinummus, che fu rappresentato nei ludi Megalensi, dev’essere perciò posteriore al 194, data d’istituzione di quei ludi. Il Truculentus dev’essere coevo allo Pseudolus, perché Cicerone ci testimonia che Plauto si dilettò molto a comporre nella vecchiaia l’una e l’altra commedia. Altri ha ritenuto la Rudens l’ultima commedia composta da Plauto. Possiamo aggiungere infine che le Bacchides sono posteriori all’Epidicus, perché in un luogo delle prime viene espresso il grande affetto che Plauto nutriva per il secondo; e forse questa è la ragione per cui le Bacchides, violando il relativo ordine alfabetico con cui le ventuno commedie ci sono pervenute nella tradizione maggiore, sono state posposte nei codici all’Epidicus, almeno in un secondo momento. Non si può neanche stabilire un ordine cronologico sulla base di un ipotetico mutamento del gusto del poeta: fra le commedie databili nell’ultimo periodo della sua vita, accanto ad una piuttosto seria e grigia come il Trinummus, ve ne sono due fra le più audaci e vivaci, come il Truculentus e lo Pseudolus (forse il capolavoro di Plauto), che meritamente il vecchio poeta si gloriava di aver composte. Di recente è stata proposta la seguente cronologia delle commedie plautine: 207 Asinaria; 206 Mercator; 205 Miles gloriosus; 203-02 Cistellaria; 200 Stichus; 195 Epidicus; 194 Trinummus e Menaechmi; 193 Curculio; 191 Poenulus, Aulularia e Pseudolus; 190 Truculentus; 189 Bacchides, Rudens e Captivi; 188 Mostellaria (dubitativamente) e Amphitruo; 186 Persa; 184 Casina. Ma è anche questa una teoria che bisogna sottoporre ad attenta analisi prima di concludere sulla sua accettabilità. OPERE DI PLAUTO

Editio princeps: G.G. MERULA, Venezia 1472. Edizioni moderne: F. RITSCHI, Bonn 1849-53 (incompleta); G. GÖTZ, G. LOEWE e F. SCHOELL, Leipzig 1871-94; GÖTZ-SCHOELL, Leipzig 1892-1904; Leipzig 1875-92; F. LEO , Berlin 1895-96; W. LINDSAY, Oxford 1911 2; A. ERNOUT, Paris 1932-40. Delle innumerevoli edizioni di singole commedie: per l’Amphitruo, quella a cura di A. PALMER (London 1890), quella a cura di L. HAVET (Paris 1895), quella a cura di W.B. SEDGWICK (Manchester 1960), quella a cura di E. PARATORE con versione italiana (Firenze 19672) e quella a cura di T. CUTT (Detroit 1970); per l’Asinaria, quella a cura di L. HAVET (Paris 1925), che giudica la commedia pseudoplautina, quella a cura di F. BERTINI (Genova 1965), cui ha fatto seguito quella critica e comm. in 2 voll., Genova 1968; per l’Aulularia, quella a cura di J.H. GRAY (Cambridge 1896); per le Bacchides, quella a cura di C. QUESTA (con trad. di L. CANALI), Firenze 1965 (secorda edizione, Firenze 1975), e quella a cura di D. DEL CORNO (Torino 1973); per i Captivi, quella a cura di W. LINDSAY (London 1900), quella a cura di C. PASCAL (Torino 1919), quella a cura di J.P. WALTZING (Liège 1926) e quella a cura di BRIX-NIEMEYER (Leipzig 19307); per la Casina, quella a cura di E. PARATORE con versione italiana (Firenze 1959); per il Curculio, quella a cura di E. PARATORE con versione italiana (Firenze 1958), quella a cura di J. COLLART (Paris 1962), quella a cura di F. BERTINI (Bologna 1969), e quella a cura di G. MONACO (Palermo 1969); per l’Epidicus, quella a cura di J.H. GRAY (London 1893) e quella a cura di G.E. DUCKWORTH e A.T. WHEELER (Princeton 1940); per i Menaechmi, quella a cura di P. THORESONES (Oxford 1918) e quella a cura di N. MOSELEY e M. HAMMOND (Cambridge 1968); per il Mercator quella fondamentale a cura di P.J. ENK (Leiden 1932) e quella a cura di F. BERTINI (Milano 1970); per il Miles gloriosus, quella a cura di BRIX-KOEHLER (Leipzig 19164) quella a cura di C.O. ZURETTI (Torino 1919), quella a cura di E. PARATORE con versione italiana (Firenze 1959) e quella a cura di M. HAMMOND, A.W. MACK e W. MOSKALEW, (Cambridge 1963); per la Mostellaria, quella a cura di E.A. SONNENSCHEIN (Oxford 1907), quella a cura di N. TERZAGHI (Torino 1929), quella a cura di F. BERTINI con un saggio di F. DELLA CORTE (Torino 1970) e quella a cura di J. COLLART (Paris 1970); per lo Pseudolus, quella a cura di C.O. ZURETTI (Torino 1923); per la Rudens, quella a cura di E.A. SONNENSCHEIN (Oxford 1902), quella a cura di F. MARX (in «Abhandl. d. sächs. Akad. d. Wiss.», 1929, Heft 5), quella a cura di A. THIERFELDER (Heidelberg 19622) e quella a cura di H.C. FAY (London 1969); per il Trinummus, quella a cura di E. COCCHIA (Torino 1908), quella a cura di J.P. WALTZING (Louvain 1913) e quella a cura di BRIX-NIEMEYER-CONRAD (Leipzig 19316); per il Truculentus, quella fondamentale a cura di P.J. ENK (Leiden 1953). Per la lingua di Plauto sussiste il Lexicon Plautinum di G. LODGE (Leipzig 1904-33). G.L. USSING,

TRADUZIONI ITALIANE

Vanno ricordate le moderne versioni di RIGUTINI e GRADI (Firenze 1870), di S. COGNETTI DE MARTIIS (incomplete e frazionate fra Trani 1887, Torino 1891-94 e Bari 1906), del FINALI (Milano 1903), di G. MAZZONI, di A. ALTEROCCA (Milano 1921), di E. ROMAGNOLI per due commedie (Milano 1929), di G. VITALI (Bologna 1961-65), di M. SCANDOLA (Milano 1953), di G. AUGELLO (Torino 1968-72), e altre singole, come quelle raccolte, con sue introduzioni,

da B. MARZULLO nel volume (Firenze 1955) La commedia classica (e cioè tre delle quattro già ricordate di E. PARATORE, più quella dell’Aulularia di A. MARZULLO, quella della Mostellaria di N. TERZAGHI, quella dello Pseudolus di G. PASCUCCI e quella del Truculentus di F. DELLA CORTE ); quella della Pseudolus di F. ARNALDI (Napoli 1955), quella della Bacchides di L. CANALI (Firenze 1965), e quelle dello Pseudolus (Mazara del Vallo 1955), dei Menaechmi (ibid. 1957) e della Mostellaria (Roma 1972) di E. PARATORE. Per la critica testuale, fondamentale la trascrizione del palinsesto Ambrosiano a cura di W. STUDEMUND (Berlin 1889). Cfr. poi: M. NIEMEYER, De Plauti fabularum recensione duplici, Berlin 1887; O. SEYFFERT, Zur Ueberlieferungsgeschichte der Kom. des Plautus, in «Berl. Philol Woch.», 1896, p. 252 sgg. e 283 sgg.; C.C. COULTER, Retractation in the Ambrosian and Palatine Recensions of Plautus , Baltimore 1911; H.E. WILHELM, De codice B Palatino, Berlin 1932; W.M. LINDSAY, The Palatine Text of Plautus , Oxford 1896; The Codex Turnebi of Plautus, Oxford 1898; Introduction à la critique des textes latins basée sur le texte de Plaute (trad. franc. di J.P. WALTZING), Paris 1898; The Ancient Editions of Plautus, Oxford 1904. STUDI SU PLAUTO

Per la vastissima bibliografia fino al 1961 rimandiamo qui una volta per tutte al Plauto di E. PARATORE (Firenze 1962). Diamo ora un piccolo specimen della bibliografia successiva (per un momentaneo aggiornamento cfr. O. BIANCO, in «Cultura e scuola», 1963, p. 52 sgg.): B. BADER, Szenentitel und Szeneneinteilung bei Plautus, Diss. Tübingen 1970; M.F. BALTACEANU , Le vocabulaire des parodies plautiniennes comme documents des styles parodiés, in «Studii clasice», 1966, p. 97 sgg.; M. BARCHIESI, Plauto e il metateatro antico, in «Il Verri», 1970, p. 113 sgg.; W. BEARE, The Roman Stage, London 19643; F. BERTINI, Vent’anni di studi plautini in Italia , in «Boll. St. Lat.», 1971, p. 22 sgg.; J. BLÄNSDORF, Archaische Gedankengänge in den Komödien des Plautus, in «Hermes», 1967, Heft 20; L. BRAUN, Die Cantica des Plautus, Göttingen 1970; M. CEBEILLAC, Essai pour repréciser la chronologie des comédies de Plaute, in «Cahiers d’hist. Univ. Lyon», 1967, p. 327 sgg.; W.R. CHALMERS, Plautus and his Audience , in Roman Drama, London 1965, p. 21 sgg.; J. COLLART, La «scène du songe» dans les comédies de Plaute, in «Hommages à Jean Bayet», Bruxelles 1964, p. 154 sgg.; P.B. CORBETT , The scurra in Plautus, in «Eranos», 1968, p. 118 sgg.; M. DELCOURT, Plaute et l’impartialité comique, Bruxelles 1964; F. DELLA CORTE , Contaminatio e retractatio nell’«Asinaria», in «Dioniso», 1961, p. 30 sgg.; La tipologia del personaggio della Palliata, in «Actes du IX Congrès de l’Association Budé», Paris 1974, p. 354 sgg.; J.C. DUMONT, La stratégie de l’esclave plautinien, in «Rev. ét. lat.», 1966, p. 182 sgg.; H. DREXLER, «Lizenzen» am Versanfang bei Plautus, München 1965; Mihimi, in «Maia», 1968, p. 321 sgg.; E. FANTHAM, The Curculio of Plautus, in «Class. Quart.», 1965, p. 84 sgg.; P. FLURY, Liebe und Liebessprache bei Menander, Plautus und Terenz, Heidelberg 1968; K. GAISER, Zur Eigenart der römischen Komodie, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I, 2, Berlin 1972, p. 1027 sgg.; A.S. GRATWICK, Hanno’s Punich speech, in «Hermes», 1971, p. 25 sgg.; P. GRIMAL, Échos plautiniens d’histoire hellénistique, in «Mélanges Piganiol», Paris 1966, p. 1731 sgg.; H. HAPP., Die lateinische Umgangssprache und die Kunstsprache des Plautus, in «Glotta», 1967, p. 60 sgg.; H.D. JOCELYN, Chrysalus and the Fall of Troy , in «Harv. St. class. Philol.», 1969, p. 135 sgg.; W. LUDWING, AululariaProbleme, in «Philologus», 1961, p. 44 sgg. e 247 sgg.; Ein plautinisches Canticum: Curculio, 96-157, in «Philologus», 1967, p. 186 sgg.; Die plautinische Cistellaria, in «Entretiens Hardt», 1970, p. 43 sgg.; G. MAURACH, Untersuchungen zum Aufbau plautinischer Lieder, Göttingen 1964 (su di esso V.C. QUESTA I cantica plautini, in «Maia», 1966, p. 410 sgg.); Milphio und der Bau des Poenulus, in «Philologus», 1964, p. 247 sgg.; G. MONACO, Teatro di Plauto . I. Il Curculio, Roma 1963; Qualche considerazione sullo sfondo politico e sociale del teatro di Plauto, in «Dioniso», 1969, p. 301 sgg.; «Spectatores, plaudite» in «Studia Fiorentina Alexandro Ronconi sexagenario oblata», Roma 1970, p. 255 sgg.; I. OPELT, Die punisch-lateinische Bilingue im plautinischen Poenulus, in «Hermes», 1966, p. 435 sgg.; E. PARATORE, Antestor nel Curculio e nel Poenulus, in «Dioniso», 1962, p. 98 sgg.; La structure du Pseudolus, in «Rev. ét. lat.», 1964, p. 123 sgg.; Plauto in «Dioniso», 1964, p. 109 sgg.; Il teatro latino nei suoi rapporti col pubblico antico e nei riflessi sulla spiritualità moderna, in «Dioniso», 1965, p. 57 sgg.; Plaute et la musique, in «Maske und Kothurn», 1969, p. 131 sgg.; G.B. PIGHI, Plauto o della poesia drammatica, Pisa 1960; I. FISHER, Encore sur le caractère de la langue de Plaute, in «St. Clas.» 1971, p. 59 sgg.; E. FLORES, Letteratura latina e ideologia del III-II A. C., Napoli 1974; CH. KRAHMALKOV, The Punic speech of Hanno, in «Orientalia», 1970, p. 52 sgg.; C. QUESTA, Plauto diviso in atti prima di G. B. Pio, in «Riv. cul. class. e med.», 1962, p. 209 sgg.; Due cantica delle Bacchides, Roma 1967; Introduzione alla metrica di Plauto, Bologna 1967; Interpretazione metrica di Plauto, Cas. 630-645, in «Studi Schiaffini», Roma 1965, p. 915 sgg.; Ancora sui «loci» Jacobsohniani, in «Maia», 1968, p. 373 sgg.; A. RONCONI, Sulla fortuna di Plauto e di Terenzio nel mondo romano , in «Maia», 1970, p. 19 sgg.; E. SEGAL, Roman Laughter: The Comedy of Plautus, Cambridge Mass. 1968; V. TANDOI, «Noctuini oculi», in «St. it. fil. class.», 1961, p. 219 sgg.; Un passo del «Curculio» e la semantica di «antestor», in «St. it. fil. class.», 1961, p. 62 sgg.; I. WEIDE, Der Aufbau der Mostellaria des Plautus, in «Hermes», 1961, p. 191 sgg.; A. THIERFELDER, De fallaciarum facetiarumque rationibus Plautinis, in «Anales de fil. clas.», 1964, p. 29 sgg.; A. GARZYA, Note al Rudens di Plauto, Napoli 1967; L. PAPI, Ricerche sull’essenza del comico plautino, in «Rend. Ist. Lomb.», 1968, p. 549 sgg.; C. STACE, The Slaves of Plautus, in «Greece and Rome», 1968, p. 64 sgg.; E.W. SEGAL , Roman Laughter, Cambridge Harvard Univ. 1968; W. STEIDLE, Zur Komposition von Plautus Menaechmi, in «Rhein. Mus.», 1971, p. 247 sgg.; J. TH. SVENDSEN, A study of the animal imagery in Plautus , Minneapolis 1971; E. FRAENKEL, Zur römischen Komödie, in «Mus. Helveticum», 1968, p. 231 sgg.; M.L. PORZIO GERNIA Gruppi consonantici e dittonghi in età plautina, in «Rend. Accad. Lincci», 1973, p. 249 sgg.; Atti del congresso plautino dell’Istituto nazionale del dramma antico, Siracusa 1975. Sulla fortuna: il volume miscellaneo Roman Drama a cura di T.A. DOREY e D.R. DUDLEY, New York 1965 (anche per Seneca tragico); R. STEINHOFF, Das Fortleben des Plautus auf der Bühne, Blankenburg 1881; K.V. REINHARDSTOETTNER, Plautus. Spätere Bearbeitungen plautinischer Lustspiele, Leipzig 1886; P. GABOTTO , Appunti sulla fortuna di alcuni autori romani nel Medioevo, 7: Plauto, Verona 1891; A. BÖHM, Fonti plautine del Ruzante, in «Giorn. stor. lett. ital.», 1896, p. 27 sgg.; C. CALZIGNA, Fino a che punto i commediografi del Rinascimento abbiano imitato Plauto e Terenzio, Capodistria, 1899-1900; F. VITALI, La «Piovana» di Ruzante e la «Rudens» in Plauto, in «Boll. d. Museo Civico di Padova», 1956; E. PARATORE, Da Plauto al «Mare amoroso», ora in Tradizione e struttura in Dante , Firenze 1968, p. 315 sgg.; Nuove prospettive sull’influsso del teatro classico nel ’500, in «Memorie dei Lincei - Atti del Convegno sul teatro classico nel ’500», 1970 (ora in Dal Petrarca all’Alfieri, Firenze 1975, p. 105 sgg.); W. PISCHL, Die Menäechmen des Pl. und ihre Bearbeitung durch Regnard, Feldkirchen 1896; C. VINCENT, Molière imitatore di Plauto e Terenzio, Roma 1917; M. DELCOURT, La tradition des comiques anciens en France avant Molière, Liège 1934; R.C. ENGELBERTS, Molières Le Malade Imaginaire onder inoloed van de Aulularia van Plautus? , in «Neophilologus», 1954, p. 44 sgg.; A. GIORGI, Dall’Amphitruo plautino al Geta di Vitalis Blesensis, in «Dioniso», 1961, p. 38 sgg.; O. GÜNTER, Plautuserneuerungen in der deutschen Literatur des XV bis XVII Jahrhundert, Leipzig 1886; M. HERRMANN, Deutsche Schriften des Albrecht v. Eyb , 2: Die Dramenübertragungen Bacchides, Menaechmi, Berlin 1890; P. DITTRICH, Pl. und Ter. in Pädagogik und Schulwesen der deutschen Humanisten , Leipzig 1915; A. CONTADY, Zu den deutschen Plautus’ Uebertragungen, in «Euphorion», 1954, p. 176 sgg.; E.T. LUMLEY, The Influence of Plautus on the Comedies of Ben Jonson, New York 1901; M.W.

WALLACE, The Birthe of Hercules with an Introduction on the Influence of Plautus on the Dramatic Literature of England in the Sixteenth Century, Chicago 1903; R.B. FORSYTE, A Plautine Source of «The Merry Wives of Windsor» , in «Mod. Philol.», 1920-21, p. 102 sgg.; H.A. WATT, Plautus and Shakespeare, Further Comments on «Menaechmi» and «The Comedy of errors», in «Class. Journ.», 1924-25, p. 401 sgg.; J.W. DRAPER, Falstaff and the Plautine Parasite, in «Class. Journ.», 1937-38, p. 310 sgg.; R.L. GRISMER, The Influence of Plautus in Spain Before Lope de Vega , New York 1944; D.J. STEWART, Othello. Roman Comedy as Nightmare, in «Emory Univ. Quart.», 1967, p. 252 sgg.; L. WINNICZUK, De fabula quae inscribitur Odostratocles saec. XVII composita, in «Meander», 1967, p. 226 sgg.; C. QUESTA, Per la storia del testo di Plauto nell’Umanesimo, Roma 1968; D. NARDO, Ruzzante e i volgarizzamenti di Plauto, Padova 1974.

Mentre la presente opera era in bozze, è uscita a Torino, presso l’editore Einaudi nella collana «I millenni», la versione integrale di Plauto a cura di C. CARENA, senza testo latino a fronte. E. P., 1978

Amphitruo

Anfitrione

Questa commedia, indubbiamente riferibile ad un Plauto già maturo, è tuttavia di difficile datazione, anche se è facile ricavare dal testo quelle vere o presunte allusioni ad avvenimenti contemporanei, che la fantasia dei filologi è solita scovare nelle opere plautine. È interessante notare – a persuaderci della fragilità e reversibilità degli argomenti basati sulle più o meno illusorie allusioni di natura politica – che proprio lo studioso alla cui autorità si appellano i sostenitori di una datazione più tarda, cioè il Janne, ha voluto porre l’Amphitruo sul medesimo piano dell’Ambracia enniana, di cui altri l’hanno invece ritenuto una parodia, considerandolo cioè come un altro frutto del mecenatismo di Fulvio Nobiliore, il quale sarebbe stato protettore di Plauto non meno che di Ennio e, per i giochi trionfali conseguenti al suo ritorno in patria (189 a.C.), avrebbe ordinato al poeta sarsinate una nuova commedia, che sarebbe stata appunto l’Amphitruo. Né ci si può nascondere che peccano di soverchia ingegnosità taluni argomenti addotti dal Janne o dai suoi seguaci, come quello che aver scelto a sfondo bellico della commedia (cioè proprio a ripostiglio delle allusioni adulatorie al trionfatore, e quindi a essenziale scopo celebrativo della commedia) la spedizione di Anfitrione contro i Teleboi rivelerebbe l’intento encomiastico del poeta, in quanto le isole dei Teleboi erano prossime alle coste dell’Acarnania, su cui si era svolta la spedizione di Fulvio Nobiliore: facilmente si può obiettare con lo Schutter che «dubium est, num spectatores Romani huiusmodi allusionem intellexerint». Al che io aggiungo che tali finezze allusive di natura geografica male si concepiscono in un poeta e in una commedia che fanno di Tebe (v. 731) una città marina e fanno giungere (v. 412) la nave di Anfitrione dal portus Persicus, cioè dalla direzione contraria a quella di chi doveva arrivare dall’Acarnania: le conoscenze geografiche di Plauto non erano gran che superiori a quelle del suo pubblico! L’unica impressione che rimane indistruttibile, come avvio a un attento esame del problema cronologico, è che la commedia si rivolge a un pubblico inorgoglito da recenti vittorie: i vv. 39-45 e 75 alludono chiaramente a questo senso di trionfale sicurezza che pervade l’animo dei Romani, e sono anzi una testimonianza più unica che rara (con più concreta evidenza che non nel finale del prologo della Cistellaria) dell’eco che il grande ciclo di vittorie romane fra il III e il II sec. a. C. ha avuta nel teatro plautino. Se tale deduzione è legittima, appare più naturale la conclusione del De Lorenzi (Cronologia ed evoluzione plautina, Napoli 1952, pp. 94-95) che una commedia così eccezionalmente pervasa da echi di vittoria non possa aver rapporto se non col trionfo decisivo e più clamoroso ottenuto durante gli anni dell’attività di Plauto, cioè con la vittoria nella seconda guerra punica. Perciò egli riprende la tesi dello Schwering (Ad Plauti Amphitruonem Prolegomena, Diss. Greifswald 1907), che ha datato la commedia al 201 e ha raffrontato il racconto di Sosia con la descrizione della battaglia di Zama e dei suoi antecedenti, contenuta in Liv. XXX, 24-36. Ed effettivamente, se a tale genere di riscontri può essere riconosciuta validità sul piano metodico, è innegabile che la maggior copia di affinità non puramente generiche, che il racconto di Sosia presenta con testimonianze storiche, è proprio la serie delle affinità col racconto liviano relativo alla conclusione della seconda guerra punica.1 Coerentemente con tali considerazioni, sul punto di passare dall’esame del problema cronologico a quello degli altri due che sistematicamente si presentano per ogni commedia di Plauto – il problema delle fonti e quello conseguente dell’originalità plautina, dei rimaneggiamenti operati dal poeta, dell’eventuale contaminatio –, non posso fare a meno di avvertire che nell’Amphitruo Plauto ha ripreso il tema di quella che il Della Corte definisce «la commedia dei simillimi» e che io preferirei intitolare shakespearianamente Comedy of Errors. Il modello dell’Amphitruo, per l’evidenza della sua derivazione dalla più alta poesia drammatica della grecità classica e per l’armonia dell’impianto dato al tema e del modo con cui sono intuiti i personaggi, è un artista della forza di Menandro o Filemone. Da questa conclusione deriva che il modello principale dell’Amphitruo è ricondotto alla commedia nuova. Mi sia consentito ricordare ciò che ho già scritto nella mia Storia della letteratura latina (Firenze 1950, p. 41), che cioè distinguere l’Amphitruo, come fabula Rhinthonica, dalle altre commedie plautine «sembra fuor di luogo, perché sappiamo che anche autori della commedia nuova, p. es. Difilo, coltivarono la parodia mitologica; e quindi i fliaci di Rintone avranno costituito per Plauto il lievito nostrano per far fermentare la comicità racchiusa forse, anche per l’Amphitruo, in un modello attico». Con persuasiva lucidità il Friedrich (Euripides und Diphilos, München 1953, pp. 263-78) s’è servito di tragedie euripidee basate anch’esse sull’equivoco, sull’aerea rielaborazione di un mito spinto fino al gioco sottile dell’intelligenza dove i limiti fra il tragico e il comico sono confusi e trascesi, come lo Ione e l’Elena. Da queste gli è stato facile determinare come si dovesse profilare in origine il mito della nascita di Eracle in termini d’azione tragica e seguire quindi la progressiva innervazione, nei gangli di quello schema, della primitiva rielaborazione comica, la quale, e nell’euritmico respiro delle scene raffiguranti Alcmena disorientata nell’alternanza tra il falso e il vero marito e nella sapiente fedeltà ad un livello studiatamente tragicomico che non facesse mai degenerare l’azione in farsa, che ne facesse sempre scaturire (anche nei momenti di maggiore tensione comica) il lato umano e permettesse all’ultimo lo sviluppo di una vera e propria narrazione d’alto tono, quasi di stile tragico, com’è il racconto di Bromia, è uno dei più istruttivi esempi del lento trapasso dal dramma euripideo alla Nέα. Ma la ricostruzione del Friedrich ha un valore decisivo soprattutto per stabilire l’unità dell’Amphitruo e negare la contaminatio. Com’è a tutti noto, il Leo (Ueber den Amph. des Plautus, in «Nachr. der Goetting. Gesell.», 1911, pp. 254 sgg.), sulle orme del Kakridis (in «Rheinisches Museum», LVII, pp. 460 sgg.), ha tentato di distinguere tutta l’azione relativa a Sosia dal vero dramma di Alcmena, considerandola un’aggiunta di Plauto, e analizzando il monologo di Giove all’inizio dell’atto terzo (che veramente si presta a sospetti di varia natura) e le infinite difficoltà che si frappongono a intendere come la commedia s’inizi con la che determina il concepimento di Ercole e termini subito dopo con la nascita dell’eroe, mentre poi di questo si dice (v. 482) che nascerà settimino, ha dedotto che Plauto ha contaminato una commedia relativa alla nascita di Eracle con una commedia che più semplicemente, e forse più ridancianamente, s’intratteneva sulle voluptates illegittime di Giove. Il Friedrich (p. 271) riconosce che nella scena capitale fra Alcmena, Anfitrione e Sosia, in cui la donna fornisce al marito l’amara testimonianza d’aver ricevuto nella notte precedente un altro Anfitrione, la presenza di Sosia e le sue reazioni all’impensato colpo di scena non si configurano quali si aspetterebbero in un personaggio che ha riempito di sé e delle sue disavventure le prime scene: nei vv. 795 sgg. Sosia riassume la classica funzione del servo petulante e protervo che si diverte a ridere alle spalle del padrone, quasi senza riflettere che il nuovo sdoppiamento, con tutte le sue conseguenze, ripete e complica quello di cui egli stesso è rimasto vittima. Parimenti, a pp. 273-75, il Friedrich

nota che nella prima scena dell’atto secondo l’incredulità di Anfitrione allo strabiliante racconto di Sosia è il segno di una differenza, quasi di un’incompatibilità d’origine fra i due personaggi: il marito di Alcmena, data la sua origine di personaggio tragico, non può concepire e comprendere una situazione così comicamente assurda come quella che Sosia gli va esponendo; la sua annoiata, irritata ripugnanza a quelle apparenti fandonie sottolinea il contrasto fra due mondi giustapposti, quello dell’antica azione tragica, che culminava nel supplizio decretato dal marito ad Alcmena, e quello della sovrapposta rielaborazione del mito in senso comico. Ma da tutto ciò discende per il Friedrich non che l’avventura di Sosia è stata inserita da Plauto, ma che piuttosto di essa si poteva fare a meno solo in uno sviluppo prettamente tragico, solo, verbigrazia, nel dramma euripideo. Essa pertanto deve risalire al modello comico dell’Amphitruo: e basta studiare attentamente la struttura d’una tragedia fondata anch’essa sull’equivoco, l’Elena di Euripide, dove l’intellettualistica voluttà di giocare col nodo avventuroso sfiora insensibilmente il comico, per rendersi conto del modo con cui il commediografo greco autore del modello deve aver introdotto gli elementi comici, sfruttando e sviluppando la tecnica euripidea. Eliminata così l’ipotesi che l’avventura di Sosia sia un additamentum plautino, come spiegare allora la ripetizione, sotto certi aspetti fastidiosa, che il monologo di Giove all’inizio dell’atto terzo (vv. 861-881) rappresenta rispetto al monologo di Mercurio ai vv. 463-498, che ha quasi funzione di secondo prologo? Basta confrontare i vv. 486-95 con i vv. 869-79 per sincerarsi dell’esistenza di un vero e proprio doppione. E la cosa diventa ancor più grave se notiamo, con tanti altri critici, che il monologo di Mercurio si conclude con un’espressione (Cum Alcumena uxore usuraria), la quale ritorna part pari ai vv. 980-81 (Cum hac usuraria/uxore), cioè proprio in quel secondo monologo di Giove che, riconciliatosi con Alcmena, prepara l’ingresso di Mercurio come servus currens; e introduce quindi un tono dissono, stridulo di cinismo. Gravissima poi diventa la difficoltà se ricordiamo che proprio nel monologo di Mercurio è introdotta la notizia che Ercole nascerà settimino, il che – ripeto – fa escludere che nella commedia la serva al concepimento dell’eroe. Ma il Friedrich, ponendo in rilievo la perfetta euritmia costruttiva delle scene in cui accanto ad Alcmena si alternano, sino alla fine, il falso e il vero Anfitrione, ha ravvisato proprio in questo motivo il filo conduttore della commedia sin nel modello greco ed ha affermato quindi (p. 276) l’impossibilità di scoprire nell’Amphitruo due modelli o due azioni giustapposte, di cui la seconda sarebbe ravvisabile con l’ingresso di Giove all’inizio del terzo atto. Come si possono superare allora le già accennate difficoltà, balzanti dal raffronto fra il monologo di Mercurio e i due monologhi di Giove e dalla immediata successione della nascita di Ercole alla ? Il racconto di Bromia fa parte integrante del tono tragicomico dell’originale: è difficile pensare che Plauto, il quale forse ha marcato nella scena proprio gli spunti comici (cfr. le battute di Anfitrione ai vv. 1076-83) , abbia saputo trovare, proprio lui, il modello e il tono adatti a conservare la solennità del modello principale, pur introducendo la sbardellata stranezza di una nascita così prematura del figlio di Giove ed Alcmena. E poi si può veramente concepire un modello che non terminasse con la nascita di Ercole? Non rimane allora se non pensare che la non fosse la prima del concubito fra Giove ed Alcmena. Ma si può pensare d’altronde che il modello alterasse proprio il dato fondamentale della tradizione? E poi quale altra occasione avrebbe potuto avere Giove, prima di quella notte, per recarsi da Alcmena sotto l’aspetto di Anfitrione? Prima della partenza di Anfitrione per la guerra, certamente no, per evidenti ragioni; durante l’assenza del marito ma prima della vittoria, neppure: altrimenti dal contesto avremmo ricavato sicuramente un’allusione a questo episodio, che avrebbe costretto Giove a giustiflcare ad Alcmena la sua venuta, come prova di un amore così forte da spingerlo a percorrere di notte, di nascosto, i molti chilometri che separavano Tebe dal teatro della guerra solo per avere la gioia di rivederla. Ma da tutta la commedia non emerge il minimo indizio che Giove abbia architettato un simile espediente, facile per la sua onnipotenza, ma difficilmente gabellabile come consentito alle possibilità del mortale Anfitrione. Resta ad ogni modo quasi invalicabile, a questo proposito, la difficoltà rappresentata dai vv. 479-85, che infatti lo Ussing espungeva, pur non preoccupandosi della stranezza di un Ercole nascente subito dopo il concepimento. Quindi alla stranezza miracolosa di un Ercole nato nella notte stessa del concepimento si aggiunge la contraddittoria stranezza delle parole di Mercurio annuncianti che Ercole, anche se minor di Ificle, non lo sarà tanto, riguardo al concepimento, da non essere almeno settimino. D’altro canto, che il concepimento di Eracle fosse avvenuto nella è confermato dalla tradizione mitografica. Quindi il riscontro con essa ci autorizza a supporre che nella fantasia popolare o in quella dei poeti e mitografi che le hanno dato la forma definitiva o almeno in quella del modello di Plauto (adusata alle paradossali stranezze del dramma satiresco e della parodia mitologica) il miracolo della nascita di Eracle consistesse in un duplice : nel fatto che per concepirlo fosse stata necessaria una e nel fatto ch’egli fosse nato ad un parto con Ificle, subito dopo quella notte. Del resto, nel racconto di Bromia c’è anche un altro dato repugnante alla tradizione volgata: quello dei due serpenti che assalgono Ercole appena nato. Com’è noto, la tradizione mitograflca faceva compiere ad Era il tentativo dell’uccisione di Eracle per mezzo dei serpenti quando il bimbo era giunto almeno all’ottavo mese dalla nascita, cioè a un numero di mesi corrispondente proprio a quello che nel secondo monologo di Mercurio si attribuisce all’intervallo fra il suo concepimento e la nascita. Dovremo pensare che anche questo particolare sia una sbrigliata e assurda fantasia germinata nel cervello di Plauto, voglioso di accatastare alla rinfusa, nella sua commedia, tutti i dati relativi al concepimento, alla nascita e all’infanzia di Ercole, che costituivano, oltre tutto, solo lo sfondo occasionale, per quello ch’era l’elemento mitografico religiosamente solenne, non il motivo sostanziale della commedia, tutta basata sul gioco degli equivoci? Non è più ovvio pensare che anche questo sia un particolare della paradossale rielaborazione del mito fatta dal modello, cioè una riprova che già in questo si trovasse il della nascita immediata dell’eroe? Si noti inoltre che questo straordinario anticipo della nascita dell’eroe viene a contraddire sottilmente al noto dato mitologico, secondo cui invece quella nascita fu artatamente ritardata da Hera perché prima di Eracle nascesse Euristeo. Solo un poeta greco poteva avere il gusto di una così paradossale inversione del dato mitologico. Dunque, l’indicazione di Mercurio che il figlio di Giove nascerà settimino viene a complicare le cose, contraddicendo ai dati del mito e della commedia, per il gusto di sostituire al miracolo una spiegazione naturale di esso. Ora si ponga a confronto, nell’economia della commedia, il valore del monologo di Mercurio con quello del monologo di Giove all’inizio del terzo atto. In questo c’è una coppia di versi (vv. 867-68: Nunc huc honoris vostri venio gratia, / ne hanc incohatam transigam comoediam) che redolet da lungi la mano di Plauto (una delle tante libere aggiunte del poeta latino) e quindi ha suscitato alle narici di critici troppo sottili la puzza della contaminatio. Ma in realtà il ritorno in iscena di Giove, dopo l’urto esploso fra Alcmena e Anfitrione, è un evento imprevisto, che meritava la spesa di una breve spiegazione agli spettatori, secondo la tecnica della Neva d’introdurre capricciosamente, nel corpo della commedia, gli accenni al suo ulteriore svolgimento: tecnica che – come vedremo nella nota introduttiva al Miles – ha determinato anche la creazione del prologo ritardato e la falsa teoria ch’esso fosse caratteristico della N . Per giunta nel monologo di Giove è contenuta (vv. 878-79) la vera motivazione – razionatistica, ma di tipo

sentimentale – del miracolo per cui Ercole nascerà, a un parto con Ificle, subito dopo il concepimento: Faciamque ut uno fetu, et quod gravida est viro, et me quod gravidast, pariat sine doloribus.

Questa spiegazione, fra razionalistica e sentimentale, del miracolo è nel più puro spirito d’un autore della N , e ci fa vedere come era motivato nel modello il duplice insito nel concepimento e nella nascita di Eracle. Guardiamo ora come il medesimo motivo è prsentato, con maggior spreco di parole, nel monologo di Mercurio: Pater curavit uno ut fetu fieret, uno ut labore apsolvat aerumnas duas, et ne in suspicione ponatur stupri, et clandestina ut celetur consuetio.

Qui il poeta non solo ha anticipato la spiegazione che darà Giove all’inizio dell’atto terzo, ma ha anche compiuto un pasticcio: il proposito di far nascere a un parto il figlio legittimo e il figlio adulterino, per evitare ad Alcmena la suspicio stupri, come può conciliarsi con la clamorosa rivelazione che Giove farà della sua paternità al momento della duplice nascita o che, ad ogni modo, secondo i sostenitori della contaminatio, Giove faceva al termine della commedia originale, preannunciando la nascita? Tutto l’insieme di quel discorso procede a sghembo, è uno sgangherato accozzo di constatazioni del putiferio che sta per nascere e di giustificazioni e rattoppi che complicano le cose senza celarle. Per giunta, quella specie di appendice del prologo, che Mercurio fa in quel punto, rallenta l’azione e appare, se non superflua, almeno inopportuna, mentre i brevi cenni di Giove all’inizio dell’atto terzo sono come un nuovo stimolo impresso all’azione e alla curiosità degli spettatori. Mai altrove è dato registrare un simile comportamento, in cui la tecnica euripidea del prologo espositivo degli antefatti e riassuntivo dell’azione è gonfiata sino al punto da spezzare il prologo stesso in due lunghi tronconi. Qui evidentemente c’è un autore che dormitat: e di simili pisolini più volte si manifesta responsabile lo spregiudicato rielaboratore Plauto, che la critica più recente tende a riabilitare integralmente in nome della sua vis comica e della sua concezione melodrammatica della commedia, ma esclusivamente a patto di ravvisare in simili distrazioni solo l’insindacabile capriccio di un talento comico-musicale poco curante della struttura esteriore. Evidentemente Plauto, forse non giudicando opportuno inzeppare nel primo prologo tutte le notizie sull’azione e sentendo d’altronde il bisogno di illustrarle meglio al pubblico poco educato a quel mito, ha reduplicato il prologo a metà dell’atto primo: che a Mercurio sia stata attribuita da Plauto anche una strana funzione supplementare di personaggio protatico, lo dimostrano anche spunti del suo terzo monologo, quello pronunciato nell’atto terzo, in veste di servus currens. E si guardi la nota introduttiva al Miles per sincerarsi come i prologhi ritardati siano proprio una specialità di Plauto, sull’orma dell’uso fattone nella N e di quello, già notato in essa, d’inserire a capriccio le anticipazioni sull’azione. Se dunque nel secondo monologo di Mercurio è da ravvisare un’aggiunta poco felice di Plauto, una prolissa e disturbatrice anticipazione del monologo di Giove, niente è più facile che supporre: 1) che, avendo creato egli stesso la beffarda espressione del v. 498, Plauto se ne sia ricordato ed abbia voluto ripeterla, sia pur inopportunamente, ai vv. 980-81, cioè proprio in un punto in cui le parole di Giove preparano il rientro di quel Mercurio cui l’espressione era già stata posta in bocca; 2) che i vv. 107-09 del prologo, in cui c’è quell’is amare occepit Alcumenam che trova riscontro con ut occepi semel del v. 873, cioè proprio con un’espressione del monologo di Giove, siano anch’essi un riecheggiamento di quella scena capitale e, come il monologo di Mercurio nell’atto primo, ne siano un riecheggiamento in senso estensivo e razionalistico, mirando – come quello – a eliminare il della nascita di Ercole subito dopo il suo concepimento; 3) che dunque la notizia che Ercole nascerà settimino, essendo contenuta solo nel monologo di Mercurio, obbedisce al medesimo proposito latente nei vv. 107-109 e lo reca più oltre, e che perciò quest’elemento, che ha sempre rappresentato la massima difficoltà per l’accettazione di una solida unità strutturale dell’Amphitruo, può essere tranquillamente attribuito non al frutto di una faticosa contaminatio, ma all’arbitrio stesso del poeta, ad una sua personale reduplicazione di una scena; egli ne ha profittato per introdurre un nuovo elemento (quello della nascita di Ercole come settimino), che poteva, sì, venirgli da qualche dato tradizionale extravagante, ma che può anche essere attribuito alla quadrata, spregiudicata mentalità italica del poeta, il quale, già poco sollecito del lato solenne e patetico della tragicommedia e portato a rielaborarne gli spunti più decisamente passibili di un’intensificazione comica, ha forse voluto smorzare uno degli aspetti del duplice , quello più evidentemente innaturale per una mentalità credula, sì, ma fermamente attaccata alle più corpose apparenze della vita fisiologica. C’è piuttosto da osservare che il v. 117 del L. XIX dell’Iliade ci dà la notizia che Era, volendo anticipare – come s’è detto – la nascita di Euristeo rispetto a quella di Eracle, lo fece generare proprio settimino, per farlo divenire il dominatore della sua stirpe. Possiamo attribuire a Plauto uno scambio fra Euristeo ed Ercole nella singolarità della nascita o siamo costretti a postulare ch’esso fosse un altro capriccio del modello greco? A ogni modo, per salvaguardare la paternità plautina del particolare, ci sarebbe facile supporre un lapsus di memoria da parte di Plauto. In conclusione, tutta la solida struttura della commedia, il suo equilibrio, la complessità e profondità del suo impianto e del suo significato rivelano una mano diversa da quella di un geniale brasseur de scènes come Plauto. Oso pertanto affermare che molti dei pregi per i quali l’Amphitruo riscuote meritamente l’ammirazione di lettori e ascoltatori, e specie i pregi di fondo, risalgono al modello. Una conclusione precisa non sarà mai possibile per lo stato lacunoso in cui la commedia ci è pervenuta: si pensi, fra l’altro, che è impossibile determinare se poi Plauto, nell’atto quarto, abbia dato al personaggio di Sosia un nuovo sviluppo paragonabile a quello dell’atto primo. Ma in ogni caso, allo stato attuale delle cose, possiamo dire che il brio comico di vera marca plautina si attenua dopo la prima scena dell’atto secondo. Alla prova della ribalta la grande scena del secondo atto fra Alcmena, Anfitrione e Sosia – vero centro strutturale e ideale della commedia – ha sempre suscitato un’ilarità non meno fragorosa di quella del primo atto fra Sosia e Mercurio; ma era un riso che istintivamente si nutriva e si affinava anche attraverso la coscienza che sulla scena s’avviluppava un autentico nodo drammatico coinvolgente nella sua stretta un problema umano di essenziale importanza: quello dello sdoppiamento della personalità e della verità, quello dell’incertezza e contraddittorietà di tutti i dati primigenî della nostra coscienza. Nella scena fra Mercurio e Sosia, in cui pure si pone il medesimo problema, esso non arriva mai a un grado di piena coscienza, ravvolto com’è e quasi soffocato sotto il grasso ammanto delle piacevolezze farsesche con cui Plauto esaspera i lati buffi della psiche di Sosia nei suoi riflessi di fronte alla straordinaria situazione, con una tecnica che richiama da vicino i Menaechmi e il Miles; persino nella prima scena del secondo atto, quando sulla sua bocca (v. 577) il motivo pirandelliano ante litteram si stilizza nella formula domi ego sum, inquam… et apud te adsum Sosia idern, Sosia trova modo così di distillare, dalla pensosa e stimolante condizione su cui poggia tutta l’essenza della commedia, solo il lievito della più aperta, comunicativa comicità esteriore. Ma nelle scene in cui campeggia, nella sua

incrollabile serietà, l’inquietante personaggio di Alcmena, di fronte a questa donna che soffre realmente la capricciosa, cangiante vicenda cui è esposta, anche Plauto, pur intromettendo le irriverenti battute buffonesce di Sosia, non ha avuto l’animo di trasformare l’insieme in modi d’opera buffa accesamente farsesca. Proprio per l’Amphitruo sembrò che l’eccezionalità stessa dell’impianto scenico e quello che Mercurio confida agli spettatori rendessero imprescindibile riconoscere che una buona parte del prologo rimonta a Plauto. Una volta assodato che il prologo risale integralmente a Plauto, si può capire meglio perché il poeta, dopo aver impresso al discorso di Mercurio un’andatura così tortuosa, prolissa, a onde ricorrenti, abbia sentito l’opportunità di spezzare a un dato punto l’esposizione dei fatti (posto ch’essa si trovasse per intero nell’originale) e abbia provato il bisogno di creare un secondo prologo dopo la scena con Sosia, sfruttando forse elementi che si trovavano già nel prologo del modello e indubbiamente quelli che si trovano nel monologo di Giove alla sua seconda entrata in iscena. D’altro canto, ora che si è constatato come nulla effettivamente si opponga ad attribuire integralmente il prologo a Plauto, i vv. 39-45 e 75 possono riacquistare in pieno la funzione di indizi del momento storico in cui il poeta ha scritto e fatto rappresentare l’Amphitruo, e possono quindi confermare l’impressione che la commedia abbia fatto seguito al trionfo di Zama. Nessuna commedia plautina ha avuto nelle letterature moderne la fortuna dell’Amphitruo. Lasciando stare la più che altro indiretta ispirazione di Vitale de Blois nel suo Amphitruo o Geta, sono da ricordare Il Marito di Ludovico Dolce, la Mater Virgo dell’umanista tedesco Burmeister, l’Amphitrion di Juan de Timoneda, l’Astrologo di G. B. Della Porta, che nella scena settima dell’atto quarto riprende per intero la grande scena fra Mercurio e Sosia, i Sosies del Rotrou, quel capolavoro che è l’Amphitryon di Molière, e, dopo le variazioni del teatro inglese col Dryden e lo Hawkesworth, l’Anfitrione del Kleist, tipica interpretazione in chiave rousseauiana e romantica, e l’Amphitryon N. 38 del Giraudoux che, come osserva il Friedrich (op. cit. p. 277), è rimasto nel titolo forse più al di qua che al di là nel numero delle imitazioni. In età contemporanea il tema è stato ripreso dal cinema e dal teatro leggero, come documentano Out of this World di Cole Porter e Giove in doppiopetto di Garinei e Giovannini. In età umanistica Ermolao Barbaro reintegrò con una sua personale stesura la lacuna degli atti terzo e quarto.

PERSONAE

PERSONAGGI

Mercurius, deus Sosia, servos Iuppiter, deus Alcumena, matrona Amphitruo, dux Blepharo, gubernator Bromia, ancilla

Mercurio, dio Sosia, servo Giove, dio Alcmena, donna sposata Anfitrione, generale Blefarone, timoniere Bromia, ancella

[La scena è a Tebe, in Beozia, dinanzi alla casa di Anfitrione.]

ARGUMENTUM I

In faciem versus Amphitruonis Iuppiter dum bellum gereret cum Telobois hostibus Alcmenam uxorem cepit usurariam. Mercurius formam Sosiae servi gerit 5 absentis; his Alcmena decipitur dolis. Postquam rediere veri Amphitruo et Sosia, uterque [de]luduntur dolis in mirum modum. Hinc iurgium, tumultus uxori et viro, donec cum tonitru voce missa ex aethere 10 adulterum se Iuppiter confessus est. ARGUMENTUM II

Amore captus Alcumenas Iuppiter mutavit sese in formam | eius coniugis, pro patria Amphitruo dum decernit cum hostibus. Habitu Mercurius ei subservit Sosiae: 5 is advenientis servum ac dominum frustra habet. Turbas uxori ciet Amphitruo: atque invicem raptant pro moechis. Blepharo captus arbiter uter sit non quit Amphitruo decernere. Omnem rem noscunt; geminos † Alcumena enititur.



Mercurius, deus [ME.] Ut vos in vostris voltis mercimoniis

5

10

15

20

25

30

35

40

45

50

55

60

emundis vendundisque me laetum lucris adficere atque adiuvare in rebus omnibus, et ut res rationesque vostrorum omnium bene expedire voltis peregrique et domi, bonoque atque amplo auctare perpetuo lucro quasque incepistis res quasque inceptabitis, et uti bonis vos vostrosque omnis nuntiis me adficere voltis, ea adferam, ea ut nuntiem, quae maxume in rem vostram communem sient– nam vos quidem id iam scitis concessum et datum mi esse ab dis aliis, nuntiis praesim et lucro–, haec ut me voltis adprobare, adnitier, lucrum ut perenne vobis semper subpetat, ita huic facietis fabulae silentium itaque aequi et iusti hic eritis omnes arbitri. Nunc quoiius iussu venio et quam ob rem venerim, dicam simulque ipse eloquar nomen meum. Iovi’ iussu venio; nomen Mercuriost mihi. Pater huc me misit ad vos oratum meus, tametsi pro imperio vobis quod dictum foret scibat facturos, quippe qui intellexerat vereri vos se et metuere, ita ut aequom est Iovem. Verum profecto hoc petere me precario a vobis iussit leniter dictis bonis. Etenim ille quoius huc iussu venio Iuppiter non minu’ quam vostrum quivis formidat malum: humana matre natus, humano patre, mirari non est aequom, sibi si praetimet. Atque ego quoque etiam, qui Iovis sum filius, contagione mei patris metuo malum. Propterea pace advenio et pacem ad vos fero. Iustam rem et facilem esse oratam a vobis volo. Nam iuste ab iustis iustus sum orator datus; nam iniusta ab iustis impetrari non decet, iusta autem ab iniustis petere insipientia est, quippe illi iniqui ius ignorant neque tenent. Nunc iam huc animum omnes quae loquar advortite. Debetis velle quae velimus: meruimus et ego et pater de vobis et re publica. Nam quid ego memorem, ut alios in tragoediis vidi, Neptunum, Virtutem, Victoriam, Martem, Bellonam, commemorare quae bona vobis fecissent, quid benefactis meu’ pater, deorum regnator, architectus omnibus? Sed mos numquam illi fuit patri meo ut exprobraret quod bonis faceret boni; gratum arbitratur esse id a vobis sibi meritoque vobis bona se facere quae facit. Nunc quam rem oratum huc veni, primum proloquar; post argumentum huius eloquar tragoediae. Quid contraxistis frontem? quia tragoediam dixi futuram hanc? deu’ sum, commutavero. Eandem hanc, si voltis, faciam | ex tragoedia comoedia ut sit omnibus isdem vorsibus. Utrum sit an non voltis? sed ego stultior, quasi nesciam vos velle, qui divos siem. Teneo quid animi vostri super hac re siet. Faciem ut commixta sit † tragico comoedia; nam me perpetuo facere ut sit comoedia,

reges quo veniant et di, non par arbitror. Quid igitur? quoniam hic servos quoque partis habet, faciam sit, proinde ut dixi, tragico[co]moedia. Nunc hoc me orare a vobis iussit Iuppiter, 65 ut conquistores singula in subsellia eant per totam caveam spectatoribus. Si quoi favitores delegatos viderint, ut is in cavea pignus capiantur togae. † Sive qui ambissent palmam histrionibus 70 seu quoiquam artifici-seu per scriptas litteras sive [qui] ipse ambissit seu per internuntium–; sive adeo aediles perfidiose quoi duint; sirempse legem iussit esse Iuppiter, quasi magistratum sibi alterive ambiverit. 75 Virtute dixit vos victores vivere, non ambitione neque perfidia; qui minus eadem histrioni sit lex quae summo viro? Virtute ambire oportet, non favitoribus. Sat habet favitorum semper qui recte facit, 80 si illis fides est quibus est ea res in manu. Hoc quoque etiam mihi | in mandatis dedit, ut conquistores fierent histrionibus. Qui sibi mandasset delegati ut plauderent quive quo placeret alter fecisset minus, 85 eius ornamenta et corium uti conciderent. Mirari nolim vos, quapropter Iuppiter nunc histriones curet. Ne miremini: ipse hanc acturust Iuppiter comoediam. Quid admirati | estis, quasi vero novom 90 nunc proferatur, Iovem facere histrioniam? Etiam histriones anno quom in proscaenio hic Iovem invocarunt, venit, auxilio is fuit. Praeterea certo prodit in tragoedia. Hanc fabulam, inquam, hic Iuppiter hodie ipse aget 95 et ego una cum illo. Nunc † animum advortite, dum huius árgumentum | eloquar comoediae. Haec urbs est Thebae; in illisce habitat aedibus Amphitruo, natus Argis ex Argo patre, quicum Alcumena est nupta, Electri filia. 100 Is nunc Amphitruo praefectust legionibus; nam cum Telobois bellum est Thebano poplo. Is priu’ quam hinc abiit ipsemet in exercitum, gravidam Alcumenam | uxorem fecit suam. Nam ego vos novisse credo iam ut sit pater meus, 105 quam liber harum rerum multarum siet, quantusque amator siet quod complacitum est semel. Is amare occepit Alcumenam clam virum, usuramque eius corporis cepit sibi, et gravidam fecit is eam compressu suo. 110 Nunc de Alcumena ut rem teneatis rectius, utrimque est gravida, et ex viro et ex summo Iove. Et meu’ pater nunc intus hic cum illa cubat, et haec ob eam rem nox est facta longior, dum illa quacum volt voluptatem capit. 115 Sed ita adsimulavit se quasi Amphitruo siet. Nunc ne hunc ornatum vos meum admiremini, quod ego huc processi sic cum servili schema; veterem atque antiquam rem novam ad vos proferam; propterea ornatus in novom incessi modum. 120 Nam meu’ pater intus nunc est eccum Iuppiter. In Amphitruonis vertit sese imaginem omnesque eum esse censent servi qui vident, ita vorsipellem se facit, quando lubet. Ego servi sumpsi Sosiae mi imaginem, 125 qui cum Amphitruone | abiit hic in exercitum, ut praeservire amanti meo possem patri, atque ut ne qui essem familiares quaererent, vorsari crebro hic cum viderent me domi.

Nunc quom esse credent servom et conservom suom, 130 hau quisquam quaeret qui siem aut quid venerim. Pater nunc intus suo animo morem gerit. Cubat complexus, quoiius cupiens maxime est. Quae illi ad legionem facta sunt, memorat pater meus Alcumenae |. Illa illum censet virum 135 suom esse, quae cum moecho est. Ibi nunc meu’ pater memorat legiones hostium ut fugaverit, quo pacto sit donis donatus plurumis. Ea dona, quae illic Amphitruoni sunt data, abstulimus: facile meu’ pater quod volt facit. 140 Nunc hodie Amphitruo veniet huc ab exercitu et servos, quoiius ego hanc fero | imaginem. Nunc internosse ut nos possitis facilius, ego has habebo | usque in petaso pinnulas; tum meo patri autem torulus inerit aureus 145 sub petaso |; id signum Amphitruoni non erit. Ea signa nemo | horum familiarium videre poterit, verum vos videbitis. Sed Amphitruonis illic est servos Sosia; a portu | illic nunc cum lanterna advenit. 150 Abigam iam ego illunc advenientem ab aedibus. Adeste: erit operae pretium hic spectantibus Iovem et Mercurium facere | histrioniam.



Sosia, servos; Mercurius, deus [] Qui me alter est audacior homo aut qui confidentior, iuventutis mores qui sciam, qui hoc noctis solus ambulem?

155 Quid faciam, nunc si tresviri me in carcerem compegerint? Ind’ cras quasi e promptaria cella depromar ad flagrum, nec caussam liceat dicere mihi neque in ero quicquam auxili siet nec quisquam sit quin me omnes esse dignum deputent. Ita quasi incudem me miserum hómines octo validi caedant; 160 [nec aequom anne iniquom imperet cogitabit] Ita peregre adveniens hospitio puplicitus accipiar haec eri imnodestia coegit me, 164a qui hoc noctis a portu 164b ingratis excitavit 165 nonne idem hoc luci me mittere potuit? Opulento homini hoc servitus dura est, hoc: magi’ miser est diviti’ servos: noctesque diesque adsiduo satis superque est quod facto aut dicto adest opus, quietu’ ne sis. 170 Ipse dominu’ dives operis, [et] laboris expers quodquomque homini accidit lubere, posse retur; aequom esse putat, non reputat labori’ quid sit; nec aequom anne iniquom imperet cogitabit. Ergo in servitute expetunt multa iniqua. 75 Habendum et ferundum hoc onust cum labore. [] Satiust me queri illo modo servitutem: hodie qui fuerim liber, eum nunc potivit pater servitutis; hic qui verna natust queritur. 180 [] Sum vero verna verbero: numero mihi in mentem fuit dis advenientem gratias pro meritis agere atque adloqui? Ne illi edepol, si merito meo referre studeant gratiam, aliquem hominem adlegent, qui mihi advenienti os occillet probe, quoniam bene quae in me fecerunt, ingrata et habui atque inrita. 185 [ME.] Facit ille quod volgo hau solent, ut quid se sit dignum sciat. [SO.] Quod numquam opinatus fui neque alius quisquam civium sibi eventurum, id contigit, ut salvi poteremur domi: victores victis hostibus legiones reveniunt domum duello exstincto maxumo atque internecatis hostibus. 190 Quod multa Thebano poplo acerba obiecit funera, id vi et virtute militum victum atque expugnatum oppidum est, imperio atque auspicio | eri mei Amphitruonis maxume: praeda atque agro | adoriaque adfecit popularis suos, regique Thebano Creoni regnum stabilivit suom. 195 Me a portu praemisit domum ut haec nuntiem uxori suae: ut gesserit rem publicam ductu, imperio, auspicio suo. Ea nunc meditabor quo modo illi dicam, quom illo advenero. Si dixero mendacium, solens meo more fecero; nam quom pugnabant maxume, ego tum fugiebam maxume. 200 Verum quasi adfuerim tamen simulabo atque audita eloquar. Sed quo modo et verbis quibus me deceat fabularier, prius ipse mecum etiam volo hic meditari: sic hoc proloquar. Principio ut illo advenimus, ubi primum terram tetigimus, continuo Amphitruo delegit viros primorum principes. 205 Eos legat; Telobois iubet sententiam ut dicant suam: si sine vi et sine bello velint rapta et raptores tradere, si quae asportassent reddere, se exercitum extemplo domum redducturum, abituros agró Argivos, pacem atque otium dare illis; sin aliter sient animati neque dent quae petat, 210 sese igitur summa vi virisque eorum oppidum oppugnassere. Haec ubi Telobois ordine iterarunt quos praefecerat

Amphitruo, magnanimi viri freti virtute et viribus superbe nimi’ ferociter legatos nostros increpant; respondent bello se et suos tutari posse, proinde uti 215 † propere de suis finibus exercitus deducerent. Haec ubi legati pertulere, Amphitruo castris ilico producit omnem exercitum; contra Teloboae ex oppido legiones educunt suas nimi’ pulchris armis praeditas. Postquam utrimque exitum est maxuma copia, 220 dispertiti viri, dispertiti ordines: nos nostras more nostro et modo instruximus legiones; item hostes contra legiones suas instruont. Deinde utrique imperatores in medium exeunt, extra turbam ordinum conloquontur simul. 225 Convenit, victi utri sint eo proelio, urbem, agrum, aras, focos seque uti dederent. Postquam id actum est, tubae † utrimque canunt contra; consonat terra, clamorem utrimque ecferunt. Imperator utrimque hinc et illinc Iovi 230 vota suscipere, hortati exercitum. pro se quisque id quod quisque potest et valet edit, ferro ferit; tela frangunt; boat coelum fremitu virum, ex spiritu atque anhelitu nebula constat; cadunt volneris vi et virium. 235 Denique ut voluimus, nostra superat manus: hostes crebri cadunt; nostri contra ingruont. Vicimus vi feroces. Sed fugam in se tamen nemo convortitur nec recedit loco quin statim rem gerat; 240 animam amittunt prius quam loco demigrent: quisque ut steterat, iacet optinetque ordinem. Hoc ubi Amphitruo erus conspicatus est, ilico equites iubet dextera inducere. Equites parent citi, ab dextera maxumo 245 cum clamore involant impetu alacri; foedant et proterunt hostium copias Iure iniustas. [ME.] Numquam etiam quicquam adhuc verborum est prolocutus perperam, namque ego fui illic in re praesenti et meu’, quom pugnatum est, pater. 250 [SO.] Perduelles penetrant se in fugam; ibi nostris animus additust. Vortentibus Telobois telis complebantur corpora, ipsusque Amphitruo regem Pterelam súa | optruncavit manu. Haec illist pugnata pugna | usque a mani ad vesperum: hoc adeo hoc commemini magi’, quia illo die inpransus fui. 255 Sed proelium id tandem diremit nox interventu suo. Postridie in castra ex urbe ad nos veniunt flentes principes, velatis manibus orant, ignoscamus peccatum suom: deduntque se, divina humanaque omnia, urbem et liberos in dicionem atque in arbitratum cuncti Thebano poplo. 260 Post ob virtutem ero Amphitruoni patera donata aurea est qui Pterela potitare rex est solitus. Haec sic dicam erae. Nunc pergam eri imperium exsequí et me domum capessere. [ME.] Attat, illic huc iturust; ibo ego illi obviam, neque ego huc hominem | hodie ad aedis has sinam umquam accedere. 265 Quando imago est huiius in me, certum est hominem eludere. Et enim vero quoniam formam cepi huius in me et statum, decet et facta moresque huius habere me similis item. Itaque me malum esse oportet, callidum, astutum admodum, atque hunc telo suo sibi, malitia, a foribus pellere. 270 Sed quid illuc est? caelum aspectat. Opservabo quam rem agat. [SO.] Certe edepol [scio], si quicquamst aliud quod credam aut certo sciam, credo ego hac noctu Nocturnum óbdormivisse ebrium, nam neque se Septentriones quoquam in caelo commovent, neque se Luna quoquam mutat atque uti exorta est semel, 275 nec Iugulae neque Vesperugo neque Vergiliae | occidunt. Ita statim stant signa neque nox quoquam concedit die, [ME.] Perge, Nox, ut occepisti; gere patri morem meo. Optumo optume optumam operam das, datam pulchre locas. [SO.] Neque ego hac nocte longiorem me vidisse censeo 280 nisi | item unam, verberatus quam pependi perpetem; eam quoque edepol etiam multo haec vicit longitudine.

Credo edepol equidem dormire Solem, atque adpotum probe. Mira sunt nisí invitavit sese in cena plusculum. [ME.] Ain vero, verbero? deos esse tui similis putas? 285 Ego pol te istis tuis pro dictis et malefactis, furcifer, accipiam; modo sis veni huc, invenies infortunium. [SO.] Ubi sunt isti scortatores, qui soli inviti cubant? Haec nox scita est exercendo scorto conducto male. [ME.] Meu’ pater nunc pro huius verbis recte et sapienter facit, 290 qui conplexus cum Alcumena cubat amans, animo opsequens. [SO.] Ibo ut erus quod imperavit Alcumenae nuntiem. Sed quis hic est homo, quem ante aedis video hoc noctis? non placet. [ME.] Nullust hoc metuculosus aeque. [SO.] Mi in mentem venit: illic homo | hoc denuo volt pallium detexere. 295 [ME.] Timet homo: deludam ego illum. [SO.] Perii, dentes pruriunt; certe advenientem hic me hospitio pugne accepturus est. Credo, misericors est: nunc propterea quod me meus erus fecit ut vigilarem, hic pugnis faciet hodie ut dormiam. Oppido interii. Opsecro hercle, quantus et quam validus est! 300 [ME.] Clare avorsum fabulabor, hic auscultet quae loquar: igitur magi’ modum morem in sese concipiet metum. Agite, pugni; iam diu est quod ventri victum non datis. Iam pridem videtur factum, heri quod homines quattuor in soporem conlocastis nudos. [SO.] Formido male 305 ne ego hic nomen meum commutem, et Quintus fiam e Sosia. Quattuor viros sopori se dedisse hic autumat: metuo ne numerum augeam illum. [ME.] Em, nunciam ergo sic volo. [SO.] Cingitur; certe expedit se. [ME.] Non feret quin vapulet [SO.] Quis homo? [ME.] Quisquis homo huc profecto venerit, pugnos edet. 310 [SO.] Apage, non placet me hoc noctis esse: cenavi modo; proin tu istam cenam largire, si sapis, essurientibus. [ME.] Hau malum huic est pondus pugno. [SO.] Perii, pugnos ponderat. [ME.] Quid, si ego illum tractim tangam, ut dormiat? [SO.] Servaveris: nam continuas has tris noctes pervigilavi. [ME.] Pessumumst 315 facinus; nequiter ferire malam male discit manus. Alia forma | esse oportet, quem tu pugno legeris. [SO.] Illic homo me interpolabit meumque os finget denuo. [ME.] Exossatum os esse oportet, quem probe percusseris. [] Mirum ni hic tne quasi murenam éxossare cogitat. 320 Ultro istuc qui exossat homínes! perii, si me aspexerit. [ME.] Olet homo quidam malo suo. [SO.] Ei, numnam ego obolui? [ME.] Atque hau longe abesse oportet, verum longe hinc afuit. [] Illic homo superstitiosust. [ME.] Gestiunt pugni mihi. [] Si in me exercituru’s quaeso in parietem ut primum domes. 325 [ME] Vox mihi ad auris advolavit. Ne ego homo infelix fui, qui non alas intervelli: volucrem vocem gestito. [ME.] Illic homo a me sibi malam rem arcessit iumento suo. [SO.] Non equidem ullum habeo iumentum. [ME.] Onerandus est pugnis probe. [SO.] Lassus sum hercle e navi, ut vectus huc sum; etiam nunc nauseo. 330 Vix incedo inanis, ne ire posse cum onere existumes. [ME.] Certe enim hic nescioquis loquitur. [SO.] Salvos sum, non me videt; ‘Nescioquem’ loqui autumat; mihi certo nomen Sosiaest. [ME.] Hinc enim míhi dextra vox auris, ut videtur, verberat. [SO.] Metuo vocis ne vice hodie hic vapulem, quae hunc verberat.

335 [ME.] Optume eccum incedit ad me. [SO.] Timeo, totus torpeo. Non edepol nunc ubi terrarum sim scio, siquis roget, neque miser me commovere possum prae formidine. Ilicet: mandata eri perierunt una et Sosia. Verum certum est confidenter hominem contra conloqui, 340 [igitur] qui possim videri huic fortis, a me ut apstineat manum. [ME.] Quo ambulas tu, qui Volcanum in cornu conclusum geris? [SO.] Quid id exquiris tu, qui pugnis os exossas hominibus? [ME.] Servo’sne an liber? [SO.] Utquomque animo conlibitum est meo. [ME.] Ain vero? [SO.] Aio enim vero. [ME.] Verbero! [SO.] Mentire nunc. 345 [ME.] At iam faciam ut verum dicas dicere. [SO.] Quid eo est opus? [ME.] Possum scire, quo profectus, quoius sis, aut quid veneris? [SO.] Huc eo, | eri sum servos. Numquid nunc es certior? [ME.] Ego tibi istam hodie, sceleste, comprimam linguam. [SO.] Hau potes: bene pudiceque adservatur. [ME.] Pergin argutarier? 350 Quid apud hasce aedis negoti est tibi? [SO.] Immo quid tibi est? [ME.] Rex Creo vigiles nocturnos singulos semper locat. [SO.] Bene facit: quia nos eramus peregri, tutatust domi. At nunc abi sane, advenisse familiaris dicito. [ME.] Nescio quam tu familiaris sis; nisi actutum hinc abis, 355 familiaris accipere faxo hau familiariter. [SO.] Hic, inquam, habito ego atque horunc servos sum. [ME.] At scin quo modo? Faciam ego hodie te superbum, nisi hinc abis [SO.] Quonam modo? [ME.] Auferere, non abibis, si ego fustem sumpsero. [SO.] Quin me esse huiius familiai familiarem praedico. 360 [ME.] Vide sis quam mox vapulare vis, nisi actutum hinc abis. [SO.] Tun domo prohibere peregre me advenientem postulas? [ME.] Haeccine tua domust? [SO.] Ita inquam. [ME.] Quis erus est igitur tibi? [SO.] Amphitruo, qui nunc praefectust Thebanis legionibus, quicum nupta est Alcumena. [ME.] Quid ais? quid nomen tibi est? 365 [SO.] Sosiam vocant Thebani, Davo prognatum patre. [ME.] Ne tu istic hodie malo tuo compositis mendaciis advenisti audaciai columen, consutis dolis. [SO.] Immo equidem tunicis consutis huc advenio, non dolis. [ME.] At mentiris etiam: certo pedibus, non tunicis venis. 370 [SO.] Ita profecto. [ME.] Nunc profecto vapula ob mendacium. [SO.] Non edepol volo profecto. [ME.] At pol profecto ingrati is; hoc quidem ‘profecto’ certum est, non est arbitrarium. [SO.] Tuam fidem opsecro! [ME.] Tun te audes Sosiam esse dicere, qui ego sum? [SO.] Perii [ME.] Parum etiam, praeut futurum est, praedicas. 375 Quoius nunc es? [SO.] Tuo’; nam pugnis usu fecisti tuom. Pro fidem, Thebani cives! [ME.] Etiam clamas, carnufex? Loquere, quid venisti? [SO.] Ut esset quem tu pugnis caederes. [ME.] Quoius es?

[SO.] Amphitruonis, inquam, Sosia. [ME.] Ergo istoc magis.

quia vaniloquo’s, vapulabis. Ego sum, non tu, Sosia. 380 [SO.] Ita di faciant, ut tu potius sis atque ego te ut verberem! [ME.] Etiam muttis? [SO.] Iam tacebo. [ME.] Quis tibi erust? [SO.] Quem tu voles. [ME.] Quid igitur? qui nunc vocare? [SO.] Nemo nisi quem iusseris. [ME.] Amphitruonis te esse aiebas Sosiam. [SO.] Peccaveram: nam ‘Amphitruonis socium’ memet esse volui dicere. 385 [ME.] Scibam equidem nullum esse nobis nisi me servom Sosiam. Fugit te ratio. [SO.] Utinam istuc pugni fecissent tui! [ME.] Ego sum Sosia ille, quem tu dudum esse aiebas mihi. [SO.] Opsecro ut per pacem liceat te adloqui, ut ne vapulem. [ME.] Immo indutiae parumper fiant, si quid vis loqui. 390 [SO.] Non loquar nisi pace facta, quando pugnis plus vales. [ME.] Di c si quid vis: non nocebo. [SO.] Tuae fidei credo? [ME.] Meae. [SO.] Quid, si falles? [ME.] Tum Mercurius Sosiae iratus siet. [SO.] Animum advorte: nunc licet mi libere quidvis loqui. Amphitruonis ego sum servos Sosia. [ME.] Etiam denuo? 395 [SO.] Pacem feci, foedus feci, vera dico. [ME.] Vapula. [SO.] Ut lubet, quid tibi lubet fac, quoniam pugnis plus vales. Verum, utut es facturus, hoc quidem hercle hau reticebo tamen. [ME.] Tu me vivos hodie numquam facies quin sim Sosia. [SO.] Certe edepol tu me alienabis numquam quin noster siem; 400 nec nobis praeter me alius quisquam est servos Sosia. Qui cum | Amphitruone hinc una íverám in exercitum. [ME.] Hic homo sanus non est. [SO.] Quod mibi praedicas vitium, id tibi est. Quid, malum, non súm ego servos Amphitruonis Sosia? Nonne hac noctu nostra navis ex portu Persico 405 venit, quae me advexit? nonne me huc erus misit meus? Nonne ego nunc sto ante aedis nostras? non mihi est lanterna in manu? Non loquor? non vigilo? nonne hic homo modo me pugnis contudit? Fecit hercle: nam etiam misero nunc malae dolent. Quid igitur ego dubito? aut qur non intro eo in nostram domum? 410 [ME.] Quid, domum vostram? [SO.] Ita enim vero. [ME.] Quin quae dixisti modo omnia ementitu’s: equidem Sosia Amphitruoni’ sum. Nam noctu hac soluta est navis nostra e portu Persico, et ubi Pterela rex regnavit oppidum expugnavimus, et legiones Teloboarum vi pugnando cepimus, 415 et ipsus Amphitruo optruncavit regem Pterelam in proelio. [SO.] Egomet mihi non credo, quom illaec autumare illum audio: hicquidem certe quae illic sunt res gestae memorat memoriter. Sed quid ais? quid Amphitruoni a Telobois est datum? [ME.] Pterela rex potitare solitus est patera aurea. 420 [SO.] Elocutus est. Ubi patera nunc est? [ME.] in cistula, Amphitruonis opsignata signo est. [SO.] Signi dic quid est? [ME.] Cum quadrigis sol exoriens. Quid me captas, carnufex? [SO.] Argumentis vicit: aliud nomen quaerundum est mihi. Nescio unde haec hic spectavit. Iam ego hunc decipiam probe. 425 Nam quod egomet solus feci nec quisquam alius adfuit in tabernaclo, id quidem hodie numquam poterit dicere. Si tu Sosia es, legiones cum pugnabant maxume,

Quid in tabernaclo fecisti? Victus sum, si dixeris. [ME.] Cadus erat vini: inde implevi hirneam. [SO.] Ingressust viam. 430 [ME.] Eam ego, ut matre fuerat natum, vini | eduxi meri. [SO.] Factumst illud, ut ego illic vini hirneam ebiberim meri.

Mira sunt nisi latuit intus illic in iliac hirnea. [ME.] Quid nunc? vincon argumentis, te non esse Sosiam? [SO.] Tu negas med esse? [ME.] Quid ego ni negem, qui egomet siem? 435 [SO.] Per Iovem iuro med esse neque me falsum dicere. [ME.] At ego per Mercurium iuro tibi Iovem non credere:

nam iniurato scio plus credet mihi quam iurato tibi. [SO.] Quis ego sum saltem, si non sum Sosia? te interrogo. [ME.] Ubi ego Sosia nolim esse, tu esto sane Sosia.

440 Nunc quando ego sum, vapulabis, ni hinc abis, ignobilis. [SO.] Certe edepol, quom illum contemplo et formam cognosco meam, quem ad modum ego sum–saepe in speculum inspexi–, nimi’ similest mei. Itidem habet petasum ac vestitum; tam consimilest atque ego. Sura, pes, statura, tonsus, oculi, nasum vel labra, 445 Malae, mentum, barba, collus: totus. Quid verbis opust? Si tergum cicatricosum, nihil hoc similist similius. Sed quom cogito, equidem certo idem sum qui semper fui. Novi erum, novi aedis nostras; sane sapio et sentio. Non ego illi optempero quod loquitur. Pultabo foris. 450 [ME.] Quo agis te? [SO.] Domum. [ME.] Quadrigas si nunc inscendas Iovis atque hinc fugias, ita vix poteris effugere infortunium. [SO.] Nonne erae meae nuntiare quod erus meu’ iussit licet? [ME.] Tuae si quid vis nuntiare; hanc nostram adire non sinam. Nam si me inritassis, hodie lumbifragium hinc auferes. 455 [SO.] Abeo potius. Di inmortales, opsecro vostram fidem, ubi ego perii? ubi inmutatus sum? ubi ego formam perdidi? An egomet me illic reliqui, si forte oblitus fui? Nam hicquidem omnem imaginem meam, quae antehac fuerat, possidet. Vivo fit quod numquam quisquam mortuo faciet mihi. 460 Ibo ad portum atque haec ut sunt facta, ero dicam meo: nisi etiam is quoque me ignorabit. Quod ille faxit Iuppiter, ut ego | hodie raso capite calvos capiam pilleum.

Mercurius, deus [ME.] Bene prospere[que] hoc hodie operis processit mihi.

Amovi a foribus maxumam inolestiam, 465 patri ut liceret tuto illam amplexarier. Iam ille illuc ad erum quom Amphitruonem advenerit, narrabit servorn hinc sese a foribus Sosiam amovisse; ille adeo illum mentiri sibi credet neque credet huc profectum, ut iusserat. 470 Erroris ambo ego illos et dementiae complebo atque omnern | Amphitruonis familiam, adeo usque satietatem dum capiet pater illius quam amat: igitur demum omnes scient quae facta. Denique Alcumenam Iuppiter 475 rediget antiquam coniugi in concordiam. Nam Amphitruo actutum uxori turbas conciet atque insimulabit eam probri. Tum meu’ pater eam seditionern illi in tranquillum conferet. Nunc de Alcumena dudum quod dixi minus, 480 hodie illa pariet filios geminos duos: alter decumo post mense nascetur puer quam seminatust, alter mense septumo. Eorum Amphitruonis alter est, alter Iovis. Verum minori puero maior est pater, 485 minor maiori. Iamne hoc scitis quid siet? Sed Alcumenae | huius honoris gratia pater curavit uno ut fetu fieret, uno ut labore apsolvat aerumnas duas, et ne in suspicione ponatur stupri,

490 et clandestina ut celetur consuetio. Quamquam, ut iam dudum dixi, resciscet tamen Amphitruo rem omnem. Quid igitur? nemo id probro profecto ducet Alcumenae: nam deum non par videtur facere, delictum suom 495 suamque [ut] culpam expetere in mortalem ut sinat. Orationem comprimam; crepuit foris. Amphitruo subditivos eccum exit foras cum | Alcumena | uxore usuraria.

Iuppiter, deus; Alcumena, matrona; Mercurius, deus [IU.] Bene vale, Alcumena, cura rem communem, quod facis,

500 atque inperce quaeso: menses iam tibi esse actos vides Mihi necesse est ire hinc; verum quod erit natum tollito. [AL.] Quid istuc est, mi vir, negoti, quod tu tam subito domo abeas? [IU.] Edepol hau quod tui me neque domi distaedeat; sed ubi summus imperator non adest ad exercitum, 505 citius quod non facto est usus fit quam quod facto est opus. [ME.] Nimis his scitust sycophanta, qui quidem meu’ sit pater. Opservatote quam blande mulieri palpabitur. [AL.] Ecastor te experior quanti facias uxorem tuam. [IU.] Satin habes, si feminarum nulla est quam aeque diligam? 510 [ME.] Edepol ne illa si istis rebus te sciat operam dare, ego faxim te Amphitruonem esse malis quam Iovem. [AL.] Experiri istuc: mavellem me quam mi memorarier. Prius abis quam lectus ubi cubuisti concaluit locus. Heri venisti media nocte, nunc abis. Hoccin placet? 515 [ME.] Accedam atque hanc appellabo et subparasitabor patri. Numquam edepol quemquam mortalem credo ego uxorem suam sic ecflictim amare, proinde ut hic te efflictim deperit. [IU.] Carnufex, non ego te novi? abin e conspectu meo? Quid tibi hanc curatio est rem, verbero, aut muttitio? 520 Quoi ego iam hoc scipione… [AL.] Ah! noli. [IU.] Muttito modo. [ME.] Nequiter paene expedivit prima parasitatio. [IU.] Verum quod tu dicis, mea uxor, non te mi irasci decet. Clanculum abii | a legione: operam hanc subrupui tibi, ex me primo prima scires, rem ut gessissem publicam. 525 Ea tibi omnia enarravi. Nisi te amarem plurumum, non facerem. [ME.] Facitne ut dixi? timidam palpo percutit. [IU.] Nunc, ne legio persentiscat, clam illuc redeundum est mihi, ne me uxorem praevortisse dicant prae re publica. [AL.] Lacrumantem ex abitu concinnas tu tuam uxorem. [IU.] Tace; 530 ne corrumpe oculos: redibo actutum. [AL.] Id ‘actutum’ diu est. [IU.] Non ego te hic lubens relinquo neque abeo aps te. [AL.] Sentio: nam qua nocte ad me venisti, eadem abis. [IU.] Qur me tenes? Tempus ; exire ex urbe priu’ quam lucescat volo. Nunc tibi hanc pateram, quae dono mihi illi ob virtutem datast, 535 Pterela rex qui potitavit, quem ego mea occidi manu, Alcumena, tibi condono. [AL.] Facis ut alias res soles. Ecastor condignum donum, qualest qui donum dedit. [ME.] Immo sic: condignum donum, qualest quoi dono datust. [IU.] Pergin autem? nonne ego possum, furcifer, te perdere? 540 [AL.] Noli amabo, Amphitruo, irasci Sosiae causa mea. [IU.] Faciam ita ut vis. [ME.] Ex amore hic admodum quam saevos est! [IU.] Numquid vis? [AL.] Ut quom apsim me ames, me tuam te apsenti tamen. [ME.] Eamus, Amphitruo; lucescit hoc iam [IU.] Abi prae, Sosia; iam ego sequar. Numquid vis?

[AL.] Etiam: ut actutum advenias. [IU.] Licet;

545 prius tua | opinione hic adero. Bonum animum habe. Nunc te, Nox, quae me mansisti, mitto ut cedas die, ut mortalis inlucescat luce clara et candida. Atque quanto, Nox, fuisti longior hac proxuma, tanto brevior dies ut fiat faciam, ut aeque disparet. 550 Ei; dies e nocte accedat. Ibo et Mercurium supsequar.



Amphitruo, dux; Sosia, servos [AM.] Age i tu secundurn. [SO.] Sequor, supsequor te. [AM.] Scelestissumum te arbitror. [SO.] Nam quamobrem? [AM.] Quia id quod neque est neque fuit neque futurum est mihi praedicas. [SO.] Eccere, iam tuatim.

555 facis, ut tuis nulla apud te fides sit. [AM.] Quid est? quomodo? iam quidem hercle ego tibi istam scelestam, scelus, linguam apscidam. [SO.] Tuos sum: proinde ut commodatumst et lubet, quidque facias. Tamen quin loquar haec uti facta sunt hic 560 numquam ullo modo me potes deterrere. [AM.] Scelestissume, audes mihi praedicare id, domi te esse nunc, qui hic ades? [SO.] Vera dico. [AM.] Malum quod tibi di dabunt, atque ego hodie dabo. [SO.] Istuc tibist in manu; nam tuos sum. 565 [AM.] Tun me, verbero, audes erum ludificari? Tune id dicere audes, quod nemo umquam homo antehac vidit nec potest fieri, tempore uno homo idem duobus locis ut simul sit? [SO.] Profecto, ut loquor, res ita est. [AM.] Iuppiter te 570 perdat! [SO.] Quid mali sum, ere, tua ex re promeritus? [AM.] Rogasne, improbe, etiam qui ludos facis me? [SO.] Merito maledicas mihi, si id ita factum est. Verum hau mentior, resque uti facta dico. [AM.] Homo hic ebrius est, ut opinor. 575 [SO.] Utinam ita essem! [AM.] Optas quae facta. 575a [SO.] Egone? [AM.] Tu istic. Ubi bibisti? [SO.] Nusquam equidem bibi. [AM.] Quid hoc sit 576a hominis? [SO.] Equidem decies dixi: domi ego sum, inquam; ecquid audis? 577a Et apud te adsum Sosia idem. Satin hoc plane, satin diserte, 578a ere, nunc videor tibi locutus esse? [AM.] Vah! 580 Apage te a me. [SO.] Quid est negoti? [AM.] Pestis te tenet. [SO.] Nam qur istuc dicis? equidem valeo et salvos sum recte, Amphitruo. [AM.] At te ego faciam 584a hodie proinde ac meritus es 584b ut minu’ valeas et miser sis, 585 salvo’ domum si rediero. Iam sequere sis, erum qui ludificas dictis delirantibus, qui quoniam eru’ quod imperavit neglexisti persequi, nunc venis etiam ultro inrisum dominum: quae neque fieri possunt neque fando umquam accepit quisquam, profers, carnufex; quoius ego hodie in tergum faxo ista expetant mendacia.

590 [SO.] Amphitruo, miserruma istaec miseria est servo bono, apud erum qui vera loquitur, si id vi verum vincitur, [AM.] Quo id, malum, pacto potest nam–mecum argumentis puta– fieri nunc ut tu hic sis et domi? id dici volo. [SO.] Sum profecto et hic et illic; hoc quoivis mirari licet, 595 neque tibi istuc mirum magi’ videtur quam mihi. [AM.] Quo modo? [SO.] Nihilo, inquam, mirum magi’ tibi istuc quam mihi; neque, ita me di ament, credebam primo mihimet Sosiae, donec Sosia ille egomet fecit sibi uti crederem. Ordine omne, uti quidque actum est, dúm apud hostis sedimus, 600 edissertavit; tum formam una apstulit cum nomine. Neque lact’ lacti magis est simile quam ille ego similest mei. Nam ut dudum ante lucem a portu me praemisisti domum– [AM.] Quid igitur? [SO.] Priu’ multo ante aedis stabam quam, illo adveneram. [AM.] Quas, malum, nugas? satin tu sanus es? [SO.] Sic sum ut vides. 605 [AM.] Huic homini nescioquid est mali mala obiectum manu, postquam a me abiit. [SO.] Fateor: nam sum optusus pugnis pessume. [AM.] Quis te verberavit? [SO.] Egomet memet, qui nunc sum domi [AM.] Cave quicquam, nisi quod rogabo te, milii responderis. Omnium primum iste qui sit Sosia, hoc dici volo. 610 [SO.] Tuos est servos. [AM.] Mihi quidem uno te plus etiam est quam volo, neque, postquam sum natus, habui nisi te servom Sosiam. [SO.] At ego nunc, Amphitruo, dico: Sosiam servom tuom praeter me alterum, inquam, adveniens faciam ut offendas domi, Davo prognatum patre eodem quo ego sum, forma, aetate item 615 qua ego sum. Quid opust verbis? geminus Sosia hic factust tibi. [AM.] Nimia memoras mira. Sed vidistin uxorem meam? [SO.] Quin intro ire in aedis numquam licitum est. [AM.] Quis te prohibuit? [SO.] Sosia ille, quem iam dudum dico, is qui me contudit. [AM.] Quis istic Sosia est? [SO.] Ego, inquam. Quotiens dicendum est tibi? 620 [AM.] Sed quid ais? num obdormivisti dudum? [SO.] Nusquam gentium. [AM.] Ibi forte istum si vidisses quendam in somnis Sosiam. [SO.] Non soleo ego somniculose eri | imperia persequi. Vigilans vidi, vigilans nunc video, vigilans fabulor, vigilantem ille me iam dudum vigilans pugnis contudit. 625 [AM.] Quis homo? [SO.] Sosia, inquam, ego ille. Quaeso, nonne intellegis? [AM.] Qui, malum, intellegere quisquam potis est? ita nugas blatis! [SO.] Verum actutum nosces, quom illum nosces servom Sosiam. [AM.] Sequere hac igitur me, nam mihi istuc primum exquisito est opus. Sed vide ex navi efferantur quae imperavi iam omnia. 630 [SO.] Et memor sum et diligens, ut quae imperes compareant. Non ego cum vino simitu ebibi imperium tuom. [AM.] Utinam di faxint, infecta dicta re eveniant tua!

Alcumena, matrona; Amphitruo, dux; Sosia, servos [AL.] Satin parva res est voluptatum in vita atque in aetate agunda,

praequam quod molestum est? ita quoiq’ comparatum est in aetate hominum; 635 ita dis est placitum, voluptatem ut maeror comes consequatur: quin incommodi plus malique ilico adsit, boni si optigit quid. Nam ego id nunc experior domo atque ipsa de me scio, quoi voluptas parumper datast, dum viri [mei] mi potestas videndi fuit noctem unam modo; atque is repente abiit a me hinc ante lucem. 640 Sola hic mihi nunc videor, quia ille hinc abest, quem ego amo praeter omnis. Plus aegri ex abitu viri quam ex adventu voluptati’ cepi. 641a Sed hoc: me beat saltem, quom perduellis vicit et domum laudis compos revenit. Id solacio est.

Apsit dum modo laude parta 645 domum recipiat se; feram et perferam usque abitum eius animo forti atque offirmato, id modo si mercedis datur mi, ut meus victor vir belli clueat. Satis mi esse ducam. Virtus praemium est optumum, 649a virtus omnibus rebus anteit profecto. 650 Libertas, salus, vita, res et parentes, patria et prognati tutantur, servantur. Virtus omnia in sese habet, omnia adsunt bona quem penest virtus. [AM.] Edepol me uxori exoptatum credo adventurum domum, 655 quae me amat, quam contra amo; praesertim re gesta bene, victis hostibus: quos nemo posse superari ratust, eos auspicio meo atque ductu primo coetu vicimus. Certe enim me illi expectatum optato venturum scio. [SO.] Quid? me non rere expectatum amicae venturum meae? 660 [AL.] Meu’ vir hicquidem est. [AM.] Sequere hac tu me. [AL.] Nam quid ill’ revortitur, qui dudum properare se aibat? an ille me temptat sciens atque id se volt experiri, suom abitum ut desiderem? Ecastor me haud invita se domum recipit suam. [SO.] Amphitruo, redire ad navem meliust nos. [AM.] Qua gratia? 665 [SO.] Quia domi daturus nemo est prandium advenientibus. [AM.] Qui tibi † nunc istuc in mentem venit? [SO.] Qui enim sero advenimus. [AM.] Qui? [SO.] Quia Alcumenam ante aedis stare saturam intellego. [AM.] Gravidam ego illanc hic reliqui, quom abeo. [SO.] Ei! perii miser. [AM.] Quid tibi est? [SO.] Ad aquam praebendam commodum adveni domum, 670 decumo post mense, ut rationem te ductare intellego. [AM.] Bono animo es. [SO.] Scin quam bono animo sim? si situlam, [iam] cepero, numquam edepol tu mihi † divini quicquam creduis post hunc diem. ni ego illi puteo, si occepso, animam omnem intertraxero. [AM.] Sequere hac me modo. Alium ego isti re adlegabo, ne time. 675 [AL.] Magi’ nunc meum officium facere, s huic eam advorsum, arbitror. [AM.] Amphitruo uxorem salutat laetus speratam suam, quam omnium Thebis vir unam esse optumam diiudicat, quamque adeo cives Thebani vero rumiferant probam. Valuistin usque? exspectatun advenio? [SO.] Hau vidi magis. 680 Exspectatum eum salutat magis hau quicquam quam canem. [AM.] Et quom [te] gravidam et quom te pulchre plenam aspicio, gaudeo. [AL.] Opsecro ecastor, quid tu me deridiculi gratia sic salutas atque appellas, quasi dudum non videris, quasi qui nunc primum recipias te domum huc ex hostibus? 685 Atque me nunc proinde appellas, quasi multo post videris? [AM.] Immo equidem te nisi nunc hodie nusquam vidi gentium. [AL.] Qur negas? [AM.] Quia vera didi dicere. [AL.] Haud aequom facit, qui quod didicit id dediscit. An periclitamini quid animi habeam? sed quid huc vos revortimini tam cito? 690 An te auspicium commoratum est an tempestas continet, qui non abisti ad legiones, ita ut dudum dixeras? [AM.] Dudum? quam dudum istuc factum est? [AL.] Temptas: iam dudum [pridem], modo. [AM.] Qui istuc potis est fieri, quaeso, ut dicis: iam dudum, modo? [AL.] Quid enim censes? te ut deludam contra, lusorem meum, 695 qui nunc primum te advenisse dicas, modo qui hinc abieris? [AM.] Haec quidem deliramenta loquitur. [SO.] Paullisper mane. Dum edormiscat unum somnum.

[AM.] Quaene vigilans somniat? [AL.] Equidem ecastor vigilo et vigilans id quod factum est fabulor;

nam dudum ante lucem et istunc et te vidi. [AM.] Quo in loco? 700 [AL.] Hic in aedibus ubi tu habitas. [AM.] Numquam factum est. [SO.] Non taces?

Quid si e portu navis huc nos dormientis detulit? [AM.] Etiam tu quoque adsentaris huic? [SO.] Quid vis fieri?

Non tu scis? Bacchae bacchanti si velis advorsarier, Ex insana insaniorem facis, feriet saepius. 705 Si opsequare, una resolvas plaga. [AM.] At pol qui certa res hanc est obiurgare, quae me hodie advenientem domum noluerit salutare. [SO.] Inritabis crabrones. [AM.] Tace. Alcumena, unum rogare te volo. [AL.] Quidvis [rogare] roga. [AM.] Num tibi aut stultitia accessit aut superat superbia? 710 [AL.] Qui istuc in mentest tibi ex me, mi vir, percontarier? [AM.] Quia salutare advenientem me solebas antidhac, appellare itidem ut pudicae suos viros quae sunt solent. Eo more expertem te factam adveniens offendi domi. [AL.] Ecastor equidem te certo heri advenientem | ilico 715 et salutavi et valuissesne usque exquisivi simul, mi vir, et manum prehendi et osculum tetuli tibi. [SO.] Tun heri hunc salutavisti? [AL.] Et te quoque etiam, Sosia. [SO.] Amphitruo, speravi ego istam tibi parituram filium; verum non est puero gravida. [AM.] Quid igitur? [SO.] Insania. 720 [AL.] Equidem sana sum et deos quaeso, ut salva pariam filium; verum tu malum magnum habebis, si hic suum officium facit. Ob istuc omen, ominator, capies quod te condecet. [SO.] Enim vero praegnati oportet et malum et malum dari, ut quod obrodat sit, animo si male esse occeperit. 725 [AM.] Tu me heri hic vidisti? [AL.] Ego, inquam, si vis decies dicere. [AM.] In somnis † fortasse? [AL.] Immo vigilans vigilantem. [AM.] Vae misero mihi! [SO.] Quid tibi est? [AM.] Delirat uxor. [SO.] Atra bili percita est. Nulla res tam delirantis homines concinnat cito. [AM.] Ubi primum tibi sensisti, mulier, impliciscier? 730 [AL.] Equidem ecastor sana et salva sum. [AM.] Qur igitur praedicas Te heri me vidisse, qui hac noctu in portum advecti sumus? Ibi cenavi atque ibi quievi in navi noctem perpetem; neque meum pedem huc intuli etiam in aedis, ut cum exercitu hinc profectus sum ad Teloboas hostis eosque ut vicimus. 735 [AL.] Immo mecuni cenavisti et mecum cubuisti. [AM.] Quid [id] est? [AL.] Vera dico. [AM.] Non de hac quidem hercle re; de | aliis nescio. [AL.] Primulo diluculo abi isti ad legiones. [AM.] Quo modo? [SO.] Recte dicit, ut commeminit: somnium narrat tibi. sed, mulier, postquam experrecta es, te prodigiali Iovi 740 aut mola salsa hodie aut ture comprecatam oportuit. [AL.] Vae capiti tuo? [SO.] Tua istuc refert–, si curaveris. [AL.] Iterum iam hic in me inclementer dicit, atque id sine malo.

[AM.] Tace tu. Tu dic: egone aps te abii hinc hodie cum diluculo? [AL.] Quis igitur nisi vos narravit mi illi ut fuerit proelium? 745 [AM.] An etiam id tu scis? [AL.] Quipp’ qui ex te audivi ut urbem maxumam

expugnavisses regemque Pterelam tute occideris. [AM.] Egone istuc dixi? [AL.] Tute istic, etiam adstante hoc Sosia. [AM.] Audivistin tu me narrare haec hodie? [SO.] Ubi ego audiverim? [AM.] Hanc roga. [SO.] Mequidem praesente numquam factumst, quod sciam. 750 [AL.] Mirum quin te advorsus dicat. [AM.] Sosia, age, me huc aspice. [SO.] Specto. [AM.] Vera volo loqui te, nolo adsentari mihi.

Audivistin tu hodie me illi dicere ea quae illa autumat? [SO.] Quaeso edepol, num tu quoque etiam insanis, quom id me interrogas,

qui ipsus equidem nunc primum istanc tecum conspicio simul? 755 [AM.] Qui nunc, mulier? audin illum? [AL.] Ego vero, ac falsum dicere. [AM.] Neque tu illi neque mihi viro ipsi credis? Eo fit, quia mihi plurumum credo et scio istaec facta proinde ut proloquor. [AM.] Tun me heri advenisse dicis? [AM.] Tun te abisse hodie hinc negas? [AM.] Nego enim vero et me advenire nunc primum aio ad te domum. 760 [AL.] Opsecro, etiamne hoc negabis, te auream pateram mihi dedisse dono hodie, qua te illi donatum esse dixeras? [AM.] Neque edepol dedi neque dixi; verum ita animatus fui, itaque nunc sum, ut ea te patera donem. Sed quis istuc tibi dixit? [AL.] Ego equidem ex te audivi, et ex tua accepi manu 765 pateram. [AM.] Mane, Mane, opsecro te. Nimi’ demiror, Sosia, qui illaec illic me donatum esse aurea patera sciat, nisi tu dudum hanc convenisti et narravisti haec omnia. [SO.] Neque edepol ego dixi neque istam vidi nisi tecum simul. [AM.] Quid hoc sit hominis? [AL.] Vin proferri pateram? [AM.] Proferri volo. 770 [AL.] Fiat. tu, Thessala, intus pateram proferto foras, qua hodie meu’ vir donavit me. [AM.] Secede huc tu, Sosia. Enim vero illud praeter alia mira miror maxtume, si haec habet pateram illam. [SO.] An etiam credis id, quae in hac cistellula tuo signo opsignata fertur? [AM.] Salvom signum est? [SO.] Inspice. [AM.] Recta: ita est ut opsignavi. [SO.] Quaeso, quin tu istanc iubes pro cerrita circumferri? [AM.] Edepol qui facto est opus: nam haec quidem edepol larvarum plenast. [] Quid verbis opust? Em tibi pateram: eccam. [AM.] Cedo mi. [] Age, aspice huc sis nunciam, tu qui quae facta infitiare, quem ego iam hic convincam palam. 780 Estne haec patera qua donatu’s illi? [AM.] Summe Iuppiter, quid ego video? haec ea est profecto patera. Perii, Sosia. [SO.] Aut pol haec praestigiatrix multo mulier maxuma est, aut pateram hic inesse oportet. [AM.] Agedum, exsolve cistulam. [SO.] Quid ego istam exsolvam? opsignatast recte. Res gesta est bene: 785 tu peperisti Amphitruonem , alium ego peperi Sosiam. Nunc si patera pateram peperit, omnes congeminavimus. [AM.] Certum est aperire atque inspicere.

[SO.] Vide si s signi quid siet,

ne posterius in me culpam conferas. [AM.] Aperi modo.

Nam haec quidem nos delirantis dictis facere postulat. 790 [AL.] Unde haec igitur est nisi aps te, quae mihi dono data est? [AM.] Opu’ mi est istuc exquisito. [SO.] Iuppiter, pro Iuppiter! [AM.] Quid tibi est? [SO.] Hic patera nulla in cistulast. [AM.] Quid ego audio? [SO.] Id quod verumst. [AM.] At cum cruciatu iam, nisi apparet, tuo. [AL.] Hace quidem apparet. [AM.] Quis igitur tibi dedit? [AL.] Qui me rogat. 795 [SO.] Me captas, quia tute ab navi clanculum huc alia via praecucurristi atque hinc pateram tute exemisti atque eam huic dedisti, post hanc rusum opsignasti clanculum. [AM.] Ei mihi, iam tu quoque huiius adiuvas insaniam? Ain heri nos advenisse huc? [AL.] Aio, adveniensque i lico 800 me salutavisti, et ego te, et osculum tetuli tibi. [AM.] Iam illuc non placet principium de osculo. Perge exsequi. [AL.] Lavisti. [AM.] Quid postquam lavi? [AL.] Accuibuisti. [SO.] Euge, optume. Nune exquire. [AM.] Ne interpella. Perge porro dicere. [AL.] Cena adposita est. Cenavisti mecum; ego accubui simul. 805 [AM.] In eodem lecto? [AL.] In eodem. [SO.] Ei! non placet convivium. [AM.] Sine modo argumenta dicat. Quid postquam cenavimus? [AL.] Te dormitare aibas: mensa ablata est; cubitum hinc abi imus. [AM.] Ubi tu cubuisti? [AL.] In eodem lecto tecum una in cubiculo. [AM.] Perdidisti. [SO.] Quid tibi est? [AM.] Haec me modo ad mortem dedit. 810 [AL.] Quid iam, amabo? [AM.] Ne me appella. [SO.] Quid tibi est? [AM.] Perii miser. quia pudicitiae huiius vitium me hinc apsente est additum. [AL.] Opsecro ecastor, qur istuc, mi vir, ex ted audio? [AM.] Vir ego tuo’ sim? ne me appella, falsa, falso nomine. [SO.] Haeret haec res, si quidem haec iam mulier facta est ex viro. 815 [AL.] Quid ego feci, qua istaec propter dicta dicantur mihi? [AM.] Tute edictas facta tua, ex me quaeris, quid deliqueris? [AL.] Quid ego tibi deliqui, si quoi nupta sum tecum fui? [AM.] Tun mecum fucris? quid illac inpudente audacius? Saltem, tute si pudoris egeas, sumas mutuom. 820 [AL.] Istuc facinus, quod tu insimulas, nostro generi non decet. Tu si me inpudicitiai captas, capere non potes. [AM.] Pro di inmortales! cognoscin tu me saltem, Sosia? [SO.] Propemodum. [AM.] Cenavin ego heri in navi in portu Persico? [AL.] Mihi quoque adsunt testes, qui illud quod ego dicam, adsentiant. 825 Nescio quid istuc negoti dicam, nisi si quispiamst Amphitruo alius, qui forte ted hinc apsenti tamen tuam rem curet teque apsente hic munus fungatur tuom. Nam quom de illo subditivo Sosia mirum nimist, certe de istoc Amphitruone iam alterum mirum est magis. 830 [] Nescioquis praestigiator hanc frustratur mulierem. [AL.] Per supremi regis regnum iuro et matrem familias

Iunonem, quam me vereri et metuere est par maxume, ut mihi extra unum te mortalis nemo corpus corpore contigit, quo me impudicam faceret. [AM.] Vera istaec velim. 835 [AL.] Vera dico, sed nequiquam, quoniam non vis credere. [AM.] Mulier es, audacter iuras. [AL.] Quae non deliquit, decet audacem esse, confidenter pro se et proterve loqui. [AM.] Satis audacter. [AL.] Ut pudicam decet. [AM.] † In verbis proba’s. [AL.] Non ego iliam mihi dotem duco esse, quae dos dicitur, 840 sed pudicitiam et pudorem et sedatum cupidinem, deum metum, parentum amorem et cognatum concordiam, tibi morigera atque ut munifica sim bonis, prosini probis. [SO.] Ne ista edepol, si haec vera loquitur, examussim est optuma. [AM.] Delenitus sum profecto ita, ut me qui sim nesciam. 845 [SO.] Amphitruo es profecto; cave sis ne tu te usu perduis, ita nunc homines inmutantur, postquam peregre advenimus. [AM.] Mulier, istam rem inquisitam certum est non amittere. [AL.] Edepol me lubente facies. [AM.] Quid ais? responde mihi: quid si adduco tuom cognatum huc ab navi Naucratem, 850 qui mecum una vectust una navi, atque is si denegat facta quae tu facta dicis, quid tibi aequom est fieri? Numquid caussam dicis, quin te hoc multem matrimonio? [AL.] Si deliqui, nulla caussa est. [AM.] Convenit. Tu, Sosia, duc hos intro. Ego huc ab navi mecum adducam Naucratem.– 855 [SO.] Nunc quidem praeter nos nemo est; dic mihi verum serio; ecquis alius Sosia intust, qui mei similis siet? [AL.] Abin hinc a me, dignus domino servos? [SO.] Abeo, si iubes.– [AL.] Nimis ecastor facinus mirum est, qui illi conlibitum siet meo viro, sic me insimulare falso facinus tam malum. 860 Quicquid est, iam ex Naucrate cognato id cognoscam meo.



Iuppiter, deus [IU.] Ego sum ille Amphitruo, quoi est servos Sosia, idem Mercurius qui fit quando commodumst, in superiore qui habito cenaculo, qui interdum fio Iuppiter, quando lubet. 865 Huc autem quo extemplo adventum adporto, ilico Amphitruo fio et vestitum inmuto meum. Nunc huc honoris vostri venio gratia, ne hanc incohatam transigam comoediam. Simul Alcumenae, quam vir insontem probri 870 Amphitruo accusat, veni ut auxilium feram. Nam mea sit culpa, quod egomet contraxerim, si id Alcumenae | innocenti | expetat. Nunc Amphitruonem memet, ut occepi semel, esse adsimulabo | atque in horum familiam 875 frustrationem | hodie iniciam maxumam. Post igitur demum faciam res fiat palam atque Alcumenae in tempore auxilium feram, faciamque ut uno fetu, et quod gravida est viro, et me quod gravidast, pariat sine doloribus. 880 Mercurium iussi me continuo consequi, si quid vellem imperare. Nunc hanc adloquar.

Alcumena, matrona; Iuppiter, deus [AL.] Durare nequeo in aedibus. Ita me probri,

stupri, dedecoris a viro argutam meo! Ea quae sunt facta † infectare est at † clamitat; 885 quae neque sunt facta neque ego in me admisi, arguit, atque id me susque deque esse habituram putat. Non edepol faciam neque me perpetiar probri falso insimulatam, quin ego illum aut deseram aut sati’ faciat mihi ille atque adiuret insuper 890 nolle esse dicta quae in me insontem protulit. [IU.] Faciundum est mihi illud fieri quod illaec postulat, si me illam amantem ad sese studeam recipere. Quando ego quod feci, id factum Amphitruoni offuit atque illi dudum meus amor negotium 895 insonti exhibuit, nunc autem insonti mihi illius ira in hanc et maledicta expetent. [AL.] ed eccum video, qui me miseram | arguit stupri, dedecoris. [IU.] Te volo, uxor, conloqui. Quo te avortisti? [AL.] Ita ingenium meumst: 900 inimicos semper osa sum optuerier. [IU.] Heia autem, inimicos? [AL.] Sic est, vera praedico; nisi etiam hoc falso dici insimulaturus es. [IU.] Nimis iracunda es. [AL.] Poti n ut apstineas manum? Nam certo si sis sanus aut sapias satis, 905 quam tu inpudicam esse arbitrere et praedices, cum ea tu sermonem nec ioco nec serio tibi habeas, nisi sis stultior stultissumo. [IU.] Si dixi, nihilo magis es neque ego esse arbitror, et id huc revorti uti me purgarem tibi. 910 Nam numquam quicquam meo animo fuit aegrius quam postquam audivi te esse iratam mihi. Cur dixisti? inquies. Ego expediam tibi. Non edepol quo te esse inpudicam crederem; verum periclitatus sum animum tuom,

915 quid faceres et quo pacto id ferre induceres. Equidem ioco illa dixeram dudum tibi, ridiculi caussa. Vel hunc rogato Sosiam. [AL.] Quin huc adducis meum cognatum Naucratem, testem quem dudum te adducturum dixeras, 920 te huc non venisse? [IU.] Si quid dictum est per iocum, non aequom est id te serio praevortier. [AL.] Ego illum scio quam doluerit cordi meo. [IU.] Per dexteram tuam te, Alcumena, oro opsecro, da mihi | hanc veniam, ignosce, irata ne sies. 925 [AL.] Ego istaec feci verba virtute inrita, nunc quando factis me inpudicis apstini, ab inpudicis dictis avorti volo. Valeas, tibi habeas res tuas, reddas meas. Iuben mi ire comites? [IU.] Sanan es? [AL.] Si non iubes, 930 ibo egomet; comitem mihi Pudicitiam duxero. [IU.] Mane, arbitratu tuo ius iurandum dabo, me meam pudicam esse uxorern arbitrarier. Id ego si fallo, tum te, summe Iuppiter, quaeso Amphitruoni ut semper iratus sies. 935 [AL.] A, propitius sit potius! [IU.] Confido fore; nam ius iurandum verum te advorsum dedi. Iam nunc irata non es? [AL.] Non sum. [IU.] Bene facis. Nam in hominum aetate multa eveniunt huiusmodi: capiunt voluptates, capiunt rusum miserias; 940 irae interveniunt, redeunt rusum in gratiam. Verum irae si quae forte eveniunt huiusmodi inter eos, rusum si reventum in gratiam est, bis tanto amici sunt inter se quam prius. [AL.] Primum cavisse oportuit ne diceres; 945 verum eadem si isdem purgas mi, patiunda sunt. [IU.] Iube vero vasa pura adornari mihi, ut quae apud legionem vota vovi, si domum rediissem salvos, ea ego | exsolvam omnia. [AL.] Ego istuc curabo. [IU.] Evocate huc Sosiam, 950 gubernatorem, qui in mea navi fuit, Blepharonem arcessat, qui nobiscum prandeat. Is adeo inpransus ludificabitur, cum ego Amphitruonem collo hinc opstricto traham. [AL.] Mirum quid solus secum secreto ille agat. 955 Atque aperiuntur aedes. Exit Sosia.

Sosia, servos; Iuppiter, deus; Alcumena, matrona [SO.] Amphitruo, adsum; si quid opus est, impera, imperium exsequar. [IU.] , optume advenis. [SO.] Iam pax est inter vos duos?

Nam quia vos tranquillos video, gaudeo et volupest mihi. Atque ita servom par videtur frugi sese instituere: 960 proinde eri ut sint, ipse item sit: voltum e volto comparet; tristis sit, si eri sint tristes; hilarus sit, si gaudeant. Sed age responde: iam vos rediistis in concordiam? [IU.] Derides, qui scis haec [iam] dudum me dixisse per iocum. An id ioco dixisti | ? equidem serio ac vero ratus. 965 [IU.] Habui expurigationem: facta pax est. [SO.] Optume est. [IU.] Ego rem divinam intus faciam, vota quae sunt. [SO.] Censeo. [IU.] Tu gubernatorem e navi huc evoca verbis meis Blepharonem, uti re divina facta mecum prandeat. [SO.] Iam hic ero, quom illic censebis esse me.

[IU.] Actutum huc redi.– 970 [AL.] Numquid vis, quin abeam iam intro, ut apparentur quibus opust? [IU.] I sane et quantum potest parata fac sint omnia. [AL.] Quin venis quando vis intro? faxo haud quicquam sit morae. [IU.] Recte loquere et proinde diligentem ut uxorem decet.– Iam hi ambo, et servos et era, frustra sunt duo, 975 qui me Amphitruonem rentur esse: errant probe. Nunc tu divine | huc fac adsis Sosia. Audis quae dico, tametsi praesens non ades. Face iam Amphitruonem advenientem ab aedibus ut abigas; quovis pacto fac commentu’ sis. 980 Volo deludi illum, dum cum hac usuraria uxore nunc mi morigero. Haec curata sint fac sis, proinde adeo ut velle me intellegis, atque ut ministres mi mihi quom sacruficem.

Mercurius, deus [ME.] Concedite atque apscedite omnes, de via decedite, 985 nec quisquam tam audax fuat homo qui obviam opsistat mihi. Nam mihi quidem hercle qui minus liceat deo minitarier populo, ni decedat mihi, quam servolo in comoediis? Ill’ navem salvam nuntiat aut irati adventum senis: ego sum Iovi dicto audiens, eius iussu nunc huc me adfero. 990 Quam ob rem mihi magi’ par est via decedere et concedere. Pater vocat me, eum sequor, eius dicto imperio sum audiens. Ut filium bonum patri esse oportet, itidem ego [ego] sum patri. Amanti subparasitor, hortor, adsto, admoneo, gaudeo. Si quid patri volupest, voluptas ea mihi multo maxumast. 995 Amat: sapit; recte facit, animo quando opsequitur suo; quod omnis homines facere oportet, dum id modo fiat bono. Nunc Amphitruonem volt deludi meu’ pater; faxo probe iam hic deludetur, spectatores, vobis spectantibus. Capiam coronam mi in caput, adsimulabo me esse ebrium. 1000 Atque illuc susum escendero; inde optume aspellam virum de supero, quom huc accesserit; faciam ut sit madidus sobrius. Deinde illi actutum sufferet suo’ servos poenas Sosia. Eum fecisse ille hodie arguet, quae ego fecero hic: quid mea? Meo me aequomst morigerum patri; eius studio servire addecet. 1005 Sed eccum Amphitruonem: advenit. Iam ille hic deludetur probe, siquidem vos voltis auscultando operam dare. Ibo intro, ornatum capiam qui potis decet. Dein susum escendam in tectum, ut illum hinc prohibeam.

Amphitruo, dux [AM.] Naucratem quem convenire volui, in navi non erat, 1010 neque domi neque in urbe invenio quemquam qui illum viderit; mam omnis plateas perreptavi, gymnasia et myropolia; apud emporium atque in macello, ín palaestra atque in foro, in medicinis, in tonstrinis, apud omnis aedis sacras sum defessus quacritando, nusquam invenio Naucratem. 1015 Nunc domum ibo atque ex uxore hanc rem pergam exquirere, quis fuerit quem propter corpus suom stupri compleverit. Nam me quam illam quaestionem inquisitam hodie amittere mortuom satiust. Sed aedis occluserunt. Eugepae. Pariter hoc fit atque ut alia facta sunt. Feriam foris. 1020 Aperite hoc; heus, ecquis hic est? ecquis hoc aperit ostium?

Mercurius, deus; Amphitruo, dux [ME.] Quis ad foris est? [AM.] Ego sum. [ME.] Quid ‘ego sum’? [AM.] Ita loquor. [ME.] Tibi Iuppiter

dique omnes irati certo sunt, qui sic frangas foris. [AM.] Quo modo? [ME.] Eo modo, ut profecto vivas aetatem miser. [AM.] Sosia!

[ME.] Ita: sum Sosia, nisi me esse oblitum existumas. 1025 Quid nunc vis? [AM.] Sceleste, at etiam quid velim, id tu me rogas? [ME.] Ita rogo: paene ecfregisti, fatue, foribus cardines. An foris censebas nobis publicitus praeberier? Quid me aspectas, stolide? quid nunc vis tibi aut quis tu es homo? [AM.] Verbero, etiam quis ego sim me rogitas, ulmorum Accheruns? 1030 Quem pol ego hodie ob istaec dicta faciam ferventem flagris. [ME.] Prodigum te fuisse oportet olim in adulescenti a. [AM.] Quidum? [ME.] Quia senecta aetate a me mendicas malum. [AM.] Cum cruciatu tuo istaec hodie, verna, verba funditas. [ME.] Sacrufico ego tibi. [AM.] Qui? [ME.] Quia enim te macto infortunio. ..................... .....................



[I.] [] At ego te cruce et cruciatu mactabo, mastigia. [II.] [] Erus Amphitruo occupatus. [III.] [] abiendi nunc tibi etiam occasiost. [IV.] [] Optumo iure infringatur aula cineris in caput. [V.] [] Ne tu postules matulam unam tibi aquai ínfundi in caput. [VI.] [] Larvatu’s. Edepol hominem miserum! medicum quaerita[t].

* [VII.] [] Exiuravisti te mihi dixe per iocum. [VIII.] [] Quaeso, advenienti morbo medicari iube:

tu certe aut larvatus aut cerritus es. [IX.] [] Nisi hoc ita factum est, proinde ut factum esse autumo, non caussam dico quin vero insimules probri. [X.] [] † cuiusquet † me apsente corpus volgavit suom.

* [XI.] [] Quid minitabas te facturum, si istas pepulissem foris? [XII.] [] Ibi scrobes ecfodito plus sexagenos in dies. [XIII.] [] Noli pessumo precari [XIV.] [] Animam comprime.

* [XV.] [] Manufestum hunc optorto collo teneo furti flagiti. [XVI.] [] Immo ego hunc, Thebani cives, qui domi uxorem meam impudicitia impedivit, teneo, thensaurum stupri. [XVII.] [] Nilne te pudet, sceleste, populi in conspectum ingredi? [XVIII.] [] clandestino

* [XIX.] [] qui nequeas nostrorum uter sit Amphitruo decernere. [XX.] [] Non ego te novi, navalis scriba, columbar[i] impudens



..................... .....................

, gubernator; , dux; , deus 1035 [] Vos inter vos partite: ego abeo mihi negotium est. Neque ego umquam usquam tanta mira me vidisse censeo. [AM.] Blepharo, quaeso ut advocatus mihi adsis neve abeas. [BL.] Vale. Quid opust me advocato, quí utri sim advocatus nescio?– [IU.] Intro ego hinc eo; Alcumena parturit.– [AM.] Perii miser. 1040 Quid ego † quem advocati iam atque amici deserunt? Numquam edepol me invitus istic ludificabit, quisquis est. [Nam] Iam ad regem recta me ducam resque ut facta est eloquar. Ego pol illum ulciscar hodie Thessalum veneficum, qui pervorse perturbavit familiae mentem meae. 1045 Sed ubi illest? intro edepol abiit, credo, ad uxorem meam. Qui me Thebis alter vivit miserior? quid nunc agam? Quem omnes mortales ignorant et ludificant ut lubet. Certumst, intro rumpam in aedis: ubi quemque hominem aspexero, si[ve] ancillam, seu servom, sive uxorem, sive adulterum, 1050 Seu patrem, sive avom videbo, optruncabo in aedibus. Neque me Iuppiter neque di omnes id prohibebunt, si volent, quin sic faciam ut constitui; pergam in aedis nunciam.



Bromia, ancilla; Amphitruo, dux [BR.] Spes atque opes vitae meae iacent sepultae in pectore,

Neque ullast confidentia iam in corde quin amiserim. 1055 Ita mihi videntur omnia, mare, terra, caelum, consequi, iam ut opprimar, ut enicer. Me miseram! quid agam nescio. Ita tanta mira in aedibus sunt facta. Vae miserae mihi! Animo malest, aquam velim; corrupta sum atque apsumpta sum. Caput dolet, neque audio, nec oculis prospicio satis. 1060 Nec me miserior femina est neque ulla videatur magis. Ita erae meae hodie contigit: nam ubi parturit, deos [sibi] invocat, strepitus, crepitus, sonitus, tonitrus. Ut subito, ut prope, ut valide tonuit! Ubi quisque institerat, concidit crepitu. Ibi nescioquis maxuma voce exclamat: ‘Alcumena, adest auxilium, ne time; 1065 et tibi et tuis propitius caeli cultor advenit. Exsurgite’ inquit “qui terrore meo occidistis prae metu”. Ut iacui, exsurgo; ardere censui aedis, ita tum confulgebant. Ibi me inclamat Alcumena; iam ea res me horrore adficit. Erilis praevortit metus; accurro, ut sciscam quid velit; 1070 atque illam geminos filios pueros peperisse conspicor. Neque nostrum quisquam sensimus, quom peperit, neque providimus. Sed quid hoc? quis hic est senex, qui ante aedis nostras sic iacet? Numnam hunc percussit Iuppiter? Credo edepol; nam pro Iuppiter! sepultust quasi sit mortuos. 1075 Ibo ut cognoscam, quisquis est. Amphitruo hic quídem eru’ meus. Amphitruo! [AM.] Perii. [BR.] Surge. [AM.] Interii. [BR.] Cedo manum. [AM.] Quis me tenet? [BR.] Tua Bromia ancilla. [AM.] Totus timeo, ita med increpuit Iuppiter. Nec secus est quasi si ab Accherunte veniam. Sed quid tu foras egressa es? [BR.] Eadem nos formido timidas terrore impulit. 1080 In aedibus, tu ubi habitas, nimia mira vidi. Vae mihi, Amphitruo|; ita mihi animus etiam nunc abest. [AM.] Agedum expedi: scin me tuom esse crum Amphitruonem? [BR.] Scio. [AM.] Vide etiam nunc. [BR.] Scio. [AM.] Haec sola sanam mentem gestat meorum familiarium. [BR.] Immo omnes sani sunt profecto. [AM.] At me uxor insanum facit 1085 suis foedis factis. [BR.] At ego faciam tu idem ut aliter praedices, Amphitruo: piam et pudicam esse tuam uxorem ut scias, de ea re signa atque argumenta paucis verbis eloquar. Omnium primum Alcumena geminos peperit filios. [AM.] Ain tu, geminos? [BR.] Geminos. [AM.] Di me servant. [BR.] Sine me dicere, 1090 ut scias tibi tuaeque uxori deos esse omnis propitios. [AM.] Loquere. [BR.] Postquam parturire hodie uxor occepit tua, ubi utero exorti dolores, ut solent puerperae, invocat deos inmortalis, ut sibi auxilium ferant,

manibus puris, capite operto. Ibi continuo contonat 1095 sonitu maxumo. Aedis primo ruere rebamur tuas; aedes totae confulgebant tuae, quasi essent aureae. [AM.] Quaeso, apsolvito hinc me extemplo, quando sati’ deluseris. Quid fit deinde? [BR.] Dum haec aguntur, interea uxorem tuam neque gementem neque plorantem nostrum quisquam audivimus; 1100 ita profecto sine dolore peperit. [AM.] Iam istuc gaudeo, utut me erga merita est. [BR.] Mitte istaec, atque haec quae dicam accipe. Postquam peperit, pueros lavere iussit nos. Occepimus. Sed puer ille quem ego lavi, ut magnust et multum valet! Neque eum quisquam conligare quivit incunabulis 1105 [AM.] Nimia mira memoras. Si istaec vera sunt, divinitus non metuo quin meae | uxori latae suppetiae sient. [BR.] Magi’ iam faxo mira dices. Postquam in cunas conditust, devolant angues iubatae deorsum in inpluvium duo maxumae; continuo extollunt ambo capita. [AM.] Ei mihi! 1110 [BR.] Ne pave. Sed angues oculis omnis circumvisere. Postquam pueros conspicatae, pergunt ad cunas citae. Ego cunas recessim rusum vorsum trahere et ducere, metuens pueris, mihi formidans, tantoque angues acrius persequi. Postquam conspexit anguis ille alter puer, 1115 citus e cunis exsilit, recta in anguis impetum. Alteram altera prehendit eas manu perniciter. [AM.] Mira memoras; nimi’ formidolosum facinus praedicas. Nam mihi horror membra misero percipit dictis tuis. Quid fit deinde? porro loquere. [BR.] Puer ambo anguis enicat. 1120 Dum haec aguntur, voce clara exclamat uxorem tuam… [AM.] Quis homo? [BR.] Summus imperator divom atque hominum Iuppiter. Is se dixit cum Alcumena clam consuetum cubitibus, eumque filium suum esse, qui illas anguis vicerit; alterum tuom esse dixit puerum. [AM.] Pol me hau paenitet, 1125 si licet boni dimidium mihi dividere cum Iove. Abi domum, iube vasa pura actutum adornari mihi, Ut Iovis supremi multis hostiis pacem expetam. Ego Teresiam coniectorem advocabo et consulam quid faciundum censeat; simul hanc rem ut facta est eloquar. 1130 Sed quid hoc? quam valide tonuit! Di, opsecro vostram fidem!

Iuppiter, deus; , dux [] Bono animo es; adsum auxilio, Amphitruo, tibi et tuis.

Nihil est quod timeas; hariolos, haruspices mitte omnis: quae futura et quae facta eloquar, multo adeo melius quam illi, quom sum Iuppiter. 1135 Primum omnium Alcumenae usuram corporis cepi et concubitu gravidam feci filio. Tu gravidam item fecisti, quom in exercitum profectu’s; uno partu duos peperit simul. Eorum alter, nostro qui est susceptus semine, 1140 suis factis te inmortali adficiet gloria. Tu cum Alcumena uxore antiquam in gratiam redi: hau promeruit quam ob rem vitio vorteres: Mea vi subactast facere. Ego in caelum migro. [AM.] Faciam ita ut iubes et te oro, promissa ut serves tua. Ibo ad uxorem intro; missum facio Teresiam senem. Nunc, spectatores, Iovi’ summi caussa clare plaudite.

PRIMO SOMMARIO

Giove, camuffatosi da Anfitrione mentre questi faceva guerra ai Telèboi nemici, ne ha profittato per godersene la moglie Alcmena. Mercurio assume l’aspetto dello schiavo Sosia, anche lui assente; Alcmena è presa in questa trappola. Quando ritornano il vero Anfitrione e il vero Sosia, anche loro sono presi in giro in modo singolare. Di qui nascono reciproche accuse e scompigli fra moglie e marito, finché Giove, facendo risuonare dall’alto del cielo la sua voce in mezzo ai tuoni, confessa il suo adulterio. SECONDO SOMMARIO (acrostico)

Alcmena fa innamorare Giove, che assume l’aspetto del marito Anfitrione, mentre questi si batte coi nemici per la patria. Mercurio gli tiene bordone travestito da Sosia. Hanno da lui le loro beffe servi e padrone quando tornano. Incita Anfitrione le folle contro la moglie. Tutti e due, egli e Giove, s’affrontano rinfacciandosi a vicenda l’adulterio. Blefarone, scelto ad arbitro, resta come un brocco, non riuscendo a stabilire chi sia Anfitrione. Ogni cosa alla fine s’aggiusta e Alcmena partorisce due gemelli.

PROLOGO

Mercurio MERCURIO: Quando si

tratta di comprare o vendere le vostre merci, voi volete ch’io vi assista e vi faccia acciuffare un bel guadagno e vi aiuti in tutti i vostri commerci, e sistemi a modo, in casa e fuori, tutte le vostre faccende e i vostri conti: volete che tutti gli affari che avete intrecciato o desiderate intrecciare ve li faccia fiorire in perpetuo con un grosso e ricco margine; volete che voi e tutto il prossimo vostro io li inondi di buone notizie, e stia sempre a portare, a riferire ciò che meglio faccia al caso vostro. Ché lo sapete (e come!) che gli altri dèi mi hanno affibbiato questo bel compito di occuparmi delle notizie e dei guadagni. Dunque, questo volete, che io vi dia bene e mi ci affatichi, perché il guadagno vi piova sempre sul capo. Be’, in cambio, ora mi farete il favore di stare zitti durante lo spettacolo e di essere tutti, oggi, giudici imparziali ed onesti. Ora, per ordine di chi mi presento e perché sia venuto, ve lo dirò, e anche come mi chiamo. Sono qui per volere di Giove; mi chiamo Mercurio: mio padre mi ha mandato qua a pregarvi. Sì, sapeva che tutto quello che avrebbe detto sarebbe stato un ordine per voi, perché lo capisce che voi lo rispettate e lo temete. Ed è giusto: lui è Giove! Però, con tutto questo, mi ha ordinato di pregarvi con molto garbo, con buona grazia, con dolcezza. Perché quel Giove lì, quello che mi ci ha mandato, ha paura non meno del più umile di voi: è figlio di mamma, come voi, è nato da un padre mortale;1 che meraviglia, se già trema per sé? E io pure, che sono figlio di Giove, mi prendo paura, per contagio di papà. Perciò vengo a chiedere pace e vi reco la pace. Eccomi qua perciò a portarvi una preghiera così semplice, e giusta: perché io sono un messo giusto, per cose giuste e inviato da persone giuste. Perché è un’indecenza che i giusti si adoperino per l’ingiustizia, ma è una scemenza chiedere la giustizia agl’ingiusti: gl’ingiusti ignorano e non praticano la giustizia. Ora – da bravi – tutti attenti alle mie parole. Quello che vogliamo noi lo dovete volere pure voi: perché io e mio padre siamo benemeriti di voi e dello Stato. Gli altri dèi nelle tragedie, Nettuno, il Valore, la Vittoria, Marte, Bellona, li ho visti ricordarvi i beneficî che vi avevano fatti: ma io perché debbo ricordarvi che di tutti questi benefici il vero autore è mio padre, che è il re degli dèi? Ma lui non ha mai avuto la cattiva abitudine di rinfacciare alle persone dabbene il bene che gli ha fatto: gli sembra naturale che voi gli siate grati e perciò è più contento di farvi il bene che vi fa. Be’, ora vi esporrò anzitutto che cosa sia venuto a chiedervi; poi vi esporrò l’argomento di questa tragedia. Perché avete corrugato la fronte? Perché ho detto che questa sarà una tragedia? Eh! sono un dio, la cambierò. Se volete, da tragedia che è ne farò una commedia, e senza mutare un verso. Insomma, lo volete o non lo volete? Ma che scemo! Mi sono dimenticato che sono un dio e quindi debbo sapere che lo volete! Lo so che cosa c’è dentro il vostro cervello su questa faccenda. Farò che venga fuori una commedia con un pizzico di tragico; perché non credo sia il caso di fare solo commedia, quando ci sono di mezzo re e dèi. E allora? Se qui dentro c’è pure una parte per uno schiavo, farò proprio come ho detto: una tragicommedia. E ora veniamo alla preghiera: Giove mi ha mandato a chedervi che in tutta la platea, sedile per sedile, vadano in giro dei sorveglianti a fare la guardia agli spettatori. Se pescheranno qualcuno che fa la claque per un attore, gli porteranno via la toga come pegno. Se si trova che qualcuno fa la propaganda perché il premio tocchi a quello o a quell’altro guitto o attore – e ci si metta o con cartelli o di persona o per mezzo di un incaricato – o addirittura che gli edili favoriscano slealmente qualcuno, Giove vuole che si applichi puntualmente lo stesso castigo adoperato per i brogli elettorali. Ha detto che voi col valore avete ottenuto le vittorie, non con gl’imbrogli e i tradimenti; e perché non deve valere la stessa legge per l’attore e per l’eroe? Col valore bisogna darsi da fare, non coi galoppini. Chi fa le cose a modo ne ha d’avanzo di sostenitori, purché i giudici siano onesti. Ma mi ha affidato anche un’altra richiesta: che ci siano sorveglianti anche per gli attori. A chi si è adoperato per ricevere gli applausi della claque e farli perdere ad un collega, dà ordine che gli si striglino i paramenti e la pellaccia. Non vorrei che vi domandaste perché mai Giove ora si intrighi di attori. Nessuna meraviglia: Giove in persona verrà a recitare in questa commedia. Eh, che c’è da stupirsi, come se fosse un gran bello spettacolo nuovo, Giove che si mette a fare l’attore? E l’anno passato, quando qui, sulla scena, gli attori invocarono Giove, non è venuto?2 E li ha aiutati! E poi nelle tragedie non vien fuori a recitare? Perciò, oggi Giove in persona farà l’attore, e io con lui. Ora, attenti, che vi espongo l’argomento di questa commedia. Questa città è Tebe; in quella casa lì abita Anfitrione, nato ad Argo da padre argivo; ha sposato Alcmena, figlia di Elettrione. Ora quest’Anfitrione è a capo dell’esercito: perché il popolo di Tebe è in guerra coi Telèboi. Ebbene, prima di andarsene a combattere, questo messere ha ingravidato sua moglie Alcmena. Ora credo che voi sappiate com’è fatto mio padre, come in questo campo gli piaccia correre la cavallina e si accenda al primo sguardo. S’è innamorato d’Alcmena di nascosto dal marito e se l’è goduta e l’ha resa gravida pure lui. Ora, perché voi vi rendiate veramente conto di come stanno le cose per Alcmena: è incinta dell’uno e dell’altro, del marito e del sommo Giove. E ora mio padre è qui dentro, sta a letto con lei e per questo la notte è così lunga, come succede ogni volta che vuole godersi una donna, quale che sia. Ma s’è camuffato in maniera da sembrare Anfitrione. Ora voi non state a meravigliarvi del mio costume, perché sono venuto fuori così, in veste da schiavo. Un mito vecchio, vecchissimo ve lo presento come nuovo: per questo son venuto fuori vestito in una foggia nuova. Chi è qui dentro a quest’ora, è proprio mio padre Giove. Ma s’è travestito in sembianza d’Anfitrione, sì che tutti gli schiavi che lo incontrano credono che sia lui: quando gli piace, sa sempre mutar di pelle. Io mi son preso l’aspetto di Sosia, che è partito di qui con Anfitrione per la guerra. Così potrò rendere un servizio a mio padre innamorato, ed eviterò che gli schiavi, vedendomi bazzicare qui per casa, mi domandino «chi sei?». Finché mi crederanno schiavo e collega loro, non gli verrà in testa di domandarmi chi sono e perché son venuto. Ora mio padre qui dentro se la spassa; se ne sta a letto abbracciato alla donna che ha pazzamente desiderata. Le sue imprese di guerra racconta il buon padre ad Alcmena! Lei lo prende per suo marito, e invece si trova in compagnia di un amante. E proprio a questo punto mio padre racconta che ha messo in fuga l’esercito nemico e ha ricevuto in premio un ricchissimo bottino. I doni, che lì sono toccati ad Anfitrione, ce li siamo portati via: mio padre fa tutto quello che vuole, con la massima facilità. Ma oggi Anfitrione tornerà qua dal campo e con lui lo schiavo, di cui ho assunto l’aspetto. Ora, perché ci possiate distinguere più facilmente, io recherò sempre sul pétaso queste due alette; sotto il pétaso di mio padre ci sarà poi un cordoncino d’oro, che mancherà invece ad Anfitrione. Questi contrassegni la gente di casa non li potrà discernere, voi invece sì. Ma ecco che giunge Sosia, il servo di Anfitrione: a quest’ora arriva dal porto con una lanterna, quel bel tomo. Appena s’avvicinerà lo caccerò dalla soglia. Attenti: sarà un godimento contemplare Giove e Mercurio in veste d’attori.

[Fine del prologo]

ATTO PRIMO

Sosia, Mercurio SOSIA: C’è

un uomo più audace e più spavaldo di me, che, pur conoscendo le belle abitudini di certi giovinastri, me ne vado solo di notte? E che farò ora se le guardie notturne mi cacceranno in prigione? Di lì domani, come da una dispensa, sarò tirato fuori a godermi la sferza. E non mi sarà possibile difendermi, e non avrò nessun aiuto nel padrone e non ci sarà uno a dir di no, fra tutti quelli che diranno «Ben gli sta!». Così otto uomini robusti mi batteranno – povero me! – come un’incudine; e così, arrivando da fuori, sarò ricevuto nell’ospizio pubblico.3 A questo m’ha costretto la furia del padrone: già, a quest’ora di notte m’ha fatto saltar via dal porto contro mia voglia. Non avrebbe potuto spedirmi qua di giorno? Per questo è una iella servire un ricco, per questo è più sfortunato lo schiavo di uno che ha quattrini: di notte e di giorno, senza posa, ce n’è d’avanzo di cose da fare e da dire, che non ti lasciano mai requie. Il padrone, siccome è ricco e non conosce che cosa sia lavoro e fatica, crede che noi si possa far tutto quel che gli salta in testa; crede che sia naturale, non capisce che fatica ci sia a farlo, e non pensa mai se quel che ordina è giusto o ingiusto. Perciò a chi è schiavo piomba addosso un subisso d’ingiustizie; ma questo peso bisogna tenerselo e sopportarselo con tutte le sue pene. MERCURIO: Ma dovrei lamentarmi io, non lui, della schiavitù. Io stamani ero libero e adesso mio padre mi ha appioppato la schiavitù. E si lamenta lui che è schiavo da quando è nato! SOSIA: Ma son proprio una pelle da frusta! Solo ora, all’arrivo, mi torna in mente che debbo ringraziare gli dèi per la loro protezione e dire una preghiera! E già; se volessero rendermi pan per focaccia, quei signori dovrebbero incaricar qualcuno di venirmi a sfasciare il muso a dovere, qui all’arrivo. E sarebbe il giusto castigo: m’è passato di mente il bene che m’han fatto. MERCURIO: Quello che di solito non si fa, lo sa fare proprio questo tanghero: riconosce ciò che si merita. SOSIA: Quello che non avrei mai sperato io né alcun altro dei nostri, proprio questo ci è toccato, di poter rimettere il piede in casa sani e salvi. Tornano in città i soldati, con una bella vittoria sui nemici, ed hanno spento il fuoco di una guerra terribile, e dei nemici hanno fatto scempio. Quella città che aveva regalato tanti acerbi lutti al popolo tebano, ora per l’energia e il valore dei soldati è stata vinta ed espugnata, principalmente per merito di Anfitrione, mio padrone, che li ha comandati e guidati; ha fatto guadagnare bottino, terra e gloria ai suoi concittadini ed ha rafforzato il regno al re di Tebe, a Creonte 4. Mi ha mandato innanzi, dal porto a casa, per annunciare tutto a sua moglie come ha servito lo Stato col suo intuito, col suo comando, con la sua guida. Be’, ora faccio la prova di come dovrò parlarle quando sarò giunto là dentro. Del resto, se dirò una menzogna, farò secondo il mio solito! Ché mentre quelli si battevano a tutta forza, io a tutta forza me la battevo. Ma accozzerò un po’ di frottole, come se ci fossi stato dentro, e svescerò quello che ho sentito. Però prima voglio meditare fra me e me in che modo e con quali parole mi convenga snocciolare le mie fandonie. Ecco: comincerò così. Da principio, appena giungemmo laggiù, appena toccammo terra, subito Anfitrione scelse il fior fiore. Li manda in ambasceria, li incarica di riferire ai Telèboi la sua volontà: se senza violenza e senza guerra volessero consegnare la preda e i rapitori, rendere insomma quello che ci hanno rubato, lui ricondurrebbe su due piedi l’esercito a casa, gli Argivi abbandonerebbero il campo e loro avrebbero pace e tranquillità; ma se avessero altre intenzioni e non volessero consentire alle richieste, lui con uomini e mezzi a iosa gli rovinerà addosso alle mura. Ma quando gl’incaricati d’Anfitrione ebbero ripetuto a puntino tutto questo ai Telèboi, quegli omaccioni, fidando nel proprio valore e nelle proprie forze, tirano fuori l’arroganza, si mettono ad insultare i nostri ambasciatori, rispondono che la guerra vale a proteggere loro e le loro cose, e che perciò riconducessero di corsa l’esercito via dal loro territorio. Appena gl’incaricati recano la risposta, Anfitrione all’istante schiera tutta l’oste in battaglia: di contro i Telèboi escono in formazione dalle mura, con armi stupende. Venuti sul campo gli uni e gli altri al completo, si dispongono in ordine chiuso, uno per uno e schiera a schiera, noi secondo le nostre regole, i nemici a modo loro. Poi gli opposti comandanti s’incontrano nel mezzo e si mettono a discutere fuori della folla. Ne vien fuori il patto che, quale delle due parti avesse perduto, avrebbe consegnato al vincitore se stessa e tutto: città, territorio, templi, case. Stabilito questo, d’ambo le parti s’ode uno squillo di tromba; ne echeggia la terra; di qui e di lì si lancia il grido di guerra. L’uno e l’altro comandante quinci e quindi fa voti a Giove, incita i suoi. Ciascuno si sforza di fare tutto quello che può e sa; infuria col ferro; le lancie vanno in pezzi; mugghia il cielo per lo strepito della mischia; dai fiati e dagli aneliti dei combattenti si spande una nebbia, si cade per i colpi e i cozzi. Finalmente, con uno sforzo di volontà, la nostra parte esce vittoriosa; i nemici muoiono a mucchi; i nostri ci dan dentro. Col valore abbiam vinto quei tracotanti. Però nessuno volge in fuga né si ritira; che anzi combattono di pie’ fermo; preferiscono morire prima di cedere: ognuno di loro procombe dove era il suo posto e senza turbare l’ordine. Visto ciò, il mio padrone Anfitrione subito fa avanzare la cavalleria sul fianco destro. Ratti i cavalieri eseguono, caricano dalla destra con fragore immenso, con impeto travolgente: sgominano e schiacciano le schiere nemiche, dànno il giusto castigo a quei prepotenti. MERCURIO: Finora non ha detto neppure una parola a vanvera: ci siamo stati nel vivo, io e mio padre, finché s’è combattuto. SOSIA: I nemici battono in fuga: allora aumenta lo slancio dei nostri. Sulle schiere dei Telèboi fuggiaschi piove una grandinata di dardi, e Anfitrione in persona trafigge il re Ptèrela. S’è combattuto lì dall’alba al tramonto: me lo ricordo tanto più che quel giorno son rimasto senza mangiare. Ma finalmente la notte, sopraggiungendo, interruppe la carneficina. L’indomani dalla città i capi nemici scendono alle nostre tende piangendo, ci scongiurano, con le mani coperte da bende supplichevoli, di essere clementi. Si arrendono a discrezione al popolo tebano, consegnano se stessi, la città, i figli, tutte le loro istituzioni sacre e civili, ogni cosa. Dopo, in premio del valore, è donata al padrone Anfitrione la pàtera d’oro in cui Ptèrela era solito sbevazzare. Così parlerò alla padrona. Ora mi dirigerò a casa per finir d’eseguire gli ordini. MERCURIO: Oh, oh! quel messere si avvicina da questa parte; ora gli sbarrerò il passo. A quell’uomo lì, oggi, non permetterò mai di accostarsi a questa casa. Il suo aspetto ce l’ho addosso, perciò posso burlarlo sicuramente. E se ne ho assunto la figura e l’atteggiamento, debbo essergli simile anche nei modi e nelle azioni. Perciò occorre essere malizioso, astuto, furbo di tre cotte, e cacciarlo via dalla soglia con la sua stessa arma, la frode. Ma che succede? Sta a bocca aperta a contemplare il cielo. Vediamo che fa. SOSIA: In fe’ di Dio, se c’è qualcosa da temere sicuramente, è questa: che stanotte Notturno s’è ubriacato e s’è addormentato. Ché le Orse non si muovono affatto e la luna è sempre lì, e Orione, Venere e le Pleiadi non tramontano. Le stelle stan ferme e la notte non vuol cedere al giorno. MERCURIO: Continua come hai cominciato, o notte: fa’ il tuo servizio a mio padre. A un ottimo dio presta ottimamente il tuo ottimo aiuto, ché lo presti a tuo profitto. SOSIA: Veramente credo di non aver mai veduto una notte più lunga, tranne quella in cui rimasi eternamente appeso mentre mi staffilavano. Ma anche quella, perdio, mi pare meno lunga di questa. Eh sì, proprio il Sole dorme, e sbronzo a dovere. C’è da stupirsi se non ha alzato il gomito.

MERCURIO: Ah,

briccone! Credi che gli dèi sian come te? Ti accoglierò come meritano le tue bestemmie e le tue canagliate, avanzo di galera; prova a venir qua e sorbirai le sorbe. SOSIA: Dove sono quei tipi di donnaioli a cui non piace dormire soli? Questa notte è fatta apposta per sfiancare una donnina pagata profumatamente. MERCURIO: A giudicare dalle sue parole, mio padre ora si comporterebbe proprio a modo. Infatti sta a letto abbracciato ad Alcmena e la ama e se la gode. SOSIA: Be’, andiamo ad annunziare ad Alcmena quel che mi ha detto il padrone. Ma chi è quest’uomo che vedo dinanzi a casa a quest’ora di notte? Non mi piace. MERCURIO: Nessuno ha fifa come lui. SOSIA: Ora lo riconosco: costui mi vuol spolverare di nuovo il pallio.5 MERCURIO: Trema: lo prenderò bene in giro. SOSIA: Sono perduto, mi battono i denti: certo costui, quando arriverò, mi accoglierà con ospitalità… pugilistica. Sì, dev’essere proprio… pietoso: e dal momento che il padrone mi ha costretto a vegliare, costui a suon di pugni mi costringerà oggi a dormire. È proprio finita! Dèi del cielo, com’è grosso e forzuto! MERCURIO: [a parte]: Declamerò ad alta voce nella sua direzione: così udrà le mie parole e sbigottirà sempre di più. [Alzando la voce]: In gamba, pugni miei. È un pezzo che non fornite da mangiare alla mia pancia. Mi pare un secolo che ieri avete steso a dormire quei quattro uomini, spogliati a dovere. SOSIA: Dio, che paura ho di diventare… Quinto invece di Sosia! Costui afferma d’aver piombato nel sonno quattro uomini: temo d’esser destinato ad aumentare il numero. MERCURIO: Be’, ormai voglio far così. SOSIA: Si aggiusta il vestito: certo si prepara. MERCURIO: Non riuscirà ad evitare i pugni. SOSIA: Chi? MERCURIO [rispondendo alla domanda di Sosia, senza che questi lo comprenda]: Chiunque verrà da questa parte, non c’è scampo per lui: s’abbotterà di pugni. SOSIA: Per carità, non mi va di mangiare a quest’ora di notte: ho cenato da poco: fa’ la grazia di regalare questa cena a chi ha fame. MERCURIO: Non è scarso il peso di questo pugno. SOSIA: Sono perduto, pesa i pugni. MERCURIO: Non è una bella pensata, vero, fargli una lenta carezza per addormentarlo? SOSIA: Mi salveresti: son tre notti di seguito che veglio. MERCURIO: No, è un pessimo affare: la mia mano non sa colpire una mascella fiaccamente. Quello che carezzerai coi tuoi pugni deve cambiarsi i connotati. SOSIA: Quest’uomo mi concerà a nuovo e mi rifarà la faccia. MERCURIO: La faccia dovrà essere disossata con una scarica fatta a modo. SOSIA: Vorrei vedere che costui non pensasse a disossarmi come una murena! Alla larga da questo disossatore di uomini! Sono spacciato se mi ha già veduto! MERCURIO: Sento puzza di uomo: suo danno! SOSIA: Caspita! E che, faccio puzza? MERCURIO: E non dev’esser lontano, ma si sente che da lontano dev’esser venuto. SOSIA: Dev’essere un indovino! MERCURIO: Mi prudono i pugni. SOSIA: Se vuoi esercitarti su di me, per favore allénati prima contro il muro. MERCURIO: M’è volata una voce agli orecchi. SOSIA: Disgraziato che sono! Non le ho tarpato le ali! Porto in giro una voce alata! MERCURIO: Quell’uomo chiama rogna da me sul suo somaro. SOSIA: Ma io non ho bestie da soma. MERCURIO: Bisogna caricarlo ben bene di pugni. SOSIA: Nel viaggio che ho fatto per venir qua, la nave mi ha fiaccato: anche ora ho il mal di mare. Per miracolo mi reggo in piedi senza carico; e questo qui mi vuol caricare. MERCURIO: Certo qui parla non so chi. SOSIA: Siamo salvi, non mi vede: dice che parla Nonsocchì: io invece mi chiamo Sosia. MERCURIO: Di qui, da destra, una voce, a quanto pare, mi sferza l’orecchio. SOSIA: Ho paura d’essere sferzato io, oggi: altro che essere sferzato dalla voce, come dice questo qui! MERCURIO: Benissimo! Ecco l’uomo che avanza verso di me. SOSIA: Tremo, son tutto irrigidito. Giuraddio, se uno me lo chiedesse, non saprei dire in che mondo mi trovo: non mi posso muovere per la paura, povero me! È fatta: sono andati a male gli ordini del padrone, e Sosia con loro. Ma se vado a parlargli a muso duro, faccia a faccia, potrò sembrargli una persona in gamba e allora terrà le mani a casa. MERCURIO: Dove ti dirigi tu che ci hai il fuoco nelle corna?6 SOSIA: E a te che te ne viene, tu che disossi gli uomini a pugni? MERCURIO: Sei schiavo o libero? SOSIA: Sono quel che mi pare. MERCURIO: Ah, è così? SOSIA: Proprio. MERCURIO: Pellaccia da frusta. SOSIA: Tu menti. MERCURIO: Ora ti costringerò a dire che dico la verità. SOSIA: Che bisogno c’è? MERCURIO: Posso sapere dove vai, a chi appartieni e che sei venuto a fare? SOSIA: Vengo qua, sono servo del padrone di casa. Ne sai di più, adesso?

MERCURIO: Ora, canaglia, t’inchiavo la lingua. SOSIA: Non puoi: è una lingua verginella e ben custodita.7 MERCURIO: Continui a far lo spiritoso? Che ci hai da fare vicino a questa casa? SOSIA: E tu, piuttosto? MERCURIO: Il re Creonte mette sempre di guardia i vigili notturni, uno per ogni cantone. SOSIA: Fa bene: poiché eravamo all’estero, ha fatto custodire la casa. Ma ora, da bravo, va’ dentro e annuncia che sono arrivati quelli di famiglia. MERCURIO: Non so che razza di uomo di famiglia tu sia; ma se non te ne vai di qui all’istante, ti farò ricevere, sor familiare, molto poco

familiarmente. SOSIA: Qui, insomma, abito io e son servo di questi padroni. MERCURIO: Ma sai come andrà a finire? Ti farò andar via in pompa magna, se non te ne vai. SOSIA: Come sarebbe a dire? MERCURIO: Sarai portato in lettiga, non te n’andrai coi tuoi piedi, se io porrò mano al bastone. SOSIA: Ma io ti assicuro che sono di casa. MERCURIO: Calcola, dunque, quanto presto le vuoi buscare, se non te ne vai di qui subito. SOSIA: Tu osi impedirmi d’entrare in casa, ora che torno da un viaggio? MERCURIO: Questa è casa tua? SOSIA: Certo. MERCURIO: Chi è dunque il tuo padrone? SOSIA: Anfitrione, il comandante delle legioni tebane, il marito di Alcmena. MERCURIO: Che dici? Come ti chiami? SOSIA: Tutti qui a Tebe mi chiamano Sosia, figlio di Davo. MERCURIO: Tu oggi per la tua disgrazia sei venuto architettando fandonie, tu, cima d’impudenza

rivestita di bugie azzeccate a dovere, tessute a modo. SOSIA: Ma no; la roba tessuta con cui vengo qua è la camicia, non le bugie. MERCURIO: E continui a mentire: certo sei venuto coi piedi, non con la camicia. SOSIA: Ma certo. MERCURIO: E certo tu adesso le prendi per le tue bugie. SOSIA: Perdio, certo non ne ho voglia. MERCURIO: Perdio, certo prendile contro voglia; questo certo è sicuro, non è a tuo arbitrio. SOSIA: Ti scongiuro, per pietà. MERCURIO: Tu dunque osi dire di essere Sosia, mentre Sosia sono io? SOSIA: Sono morto. MERCURIO: E dici ancora poco, rispetto a quello che ti attende. Di chi sei ora? SOSIA: Tuo, perché a forza di pugni hai preso possesso di me. Aiuto, cittadini di Tebe! MERCURIO: Hai anche il coraggio di gridare, boia? Parla, perché sei venuto? SOSIA: Perché ci fosse qualcuno che tu potessi martellare di pugni. MERCURIO: Di chi sei? SOSIA: Te l’ho già detto, sono Sosia di Anfitrione. MERCURIO: Ah sì! E allora, perché dici bugie, ne prenderai di più: sono io, non tu, Sosia. SOSIA [a parte]: Volesse il cielo che lo fossi tu e non io; così potrei suonarti! MERCURIO: Stai anche a brontolare? SOSIA: Ti prometto di star zitto. MERCURIO: Chi è il tuo padrone? SOSIA: Quello che vorrai. MERCURIO: E allora? Come ti chiami adesso? SOSIA: Ho solo il nome che ti piacerà di darmi. MERCURIO: Dicevi di essere Sosia di Anfitrione. SOSIA: Ho sbagliato: volevo dire che ero sozio di Anfitrione. MERCURIO: Lo sapevo che da noi non c’è uno schiavo Sosia all’infuori di me. Hai perduto la testa. SOSIA: Volesse il cielo che tu veramente avessi perduto i tuoi pugni! MERCURIO: Sono io quel Sosia che poco fa dicevi di essere. SOSIA: Ti scongiuro di lasciarti rivolgere la parola in pace, senza bastonarmi. MERCURIO: Ma sì, facciamo un piccolo armistizio, se hai voglia di parlarmi. SOSIA: Non parlerò se non a pace fatta e firmata, dal momento che a pugni sei più forte di me. MERCURIO: Di’ quello che vuoi: non ti farò del male. SOSIA: Debbo fidarmi? MERCURIO: Fìdati. SOSIA: E se m’inganni? MERCURIO: E allora Mercurio se la pigli con… Sosia. SOSIA: Allora ascoltami, se mi hai dato il permesso di parlare liberamente: io sono Sosia, lo schiavo di Anfitrione. MERCURIO: Ancora insisti? SOSIA: Ho fatto la pace, ho fatto i patti, dico la verità. MERCURIO: E allora prendile. SOSIA: E allora fa’ come vuoi e quello che vuoi, dal momento che a pugni sei più forte di me. Ma qualsiasi cosa tu voglia fare, io non tacerò la verità. MERCURIO: Tu oggi non riuscirai mai a non farmi essere Sosia e a salvarti la pelle dopo aver tentato questa bella prodezza. SOSIA: E tu, perdio, non mi potrai… vendere al punto che io non sia quello che sono: da noi non v’è nessun altro schiavo Sosia oltre me, che sono andato via di qui con Anfitrione sotto le armi. MERCURIO: Quest’uomo è tocco di cervello. SOSIA: Ma il guaio che mi affibbi ce l’hai tu. E che, perdinci, non sono io Sosia, lo schiavo d’Anfitrione? Forse che non è giunta stanotte dal porto

Persico una nostra nave,8 che mi ha portato qua? Non mi ha mandato qua il mio padrone? Non sto dinanzi a casa nostra? Non ho una lanterna in mano? Non parlo? Non son desto? Quest’uomo poco fa non mi ha ammaccato a forza di pugni? E l’ha fatto, perdinci: ché, poveretto me, ancora mi dolgono le mascelle. Che ci son dubbi? E perché non debbo entrare in casa? MERCURIO: Come? In casa? SOSIA: Ma sì. MERCURIO: E invece tutto quello ch’hai detto finora è un mucchio di menzogne: sono io, solo io, Sosia di Anfitrione. Stanotte infatti è salpata una nostra nave dal porto Persico, e abbiamo espugnato la città dove regnava il re Ptèrela, e abbiamo domato a viva forza le legioni dei Telèboi e il padrone Anfitrione ha ucciso di sua mano il re Ptèrela in campo aperto. SOSIA: (Non credo a me stesso nel sentirgli proclamare tutte queste cose: certamente costui racconta a puntino tutte le nostre prodezze). Ma dimmi: che cosa è stato dato ad Anfitrione dai Telèboi? MERCURIO: La pàtera d’oro in cui il re Ptèrela era solito cioncare. SOSIA: (L’ha detto). E ora la pàtera d’oro dov’è? MERCURIO: In una cassetta segnata col sigillo d’Anfitrione. SOSIA: E il sigillo, dimmi, che cos’è? MERCURIO: Il sole che sorge con la sua quadriga. Perché cerchi di cogliermi in fallo, boia? SOSIA: (Mi ha messo a terra con le prove: debbo cercarmi un altro nome. Non so donde ha potuto vedere tutto questo. Ma ora lo sbugiarderò per benino: quello che ho fatto quand’ero solo – perché nella tenda non c’era nessun altro –, questo ora non potrà dirlo mai). Se tu sei Sosia, quando le legioni se le davano a tutto spiano, che hai fatto nella tenda? Se lo dici mi arrendo. MERCURIO: C’era un orcio pieno di vino: ne ho riempito un orciuolo. SOSIA: (È sulla buona strada). MERCURIO: Quello me lo son tracannato pari pari, come l’aveva fatto mamma. SOSIA: (Ed è successo proprio così, che io lì mi son scolato un orciuolo di vin pretto. E che c’era nascosto per miracolo proprio lui in quell’orciuolo?). MERCURIO: Dunque? Non ti ho dato le prove che non sei Sosia? SOSIA: Tu dici che non sono io? MERCURIO: E come potrei non dirlo, se lo sono io? SOSIA: Giuro per Giove che sono Sosia e che non giuro il falso. MERCURIO: E io giuro per Mercurio che Giove non ti crede; perché so che crederà più a me senza giuramento che a te che giuri. SOSIA: E chi sono allora, se non sono Sosia? Lo domando a te. MERCURIO: Quando non avrò più voglia d’essere Sosia, siilo pure tu: ma ora che lo sono io, le buscherai se non andrai via di qui, uomo senza nome. SOSIA: (Certo quando lo contemplo e riconosco il mio aspetto, proprio come sono fatto io – perché mi guardo spesso allo specchio – non v’è nulla di più simile a me. Ha il cappello e il vestito uguali, proprio come li ho io. La gamba, il piede, la statura, il taglio dei capelli, gli occhi, il naso e perfino le labbra, le guance, il mento, la barba, il collo: è me spiccicato. Che c’è da dire di più? Se ha pure le cicatrici sulla schiena, non v’è somiglianza più somigliante di questa. Ma pure, quando ci penso, certo io sono quello che sono sempre stato. Conosco il padrone, riconosco la nostra casa: ho il senno e i sensi a posto. Non è il caso di dar retta a quello che dice lui: busserò alla porta). MERCURIO: Dove ti dirigi? SOSIA: A casa. MERCURIO: Solo se monterai sulla quadriga di Giove per fuggire di qui, la farai franca, e a stento. SOSIA: E non posso annunciare alla padrona quello che il mio padrone mi ha ordinato di dirle? MERCURIO: Alla padrona tua va’ ad annunciare quello che vuoi; ma alla padrona nostra non ti permetterò di presentarti. E se mi fai perdere la pazienza, oggi qui scoppia un… lumbifragio. SOSIA: Preferisco andarmene. O dèi immortali, aiutatemi voi, dov’è che ho perduto me stesso? Dov’è che ho mutato persona? Dov’è che ho smarrito il mio aspetto? O forse ho lasciato me stesso laggiù, se mi è capitato di dimenticarmi di me? Costui certamente ha tutto l’aspetto che finora era mio. Mi capita da vivo l’onore di un ritratto, che nessuno mi farà quando sarò morto! Andrò al porto e riferirò al mio padrone come sono andate le cose. A meno che anche lui non mi riconosca più: e mi facesse Giove questa grazia! Così oggi mi raderei i capelli e mi metterei in testa il pilleo.9 [Esce.]

Mercurio MERCURIO:

Ah! La faccenda oggi mi è riuscita proprio a dovere: ho allontanato dalla porta il più pericoloso guastafeste; così mio padre può abbracciarsi tranquillamente la sua bella. Intanto quello lì, quando sarà tornato dal padrone Anfitrione, gli racconterà che lo schiavo Sosia lo ha cacciato dalla porta: il padrone crederà che quello gli stia dicendo la bugia e non sia venuto qua, trasgredendo ai suoi ordini. Li riempirò di confusione, farò perdere la testa a loro e a tutta la gente di casa, finché mio padre non sarà stufo della sua bella: allora tutti finalmente sapranno che cosa è accaduto, e Giove riappacificherà Alcmena con suo marito. Perché Anfitrione nel primo impeto adunerà le folle contro la moglie e la accuserà di adulterio: poi mio padre ricondurrà la calma dopo la tempesta. Ora c’è da dire di Alcmena quello che finora ho soltanto accennato: oggi essa partorirà due gemelli. L’uno nascerà nove mesi dopo il concepimento, l’altro nascerà settimino. Il primo è figlio di Anfitrione, il secondo di Giove. Però il figlio più piccolo ha il padre più grande: il figlio più grande ha il padre più piccolo. Ora avete capito? Però, per riguardo ad Alcmena, mio padre s’è preoccupato che la loro nascita avvenisse in un parto solo. Con una doglia sola si libererà di due travagli, e così eviterà il sospetto di adulterio, e la tresca rimarrà nascosta. Però, come vi ho già detto, Anfitrione verrà a sapere per filo e per segno come sono andate le cose. Ma che c’è da meravigliarsi? Nessuno potrà farne una colpa ad Alcmena: ché non sarebbe giusto che un dio lasciasse incolpare del proprio fallo una mortale. Ma basta con le parole: la porta cigola. Ecco uscire il falso Anfitrione insieme con Alcmena, la moglie in usufrutto.

Giove, Alcmena, Mercurio Arrivederci e statti bene, Alcmena, sta’ attenta alla casa, come hai fatto sinora, e abbiti riguardo, ti prego: lo vedi che il tempo della gravidanza è scaduto. Per me è giocoforza partire, ma tu alleva pure come legittimo il figlio che nascerà.10 ALCMENA: E che grave impegno hai, marito mio, per andartene via così presto? GIOVE:

GIOVE: Ah,

certo non tale da farmi prendere a noia te e la casa. Ma quando il comandante supremo si assenta dal campo, si fa prima quello che non dev’essere fatto anziché quello che dev’essere fatto. MERCURIO: (Per essere mio padre, è un ciurmadore anche troppo esperto. Guardate con quante moine la lusingherà ora). ALCMENA: Perbacco mi accorgo in che conto tieni tua moglie. GIOVE: Non ti basta che non amo nessuna donna quanto te? MERCURIO: (Perbacco, se tua moglie sapesse che ti dedichi a queste belle imprese, scommetto che preferiresti essere Anfitrione anziché Giove). ALCMENA: Preferirei sperimentarlo anziché sentirmelo raccontare. Te ne vai prima che si sia scaldata quella parte di letto dove ti sei coricato. Ieri sei arrivato a mezzanotte, ora te ne vai già. Ti pare che sia bello? MERCURIO: (Ora mi avvicino, le rivolgo la parola e cerco di far fare bella figura a mio padre). [Ad Alcmena :] Perbacco, credo che mai nessun mortale abbia amato così svisceratamente sua moglie, come tuo marito te. GIOVE: Boia, credi che io non sappia chi sei? Non ti allontani dalla mia presenza? Che t’impicci di queste faccende, pendaglio da forca, e ci dai fiato? Ma ecco che con questo bastone… ALCMENA: Férmati, per carità. GIOVE: Provati a fiatare! MERCURIO: (Come ruffiano si comincia male). GIOVE: Quanto a quel che dici, moglie mia, non è giusto che tu mi rimproveri. Di nascosto me la sono svignata dal campo: ho sottratto per te questo tempo ai miei doveri, perché tu fossi la prima a conoscere ed io a riferire come ho compiuto il mio dovere verso lo Stato. Ti ho raccontato tutto per filo e per segno. Se non ti amassi alla follia, non l’avrei fatto. MERCURIO [agli spettatori]: (Non si comporta come vi ho detto? Le allevia il cruccio con le moine). GIOVE: Ora, perché l’esercito non ne abbia sentore, debbo tornare laggiù di nascosto; se no diranno che io ho anteposto mia moglie allo Stato. ALCMENA: Partendo lasci tua moglie a piangere. GIOVE: Taci: non ti sciupare gli occhi: tornerò subito. ALCMENA: Questo «subito» è lungo ad arrivare. GIOVE: Non ti lascio, non me ne vado per mio piacere. ALCMENA: Lo vedo: te ne vai la stessa notte che sei venuto! GIOVE: Perché mi rattieni? È tempo; voglio uscire dalla città prima che sia giorno. Ora, ecco questa pàtera: mi è stata data lì in premio del valore, è quella in cui beveva il re Ptèrela, ucciso personalmente da me: Alcmena, te la dono. ALCMENA: Sei sempre tu. Per gli dèi, è un dono degno di chi lo fa. MERCURIO: Al contrario, è un dono degno di chi lo riceve. GIOVE: Ricominci? E non sai che posso rovinarti, delinquente? ALCMENA: Anfitrione, amor mio, non ti adirare con Sosia per causa mia. GIOVE: Obbedisco. MERCURIO: (Quando ha fatto all’amore, non ci si ragiona!). GIOVE: Che cosa mi comandi? ALCMENA: Di volermi bene, mentre stai lontano, perché anche se non ci sei, son sempre tua. MERCURIO: Andiamo, Anfitrione: è giorno ormai. GIOVE: Va’ avanti, Sosia: ti seguirò fra poco. [Mercurio esce.] [Ad Alcmena:] E non mi comandi altro? ALCMENA: Sì, un’altra cosa ancora: ritorna subito. GIOVE: Vedrai: sarò qui prima di quanto credi: fatti coraggio. [Alcmena esce.] O notte, che mi hai atteso, ora ti congedo: fa’ posto al giorno, che possa illuminare i mortali con la sua luce chiara e candida. E quanto tu, o notte, sei stata più lunga della precedente, tanto più breve farò che sia questo giorno. Così i due squilibri si compenseranno. Su, sorga il giorno dalla notte. Andiamo a raggiungere Mercurio. [Fine del primo atto]

ATTO SECONDO

Anfitrione, Sosia ANFITRIONE: Su, seguimi. SOSIA: Ti seguo, ti seguo. ANFITRIONE: Mascalzone. SOSIA: Perché? ANFITRIONE: Perché mi spiattelli cose che non stanno né in cielo né in terra. SOSIA: Per Diana, fai come al solito, non vuoi aver nessuna fiducia nei tuoi servi. ANFITRIONE: E che? Come posso crederti? Anzi ti taglierò questa sporca lingua, sporcaccione. SOSIA: Ti appartengo: perciò fa’ di me quello che vuoi. Però in nessun modo mi puoi vietare di riferirti le cose proprio come sono accadute. ANFITRIONE: Carogna, osi asserirmi che stai a casa, mentre sei qui? SOSIA: È la verità. ANFITRIONE: Ti diano il malanno gli dèi come te lo darò io oggi. SOSIA: Questo dipende da te: te l’ho detto, ti appartengo. ANFITRIONE: Tu, schiena da nerbate, osi prendere in giro me, il tuo padrone? Tu osi dire ciò che nessuno prima d’ora ha visto e che non può essere,

cioè che in un medesimo momento uno si trovi in due posti diversi? SOSIA: Certo la cosa è come te la dico. ANFITRIONE: Giove ti fulmini. SOSIA: Che male mi sono meritato, padrone, da parte tua? ANFITRIONE: E me lo domandi, canaglia, che ti fai gioco di me? SOSIA: Meritamente mi malmeneresti, se le cose stessero così. Ma io dico la verità, racconto le cose proprio come sono andate. ANFITRIONE: Questo qui è sbronzo: non c’è altro da pensare. SOSIA: Volesse il cielo che lo fossi! ANFITRIONE: Ti auguri quello ch’è già avvenuto. SOSIA: Io? ANFITRIONE: Sì, proprio tu: dove hai bevuto? SOSIA: In nessun posto, te lo giuro. ANFITRIONE: Ma che uomo sei? SOSIA: Te l’ho detto già dieci volte: io sto a casa, mi senti?, eppure io, Sosia, la stessa persona, sto qui accanto a te. Ora, padrone, ti

pare che io abbia parlato proprio chiaro? ANFITRIONE: Puh! Via da me! SOSIA: Che ti prende? ANFITRIONE: Hai qualche brutta malattia. SOSIA: Ma perché dici questo? Io sto bene, mi sento perfettamente a posto, Anfitrione. ANFITRIONE: Ma io oggi, per ricompensarti, ti farò star meno bene, anzi proprio male, se mi riuscirà di tornare a casa. Seguimi, su, tu che burli il padrone con discorsi da pazzo, tu, che, siccome hai trascurato gli ordini del padrone, ora vieni addirittura a prenderlo in giro. Mi spiattelli ciò ch’è impossibile e inaudito: ma oggi ti farò piombare sulla schiena queste bugie. SOSIA: Anfitrione, la più sciagurata delle sciagure per un buon servo, che dice la verità al padrone, è di vedere la verità vinta dalla violenza. ANFITRIONE: Ma ragiona: in che modo può essere che tu ora stia qui e a casa nello stesso tempo? Questo vorrei che mi spiegassi. SOSIA: Eppure è certo: io sto qui e lì. Sì, fa meraviglia a tutti, e a me non meno che a te, questa meraviglia. ANFITRIONE: Ma come? SOSIA: Ti ripeto: a me non sembra meno strano che a te: in nome di Dio, da principio non credevo a Sosia, a me stesso, finché quell’altro Sosia, io stesso, non m’ha costretto a credergli. Mi raccontò per filo e per segno tutto quello ch’è accaduto, mentre eravamo in battaglia: allora certamente mi ha portato via la figura e il nome. Due gocce di latte non sono più simili fra loro, quanto quell’altro io è simile a me. Quando, poco fa, prima dell’alba, mi hai mandato a casa in anticipo… ANFITRIONE: Ebbene? SOSIA: …io stavo sulla soglia molto prima d’esservi giunto. ANFITRIONE: Ma per carità, che sciocchezze vai dicendo? Ma sei in te? SOSIA: Sono come mi vedi. ANFITRIONE: A costui è stata fatta qualche fattura da una trista fattucchiera, quando s’è allontanato da me. SOSIA: E questo è vero: perché mi hanno sfatto a forza di pugni. ANFITRIONE: Chi te le ha date? SOSIA: Io stesso, io che sto a casa. ANFITRIONE: Guai a te se non rispondi esattamente a ciò che ti chiedo! Anzitutto, chi è questo Sosia? SOSIA: Il tuo servo. ANFITRIONE: Di Sosia ce ne ho già abbastanza avendo te. E, da quando son nato, non ho avuto altri schiavi di nome Sosia, all’infuori di te. SOSIA: Ma ora ascoltami, Anfitrione: ti dico che al tuo arrivo in casa ti farò incontrare un altro Sosia oltre me, figlio di Davo come me, con lo stesso aspetto mio, della mia stessa età. Che ho da dirti di più? Questo Sosia che hai davanti ti si è raddoppiato. ANFITRIONE: Dici cose da far sbalordire. Ma hai visto mia moglie? SOSIA: Che, che! Non mi è stato mai permesso di mettere il piede là dentro. ANFITRIONE: Chi te l’ha impedito? SOSIA: Quel Sosia di cui ti sto parlando da un secolo, quello che mi ha pestato.

ANFITRIONE: Ma chi è questo Sosia? SOSIA: Ma io! Quante volte te lo debbo dire? ANFITRIONE: Ma che dici? Ti sei addormentato allora? SOSIA: Neanche per sogno. ANFITRIONE: Eh sì! L’avrai proprio visto in sogno questo signor Sosia. SOSIA: Quando mi tocca eseguire gli ordini del padrone, non ho l’abitudine di

addormentarmi. Ero sveglio quando l’ho visto, come sono sveglio ora che ti vedo e ti parlo; ed ero sveglio allora che quello, sveglio pure lui, mi acciaccò a forza di pugni. ANFITRIONE: Ma chi? SOSIA: Sosia, insomma, io stesso. Ma dunque non capisci? ANFITRIONE: Maledizione, ma chi potrebbe capirti? Le spari così grosse! SOSIA: Conoscerai subito la verità quando conoscerai quel servo Sosia. ANFITRIONE: Insomma, seguimi da questa parte; è necessario che qui ci veda chiaro, e subito. Ma bada che si porti qua dalla nave tutto quello che ho ordinato. SOSIA: Sai che ho buona memoria e non mi do pace finché non si trovi a posto tutto ciò che ordini. Il tuo comando non mi è sceso più nella pancia insieme col vino.11 ANFITRIONE: Volesse il cielo che la realtà sbugiardasse le tue parole!

Alcmena, Anfitrione, Sosia ALCMENA [fra sé]: Piccola cosa nella vita è il piacere a confronto dei

crucci. Questo è il destino di ogni uomo: così han voluto gli dèi, che la mestizia fosse l’inseparabile compagna del piacere: anzi, se ci è toccata in sorte un po’ di felicità, subito le si affiancano di regola un fastidio e una sfortuna più grandi. Ne faccio esperienza, ora, io qui in casa e proprio nei miei riguardi: mi è stato concesso di godere per un po’, finché ho avuto la possibilità di vedere mio marito, ma per una notte soltanto: e lui s’è separato all’improvviso da me, prima dell’alba. Ora mi par d’essere sola, perché non c’è lui che amo più di ogni altra cosa al mondo. Ho avuto più amarezza per la sua partenza che non piacere per il suo arrivo: ma almeno questo mi fa felice, che ha vinto i nemici ed è tornato glorioso in patria: questo mi consola. Stia pure lontano, purché ritorni a casa con un serto di gloria: sopporterò e soffrirò costantemente la sua lontananza con coraggio e tenacia; se per ricompensa mi sarà concesso che il nome di mio marito risuoni quale vincitore della guerra, sarò soddisfatta. Il valore è la massima ricompensa; il valore certo va avanti a tutti gli altri meriti. La libertà, la sicurezza, la vita, i beni e la famiglia, la patria e i figli dal valore sono protetti e garantiti. Il valore ha tutto in sé, il valoroso è padrone di tutto. ANFITRIONE [a Sosia]: Perbacco, credo che mia moglie desideri ardentemente di vedermi tornare a casa. Mi ama e io la ricambio di uguale amore. E poi ora l’impresa ha avuto esito felice, i nemici sono stati vinti. Nessuno credeva che li si potesse vincere, e invece sotto la mia direzione e il mio comando li abbiamo vinti al primo scontro. Dunque sono sicuro che il mio arrivo lei lo desidera ardentemente. SOSIA: E tu non credi che anche il mio arrivo non sia aspettato dalla mia bella? ALCMENA [fra sé]: Ma quello è mio marito! ANFITRIONE [a Sosia]: Seguimi per di qua. ALCMENA [fra sé]: E come mai ritorna, mentre poco fa diceva di aver fretta d’andarsene? O forse vuol mettermi sottilmente alla prova, per sincerarsi se io m’affliggo della sua partenza? Ah, ma certo non mi fa dispiacere se torna a casa! SOSIA: Anfitrione, è meglio che torniamo alla nave. ANFITRIONE: Per quale ragione? SOSIA: Perché a casa nessuno ci farà trovar da mangiare al nostro arrivo. ANFITRIONE: E come ti viene in mente, ora, quest’idea? SOSIA: Perché arriviamo troppo tardi. ANFITRIONE: E come? SOSIA: Perché scorgo Alcmena davanti alla soglia, con la pancia piena. ANFITRIONE: Quando son partito, l’ho lasciata qui gravida. SOSIA: Ahi, povero me, son morto! ANFITRIONE: Che ti piglia? SOSIA: Sono tornato appunto per fornire l’acqua,12 giusto al nono mese, come capisco dal conto che fai. ANFITRIONE: Coraggio! SOSIA: Vuoi conoscere il mio coraggio? Perbacco, quando avrò preso il secchio, non presterai più fede ai miei giuramenti d’ora in poi, se, una volta cominciato, non caverò fuori tutta l’anima a quel pozzo. ANFITRIONE: Per ora seguimi. Quest’incombenza l’appiccicherò a un altro: non temere. ALCMENA: (Credo che farò meglio il mio dovere andandogli incontro). ANFITRIONE [ad Alcmena ]: Anfitrione lieto saluta la sua desiderata consorte, che giudica la migliore di tutte le donne di Tebe, e che tanto anche i Tebani decantano come virtuosa. Sei stata sempre bene? Desideravi il mio arrivo? SOSIA [a parte]: Non ne ho mai visto uno più desiderato! Questo desiderato lei non lo saluta meglio di un cane. ANFITRIONE: E godo di vedere che la tua gravidanza procede bene. ALCMENA: Ti scongiuro, per gli dèi, perché vuoi prenderti gioco di me? Mi saluti e mi apostrofi come se non mi avessi visto poco fa, come se soltanto ora tu ritornassi a casa dalla guerra! Mi ti rivolgi così, ora, come se non m’avessi vista da un pezzo. ANFITRIONE: Ma io non ti ho mai vista prima d’ora! ALCMENA: Perché neghi? ANFITRIONE: Perché ho imparato a dire la verità. ALCMENA: Non agisce bene chi disimpara ciò che ha imparato. O volete mettere alla prova ciò che ho nel cuore? Ma piuttosto voi perché siete ritornati così presto? Forse ti ha trattenuto un auspicio avverso, o il cattivo tempo, che non sei tornato al campo, come mi avevi detto proprio tu poco fa? ANFITRIONE: Poco fa? Che roba è questo poco fa? ALCMENA: Proprio mi vuoi cimentare: poco fa, da qualche ora. ANFITRIONE: Ma com’è possibile, ti prego, quello che dici: poco fa, da qualche ora? ALCMENA: Ma che hai in testa? Che io ti burli, mentre sei tu a burlarmi, tu che dici d’essere arrivato ora per la prima volta, e invece te ne sei andato

di qui poco fa? ANFITRIONE: Costei certo ha il delirio! SOSIA: Aspetta un po’, lascia che finisca sul serio di dormire. ANFITRIONE: Ma se sogna ad occhi aperti! ALCMENA: Santi numi, sono ben desta, e proprio perché lo sono, racconto ciò ch’è stato: poco fa, avanti l’alba, ho veduto costui e te. ANFITRIONE: Dove? ALCMENA: Qui in casa, nella tua casa. ANFITRIONE: Ma questo non è successo! SOSIA: Zitto! E se la nave ci avesse scaricati qua dal porto mentre dormivamo? ANFITRIONE: Anche tu l’assecondi? SOSIA: Che vuoi farci? Non sai che se vuoi contrastare una Baccante in delirio, da pazza che è la rendi più pazza ancora, e ti colpirà

più fitto? Se l’assecondi, puoi rimediare a tutto in un botto solo. ANFITRIONE: Ah no! Debbo strigliarla. Come! Non mi ha voluto dare il benvenuto ora che son tornato a casa! SOSIA: Susciterai un vespaio. ANFITRIONE: Zitto! Alcmena, ti voglio fare una sola domanda. ALCMENA: Chiedi quello che vuoi. ANFITRIONE: Sei impazzita o vuoi far l’orgogliosa? ALCMENA: Ma come t’è potuto venire in mente di fare una simile domanda, marito mio? ANFITRIONE: Perché prima d’ora solevi darmi il benvenuto al mio arrivo e chiamarmi per nome, come soglion fare coi loro mariti le mogli per bene. Arrivando qua ho trovato che hai perso quest’abitudine. ALCMENA: Certo, ieri, quando sei arrivato, il benvenuto te l’ho dato subito e ti ho chiesto se fossi stato sempre bene, marito mio, e ti ho preso la mano e ti ho baciato. SOSIA: Tu ieri gli hai dato il benvenuto? ALCMENA: E anche a te, Sosia. SOSIA: Anfitrione, ho sperato che costei ti avrebbe partorito un figlio. Ma non ha un bimbo nella pancia. ANFITRIONE: E che cosa, allora? SOSIA: Pazzia. ALCMENA: Ma io ho il cervello a posto, e prego gli dèi di poter partorire nelle migliori condizioni. [A Sosia :] Ma tu avrai sorbe serie, se costui conosce il suo dovere: per questo malaugurio, iettatore, avrai il castigo che meriti. SOSIA: Ma certo, proprio a una donna incinta, invece, occorre dare una sorba,13 perché abbia qualcosa da mordere se comincia a star male. ANFITRIONE: Tu ieri mi hai visto qui? ALCMENA: Sì, io, se vuoi che lo ripeta dieci volte. ANFITRIONE: In sogno forse? ALCMENA: No, ero sveglia e tu pure lo eri. ANFITRIONE: Sciagurato me! SOSIA: Che ti prende? ANFITRIONE: Mia moglie è impazzita. SOSIA: Forse è travagliata dalla bile: nient’altro può spingere così presto un uomo al delirio. ANFITRIONE: Quand’è, donna, che hai cominciato a sentirti male? ALCMENA: Ti ripeto e ti giuro che sono perfettamente in sesto. ANFITRIONE: Ma allora perché asserisci di avermi visto ieri, mentre noi siamo arrivati al porto stanotte? Lì ho cenato, lì ho dormito sulla nave tutta la notte e non ho ancora rimesso piede in casa dal giorno in cui son partito di qui con l’esercito contro i Telèboi e verso la vittoria. ALCMENA: No, tu hai cenato con me e sei venuto a letto con me. ANFITRIONE: Come?! ALCMENA: È la verità. ANFITRIONE: Certo, non su questo: quanto al resto non lo so. ALCMENA: Te ne sei tornato al campo sul far dell’alba. ANFITRIONE: Come? SOSIA [ad Anfitrione]: Ti racconta il vero secondo come lo ricorda: perché ti sta raccontando un sogno. [ Ad Alcmena :] Ma tu, donna, dopo esserti svegliata, dovevi pregare Giove che allontana il malaugurio, offrendogli farina salata o incenso. ALCMENA: Guai a te! SOSIA: A te piuttosto… sì, insomma, tocca a te di pensarci. ALCMENA: Questo briccone mi manca di rispetto per la seconda volta, e impunemente. ANFITRIONE [a Sosia]: Tu sta’ zitto. [Ad Alcmena:] E tu dimmi: io mi son congedato oggi da te alle prime luci dell’alba? ALCMENA: E chi, se non voi, mi ha narrato come si è svolta la battaglia laggiù? ANFITRIONE Ah, sai anche questo? ALCMENA: Ma certo: ho ascoltato da te come hai espugnato quella potentissima città e hai ucciso di tua mano il re Ptèrela. ANFITRIONE: lo ti ho detto questo? ALCMENA: Tu, certo, e alla presenza di questo caro Sosia. ANFITRIONE [a Sosia]: Tu oggi mi hai udito narrare queste imprese? SOSIA: Dove avrei dovuto udirlo? ANFITRIONE: Domandalo a lei. SOSIA: Alla mia presenza, certo, no, per quel che posso sapere. ALCMENA: Sarebbe bello che ti contraddicesse! ANFITRIONE: Sosia, su, guardami. SOSIA: Ti guardo. ANFITRIONE: Ti ordino di dire la verità, non devi dire bugie per compiacermi. Mi hai udito oggi raccontarle ciò che lei riferisce? SOSIA: Ma perdio, forse sei impazzito anche tu, a farmi queste domande? Non rivedo ora costei per la prima volta, insieme con te? ANFITRIONE: Che hai da dire, ora, moglie? Lo senti?

ALCMENA: Sì, lo sento che dice il falso. ANFITRIONE: Non vuoi credere né a lui né a me che sono tuo marito? ALCMENA: Ma è che credo di più a me stessa e so che le cose sono avvenute proprio come ti ho detto. ANFITRIONE: Tu asserisci che io sono arrivato ieri? ALCMENA: E tu neghi d’essere andato via di qui oggi? ANFITRIONE: Certo che lo nego, e confermo che torno ora per la prima volta a casa, da te. ALCMENA: Di grazia, negherai anche questo, di avermi dato oggi in dono la coppa d’oro che dicesti t’era stata regalata laggiù? ANFITRIONE: Perdio, non ti ho regalato e non ti ho detto niente: ne avevo l’intenzione (e ce l’ho tuttora) di regalarti quella coppa. Ma questo chi

te l’ha

detto? ALCMENA: Ma santo Dio, l’ho udito da te e ho ricevuto la coppa dalle tue mani. ANFITRIONE: Un momento, un momento, ti prego. Sono sbalordito, Sosia, che

lei sappia ch’io sono stato premiato lì con una coppa d’oro, a meno che tu non sia già venuto a trovarla e non le abbia raccontato tutto. SOSIA: Ti giuro che non ho detto nulla e non ho visto costei se non ora con te. ANFITRIONE: E chi mai sarà stato? ALCMENA: Vuoi che ti faccia portare la coppa? ANFITRIONE: Sì. ALCMENA: Va bene. [Alla schiava che l’accompagna:] Tessala, va’ dentro, porta qua la coppa che mio marito m’ha regalata oggi. ANFITRIONE: Sosia, tu avvicinati. Sarebbe certo la cosa più straordinariamente singolare se lei ce l’avesse. SOSIA: E puoi crederlo, se la coppa si trova in questa cassetta, segnata col tuo sigillo? ANFITRIONE: Il sigillo è intatto? SOSIA: Verifica. ANFITRIONE: Bene: è proprio come l’ho impresso. SOSIA: E allora, ti prego, perché non fai esorcizzare costei come indemoniata? ANFITRIONE: Perbacco, ce n’è proprio bisogno: è proprio invasata da spiriti maligni. ALCMENA [dopo che Tessala è tornata con la coppa]: Che bisogno c’è di parole? Ecco la coppa, guardala. ANFITRIONE: Da’ qua. ALCMENA: Su, guarda qua ora, tu che neghi la luce del sole: voglio metterti con le spalle al muro. È o non è questa la coppa che t’hanno regalata laggiù? ANFITRIONE: Sommo Giove, che vedo? È proprio questa la coppa. Sosia, son morto. SOSIA: O questa donna è la più illustre illusionista del mondo o la coppa deve stare qui dentro. ANFITRIONE: Su, su, apri la cassetta. SOSIA: E perché debbo aprirla? È sigillata a dovere. Ah, siamo proprio combinati bene! Tu hai partorito un altro Anfitrione, io ho partorito un altro Sosia: ora, se anche la coppa ha partorito un’altra coppa, ci siamo raddoppiati tutti. ANFITRIONE: Apri, ti dico, e guarda. SOSIA: Ti prego, guarda come sta il sigillo, perché poi non vorrei che tu dessi la colpa a me. ANFITRIONE: Su, apri: ché costei con le sue parole ci sta facendo diventar matti. ALCMENA: Ma da che parte mi deve essere venuta questa coppa se non da te, che me l’hai regalata? ANFITRIONE: Io ho bisogno di vederci chiaro. SOSIA: Giove, Giove santissimo! ANFITRIONE: Che ti piglia? SOSIA: Qui nella cassetta non c’è nessuna coppa. ANFITRIONE: Che mi tocca sentire? SOSIA: La verità. ANFITRIONE: Ma ti costerà la tortura, se la coppa non vien fuori. ALCMENA: Ma è già fuori, è qui. ANFITRIONE: Chi te l’ha data? ALCMENA: Colui che me lo domanda. SOSIA [ad Anfitrione ]: Tu vuoi farti gioco di me: mi hai preceduto qui di nascosto per un’altra strada, hai cavato la coppa di qui dentro e gliel’hai regalata, e poi hai sigillato di nuovo la cassetta, sempre di nascosto. ANFITRIONE: Ohé, anche tu ora ti metti a favorire la pazzia sua? [Ad Alcmena:] Affermi che noi siamo venuti qua ieri? ALCMENA: Lo affermo, e che tu, appena giunto, mi hai salutato, ed io te, e ti ho dato un bacio. ANFITRIONE: Quel bacio tanto per cominciare, proprio non mi piace. Su, continua. ALCMENA: Hai fatto il bagno. ANFITRIONE: E dopo aver fatto il bagno? ALCMENA: Ti sei adagiato a tavola. SOSIA: Bene, benissimo! Ora continua a domandare. ANFITRIONE: Non interrompere. [Ad Alcmena:] Su, su, continua. ALCMENA: È stata servita la cena: hai cenato con me: io mi sono adagiata con te. ANFITRIONE: Sul medesimo letto? ALCMENA: Sì. SOSIA: Oh, oh! Il banchetto non mi piace. ANFITRIONE: Lasciale riferire i fatti. [Ad Alcmena:] E dopo aver cenato? ALCMENA: Dicevi di cascare dal sonno; la tavola fu sparecchiata: andammo a dormire. ANFITRIONE: Dove ti sei coricata? ALCMENA: Insieme con te, nel nostro letto, nella nostra stanza. ANFITRIONE: Mi hai ammazzato! SOSIA: Che ti succede? ANFITRIONE: Costei ora mi ha dato la morte. ALCMENA: E perché, di grazia?

ANFITRIONE: Non mi rivolgere la parola. SOSIA: Che ti succede? ANFITRIONE: Misero me, sono morto, perché, durante la mia assenza, la sua onestà è stata contaminata. ALCMENA: Per l’amor di Dio, perché debbo sentire queste parole dalla tua bocca, marito mio? ANFITRIONE: Io tuo marito, io tuo uomo? Non mi chiamare con un nome bugiardo, bugiarda. SOSIA: L’affare s’ingrossa, se costui, da uomo che era, è diventato donna. ALCMENA: Che ho fatto per meritare queste parole da te? ANFITRIONE: Tu stai esponendo le tue prodezze, e mi domandi quali sono le tue colpe? ALCMENA: Che colpa ho commessa se sono stata con te, che sei mio marito? ANFITRIONE: Tu sei stata con me? C’è una sfacciata peggiore di questa? Se hai perduto il pudore, cerca almeno di prenderlo a prestito. ALCMENA: Nella mia famiglia colpe come questa che insinui non sono di moda. Se cerchi di accusarmi di disonestà, mi accusi a torto. ANFITRIONE: Per tutti gli dèi: almeno tu mi conosci, vero, Sosia? SOSIA: Un pochino. ANFITRIONE: È vero che ho cenato ieri sulla nave nel porto Persico? ALCMENA: Anch’io ho testimoni che potrebbero confermare le mie parole. SOSIA: Non so che pensare di quest’imbroglio, a meno che non ci sia un altro Anfitrione che in tua assenza amministri gli affari tuoi e in tua assenza

compia le tue funzioni. Ché, se c’è da strabiliare per quell’altro Sosia, certo c’è da… strastrabiliare per quest’altro Anfitrione. ANFITRIONE: Qualche stregone deve avermela fatturata. ALCMENA: Giuro per il regno del sommo re e per Giunone, protettrice

delle famiglie (che debbo rispettare e temere più di tutto), che nessun uomo, all’infuori di te, ha avuto commercio carnale con me e mi ha contaminata. ANFITRIONE: Vorrei che fosse vero. ALCMENA: Dico la verità, ma inutilmente, perché tu non mi credi. ANFITRIONE: Sei donna e perciò spergiuri intrepidamente. ALCMENA: Chi non ha colpa non deve aver paura e può parlare con franchezza e a testa alta. ANFITRIONE: Ma tu parli troppo arditamente. ALCMENA: Com’è diritto di una donna onesta. ANFITRIONE: Lo sei a parole. ALCMENA: Io non ritengo per me vera dote quella che si suol chiamare dote, ma il pudore, la castità, la padronanza degl’istinti, il timor di Dio, l’amore per i familiari, il buon accordo con tutti quelli di casa, essere ubbidiente a te, benefica verso le persone per bene, caritatevole per tutti i galantuomini. SOSIA: Caspita, costei, se dice la verità, è perfetta a regola d’arte! ANFITRIONE: Mi ha talmente raggirato che non so più io stesso chi sono. SOSIA: Sei Anfitrione, certamente; ma bada di non perdere il possesso di te medesimo, perché qui, da quando siam tornati, gli uomini si cambiano. ANFITRIONE: Donna, è mio volere irrevocabile non lasciare all’oscuro la faccenda. ALCMENA: E se decidi così, mi fai un piacere. ANFITRIONE: Ora, guarda, rispondimi: e se conduco qua dalla nave tuo cugino Naucrate, che ha fatto il viaggio con me; e se lui smentisce i fatti che, secondo te, sono accaduti, che pena pensi sia giusto farti scontare? Forse faresti qualche opposizione all’annullamento del matrimonio? ALCMENA: Se sono in colpa, nessuna opposizione. ANFITRIONE: Siamo intesi. Tu, Sosia, conduci dentro costoro. Io vado a prendere Naucrate alla nave. [Esce.] SOSIA [ad Alcmena]: Ora non c’è nessuno all’infuori di noi due; dimmi la verità vera; c’è forse in casa un altro Sosia che mi rassomigli? ALCMENA: Te ne vuoi andare via da me, una buona volta, servo degno del tuo padrone? SOSIA: Se me l’ordini, me ne vado. [Esce.] ALCMENA: È una cosa sbalorditiva come a mio marito sia venuta voglia d’imputarmi ingiustamente un così grave reato. Ma, comunque stiano le cose, presto saprò la verità da mio cugino Naucrate. [Fine del secondo atto]

ATTO TERZO

Giove GIOVE:

Io sono quell’Anfitrione che ha per servo quello stesso Sosia che ridiventa Mercurio, quand’è opportuno: abito lassù, al piano superiore [accenna al cielo] e ogni tanto, quando mi garba, ridivento Giove. Ma appena degno della mia presenza questi luoghi, subito divento Anfitrione e mi cambio d’abito. Ora son venuto qua per farvi un favore, per non lasciare questa commedia a mezzo. E poi son venuto anche a recare aiuto ad Alcmena, che Anfitrione, il marito, accusa di indegnità, mentre lei è innocente. Ché sarei colpevole se il peccato che ho commesso io ricadesse su Alcmena che non ha colpa. Ora, come ho già fatto altre volte, mi camufferò da Anfitrione e getterò il più grande scompiglio in questa casa. Poi, all’ultimo, farò che la faccenda venga in chiaro e al momento giusto soccorrerò Alcmena in maniera che a un punto solo dia alla luce senza dolore il figlio che ha concepito con suo marito e quello che ha concepito con me. Ho ingiunto a Mercurio di raggiungermi all’istante, per essere pronto ai miei comandi. Intanto mi rivolgerò alla donna.

Alcmena, Giove ALCMENA: Non mi

sento di restare più a lungo in questa casa. Essere accusata da mio marito d’indegnità, di adulterio, di condotta immorale! Strilla che non son veri i fatti che invece sono accaduti e mi rinfaccia quelli che non sono accaduti e di cui non sono colpevole; e poi s’illude che a me questo non faccia né caldo né freddo! Ah, no, non mi rassegnerò di sicuro e non tollererò d’essere ingiustamente accusata di disonestà: o lo abbandonerò o esigerò soddisfazione; e per giunta dovrà attestare con giuramento il suo rammarico per gl’insulti che ha scagliati contro me innocente. GIOVE: Debbo proprio fare quello che lei esige, se voglio ch’essa acconsenta a rifare all’amore con me. Quello che ho fatto, quella marachella, insomma, ha dato ombra ad Anfitrione e poco fa il mio amore ha procurato fastidi a lei innocente; ora, in cambio, l’ira del marito e le sue parolacce contro di lei ricadranno su me innocente. ALCMENA: Ma ecco arrivare colui che, poveretta me, mi accusa di adulterio, d’infamia. GIOVE: Moglie mia, voglio parlare con te. Perché ti sei voltata dall’altra parte? ALCMENA: Son fatta così: non mi è andato mai a genio di guardare in faccia i miei nemici. GIOVE: Ih! addirittura nemici? ALCMENA: Proprio così, è la pura verità: a meno che tu non voglia insinuare che anche queste mie parole son false. GIOVE: Ti lasci trasportare troppo dall’ira. ALCMENA: Non puoi tenere le mani a posto? Ché certo, se tu avessi la testa a partito, non scambieresti parole né per ischerzo né sul serio con una donna che giudichi e proclami svergognata. Se lo fai, vuol dire che sei più pazzo di un pazzo furioso. GIOVE: Se anche l’ho detto, non è vero per niente, ed io non lo credo e son tornato apposta per scusarmi. Ché niente mai mi ha oppresso il cuore più che sentirti in collera con me. «Perché l’hai detto?», mi domanderai. Te lo spiegherò. Certo non perché potessi crederti disonesta, ma perché ho voluto mettere alla prova il tuo cuore, per vedere che cosa avresti fatto e in che modo lo avresti sopportato. Te lo giuro, quello che t’ho detto poco fa, l’ho detto per ischerzo, per farti una burla. Se vuoi, chiedilo a Sosia ch’è qui dentro. ALCMENA: Perché non hai condotto qua mio cugino Naucrate? Poco fa avevi detto di volerlo condurre a testimoniare che prima non eri venuto. GIOVE: Se ho detto qualcosa per ischerzo, non è giusto che tu lo prenda sul serio. ALCMENA: So io il dolore che hai provocato al mio cuore. GIOVE: Per la tua manina, Alcmena, ti prego e ti scongiuro, concedimi questo perdono, scusami, non stare più in collera. ALCMENA: Io queste tue parole le avevo già sbugiardate con la mia virtù. Ma siccome mi sono sempre astenuta da azioni disoneste, non voglio subire parole disonorevoli. Addio, tieni le cose tue e rendimi le mie. Non mi fai accompagnare? GIOVE: Ma sei impazzita? ALCMENA: Se non vuoi che mi si accompagni, me n’andrò via da sola: sarà mia compagna la dea Pudicizia. GIOVE: Fermati, giurerò, per tutto quello che vorrai, ch’io reputo mia moglie onesta. Se vengo meno al giuramento, allora, o sommo Giove, ti scongiuro di rovesciare in eterno la tua collera sul capo di… Anfitrione. ALCMENA: Ah, no, ti sia benigno, invece! GIOVE: Spero che lo sia: perché io qui, davanti a te, ho fatto un giuramento sincero. Ora non sei più in collera? ALCMENA: No. GIOVE: Bene. Nella vita di un uomo capitano molti casi di questo genere. Ci toccano piaceri e poi ci toccano sventure: sopraggiungono i litigi, poi si torna a farci buon viso. Ma se una volta fra due individui scoppia un litigio di questa fatta, se si fa la pace, si torna ad essere amici il doppio di prima. ALCMENA: Sarebbe stato meglio per te evitare di primo acchito le ingiurie. Ma poiché le ritiri, ci debbo passar sopra. GIOVE: Fammi apparecchiare i vasi sacri. Così potrò sciogliere tutti i voti che ho fatti al campo per ottenere di tornare a casa sano e salvo. ALCMENA: Questo sarà mia cura. GIOVE [ai servi]: Fate venire qua fuori Sosia, perché inviti a colazione con noi Blefarone, il pilota della mia nave. (Rimarrà con un palmo di naso e si scorderà la colazione, quando mi vedrà trascinare fuori di qui Anfitrione per il collo). ALCMENA [fra sé]: Che diavolo bisbiglia in segreto fra sé? Ma s’apre la porta: ecco Sosia.

Sosia, Giove, Alcmena SOSIA: Eccomi, Anfitrione: se c’è da fare qualcosa, comanda ed io obbedirò. GIOVE: Oh, Sosia, vieni proprio a punto. SOSIA: Avete già fatto la pace? Già, vi vedo sereni, e ne godo, sì, ne ho piacere. E

mi sembra giusto che un servo ben costumato si comporti così: come sono i padroni, deve essere anche lui; deve atteggiare il volto sul volto loro: triste se i padroni sono tristi, allegro se sono allegri. Su, rispondimi: avete già fatto la pace?

GIOVE: Tu vuoi scherzare, mentre sai che poco fa ho parlato per burla. SOSIA: Hai parlato per burla? E io che avevo creduto che avessi parlato proprio sul serio! GIOVE: Ho presentato le mie scuse: la pace è fatta. SOSIA: Benissimo. GIOVE: Ora compirò qui dentro i sacrifici, scioglierò il voto che ho fatto. SOSIA: Va bene. GIOVE: Tu invita qua a nome mio il pilota Blefarone, perché, dopo il sacrificio, stia a colazione con me. SOSIA: Sarò di ritorno mentre crederai ancora ch’io sia laggiù. GIOVE: Torna subito.

[Sosia esce.] ALCMENA: Vuoi intanto ch’io mi ritiri per preparare il necessario? GIOVE: Sì, va’ pure e bada che tutto sia pronto. ALCMENA: Perché non entri quando vuoi? Farò preparare subito tutto. GIOVE: Parli bene e proprio come si conviene a una brava moglie.

[Alcmena esce.] Ecco, ora son due ad essere raggirati, il servo e la padrona, che mi credono Anfitrione: e sbagliano di grosso. Ora tu, o Sosia divino, vedi di aiutarmi. Tu odi le mie parole anche se non sei presente. Fa’ di tener lontano da casa Anfitrione, quando verrà: inventa quello che vuoi per riuscirvi. Voglio che sia tenuto a bada, mentre me la godo con questa moglie in usufrutto. Provvedi tu a tutto, proprio come sai che voglio io, assistimi mentre io sacrifico a me stesso. [Entra in casa.]

Mercurio MERCURIO:

Cedetemi il passo e fate largo, tutti, sgombrate la strada! Non ci sia uomo così audace da sbarrarmi il cammino. E perbacco, far la voce grossa con la folla dovrebbe essere meno lecito a me che sono un dio che a un qualsiasi schiavo da commedia? Uno di questi corre ad annunziare che la nave è felicemente approdata o che arriva il vecchio14 in furore: io eseguo gli ordini di Giove, mi precipito qua per suo volere. Perciò è più giusto che si sgombri la strada dinanzi a me. Mio padre mi chiama, io accorro, obbedisco ai suoi ordini. Come un buon figlio deve comportarsi verso suo padre, così mi comporto io col mio. Se è innamorato, gli tengo il sacco, lo stimolo, gli sto a fianco, lo consiglio, m’allieto dei suoi trionfi. Se mio padre gode di qualcosa, io godo immensamente del suo piacere. Fa all’amore? Vuol dire ch’è in gamba: fa bene a seguire il suo istinto. Tutti gli uomini debbono fare altrettanto, s’intende con gli occhi bene aperti. Ora mio padre vuole ch’io tenga a bada Anfitrione: lo farò a puntino. Spettatori, sarà preso in giro sotto i vostri occhi. M’infilerò in testa una corona,15 fingerò d’essere ubriaco, salirò lassù: di lì, stando in alto, potrò cacciarlo via benissimo, quando s’avvicinerà. Lo ubriacherò senza farlo bere. E dovrà pagarla subito Sosia, il servo suo, ch’egli accuserà di tutte le birbonate mie. A me che me n’importa? Io debbo pensare solo a far la volontà di mio padre; il mio dovere è assecondarlo nei suoi capricci. Ma ecco Anfitrione: sta arrivando. Lo prenderò in giro a dovere, se voi vorrete favorirmi con la vostra attenzione. Ora vo dentro e acchiappo la montura più conveniente; poi salgo sul tetto per sbarrargli il passo di lassù. [Entra in casa.]

Anfitrione ANFITRIONE: Naucrate, che

volevo incontrare, non era sulla nave; né a casa sua né in città son riuscito a trovare uno che l’abbia veduto. Eppure ho girato tutte le piazze, le palestre e le profumerie: ai magazzini, al mercato, agli allenamenti, al centro, nelle cliniche, dai barbieri, in tutti i templi mi sono sfiatato a cercarlo: Naucrate non si trova da nessuna parte. Ora andrò a casa e continuerò ad interrogare mia moglie per sapere chi è l’uomo per cui s’è coperta d’infamia. Preferisco morire anziché lasciare a mezzo quest’indagine. Ma la casa è chiusa. Di bene in meglio! Si procede come prima. Mi tocca bussare. Olà, aprite! Non c’è nessuno? Nessuno si decide ad aprire?

Mercurio, Anfitrione MERCURIO: Chi è? ANFITRIONE: Son io. MERCURIO: Chi io? ANFITRIONE: O bella! Io. MERCURIO: Certamente hai alle calcagna Giove e tutti gli dèi infuriati, per schiantare così la porta. ANFITRIONE: Come? MERCURIO: Come ci vuole per farti vivere eternamente da miserabile. ANFITRIONE: Sosia! MERCURIO: Sì, sono Sosia, non credere che me lo sia scordato. E tu che vuoi? ANFITRIONE: Mascalzone, hai anche il coraggio di chiedermi che voglio? MERCURIO: Certo che te lo domando: per poco non hai rotto i cardini della porta, cretino! Credevi che qui

ci si fornisca la porta a spese dello Stato? Che hai da guardarmi, imbecille? Che vuoi? Chi sei? ANFITRIONE: E mi domandi anche chi sono, avanzo di fruste, sepolcro di tutti i bastoni? E perdio, oggi, per queste parole, ti farò stridere la schiena con lo staffile. MERCURIO: Un tempo, nella tua giovinezza, devi aver avuto le mani bucate. ANFITRIONE: E perché? MERCURIO: Perché nella vecchiaia vieni a mendicare… rogna. ANFITRIONE: Ti stai preparando il supplizio con la tua bocca, boia. MERCURIO: Ma sono io che voglio offrirti un sacrificio. ANFITRIONE: Cioè? MERCURIO: Sì, perché ti farò omaggio di una strigliata. ANFITRIONE: Ma sarò io a farti omaggio di croce e chiodi, pendaglio da forca.16 ..................... .....................

[Fine del terzo atto]

FRAMMENTI

MERCURIO: Il padrone Anfitrione è occupato. MERCURIO: Ora è proprio il momento che te ne vada. MERCURIO: Ho proprio ragione di romperti sulla testa una pentola piena di cenere. MERCURIO: Non mi chiedere di versarti in testa un pitale pieno d’acqua. MERCURIO: Perbacco, sei indemoniato, poveraccio! Va’ a cercare un medico.

* ALCMENA: Avevi giurato che me l’avevi detto per ischerzo. ALCMENA: Ti supplico, fatti curare, perché il male ti prende: certo sei indemoniato o invasato. ALCMENA: Se le cose non sono andate proprio come dichiaro io, riconosco che tu puoi accusarmi giustamente di disonestà. ANFITRIONE: Lei, che in mia assenza, ha fatto commercio del suo corpo!

* ANFITRIONE [a Sosia]: Che cosa mi minacciavi di fare se io avessi insistito a bussare a questa porta? ANFITRIONE: Lì scaverai buche, e più di sessanta al giorno. ANFITRIONE [a Blefarone]: Non intercedere per questo furfante. BLEFARONE: Non ti sgolare. * GIOVE: Lo tengo per il collo questo ladro d’amore, colto in flagrante. ANFITRIONE: Io piuttosto, cittadini tebani, tengo colui che in casa mia mi ha avviluppato la moglie di abiezione, questo ricettacolo d’ignominia. ANFITRIONE: Non ti vergogni, mascalzone, di farti vedere in pubblico? ANFITRIONE: Di nascosto. * ANFITRIONE: (O GIOVE) [a Blefarone]: Tu che non sai distinguere chi di noi due è Anfitrione. ANFITRIONE: E che, non ti conosco, scribacchino di marina, miserabile capociurma?17

ATTO QUARTO

..................... .....................

Blefarone, Anfitrione, Giove BLEFARONE: Sbrigatevela tra di voi; io me ne vado: ho da fare. Però credo di non aver visto mai e poi mai un prodigio simile. ANFITRIONE: Blefarone, ti supplico, resta ad assistermi, non te n’andare. BLEFARONE: Addio. Come posso prestare la mia assistenza, se non so chi dei due debba assistere? [Parte.] GIOVE: (Io entro. Alcmena sta per partorire.) [Entra in casa.] ANFITRIONE: Povero me, sono rovinato! Che ho da fare, se gli amici mi abbandonano e mi negano l’assistenza? Ma perdio,

non sarà mai che costui, chiunque sia, si prenda gioco di me impunemente. Voglio recarmi difilato dal re 18 e riferirgli i fatti come sono andati. Oggi voglio proprio vendicarmi di questo stregone della Tessaglia, che ha fatto girar la testa terribilmente a tutta la mia casa. Ma dov’è? Perbacco, è andato dentro, da mia moglie, credo! C’è a Tebe uno più disgraziato di me? E ora che fare? Tutti mi rinnegano e mi beffano a loro piacimento. Ma ora ho deciso: entro in casa a viva forza e il primo uomo che mi capita a tiro, o schiava, o schiavo, o mia moglie, o il suo ganzo, o mio padre, o mio nonno, appena lo vedo, lo scanno sul posto. Neppure… Giove, neppure gli dèi tutti, anche se vorranno, riusciranno a proibirmelo. Via, subito, a casa! [Rimbomba il tuono di Giove; Anfitrione cade svenuto.]

[Fine del quarto atto]

ATTO QUINTO

Bromia, Anfitrione BROMIA: Le

speranze e le possibilità della mia vita sono infrante nel mio cuore e non v’è più fiducia che ormai io non abbia perduta. Si, perché mi sembra che tutto, mare, terra, cielo, mi corra appresso per schiacciarmi e sopprimermi. Me infelice! Non so che fare. Eh, sono accaduti così straordinari prodigi in casa! Oh, poveretta me! Mi sento morire, vorrei un po’ d’acqua; sono fiaccata, annichilita. Mi fa male la testa, non ci sento più, non ci vedo quasi più. Non c’è e non ci potrebbe essere donna più disgraziata di me. Che cosa è accaduto oggi alla mia padrona! Mentre aveva le doglie e invocava gli dèi, ecco un rimbombo, un fragore, un sibilo, un tuono; e che tuono improvviso, fulmineo, potente! Ognuno di noi, nel luogo stesso dove si trovava, cascò giù a quel frastuono; e in quel punto non so chi grida con una voce assordante: «Alcmena, ecco il soccorso per te, non temere. Giunge propizio a te e ai tuoi un abitatore del cielo». E poi: «Sorgete, voi che dinanzi al mio tremendo nume siete caduti per lo spavento». Com’ero caduta, così mi alzo; credetti che la casa andasse a fuoco, tale era il bagliore! E in questa, Alcmena si mette a chiamare a voce spiegata; ci mancava questo per riempirmi d’orrore! Ma la premura per la mia padrona prende il sopravvento: accorro per apprendere che cosa voglia e vedo che ha dato alla luce due gemelli, maschi. E nessuno di noi s’era accorto di nulla quand’essa aveva partorito, e nessuno l’aveva previsto… Ma che cos’è questo? Chi è questo vecchio che sta disteso così dinanzi a casa nostra? Sta’ a vedere che Giove l’ha folgoratol E lo credo, perbacco! È buttato per terra, quant’è vero Dio, come se fosse morto. Vediamo di riconoscerlo. Ma è Anfitrione, il mio padrone! Anfitrione! ANFITRIONE: Sono morto. BROMIA: Alzati. ANFITRIONE: Sono defunto. BROMIA: Dammi la mano. ANFITRIONE: Chi mi tiene? BROMIA: Bromia, la schiava tua. ANFITRIONE: Sono tutto un tremito: Giove deve avermi folgorato. È come se tornassi dall’Acheronte. Ma come mai sei uscita fuori? BROMIA: La medesima paura ci ha travolte in un impeto di terrore; ho visto prodigi troppo straordinari in casa tua. Povera me, Anfitrione! Anche adesso sono più morta che viva. ANFITRIONE: Su, ora sbrogliami questa faccenda: sei sicura ch’io sono Anfitrione, il tuo padrone? BROMIA: Certo. ANFITRIONE: Guardami bene. BROMIA: Ma certo, sei tu. ANFITRIONE: Questa è l’unica persona di casa che abbia la testa a posto. BROMIA: Ma ce l’hanno tutti, sta’ pur sicuro. ANFITRIONE: No, a me l’ha fatta perdere mia moglie con le sue porcherie. BROMIA: Ma io ti farò cambiare parere, Anfitrione, ti persuaderò che tua moglie è timorata e onesta. Te ne darò la prova in poche parole: prima di tutto Alcmena ha partorito due gemelli. ANFITRIONE: Che hai detto? due? BROMIA: Due. ANFITRIONE: Gli dèi mi sono propizi. BROMIA: Lasciami dire, e vedrai che a te e a tua moglie sono propizi proprio tutti gli dèi. ANFITRIONE: Parla. BROMIA: Oggi tua moglie, non appena le cominciò il travaglio e si fecero sentire le doglie, si mise ad invocare l’aiuto degli dèi come soglion fare le puerpere: s’era lavate le mani, s’era coperto il capo. Ed ecco, all’improvviso, un tuono con un fragore assordante. Lì per lì credevamo che la tua casa crollasse: riluceva tutta come se fosse d’oro. ANFITRIONE: Di grazia, sbrìgati, quando ne avrai abbastanza di menare il can per l’aia. E dopo? BROMIA: Mentre succedeva questo ben di Dio, nessuno di noi udì tua moglie gemere e lamentarsi; ha partorito proprio senza dolore. ANFITRIONE: Proprio ne godo, comunque lei abbia agito nei miei riguardi. BROMIA: Ma lascia perdere questi discorsi e stammi a sentire. Avvenuto il parto, ci ordinò di lavare i bambini. Ci mettemmo all’opera. Ma il bambino che ho lavato io com’era grosso e forzuto! Nessuno è stato capace di avvolgerlo nelle fasce. ANFITRIONE: Stai raccontando proprio dei prodigi; se questi fatti sono veri, non dubito più che mia moglie abbia ricevuto l’assistenza degli dèi. BROMIA: Ma ti farò strabiliare ancora di più. Appena lo abbiamo deposto nella culla, guizzano giù dal tetto nel cortile due serpenti 19 con la cresta, enormi. Appena sono a terra, sollevano il capo tutti e due. ANFITRIONE: Povero me! BROMIA: Niente paura. I serpenti girano lo sguardo tutto all’intorno. Scorti i bambini, scattano lesti verso la culla. Io mi precipito a trascinar la culla sempre più indietro, temendo per i bambini; ma avevo paura anche per me. E i serpenti sempre più accaniti ad inseguirci. Ma il bambino più grosso, non appena s’accorge dei serpenti, ratto sguscia via dalla culla e li affronta senz’altro; in un baleno ne acchiappa uno con una mano, l’altro con l’altra. ANFITRIONE: Che prodigio mi stai raccontando! Mette i brividi addosso! Povero me! Mi hai fatto venire la pelle d’oca! E poi ch’è successo? Su, parla. BROMIA Il bambino strozza tutti e due i serpenti. Nel frattempo una voce squillante chiama tua moglie. ANFITRIONE: La voce di chi? BROMIA: Del sommo re degli dèi e degli uomini, Giove. Dice di aver avuto rapporti con Alcmena di nascosto, e che quel bambino, che ha trionfato sui serpenti, è figlio suo; l’altro, dice, è figlio tuo. ANFITRIONE: Be’, non mi dispiace, se dei miei beni debbo fare a metà con Giove. Torna a casa, di’ che mi si preparino subito i vasi sacri, perché io possa riappacificarmi con Giove mediante un grosso sacrificio. Io intanto manderò a chiarnare l’indovino Tiresia 20 e lo consulterò sul da farsi, e

gli racconterò tutta la faccenda. Ma che succede? Che tuono potente! Dèi del cielo, proteggetemi!

Giove, Anfitrione GIOVE [forse nell’aspetto di

«deus ex machina»]: Coraggio, Anfitrione: sono qui io per aiutare te e i tuoi; non devi temer nulla. Lascia andare tutti gl’indovini e gli aruspici: quello che è stato e quello che dovrà accadere te lo dirò molto meglio io di loro, perché sono Giove. Per prima cosa, ho avuto commercio con Alcmena e stando a letto con lei l’ho ingravidata d’un figlio. Tu l’hai ingravidata ugualmente al momento di partire per il campo: con un sol parto lei perciò ha generato due figli. Di loro, quello ch’è nato dal mio seme, con le sue gesta ti procurerà gloria immortale. Con tua moglie Alcmena tu ritorna all’affetto di un tempo; non ha meritato che le si faccia colpa: ha dovuto subire gl’inganni miei. Ora me ne torno in cielo! [Scompare verso l’alto.] ANFITRIONE: Farò come mi comandi: ti prego di mantenere le tue promesse. Ora vado da mia moglie e lascio perdere il vecchio Tiresia. Intanto voi, spettatori, per rispetto al sommo Giove, applaudite con calore. [FINE]

Asinaria

L’affare degli asini

L’Asinaria è normalmente ritenuta una delle prime commedie scritte da Plauto. Sembra farlo intendere anche il v. 11 del prologo, in cui l’autore, parlando di sé come colui che vortit barbare l’originale greco, scherza sul proprio nomen e a Maccius sostituisce Maccus, il nome della maschera dell’Atellana che forse allora egli aveva reso il cavallo di battaglia delle sue recite. Com’è noto, L. Havet, nella sua celebre edizione critica della commedia (Paris 1925), proprio da quel verso ha dedotto che Plauto non è stato autore dell’Asinaria, la quale sarebbe stata composta nell’età di Cicerone da un tal Maccus, mediocre epigono degli autori di palliatae dell’età antecedente. Per la data della commedia i più si sono fermati sul v. 307, in cui si allude ai velites istituiti nel 211 e sul v. 124, in cui si nomina il bastone (scipionem) con allusione, sicura per quasi tutti i critici, a Scipione l’Africano, edile e quindi responsabile degli spettacoli nel 212 ed eletto nel 211 proconsole per la Spagna. La data del 211 è stata quindi considerata la più probabile, mentre alcuni, sulla base della seconda scena dell’atto secondo, hanno voluto scorgere nella commedia echi della battaglia del Metauro e farla scendere quindi al 206. Anche la costituzione metrica della commedia sembra confermare la sua appartenenza al periodo iniziale, a quello del noviziato di Plauto. Vi mancano cantica, al cui posto, come segno di maggiore vivacità ritmica, vi è l’uso in alcune scene di metri dialogici non usuali nel teatro plautino, come i settenari e gli ottonari giambici. Al massimo va rilevato, all’inizio della seconda scena dell’atto primo, un gruppo di nove tetrametri cretici, più un tetrametro coriambico. Per la valutazione degl’indizi permettenti una possibilità di datazione, rinvio alle note alla versione. Lo Havet ha cercato di ribadire la sua tesi insistendo sulla struttura primitiva e ingenua della commedia, che tradirebbe l’immaturità e le scarse capacità artistiche dell’autore. Egli anzi vi ha scorto addirittura tracce di arbitrarie inserzioni di brani di altri copioni, che sarebbero avvenuti durante le numerose retractationes provocate dalle repliche della commedia. Più di recente il Della Corte, pur tornando a sostenere la paternità plautina della commedia, ha creduto di poter ravvisare anche lui frequenti tracce di retractatio, che indebolirebbero la suggestione comica del testo e ne costituirebbero autentiche zone d’ombra. Riteniamo che la necessità di concludere dagl’indizi che l’Asinaria sia una delle prime commedie di Plauto abbia spinto molti critici a giudicarla severamente. A ciò si aggiunga che alcune delle vere o presunte contraddizioni od oscurità hanno fatto sospettare non solo ulteriori retractationes o tagli operati dall’autore nell’originale, ma addirittura segni di contaminatio (v. le note alla versione), anche perché il titolo del modello greco si accentra sopra la figura dell’asinaio, che qui non appare, e si pensa quindi che Plauto sia ricorso ad altri modelli per modificare lo sviluppo della commedia. E ancora: il nome dell’autore del copione originale, Demofilo, è quello di un illustre ignoto; a lui quindi, come a poeta mediocre, incapace d’assurgere all’altezza di Menandro, Filemone e Difilo, è stata fatta risalire la presunta debolezza della commedia, con lo scandalo della sua tematica piuttosto spericolata, cui Plauto avrebbe aggiunto l’aggravante della rozzezza popolaresca e farsesca della sua ancor primitiva, non ancor ben elaborata tendenza a calcare gli effetti comici. E s’è dimenticato che un’altra commedia anch’essa sicuramente databile fra le prime, anch’essa priva di cantica, il Miles gloriosus, è tuttavia una delle più affascinanti alla lettura, pur poggiando sopra un’evidente contaminatio che la squilibra e la rende palesamente contraddittoria; e che nell’Asinaria c’è anzi lo squisito motivo dell’amore romantico di Chiacchierina per Granacavallo, che trova nei vv. 539–42 un’espressione esemplare. In realtà, con tutti i difetti veri o presunti, l’Asinaria manifesta anzitutto numerose studiate simmetrie sia nella situazione sia nello sviluppo delle battute e presenta un tessuto espressivo che è già pienamente caratteristico delle migliori doti della comicità plautina, con quelle accensioni personali che a giudizio del Fischer non possono essere abbassate a fotografica riproduzione del linguaggio popolare. Il dialogo è incessantemente carico di uno scoppiettio inesauribile di trovate farsesche e di frasi dal trascinante effetto comico. Come molte delle sue strutture sceniche e delle sue gags saranno sfruttate dal Plauto maturo, secondo la sua tendenza, oggi finalniente riconosciuta, a imitare e riprodurre soprattutto se stesso, così tutto il suo eloquio, esemplare della comicità più ricca di afrori, è un deposito inesauribile di tutte le ulteriori realizzazioni espressive del commediografo. Proprio la sua singolare carica aggressiva e scatologica ha determinato nella versione l’ospitalità quantitativamente inconsueta di termini crudamente veristici, che non ricorre nella versione della maggior parte delle altre commedie, e che abbiamo introdotto proprio allo scopo di rendere la temperie eccezionalmente spregiudicata di questa commedia, sia sul piano dell’argomento sia su quello dell’espressione. Per la fortuna dell’Asinaria e le sue imitazioni nel mondo moderno, da Enea Silvio Piccolomini a Zola, cfr. l’edizione commentata della commedia a cura di F. Bertini, Padova 1968, pp. 115–148.

PERSONAE

PERSONAGGI

Libanus, servus Demaenetus, senex Diabolus, adulescens Cleareta, lena Leonida, servus Mercator, hospes Pilaenium, meretrix Argurippus, adulescens

Profumino,1 servo Coccoditutti, vecchio Diavolo, giovanotto Ingambissima, ruffiana Leonida, schiavo Un mercante, forestiero Chiacchierina, cortigiana Granacavallo,2 giovanotto

Parasitus

Un parassita Tuttasana, matrona

Artemona, matrona

[La scena è ad Atene. Una piazza in cui s’affacciano le due case di Coccoditutti e di Ingambissima.]

ARGUMENTUM

Amanti argento filio auxiliarier sub imperio vivens volt senex uxorio; itaque ob asinos relatum pretium Saureae numerari iussit servo Leonidae. 5 Ad amicam id fertur. Cedit noctem filius. Rivalis amens ob raereptam mulierem is rem omnem uxori per parasitum nuntiat. Accurrit uxor ac virum e lustris rap

PROLOGUS

Hoc agite sultis, spectatores, nunciam: quae quidem mihi atque vobis res vertat bene gregique huic et domino atque conductoribus. Face nunciam tu, praeco, omnem auritum poplum. 5 Age nunc reside: cave modo ne gratiis. Nunc quid processerim huc et quid mi voluerim dicam: ut sciretis nomen huius fabulae; nam quod ad argumentum attinet, sane brevest. Nunc quod me dixi velle vobis dicere 10 dicam: huic nomen Graece Onagost fabulae; Demopilus scripsit, Maccus vortit barbare; Asinariam volt esse, si per vos licet. Inest lepos ludusque in hac comoedia, ridicula res est. Date benigne operam mihi, 15 at vos, item alias, pariter nunc Mars adiuvet.



Libanus, servos; Demaenetus, senex [LI.] Sicut tuurn vis unicum gnatum tuae

superesse vitae sospitem et superstitem, ita ted obtestor per senectutem tuam perque illam quam tu metuis, uxorem tuam: 20 si quid med erga | hodie falsum dixeris, ut tibi superstes uxor aetatem siet atque illa viva vivus ut pestem oppetas. [DE.] Per Dium Fidium quaeris: iurato mihi video necesse esse eloqui quidquid roges. 25 [Ita me obstinate adgressu’s, ut non audeam profecto percontanti quin promam omnia.] proinde actutum istuc quid sit quod scire expetis eloquere: ut ipse scibo, te faciam ut scias. [LI.] Dic obsecro hercle serio quod te rogem, 30 cave mihi mendaci quicquam. [DE.] Quin tu ergo rogas? [LI.] Num me illuc ducis ubi lapis lapidem terit? [DE.] Quid istuc est? aut ubi istuc est terrarum loci? [LI.] Ubi flent nequam homines qui polentam pinsitant. Apud fustitudinas, ferricrepinas insulas, 35 ubi vivos homines mortui incursant boves. [DE.] Modo pol percepi, Libane, quid istuc sit loci; ubi fit polenta te fortasse dicere. [LI.] Ah, neque hercle ego istuc dico nec dictum volo, teque obsecro hercle ut quae locutu’s despuas. 40 [DE.] Fiat, geratur mos tibi. [LI.] Age age, usque excrea. [DE.] Etiamne? [LI.] Age quaeso hercle usque ex penitis faucibus etiam amplius. [DE.] Nam quo usque? [LI.] Usque ad mortem volo… [DE.] Cave sis malam rem. [LI.] …uxoris dico, non tuam. [DE.] Dono te ob istuc dictum ut expers sis metu. 45 [LI.] Di tibi dent quaecumque optes. [DE.] Redde operam mihi. 46-47 Cur hoc ego ex te quaeram? aut cur miniter tibi? Propterea quod me non scientem feceris? Aut cur postremo filio suscenseam 50 patres ut faciunt ceteri? [LI.] Quid istuc novi est? Demiror quid sit et quo evadat sum in metu. [DE.] Equidem scio iam filius quod amet tneus istanc meretricem e proxumo Pilaenium. Estne hoc ut dico, Libane? [LI.] Rectam instas viam. 55 Ea res est. Sed cum morbus invasit gravis. [DE.] Quid morbi est? [LI.] Quia non suppetunt dictis data. [DE.] Tune es adiutor nune amanti filio? [LI.] Sum vero, et alter noster est Leonida. [DE.] Bene hercle facitis et a me initis gratiam. 60 Verum meam uxorem, Libane, nescis qualis sit? [LI.] Tu primus sentis, nos tamen in pretio sumus. [DE.] Fateor eam esse inportunam atque incommodam. [LI.] Posterius istuc dicis quam credo tibi. [DE.] Omnes parentes, Libane, liberis suis,

65 qui mi auscultabunt, facient † obsequellam † quippe qui mage amico utantur gnato et benevolo. Atque ego me id facere studeo: volo amari a meis; volo me patris mei similem, qui causa mea nauclerio ipse ornatu per fallaciam 70 quam amabam abduxit ab lenone mulierem. Neque puduit eum id aetatis sucopantias struere et beneficiis me emere gnatum suum sibi. Eos me decretumst persequi mores patris. Nam me hodie oravit Argurippus filius 75 ut sibi amanti facerem argenti copiam; et id ego percupio obsequi gnato meo: volo amori obsecutum illius, volo amet me patrem. Quamquam illum mater arte contenteque habet, patres ut consuerunt; ego mitto omnia haec. 80 Praesertim quom is me dignum quoi concrederet habuit, me habere honorem eius ingenio decet; quom me adiit, ut pudentem gnatum aequomst patrem, cupio esse amicae quod det argentum suae. [LI.] Cupis id quod cupere te nequiquam intellego. 85 Dotalem servom Sauream uxor tua adduxit, cui plus in manu sit quam tibi. [DE.] Argentum accepi, dote imperium vendidi. Nunc verba in pauca conferam quid te velim. Viginti iam usust filio argenti minis: 90 face id ut paratum iam sit. [LI.] Unde gentium? [DE.] Me defraudato. [LI.] Maxumas nugas agis: nudo detrahere vestimenta me iubes. Defrudem te ego? age sis tu, sine pennis vola. Ten ago defrudem, cui ipsi nihil est in manu, 95 nisi quid tu porro uxorem defrudaveris? [DE.] Qua me, qua uxorem, qua tu servom Sauream potes, circumduce, aufer. Promitto tibi non offuturum, si | id hodie effeceris. [LI.] Iubeas una opera me piscari in aere, 100 venari autem rete iaculo in medio mari. [DE.] Tibi optionem sumito Leonidam, fabricare quidvis, quidvis comminiscere: perficito argentum | hodie ut habeat filius amicae quod det. [LI.] Quid ais tu Demaenete? 105 [] Quid [LI.] Si forte in insidias devenero, tun redimes me, si me hostes interceperint? [DE.] Redimam. [LI.] Tum tu itur aliud cura quid lubet. Ego eo ad forum, nisi quid vis. [DE.] Ei, bene ambula. Atque audin etiam? [LI.] Ecce. [DE.] Si quid te volam 110 ubi eris? [LI.] Ubicumque libitum erit animo meo. Profecto nemo est quem iam dehinc metuam mihi ne quid nocete possit, cum tu mihi tua oratione omnem animum ostendisti tuum. Quin te quoque ipsum facio haud magni, si hoc patro. 115 Pergam quo occepi atque ibi consilia exordiar. [] Audin tu? Apud Arcibulum ego ero argentarium. [LI.] Nempe in foro? [DE.] Ibi, si quid opus fuerit. [LI.] Meminero. [] Non esse servus peior hoc quisquam potest, nec magis versutus, nec quo ab caveas aegrius. 120 Eidem homini, si quid recte curatum velis, mandes: moriri sese misere mavolet

quam non perfectum reddat quod promiserit. Nam ego illud argentum tam paratum filio scio esse quam me hunc scipionem contui. 125 [LI.] Sed quid ego cesso ire ad forum, quo inceperam? [] atque ibi manebo apud argentarium.

Diabolus, adulescens [DI.] Sicine hoc fit? foras aedibus me eici?

Promerenti optume hocin preti redditur? Bene merenti mala es, male merenti bona es; 130 at malo cum tuo! nunciam ex hoc loco ibo ego ad tris viros vestraque ibi nomina faxo erunt, capitis te perdam ego et filiam, perlecebrae, pernities, adulescentum exitium. Nam mare haud est mare, vos mare acerrumum; 135 nam in mari repperi, hic elavi bonis. Ingrata atque inrita esse omnia intellego quae dedi et quod bene feci, at posthac tibi male quod potero facere faciam, meritoque id faciam tuo. Ego pol te redigam eodem unde orta es, ad egestatis terminos, 140 ego edepol te faciam ut quae sis nunc et quae fueris scias. Quae prius quam istam adii atque amans ego animum meum | isti dedi, sordido vitam oblectabas pane in pannis inopia, atque ea si erant, magnas habebas omnibus dis gratias; eadem nunc, cum est melius, me cuius opera est ignoras mala. 145 Reddam ego te ex fera fame mansuetem; me specta modo. Nam isti quid suscenseam ipsi? nihil est, nihil quicquam meret; tuo facit iussu, tuo imperio paret: mater tu, eadem era es. Te ego ulciscar, te ego ut digna es perdam atque ut de me meres. At scelesta viden ut ne id quidem, me dignum esse existimat 150 quem adeat, quem conloquatur cuique irato supplicet. Atque eccam inlecebra exit tandem; opinor hic ante ostium meo modo loquar quae volam, quoniam intus non licitum est mihi.

Cleareta, lena; Diabolus, adulescens [CL.] Unum quodque istorum verbum nummis Pilippeis aureis

non potest auferre hinc a me si quis emptor venerit; 155 nec recte quae tu in nos dicis, aurum atque argentum merumst: fixus hic apud nos est animus tuus clavo Cupidinis. Remigio veloque quantum poteris festina et fuge: quam magis te in altum capessis, tam aestus te in portum refert. [DI.] Ego pol istum portitorem privabo portorio; 160 ego te dehinc ut merita es de me et mea re tractare exequar, quom tu me | ut meritus sum non tractas que eicis domo. [CL.] Magis istuc percipimus lingua dici quam factis fore. [DI.] Solus solitudine ego ted atque ab egestate abstuli; solus si ductem, referre gratiam numquam potes. 165 [CL.] Solus ductato, si semper solus quae poscam dabis; semper tibi promissum habeto hac lege, dum superes datis. [DI.] Qui modus dandi? nam numquam tu quidem expleri potes; modo quom accepisti, haud multo post aliquid quod poscas paras. [CL.] Quid modist ductando, amando? numquamne expleri potes? 170 Modo remisisti, continuo iam ut remittam ad te rogas. [DI.] Dedi equidem quod mecum egisti. [CL.] Et tibi ego misi mulierem: par pari datum hostimentumst, opera pro pecunia. [DI.] Male agis mecum. [CL.] Quid me accusas, si facio officium meum? Nam neque fictum usquamst neque pictum neque scriptum in poematis 175 ubi lena bene agat cum quiquam amante, quae frugi esse volt. [] Mihi quidem te parcere aequomst tandem, ut tibi durem diu. [] Non tu scis? quae amanti parcet, eadem sibi parcet parum. Quasi piscis itidemst amator lenae: nequam est nisi recens; is habet sucum, is suavitatem, cum quovis pacto condias 180 vel patinarium vel assum, verses quo pacto lubet: is dare volt, is se aliquid posci, nam ibi de pleno promitur; neque ille scit quid det, quid damni faciat; illi rei studet: volt placere sese amicae, volt mihi, volt pedisequae,

volt famulis, volt etiam ancillis; et quoque catulo meo 185 subblanditur novos amator, se ut quom videar gaudeat. Vera dico: ad suom quemque hominem quaestum esse aequomst callidum. [DI.] Perdidici istaec esse vera damno cum magno meo. [CL.] Si ecastor nunc habeas quod des, alia verba praehibeas; nunc quia nihil habes, maledictis te eam ductare postulas. 190 [DI.] Non meum est. [CL.] Nec meum quidem edepol ad te ut mittam gratiis. Verum aetatis atque honoris gratia hoc fiet tui. Quia nobis lucro fuisti potius quam decori tibi, si mihi dantur duo talenta argenti numerata in manum, hanc tibi noctem honoris causa gratiis dono dabo. 195 [DI.] Quid si non est? [CL.] Tibi non esse credam, illa alio ibit tamen. [DI.] Ubi illaec quae dedi ante? [CL.] Abusa, nam si ea durarent mihi, mulier mitteretur ad te, nec te quicquam poscerem. Diem, aquam, solem, lunam, noctem haéc argento non emo: cetera quae volumus uti, Gracca mercamur fide. 200 Quom a pistore panem petimus, vinum ex oenopolio, si aes habent, dant mercem: eadem nos disciplina utimur. Semper oculatae manus sunt nostrae, credunt quod vident. Vetus est: «nihili, coactiost…» scis cuius. Non dico amplius. [DI.] Aliam nunc mihi orationem despotato praedicas, 205 longe aliam inquam praebes nunc atque olim quom dabam, aliam atque olim quom inliciebas me ad te blande ac benedice. Tum mihi aedes quoque arridebant cum ad te veniebam tuae; me unice unum ex omnibus te atque illam amare aibas mihi; ubi quid dederam, quasi columbae pulli in ore ambae meo 210 usque eratis, meo de studio studia erant vostra omnia. usque adhaerebatis: quod ego iusseram, quod volueram faciebatis, quod nolebam ac votueram, de industria fugiebatis, neque conari id facere audebatis prius. Nunc neque quid velim neque nolim facitis magni, pessumae. 215 [CL.] Non tu scis? hic noster quaestus aucupi simillimust. Auceps quando concinnavit aream, offundit cibum aves adsuescunt: necesse est facere sumptum qui quaerit lucrum; saepe edunt: semel si sunt captae, rem solvunt aucupi. 220 Itidem hic apud nos: aedes nobis area est, auceps sum ego, esca est meretrix, lectus inlex est, amatores aves. Bene salutando consuescunt, compellando blanditer, osculando, oratione vinnula, venustula. Si papillam pertractavit, haud est ab re aucupis; 225 savium si sumpsit, sumere eum licet sine retibus. Haeccine te esse oblitum in ludo qui fuisti tam diu? [DI.] Tua ista culpa est, quae discipulum semidoctum abs te amoves. [CL.] Remeato audacter, mercedem si eris nactus: nunc abi. [DI.] Mane, mane, audi. Dic, quid me aequum censes pro illa tibi dare, 230 annum hunc ne cum quiquam alio sit? [CL.] Tune? viginti minas; atque ea lege: si alius ad me prius attulerit, tu vale. [DI.] At ego est etiam prius quam abis quod volo loqui. [CL.] Dic quod lubet. [DI.] Non omnino iam perii, est relicuum quo peream magis. Habeo unde istuc tibi quod poscis dem; sed in leges meas 235 dabo, ut scire possis, perpetuum annum hunc mihi uti serviat nec quemquam interea alium admittat prorsus quam me ad se virum. [CL.] Quin, si tu voles, domi servi qui sunt castrabo viros. Postremo ut voles nos esse, sungrapum facito adferas; ut voles, ut tibi lubebit, nobis legem inponito: 240 modo tecum una argentum adferto, facile patiar cetera. [DI.] Portitorum simillumae sunt ianuae lenoniae: si adfers, tum patent, si non est quod des, aedes non patent. [] Interii si non invenio ego illas viginti minas, et profecto, nisi illud perdo argentum, pereundum est mihi 245 Nunc pergam ad forum atque experiar opibus, omni copia, supplicabo, exobsecrabo ut quemque amicum videro,

dignos, indignos adire atque experiri † certumst mihi, nam si mutuas non potero, certumst sumam fenore.



Libanus, servos [LI.] Hercle vero, Libane, nunc te meliust expergiscier 250 atque argento comparando fingere † fallaciam. Iam diu est factum quom discesti ab ero atque abiisti ad forum, igitur inveniundo argento ut fingeres fallaciam. Ibi ut ad hoc diei tempus dormitasti in otio. Quin tu abs te socordiam omnem reice et segnitiem amove 255 atque ad ingenium vetus versutum te recipis tuom? Serva erum, cave tu idem faxis alii quod servi solent, quí ad eri fraudationem callidum, ingenium gerunt. Unde sumam? quém intervortam? quó hanc celocem conferam? Inpetritum, inauguratumst: quovis amittunt aves, 260 picus et cornix [est] ab laeva, corvos, parra ab dextera consuadent; certum herclest vestram consequi sententiam. Sed quid hoc quod picus ulmum tundit? haud temerariumst. Certe hercle ego quantum ex augurio auspici intellego, aut mihi in mundo sunt virgae aut atriensi Saureae. 265 Sed quid illuc quod exanimatus currit huc Leonida? Metuo quod illic obscaevavit meae falsae fallaciae.

Leonida, Libanus, servi duo [LE.] Ubi ego nunc Libanum requitam aut familiarem filium,

ut ego illos lubentiores faciam quam Lubentiast? Maximam praedam et triumpum eis adfero adventu meo, 270 quando mecum pariter potant, pariter scortari solent, hanc quidem quam nactus praedam pariter cum illis partiam. [LI.] Illic homo aedis compilavit, more si fecit suo. Vae illi qui tam indiligenter observavit ianuam. [LE.] Aetatem velim servire, Libanum ut conveniam modo. 275 [LI.] Mea quidem hercle liber opera numquam fies ocius. [LE.] Etiam de tergo ducentas plagas praegnatis dabo. [LI.] Largitur peculium: omnem in tergo tensaurum gerit. [LE.] Nam si occasioni huic tempus sese supterduxerit, numquam edepol quadrigis albis indipiscet postea; 280 erum | in obsidione linquet, inimicum animos auxerit. Sed si mecum occasionem opprimere hanc quae obvenit studet maximas opimitates, gaudio effertissumas suis eris ille una mecum pariet, gnatoque et patri, adeo ut aetatem. ambo ambobus nobis sint obnoxii, 285 nostro devincti beneficio. [LI.] Vinctos nescioquos ait; non placet: metuo in commune ne quam fraudem frausus sit. [LE.] Perii ego oppido nisi Libanum invenio; iam ubi ubi est gentium? [LI.] Illic homo socium ad malam rem quaerit quem adiungat sibi. Non placet: pro monstro extemplo est quando qui sudat tremit. 290 [LE.] Sed quid ego hic properans concesso pedibus, lingua largior? Quin ego hanc iubeo tacere, quae loquens lacerat diem? [LI.] Edepol hominem | infelicem, qui patronam conprimat. Nam si quid sceleste fecit, lingua pro illo perierat. [LE.] Adproperabo, ne post tempus praedae praesidium parem. 295 [LI.] Quae illaec praeda est? ibo advorsum atque electabo quidquid est. Iubeo te salvere voce summa, quoad vires valent. [LE.] Gumnasium flagri, salveto. [LI.] Quid agis, custos carceris? [LE.] O catenarum colone. O virgarum lascivia. [LE.] Quot pondo ted esse censes nudum? Non edepol scio. 300 [LE.] Scibam ego te nescire, at pol ego qui te expendi scio: nudus vinctus centum pondo es, quando pendes per pedes.

[LI.] Quo argumento istuc? [LE.] Ego dicam, quo argumento et quo modo.

Ad pedes quando adligatumst aequorn centumpondium, ubi manus manicae complexae sunt atque adductae ad trabem, 305 nec dependes nec propendes, quin malus nequamque sis. [LI.] Vae tibi! [LE.] Istuc testamento Servitus legat tibi. [LI.] Verbis velitationem fieri compendi volo. Quid istuc est negoti? [LE.] Certum est credere. [LI.] Audacter licet [sis] [] Sis amanti subvenire familiari filio, 310 tantum adest boni inproviso, verum commixtum malo: omnes de nobis carnuficum concelebrabuntur dies. [LE.] Libane, nunc audacia usust nobis inventa et dolis. Tantum facinus modo | inveni ego, ut nos dicamur duo omnium dignissumi esse, quo cruciatus confluant. 315 [LI.] Ergo mirabar quod dudum scapulae gestibant mihi, hariolari quae occeperunt sibi | esse in mundo malum. Quidquid est, eloquere. [LE.] Magna est praeda cum magno malo. [LI.] Si quidem omnes coniurati cruciamenta conferant, habeo opinor familiarem tergum, ne quaeram foris. 320 [LE.] Si istam firmitudinem animi obtines, salvi sumus. [LI.] Quin si tergo re solvenda est, rapere cupio publicum: pernegabo atque obdurabo, periurabo denique. [LE.] Ém ista virtus est, quando usust qui malum fert fortiter; fortiter malum qui patitur, idem post potitur bonum. 325 [LI.] Quin rem actutum edisseris? cupio malum nanciscier. [LE.] Placide ergo unum quidquid erogita, ut adquiescam. Non vides me ex cursura anhelitum etiam ducere? [LI.] Age, age, mansero tuo arbitratu, vel adeo usque dum peris. [LE.] Ubinam est erus? [LI.] Maior apud forumst, minor hic est intus. [LE.] Iam satis est mihi. 330 [LI.] Tum igitur tu dives es factus? [LE.] Mitte ridicularia. [LI.] Mitto: istuc quod adfers aures exspectant meae. [LE.] Animum advorte, ut aeque mecum haec scias. [LI.] Taceo. [LE.] Beas. Meministin asinos Arcadicos mercatori Pellaeo nostrum vendere atriensem? [LI.] Memini. Quid tum postea? 335-36 [LE.] Em ergo is argentum huc remisit quod daretur Saureae pro asinis, adulescens venit modo, qui id argentum attulit. [LI.] Ubi is homost? [LE.] Iam devorandum censes, si conspexeris? [LI.] Ita enim vero. Sed tamen tu nempe eos asinos praedicas 340 vetulos, claudos, quibus subtritae ad femina iam erant ungulae? [LE.] Ipsos, qui tibi subvectabant rure huc virgas ulmeas. [LI.] Teneo, atque idem te hinc vexerunt vinctum rus. [LE.] Memor es probe. Verum in tonstrina ut sedebam, [me] me infit percontarier ecquem filium Stratonis noverim Demaenetum. 345 Dico me novisse extemplo et me eius servom praedico esse, et aedis demonstravi nostras. [LI.] Quid tum postea? [LE.] Ait se ob asinos ferre argentum átriensi Saureae, viginti minas, sed eum sese non no[vi]sse hominem qui siet, ipsum vero se novisse callide Demaenetum. 350 Quoniam ille elocutus haec sic… [LI.] Quid tum? [LE.] Ausculta ergo scies. Extemplo facio facetum me atque magnificum virum, dico me esse atriensem. Sic hoc respondit mihi:

«ego pol Sauream non novi neque qua facie sit scio. Te non aequom est suscensere. Si erum vis Demaenetum, 355 quem ego novi, adduce: argentum non morabor quin feras». Ego me dix erum adducturum et me domi praesto fore; ille in balineas iturust, inde huc veniet postea. Quid nunc consili captandum censes? dic. [LI.] Em istuc ago quo modo argento intervortam et adventorem et Sauream. 360 Iam hoc opus est exasciato; nam si ille argentum prius hospes huc affert, continuo nos ambo exclusi sumus. Nam me hodie senex seduxit solum sorsum ab aedibus, mihi tibique interminatust nos futuros ulmeos, ní hodie Argurippo | essent viginti argenti minae. 365 Iussit vel nos atriensem vel nos uxorem suam defraudare, dixit sese operam promiscam dare. Nunc tu abi ad forum ad erum et narra haec ut nos acturi sumus: te ex Leonida futurum esse atriensem Sauream, dum argentum afferat mercator pro asinis. [LE.] Faciam ut iubes. 370 [LI.] Ego illum interea hic oblectabo, prius si forte advenerit. [LE.] Quid ais? [LI.] Quid vis? [LE.] Pugno malam si tibi percussero, mox cum Sauream imitabor, caveto ne suscenseas. [LI.] Hercle vero tu cavebis ne me attingas, si sapis, ne hodie malo cum auspicio nomen commutaveris. 375 [LE.] Quaeso, aequo animo patitor. [LI.] Patitor tu item cum ego te referiam. [LE.] Dico ut usus fieri. [LI.] Dico hercle ego quoque ut facturus sum. [LE.] Ne nega. [LI.] Quin promitto, inquam, hostire contra ut merueris. [LE.] Ego abeo, tu, iam scio, patiere. Sed quis hic est? is est, ille est ipsus. Iam ego recurro huc. Tu hunc interea hic tene. 380 Volo seni narrare. [LI.] Quin tu officium facis ergo ac fugis?

Mercator, hospes; Libanus, servos [ME.] Ut demonstratae sunt mihi, hasce aedis esse oportet

Demaenetus ubi dicitur habitare. I, puere, pulta atque atriensem Sauream, si est intus, evocato huc. [LI.] Quis nostras sic frangit foris? ohe, inquam, si quid audis. 385 [ME.] Nemo etiam tetigit: sanusne es? [LI.] At censebam attigisse propterea huc quia habebas iter. Nolo ego foris conservas meas a te verberarier. Sane ego sum amicus nostris [aedibus]. [ME.] Pol haud periclum est cardines ne foribus effringantur si | istoc exemplo omnibus qui quaerunt respondebis. 390 [LI.] Ita haec morata est ianua: extemplo ianitorem clamat, procul si quem videt ire ad se calcitronem. Sed quid venis? quid quaeritas? [ME.] Demaenetum volebam. [LI.] Si sit domi, dicam tibi. [ME.] Quid eius atriensis? [LI.] Nihilo mage intus est. [ME.] Ubi est? [LI.] Ad tonsorem ire dixit. 395 [ME.] Conveni, sed post non redit? [LI.] Non edepol. Quid volebas? [ME.] Argenti viginti minas, si adesset, accepisset. [LI.] Qui pro istuc? [ME.] Asinos vendidit Pellaeo mercatori mercatu. [LI.] Scio. Tu id nunc refers? iam hic credo eum adfuturum. [ME.] Qua facie voster Saurea est? si is est, iam scire potero. 400 [LI.] Macilentis malis, rufulus, aliquantum. ventriosus, truculentis oculis, commoda statura, tristi fronte.

[ME.] Non potuit pictor rectius describere eius formam. [LI.] Atque hercle ipsum adeo contuor, quassanti capite incedit.

Quisque obviam huic occesserit irato, vapulabit. 405 [ME.] Si quidem hercle Aeacidinis minis animisque expletus [in]cedit, si med iratus tetigerit, iratus vapulabit.

Leonida, Libanus, servi duo; , hospes [LE.] Quid hoc sit negoti neminem meum dictum magni facere?

Libanum in tonstrinam ut iusseram venire, is nullus venit. Ne ille edepol tergo et cruribus consuluit haud decore. 410 [ME.] Nimis imperiosus est. [LI.] Vae mihi! [] Hodie [LE.] salvere iussi Libanum libertum? iam manu emissu’s? [] Opsecro te. [] Ne tu hercle cum magno malo mihi obviam occessisti. Qur non venisti, ut iusseram, in tonstrinam? [LI.] Hic me moratust. [LE.] Siquidem hercle nunc summum Iovem te dicas detinuisse 415 atque is precator adsiet, malam rem effugies numquam. Tu, verbero, imperium meum contempsisti? [LI.] Perii, hospes! [ME.] Quaeso hercle noli, Saurea, mea causa hunc verberare. [LE.] Utinam nunc stimulus in manu mihi sit… [ME.] Quiesce, quaeso. [LE.] …qui latera conteram tua, quae occalluere plagis. 420 Abscede ac sine me hunc perdere, qui semper me ira incendit, cui numquam unam rem me licet semel praecipere furi, quin centiens eadem imperem atque ogganniam, itaque iam hercle clamore ac stomacho non queo labori suppeditare. Iussin, sceleste, ab ianua hoc stercus hinc auferri? 425 Iussin columnis deici operas araneorum? Iussin in splendorem dari bullas has foribus nostris? Nihil est: tamquam si claudus sim, cum fustist ambulandum. Quia triduum hoc unum modo foro operam adsiduam dedo, dum reperiam qui quaeritet argentum in fenus, hic vos 430 dormitis interea domi atque erus in hara, haud aedibus, habitat. Em ergo hoc tibi. [LI.] Hospes, te obsecro, defende. [ME.] Saurea, oro mea causa ut mittas. [LE.] Eho, ecquis pro vectura olivi resolvit? [LI.] Solvit. [LE.] Cui datumst? [LI.] Sticho vicario ipsi tuo. [LE.] Vah, delenire apparas, scio mihi vicarium esse, 435 neque eo esse servom in aedibus eri qui sit pluris quam illest. Sed vina quae heri vendidi vinario Exaerambo, iam pri is satis fecit Sticho? [LI.] Fecisse satis opinor, nam vidi huc ipsum adducere trapessitam Exaerambum. [LE.] Sic dedero. Prius quae credidi, vix anno post exegi; 440 nunc sat agit: adducit domum etiam ultro et scribit nummos. Dromo mercedem rettulit? [LI.] Dimidio minus opinor. [LE.] Quid relicuum? [LI.] Aibat reddere quom extemplo redditum esset; nam retineri, ut quod sit sibí operis locatum efficeret. [LE.] Scupos quos utendos dedi Pilodamo, rettulitne? 445 [LI.] Non etiam. [LE.] Non? hem, si, velis da, commoda homini amico. [ME.] Perii hercle, iam hic me abegerit suo odio. [LI.] Heus iam satis tu. Audin quae loquitur?

[LE.] Audio et quiesco. [ME.] Tandem, opinor,

conticuit. Nunc adeam optimum est prius quam incipit tinnire. Quam mox mi operam das? [LE.] Ehem, optume. Quam dudum tu advenisti? 450 Non hercle te provideram. Quaeso, ne vitio vortas, ita iracundia obstitit oculis. [ME.] Non mirum factum est. Sed si domi est, Demaenetum volebam. [LE.] Negat esse intus. Verum istuc argentum tamen mihi si vis denumerare, repromittam istoc nomine solutam rem futuram. 455 [ME.] Sic potius ut Demaeneto tibi ero praesente reddam. [LI.] Erus istunc novit atque erum hic. [ME.] Ero huic praesente reddam. [LI.] Da modo meo periculo, rem salvam ego exhibebo; nam si sciat noster senex fidem non esse huic habitam, suscenseat, qui omnium rerum ipsus semper [cre[di]dit. 460 [LE.] Non magni pendo. Ne duit, si non vult. Sic sine astet. [LI.] Da, inquam. Vah, formido miser ne hic me tibi arbitretur suasisse sibi ne crederes. Da, quaeso, ac ne formida: salvum hercle erit. [ME.] Credam fore, dum quidem ipse in manu | habebo. Peregrinus ego sum, Sauream non novi. [LI.] At nosce sane. 465 [ME.] Sit, non sit, non edepol scio. Si is est, eum esse oportet. Ego certe me incerto scio hoc daturum nemini homini. [LE.] Hercle istum di omnes perduint. Verbo cave supplicassis. Ferox est viginti minas meas tractare sese. Nemo accipit, aufer re domum, abscede hinc, molestus ne sis. 470 [ME.] Nimis iracunde: non decet superbum esse hominem servum. [LE.] Malo hercle iam magno tuo, ni isti nec recte dicis. [LI.] Impure, nihili. Non vides irasci? [LE.] Perge porro. [LI.] Flagitium | hominis. Da, opsecro, argentum huic, ne male loquatur. [ME.] Malum hercle vobis quaeritis. [LE.] Crura hercle diffringentur, 475 ni istum inpudicum percies. [LI.] Perii hercle. Age, inpudice, sceleste, non audes mihi scelesto subvenire? [LE.] Pergin precari pessimo? [ME.] Quae res? tun libero homini male servos loquere? [LE.] Vapula. [ME.] Id quidem tibi hercle fiet ut vapules, Demaenetum simulac conspexero hodie. 480 In ius voco te. [LE.] Non eo. [ME.] Non is? memento. [LE.] Memini. [ME.] Dabitur pol supplicium mihi de tergo vostro. [LE.] Vae te! Tibi quidem supplicium, carnufex, de nobis detur? [ME.] Atque etiam pro dictis vostris maledic[t]is poenae pendentur mi hodie. 484-85 [LE.] Quid, verbero? ain tu, furcifer? erum nos[met] fugitare censes? Ei nunciam ad erum, quo vocas, iam dudum quo volebas. [ME.] Nunc demum? tamen numquam hinc feres argenti nummum, nisi me dare iusserit Demaenetus. [LE.] Ita facito, age ambula ergo. Tu contumeliam alteri facias, tibi non dicatur? 490 Tam ego homo sum quam tu. [ME.] Scilicet. Ita res est. Sequere hac ergo. [LE.] Praefiscini hoc nunc dixerim: nemo etiam me accusavit merito meo, neque me alter est Atenis hodie quisquam cui credi recte aeque putent. [ME.] Fortassis. Sed tamen me

numquam hodie induces ut tibi credam hoc argentum ignoto. 495 Lupus est homo homini, non homo, quom qualis sit non novit. [LE.] Iam nunc secunda mihi facis. Scibam huic te capitulo hodie facturum satis pro iniuria; quamquam ego sum sordidatus, frugi tamen sum, nec potest peculium enumerari. [ME.] Fortasse. [LE.] Etiam hodie Peripanes Rodo mercator dives 500 absente ero solus mihi talentum argenti soli adnumeravit et credidit mihi, neque deceptus in eo. [ME.] Fortasse. [LE.] Atque etiam tu quoque ipse, si esses percontatus me ex aliis, scio pol crederes nunc quod fers. [ME]. Haud negassim.



Cleareta, lena; Pilaenium, meretrix [CL.] Nequeon ego ted interdictis facere mansuetem meis? 505 An ita tu es animata ut qui expers matris imperii sies? [PI.] Ubi piem Pietatem, sí istoc more moratam tibi postulem placere, mater mihi quo pacto praecipis? [CL.] Hoccine est pietatem colere, matri[s] imperium minuere? An decorum est adversari meis te praeceptis? [] Quid est? 510 Neque quae recte faciunt culpo neque quae delinquunt amo. [CL.] Satis dicacula es amatrix. [PI.] Mater, is quaestust mihi: lingua poscit, corpus quaerit; animus orat, res monet. [CL.] Ego te volui castigare, tu mihi accusatrix ades. [PI.] Neque edepol te accuso neque id me facere fas existimo. 515 Verum ego meas queror fortunas, cum illo quem amo prohibeor. [CL.] Ecqua pars orationis de die dabitur mihi? [PI.] Et meam partem loquendi et tuam trado tibi; ad loquendum atque ad tacendum tute habeas portisculum. Quin pol si reposivi remum, sola ego in casteria 520 ubi quiesco, omnis familiae causa consistit tibi. [CL.] Quid ais tu, quam ego unam vidi mulierem audacissimam? Quotiens te votui Argurippum filium Demaeneti compellare aut contrectare, conloquive aut contui? Quid dedit? quid iussit ad nos deportari? an tu tibi 525 verba blanda esse aurum rere, dicta docta pro datis? Ultro amas, ultro expetessis, ultro ad te accersi iubes. Illos qui dant eos derides; qui deludunt deperis. An te id exspectare oportet, si quis promittat tibi te facturum divitem, si moritur mater sua? 530 Ecastor nobis periclum [magnum] et familiae portenditur, dum eius exspectamus mortem, ne nos moriamur fame. Nunc adeo nisi mihi huc argenti adfert viginti minas, ne ille ecastor hinc trudetur largus lacrumarum foras. Hic dies summust apud me inopiae excusatio. 535 [PI.] Patiar, si cibo carere me iubes, mater mea. [CL.] Non voto ted amare qui dant qua amentur gratia. 537-38 [PI.] Quid si hic animus occupatust, mater, quid faciam? Mone. [CL.] Em, meum caput contemples, si quidem ex re consultas tua. 540 [PI.] Etiam opilio qui pascit, mater, alienas ovis, aliquam habet peculiarem, qui spem soletur suam. Sine me amare unum Argurippum animi causa, quem volo. [CL.] Intro abi, nam te quidem edepol nihil est inpudentius. [PI.] Audientem dicto, mater, produxisti filiam.

Libanus, Leonida, servi duo 545 [LI.] Perfidiae laudes gratiasque habemus merito magnas, quom nostris sucopantiis, dolis astutiisque, scapularum confidentia, virtute ulmorum freti, qui advorsum stimulos, lamminas crucesque conpedesque, * * * * * * * * * * * * 550 nervos, catenas, carceres, numellas, pedicas, boias, inductoresque acerrumos gnarosque nostri tergi qui saepe ante in nostras scapulas cicatrices indiderunt, * * * * * * * * * * * * eae nunc legiones, copiae exercitusque eorum 555 vi pugnando, periuriis nostris fugae potiti. Id virtute huius collegai meaque comitate factumst. Qui mest vir fortior ad sufferundas plagas? [LE.] Edepol virtutes qui tuas nunc possis conlaudare

sicut ego possim, quae domi duellique male fecisti? 560 Ne illa edepol pro merito [nunc] tuo memorari multa possunt: ubi fidentem fraudaveris, ubi ero infidelis fueris, ubi verbis conceptis sciens libenter periuraris, ubi parietes perfoderis, in furto ubi sis prehensus, ubi saepe causam dixeris pendens adversus octo 565 artutos, audacis viros, valentis virgatores. [LI.] Fateor profecto ut praedicas, Leonida, esse vera; verum edepol ne etiam tua quoque malefacta iterari multa et vero possunt: ubi sciens fideli infidus fueris, ubi prensus in furto sies manifesto et verberatus, 570 ubi periuraris, ubi sacro manus sis admolitus, ubi eris damno molestiae et dedec ori saepe fueris, ubi creditum quod sit tibi datum esse pernegaris. ubi amicae quam amico tuo fueris magis fidelis, ubi saepe ad languorem tua duritia dederis octo 575 validos lictores, ulmeis adfectos lentis virgis. Num male relata est gratia, ut collegam collaudavi? [LE.] Ut meque teque maxime atque ingenio nostro decuit. [LI.] Iam omitte ista atque hoc quod rogo responde. [LE.] Rogita quod vis. [LI.] Argenti viginti minas habesne? [LE.] Hariolare. 580 Edepol senem Demaenetum lepidum fuisse nobis: ut adsimulabat Sauream me esse quam facete! Nimis aegre risum contin[u]i, ubi hospitem inclamavit, quod se absente mihi fidem habere noluisset. Ut memoriter me Sauream vocabat atriensem! 585 [LI.] Manedum. [LE.] Quid est? [LI.] Pilaenium estne haec quae intus exit atque una Argurippus? [LE.] Opprime os, is est. Subauscultemus. [LI.] Lacrumantem lacinia tenet lacrumans. Quidnam esse dicam? [LE.] Tacite auscultemus. [LI.] Attatae, modo hercle in mentem venit, nimis vellem habere perticam. [LE.] Quoi rei? [LI.] Qui verberarem 590 asinos, si forte occeperint clamare hinc ex crumina.

-Argurippus, adulescens; Pilaenium, meretrix; Libanus, Leonida, servi duo [ARG.] Qur me retentas? [PI.] Quia tui amans abeuntis egeo. [ARG.] Vale. [PI.] Aliquanto | amplius valerem, si hic maneres. [ARG.] Salve. [PI.] Salvere me iubes, quoi tu abiens offers morbum? [ARG.] Mater supremam mihi tua dixit, domum ire iussit. 595 [PI.] Acerbum funus filiae faciet, si te carendum est. [LI.] Homo hercle hinc exclusus est foras. [LE.] Ita res est. [ARG.] Mitte quaeso. [PI.] Quo nunc abis? quin tu hic manes? [ARG.] Nox, si voles, manebo. [LI.] Audin hunc opera ut largus est nocturna? nunc enim esse

negotiosum interdius videlicet Solonem, 600 leges ut conscribat quibus se populus teneat. Gerrae! Qui sese parere apparent huius legibus, profecto numquam bonae frugi sient, dies noctesque potent. [LE.] Ne iste hercle ab ista non pedem discedat, si licessit, qui nunc festinat atque ab hac minatur sese abire. 605 [LI.] Sermoni iam finem face tuo, huius sermonem accipiam. [ARG.] Vale. [PI.] Quo properas? [AR.] Bene vale: apud Orcum te videbo. Nam equidem me iam quantum potest a vita abiudicabo.

[PI.] Qur tu, obsecro, inmerito meo me morti dedere optas? [ARG.] Ego te? quam si intellegam deficere vita, iam ipse

610 vitam meam tibi largiar et de mea ad tuam addam. [PI.] Qur ergo minitaris tibi te vitam esse amissurum? Nam quid me facturam putas, si istuc quod dicis faxis? certumst mihi efficere in me omnia eadem quae tu in te faxis. [ARG.] Oh melle dulci dulcior [mihi] tu es. [PI.] Certe enim tu vita es mihi. 615 Complectere. [ARG.] Facio lubens. [PI.] Utinam sic efferamur. [LE.] O Libane, ut miser est homo qui amat! [LI.] Immo hercle vero qui pendet multo est miserior. [LE.] Scio qui periclum feci. Circumsistamus, alter hinc, hinc alter appellemus. Ere, salve, sed num fumus est haec mulier quam amplexare? 620 [ARG.] Quidum? [LE.] Quia oculi sunt tibi lacrumantes, eo rogavi. [ARG.] Patronus qui vobis fuit futurus, perdidistis. [LE.] Equidem hercle nullum perdidi ideo quia numquam ullum habui [LI.] Pilaenium, salve. [PI.] Dabunt di quae velitis vobis. [LI.] Noctem tuam et vini cadum velim, si optata fiant. 625 [ARG.] Verbum cave faxis, verbero. [LI.] Tibi equidem, non mihi opto. [ARG.] Tum tu igitur loquere quod lubet. [LI.] Hunc hercle verberate. [LE.] Quisnam istuc adcredat tibi, cinaede calamistrate? Tun verberes, qui pro cibo habeas te verberari? [ARG.] Ut vestrae fortunae meis praecedunt, Libane, longe. 630 qui | hodie numquam ad vesperum vivam. [LI.] Quapropter quaeso? [ARG.] Quia ego hanc amo | et haec me amat, huic quod dem nusquam quicquam est, hinc med amantem ex aedibus deiecit huius mater. Argenti viginti minae me ad mortem appulerunt, quas hodie adulescens Diabolus ipsi daturus dixit, 635 ut hanc ne quoquam mitteret nisi ad se hunc annum totum. Videtin viginti minae quid pollent quidve possunt? Ille qui illas perdit salvus est, ego qui non perdo pereo. [LI.] Iam dedit argentum? [ARG.] Non dedit. [LI.] Bono animo es, ne formida. [LE.] Secede huc, Libane, te volo. [LI.] Si quid vis. [ARG.] Obsecro vos, 640 eadem istac opera suaviust complexos fabulari. [LE.] Non omnia eadem aeque omnibus, ere, suavia esse scito: vobis est suave amantibus complexos fabulari. Ego complexum huius nihil moror. Meum autem hic aspernatur. Proinde istud facias ipse quod ficiamus nobis suades. 645 [ARG.] Ego vero, et quidem edepol lubens. Interea, si videtur, concedite istuc. [LE.] Vin erum deludi? [LI.] Dignust sane. [LE.] Vin faciam ut me Pilaenium praesente hoc amplexetur? [LI.] Cupio hercle. [LE.] Sequere hac. [ARG.] Ecquid est salutis? satis locuti. [LE.] Auscultate atque operam date et mea dicta devorate. 650 Primum omnium servos tuos nos esse non negamus: sed tibi si viginti minae argenti proferentur, quo nos vocabis nomine? [ARG.] Libertos. [LE.] Non patronos? [ARG.] Id potius. [LE.] Viginti minae hic insunt in crumina,

has ego, si vis, tibi dabo. [ARG.] Di te servassint semper,

655 custos erilis, decus popli, tensaurus copiarum, salus interior corporis amorisque imperator. Hic pone, hic istam conloca cruminam in collo plane. [LE.] Nolo ego te, qui erus sis, mihi onus istuc sustinere. [ARG.] Quin tu labore liberas te atque istam imponis in me? 660 [LE.] Ego baiulabo; tu, ut decet dominum, ante me ito inanis. [ARG.] Quid nunc? [LE.] Quid est? [] Quin tradis huc cruminam pressatum erum? [] Hanc, cui daturu’s hanc, iube petere atque orare mecum. Nam istuc proclive est quo[d] iubes me plane conlocare. [PI.] Da, meus ocellus, mea rosa, mi | anime, mea voluptas, 665 Leonida, argentum mihi, ne nos diiunge amantis. [LE.] Dic me igitur tuom passerculum, gallinam, coturnicem, agnellum, haedillum me tuom dic esse vel vitellum: prehende auriculis, compara labella cum labellis. [ARG.] Ten osculetur, verbero? [LE.] Quam vero indignum visum est? 670 Atqui pol hodie non feres, ni genua confricantur. [ARG.] Quidvis egestas imperat: fricentur, dan[t] quod oro? [PI.] Age, mi Leonida, obsecro, fer amanti ero salutem, redime istoc beneficio te ab hoc, et tibi eme hunc isto argento. [LE.] Nimis bella es atque amabilis, et si hoc meum esset, hodie 675 numquam me orares quin darem: illum te orare meliust, illic hanc mihi servandam dedit. Ei sane bella belle. Cape hoc sis, Libane. [ARG.] Furcifer, etiam me delusisti? [LE.] Numquam hercle facerem, genua ni tam nequiter fricares. Age sis tu in partem nunciam hunc delude atque amplexare hanc. 680 [LI.] Taceas, me spectes. [ARG.] Quin ad hunc, Pilaenium, adgredimur, virum quidem pol optimum et non similem furis huius? [LI.] Inambulandum est: nunc mihi vicissim supplicabunt. [ARG.] Quaeso hercle, Libane, sis erum tuis factis sospitari, da mihi istas viginti minas, vides me amantem egere. 685 [LI.] Videbitur. Factum volo. Redito huc conticinio. Nunc istanc tantisper iube petere atque orare mecum. [PI.] Amandone exorarier vis te an osculando? [LI.] Enim vero utrumque. [PI.] Ergo, obsecro, et tu utrumque nostrum serva. [ARG.] O Libane, mi[hi] patrone, mihi trade istuc. Magis decorumst 690 libertum potius quam patronum onus in via portare. [PI.] Mi Libane, ocellus aureus, donum decusque amoris, amabo, faciam quod voles, da istuc argentum nobis. [LI.] Dic igitur me aniticulam, columbam vel catellum, hirundinem, monerulam, passerculum putillum, 695 fac proserpentem, bestiam me, duplicem ut habeam linguam, circumda torquem bracchiis, meum collum circumplecte, [ARG.] Ten complectatur, carnufex? [LI.] Quam vero indignus videor? Ne istuc nequiquam dixeris in me tam indignum dictum, vehes pol hodie me, si quidem hoc argentum ferre speras. 700 [ARG.] Ten ego veliam? [LI.] Tun hoc feras argentum aliter a me? [ARG.] Perii hercle! si verum quidem et decorum erum vehere servom, inscende. [LI.] Sic isti solent superbi subdomari. Asta igitur, ut consuetus es puer olim. Scin ut dicam? Em sic. Abi, laudo, nec te equo magis est equos ullus sapiens. 705 [ARG.] Inscende actutum. [LI.] Ego fecero, hem quid istuc est? ut tu incedis? Demam hercle iam de | hordeo, tolutim ni badizas. [ARG.] Amabo, Libane, iam sat est. [LI.] Numquam hercle hodie exorabis. Nam iam calcari quadrupedo agitabo advorsum clivom,

postea ad pistores dabo, ut ibi cruciere currens. 710 Asta ut descendam nunciam in proclivi, quamquam nequam es. [ARG.] Quid nunc, amabo? quoniam, ut est libitum, nos delusistis, datisne argentum? [LI.] Si quidem mihi aram et statuam statuis atque ut deo mihi hic immolas bovem: nam ego tibi Salus sum. [LE.] Etiam tu, ere, istunc amove abs te atque ipse me adgredire 715 atque illa sibi quae hic iusserat mihi statuis supplicasque? [ARG.] Quem te autem divom nominem? [LE.] Fortunam, atque Obsequentem. [ARG.] Iam istoc es melior. [LI.] An quid est [olim] homini Salute melius? [ARG.] Licet laudem Fortunam, tamen ut ne Salutem culpem. [PI.] Ecastor ambae sunt bonae. [ARG.] Sciam ubi boni quid dederint. 720 [LE.] Opta id quod ut contingat tibi vis. [ARG.] Quid si optaro? [LE.] Eveniet. [ARG.] Opto annum hunc perpetuum mihi huius operas. [LE.] Impetrasti. [ARG.] Ain vero? [LE.] Certe inquam. [LI.] Ad me adi vicissim atque experire. Exopta id quod vis maxime tibi evenire: fiet. [ARG.] Quid ego aliud exoptem amplius nisi illud cuius inopiast, 725 viginti argenti commodas minas, huius quas dem matri? [LI.] Dabuntur, animo sis bono face, exoptata optingent. [ARG.] Ut consuere, homines Salus frustratur et Fortuna. [LE.] Ego caput huic argento fui hodie reperiundo. [LI.] Ego pes fui. [ARG.] Quin nec caput nec pes sermoni[s] apparet. 730 Nec quid dicatis scire nec me qur ludatis possum. [LI.] Satis iam delusum censeo. Nunc rem ut est eloquamur. Animum Argurippe, advorte sis. Pater nos ferre hoc iussit argentum ad te. [ARG.] Ut tempore opportuneque attulistis! [LI.] Hic inerunt viginti minae bonae, mala opera partae: 735 has tibi nos pactis legibus dare iussit. [ARG.] Quid id est quaeso? [LI.] Noctem huius et cenam sibi ut dares. [ARG.] Iube advenire, quaeso: meritissimo eius quae volet faciemus, qui hosce amores nostros dispulsos compulit. [LE.] patrem hanc amplexari tuom? [ARG.] Haec faciet facile ut patiar. 740 Leonida, curre obsecro, patrem huc orato ut veniat. [LE.] Iam dudum est intus. [] Hac quidem non venit. [] Angiporto illac per hortum circumit clam, ne quis se videret huc ire familiarium: ne uxor resciscat metuit. De argento si mater tua sciat ut sit factum… [ARG.] Heia. 745 bene dicite. [] Ite intro cito. [] Valete. [LE.] Et vos amate.



Diabolus, adulescens; Parasitus [DI.] Agedum istum ostende quem conscrips[is]ti sungrapum

inter me et amicam et lenam. Leges pellege; nam tu poeta es prosus ad eam rem unicus. [PA.] Horrescet faxo lena, leges cum audiet. 750 [DI.] Age, quaeso, mihi hercle translege. [PA.] Audin? [DI.] Audio. [PA.] «Diabolus Glauci filius Clearetae lenae dedit dono argenti viginti minas, Pilaenium ut secum esset noctes et dies hunc annum totum». [DI.] Neque cum quiquam alio quidem. 755 [PA.] Addone? [DI.] Adde, et scribas vide plane et probe. [PA.] «Alienum | hominem | intro mittat neminem. Quod illa aut amicum | aut patronum nominet aut quod illa amica amatorem praedicet, fores occlusae | omnibus sint nisi tibi. 760 In foribus scribat occupatam | esse se. [PA.] Aut quod illa dicat peregre allatam epistulam, ne epistula quidem ulla sit in aedibus nec cerata adeo tabula; et si qua inutilis pictura sit, eam vendat: ni in quadriduo 765 abalienarit, quo abs te argentum acceperit, tuus arbitratus sit, comburas, si velis, ne illi sit cera ubi facere possit litteras. Vocet convivam neminem illa: tu voces. Ad eorum ne quem | oculos adiciat suos; 770 si quem alium aspexit, caeca continuo siet. Tecum una postea aeque pocla potitet: abs ted accipiat, tibi propinet, tu bibas, ne illa minus aut plus quam tu sapiat». [DI.] Satis placet. [PA.] «Suspiciones omnis ab se segreget. 775 Neque illaec ulli pede pedem | homini premat, cum surgat neque in lectum inscendat proxumum, neque cum descendat inde, det cuiquam manum. Spectandum ne cui | anulum det neque roget. Talos ne cuiquam | homini admoveat nisi tibi. 780 Cum iaciat, “te” ne dicat: nomen nominet. Deam invocet sibi quam libebit propitiam, deum nullum; si magis religiosa fuerit, tibi dicat: tu pro illa ores ut sit propitius. Neque illa ulli homini nutet, nictet, annuat. 785 Post si lucerna extincta sit, ne quid sui membri commoveat quicquam in tenebris». [DI.] Optumest. Ita scilicet facturam. Verum in cubiculo… deme istuc; equidem illam moveri gestio. Nolo illam habere caussam et votitam dicere. 790 [PA.] Scio, captiones metuis. [DI.] Verum. [PA.] Ergo ut iubes tollam. [DI.] Quid ni? [PA.] Audi relicua. [DI.] Loquere, audio. [PA.] «Neque ullum verbum faciat perplexabile, neque ulla lingua sciat loqui nisi Attica. Fors si tussire occepsit, ne sic tussiat,

795 Ut cuiquam linguam in tussiendo proserat. Quod illa autem simulet quasi gravedo profluat, hoc ne sic faciat: tu labellum abstergeas potius quam cuiquam savium faciat palam. Nec mater lena ad vinum accedat interim, 800 nec ulli verbo male dicat. Si dixerit, haec multa ei esto, vino viginti dies ut careat». [DI.] Pulcre scripsti: scitum sungrapum. [PA.] «Tum, si coronas, serta, unguenta iusserit ancillam ferre Veneri | aut Cupidini, 805 tuus servos servet Venerine eas det an viro. Si forte pure velle habere dixerit, tot noctes reddat spurcas quot pure habuerit». Haec sunt non nugae, non enim mortualia. [DI.] Placent profecto leges. Sequere intro. [PA.] Sequor.

Diabolus, adulescens; Parasitus 810 [DI.] Sequere hac. Egone haec: patiar aut taceam? emori me malim quam haec non eius uxori indicem. Ain tu? apud amicam munus adulescentuli fungare, uxori excuses te et dicas senem? Praeripias scortum amanti atque argentum obicias 815 lenae? suppiles clam domi uxorem tuam? Suspendam potius me quam tacita haec tu auferas. Iam quidem hercle ad illam hinc ibo, quam tu propediem, nisi quidem illa ante occupassit te, effliges scio, luxuriae sumptus suppeditare ut possies. 820 [PA.] Ego sic faciundum censeo: me honestiust quam te palam hanc rem facere, ne illa existimet amoris caussa percitum id fecisse te magis quam sua caussa. [DI.] At pol qui dix[is]ti rectius. Tu ergo fac ut illi turbas, lites concias, 825 cum suo sibi gnato unam ad amicam de die potare, illam expilare. | [PA.] Iam. Ne mone. [PA.] Ego istud curabo. [DI.] At ego te opperiar domi.



Argurippus, adulescens; Demaenetus, senex; [ARG.] Age decumbamus sis, pater. [DE.] Ut iusseris,

mi gnate, ita fiet. [ARG.] Pueri, mensam adponite. 830 [DE.] Numquidnam tibi molestumust, gnate mi, si haec nunc mecum accubat? [ARG.] Pietas, pater, oculis dolorem prohibet; quamquam ego istanc amo,

possum equidem inducere animum ne aegre patiar quia tecum accubat. [DE.] Decet verecundum esse adulescentem, Argurippe. [ARG.] Edepol, pater,

merito tuo facere possum. [DE.] Age ergo, hoc agitemus convivium

835 vino et sermone suavi. Nolo ego metui, amari mavolo, mi gnate, me abs te. [ARG.] Pol ego utrumque facio, ut aequom est filium. [DE.] Credam istuc, si esse te hilarum videro. [ARG.] An tu esse me tristem putas? [DE.] Putem ego, quem videam aeque maestum ut quasi dies si dicta sit? 839-40 [ARG]. Ne dixis istuc. [DE.] Ne sic fueris: ilico ego non dixero. [ARG.] Em aspecta: rideo. [DE.] Utinam male qui mihi volunt sic rideant! [ARG.] Scio equidem quam ob rem me, pater, tu tristem credas nunc tibi: quia istaec est tecum. Atque ego quidem hercle ut verum tibi dicam, pater, ea res me male habet; at non eo quia tibi non cupiam quae velis; 845 verum istam amo. Aliam tecum esse equidem facile possum perpeti. [DE.] At ego hanc volo. [ARG.] Ergo sunt quae exoptas: mihi quae ego [DE.] exoptem volo. [DE.] Unum hunc diem perpetere, quoniam tibi potestatem dedi cum hac annum ut esses, atque amanti argenti feci copiam. 849–50 [ARG]. Em istoc me facto tibi devinx [is]ti. [DE.] Quin te ergo hilarum das mihi?

-Artemona, mulier; Parasitus; Demaenetus, senex; Argurippus, adulescens; Pilaenium, meretrix [ART.] Ain tu meum virum hic potare, opsecro, cum filio

et ad amicam detulisse argenti viginti minas meoque filio sciente facere flagitium patrem? [PA.] Neque divini neque mi humani posthac quicquam accreduas, 855 Artemona, si huius rei me mendacem esse inveneris. [ART.] At scelesta ego praeter alias, meum virum fru[g]i rata siccum, frugi, continentem, amantem uxoris maxime. [PA.] At nunc dehinc scito illum ante omnis minimi mortalem preti, madidum, nihili, incontinentem atque osorem uxoris suae. 860 [ART.] Pol ni istaec vera essent, numquam faceret quae nunc facit. [PA.] Ego quoque hercle illum antehac hominem semper sum frugi ratus, verum hoc facto sese ostendit, qui quidem cum filio potet una atque una amicam ductet, decrepitus senex. [ART.] Hoc ecastor est quod ille it ad cenam cottidie! 865 Ait sese ire ad Arcidenum, Caeream, Caerestratum, Cliniam, Cremem, Cratinum, Diniam, Demostenem: is apud scortum corruptelae et liberis, lustris studet. [PA.] Quin tu illum iubes ancillas rapere sublimem domum? [ART.] Tace modo, ne illum ecastor miserum habebo. [PA.] Ego istuc scio, 870 ita fore illi dum quidem cum illo nupta cris. [ART.] Ego censeo cum etiam hominem in senatu dare operam aut clientibus, ibi labore delassatum noctem totam stertere; ille opere foris faciendo lassus noctu advenit;

fundum alienum arat, incultum familiarem deserit. 875 Is etiam corruptus porro suum corrumpit filium. [PA.] Sequere hac me modo, iam faxo ipsum hominem manifesto opprimas. [ART.] Nihil ecastor est quod facere mavelim. [PA.] Manedum. [ART.] Quid est? [PA.] Possis, si forte accubantem tuum virum conspexeris cum corona amplexum amicam, si videas, cognoscere? 880 [ART.] Possum ecastor. [PA.] Em tibi hominem. [ART.] Perii. [PA.] Paulisper mane. Aucupemus ex insidiis clanculum quam rem gerant. [ARG.] Quid modi, pater, amplexando facies? [DE.] Fateor, gnate mi… [ARG.] Quid fatere? [DE.] …me ex amore huius corruptum oppido. [PA.] Audin quid ait? [ART.] Audio. [DE.] Egon ut non domo uxori meae 885 subripiam in deliciis pallam quam habet atque ad te deferam? Non edepol conduci possum vita uxoris annua. [PA.] Censen tu illum hodie primum ire adsuetum esse in ganeum? [ART.] Ille ecastor suppilabat me, quod ancillas meas suspicabar atque insontis miseras cruciabam. [ARG.] Pater, 890 iube dari vinum; iam dudum factum est cum primum bibi. [DE.] Da, puere, ab summo. Age tu interibi ab infimo da savium. [ART.] Perii misera! ut osculatur carnufex, capuli decus! [DE.] Edepol animam suaviorem aliquanto quam uxoris meae. [PI.] Dic amabo, an foetet anima uxoris tuae? [DE.] Nauteam 895 bibere malim, si necessum sit, quam illam oscularier. [ART.] Ain tandem? edepol ne tu istuc cum malo magno tuo dixisti in me. Sine: venias modo domum, faxo ut scias quid pericli sit dotatae uxori vitium dicere. [PI.] Miser ecastor es. [ART.] Ecastor dignus est. [ARG.] Quid ais, pater? 900 [ARG.] Ecquid matrem amas? [DE.] Egone illam? nunc amo, quia non adest. [ARG.] Quid cum adest? [DE.] Periisse cupio. [PA.] Amat homo hic te, ut praedicat. [ART.] Ne illa ecastor fenerato funditat: nam si domum redierit hodie, osculando ego ulciscar potissimum. [ARG.] Iace, pater, talos, ut porro nos iaciamus. [DE.] Maxume. 905 Te, Pilaenium, mihi atque uxoris mortem. Hoc Venerium est. Pueri, plaudite et mihi ob iactum cantaro mulsum date. [ART.] Non queo durare. [PA.] Si non didicisti fulloni[c]am, non mirandum est, in oculos invadi optumum est. [ART.] Ego pol vivam tu istaec hodie cum tuo magno malo 910 invocasti. [PA.] Ecquis currit pollictorem accersere? [ARG.] Mater, salve. [ART.] Sat salutis. [PA.] Mortuus est Demaenetus. Tempus est subducere hinc me; pulcre hoc gliscit proelium Ibo ad Diabolum, mandata dicam facta ut voluerit, atque interea ut decumbamus suadebo, hi dum litigant. 915 Poste demum huc cras adducam ad lenam ut viginti minas ei det, in parte hac amanti ut liceat ei potirier. Argurippus exorari spero poterit ut sinat sese alternas cum illo noctes hac frui. Nam ni impetro, regem perdidi: ex amore tantum est homini incendium.

920 [ART.] Quid tibi hunc receptio ad te est meum virum? [PI.] Pol me quidem miseram | odio | enicavit. [ART.] Surge, amator, i domum. [DE.] Nullus sum. [ART.] Immo es, ne nega, omnium pol nequissimus. At etiam cubat cuculus. Surge, amator, i domum. [DE.] Vae mihi! [ART.] Vera hariolare. Surge, amator, i domum. 925 [DE.] Abscede ergo paululum istuc. [ART.] Surge, amator, i domum. [DE.] Iam obsecro, uxor… [ART.] Nunc uxorem me esse meministi tuam? modo, cum dicta in me ingerebas, odium, non uxor eram. [DE.] Totus perii! [ART.] Quid tandem anima foetetne uxoris tuae? [DE.] Murram olet. [ART.] Iam subrupuisti pallam quam scorto dares? 930 [PI.] Ecastor qui subrupturum pallam promisit tibi. [DE.] Non taces? [ARG.] Ego dissuadebam, mater. [ART.] Bellum filium! Istoscine patrem aequom est mores liberis largirier? Nihilne te pudet? [DE.] Pol, si aliud nihil sit, tui me, uxor, pudet. [ART.] Cano capite te cuculum uxor ex lustris rapit. 935 [DE.] Non licet manere dum cenem modo? [ART.] Ecastor cenabis hodie, ut dignus es, magnum malum. [DE.] Male cubandum est: iudicatum me uxor abducit domum. [ARG.] Dicebam, pater, tibi ne matri consuleres male. [PI.] De palla memento, amabo. [DE.] Iuben hanc hinc abscedere? 940 [ART.] I domum. [PI.] Da savium etiam prius quam abiis. [DE.] I in crucem! [PI.] Immo i tu potius! sequere hac me, mi anime. [ARG.] Ego vero sequor. [GREX.] Hic senex si quid clam uxorem suo animo fecit volup, neque novum neque mirum fecit nec secus quam alii solent; nec quisquam est tam ingenio duro nec tam firmo pectore 945 quin ubi quicque occasionis sit sibi faciat bene. Nunc si voltis deprecari huic seni ne vapulet, remur impetrari posse, [si] plausum si[c] clarum datis.

SOMMARIO (acrostico)

Al figlio che ama vuole un vecchio dare aiuto con l’argent,3 sebbene viva sotto la tirannia della moglie. In conseguenza, quando portano a Ramarro una somma per la vendita di certi asini, ne fa contare le monete in mano al suo schiavo Leonida. Arriva il malloppo all’amante. Per questo il figlio cede al padre una notte con la bella. Roso dalla gelosia per essersi vista portar via la ganza, il rivale4 rivela tutta la faccenda alla moglie del vecchio, spedendole un parassita. Accorre la moglie e trascina il marito via dal bordello.

PROLOGO

IL PROLOGO: Adesso, vi

prego, signori del pubblico, fate attenzione; e speriamo che lo spettacolo faccia buon pro a me, a voi, a tutta la compagnia, ai registi5 ed agl’impresari. Ora su, banditore, rendimi ben orecchiuto tutto questo pubblico.6 Bene, bene: ora siediti, ma sta’ attento a non aver fatto la fatica per niente7. Ora vi dirò perché son venuto fuori qua e che diavolo ci ho in testa: be’, è per farvi sapere il titolo di questa commedia. Perché quanto all’argomento, bastano due parole. Be’, ora diciamo quello che v’ho detto di volervi dire. In greco questa commedia s’intitola 8; l’ha scritta Demofilo9 e Macco10 l’ha tradotta in latino11. Vorrebbe ribattezzarla «Asinaria», se vi va bene 12. Ed è una commedia che ce n’ha di pepe e di movimento, a iosa; ci sarà da scompisciarsi dalle risa. Perciò fatemi una buona accoglienza, e in compenso Marte vi aiuti, come ha fatto tante volte13.

[Fine del prologo]

ATTO PRIMO

Profumino, Coccoditutti PROFUMINO: Se

è vero che tu vuoi che il tuo unico figlio ti sopravviva buono e bravo, io per conto mio ti scongiuro per i capelli bianchi che hai e, se ciò non conta, almeno per quello che ti fa prudere il sedere, la moglie che hai: se oggi m’hai voluto infinocchiare con le frottole, allora sono io ad augurarti che tua moglie campi un secolo più di te; anzi che, mentre essa vivrà felice e contenta, tu viva solo per sbattere il muso contro un guaio che ti faccia crepare. COCCODITUTTI: È come se m’interrogassi in nome della verità e dell’aria che si respira; perciò mi vedo costretto a spifferare tutto quello che vuoi sapere, manco avessi prestato giuramento. M’hai assalito con una tale faccia tosta che io dinanzi a un tale inquisitore non me la sento di non vomitare tutto. Perciò – forza! – tira fuori quello che hai tanta voglia di sapere: se ne saprò io qualcosa, farò in modo che lo sappia tu. PROFUMINO: E allora rispondimi, ma sul serio, ti supplico, a quello che ti chiedo, non ti far venire in testa di contarmi bubbole. COCCODITUTTI: E be’, e quando ti decidi a domandare? PROFUMINO: Che forse mi stai conducendo dove la pietra sfregia la pietra14? COCCODITUTTI: Che cavolo è ’sto posto? Che cavolo è e dove sia non so saperlo15. PROFUMINO: Dove piangono gli screanzati condannati a pestare la polenta, le isole Batti-batti, le isole Stridicateniche, dove buoi morti danno addosso a uomini vivi16. COCCODITUTTI: Ah, mo’ ho capito, Profumino, che cavolo di posto è quello: forse vuoi parlare di dove si fa la polenta. PROFUMINO: No, no, non ne parlo per niente, e non voglio che se ne parli, anzi fammi il favore di sputarci sopra, su quella parola17. COCCODITUTTI: E va be’, come vuoi (sputa). PROFUMINO: Su, su, forza, sputa ancora. COCCODITUTTI: Ancora? PROFUMINO: Ti prego, su, sputa dal fondo della gola: più forte, più forte. COCCODITUTTI: Ma fino a quando? PROFUMINO: Fino alla morte, questo voglio! COCCODITUTTI: Oh, sta’ attento che non ti finisca male! PROFUMINO: Diamine, alla morte di tua moglie, non alla tua! COCCODITUTTI: Oh, questo è un discorso che merita un premio: lascia stare le paure. PROFUMINO: Gli dèi ti diano tutto quello che vuoi. COCCODITUTTI: Ora stammi a sentire tu. Che ragione ci avrei d’interrogarti su questa faccenda, perché dovrei minacciarti? Forse perché non me ne hai informato? E in conclusione perché dovrei incacchiarmi con mio figlio, come fanno tutti gli altri papà? PROFUMINO: Che è ’sta novità? [A parte:] Mi fa stare a bocca aperta quello che c’è sotto, e comincio ad aver paura per come andrà a finire. COCCODITUTTI: Ma sì, lo so, e come, che mio figlio fa all’amore con questa puttanella qua vicino, Chiacchierina. È come dico, vero, Profumino? PROFUMINO: Sei sulla retta via. È proprio così: però s’è presa una brutta malattia. COCCODITUTTI: E che malattia è? PROFUMINO: Eh, che a quello che promette non corrisponde quello che si può permettere di dare. COCCODITUTTI: E sei tu ora che reggi i caciocavalli a mio figlio? PROFUMINO: Sì, proprio io, e l’altro che lo tiene su è il nostro Leonida. COCCODITUTTI: E fate bene, canchero! E io ve ne sono grato. Ma non sai, Profumino mio, che tipaccio è mia moglie. PROFUMINO: Sì, tu sei il primo a sentirlo, ma anche noi ne sappiamo qualcosa, non siamo ciechi. COCCODITUTTI: Bisogna riconoscere che è proprio insopportabile, ossessionante. PROFUMINO: Non c’è bisogno che me lo dica, ti credo in partenza. COCCODITUTTI: Guarda, Profumino, tutti i padri, se dessero retta a me, dovrebbero essere condiscendenti con i figli, per trovare nel figliolo uno che gli sia veramente amico e affezionato. E io proprio questo intendo fare: voglio che i miei mi vogliano bene; voglio imitare mio padre: lui, per amor mio, arrivò a travestirsi da marinaio18 per portar via dalla casa chiusa la donna di cui spasimavo io, fregando il tenutario. Non si vergognò a quell’età di combinare quegl’imbrogli e di comprarsi con quei favori l’affetto del figlio. Perciò ho deciso di uniformarmi ai costumi di mio padre. Difatti oggi mio figlio Granacavallo mi ha pregato di favorire il suo amore con un po’ di quattrini; e io non vedo l’ora di soddisfare mio figlio: voglio venire incontro al suo desiderio, voglio che veda in me un vero padre. Lui è la madre a tenerlo stretto e a mettergli i freni, come di solito fanno i padri: io invece su queste cose ci passo sopra. E specialmente ora che m’ha ritenuto degno delle sue confidenze, debbo rendere onore al suo buon temperamento; dato che s’è rivolto a me, come ogni figlio rispettoso deve fare con suo padre, non so che darei perché potesse avere quattrini da offrire all’amante. PROFUMINO: Ma che ti metti in testa quello che anch’io capisco che in testa non ci può stare? Tua moglie t’ha 19 portato in dote anche lo schiavo Ramarro che ci ha in mano più quattrini di quelli che possiedi tu. COCCODITUTTI: Ho accettato i quattrini e in conseguenza di questa dote ho dovuto vendere il comando della casa. Ora in poche parole ti faccio sapere perché ho bisogno di te. Mio figlio ha bisogno urgente di venti mine20: fa’ in modo di fargliele trovare pronte subito. PROFUMINO: In che angolo del mondo? COCCODITUTTI: Fammi una truffa. PROFUMINO: Il solito cofano di fesserie; è come ordinare di spogliare un uomo nudo. Io truffare te? Ma sì, provati a volare senz’ali! Io truffare te, che non hai un soldo bucato in mano, se non quel po’ che sei riuscito a truffare tu a tua moglie? COCCODITUTTI: O che tocchi a me, o che tocchi a mia moglie, o che tocchi al servo Ramarro, datti da fare, bidónaci, spogliaci; ti prometto che non ti capiterà niente di male se oggi ci riuscirai. PROFUMINO: È come se mi comandassi di andare a pesca per aria o di andare a caccia in mezzo al mare con la reticella da fiume21. COCCODITUTTI: Prenditi Leonida a collaboratore, macchina, arzigogola quello che ti pare; fa’ in modo che oggi mio figlio si becchi i quattrini da dare all’amante.

PROFUMINO: Ma dimmi un po’: Coccoditutti… COCCODITUTTI: E be’? PROFUMINO: Se per caso casco in una trappola, tu lo paghi il riscatto per me, ai nemici che mi pigliassero in mezzo? COCCODITUTTI: Te lo prometto. PROFUMINO: E allora tu occupati di quello che ti pare. Io intanto me ne vado al Foro22, a meno che tu non desideri qualcosa. COCCODITUTTI: Va’, va’, e buona passeggiata! Ah, sst, senti ancora! PROFUMINO: Eccomi. COCCODITUTTI: Se mi servirai per qualcosa, dove potrò pescarti? PROFUMINO [a parte]: Dove che sia, dove mi girerà di stare. Oramai non c’è più nessuno che possa farmi paura, che mi

possa dare l’idea di un pericolo, dato che tu mi hai spifferato per filo e per segno quello che ci hai in fondo al cuore. Anzi, se me la cavo da questa faccenda, me ne voglio fregare pure di te. [Ad alta voce:] Proseguo dove debbo andare e lì metterò in piedi la fabbrica. COCCODITUTTI: Oh, sta’ a sentire: io starò dal banchiere Imbroglionissimo. Allora anche tu al Foro?PROFUMINO: COCCODITUTTI: Giusto! Così, se avrai bisogno d’incontrarmi… Siamo intesi. [PROFUMINO:Esce.] COCCODITUTTI: Non ci può essere un servo peggiore di costui, più imbroglione, più rognoso quando c’è da guardarsene. Ma se c’è una cosa da far riuscire a modo non c’è che da affidarla a lui; preferirebbe farsi straziare a morte anziché non farti trovare fatto a puntino quello che ha promesso di fare. Perciò sono sicuro che i quattrini di cui mio figlio ha bisogno lui ce li ha già pronti come sono sicuro d’avere in pugno questo bastone che ho sotto gli occhi23. PROFUMINO: Ma che sto ancora a perdere tempo invece di andare al Foro come avevo intenzione? Su, andiamoci e restiamoci ad aspettare dal banchiere.

Diavolo24 [uscendo dalla casa di Ingambissima] DIAVOLO: Ah, si

fa così? Cacciarmi fuori di casa? Questa ricompensa a chi ha scucito tanto? Con chi ti fa del bene ti comporti male, con chi ti fa del male ti comporti bene; e allora tutto a danno tuo! Perché io ora di qui me n’andrò dai triumviri25 e vi denuncerò come si deve e manderò in rovina te e tua figlia, adescatrici, peste, rovina della gioventù. Perché il mare, a paragone con voi, non è mare, siete voi il mare dove si annega; io in mare ci ho fatto fortuna26, e l’ho dissipata tutta qui. Vedo che è sgradito e inutile tutto il bene che vi ho dato e vi ho fatto; ma d’ora in poi tutto il male che potrò farti te lo farò; e te lo sarai meritato. Ti ridurrò, perdio, al punto da cui sei sbucata, ai limiti estremi della miseria, ti farò capire cos’eri prima e cosa sei diventata adesso, da quando mi sono messo a fare la corte a quel bell’arnese e, cotto com’ero, gli ho dato l’anima mia. Prima eri coperta di cenci e ti pareva chi sa che se potevi consolare la micragna con un pezzo di pane fradicio, e se ci avevi quelle porcherie, ti sentivi in dovere di render grazie al cielo in ginocchio; ora che te la passi meglio, sei tanto puzzona, da voltare le spalle, proprio tu, a me, a cui devi tutto. Ma da belva che sei con la fame ti ridurrò un cagnolino; aspetta e lo vedrai. Con la ragazza non c’è proprio ragione di prendersela: non conta nulla, e perciò non merita nessun castigo. Agisce sempre a comando tuo, non sa che obbedirti: sei sua madre, e sei anche la sua padrona. Di te mi voglio vendicare, a te ti voglio rovinare come ti meriti, per come ti comporti con me. Ma guarda questa troia, come non si degna neppure di accostarmi, di parlarmi, di rabbonirmi! Oh, ecco che finalmente esce la ruffiana; spero che qui, sulla porta, possa dirle tutto quello che mi pare, dato che dentro non me l’hanno permesso.

Ingambissima, Diavolo Una sola di queste tue parole neanche a suon di filippi27 d’oro me la potrebbe portar via un compratore; tutte le schifezze che ci rovesci addosso sono oro a diciotto carati e argento ottocento, tanto è inutile, il cuoricino tuo è inchiodato da noi e il chiodo ce l’ha infilato Cupido. Affréttati più che puoi a fuggire a forza di remi e di vele: quanto più ti avventuri in alto mare, tanto più i cavalloni della fregola ti ricacciano in porto. DIAVOLO: Ma io al posteggiatore di questo porto il pedaggio non lo pago28; io d’ora in poi comincerò a trattarti come ti sei meritata riguardo a me e a quello che t’ho dato, dato che tu non mi tratti come mi son meritato io, anzi mi cacci da casa. INGAMBISSIMA: Ma io lo so che questo lo si dice con la bocca ma non lo si fa manco per il cavolo. DIAVOLO: T’ho tirata fuori io solo dalla desolazione e dalla bolletta; e se adesso me la godessi solo io, non ti potresti ancora sdebitare. INGAMBISSIMA: E goditela solo tu, se sarai sempre il solo a scucire quanto ti chiederò. Tienti quello che ti s’è promesso, ma ad una condizione, che la grana ce la rifili più di tutti. DIAVOLO: Ma non c’è un limite ai versamenti? Non riesci mai a saziarti? Non appena hai intascato non passa un giorno che torni a chiedere. INGAMBISSIMA: E che c’è un limite a fare all’amore, a chiavare? Non riesci mai a saziarti? Non appena me l’hai riportata non passa un’ora che mi chiedi di riportartela. DIAVOLO: Ma io te l’ho dato quello che avevo pattuito con te! INGAMBISSIMA: E io t’ho data la ragazza: siamo pari: tanto paghi, tanto fotti. DIAVOLO: No, con me la fai proprio sporca. INGAMBISSIMA: Ma di che ti lamenti se faccio il mio mestiere? Non c’è uno scultore, un pittore, un poeta che abbia presentato una mezzana disposta a far cortesie a un innamorato, se vuol fare un buon raccolto. DIAVOLO: Ma insomma è tuo interesse contentarmi, se vuoi che io ti duri di più. INGAMBISSIMA: Ma non lo sai che chi contenta l’innamorato contenta poco se stessa? L’innamorato per la ruffiana è tale e quale come un pesce: se non è fresco, puzza29. Fresco, è succoso, è saporito, lo puoi cucinare come ti pare, in umido o alla griglia, puoi rivoltarlo come meglio ti piace: lui non ha che la smania di dare, gode se gli se ne chiede: e già, perché si munge ancora una borsa piena. Perciò lui non s’accorge di quello che scuce, dell’emorragia che si produce; pensa solo a una cosa: perciò vuol piacere alla ragazza, a me, al matro, ai servi, persino alle domestiche; un innamorato novizio fa le moine pure al cagnolino mio, perché gli piroetti intorno quando lo vede. Non è vero che ognuno deve saperci fare per ottenere un guadagno? DIAVOLO: Eh, l’ho imparata, e come!, questa verità, a mie spese. INGAMBISSIMA: Se perbacco ora ti trovassi soldi da metterci in mano, parleresti diversamente; ma siccome non hai niente, pretendi di fottertela a suon di parolacce. DIAVOLO: Non è mia abitudine. INGAMBISSIMA:

INGAMBISSIMA:

E neppure è abitudine mia, canchero, dartela gratis. Pure per riguardo alla tua età e alla tua posizione, ti farò questa concessione. Siccome hai pensato più a dar da guadagnare a noi che a tutelare il tuo buon nome, se ora mi si consegnano in mano due talenti d’argento30, l’uno sopra l’altro, ti concederò di tenertela gratis per tutta la notte, proprio in onor tuo. DIAVOLO: E se io non ho un soldo? INGAMBISSIMA: Che tu non ce n’abbia mi sforzerò di crederlo, ma lei se n’andrà con un altro. DIAVOLO: E tutto quello che t’ho dato prima? INGAMBISSIMA: Tutto consumato: se me ne rimanesse ancora, la ragazza te la spedirei senza chiederti un soldo. Il giorno, l’acqua, il sole, la luna, la notte, queste cose non mi ci vuole la grana per comprarle: ma tutto il resto che ci serve bisogna negoziarlo all’uso greco31. Quando andiamo a chiedere il pane al fornaio, o il vino alla cantina, la roba te la danno solo se gli hai messo in mano i quattrini: e noi siamo stati educati alla stessa maniera. Le nostre mani ci hanno sempre tanto d’occhi, si fidano solo di quello che vedono. Lo sai il proverbio: «Riscuotere da chi non ha niente…». Lo sai di che parlo. Non dico altro. DIAVOLO: Ora che sono a secco mi fai ben altri discorsi da quelli di prima. Ti presenti ben diversamente ora da quando sgranavo la grana, ben diversamente da quando mi adescavi carezzando e cincischiando! Allora, quando venivo da te, pure la casa tua sembrava sorridermi; mi dicevi che tu e la bella figlia amavate solo me, me solo fra tutti; quando sganciavo qualcosa, tutt’e due vi precipitavate a baciarmi in bocca come due piccioncini, dai gusti miei tiravate fuori i gusti vostri. Sempre appiccicate addosso: non facevate altro che quello che ordinavo io, che volevo io, quello che non volevo e non permettevo facevate a gara a schifarlo; non vi sarebbe passato neppure per la testa, allora, di provare a farlo. Ora invece che una cosa io la voglia o non la voglia, non ve ne frega un corno, porcaccione. INGAMBISSIMA: Non lo sai? Il nostro mestiere è simile in tutto a quello dell’uccellatore32. L’uccellatore, dopo essersi preparato il terreno, vi sparge il cibo; gli uccelli così prendono confidenza: chi cerca un guadagno deve sottoporsi a una spesa; gli uccelli mangiano spesso: ma una volta che son presi, rifondono le spese all’uccellatore. Tale e quale succede a noi: la casa è il nostro terreno, l’uccellatore sono io, il becchime è la puttana, il letto è il laccio, e i giovanotti innamorati sono gli uccellini; prendono confidenza a furia di saluti garbati, di solleticanti blandizie, di baci, di discorsetti aggraziati e allettanti; e se uno palpeggia una poppina, l’uccellatore non ne riceve certo un danno; e se ha acchiappato un bacio, l’uccellatore può acchiappare lui senza bisogno di reti. Tu che hai partecipato tante volte a questo ballo, ti sei dimenticato delle sue regole! DIAVOLO: È colpa tua che cacci via l’educando mentre sta imparando ancora. INGAMBISSIMA: Torna pure difilato quando avrai pescato i quattrini con cui pagare le lezioni: ma per ora non ti resta che andartene. DIAVOLO: Aspetta, aspetta, ascolta. Dimmi, quanto pretendi che ti dia per lei, perché durante l’anno stia solo con me e con nessun altro? INGAMBISSIMA: Tu? Venti mine; e a questa condizione: se qualcuno me le porta prima, tu fila via. DIAVOLO: Senti, prima d’andartene, c’è un’altra cosa che ti voglio dire. INGAMBISSIMA: Di’ quello che ti pare. DIAVOLO: Non mi sono fregato interamente, c’è ancora un avanzo per fregarmi meglio. Ci ho il modo di scucirti quello che mi chiedi. Ma te lo darò ponendo anch’io le mie condizioni, tanto perché tu lo sappia: per un anno intero lei deve venire a letto solo con me e non deve farsi fottere da nessun altro maschio. INGAMBISSIMA: E va be’, anzi, se ti pare, farò castrare tutti i servi maschi che abbiamo in casa. Anzi per fissare quello che dobbiamo fare, vedi di portarmi un contratto; quello che vuoi, quello che ti pare, di tutto fanne un obbligo per noi: purché porti anche i quattrini, non farò difficoltà a subire tutto il resto. Le case chiuse sono tali e quali come gli uffici del dazio: se porti i quattrini, allora si spalancano, se non ci hai niente da dare, ci sbatti il muso contro. [Esce.] DIAVOLO: Sono fottuto se non trovo quelle fottute venti mine. È chiaro, se non do fondo a quei quattrini, tocca a me andare a farmi fondere. Ora vado al Foro e cerco di sfruttare tutti i mezzi, tutte le possibilità. Ogni amico che incontrerò, lo pregherò a mani giunte, lo supplicherò. Ho deciso: galantuomini o farabutti, li voglio avvicinare e sperimentare tutti; e all’ultimo, se non potrò trovare gli sghei in prestito, non c’è che da ricorrere a un usuraio. [Fine del primo atto]

ATTO SECONDO

Profumino PROFUMINO: Ehi, Profumino, è ora di

svegliarti e di tramare una trappola per spillare quei quattrini. È un pezzo che hai lasciato il padrone e te ne sei andato al Foro, proprio per tramare la trappola buona a fatti pescare i quattrini33. E lì invece finora hai dormicchiato senza combinare un cavolo. Su, è ora di scrollarti di dosso la pigrizia, di non fare più il lavativo; non ti decidi a ridiventare il furbo matricolato patentato? Pensa a salvare il padrone, non fare quello che son soliti fare tutti gli altri servi che impiegano tutta la furberia a far fesso il padrone. Ma io da dove debbo cominciare? Chi posso fregare? Dove posso dirigere la mia navicella? Ecco, abbiamo consultato gli aruspici, abbiamo applicato la scienza augurale: dovunque ti giri, gli uccelli dicono che va bene, il picchio e la cornacchia da sinistra, il corvo e l’upupa da destra ci dicono tutti la stessa cosa; perbacco, ho deciso di seguire le vostre indicazioni. Ma che significa che il picchio tartassa col becco il tronco dell’olmo? Qui c’è sotto qualcosa. Qui, per quanto ne capisco io di presagi e di auspici, ci sono senz’altro verghe già pronte per me o per il capociurma Ramarro. Ma cos’è che sta venendo qua di corsa, a perdifiato, Leonida? Ho paura che me lo rovini il buon augurio per la mia trappola.

Leonida, Profumino LEONIDA: [non s’è accorto della presenza di Profumino]: Dove posso ripescare Profumino o il padroncino per renderli

più lieti della Letizia stessa? Con la mia presenza gli porto un bottino spropositato, un trionfo; ed è giusto, perché quando bevono o fottono mi vogliono sempre con loro; così ora spartirò con loro il bottino che ho sgraffignato. PROFUMINO: [a parte per tutta la prima metà della scena]: Questo qui ha svaligiato una casa, se si è comportato a modo suo. Guai a chi non ha saputo guardare bene la porta. LEONIDA: Mi rassegnerei a rimanere schiavo per tutta la vita, pur di riuscire a incontrare Profumino adesso. PROFUMINO: Se dipendesse da me, non diventeresti mica libero più presto. LEONIDA: Mi farei piovere sulla schiena persino duecento staffilate, di quelle che lasciano il segno. PROFUMINO: Sta dissipando il suo patrimonio: tutto il suo tesoro se lo porta sulla schiena. LEONIDA: Se lui si lascia scappare quest’occasione, poi non la riacchiappa più, di sicuro, neanche galoppando su una quadriga di cavalli bianchi 34; abbandonerà il padrone mentre è assediato, farà ingigantire lo slancio dei nemici. Ma se lui si dà da fare con me ad acchiappare a volo l’occasione che si presenta, procurerà ai padroni, al figlio e al padre assieme35, le spoglie opime36, farcite di gioia; allora rimarranno legati tutti e due a noi due per tutta la vita, incatenati dal nostro benefìcio. PROFUMINO: Parla di incatenati; non mi piace: ho paura che abbia tramato qualche trappola a nome suo e mio. LEONIDA: Son fottuto se non pesco Profumino; ma dove diavolo s’è cacciato? PROFUMINO: Quest’uomo va cercando un complice da associarsi a qualche mala azione. Ah, questo no. È un segno preoccupante quando uno, mentre suda, si mette a tremare. LEONIDA: Ma come mai, con la fretta che ci ho, mi risparmio i piedi e scateno la lingua? Ma è ora di farla zittire questa disgraziata, che mi consuma la giornata a furia di parlare. PROFUMINO: Ma guarda lo sciagurato che violenta37 la sua avvocata! Perché ogni volta che fa una mascalzonata, è la lingua a spergiurare per lui. LEONIDA: Ma bisogna affrettarsi, se no passa il tempo per preservare la preda. PROFUMINO: Ma di che preda parla? Mo’ gli vo incontro e gli spremo di che cavolo si tratta. [ Presentandosi finalmente a Leonida:] Ti saluto a voce spiegata, finché ci ho forza nel gozzo. LEONIDA: Oh, salute, palestra della frusta. PROFUMINO: Che si fa, custode della galera? LEONIDA: O affittuario delle catene! PROFUMINO: O leccornia dello staffile! LEONIDA: Quanto credi di pesare nudo? PROFUMINO: E che ne so? LEONIDA: Sapevo che non lo sapevi, ma io che t’ho legato i pesi, lo so. Quando t’appendono per i piedi nudo e incatenato, pesi cento libbre. PROFUMINO: E come lo calcoli? LEONIDA: Aspetta, mo’ ti dico come lo calcolo e lo provo. Quando ti appendono ai piedi un peso di cento libbre esatte, quando le mani sono strette dalle manette e ritorte sulla trave, tu non premi e non pesi più… di quella carogna e di quel puzzone che sei! PROFUMINO: Crepa! LEONIDA: Questo destino te lo lascia per testamento la Schiavitù. PROFUMINO: Ma che hai preso le parole per la fanteria leggera38 e ci fai le scaramucce? Su, fuori il malloppo! LEONIDA: Ho deciso di farti una confidenza. PROFUMINO: E allora parla senza scrupoli. LEONIDA: Se vuoi dare una mano al padroncino innamorato, ti capita di colpo un’occasione stupenda; però c’è mischiato un po’ di pericolo. C’è pericolo che i carnefici saranno occupati ogni giorno sulle nostre spalle. Profumino mio, ora bisogna prodigare l’inventiva più spericolata negl’imbrogli. Ho inventato tale un bidone che nessuno potrà negare che noi due siamo i più degni di vederci arrivare addosso tutti i possibili supplizi. PROFUMINO: Perciò mi meravigliavo che da un pezzo mi facessero prurito le spalle; si vede che mi volevano avvertire che s’affacciava un guaio per loro. Ma su, dimmi pure di che si tratta. LEONIDA: C’è in vista un malloppo colossale; ma gli si profila accanto una colossale fregatura. PROFUMINO: Se tutti gli aguzzini s’accordassero per acciaccarmi, credo d’avere una buona schiena da schiavo, in perfetta confidenza con le frustate; non c’è bisogno di andarne a cercare fuori un’altra. LEONIDA: Se tieni fermo a questa fermezza d’animo siamo salvi.

PROFUMINO:

Se la faccenda s’ha da risolvere sulla mia schiena, sono disposto a derubare anche le casse dello Stato. Poi vedrai come saprò negare, saprò stringere i denti e, in mancanza di meglio, arriverò a spergiurare. LEONIDA: Oh, questo sì che è eroismo, quando uno sa sopportare strenuamente la sfortuna, se è necessario. Chi assaggia strenuamente la sfortuna poi azzanna proprio lui la fortuna. PROFUMINO: Be’, perché non ti decidi a spifferarmi la faccenda? Non vedo l’ora di buscarmi il malanno. LEONIDA: Be’, domanda con calma una cosa per volta, fammi riprendere fiato. Non vedi che per la corsa m’è venuto il fiatone? PROFUMINO: Bene, bene, me ne starò cheto quanto vuoi, magari fino al momento di vederti schiattare. LEONIDA: Dove diavolo è il padrone? PROFUMINO: Il vecchio è al Foro, il giovane è in casa. LEONIDA: Mi basta. PROFUMINO: Per questo sei diventato ricco? LEONIDA: Non dire fesserie. PROFUMINO: E va bene, niente fesserie. Ma la gran novità i miei orecchi la stanno ancora aspettando a… bocca aperta. LEONIDA: Fa’ bene attenzione, così ne saprai quanto me. PROFUMINO: Ho chiuso la bocca. LEONIDA: Mi fai felice. Ti ricordi che il nostro maestro di casa aveva venduto gli asini d’Arcadia a un mercante di Pella39? PROFUMINO: Me lo ricordo. E poi che è successo? LEONIDA: Ora quello lì ha spedito i quattrini da consegnare a Ramarro per gli asini; è arrivato adesso un giovanotto, che li porta addosso. PROFUMINO: E dov’è quest’individuo? LEONIDA: Che ti prepari a mangiartelo se lo vedi? PROFUMINO: Magari! Ma dimmi un po’, che mi stai parlando di quegli asini decrepiti, zoppi, che avevano gli zoccoli consumati fino alle cosce? LEONIDA: Proprio quelli, sì, quelli che ti portavano qua dalla campagna quelle buone verghe di legno d’olmo. PROFUMINO: Capisco, sì, quelli che una volta ti trasportarono incatenato di qui in campagna. LEONIDA: Ci hai proprio buona memoria. Be’, mentre me ne stavo seduto dal barbiere, quello lì mi si mise a domandare se conoscevo Coccoditutti, il figlio di Soldataccio. Gli rispondo subito che lo conosco, aggiungo che sono un suo servo e gli indico la casa. PROFUMINO: E poi? LEONIDA: Dice di portate il denaro degli asini al maestro di casa Ramarro, venti mine, ma che lui non lo conosce di faccia, mentre conosce benissimo Coccoditutti. Dopo che ha detto questo, poi… PROFUMINO: Poi? LEONIDA: Sta’ a sentire e lo saprai. Subito mi faccio una faccia d’occasione, da uomo di qualità, gli dico che sono io il maestro di casa. Ma lui mi rispose: «Io Ramarro non lo conosco, non so che faccia abbia. Non devi prendertela a male. Se vuoi, conduci qua il tuo padrone Coccoditutti, che conosco: allora non troverò niente di male che tu ti porti via i quattrini». Gli dissi che gli avrei condotto il padrone e che sarei restato a casa a loro disposizione; lui s’è diretto alle terme; di lì poi verrà qua. Ora che ti pare che ci sia da fare? Dimmelo. PROFUMINO: Ma a questo c’è da pensare, come soffiare quei quattrini sia al nuovo venuto sia a Ramarro. La faccenda va sgrossata a dovere; perché se quel forestiero arriva a portare prima qua i quattrini, noi siam fottuti sul colpo. Senti, oggi il vecchio mi ha strascinato solo in separata sede fuori di casa e ci ha minacciato, a me e a te, che ci trasformerà in supporti di legno d’olmo40 se oggi Granacavallo non arriva a trovarsi in tasca venti mine d’argento. Ci ha ingiunto di bidonare o il maestro di casa o addirittura sua moglie, e ha promesso che per quanto può ci darà una mano. Perciò ora corri al Foro dal padrone e raccontagli quello che vogliamo fare: che tu da Leonida che sei vuoi trasformarti nel maestro di casa Ramarro, finché il mercante non abbia versato i quattrini per gli asini. LEONIDA: Bene, farò quel che mi dici. PROFUMINO: Io intanto terrò a bada il giovanotto, se capiterà che arrivi prima. LEONIDA: Be’, e allora? PROFUMINO: E che vuoi ancora? LEONIDA: Se quando farò la parte di Ramarro ti appiccicherò un bel cazzottone sulla guancia, non t’incacchiare. PROFUMINO: Tu piuttosto guardati bene dal toccarmi, se hai giudizio, perché se no oggi ti porterà iella aver cambiato nome41. LEONIDA: Ma su, sappi soffrire con garbo. PROFUMINO: Pensa a soffrire in silenzio tu, quando te le restituirò. LEONIDA: Ma io ti sto spiegando quello che c’è da fare. PROFUMINO: E io ti spiego quello che penso di fare io. LEONIDA: Non mi dire di no. PROFUMINO: Che che, ti prometto di ripagarti come meriti. LEONIDA: Va bene, me ne vado, tanto, lo so già, ti lascerai fare. Ma chi è che arriva? Ah, è lui, proprio lui. Torno qui in un baleno. Tu in tanto trattienilo. Corro a raccontare tutto al vecchio. PROFUMINO: E che aspetti ancora a fare il tuo dovere e non scappi? [Leonida esce.]

Il mercante, Profumino Come mi è stato indicato, dev’esser questa la casa dove si dice che abita Coccoditutti. [Allo schiavetto che lo accompagna:] Su, ragazzo, bussa e chiama qua fuori il maestro di casa Ramarro, se sta lì dentro. PROFUMINO: Chi è che ci sta scassando la porta? Ehi, dico, ci senti? MERCANTE: Ma non l’ha toccata nessuno! Ce l’hai, sì o no, la testa a posto? [PROFUMINO.] Ah, ma sai, ho visto che t’avvicinavi e ho pensato che tu l’avessi già toccata. Sai, la porta è mia compagna di schiavitù, e non voglio che pigli botte da te. Io mi ci affeziono alla famiglia. MERCANTE: Eh, ma non c’è pericolo che schizzino via i cardini della porta se rispondi sempre così a quelli che bussano. PROFUMINO: Ma sai, ’sta porta è fatta così, che si mette subito a chiamare il portiere a gran voce, se vede arrivare uno che la vuol prendere a calci. Ma che sei venuto a fare? Che cerchi? MERCANTE: Volevo Coccoditutti. PROFUMINO: Se stesse a casa, te lo direi. MERCANTE: E il suo maestro di casa? MERCANTE:

PROFUMINO: Manco lui c’è. MERCANTE: E dov’è? PROFUMINO: M’ha detto che andava dal barbiere. MERCANTE: Sì, ce l’ho incontrato, ma poi non è tornato? PROFUMINO: No, t’assicuro. Ma tu che volevi da lui? MERCANTE: Se ci fosse stato, avrebbe intascato venti mine d’argento. PROFUMINO: E per che affare? MERCANTE: Ha venduto alla fiera certi asini a un mercante di Pella. PROFUMINO: Lo so. E tu ora porti i quattrini? Credo che sarà qui fra un minuto. MERCANTE: Che faccia ha il vostro Ramarro? [A parte:] Se è lui, ora potrò essere sicuro. PROFUMINO: Ci ha le guance magre, è rossiccio, ha un bel po’ di pancia, occhi torvi, statura rispettabile, aspetto ingrugnato42. MERCANTE [a parte]: Un pittore non avrebbe potuto fargli il ritratto con più precisione. PROFUMINO: Ah, mo’ lo vedo arrivare, scuote la testa mentre cammina. Mo’, incacchiato com’è, se uno gli si mette fra i piedi ce le piglia. MERCANTE: Sì, sta fresco! Se cammina con l’ira d’Achille43 in corpo, gonfio d’impeto e di minacce, si provi a toccarmi con la furia che ci

ha e vedrà

che furia di bastonate gli toccherà.

Leonida, Profumino, Il mercante LEONIDA [finge

di non vedere gli altri due]: Non riesco a capire perché tutti se ne freghino di quello che dico io! Avevo ordinato a Profumino di venire dal barbiere: e chi l’ha visto? Si vede che non glien’importa un fico di preservare la schiena e le gambe. MERCANTE: Ammappelo, che spocchia! PROFUMINO: O Dio, povero me! LEONIDA: [rivolgendosi finalmente a Profumino]: Che forse oggi ho proclamato Profumino liberto? Forse è già affrancato? PROFUMINO: Ti supplico. LEONIDA: Vedrai che fregatura t’è capitata a venirmi fra i piedi! Ti ricordi che t’avevo ordinato di venire dal barbiere? Perché non ci sei venuto? PROFUMINO [additando il mercante]: Questo qui m’ha trattenuto. LEONIDA: Stai fresco! Anche se tu m’inventassi che t’ha trattenuto il sommo Giove e venisse proprio lui a intercedere per te, col cavolo che te la passeresti liscia. Tu, schiena da sferze, osar di trascurare i miei ordini! PROFUMINO [al mercante]: Ospite, sono fritto! MERCANTE: Ti prego, Ramarro, non batterlo per causa mia. LEONIDA: Avessi in mano ora un pungolo… MERCANTE: Su, sta’ buono. LEONIDA: …per sistemarti le spalle, che ci hanno già i calli per le botte che hanno prese! [Al mercante:] Scóstati, fammelo subissare ’sto farabutto che mi fa sempre incazzare, ’sto furfante a cui non si può mai ordinare una cosa una sola volta, ma anzi bisogna sgolarsi a ripetergliela cento volte; perdio, a furia di gridare e di farmi la bile non riesco più a tener dietro il mio lavoro. Stronzo, non t’ho ordinato di portar via la merda dalla porta? Non t’ho ordinato di levare le ragnatele dalle colonne? Non t’ho ordinato di lucidarmi a giorno le borchie del portone? E tu niente: mi tocca camminare col bastone in mano, come uno zoppo. Per una volta che ho dovuto passare tre giorni al Foro, per cercare senza tregua chi cercasse quattrini a credito, voi intanto qui a casa ve ne state a dormire, e il padrone lo fate abitare non in una casa, ma in un porcile. Prenditele perciò! [Lo colpisce.] PROFUMINO: Ospite, ti scongiuro, difendimi. MERCANTE: Ramarro, ti prego, per amor mio, lascialo stare. LEONIDA: Ehi, e per il trasporto dell’olio hanno pagato? PROFUMINO: Sì. LEONIDA: E a chi hanno dato i quattrini? PROFUMINO: Proprio a Ordinamento44, il tuo rappresentante. LEONIDA: Ah, mi vuoi prendere per il verso del pelo! Lo so che ci ho un rappresentante, e che in casa del padrone non c’è un servo più in gamba di lui. Ma il vino che ho venduto ieri al vinattiere Seccaglione, quello ce l’ha pagato a Ordinamento? PROFUMINO: Credo che lo abbia fatto, perché ho visto venire qua Seccaglione in persona in compagnia di un banchiere. LEONIDA: D’ora in poi gli affari li sbrigherò sempre così. Il vino che gli avevo consegnato l’altra volta, son riuscito a farmelo pagare a stento dopo un anno intero! Ora invece si sbriga: ti porta un banchiere a casa e sottoscrive l’assegno. E Corricorri ha riportato il salario45? PROFUMINO: Credo solo la metà. LEONIDA: E del resto che ne ha fatto? PROFUMINO: Ha detto che l’avrebbe portato quando gliel’avessero dato; perché glielo trattengono per garanzia finché non ha terminato il lavoro per cui è stato affittato. LEONIDA: E Leccapopolo li ha riportati i bicchieri che gli avevo prestati? PROFUMINO: Non ancora. LEONIDA: Ah no? E va be’; se vuoi regalare qualcosa, non hai che da prestarla a un amico. MERCANTE [a parte]: Oh, non ne posso più! Mo’ me ne vado, tanto mi sta antipatico. PROFUMINO [a bassa voce a Leonida]: Quando la fai finita? Non senti cosa dice? LEONIDA [anche lui a bassa voce]: Ho inteso e la smetto. MERCANTE [a parte]: Oh, finalmente s’è zittito, mi pare. Ora è il caso d’affrontarlo, prima che ricominci a gorgheggiare. [A Leonída :] Ti decidi a darmi ascolto? LEONIDA [fingendo d’accorgersi solo adesso di lui]: Oh, bene, bene! E quando sei arrivato? Non t’avevo visto, t’assicuro, non te la prendere a male: la rabbia mi aveva chiuso gli occhi. MERCANTE: Be’, non c’è da meravigliarsi. Ma io volevo Coccoditutti, se è in casa. LEONIDA [indicando Profumino]: Lui dice che non c’è. Ma se vuoi snocciolare questi quattrini a me, posso assicurarti che la faccenda è regolata per sempre. MERCANTE: Preferirei darteli in presenza del tuo padrone Coccoditutti.

PROFUMINO: Ma il padrone lo conosce bene e lui certo conosce il padrone. MERCANTE: È inutile, glieli darò in presenza del padrone. PROFUMINO: Ma daglieli sulla mia responsabilità, me ne farò garante io; perché

se il nostro vecchio verrà a sapere che non si è data fiducia a lui, s’incacchierà brutto, perché lui gli si è sempre affidato in tutto. LEONIDA: Ma a me che me ne frega? Se non li vuole dare, non li dia e se ne stia piantato lì. PROFUMINO [a bassa voce al mercante]: Su, daglieli, ti prego, se no ho paura che crederà che sia stato io a persuaderti di non avere fiducia in lui. Daglieli, ti supplico, non avere paura: saranno al sicuro. MERCANTE: Crederò che ci siano finché mi rimarranno in mano. Io sono forestiero e Ramarro non lo conosco. PROFUMINO: Ma conoscilo una buona volta! MERCANTE: Se sia lui, se non sia lui, io non lo so. Se è lui, ben gli stia. Io per me sono sicuro che il malloppo non lo darò a nessuno se non sono sicuro. LEONIDA [a parte]: Possano subissarlo tutti gli dèi! [A Profumino:] Non lo star a supplicare. Non lo vedi com’è fiero di palpare le venti mine che mi deve? [Al mercante:] Nessuno le vuole, tornatene a casa, levati dai piedi, non ci rompere più i coglioni. MERCANTE: Ih, che bollore! Ma un servo non deve permettersi d’insolentire la gente. LEONIDA [a Profumino]: Ma mo’ ti freghi malamente, se non lo copri d’insulti 46. PROFUMINO: Puzzone, buono a nulla! [A bassa voce:] Ma non vedi che s’è incazzato? LEONIDA: Continua! PROFUMINO: Vergogna dell’umanità! [A bassa voce:] Ti scongiuro, daglielo il malloppo, che gusto ci provi a fartele dire? MERCANTE: Ma voi state cercando rogna! LEONIDA [a Profumino]: Perdio, ti farò spezzare le gambe se non mi bistratterai a dovere questo svergognato! PROFUMINO: Perdio, son fottuto. Su, svergognato, mascalzone! [A bassa voce:] Non ti decidi a soccorrere un disgraziato come me? LEONIDA [a Profumino]: E continui a pregare quel farabutto? MERCANTE: Ma insomma! Tu schiavo osi insultare un uomo libero? LEONIDA: Ma vatti a far scorticare. MERCANTE: Ma a te piuttosto toccherà d’essere scorticato non appena oggi arriverò a vedere Coccoditutti. Vedrai che bel processo ti farò intentare.47 LEONIDA: E io non mi presento.48 MERCANTE: Non ti presenti? Sta’ attento. LEONIDA: Ci sto attento. MERCANTE: Oggi sulla schiena vostra me lo si pagherà come si deve il castigo. LEONIDA: Ma crepa! E credi che ci si castigherà per dare soddisfazione a un boiaccia come te? MERCANTE: E vedrai come mi si pagheranno oggi le parolacce che m’avete sputate addosso. LEONIDA: Ah, sì, miraggio dello staffile! Parli così, avanzo di forca? Credi che noi ce la facciamo sotto dinanzi al padrone? Vattene, su, subito dal padrone a cui mi vuoi denunciare49; del resto era un pezzo che ci volevi andare. MERCANTE: Ah, cominci a capirlo? Da questa tasca non stilerai manco un soldo, se non me lo ordinerà Coccoditutti di consegnartelo. LEONIDA: Fa’ come vuoi, e ora su, march! Tu ti diverti a insultare gli altri e pretendi che non ti si ricambi alla pari? Sono un uomo come te, tale e quale50. MERCANTE: Be’, questo è vero. LEONIDA: Seguimi per di qui. Fatti i debiti scongiuri, questo ti posso dire: finora nessuno ha potuto accusarmi di una vera colpa e ad Atene oggi non c’è nessuno su cui pensino di potersi fidare come su di me. MERCANTE: Sarà così, ma oggi non mi persuaderai mai a consegnarti i quattrini, se non ti conosco. Quando un uomo non lo si conosce, non lo si considera un uomo, ma un lupo per l’uomo che gli sta di fronte. LEONIDA: Ora cominci pure a lisciarmi. Lo sapevo che avresti dato soddisfazione a quest’omuncolo per l’offesa che gli hai fatta. Anche se ci ho un aspetto schifosetto, sono una persona per bene e i miei risparmi non si possono neppure contare51. MERCANTE: Sarà. LEONIDA: Anche oggi Splendentino di Rodi, quel riccone di un mercante, poiché il padrone non c’era, mi ha consegnato da solo a solo un bel talento d’oro, ha avuto fiducia in me e non ha fatto una fesseria. MERCANTE: Sarà. LEONIDA: E tu pure, se ti fossi informato prima da altri sul conto mio, quello che ci hai addosso ora me lo consegneresti certamente. MERCANTE: Be’ potrei non dire di no52. [Fine del secondo atto]

ATTO TERZO

Ingambissima, Chiacchierina INGAMBISSIMA:

Insomma quando ti proibisco una cosa, non c’è verso di farsi obbedire da te? O ci hai proprio voglia di far vedere che te ne freghi degli ordini di tua madre? INGAMBISSIMA: Come potrei pregare la Pietà se pensassi di piacerti comportandomi coi costumi che tu, mamma, vuoi mettermi in mente53? INGAMBISSIMA: Ah, significa coltivare la pietà mettersi sotto i piedi i comandi della madre? Ti pare decente contestare le mie prescrizioni? CHIACCHIERINA: Come sarebbe a dire? Ma io non parlo male di quelle che si comportano bene né voglio bene a quelle che si comportano male. INGAMBISSIMA: Sei una sgualdrina che parla troppo. CHIACCHIERINA: Mamma, questo è il mio mestiere: la lingua invita, il corpo provvede, il cuore aspira, ma il guadagno ti consiglia. INGAMBISSIMA: Io ti volevo rimproverare e mo’ le accuse te le metti a farmele tu. CHIACCHIERINA: Ma, per carità, non ci penso nemmeno ad accusarti e poi non credo di averne il diritto. Ma piango la mia disgrazia, che mi si proibisce di stare con l’uomo che amo. INGAMBISSIMA: Ma l’avrò il diritto di dire una parola una volta al giorno? CHIACCHIERINA: Ma io ti cedo non solo la parte tua, ma anche la mia; tienti tu la bacchetta e da’ il segno di quando si deve parlare e di quando si deve star zitte. Ma se io abbandono il remo e mi ritiro in cabina a riposare, tutto il buon andamento della casa ti si blocca. INGAMBISSIMA: Ma osi parlare tu, che sei la donna più sfacciata che io abbia mai vista? Quante volte ti ho proibito di chiamare, di carezzare Granacavallo, il figlio di Coccoditutti, di chiacchierarci e di contemplarlo? Che ci ha dato quel morto di fame? Che ci ha fatto portare? O credi che le paroline siano oro colato e le belle frasi siano regali? Anzi sei tu, di testa tua, che lo ami, sei tu che ci fai la pera cotta, sei tu che te lo fai venire a fianco! Quelli che pagano, ci ridi sopra; e te ne vai in brodo di giuggiole per quelli che ci prendono in giro. O bisogna star ad aspettare, se qualcuno ti promette di farti diventar ricca quando sarà crepata sua madre54? E invece, canchero, c’è pericolo per noi e per tutta la casata di morire di fame aspettando che crepi quella lì. Ora insomma se non mi porta venti mine d’argento, perdio lo sbatto fuori quel frescone che sa prodigare solo le lagrime. Questo è l’ultimo giorno che ci passo sopra alla sua micragna. CHIACCHIERINA: Ma io mi rassegno anche a rimanere a digiuno, mamma, se lo pretendi. INGAMBISSIMA: Ma io non ti proibisco di fare all’amore con chi paga per andare a letto con te. CHIACCHIERINA: Mamma, ma se il cuore è impegnato, che debbo fare? Consigliami tu. INGAMBISSIMA: Be’ guarda la mia testa bianca, se veramente cerchi un consiglio nel tuo interesse. CHIACCHIERINA: Ma anche il povero pecoraio, mamma, che guida al pascolo le pecore di un altro padrone, ce ne ha una tutta sua per cullare i suoi sogni. Lascia che il mio amico del cuore sia solo Granacavallo; è lui solo che io desidero. INGAMBISSIMA: Su, dentro, perdio, non c’è, sicuro, una sfacciataggine peggiore della tua. CHIACCHIERINA: Sì, mamma, gli hai saputo insegnare l’ubbidienza a tua figlia. [Rientrano entrambe.]

Profumino, Leonida PROFUMINO: Sì, proprio

così, dobbiamo riempire di lodi e di ringraziamenti infiniti la Malafede, ora che con le nostre trappole, i nostri imbrogli e le nostre bidonate, fidando nella resistenza delle nostre spallacce, nell’eroismo di fronte alle verghe d’olmo, di fronte55 ai pungoli, alle piastre infuocate, alle croci, alle pastoie, ai ceppi, alle catene, alle celle, alle cinghie, ai collari, ai capestri, alla faccia di quei cornuti spietati che ci… dipingevano la schiena con la loro grande esperienza, e ci rabescavano tante volte le spalle di cicatrici, oggi56 quelle legioni, quelle armate, quegli eserciti d’aguzzini li abbiamo affrontati sul campo e li abbiamo messi in fuga a forza di bugie. Questo miracolo lo si è compiuto grazie al valore di questo mio collega e alla mia collaborazione. E in realtà c’è un fusto più resistente di me a incassare botte? LEONIDA: Cacchio! Ma credi di poter celebrare ora le tue gloriose imprese meglio di come potrei cantar io le tue innumerevoli male azioni in pace e in guerra? E ce n’è da addizionare farabuttate sul tuo conto! Quante volte hai fregato un fesso, hai fatto l’inghippo al padrone, ti sei preso il piacere di spergiurare a bella posta calcando sulle parole, quante volte hai bucato una parete, ti sei fatto cogliere mentre rubavi, ti sei affannato a scusarti appeso per i piedi di fronte a otto specialisti nello spolverarti con la sferza, pezzi di fusti, bullacci maneschi! PROFUMINO: Non posso far a meno di riconoscere che quanto sciorini è vero; ma, cazzica, anche delle mascalzonate tue se ne può fare una lista autentica e interminabile; quando hai frodato di proposito chi era in buona fede, quando sei stato colto sul fatto mentre rubavi e fustigato, quando hai fatto uno spergiuro, quando hai messo le mani su oggetti sacri, quando hai fregato e smerdato i padroni e gli hai rotto i coglioni, quando hai negato cocciutamente l’esistenza d’un deposito che t’era stato affidato, quando, per contentare l’amichetta, hai fatto fesso l’amico, quando, con la pellaccia dura che hai, hai fatto venire il fiatone a otto membruti littori che ti scotennavano con le loro flessibili verghe d’olmo. Con questo bel panegirico del mio pari non ti ho reso alla perfezione il debito ringraziamento? LEONIDA: Va lì, è quello che conveniva di più a me, a te e al nostro carattere. PROFUMINO: Ora basta con le chiacchiere, e rispondi a quello che ti chiedo. LEONIDA: Chiedi quello che ti pare. PROFUMINO: Le hai o non le hai le venti mine d’argento? LEONIDA: Ci hai azzeccato come un aruspice. Cacchio, che tesoro è stato per noi quel buon vecchietto di Coccoditutti! Che spirito sfoggiava nel farmi passare per Ramarro! Non so come ce l’ho fatta a non scoppiare a ridere quando s’è incazzato col forestiero perché in sua assenza non s’era voluto fidare di me. Non s’è scordato manco una volta di chiamarmi Ramarro, di trattarmi come il maestro di casa! PROFUMINO: Mo’ aspetta. LEONIDA: Che c’è? PROFUMINO: Non è Chiacchierina che sta uscendo fuori e quello che le fa compagnia non è Granacavallo? LEONIDA: Táppati la bocca, è lui. Mettiamoci a origliare.

PROFUMINO: Ma guarda un po’: lui piange e lei lo tiene per la falda del mantello e piange pure lei! Ma che cavolo è ’sto spettacolo? LEONIDA: Zitto, stiamo a sentire. PROFUMINO: Accidenti, solo ora m’è venuto in testa! Mi ci vorrebbe proprio una bella pertica! LEONIDA: E per farne che? PROFUMINO: Per carezzare il groppone agli asini se gli venisse in testa di ragliare dal fondo della nostra saccoccia57.

Granacavallo, Chiacchierina, Profumino, Leonida GRANACAVALLO: Perché cerchi di trattenermi? CHIACCHIERINA: Perché ti amo e non posso sopportare che te ne vada. GRANACAVALLO: Addio, statti bene. CHIACCHIERINA: Starei molto meglio se rimanessi con me. GRANACAVALLO: Salute! CHIACCHIERINA: Ma che salute mi auguri se andandotene mi fai ammalare? GRANACAVALLO: Tua madre mi ha licenziato, mi ha intimato di tornarmene a casa. CHIACCHIERINA: E farà il funerale alla figlia, la fossa mi scaverà anzitempo, obbligandomi a privarmi di te. PROFUMINO [a bassa voce a Leonida]: Forca! Il fesso è fatto fuori! LEONIDA: Eh, già! GRANACAVALLO: Su, lasciami perdere. CHIACCHIERINA: E dove vai così presto? Perché non ti trattieni con me? GRANACAVALLO: Se vuoi, rimarrò per questa notte. PROFUMINO [a bassa voce a Leonida]: Lo vedi come è operoso di notte? Si vede che di giorno il nuovo

Solone58 è tutto occupato a scrivere leggi da far rispettare al popolo! Cazzo! Chi è destinato a rispettare le leggi di ‘sto fannullone, come mai potrà riuscire una persona per bene? Non faranno che gozzovigliare di giorno e di notte! LEONIDA: Ma questo qui, se gli fosse possibile, non staccherebbe il piede dalla bella, anche se ora dice che ha fretta d’andar via e fa le viste di filarsela. PROFUMINO: Mo’ smettila di scilinguare: voglio sentire cosa dice. GRANACAVALLO: Addio. CHIACCHIERINA: E dove vuoi andartene? GRANACAVALLO: Ancora addio, ti rivedrò laggiù fra i morti; perché, per quello che ho in mente, io della vita me ne voglio disfare. CHIACCHIERINA: Ma per carità, mi vuoi far morire? E che colpa ne ho? GRANACAVALLO: Io farti morire? Ma se m’accorgessi che tu stessi per morire ti darei la vita per allungare la tua. CHIACCHIERINA: E allora perché minacci di volerti disfare della vita? Che cosa pensi che farei io, se tu facessi quello che dici? Io sono pronta a fare contro me stessa tutto quello che tu facessi contro di te. GRANACAVALLO: Oh, ma sei proprio più dolce del miele! CHIACCHIERINA: E tu sei la vita mia. Abbracciami. GRANACAVALLO: Con tutto il cuore. CHIACCHIERINA: Oh, potessimo morire abbracciati così! LEONIDA [a bassa voce a Profumino]: Profumino, che disgraziato l’uomo innamorato! PROFUMINO: Ah no, è molto più disgraziato chi pende a testa in giù59. LEONIDA: Eh, lo so io che ne ho fatto esperienza. Ma ora prendiamoli in mezzo, tu di qua e io di là, e chiamiamoli. [Ad alta voce:] Salute, padrone, ma ‘sta figliola che stai abbracciando è fatta di fumo? GRANACAVALLO: Cioè? LEONIDA: Eh, te lo domando perché ti piangono gli occhi. GRANACAVALLO: Ma non sapete d’aver perduto chi un giorno sarebbe divenuto il vostro patrono60? LEONIDA: Ma io non l’ho perduto affatto, perché non l’ho avuto mai. PROFUMINO: Salute, Chiacchierina! CHIACCHIERINA: Gli dèi vi diano tutto quello che volete. PROFUMINO: Una notte con te e un barile di vino: questo vorrei, se si potessero realizzare i miei desideri. GRANACAVALLO: Tieni la lingua a posto, incudine della frusta! PROFUMINO: Ma io lo auguravo a te, non a me. GRANACAVALLO: Be’ allora vediamo cosa ti auguri per te. PROFUMINO [indicando Leonida]: Perdio, una bella bastonatura per questo figlio di puttana. LEONIDA: E chi vuoi che ti stia a sentire, piglianculo ricciutello? Tu dare le bastonate, tu che con le bastonate ci fai cena e colazione? GRANACAVALLO: Lascia stare, che il vostro destino, Profumino, è molto meglio del mio! Io non arriverò a vivere fino a stasera. PROFUMINO: Scusami, ma perché? GRANACAVALLO: Perché io sono innamorato di lei e lei di me, ma siccome io non ci ho da darle niente, sua madre, innamorato come sono, mi ha cacciato di casa. A me m’hanno rovinato venti mine d’argento che oggi Diavolo, quel giovanotto, le ha promesso di scucirle, perché non faccia andare a letto questo tesoro con nessuno, per un anno intero, tranne che con lui. Vedete che valore hanno, che possono fare venti mine? Chi le scarica è salvo, io che non posso scaricarle sono scaricato io nella tomba. PROFUMINO: Ma i quattrini li ha già sganciati? GRANACAVALLO: Non ancora. PROFUMINO: Allora tirati su, non avere paura. LEONIDA: Profumino, vieni un po’ da questa parte, voglio parlarti. PROFUMINO: Se vuoi… GRANACAVALLO: Oh, statemi a sentire, mi pare sia molto meglio chiacchierare abbracciati come noi. LEONIDA: Sappi, padrone, che non a tutti piacciono le stesse cose: a voi innamorati piace chiacchierare abbracciati, ma io dell’abbraccio suo [indicando Profumino] me ne faccio un baffo, e a lui il mio lo fa vomitare. Perciò quello che suggerisci a noi fallo solo tu. GRANACAVALLO: Ma io figùrati, con le mani e coi piedi. Intanto fatemi il favore di spostarvi un po’ in là.

LEONIDA [a bassa voce a Profumino]: Che ne dici di spassarcela col padroncino? PROFUMINO: Sì, se lo merita. LEONIDA: Che ne dici se arrivo a farmi abbracciare da Chiacchierina in sua presenza? PROFUMINO: Accidenti se mi va! LEONIDA: Allora passa di qua. GRANACAVALLO: Allora c’è uno spiraglio di salvezza? Mi pare che abbiate parlato abbastanza. LEONIDA: Allora statemi a sentire, state tutt’orecchi e divorate le mie parole. Prima di tutto,

sì, non neghiamo d’essere servi tuoi: ma se oggi ti faremo splendere in mano le venti mine d’argento che nome ci darai? GRANACAVALLO: Liberti. LEONIDA: E perché no patroni? GRANACAVALLO: Va bene, così piuttosto. LEONIDA: Le venti mine sono già qui nella borsa, se le vuoi te le do. GRANACAVALLO: Ti possano proteggere in eterno gli dèi, provvidenza del tuo padrone, vanto della popolazione, serbatoio di ricchezze, intima salute del corpo, despota dell’amore! Su, appiccicala qui, mettimela qui al collo questa borsa, in pieno. LEONIDA: Ma io non posso permettere che tu porti il peso in vece mia: tu sei il padrone. GRANACAVALLO: Ma no, scàricati del peso, perché non me l’appendi addosso? LEONIDA: Ma no, il facchíno lo faccio io: tu camminami innanzi a mani vuote; un padrone non può fare diversamente. GRANACAVALLO: E be’ allora? LEONIDA: Allora che? GRANACAVALLO: Insomma, perché non mi fai pesare ’sta borsa sulla spalla? LEONIDA: Senti, a questa qui, a cui darai questa61 dille che mi preghi e mi supplichi insieme con te. Perché tu m’hai detto di metterla in piano62, e invece lì c’è uno scivolo. CHIACCHIERINA: Dammi il denaro, luce degli occhi miei, mio petalo di rosa, anima mia, delizia mia, Leonida, non separare noi due che ci adoriamo. LEONIDA: Su, chiamami passerottino tuo, tuo coccodè, quagliottina tua, agnellino tuo, caprettino tuo, o addirittura vitellino tuo; prendimi per gli orecchi, appiccica i labbrucci tuoi ai miei. GRANACAVALLO: Deve addirittura baciarti, traguardo della sferza? LEONIDA: E che male ci vedi? Sentimi bene, oggi, cocco mio, non becchi un centesimo se non mi si dà una bella strofinata alle ginocchia. GRANACAVALLO: È inutile, il bisogno t’impone i peggiori sacrifici! Se te li si strofina gli stinchi, me lo dai quello che ti chiedo? CHIACCHIERINA: Su, Leonida mio, ti supplico, dallo il salvagente al tuo padroncino innamorato! Così, facendogli questo benedetto servizio, ti riscatterai dalla sua servitù, anzi con questi quattrini ne farai un servo tuo. LEONIDA: Sei proprio un tesoro, un prodigio di grazia, e se il malloppo fosse mio, oggi non ti dovresti sprecare in preghiere, che te lo darei subito: ma le preghiere bisogna rivolgerle piuttosto a questo qui. [Indica Profumino.] Lui me l’ha data in custodia, la borsa, va’ da lui, perciò, cocca, e coccolatelo. Acchiappala su, Profumino. [Gli lancia la borsa.] GRANACAVALLO: Sforcato, torni a farmi fesso? LEONIDA: Ma io, t’assicuro, non me lo permetterei mai se tu non m’avessi strofinato le ginocchia con tanta mala grazia. [A Profumino.] Su, ora è la volta tua, vedi di sfrocoliartelo un po’ e di abbracciare lei. PROFUMINO: Zitto e guarda. GRANACAVALLO: E su, Chiacchierina, dirizziamoci a questo qui: è proprio un galantuomo, non ci ha niente in comune con quel furfante. PROFUMINO [a parte]: Mo’ bisogna camminare: così adesso si sbrodano in preghiere appresso a me. GRANACAVALLO: Profumino, ti supplico, se hai pietà del tuo padrone e vuoi soccorrerlo, dammele ’ste benedette venti mine, lo vedi che, con tutta la passione che ci ho, non ho il becco d’un quattrino. PROFUMINO: Si vedrà. Non sono mal disposto. Torna a notte fatta. Intanto a costei devi dire che è lei che deve chiederlo e pregarmi. CHIACCHIERINA: E come ti si deve pregare, facendoti le moine o addirittura baciandoti? PROFUMINO: Oh, l’una cosa e l’altra. CHIACCHIERINA: E allora su, ti scongiuro, salva l’uno e l’altra di noi. GRANACAVALLO: Profumino, protettore mio, dammela ’sta borsa. È più giusto che per strada sia il liberto e non il protettore a portare il peso63. CHIACCHIERINA: Profumino mio, mia pupilla dorata, ornamento e tesoro d’amore, sentimi, farò tutto quello che vuoi, ma dacceli una buona volta questi quattrini. PROFUMINO: Su, allora chiamami anitroccolo, colombella, cucciolo, rondinella, gazzettina, passerottino piccolino, trasformami in un rettile che striscia, sì che io abbia due lingue in bocca64, fammi una collana delle tue braccia65, stringimi il collo con le braccia tue. GRANACAVALLO: Deve pure abbracciarti, boiaccia? PROFUMINO: E perché, ti sembra così sconveniente? Ah, ma ora me la sconti quest’offesa: oggi tu mi porterai a cavallo, se proprio speri di buscarla la grana. GRANACAVALLO: Io portare a cavallo te? PROFUMINO: E speri di pigliarti i quattrini da me in un’altra maniera? GRANACAVALLO: O Dio, son fottuto! Ma se è decente che il padrone porti a cavallo il suo schiavo, avanti, monta su. PROFUMINO: Così vanno strigliati ’sti superbacci! Su, in posizione, a pecorone, come eri abituato a fare da bambino. Capisci che intendo? Bene, così. E ora, partenza! Bravo! Proprio non c’è cavallo che sia più cavallo sapiente di te. GRANACAVALLO: Su, ti decidi a montare? PROFUMINO: Certo che lo faccio. Oh, ma che succede? Come diavolo cammini? Ma io te la diminuisco la razione d’orzo, se non vai al trotto come si deve. GRANACAVALLO: Ti supplico, Profumino, non ne posso più. PROFUMINO: No, perdio, oggi è inutile pregarmi. Anzi a colpi di sprone ti spingerò al galoppo per quella salita, e poi ti passerò ai mugnai, che te lo facciano uscire il fiato a correre. No, ferma, ora fammi fare una bella discesa, anche se non vali un fico. GRANACAVALLO: Ora, se è lecito, dopo che vi siete divertiti alle nostre spalle quanto v’è parso e piaciuto, vi decidete sì o no a darcela la grana? PROFUMINO: Va bene, ma se mi attrezzi 66 un altare e una statua e mi immoli un bue come a un dio: perché io per te sono la dea Salute. LEONIDA: Ma su, padrone, dagli un calcio a questo cornuto e rivolgiti piuttosto a me. Li vuoi trasportare e tributare a me gli onori che costui aveva preteso per sé? GRANACAVALLO: E a te che nome di divinità debbo attribuire?

LEONIDA: La Fortuna, quella propiziatrice. GRANACAVALLO: Allora vali più di lui. PROFUMINO: E che c’è di meglio della Salute per un uomo? GRANACAVALLO: Ma per quanto mi prosterni alla Fortuna, certo non mi viene in testa di far le fiche alla Salute. CHIACCHIERINA: Ma perbacco, sono divinità rispettabilissime tutte e due. GRANACAVALLO: Lo saprò quando m’avranno procurato qualcosa di buono. LEONIDA: Su, formula quello che vuoi che ti capiti. GRANACAVALLO: E se lo faccio che succede? LEONIDA: Ti capiterà. GRANACAVALLO: Allora formulo questo desiderio: che per un intero anno mi piovano addosso i favori della dea. LEONIDA: Accordato! GRANACAVALLO: Debbo crederci? LEONIDA: Sta’ pur sicuro. PROFUMINO: Be’, ora avvicinati a me e fa’ la prova anche da questa parte. Formula il desiderio a cui tieni di più: t’assicuro che lo vedrai realizzato. GRANACAVALLO: E che dovrei desiderare di più di quello che mi manca, venti mine d’argento a disposizione da dare alla madre di lei? PROFUMINO: Ti saranno date, consólati, quello che desideri si realizzerà. GRANACAVALLO: Ma no, come al solito, la Salute ci prende in giro, a noi disgraziati, e la Fortuna altrettanto. LEONIDA: Ma se oggi sono stato il capo nel pescarti il denaro! PROFUMINO: E io la coda. GRANACAVALLO: Ma se le chiacchiere vostre non hanno né capo né coda! Non riesco a capire né che cavolo dite né perché mi sfottete. PROFUMINO: Be’, anch’io credo che l’abbiamo sfottuto abbastanza. Ora diciamogli le cose come sono. Fa’ bene attenzione, Granacavallo, ti prego.

Tuo padre ci ha ordinato di consegnarti questi quattrini. GRANACAVALLO: Grazie, grazie, me li avete portati proprio al momento giusto! PROFUMINO: Qui vedrai che ci sono venti mine buone, ma raccolte male: però lui ci ha detto di dartele a una precisa condizione. GRANACAVALLO: Quale, quale? PROFUMINO: Che tu gli regali una notte con lei e una cena. GRANACAVALLO: Ma fallo venire quando vuole: faremo tutto quello che vuole. Altro che se l’è meritato, lui che ha rimesso in sesto il nostro amore che

era ridotto a pezzi! LEONIDA: E tu soffrirai, Granacavallo67, che tuo padre se la stringa fra le braccia? GRANACAVALLO: Ma questa68 mi renderà soffice la sofferenza. Corri, Leonida, ti prego, di’ a mio padre che venga. LEONIDA: Ma è un pezzo che sta già qui dentro. GRANACAVALLO: Ma di qui non è passato. LEONIDA: Ha preso per la straducola, ha fatto il giro del giardino, di nascosto, per non essere visto da nessuno

aveva paura che lo venisse a sapere sua moglie. Se tua madre viene a sapere che giro han fatto i quattrini…! GRANACAVALLO: Zitto, per carità! Non ci portare iella! PROFUMINO: Su, presto, entrate. GRANACAVALLO: Statevi bene. LEONIDA: E voi fottete, bene. [Fine del terzo atto]

dei servi mentre si dirigeva qua:

ATTO QUARTO

Diavolo, Un parassita DIAVOLO: Be’, ora mostrami

quello che hai scritto, il contratto fra me, la puttanella e la ruffiana. Rileggimi bene tutte le clausole; perché tu sei proprio un artista inimitabile nel comporre questi strumenti. PARASSITA: Alla ruffiana sicuramente le verranno i brividi quando sentirà leggere le clausole. DIAVOLO: Be’, per ora leggile e rileggile per benino a me. PARASSITA: Allora mi stai a sentire? DIAVOLO: E come no? PARASSITA: «Diavolo figlio di Glauco ha dato in pagamento alla mezzana Ingambissima venti mine d’argento, perché Chiacchierina vada a letto con lui notte e giorno per la durata di tutto quest’anno.» DIAVOLO: E con nessun altro, aggiungi. PARASSITA: Lo debbo aggiungere? DIAVOLO: Sì, aggiungi, aggiungi e vedi di scrivere in maniera evidente e precisa. PARASSITA: «Non accolga nessun altro. Anche se essa lo chiami amico o protettore o lo faccia passare per amante d’una sua amica, le porte rimarranno sprangate a tutti meno che a te. Sui battenti dovrà piantare una scritta: ‘impegnata’. Anche se lei dice che le è arrivata una lettera da fuori, in casa non deve tenere assolutamente né lettere e neppure tavolette cerate; se ci ha qualche quadro a encausto ormai vecchio e corroso, se lo venda: se entro tre giorni da quando ha ricevuto i quattrini non se n’è sbarazzata, ne sarai arbitro tu, anche di bruciarlo, se vorrai, purché lei non abbia a disposizione cera su cui scrivere lettere. Non si permetta d’invitare a pranzo nessuno: spetterà solo a te invitare. Non fissi gli occhi su nessuno dei commensali. Se le capita di distinguere un tizio, si comporti immediatamente come se fosse cieca. Beva sempre nel tuo stesso bicchiere, dopo di te e quanto te: anzi lo riceva dalle tue mani e faccia un brindisi alla tua salute, al quale tu risponderai bevendo. Così fino alla sbronza farete tutti e due lo stesso cammino.» DIAVOLO: Mi va, mi va; è scritto proprio bene. PARASSITA: «Eviti qualsiasi motivo di sospetto. Quando si alza da tavola, non si arrischi a fare piedin piedino con nessun uomo: e quando deve sdraiarsi sul letto69 vicino o deve scenderne, non porga la mano a nessun uomo. Non dia a guardare l’anello a nessuno né chieda di vederne. Non offra i dadi a nessun uomo salvo che a te e nel lanciarli non dica ‘a te’, ma pronunci esplicitamente il tuo nome. Quanto a pregare, sia libera d’invocare la protezione di tutte le dee che vorrà, ma di dèi maschi non osi invocarne nessuno. Se la sua devozione non conosce limiti, lo dica a te, e sarai tu a pregare quel dio per lei perché la protegga. Non si azzardi a strizzare l’occhio, ad ammiccare, a fare un cenno con la testa a nessun figlio di mamma. Poi, se si spegne la lucerna, si guardi dal muovere un sol membro al buio.» DIAVOLO: Benissimo. È proprio così che si deve comportare. Però in camera da letto… no, questo levalo; eh, perdio, con me smanio proprio che si muovi. Non vorrei che lei tirasse fuori il pretesto che le è stato proibito! PARASSITA: Ho capito, hai paura dei cavilli. DIAVOLO: Eh, proprio così. PARASSITA: Be’, allora, come vuoi: lo levo. DIAVOLO: E non è meglio? PARASSITA: Be’, ora senti il resto. DIAVOLO: Fuori: son tutt’orecchi. PARASSITA: «Non pronunci neppure una parola ambigua, e non faccia mostra di parlare nessuna lingua oltre quella attica70. Se le capiterà di tossire, non tossisca in maniera da mostrare la lingua a nessuno tossendo. Se finge che le cola il naso per un raffreddore, non si passi la lingua sulle labbra: pensa tu piuttosto ad asciugarle i labbruzzi, anziché farle fare la mossa di spedire un bacio a qualcuno apertamente. Nel frattempo la madre ruffiana non s’ingozzi del nostro vino e non dica male parole a nessuno. Se le dirà, dovrà scontarla rimanendo senza vino per venti giorni.» DIAVOLO: Ma hai scritto proprio alla perfezione: è un contratto modello! PARASSITA: «Se dà ordine a un’ancella di portare a Venere o a Cupido corone, ghirlande o profumi, un tuo servo osserverà se queste offerte vanno proprio a Venere o ad un uomo. Se le spunta fuori il capriccio della castità per un certo periodo, ti compensi con tante notti fottitorie quante ne avrà trascorse in pulizia.» Queste non sono balle, e neppure nenie da prefiche. DIAVOLO: Sì, le clausole mi piacciono un pozzo. Vieni con me qua dentro. PARASSITA: Vengo. [Entrano da Ingambissima.] [Di nuovo] Diavolo, Parassita [che escono da Ingambissima] DIAVOLO: Vieni

di qua. Ed io dovrei sopportare questa drittata e stare pure zitto? Ma preferisco crepare anziché non svesciare tutto a sua moglie. Hai capito? Con l’amichetta ti atteggi a giovanottello e con la moglie invece pigli la scusa che sei vecchio? Osi strappare la puttana a chi le corre dietro, e per dare in pasto quattrini alla ruffiana ti metti a depredare in casa tua moglie, alla chetichella? Ma piuttosto m’impicco che lasciartela riuscire a buco ’sta bella puzzonata! Ma perdici ora mi precipito da lei, che tu – se lei non riuscirà a batterti sul tempo – so che ridurrai sul lastrico per mungerle le spese delle tue puttanerie. PARASSITA: Guarda, io credo che ci sia da fare così: è più opportuno che la denuncia la faccia io, e non tu direttamente, se no lei potrebbe pensare che tu l’abbia fatto per uno sfogo di passione e non nel suo interesse. DIAVOLO: Sì, sì, la tua proposta è più ragionevole. Allora pensaci tu a fargli venire la vertigine a furia di liti e di scenate. Vecchio porco! Dividere la puttana col figlio, cioncare con loro in pieno giorno, e derubare la moglie! PARASSITA: Va bene. Non sprecare altre parole. Penso io a tutto. DIAVOLO: E io t’aspetterò a casa.

[Fine del quarto atto]

ATTO QUINTO

Granacavallo, Coccoditutti, Chiacchierina71 GRANACAVALLO: Be’, papà, ci mettiamo a tavola? COCCODITUTTI: Figlio mio, si farà come vuoi. GRANACAVALLO: E allora, ragazzi, servite. COCCODITUTTI: Di’ un po’, figlio mio, ti scoccia se ora lei mi sta sdraiata accanto? GRANACAVALLO: Papà, il rispetto filiale impedisce che gli occhi soffrano; benché io

sia cotto di lei, posso riuscire a farmi forza a non arrovellarmi perché lei è sdraiata accanto a te. COCCODITUTTI: Eh, Granacavallo, i giovani bisogna che rispettino i vecchi. GRANACAVALLO: Ma oltre tutto, papà, se ora lo faccio, è per merito tuo. COCCODITUTTI: Be’ su, ora spassiamocela a tavola, sbevazzando e facendo bei discorsi. Io non voglio che tu abbia soggezione di me, preferisco che tu mi voglia bene, figlio mio. GRANACAVALLO: Ma io sento tutte e due le cose, affetto e soggezione, come è dovere di ogni figliolo ben educato. COCCODITUTTI: Ma io lo credo solo se ti vedo di buon umore. GRANACAVALLO: Ma perché, credi ch’io sia triste? COCCODITUTTI: E come posso non crederlo se hai una faccia così ingrugnata? Manco ti stessero facendo un processo! GRANACAVALLO: Ma che dici! COCCODITUTTI: E tu non stare con quella faccia: così non lo dirò. GRANACAVALLO: Su, guarda: ora mi metto a ridere. COCCODITUTTI: Volesse il cielo che ridessero così tutti quelli che mi vogliono male! GRANACAVALLO: Ma sai, lo capisco, papà, perché credi che io ora sia triste: perché lei ti sta accanto. E per dirti proprio la verità, papà, be’ la faccenda, sì, mi dispiace; ma non perché io non ti auguri tutto quello che vuoi, ma perché sono pazzo di lei. Che ti stesse accanto un’altra, altro che lo potrei sopportare! COCCODITUTTI: Ma io proprio lei voglio. GRANACAVALLO: E be’, quello che desideri ce l’hai; potessi averlo anch’io quello che desidero! COCCODITUTTI: Be’, abbi pazienza per questo giorno soltanto. Non t’ho dato la possibilità di stare con lei per un anno intero, non t’ho riempito di quattrini per soddisfare la tua passione? GRANACAVALLO: E con questo m’hai legato a te per sempre! COCCODITUTTI: E allora, cribbio, perché non mi fai una faccia più sorridente?

Tuttasana, Il parassita, Coccoditutti, Granacavallo, Chiacchierina TUTTASANA:

Perciò, stammi a sentire, ti supplico, tu dici che mio marito sta a cioncare qui con mio figlio e ha scucito alla puttana venti mine d’argento e che, presente e consenziente il figlio, il padre sta facendo una simile schifezza? PARASSITA: D’ora in poi, Tuttasana, si tratti di sacro o di profano, non credere più a una parola della mia bocca, se stavolta troverai che ho detto la bugia. TUTTASANA: Ma cogliona io, che credevo d’avere un marito sobrio, virtuoso, morigerato, innamoratissimo della moglie! PARASSITA: E ora sappi invece che è la merda dell’umanità, un ubriacone, un buono a nulla, un puttaniere, e soprattutto uno che odia sua moglie. TUTTASANA: E se questo non fosse vero, non farebbe mai quello che sta facendo ora. PARASSITA: Ma anch’io prima lo credevo un galantuomo; ma ora s’è scoperto in oro sbronzandosi col figlio, fottendo con lui la stessa puttana, ’sto vecchiaccio rincoglionito! TUTTASANA: Per questo va a pranzare fuori ogni giorno! Dice che lo invitino Archidemo 72, Cherea, Cherestrato, Clinia, Cremete, Cratino, Dinia, Demostene: e invece lui a puttane, a debosciare i figli, a sprofondare nella depravazione! PARASSITA: Perché non ordini alle ancelle che te lo acchiappino e te lo trasportino a casa issandolo sulle braccia? TUTTASANA: Sta’ zitto, che oggi lo fregherò come si deve. PARASSITA: Io questo so, che fregato ci rimarrà sempre finché sarai tu sua moglie. TUTTASANA: E io che credevo che da buon padre di famiglia lui s’affannasse a partecipare alle sedute del Senato73 o ad assistere i clienti, e perciò poi, sfinito, russasse tutta la notte! Invece chi sa quali schifezze fa fuori casa per tornarmi così stanco la sera! Ara il campo altrui e non semina quello di famiglia! E per giunta, puttaniere com’è, mi sputtana anche il figlio! PARASSITA: Vienimi dietro per di qua, che te lo farò sorprendere faccia a faccia. TUTTASANA: Perdio, non domando di meglio. PARASSITA: Sst, aspetta un minuto! TUTTASANA: Che c’è? PARASSITA: Se ti capitasse in faccia tuo marito sdraiato a tavola, con una corona in testa e la puttana addosso, vedendolo così riusciresti a riconoscerlo? TUTTASANA: E che, non ne sarei capace? PARASSITA: Be’, allora eccolo lì. [I due continuano a parlare fra loro in disparte.] TUTTASANA: Mi sento morire! PARASSITA: Aspetta un minuto. Mettiamoci in disparte a origliare di nascosto quello che intrugliano. GRANACAVALLO: Papà, ma quando la smetti di abbracciarla così forte? COCCODITUTTI: Figlio mio, ti confesso… GRANACAVALLO: Che hai da confessare?

COCCODITUTTI: Che ’sta bonaccia mi fa proprio sragionare. PARASSITA: Lo senti che dice? TUTTASANA: Altro che lo sento! COCCODITUTTI [a Chiacchierina]: E mo’ che ti credi che a casa

non lo sfilerò il mantello per cui va pazza mia moglie e non lo porterò a te? No, perdio, non ci posso rinunciare, neanche se mi costasse un anno di vita… di mia moglie. PARASSITA: Credi che sia oggi il primo giorno che ha cominciato a frequentare i bordelli? TUTTASANA: Accidenti! Era lui che mi depredava e io che sospettavo delle ancelle e mettevo alla tortura quelle povere innocenti! GRANACAVALLO: Papà, di’ che versino il vino; è un pezzo che mi sono scolato il primo bicchiere. COCCODITUTTI: Ragazzo, comincia a versare da destra74, mentre tu [a Chiacchierina] intanto da sinistra dammi un bacio. TUTTASANA: Povera me, sono finita! Guarda come la bacia quel boiaccia, quell’ornamento del cimitero! COCCODITUTTI: Cacchio! Che alito profumato ci hai in confronto di mia moglie! CHIACCHIERINA: Ma perché gli puzza l’alito a tua moglie? COCCODITUTTI: Figúrati, in caso di necessità preferirei bere l’acqua che piscia la nave dalla sentina anziché dare un bacio a lei! TUTTASANA: Ah, è cosi? E canchero, oggi ti sei fottuto a sparlare così di me. Piscia discorsi quanto vuoi, ma guai a te quando tornerai a casa: ti farò toccare con mano subito che rischio ci sia a trovare il pelo nell’uovo a una moglie con tanto di dote! CHIACCHIERINA: Ma ci hai proprio una grossa disgrazia! TUTTASANA: Proprio quella che si merita! GRANACAVALLO: Dimmi, papà, ma gli vuoi bene a mamma? COCCODITUTTI: Io a lei? Ma gli voglio bene adesso perché non ci sta. GRANACAVALLO: E quando ci sta? COCCODITUTTI: Preferirei vederla morta. PARASSITA: Ti vuole bene, accidenti, quest’uomo, per come parla! TUTTASANA: Perdio, quello che sta vomitando quella bocca puzzolente me lo pagherà con l’interesse composto! Se oggi torna a casa, voglio vendicarmi con una serqua di baci75! GRANACAVALLO: Su, papà, getta i dadi, che poi li getteremo noi. COCCODITUTTI: Molto volentieri. Te, Chiacchierina, a me, e a mia moglie la morte! È il colpo di Venere, questo! Ragazzi, battete le mani, e in premio di questo colpo, versatemi vino al miele, in un bel bicchiere! TUTTASANA: Io non ce la faccio più! PARASSITA: Se non hai imparato il mestiere dello stiratore, non c’è da meravigliarsi che non ce la fai a tirare, Tuttasana cara; ma il meglio è saltargli agli occhi. TUTTASANA [slanciandosi finalmente sul marito]: Ma io, alla faccia tua, camperò e tu ti morderai le mani per avermi regalato quei begli auguri! PARASSITA [a parte]: Qui ci vuole il beccamorto! Non c’è nessuno che corra a chiamarlo? GRANACAVALLO: Bongiorno, mammà. TUTTASANA: Mettitelo in culo il bongiorno! PARASSITA [a parte]: Coccoditutti è spacciato! Ora è tempo di filar via; l’affare s’ingrossa e c’è odore di bruciato. Mo’ me ne vo da Diavolo, gli riferisco come sono stati eseguiti i suoi ordini, e lo persuado a mettersi a tavola, mentre questi litigano. Poi domani lo condurrò qua dalla ruffiana, e gliele farò scucire le venti mine; così potrà prendersene una parte del fottisterio con l’amata puttanella. Spero che, a furia di preghiere, si riesca a convincere Granacavallo di fare a metà, una notte all’uno e una notte all’altro. Perché se non ottengo questo, ho perso il mio re e addio pranzi: perché quello lì capisce solo quell’accidente di passione che gli ha messo il fuoco in corpo. [Esce.] TUTTASANA [a Chiacchierina]: Come ti permetti di accogliere in casa tua questo signore, che è mio marito? CHIACCHIERINA: E lo dici a me? Ma sapessi, povera te, che schifo mi fa! TUTTASANA: Su, puttaniere, alzati, e a casa! COCCODITUTTI: Son fottuto. TUTTASANA: No, sei piuttosto il più cornuto di tutti, e non t’azzardare a negarlo. E sta ancora sdraiato il fringuellino? Su, puttaniere, alzati, e a casa! COCCODITUTTI: Povero me! TUTTASANA: E mo’ le sai presagire bene, le cose. Su, puttaniere, alzati, e a casa! COCCODITUTTI [a Chiacchierina]: Fammi il favore, scostati un pochino. TUTTASANA: Su, puttaniere, alzati, e a casa! COCCODITUTTI: Moglie mia, ti supplico… TUTTASANA: Ah, ora ti ricordi che sono tua moglie? Poco fa, quando mi sputavi addosso tutte quelle fetenzie, ero il tuo incubo, non tua moglie! COCCODITUTTI: Sono strafottuto! TUTTASANA: Allora dunque, gli puzza il fiato a tua moglie? COCCODITUTTI: Macché, odora di mirra. TUTTASANA: L’hai già sfilato il mantello da regalare alla puttana? CHIACCHIERINA: Sì, te lo assicuro, me l’aveva promesso di rubartelo, quel mantello. COCCODITUTTI: Vuoi stare zitta? GRANACAVALLO: Io invece cercavo di sconsigliarlo, mamma. TUTTASANA: Ah, che figlio esemplare! [ A Coccoditutti :] E questi sono i costumi che un padre deve inculcare nei figli? Non hai un briciolo di vergogna? COCCODITUTTI: Be’, se non è che questo, io mi vergogno per te, moglie mia. TUTTASANA: Guarda un po’, la moglie deve snidare dai bordelli il vecchio cucco coi capelli bianchi! COCCODITUTTI: Ma non mi concedi il tempo per finir di cenare? La cena è già in cottura! TUTTASANA: Stai fresco! Stasera ti mangerai per cena la fregatura che meriti. COCCODITUTTI: Ho capito, c’è da fare la mala nottata: sono giudicato e condannato, e mia moglie fa l’aguzzino trascinandomi a casa. GRANACAVALLO: Te lo dicevo, papà, di non dare dispiacere a mamma. CHIACCHIERINA: Oh, tesoro, non ti scordare del mantello. COCCODITUTTI [a Granacavallo]: Ma non le vuoi dire d’andarsene? TUTTASANA: A casa! CHIACCHIERINA: Dammi un bacio prima d’andartene.

COCCODITUTTI: Va’ a fa’ ’n culo! CHIACCHIERINA: Ma tu piuttosto! [A Granacavallo:] Vieni da me, anima mia. GRANACAVALLO: Con tutto il cuore. LA COMPAGNIA: Questo vecchiardo, se ha cercato di fare bisboccia di nascosto

dalla moglie, non ha fatto niente di nuovo né di straordinario né di diverso da quello che son soliti di fare gli altri; né c’è qualcuno di carattere così aspro e di spirito così saldo che si tiri indietro quando c’è un’occasione di spassarsela. Ora se avete intenzione d’intercedere per ’sto povero vecchio perché non pigli le botte, crediamo che potrete riuscirci, se ci farete un sonoro applauso. [FINE]

Aulularia

La pentola

Nell’ Amphitruo dobbiamo lamentare una lunga lacuna che interrompe sul più bello lo svolgimento dell’azione; nell’ Aulularia troviamo invece una lacuna che ci toglie la conoscenza del finale. È una situazione che somiglia a quella della Casina, anche se la commedia non presenta lacune alla fine e si conclude con un epilogo escogitato da Plauto, che richiama quello dell’ Asinaria; ma anche lì il poeta nel prologo dichiara di aver eliminato il finale che era nel modello, col ritorno in iscena del figlio del padrone innamorato della schiava Casina, col riconoscimento che questa è di liberi natali e quindi col matrimonio fra la giovane e il suo ex-padroncino. Qui la lacuna ci pone quasi nelle medesime condizioni, in quanto della ragazza, Luminosa, il cui matrimonio col giovane è la conclusione della commedia, noi sentiamo appena le strida che essa emette fuori scena al momento del parto (Casina non appare mai sulla scena, anche se certamente essa doveva apparirvi nel modello greco, almeno nel finale), e il giovanotto Lupacchiotto compare solo a partire dal quarto atto, sì che alcuni filologi hanno supposto che Plauto abbia soppresso una scena iniziale in cui egli desse avvio all’azione. E naturalmente la lacuna ci ha tolto l’evento conclusivo del matrimonio fra Luminosa e Lupacchiotto, lasciandoci nel dubbio se Tienichiuso abbia regalato agli sposi la pentola piena d’oro che dà il titolo alla commedia ed è il perno dell’azione. Da alcuni dei pochi frammenti che Gellio e Nonio ci hanno tramandato del finale e dal secondo sommario sembra di poter ricavare che il vecchio sia rinsavito e abbia dato in dote alla figlia il contenuto della pentola. Infatti conserviamo alcuni frammenti del finale dell’ Aulularia come ne conserviamo delle scene dell’ Amphitruo cadute nella lacuna. E come queste sono state reintegrate da un umanista del Quattrocento, Ermolao Barbaro, così il finale dell’ Aulularia è stato ricomposto da un umanista vissuto fra il Quattrocento e il Cinquecento, Codro Urceo. Questa commedia ci fornisce il primo esempio di un altro aspetto del teatro plautino, così vario proprio per la diversità nella scelta dei modelli, per l’ineguale maniera di rielaborarli e soprattutto per la quasi capricciosa incostanza con cui Plauto ha immesso nei copioni greci il fermento della sua prestigiosa personalità linguistica, ritmica e farsesca: la commedia di carattere. Le commedie di carattere plautine non mancano di fare tutte le più ampie concessioni alla comédie bouffonne, che è il portato più autentico del temperamento del nostro poeta. Però quando in una commedia prevale un carattere – salvo ch’esso non sia, come nell’ Epidicus, nella Mostellaria o nello Pseudolus, quello di un servo o di un lenone, in cui la forza della rappresentazione nasce proprio dalla pirotecnica esuberanza del linguaggio plautino – possiamo essere sicuri che il modello greco è seguito più da vicino. Così qui, dove giganteggia il carattere di Tienichiuso, il prototipo degli avari. E questo ancor meglio lo si comprende se si ammette, come ormai si fa generalmente, che il modello è una commedia di Menandro. Un tempo la si identificava nel Dýskolos, traendo dal titolo – che significa il vecchio bisbetico, l’uomo burbero e intrattabile – che il carattere difficile, ostico del protagonista derivasse dalla sua morbosa avarizia. Ma di recente i papiri ci hanno restituito integralmente la commedia menandrea, che si è rivelata d’argomento totalmente diverso da quello dell’Aulularia, benché Tienichiuso palesi pur sempre punti di contatto con Cnemone, il protagonista del Dýskolos, specie nei rapporti con la vecchia serva. Perciò, pur riconoscendo che, nel rielaborare la commedia dell’avaro, Plauto (come ormai ci si è persuasi ch’egli facesse quasi sempre) ha tenuto presente anche altre commedie, e quindi fra le commedie menandree anche il Dýskolos, per identificare il modello più diretto si è ripiegato su altri titoli noti di commedie menandree, con preferenza per il Thesaurós. Come quasi sempre gli accadeva, Plauto avrà mutato il titolo della commedia, accentrandolo sull’oggetto la cui custodia e il cui furto costituiscono il Leitmotiv dell’azione. Per giunta tra i frammenti delle commedie plautine pseudovarroniane ci è giunto un verso di un Dýskolos, che si ritiene sia derivato dal Dýskolos menandreo, anche se normalmente Plauto non conservava i titoli dei modelli. Se ci si vuole imbarcare nell’impresa d’individuare ciò che nell’Aulularia costituisce il Plautinisches, per adoperare l’ormai consacrato termine fraenkeliano, si deve constatare con stupore che Plauto non ha profuso, come al solito, i doni della sua frenetica ricchezza e veemenza verbale nell’eloquio del servo, che pure qui, essendo autore del furto della pentola, è personaggio di primo piano, perfettamente all’altezza della ribalderia consueta nei servi plautini. Egli s’è divertito a introdurre toni macchiettistici piuttosto nell’eloquio di altri personaggi, come del così grecamente saggio Regalone, il cui nome è già tutto un programma, e soprattutto del protagonista, che nei suoi sospetti e nei suoi sfoghi si prestava alle variazioni farsesche care a Plauto. Ma qui un’altra sorpresa: mentre ci saremmo attesi un vero diluvio di ritrovati espressivi nel monologo di Tienichiuso dopo il furto della pentola, dobbiamo confessare che esso, pur costituendo innegabilmente un pezzo di bravura, non raggiunge la trascinante potenza del corrispondente monologo che Molière seppe costruire nell’Avare per l’identico protagonista il cui nome, Harpagon, egli modellò su quello di un altro personaggio plautino, Harpax dello Pseudolus. Per i nostri orecchi non v’è forse la possibilità di gustare la vera bellezza della scena plautina, che consiste nella prestigiosa varietà metrica del canticum in cui Tienichiuso effonde la sua disperazione. Piuttosto la consistenza espressiva di Tienichiuso celebra il suo trionfo nella grande scena del quarto atto con Lupacchiotto, in cui il dialogo fra i due si svolge sulla base del clamoroso equivoco nascente del fatto che il giovane si riferisce all’inconveniente del parto di Luminosa, ignoto a Tienichiuso, mentre il vecchio si riferisce alla disgrazia del furto della pentola, ignoto a Lupacchiotto. Ma questa scena ha troppe affinità con quella di un altro celebre dialogo plautino basato sull’equivoco, quello fra Gioioso e il barattiere nel Trinummus, per non obbligarci a pensare che, come questa già doveva trovarsi sicuramente nel modello, nel Thesaurós di Filemone (come confermano certi indizi linguistici), così quella dell’Aulularia doveva già trovarsi nell’altro Thesaurós di Menandro. Fatto sta che, a furia di seguire da presso il modello variandolo però con echi di altre commedie menandree e di interporvi gl’inserti farseschi a lui cari, Plauto ha fatto dell’Aulularia una commedia piuttosto lunga: calcolando che prima della lacuna finale ci sono rimasti ben 833 versi, cioè più del Curculio e dell’Epidicus, e che il resto del quinto atto con la restituzione della pentola a Tienichiuso (o meglio il rinvenimento della pentola, se dobbiamo prestar fede al primo argumentum) e la celebrazione del matrimonio, doveva estendersi parecchio, possiamo pensare all’estensione dei Captivi, del Mercator, della Casina, se non addirittura a quella dell’Amphitruo. Per quel che concerne la data della commedia, va detto che l’Aulularia è stata scaricata, come quasi tutte le commedie plautine della maturità ma di datazione incerta, nel primo decennio del II sec. a.C., che è divenuto il deposito obbligato di tutta la produzione plautina di cui non si può fissare con esattezza l’anno di composizione. Dai vv. 36 e 795, comunicanti che Luminosa è stata violata nei giorni delle feste di Cerere, e dal v. 798 in cui Lupacchiotto dichiara che Luminosa ha naturalmente partorito nove mesi dopo, si è calcolato che siccome le Cereris vigiliae accadevano ai primi d’agosto, si giungeva al mese d’aprile, che coincideva coi ludi Megalenses, durante i quali si rappresentavano commedie: ma questi furono istituiti nel 194, sì che quest’anno costituirebbe il terminus a quo, obbligandoci naturalmente a

pensare che l’Aulularia fosse stata rappresentata proprio nei ludi Megalenses. Si è cercato di definire meglio la data, ricordando che il vero e proprio ieiunium Cereris fu istituito nel 191 (ma nei due luoghi della commedia in cui si accenna alle feste di Cerere si parla solo di vigiliae). C’è chi ha voluto far discendere la data della commedia al 186, all’anno del senatusconsultum de Bacchanalibus, perché nel v. 408 si accenna ai Baccanali; ma a spiegare questo potrebbe entrare in campo l’ipotesi postulante una retractatio della commedia. Lo studioso che più si è occupato della datazione delle commedie plautine, K. H. E. Schutter, ha tentato anche lui di fissare dal 194 al 191 la data di composizione della commedia, per la frequenza con cui vi si parla di galli, che è da lui interpretata come allusione alle campagne contro i Galli combattute dal 196 al 191, e perché al v. 576 è introdotto il termine colonia, e a partire dal 194 si istituirono, come testimonia Velleio Patercolo (I, 15, 1-3), numerose colonie. Che del resto l’ Aulularia sia commedia ascrivibile al periodo della maturità, lo conferma il fatto che la prima scena dell’atto secondo, la prima e la seconda dell’atto terzo, il monologo di Tienichiuso dopo il furto (scena nona dell’atto quarto) e metà della prima scena dell’atto quinto costituiscono cantica di raffinata struttura. Nel IV sec. d.C. fu composta a imitazione dell’Aulularia una commedia in prosa ritmica d’autore ignoto dal titolo Querolus sive Aulularia. Nell’ambito della cosiddetta commedia elegiaca del XII sec. troviamo un’Aulularia di Vitale di Blois che rielaborò il Querolus credendo di avere fra le mani la commedia di Plauto.

PERSONAE

PERSONAGGI

Lar familiaris, prologus Euclio,senex Staphyla, anus Eunomia, matrona Megadorus, senex Pythodicus, servus Anthrax, cocus Congrio, cocus

Il Lare della casa, il prologo Tienichiuso1, vecchio Uva, vecchia Legalina, matrona Regalone, vecchio Consigliagiusto2, servo Ulcera, cuoco Cuocigrongo3, cuoco

Strobilus, servus Lyconides, adulescens Phaedria, puella

Trottola4, servo Lupacchiotto, giovanotto Luminosa, giovinetta

[La scena è ad Atene. Sulla piazza si affacciano le case di Tienichiuso e di Regalone.]

ARGUMENTUM I

Senex avarus vix sibi credens Euclio domi suae defossam multis cum opibus aulam invenit, rursumque penitus conditam exanguis amens servat. Eius filiam 5 Lyconides vitiarat. Interea senex Megadorus a sorore suasus ducere uxorem avari gnatam deposcit sibi. Durus senex vix promittit, atque aulae timens domo sublatam variis abstrudit locis. 10 Insidias servos facit huius Lyconidis qui virginern vitiarat; atque ipse obsecrat avonculum Megadorum sibimet cedere uxorem amanti. Per dolum mox Euclio cum perdidisset aulam, insperato invenit laetusque natam conlocat Lyconidi. ARGUMENTUM II

Aulam repertam auri plenam Euclio vi summa servat, miseris adfectus modis. Lyconides istius vitiat filiam. Volt hanc Megadorus indotatam ducere, 5 lubensque ut faciat dat coquos cum obsonio. Auro formidat Euclio, abstrudit foris. Re omni inspecta compressoris servolus id surpit. Illic Euclioni rem refert. Ab eo donatur auro, uxore et filio.

PROLOGUS

Lar familiaris [LA.] Ne quis miretur qui sim, paucis eloquar.

5

10

15

20

25

30

35

Ego Lar sum familiaris ex hac familia unde exeuntem me aspexistis. Hanc domum iam multos annos est cuin possideo et colo patri avoque iam huius qui nunc hic habet. Sed mihi avos huius obsecrans concredidit auri thensaurum clam omnis: in medio foco defodit, venerans me ut id servarem sibi. Is quoniam moritur (ita avido ingenio fuit), numquam indicare id filio voluit suo, inopemque optavit potius eum relinquere, quam eum thensaurum commonstraret filio; agri reliquit ei non magnum modum, quo cum labore magno et misere viveret. Ubi is obiit mortem qui mihi id aurum credidit, coepi observare, ecqui maiorem filius mihi honorem haberet quam eius habuisset pater. Atque ille vero minus minusque impendio curare minusque me impertire honoribus. Item a me contra factum est, nam item obiit diem. Is ex se hunc reliquit qui hic nunc habitat filium pariter moratum ut pater avosque huius fuit. Huic filia una est. Ea mihi cottidie aut ture aut vino aut aliqui semper supplicat, dat mihi coronas. Eius honoris gratia feci, thensaurum ut hic reperiret Euclio, quo illam facilius nuptum, si vellet, daret. Nam eam compressit de summo adulescens loco. Is scit adulescens quae sit quam compresserit, illa illum nescit, neque compressam autem pater. Eam ego hodie faciam ut hic senex de proxumo sibi uxorem poscat. Id ea faciam gratia, quo ille eam facilius ducat qui compresserat. Et hic qui poscet eam sibi uxorem senex, is adulescentis illius est avonculus, qui illam stupravit noctu, Cereris vigiliis. Sed hic senex iam clamat intus ut solet. Anum foras extrudit, ne sit conscia. Credo aurum inspicere volt, ne subruptum siet.



Euclio, senex; Staphyla, anus 40 [EU.] Exi, inquam. Age exi. Exeundum hercle tibi hinc est foras, circumspectatrix cum oculis emissiciis. [STA.] Nam qur me miseram verberas? [EU.] Ut misera sis atque ut te dignam mala malam aetatem exigas. [STA.] Nam qua me nunc causa extrusisti ex aedibus? 45 [EU.] Tibi ego rationem reddam, stimulorum seges? Illuc regredere ab ostio. Illuc sis vide, ut incedit. At scin quo modo tibi res se habet? Si hercle hodie fustem cepero aut stimulum in manum, testudineum istum tibi ego grandibo gradum. 50 [STA.] Utinam me divi adaxint ad suspendium potius quidem quam hoc pacto apud te serviam. [EU.] At ut scelesta sola secum murmurat. Oculos hercle ego istos, improba, ecfodiam tibi, ne me observare possis quid rerum geram. 55 Abscede etiam nunc… etiam nunc… etiam… ohe, istic astato. Si hercle tu ex istoc loco digitum transvorsum aut unguem latum excesseris aut si respexis, donicum ego te iussero, continuo hercle ego te dedam discipulam cruci. 60 Scelestiorem me hac anu certo scio vidisse numquam, nimisque ego hanc metuo male, ne mi ex insidiis verba imprudenti duit neu persentiscat aurum ubi est absconditum, quae in occipitio quoque habet oculos pessima. 65 Nunc ibo ut visam estne ita aurum ut condidi, quod me sollicitat plurimis miserum modis.

Staphyla, anus [STA.] Noenum mecastor quid ego ero dicam meo

malae rei evenisse quamve insaniam, queo comminisci; ita me miseram ad hunc modum 70 decies die uno saepe extrudit aedibus. Nescio pol quae illunc hominem intemperiae tenent: pervigilat noctes totas, tum autem interdius quasi claudus sutor domi sedet totos dies. Neque iam quo pacto celem erilis filiae 75 probrum, propinqua partitudo cui appetit, queo comminisci; neque quicquam meliust mihi, ut opinor, quam ex me ut unam faciam litteram longam, laqueo collum quando obstrinxero.

Euclio, senex; Staphyla, anus [EU.] Nunc defaecato demum animo egredior domo, 80 postquam perspexi salva esse intus omnia. Redi nunciam intro atque intus serva. [STA.] Quippini? Ego intus servem? an ne quis aedes auferat? Nam hic apud nos nihil est aliud quaesti furibus, ita inaniis sunt oppletae atque araneis. 85 [EU.] Mirum quin tua me causa faciat Iuppiter Philippum regem aut Dareum, trivenefica. Araneas mihi ego illas servari volo. Pauper sum; fateor, patior; quod di dant fero. Abi intro, occlude ianuam. Iam ego hic ero. 90 Cave quemquam alienum in aedis intro miseris. Quod quispiam ignem quaerat, exstingui volo, ne causae quid sit quod te quisquam quaeritet. Nam si ignis vivet, tu exstinguere extempulo.

Tum aquam aufugisse dicito, si quis petet. 95 Cultrum, securim, pistillum, mortarium, quae utenda vasa semper vicini rogant, fures venisse atque abstulisse dicito. Profecto in aedis meas me absente neminem volo intro mitti. Atque etiam hoc praedico tibi, 100 si Bona Fortuna veniat, ne intro miseris. [STA.] Pol ea ipsa credo ne intro mittatur cavet, nam ad aedis nostras numquam adit, quamquam prope est. [EU.] Tace atque abi intro. [STA.] Taceo atque abeo.– [EU.] Occlude sis fores ambobus pessulis. Iam ego hic ero. 105 Discrucior animi quia ab domo abeundum est mihi. Nimis hercle invitus abeo. Sed quid agam scio. Nam noster nostrae qui est magister curiae dividere argenti dixit nummos in viros; id si relinquo ac non peto, omnes ilico 110 me suspicentur, credo, habere aurum domi. Nam non est veri simile, hominem pauperem pauxillum parvi facere quin nummum petat. Nam nunc cum celo sedulo omnis, ne sciant, omnes videntur scire et me benignius 115 omnes salutant quam salutabant prius; adeunt, consistunt, copulantur dexteras, rogitant me ut valeam, quid agam, quid rerum geram. Nunc quo profectus sum ibo; postidea domum me rursum quantum potero tantum recipiam.



Eunomia, mulier; Megadorus, senex 120 [EUN.] Velim te arbitrari med haec verba, frater, meai fidei tuaique rei caussa facere, ut acquom est germanam sororem, quamquam haud falsa sum nos odiosas haberi; nam multum loquaces merito comnes habemur, 125 nec mutam profecto repertam ullo in saeclo. Verum hoc, frater, unum tamen cogitato, tibi proximam me mihique esse item te; ita aequom est quod in rem esse utrique arbitremur 130 et mihi te et tibi consulere et monere; neque occultum id haberi neque per metum mussari, quin participem pariter ego te et tu me ut facias, eo nunc ego secreto ted huc foras seduxi ut tuam rem ego tecum hic loquerer familiarem. 135 [ME.] Da mi, optuma femina, manum. [EUN.] Ubi ea est? quis ea est nam optuma? [ME.] Tu. [EUN.] Tune ais? [ME.] Si negas, nego. [EUN.] Decet te equidem vera proloqui; nam optuma nulla potest eligi; 140 alia alia peior, frater, est. [ME.] Idem ego arbitror, nec tibi advorsari certum est de istac re umquam, soror. [EUN.] Da mihi operam amabo. [ME.] Tuast, utere atque impera, si quid vis. [EUN.] Id quod in rem tuam optumum esse arbitror, 145 ted id monitum advento. [ME.] Soror, more tuo facis. [EUN.] Facta volo. [ME.] Quid est id, soror? [EUN.] Quod tibi sempiternum salutare sit: liberis procreandis (ita di faxint) volo te uxorem 150 domum ducere. [ME.] Ei occidi. [EUN.] Quid ita? [ME.] Quia mihi misero cerebrum excutiunt tua dicta, soror: lapides loqueris. [EUN.] Heia, hoc face quod te iubet soror. [ME.] Si lubeat, faciam. [EUN.] In rem hoc tuam est. [ME.] Ut quidem emoriar prius quam ducam, 155 sed his legibus si quam dare vis ducam: quae cras veniat, perendie foras feratur; his legibus quam dare vis, cedo: nuptias adorna. [EUN.] Cum maxima possum tibi, frater, dare dote sed est grandior natu: media est mulieris aetas. 160 eam si iubes, frater, tibi me poscere, poscam. [ME.] Num non vis me interrogare te? [EUN.] Immo si quid vis, roga. [ME.] Post mediam aetatem qui media ducit uxorem domun, si eam senex anum praegnatem fortuito fecerit, quid dubitas, quin sit paratum nomen puero Postumus? 165 Nunc ego istum, soror, laborem demam et deminuam tibi. Ego virtute deum et maiorum nostrum dives sum satis. Istat magnas factiones, animos, dotes dapsiles, clamores, imperia, eburata vehicla, pallas, purpuram, nil moror quae in servitutem sumptibus rcdigunt viros.

170 [EUN.] Dic mihi, quaeso, quis ea est, quam vis ducere uxorem? [ME.] Eloquar. Nostin hunc senem Euclionem ex proximo pauperculum? [EUN.] Novi, hominem haud malum mecastor. [ME.] Eius cupio filiam virginem mihi desponderi. Verba ne facias, soror. Scio quid dictura es: hanc esse pauperem. Haec pauper placet. 175 [EUN.] Di bene vortant. [ME.] Idem ego spero. [EUN.] Quid me? num quid vis? [ME.] Vale. [EUN.] Et tu, frater.– [ME.] Ego conveniam Euclionem, si domi est. Sed eccum . Nescio unde sese homo recipit domum.

Euclio, Megadorus, senes II [EU.] Praesagibat mi animus frustra me ire, quom exibam domo;

itaque abibam invitus; nam neque quisquam curialium 180 venit neque magister quem dividere argentum oportuit. Nunc domum properare propero, nam egomet sum hic, animus domi est. [ME.] Salvos atque fortunatus, Euclio, semper sies. [EU.] Di te ament, Megadore. [ME.] Quid tu? recten atque ut vis vales? [EU.] Non temerarium est, ubi dives blande appellat pauperem. 185 Iam illic homo aurum scit me habere, eo me salutat blandius. [ME.] Ain tu te valere? [EU.] Pol ego haud perbene a pecunia. [ME.] Pol si est animus aequos tibi, sat hábes qui bene vitam colas. [EU.] Anus hercle huic indicium fecit de auro, perspicue palam est, cui ego iam linguam praecidam atque oculos effodiam domi. 190 [ME.] Quid tu solus tecum loquere? [EU.] Meam pauperiem conqueror. Virginem habeo grandem, dote cassam atque inlocabilem, neque eam queo locare cuiquam. [ME.] Tace, bonum habe animum, Euclio. Dabitur, adiuvabere a me. Dic, si quid opust, impera. [EU.] Nunc petit, cum pollicetur; inhiat aurum ut devoret. 195 Altera manu fert lapidem, panem ostentat altera. Nemini credo qui large blandust dives pauperi: ubi manum inicit benigne, ibi onerat aliqua zamia. Ego istos novi polypos, qui ubi quidquid tetigerunt tenent. [ME.] Da mi operam parumper. Paucis, Euclio, est quod te volo 200 de communi re appellare mea et tua. [EU.] Ei misero mihi, aurum mi intus harpagatum est. Nunc hic eam rem volt, scio, mecum adire ad pactionem. Verum intervisam domum. [ME.] Quo abis? [EU.] Iam ad te revortar: nunc est quod visam domum.– [ME.] Credo edepol, ubi mentionem ego fecero de filia, 205 mi ut despondeat, sese a me derideri rebitur; neque illo quisquam est alter hodie ex paupertate parcior. [EU.] Di me servant, salva res est. Salvom est si quid non perit. Nimis male timui. Prius quam intro redii, exanimatus fui. Redeo ad te, Megadore, si quid me vis. [ME.] Habeo gratiam. 210 Quaeso, quod te percontabor, ne id te pigeat proloqui. [EU.] Dum quidem né quid perconteris quod non lubeat proloqui. [ME.] Dic mihi, quali me arbitrare genere prognatum? [EU.] Bono. [ME.] Quid fide? [EU.] Bona. [ME.] Quid factis? [EU.] Neque malis neque improbis. [ME.] Aetatem meam scis? [EU.] Scio esse grandem, item ut pecuniam. 215 [ME.] Certe edepol equidem te civem sine mala omni malitia semper sum arbitratus et nunc arbitror.

[EU.] Aurum huic olet.

Quid nunc me vis? [ME.] Quoniam tu me et ego te qualis sis scio,

quae res recte vortat mihique tibique tuaeque filiae, filiam tuam mi uxorem posco. Promitte hoc fore. 220 [EU.] Heia, Megadore, haud decorum facinus tuis factis facis, ut inopem atque innoxium abs te atque abs tuis me inrideas. Nam de te neque re neque verbis merui ut faceres quod facis. [ME.] Neque edepol ego te derisum venio neque derideo, neque dignum arbitror. [EU.] Qur igitur poscis meam gnatam tibi? 225 [ME.] Ut propter me tibi sit melius mihique propter te et tuos. [EU.] Venit hoc mihi, Megadore, in mentem, ted esse hominem divitem, factiosum, me autem esse hominem pauperum pauperrimum; nunc si filiam locassim meam tibi, in mentem venit te bovem esse et me esse asellum: ubi tecum coniunctus siem, 230 ubi onus nequeam ferre pariter, iaceam ego asinus in luto, tu me bos magis haud respicias, gnatus quasi numquam siem. Et te utar iniquiore et meus me ordo inrideat, neutrubi habeam stabile stabulum, si quid divorti fuat: asini me mordicibus scindant, boves incursent cornibus. 235 Hoc magnum est periclum, ab asinis ad boves transcendere. [ME.] Quam ad probos propinquitate proxume te adiunxeris, tam optumum est. Tu condicionem hanc accipe, ausculta mihi, atque eam desponde mi. [EU.] At nihil est dotis quod dem. [ME.] Ne duas. Dum modo morata recte veniat, dotata est satis. 240 [EU.] Eo dico, ne me thensauros repperisse censeas. [ME.] Novi, ne doceas. Desponde. [EU.] Fiat. Sed pro Iuppiter, num ego disperii? [ME.] Quid tibi est? [EU.] Quid crepuit quasi ferrum modo?– [ME.] Hic apud me hortum confodere iussi. Sed ubi hic est homo? 244-45 Abiit neque me certiorem fecit. Fastidit mei, quia videt me suam amicitiam velle: more hominum facit; nam si opulentus it petitum pauperioris gratiam, pauper metuit congrediri, per metum male rem gerit. Idem, quando occasio illaec periit, post sero cupit. 250 [EU.] Si hercle ego te non elinguandam dedero usque ab radicibus, impero auctorque sum, ut tu me cuivis castrandum loces. [ME.] Video hercle ego te me arbitrari, Euclio, hominem idoneum, quem senecta aetate ludos facias, haud merito meo. [EU.] Neque edepol, Megadore, facio, neque, si cupiam, copia est. 255 [ME.] Quid nunc? Etiam mihi despondes filiam? [EU.] Illis legibus, cum illa dote quam tibi dixi. [ME.] Sponden ergo? [EU.] Spondeo. [ME.] Di bene vertant. [EU.] Ita di faxint. Illud facito ut memineris, convenisse ut ne quid dotis mea ad te afferret filia. [ME.] Memini. [EU.] At scio quo vos soleatis pacto perplexarier: 260 pactum non pactum est, non pactum pactum est, quod vobis lubet. [ME.] Nulla controversia mihi tecum erit. Sed nuptias num quae causa est quin faciamus hodie? [EU.] Immo edepol optuma. [ME.] Ibo igitur, parabo. Num quid me vis? [EU.] Istue. Ei et vale. ME Heus, Pythodice, sequere propere me ad macellum strenue.– 265 [EU.] Illic hinc abiit. Di immortales obsecro, aurum quid valet. Credo ego illum iam inaudivisse mi esse thensaurum domi. Id inhiat, ea affinitatem hanc obstinavit gratia. [EU.] Ubi tu es, quae deblateravisti iam vicinis omnibus, meae me filiae daturum dotem? Heus, Staphyla, te voco. 270 Ecquid audis? vascula intus pure propera atque elue:

filiam despondi ego: hodie huic nuptum Megadoro dabo.

Euclio, senex; Staphyla, anus [STA.] Di bene vortant. Verum ecastor non potest, subitum est nimis. [EU.] Tace atque abi. Curata fac sint cum a foro redeam domum;

atque aedis occlude; iam ego hic adero.– [STA.] Quid ego nunc agam?

275 nunc nobis prope adest exitium, mi atque erili filiae, nunc probrum atque partitudo prope adest ut fiat palam; quod celatum atque occultatum est usque adhuc, nunc non potest. Ibo intro, ut erus quae imperavit facta, cum veniat, sient. Nam ecastor malum maerore metuo ne mixtum bibam.–

Pythodicus, servos; Anthrax, Congrio, coci; Phrugia, Eleusium, tibicinae II 280 [PY.] Postquam obsonavit erus et conduxit coquos tibicinasque hasce apud forum, edixit mihi ut dispertirem obsonium hic bifariam. [AN.] Me quidem hercle, dicam palam, non divides; si quo tu totum me ire vis, operam dabo. 285 [CO.] Bellum et pudicum vero prostibulum popli. Post si quis vellet, te haud non velles dividi. [PY.] Atque ego istuc, Anthrax, aliovorsum dixeram, non istuc quo tu insimulas. Sed erus nuptias meus hodie faciet. [AN.] Cuius ducit filiam? 290 [PY.] Vicini huius Euclionis e proximo. Ei adeo obsoni hinc iussit dimidium dari, cocum alterurn itidemque alteram tibicinam. [AN.] Nempe huc dimidium dicis, dimidium domum? [PY.] Nempe sicut dicis. [AN.] Quid? Hic non poterat de suo 295 senex obsonari filiai nuptiis? [PY.] Vah. [AN.] Quid negotist? [PY.] Quid negoti sit rogas? pumex non aeque est aridus atque hic est senex. [AN.] Ain tandem? [CO.] Ita esse ut dicis? [PY.] Tute existuma: *** suam rem periisse seque eradicarier. 300 Quin divom atque hominum clamat continuo fidem, de suo tigillo fumus si qua exit foras. Quin cum it dormitum, follem obstringit ob gulam. [AN.] Qur? [PY.] Ne quid animae forte amittat dormiens. [AN.] Etiamne obturat inferiorem gutturem, 305 ne quid animai forte amittat dormiens? [PY.] Haec mihi te ut tibi med aequom est, credo, credere. [AN.] Immo equidem credo. [PY.] At scin etiam quo modo? Aquam hercle plorat, cum lavat, profundere. [AN.] Censen talentum magnum exorari pote 310 ab istoc sene ut det, qui fiamus liberi? [PY.] Famem hercle utendam si roges, numquam dabit. Quin ipsi pridem tonsor unguis dempserat: collegit, omnia abstulit praesegmina. [AN.] Edepol mortalem parce parcum praedicas. 315 [PY.] Censen vero [adeo] esse parcum et misere vivere? Pulmentum pridem ei eripuit miluos: homo ad praetorem plorabundus devenit; infit ibi postulare plorans, eiulans, ut sibi liceret miluom vadarier. 320 Sescenta sunt quae memorem, si sit otium. Sed uter vestrorum est celerior? memora mihi. [AN.] Ego, et multo melior. [PY.] Cocum ego, non furem rogo.

[AN.] Cocum ergo dico. [PY.] Quid tu ais? [CO.] Sic sum ut vides. AN Cocus ille nundinalest, in nonum diem.

325 solet ire coctum. [CO.] Tun, trium litterarum homo, me vituperas? fur. [AN.] Etiam fur, trifurcifer. [PY.] Tace nunciam tu, atque agnum hinc uter est pinguior. [AN.] * * * Licet.– [PY.] Tu, Congrio, * * * eum sume atque abi intro illuc, et vos illum sequimini. 330 Vos ceteri ite huc ad nos. [CO.] Hercle iniuria dispertivisti: pinguiorem agnum isti habent. [PY.] At nunc tibi dabitur pinguior tibicina. I sane cum illo, Phrugia. Tu autem, Eleusium, huc intro abi ad nos. [CO.] O Pythodice subdole, 335 huccine detrusti me ad senem parcissimum? ubi si quid poscam, usque ad ravim poscam prius quam quicquam detur. [PY.] Stultus et sine gratia es. † Tibi recte facere, quando quod facias perit † [CO.] Qui vero? [PY.] Rogitas? Iam principio in aedibus 340 turba istic nulla tibi erit: siquid uti voles, domo abs te adferto, ne operam perdas poscere. Hic autem apud nos magna turba ac familia est, supellex, aurum, vestis, vasa argentea: ibi si perierit quippiam (quod te scio 345 facile abstinere posse, si nihil obviam est), dicant: coqui abstulerunt, comprehendite, vincite, verberate, in puteum condite. Horum tibi istic nihil eveniet: quippe qui ubi quid subripias nihil est. Sequere hac me. [CO.] Sequor. 350 [PY.] Heus, Staphyla, prodi atque ostium aperi.

Pythodicus, servos; Staphyla, anus; Congrio, cocus STA. Qui vocat? [PY.] Pythodicus. [STA.] Quid vis? [PY.] Hos ut accipias coquos

tibicinamque opsoniumque in nuptias. Megadorus iussit Euclioni haec mittere. [STA.] Cererin, Pythodice, has sunt facturi nuptias? 355 [PY.] Qui? [STA.] Quia temeti nihil allatum intellego. [PY.] At iam afferetur, si a foro ipsus redierit. [STA.] Ligna hic apud nos nulla sunt. [CO.] Sunt asseres? [STA.] Sunt pol. [CO.] Sunt igitur ligna, ne quaeras foris. STA Quid, impurate? Quamquam Volcano studes, 360 cenaene caussa aut tuae mercedis gratia nos nostras aedis postulas comburere? [CO.] Haud postulo. [PY.] Duc istos intro. [STA.] Sequimini.– [PY.] Curate. Ego intervisam quid faciant coqui; quos pol ut ego hodie servem, cura maxuma est. 365 Nisi unum hoc faciam, ut in puteo cenam coquant: inde coctam sursum subducemus corbulis. Si autem deorsum comedent, si quid coxerint, superi incenati sunt et cenati inferi. Sed verba hic facio, quasi negoti nil siet,

370 rapacidarum ubi tantum sit in aedibus.

Euclio, senex; [EU.] Volui animum tandem confirmare hodie meum,

ut bene me haberem filiai nuptiis. Venio ad macellum, rogito pisces: indicant caros; agninam caram, caram bubulam, 375 vitulinam, cetum, porcinam: cara omnia. Atque eo fuerunt cariora, aes non erat. Abeo iratus illinc, quoniam nihil est qui emam. Ita illis impuris omnibus adii manum. Deinde egomet mecum cogitare intervias 380 occepi: festo die si quid prodegeris, profesto egere liceat, nisi peperceris. Postquam hanc rationem ventri cordique edidi, accessit animus ad meam sententiam, quam minimo sumptu filiam ut nuptum darem. 385 Nunc tusculum emi hoc et coronas floreas: haec imponentur in foco nostro Lari, ut fortunatas faciat gnatae nuptias. Sed quid ego apertas aedis nostras conspicor? Et strepitust intus. Numnam ego compilor miser? 390 [CO.] Aulam maiorem, si pote, ex vicinia pete: haec est parva, capere non quit. [EU.] Ei mihi, perii hercle. Aurum rapitur, aula quaeritur. [Nimirum occidor, nisi ego intro huc propere propero currere.] Apollo, quaeso, subveni mi atque adiuva, 395 confige sagittis fures thensaurarios, cui in re tali iam subvenisti antidhac. Sed cesso prius quam prorsus perii currere?

[AN.] Dromo, desquama piscis. Tu, Machaerio,

congrum, murenam exdorsua quantum potest. 400 Ego hinc artoptam ex proxumo utendam peto a Congrione. Tu istum gallum, si sapis, glabriorem reddes mihi quam volsus ludiust. Sed quid hoc clamoris oritur hinc ex proximo? Coqui hercle, credo, faciunt officium suom. 405 Fugiam intro, ne quid turbae hic itidem fuat.



Congrio, cocus [CO.] Attatae, cives, populares, incolae, accolae, advenae omnes,

date viam qua fugere liceat, facite totae plateae pateant. Neque ego umquam nisi hodie ad Bacchas veni in bacchanal coquinatum, ita me miserum et meos discipulos fustibus male contuderunt. 410 Totus doleo atque oppido perii, ita me iste habuit senex gymnasium; Neque ligna ego usquam gentium praeberi vidi pulchrius, itaque omnis exegit foras, me atque hos, onustos fustibus. Attat, perii hercle ego miser, 413a aperit bacchanal, adest, sequitur. Scio quam rem geram: hoc 414a ipsus magister me docuit.

Euclio, senex; Congrio, cocus 415 [EU.] Redi. Quo fugis nunc? tene. [CO.] Quid, stolide, clamas? [EU.] Quia ad tris viros iam ego deferam nomen tuom. [CO.] Quam ob rem? [EU.] Quia cultrum habes. [CO.] Cocum decet. [EU.] Quid comminatu’s mihi? [CO.] Istud male factum arbitror, quia non latus fodi. [EU.] Homo nullust te scelestior qui vivat hodie, 420 neque quoi ego de industria amplius male plus libens faxim. [CO.] Pol etsi taceas, palam id quidem est: res ipsa testist; ita fustibus sum mollior magis quam ullus cinaedus. Sed quid tibi nos tactiost, mendice homo? [EU.] Quae res? Etiam rogitas? an quia minus quam aequom erat feci? 425 [CO.] Sine, at hercle cum magno malo tuo, si hoc caput sentit. [EU.] Pol ego haud scio quid post fuat: tuom nunc caput sentit. Sed in aedibus quid tibi meis nam erat negoti me absente, nisi ego iusseram? volo scire. [CO.] Tace ergo. Quia venimus coctum ad nuptias. [EU.] Quid tu, malum, curas, 430 utrum crudum an coctum ego edim, nisi tu mi es tutor? [CO.] Volo scire, sinas an non sinas nos coquere hic cenam? [EU.] Volo scire ego item, meae domi mean salva futura? [CO.] Utinam mea mihi modo auferam, quae adtuli, salva: me haud paenitet, tua ne expetam. [EU.] Scio, ne doce, novi. 435 [CO.] Quid est qua prohibes nunc gratia nos coquere hic cenam? Quid fecimus, quid diximus tibi secus quam velles? [EU.] Etiam rogitas, sceleste homo, qui angulos in omnis mearum aedium et conclavium mihi pervium facitis? Ibi ubi tibi erat negotium, ad focum si adesses, 440 non fissile auferres caput: merito id tibi factum est. Adeo ut tu meam sententiam iam noscere possis: si ad ianuam huc accesseris, nisi iussero, propius, ego te faciam miserrimus mortalis uti sis. Scis iam meam sententiam.– [CO.] Quo abis? redi rursum. 445 ita me bene amet Laverna, te iam, nisi reddi mihi vasa iubes, pipulo hic differam ante aedis. Quid ego nunc agam ne ego edepol veni huc auspicio malo. Nummo sum conductus: plus iam medico mercedest opus.

Euclio, senex; Congrio, cocus

[EU.] Hoc quidem hercle, quoquo ibo, mecum erit, mecum feram, 450 neque isti id in tantis periclis umquam committam ut siet. Ite sane nunciam omnes, et coqui et tibicinae, etiam intro duce, si vis, vel gregem venalium, coquite, facite, festinate nunciam quantum libet. [CO.] Temperi, postquam implevisti fusti fissorum caput. 455 [EU.] Intro abite, opera huc conducta est vostra, non oratio. [CO.] Heus, senex, pro vapulando hercle ego aps te mercedem petam. Coctum ego, non vapulatum, dudum conductus fui. [EU.] Lege agito mecum. Molestus ne sis. I et cenam coque, aut abi in malum cruciatum ab aedibus. [CO.] Abi tu modo.–

Euclio, senex 460 [EU.] Illic hinc abiit. Di immortales, facinus audax incipit qui cum opulento pauper homine rem habet aut negotium: veluti Megadorus temptat me omnibus miserum modis, qui simulavit mei honoris mittere huc caussa coquos: is ea caussa misit, hoc qui surriperent misero mihi. 465 Condigne etiam meus med intus gallus gallinacius, qui erat anu peculiaris, perdidit paenissume. Ubi erat haec defossa, occepit ibi scalpurrire ungulis circumcirca. Quid opust verbis? Ita mihi pectus peracuit: capio fustem, obtrunco gallum, furem manufestarium. 470 Credo edepol ego illi mercedem gallo pollicitos coquos, si id palam fecisset. Exemi ex manu † manubrium.† Quid opust verbis? facta est pugna in gallo gallinacio. Sed Megadorus meus affinis eccum incedit a foro. Iam hunc non ausim praeterire, quin consistam et conloquar.

Megadorus, Euclio, senes duo 475 [ME.] Narravi amicis multis consilium meum de condicione hac. Euclionis filiam laudant. Sapienter factum et consilio bono. Nam, meo quidem animo si idem faciant ceteri opulentiores, pauperiorum filias 480 ut indotatas ducant uxores domum, et multo fiat civitas concordior, et invidia nos minore utamur quam utimur, et illae malam rem metuant quam metuont magis, et nos minore sumptu simus quam sumus. 485 In maximam illuc populi partem est optimum; in pauciores avidos altercatio est, quorum animis avidis atque insatietatibus neque lex neque sutor capere est qui possit modum. Namque hoc qui dicat ‘quo illae nubent divites 490 dotatae, si istud ius pauperibus ponitur?’ Quo lubeant, nubant, dum dos ne fiat comes. Hoc si ita fiat, mores meliores sibi parent, pro dote quos ferant, quam nunc ferunt. Ego faxim muli, pretio qui superant equos, 495 sint viliores Gallicis cantheriis. [EU.] Ita me di amabunt ut ego hunc ausculto lubens. Nimis lepide fecit verba ad parsimoniam. [ME.] Nulla igitur dicat “equidem dotem ad te adtuli maiorem multo quam tibi erat pecunia; 500 enim, mihi quidem aequomst purpuram atque aurum dari, ancillas, mulos, muliones, pedisequos, salutigerulos pueros, vehicla qui vehar!” [EU.] Ut matronarum hic facta pernovit probe! Moribus praefectum mulierum hunc factum velim. 505 [ME.] Nunc quoquo venias plus plaustrorum in aedibus videas quam ruri, quando ad villam veneris. Sed hoc étiam pulchrum est praequam ubi sumptus petunt. Stat fullo, phyrgio, aurifex, lanarius; caupones patagiarii, indusiarii, 510 flammarii, violarii, carinarii, aut manulearii, aut myrobaptarii;

propolae linteones, calceolarii, sedentarii sutores diabathrarii, solearii astant, astant molocinarii; 515 [petunt fullones, sarcinatores petunt;] strophiarii astant, astant semul sonarii. Iam hosce absolutos censeas: cedunt, petunt treceni, cum stant thylacistae in atriis, textores limbularii, arcularii. 520 Ducuntur, datur aes. Iam absolutos censeas, cum incedunt infectores corcotarii, aut aliqua mala crux semper est, quae aliquid petat. [EU.] Compellarem ego illum, ni metuam ne desinat memorare mores mulierum: nunc sic sinam. 525 [ME.] Ubi nugivendis res soluta est omnibus, ibi ad postremum cedit miles, aes petit. Itur, putatur ratio cum argentario; miles inpransus astat, aes censet dari. Ubi disputata est ratio cum argentario, 530 etiam ipsus ultro debet argentario: spes prorogatur militi in alium diem. Haec sunt atque aliae multae in magnis dotibus incommoditates sumptusque intolerabiles. Nam quae indotata est, ea in potestate est viri; 535 dotatae mactant et malo et damno viros. Sed eccum adfinem ante aedes. Quid agis, Euclio? [EU.] Nimium, lubenter edi sermonem tuom. [ME.] An audivisti? [EU.] Usque a principio omnia. [ME.] Tamen meo quidem animo aliquanto facias rectius, 540 si nitidior sis filiai nuptiis. [EU.] Pro re nitorem et gloriam pro copia qui habent, meminerunt sese unde oriundi sient. Neque pol, Megadore, mihi neque quoiquam pauperi opinione melius res structa est domi. 545 [ME.] Immo est et di faciant ut siet plus plusque istuc sospitent quod nunc habes. [EU.] Illud mihi verbum non placct ‘quod nunc habes’. Tam hoc scit me habere quam egomet. Anus fecit palam. [ME.] Quid tu te solus e senatu sevocas? 550 [EU.] Pol ego ut te accusem merito meditabar. [ME.] Quid est? [EU.] Quid sit me rogitas? qui mihi omnis angulos furum implevisti in aedibus misero mihi, qui mi intro misti in aedis quingentos coquos, cum senis manibus genere Geryonaceo, 555 quos si Argus servet, qui oculeus totus fuit, quem quondam Ioni Iuno custodem addidit, is numquam servet; praeterea tibicinam, quae mi interbibere sola, si vino scatat, Corinthiensem fontem Pirenam potest; tum opsonium autem… 560 [ME.] Pol vel legioni sat est. Etiam agnum misi. [EU.] Quo quidem agno sat scio magis curionem nusquam esse ullam beluam. [ME.] Volo ego ex te scire qui sit agnus curio. [EU.] Quia ossa ac pellis totust, ita cura macet. 565 Quin exta inspicere in sole ei vivo licet: ita is pellucet quasi lanterna Punica. [ME.] Caedundum conduxi ego illum. [EU.] Tum tu idem optumumst loces efferendum; nam iam, credo, mortuost. [ME.] Potare ego hodie, Euclio, tecum volo. 570 [EU.] Non potem ego quidem hercle. [ME.] At ego iussero cadum unum vini veteris a me adferrier. [EU.] Nolo hercle, nam mihi bibere decretum est aquam. [ME.] Ego te hodie reddam madidum, si vivo, probe,

tibi cui decretum est bibere aquam. [EU.] Scio quam rem agat:

575 ut me deponat vino, eam adfectat viam, post hoc quod habeo ut commutet coloniam. Ego id cavebo, nam alicubi abstrudam foris. Ego faxo et operam et vinum perdiderit simul. [ME.] Ego, nisi quid me vis, eo lavatum, ut sacruficem.– 580 [EU.] Edepol, ne tu, aula, multos inimicos habes atque istuc aurum quod tibi concreditum est. Nunc hoc mihi factu est optumum, ut ted auferam, aula, in Fidei fanum: ibi abstrudam probe. Fides, novisti me et ego te: cave sis tibi, 585 ne [tu] in me mutassis nomen, si hoc concreduo. Ibo ad te fretus tua, Fides, fiducia.–



Strobilus, servos [STR.] Hoc est servi facinus frugi, facere quod ego persequor,

ne morae molestiaeque imperium erile habeat sibi. Nam qui ero ex sententia servire servos postulat, 590 in erum matura, in sera condecet capessere. Sin dormitet, ita dormitet, servom sese ut cogitet. Nam qui amanti ero servitutem servit, quasi ego servio, si erum videt superare amorem, hoc servi esse officium reor, retinere ad salutem, non enim quo incumbat eo impellere. 595 Quasi pueri qui nare discunt scirpea induitur ratis, qui laborent minus, facilius ut nent et moveant manus, eodem modo servom ratem esse amanti ero aequom censeo, ut toleret, ne pessum abeat tamquam * * eri ille imperium ediscat, ut quod frons velit oculi sciant; 600 quod iubeat citis quadrigis citius properet persequi. Qui ea curabit, abstinebit censione bubula, nec sua opera rediget umquam in splendorem compedes. Nunc erus meus amat filiam huius Euclionis pauperis; eam ero nunc renuntiatum est nuptum huic Megadoro dari. 605 Is speculatum huc misit me, ut quae fierent fieret particeps. Nunc sine omni suspicione in ara hic adsidam sacra; hinc ego et huc et illuc potero quid agant arbitrarier.

Euclio, senex; Strobilus, servos [EU.] Tu modo cave quoiquam indicassis aurum meum esse istic, Fides:

non metuo ne quisquam inveniat, ita probe in latebris situmst. 610 Edepol ne illic pulchram praedam agat, si quis illam invenerit aulam onustam auri; verum id te quaeso ut prohibessis, Fides. Nunc lavabo, ut rem divinam faciam, ne affinem morer quin, ubi accersat, meam extemplo filiam ducat domum. Vide, Fides, etiam atque etiam nunc, salvam ut aulam abs te auferam: 615 tuae fidei concredidi aurum, in tuo luco et fano est situm.– [STR.] Di immortales, quod ego hunc hominem facinus audivi loqui: se aulam onustam auri abstrusisse hic intus in fano Fidei. Cave tu illi fidelis, quaeso, potius fueris, quam mihi. Atque hic pater est, ut ego opinor, huius, erus quam amat, . 620 Ibo hinc intro, perscrutabor fanum, si inveniam uspiam aurum, dum hic est occupatus. Sed si repperero, o Fides, mulsi congialem plenam faciam tibi fideliam. Id adeo tibi faciam; verum ego mihi bibam, ubi id fecero.–

Euclio, senex [EU.] Non temere est quod corvos cantat mihi nunc ab laeva manu: 625 semul radebat pedibus terram et voce croccibat sua: continuo meum cor coepit artem facere ludicram atque in pectus emicare. Sed ego cesso currere?–

Euclio, senex; Strobilus, servos [EU.] foras, lumbrice, qui sub terra erepsisti modo,

qui modo nusquam comparebas, nunc, cum compares, peris. 630 Ego pol te, praestigiator, miseris iam accipiam modis. [STR.] Quae te mala crux agitat? quid tibi mecum est commerci, senex? Quid me adflictas? quid me raptas? qua me caus verberas? [EU.] Verberabilissime etiam rogitas, non fur, sed trifur? [STR.] Quid tibi surrupui? [EU.] Redde huc sis. [STR.] Quid tibi vis reddam? [EU.] Rogas? 635 [STR.] Nil equidem tibi abstuli. [EU.] At illud quod tibi abstuleras cedo.

Ecquid agis? [STR.] Quid agam? [EU.] Auferre non potes. [STR.] Quid vis tibi? [EU.] Pone. [STR.] Id quidem pol te datare credo consuetum, senex. [EU.] Pone hoc sis, aufer cavillam, non ego nunc nugas ago. [STR.] Quid ego ponam? Quin tu eloquere quidquid est suo nomine.

640 Non hercle equidem quicquam sumpsi nec tetigi. [EU.] Ostende huc manus. [STR.] Em tibi, ostendi, eccas. [EU.] Video. Age, ostende etiam tertiam. [STR.] Laruae hunc atque intemperiae insaniacque agitant senem. Facisne iniuriam mihi? [EU.] Fateor, quia non pendes, maxumam. Atque id quoque iam fiet, nisi fatere. [STR.] Quid fatear tibi? 645 [EU.] Quid abstulisti hinc? [STR.] Di me perdant, si ego tui quicquam abstuli nive adeo abstulisse vellem. [EU.] Agedum, excutedum pallium. [STR.] Tuo arbitratu. [EU.] Ne inter tunicas habeas. [STR.] Tempta qua lubet. [EU.] Vah, scelestus quam benigne: ut ne abstulisse intellegam. Novi sycophantias. Age rusum ostende huc manum 650 dexteram. [STR.] Em. [EU.] Nunc laevam ostende. [STR.] Quin equidem ambas profero. [EU.] Iam scrutari mitto. Redde huc. [STR.] Quid reddam? [EU.] A, nugas agis, certe habes. [STR.] Habeo ego? quid habeo? [EU.] Non dico, audire expetis. Id meum, quidquid habes, redde. [STR.] Insanis: perscrutatus es tuo arbitratu, neque tui me quicquam invenisti penes. 655 [EU.] Mane, mane. Quis illic est? quis hic intus alter erat tecum simul? Perii hercle: ille nunc intus turbat, hunc si amitto hic abierit. Postremo hunc iam perscrutavi, hic nihil habet. Abi quo lubet. [STR.] Iuppiter te dique perdant. [EU.] Haud male egit gratias. Ibo intro atque illi socienno tuo iam interstringam gulam. 660 Fugin hinc ab oculis? Abin an non? [STR.] Abeo. [EU.] Cave sis revenias.

Strobilus, servos [STR.] Emortuom ego me mavelim leto malo

quam non ego illi dem hodie insidias seni. Nam hic iam non audebit aurum abstrudere: credo ecferet iam secum et mutabit locum. 665 Attat, foris crepuit. Senex eccum aurum ecfert foras. Tantisper huc ego ad ianuam concessero.

Euclio, senex; Strobilus, servos [EU.] Fidei censebam maxumam multo fidem

esse, ea sublevit os mihi paenissume: ni subvenisset corvos, periissem miser. 670 Nimis hercle ego illum corvom ad me veniat velim, qui indicium fecit, ut ego illi aliquid boni dicam; nam quod edit tam duim quam perduim. Nunc hoc ubi abstrudam cogito solum locum. Silvani lucus extra murum est avius, 675 crebro salicto oppletus. Ibi sumam locum.

Certumst, Silvano potius credam quam Fidei.– [STR.] Euge, euge, di me salvom et servatum volunt.

Iam ego illuc praecurram atque inscendam aliquam in arborem indeque observabo, aurum ubi abstrudat senex. 680 Quamquam hic manere me erus sese iusserat; certum est, malam rem potius quaeram cum lucro.–

Lyconides, adulescens; Eunomia, mulier; Phaedria, virgo [LY.] Dixi tibi, mater – iuxta rem mecum tenes –

super Euclionis filia. Nunc te obsecro resecroque, mater, quod dudum obsecraveram: 685 fac mentionem cum avonculo, mater mea. [EUN.] Scis tute facta velle me quae tu velis, et istuc confido fratre me impetrassere; et caussa iusta est, siquidem ita est ut praedicas, te eam compressisse vinulentum. virginem. 690 [LY.] Egone ut te advorsum mentiar, mater mea? [PH.] Perii, mea nutrix. Obsecro te, uterum dolet. Iuno Lucina, tuam fidem! [LY.] Em, mater mea, tibi rem potiorem verbo: clamat, parturit. [EUN.] Ei hac intro mecum, gnate mi, ad fratrem meum, 695 ut istuc quod me oras impetratum ab eo auferam.– [LY.] I, iam sequor te, mater. Sed servom meum Strobilum miror ubi sit, quem ego me iusseram hic opperiri. Nunc ego mecum cogito: si mihi dat operam, me illi irasci iniurium est. 700 Ibo intro, ubi de capite meo sunt comitia.–

Strobilus, servos [STR.] Picis divitiis, qui aureos montes colunt,

ego solus supero. Nain istos reges ceteros memorare nolo, hominum mendicabula: ego sum ille rex Philippus. O lepidum diem. 705 Nam ut dudum hinc abii, multo illo adveni prior multoque prius me conlocavi in arborem indeque spectabam aurum ubi abstrudebat senex. Ubi ille abiit, ego me deorsum duco de arbore, exfodio aulam auri plenam. Inde ex eo loco 710 video recipere se senem; ille me non videt, nam ego declinavi paululum me extra viam. Attat, eccum ipsum. Ibo ut hoc condam domum.–

Euclio, senex [EU.] Perii interii occidi. Quo curram? quo non curram? Tene, tene. Quem? Quis?

Nescio, nil video, caecus eo atque equidem quo eam aut ubi sim aut qui sim 715 nequeo cum animo certum investigare. Opsecro vos ego, mi auxilio, oro obtestor, sitis et hominem demonstretis, quis eam abstulerit. Quid est? quid ridetis? novi omnes, scio fures esse hic complures, qui vestitu et creta occultant sese atque sedent quasi sint frugi. Quid ais tu? tibi credere certum est, nam esse bonum ex voltu cognosco. 720 Hem, nemo habet horum? occidisti. Dic igitur, quis habet? nescis? Heu me miserum, misere perii, 721a male perditus, pessime ornatus eo: tantum gemiti et mali maestitiaeque 722a hic dies mi optulit, famem et pauperiem. Perditissimus ego sum omnium in terra; 723a [nam] quid mi opust vita, qui tantum auri perdidi, quod concustodivi 724a sedulo? egomet me defraudavi 725 animumque meum geniumque meum; nunc ergo alii laetificantur meo malo et dammo. Pati nequeo.

Lyconides, adulescens; Euclio, senex [LY.] Quinam homo hic ante aedis nostras eiulans conqueritur maerens?

Atque hic quidem Euclio est, ut opinor. Oppido ego interii: palamst res, scit peperisse iam, ut ego opinor, filiam suam. Nunc mi incertumst

730 abeam an maneam, an adeam an fugiam. Quid agam édepol nescio. [EU.] Quis homo hic loquitur? [LY.] Ego sum miser. [EU.] Immo ego sum, et misere perditus, cui tanta mala maestitudoque optigi. [LY.] Animo bono es. [EU.] Quo, obsecro, pacto esse possum? [LY.] Quia istuc facinus, quod tuom sollicitat animum, id ego feci et fateor. [EU.] Quid ego ex te audio? 735 [LY.] Id quod verumst. [EU.] Quid ego commerui adulescens, mali, quam ob rem ita faceres meque meosque perditum ires liberos? [LY.] Deus impulsor mihi fuit, is me ad illam inlexit. [EU.] Quo modo? [LY.] Fateor peccavisse et me culpam commeritum scio; id adeo te oratum advenio ut animo aequo ignoscas mihi. 740 [EU.] Cur id ausu’s facere, ut id quod non tuom esset tangeres? [LY.] Quid vis fieri? factum est illud: fieri infectum non potest. Deos credo voluisse; nam ni vellent, non fieret, scio. [EU.] At ego deos credo voluisse ut apud me te in nervo enicem. [LY.] Ne istuc dixis. [EU.] Quid tibi ergo meam me invito tactiost? 745 [LY.] Quia vini vitio atque amoris feci. [EU.] Homo audacissime, cum istacin te oratione huc ad me adire ausum, impudens! Nam si istuc ius est ut tu istuc excusare possies, luci claro deripiamus aurum matronis palam, postid si prehensi simus, excusemus ebrios 750 nes fecisse amoris caussa. Nimis vilest vinum atque amor, si ebrio atque amanti impune facere quod lubeat licet. [LY.] Quin tibi ultro supplicatum venio ob stultitiam meam. [EU.] Non mi homines placent qui quando male fecerunt purigant. Tu illam scibas non tuam esse: non attactam oportuit. 755 [LY.] Ergo quia sum tangere ausus, haud causificor quin eam ego habeam potissimum. [EU.] Tun habeas me invito meam? [LY.] Haud te invito postulo; sed meam esse oportere arbitror. Quin tu iam invenies, inquam, meam illam esse oportere, Euclio. [EU.] Iam quidem hercle te ad praetorem rapiam et tibi scribam dicam, 760 nisi refers. [LY.] Quid tibi ego referam? [EU.] Quod surripuisti meum. [LY.] Surripui ego tuom? unde? aut quid id est? [EU.] Ita te amabit Iuppiter, ut tu nescis. [LY.] Nisi quidem tu mihi quid quaeras dixeris. [EU.] Aulam auri, inquam, te reposco, quam tu confessu’s mihi te abstulisse. [LY.] Neque edepol ego dixi neque feci. [EU.] Negas? 765 [LY.] Pernego immo. Nam neque ego aurum neque istaec aula quae siet scio nec novi. [EU.] Illam, ex Silvani luco quam abstuleras, cedo. I, refer. Dimidiam tecum potius partem dividam. Tam etsi fur mihi es, molestus non ero. I vero, refer. [LY.] Sanus tu non es qui furem me voces. Ego te, Euclio, 770 dé alia re rescivisse censui, quod ad me attinet; magna res est quam ego tecum [otiose], si otium est, cupio loqui. [EU.] Dic bona fide: tu id aurum non surripuisti? [LY.] Bona. [EU.] Neque scis qui abstulerit? [LY.] Istuc quoque bona. [EU.] Atque id si scies qui abstulerit, mihi indicabis? [LY.] Faciam. [EU.] Neque partem tibi

775 ab eo quoiumst indipisces neque furem excipies? [LY.] Ita. [EU.] Quid fallis? [LY.] Tum me faciat quod volt magnus Iuppiter. [EU.] Sat habeo. Age nunc loquere quid vis. [LY.] Si me novisti minus, genere quo sim gnatus: hic mihi est Megadorus avonculus, meus fuit pater Antimachus, ego vocor Lyconides, 780 mater est Eunomia. [EU.] Novi genus. Nunc quid vis? id volo noscere. [LY.] Filiam ex te tu habes. [EU.] Immo eccillam domi. [LY.] Eam tu despondisti, opinor, meo avonculo. [EU.] Omnem rem tenes. [LY.] Is me nunc renuntiare repudium iussit tibi. [EU.] Repudium rebus paratis, exornatis nuptiis? 785 Ut illum di immortales omnes deaeque quantum est perduint, quem propter hodie auri tantum perdidi infelix, miser. [LY.] Bono animo es, bene dice. Nunc quae res tibi et gnatae tuae bene feliciterque vortat… ita di faxint, inquito. [EU.] Ita di faciant. [LY.] Et mihi ita di faciant. Audi nunciam. 790 Qui homo culpam admisit in se, nullust tam parvi preti, quom pudeat, quin purget sese. Nunc te obtestor, Euclio, ut si quid ego erga te imprudens peccavi aut gnatam tuam, ut mi ignoscas eamque uxorem mihi des, ut leges iubent. Ego me iniuriam fecisse filiae fateor tuae, 795 Cereris vigiliis, per vinum atque impulsu adulescentiae. [EU.] Ei mihi, quod ego facinus ex te audio? [LY.] Cur eiulas, quem ego avom feci iam ut esses filiai nuptiis? Nam tua gnata peperit, decumo mense post: numerum cape; Ea re repudium remisit avonculus causa mea. 800 I intro, exquaere, sitne ita ut ego praedico. [EU.] Perii oppido, ita mihi ad malum malae res plurimae se adglutinant. Ibo intro, ut quid huius verum sit sciam. – [LY.] Iam te sequor. Haec propemodum iam esse in vado salutis res videtur. Nunc servom esse ubi dicam meum Strobilum non reperio; 805 nisi etiam hic opperiar tamen paulisper; postea intro hunc subsequar. Nunc interim spatium ei dabo exquirendi meum factum ex gnatae pedisequa nutrice anu: e rem novit.



Strobilus, servos; Lyconides, adulescens [STR.] Di immortales, quibus et quantis me donatis gaudiis.

Quadrilibrem aulam auro onustam habeo. Quis me est [ditior? 810 Quis me Athenis nunc magis quisquam est homo cui di sint propitii? [LY.] Certo enim ego vocem hic loquentis modo mi audire visus sum. [STR.] Hem, erumne ego aspicio meum? [LY.] Videon ego hunc servom meum? [STR.] Ipsus est. [LY.] Haud alius est. [STR.] Congrediar. [LY.] Contollam gradum. 814-15 credo ego illum, ut iussi, eampse anum adiisse, huius nutricem virginis. [STR.] Quin ego illi me invenisse dico hanc praedam? [Atque eloquar,] igitur orabo ut manu me emittat. Ibo atque eloquar. Repperi.– [LY.] Quid repperisti? [STR.] Non quod pueri clamitant in faba se repperisse. [LY.] Iamne autem, ut soles, deludis? 820 [STR.] Ere, mane, eloquar iam, ausculta. [LY.] Age ergo loquere. [STR.] Repperi hodie, ere, divitias nimias. [LY.] Ubinam? [STR.] Quadrilibrem, inquam, aulam auri plenam. [LY.] Quod ego facinus audio ex te? [STR.] Euclioni huic seni subripui. [LY.] Ubi id est aurum? [STR.] In arca apud me. Nunc volo me emitti manu. [LY.] Egone te emittam manu, 825 scelerum cumulatissume? [STR.] Abi, ere, scio quam rem geras. Lepide hercle animum tuom temptavi. Iam ut eriperes apparabas: Quid faceres, si repperissem? [LY.] Non potes probasse nugas. I, redde aurum. [STR.] Reddam ego aurum? [LY.] Redde, inquam, ut huic reddatur. [STR.] Unde? 830 LY Quod modo fassu’s esse in arca. [STR.] Soleo hercle ego garrire nugas. [LY.] * * [STR.] Ita loquor. [LY.] At scin quo modo? ** [STR.] Vel hercle enica, numquam hinc feres a me * * * * *



[I.] pro illis corcotis, strophiis, sumptu uxorio

* [II.] ut admemordit hominem

* [III.] [] ego ecfodiebam | in die denos scrobes.

* [IV.] [] Nec noctu nec diu quietus umquam eram: nunc dormiam.

* [V.] qui mi holera cruda ponunt, hallec duint.

PRIMO SOMMARIO

Il vecchio avaro Tienichiuso non crede ai suoi occhi nello scoprire sotterrata in casa una pentola contenente un sacco di quattrini, e la riseppellisce in fondo a una buca, custodendola con una scriteriata paura verde. Nel frattempo Lupacchiotto fa la festa a sua figlia. Intanto il vecchio Regalone, persuaso dalla sorella a prender moglie, chiede all’avaro la mano della figlia. Il vecchio cocciuto fa cadere il consenso dall’alto, ma temendo intanto per la pentola, la porta via da casa e la caccia in vari nascondigli. Ma lo frega il servo proprio di Lupacchiotto, quello che aveva ingravidato la ragazza; frattanto questi scongiura5 lo zio Regalone di cedere la promessa sposa a lui che ne era innamorato. Poi Tienichiuso ritrova insperatamente la pentola sparitagli col furto e, nell’allegria per questo bel rimedio, concede la figlia a Lupacchiotto. SECONDO SOMMARIO6

Avendo trovato una pentola piena d’oro, Tienichiuso usa tutti gli accorgimenti per custodirla, struggendosi di paura. Lupacchiotto gl’ingravida la figlia. Un suo zio, Regalone, è disposto a sposarla anche senza dote, largheggiando in cuochi e roba da mangiare col vecchio perché consenta. Affannato per il tesoro Tienichiuso lo va a imbucare fuori casa. Raccolti tutti gl’indizi, uno schiavo del seduttore incappa nella pentola e se la porta via. Ma il ragazzo rivela l’imbroglio a Tienichiuso, che per gratitudine gli rifila l’oro, la ragazza in moglie e il ragazzino neonato.

PROLOGO

Il Lare della casa7 meravigliate, non vi domandate chi diavolo io sia: ve lo dirò io stesso in due parole. Sono il Lare della casa, sì proprio di questa8 da cui mi avete visto uscire. E questa casa sono già molti anni che l’ho in proprietà e la custodisco: l’ho già fatto per il bene del padre e del nonno dell’uomo che ora vi abita. Ma suo nonno un giorno mi affidò con un sacco di preghiere un tesoro, di nascosto da tutti: gli scavò una fossa in mezzo al focolare scongiurandomi in ginocchio che glielo conservassi. E quando morì non volle rivelare il segreto al figlio (tanto era avaro!)9, e preferì lasciarlo a stecchetto anziché mostrargli quel ben di Dio; gli lasciò solo un pezzetto di terra, con cui poteva arrivare a sfamarsi alla meglio ammazzandosi di fatica. Quando crepò l’uomo che mi aveva affidato il tesoro, presi a rendermi conto se il figlio mi usasse maggiori riguardi del padre. Ma quel tanghero se ne preoccupava sempre meno, facendo sempre più la cresta alle spese, limitandomi con sempre maggiore taccagneria i debiti onori. E da parte mia ciò ch’era fatto fu reso, sì che quando anche lui crepò, non sapeva ancora nulla del tesoro. Quel morto di fame lasciò il figlio, quello che ora abita qui, e che è spilorcio tale e quale suo padre e suo nonno. Ma ha una figlia unica, che ogni giorno mi fa sempre omaggio d’incenso, di vino o di qualcos’altro, e mi offre anche ghirlande. E io per ricompensarla ho fatto sì che questo bel tomo, Tienichiuso, scoprisse il tesoro: così potrà maritarla più facilmente, se ne avrà voglia. Perché intanto un giovane di ottima famiglia le ha tolto la verginità. Il giovanotto sa chi è la ragazza cui ha fatto la festa, lei invece non lo conosce e neppure il padre sa che essa è stata sverginata. Io oggi farò sì che la chieda in moglie quest’altro vecchio che abita qui accanto10. E lo farò proprio perché possa sposarla più facilmente chi l’ha sverginata. Difatti il vecchio che la chiederà in moglie è lo zio materno di quel giovanotto che se l’è goduta di notte11, durante la veglia di Cerere. Ma ecco il vecchiaccio che strilla lì dentro, come al solito. Sta cacciando fuori casa la vecchia serva perché non s’accorga di nulla. Vuol dire che ha intenzione di scrutare se gli sia stato fatto fuori l’oro.

IL LARE: Non vi

[Fine del prologo]

ATTO PRIMO

Tienichiuso, Uva TIENICHIUSO:

Su, forza, esci, esci, ti dico. Lo vuoi capire, sì o no, che devi uscire, devi venir fuori di casa, curiosona con quegli occhiacci che ti sbucano fuori a frugare dappertutto? UVA: Ma che ragione c’è di dare addosso a una disgraziata come me? TIENICHIUSO: Proprio perché disgraziata rimanga e trascorra una mala vecchiaia degna della malvagità tua. UVA: Ma per quale ragione mi hai cacciato fuori di casa? TIENICHIUSO: E dovrei dartene pure conto, pascolo dello staffile? Allontánati dalla porta, vattene da quella parte, da quella parte, hai capito? Guarda come cammina! Ma lo sai che ti capiterà? Perdio, se oggi mi troverò fra le mani un tortore o uno spuntone, te la farò andare svelta questa tua andatura da tartaruga! UVA [a parte]: Ma potessero gli dèi darmi l’animo d’impiccarmi piuttosto che servire te a queste condizioni! TIENICHIUSO: Ma guarda un po’ come bofonchia per conto suo quella cosaccia! Ma arriverò a cavarti questi maledetti occhi: così non potrai star a guardare quello che faccio. Su, allontánati ancora, ancora…, ancora… ora basta, férmati lì. Perdio se tu, da dove stai, ti muoverai dello spessore di un dito o dell’orlo di un’unghia o ti volterai a guardare prima che te l’abbia detto io, ti giuro che ti manderò subito a scuola dalla croce. [A parte:] Sono sicuro di non aver mai visto una schifezza peggiore di questa vecchiaccia, ed ho una fifa maledetta che non mi colga alla sprovvista e non arrivi a scoprire dov’è nascosto l’oro: questa disgraziata ci ha gli occhi pure sulla nuca. Ora vado a vedere se si trova ancora dove l’ho imbucato, quel benedetto oro che non mi dà requie, che mi sfibra con le preoccupazioni che mi dà [Rientra.]

Uva UVA:

Non riesco a immaginare che diavolo debba credere sia accaduto al mio padrone, che pazzia lo abbia preso; ma dieci volte al giorno è capace di cacciarmi fuori casa, povera me, con queste belle maniere! Proprio non so che canchero gli abbia avvelenato il sangue, a quell’uomo! Sta a vegliare per intere notti, e spesso di giorno rimane seduto in casa per tutta la giornata come uno scarparo zoppo. Io per giunta non riesco neppure a immaginare in che modo potrò arrivare a nascondere la vergogna di sua figlia, che ormai è vicina al parto. Lo capisco: ormai, credo, per me non c’è di meglio che fare di me stessa una i maiuscola12, stringendomi il collo in un cappio.

Tienichiuso, Uva TIENICHIUSO [a parte, tornando ad uscire]: Ora posso uscire di casa proprio con l’animo sgombro d’ogni intruglio! Ho visto che lì dentro tutto è in ordine. [A Uva:] Ora tornatene dentro e fa’ la guardia come si deve. UVA: E

già! E a che cosa debbo fare la guardia? Hai paura che qualcuno si porti via la casa? Da noi non c’è altro bottino per i ladri, tanto le mura son piene di vuoto e di ragnatele. TIENICHIUSO: E già! C’è da stupirsi che Giove non mi trasformi nel re Filippo13 o nel re Dario per fare un piacere a te, pozzo di veleni! E a me invece piace conservare quelle ragnatele. Sono povero, lo confesso e lo sopporto; mi prendo quello che mi danno gli dèi. Ora entra e chiudi la porta. Tra poco ci sarò anch’io. Guárdati dal far entrare un estraneo, chiunque sia. Voglio che tu spenga il fuoco; così se qualcuno viene a chiederne, troverà che non c’è proprio modo di farsi dare nulla. Se il fuoco rimarrà in vita, creperai tu di colpo! Se qualcuno viene a chiedere acqua, digli che se n’è andata via. Il coltello, l’ascia, il pestello, il mortaio, tutte quelle cose che i vicini vengono sempre a chiedere quando gli servono, di’ che sono venuti i ladri a portarcele via. Insomma in casa mia, quando non ci sono, non voglio che si faccia entrare nessuno. Anzi ti prescrivo anche questo: anche se viene la buona Fortuna, non devi farla entrare. UVA: Figúrati se si preoccupa d’entrare da noi. E quando mai ci ha messo piede? Eppure sta a due passi 14. TIENICHIUSO: Ora zíttati e fila in casa. UVA: Sto zitta e filo. TIENICHIUSO: Pensa a chiudere la porta con tutti e due i chiavistelli. Fra poco starò qui. [Uva entra.] Quando debbo uscire di casa mi sento male. Sì, esco proprio a denti stretti. Ma so quello che debbo fare. Il capo della nostra curia ha detto che distribuirà un po’ di soldi ai singoli membri 15; se io lo lascio perdere e non lo vado a intascare, tutti, penso, sospetteranno subito che io ho denaro in casa. Perché non sta né in cielo né in terra che un morto di fame se ne freghi dell’occasione di pescare anche un centesimo. Eppure anche se mi sbudello a non far conoscere a nessuno la mia fortuna, mi pare che ormai la conoscano tutti: tutti, quando m’incontrano, mi prodigano moine molto più di prima, mi vengono incontro, si fermano, mi stringono la mano; mi domandano come sto, che fo, come mi vanno le faccende. Be’, ora vado per quell’affare; ma appena l’avrò sbrigato, me ne torno a casa a spron battuto. [Fine del primo atto]

ATTO SECONDO

Legalina, Regalone LEGALINA: Vorrei

proprio che ti mettessi in testa, fratello mio, che se parlo lo faccio nel tuo interesse e per l’affetto che ti porto, com’è dovere di ogni buona sorella, anche se non mi sfugge che abbiamo fama di rompiscatole. Perché a noi donne tutti ci pigliano per ciacolone impenitenti; e mica hanno torto, perché è noto a tutti che né ora né mai nel corso dei secoli s’è mai trovata una donna muta. Però pensa bene a questo, fratello mio, che io sono il tuo parente più prossimo, e che tu sei altrettanto per me; perciò è giusto che quando si tratta dei fatti nostri io e tu pensiamo di doverci consultare e illuminare reciprocamente, né tenerci nascosto nulla né farfugliare furtivamente per la fifa, ma anzi comunicarci tutto da pari a pari, io a te e tu a me. Perciò ora t’ho chiamato qua fuori in disparte, alla chetichella, per discutere con te d’una faccenda che ti tocca da vicino. REGALONE: O tesoro delle donne, dammi la mano. LEGALINA: Ma a chi parli? Chi è questo tesoro? REGALONE: Tu. LEGALINA: Me lo dici proprio tu? REGALONE: Be’, se lo neghi, lo nego anch’io. LEGALINA: Ma no, è meglio che tu dica la verità; una donna che sia un tesoro non la si può trovare da nessuna parte; dovunque ti rigiri, fratello mio, l’una è sempre peggio dell’altra. REGALONE: E che ti credi che non la pensi così anch’io? Non ho certo voglia di contraddirti in questo, sorella mia. LEGALINA: Be’, ma ora stammi bene a sentire. REGALONE: Sono tutt’orecchi: fa’ di me quello che vuoi, sono ai tuoi ordini. LEGALINA: Vengo a sollecitarti per una cosa che credo sia la più utile per te. REGALONE: Sorella cara, fai come sempre. LEGALINA: Ma io vorrei che si fosse già realizzata. REGALONE: Ma che faccenda è, sorella? LEGALINA: Una cosa che ti dovrebbe fare felice per sempre: vorrei che prendessi moglie per avere dei figli, se Dio vuole16. REGALONE: O Dio, sono rovinato! LEGALINA: E perché? REGALONE: Perché, povero me, quello che dici, sorella mia, mi scoperchia il cervello: è come se ti uscissero pietre dalla bocca e mi picchiassero sulla testa. LEGALINA: Ma su, fa’ quello che ti consiglia tua sorella. REGALONE: Se mi andasse a genio, lo farei. LEGALINA: Ma è proprio per il tuo bene. REGALONE: Ma preferirei crepare piuttosto che prendere moglie. Al massimo, se ce ne hai una a disposizione, me la piglio, ma a queste condizioni: che arrivi domani, ma dopodomani esca di casa nella bara. Se quella che hai a disposizione accetta queste condizioni, mi rassegno: pensa pure a preparare le nozze. LEGALINA: Ma io, fratello mio, te ne potrei dare una con una dote grossa così, però è un po’ attempatella, una di mezza età. Se mi dici di sì, fratello, te la vado a chiedere subito. REGALONE: Ma ora mi permetti di farti io una domanda? LEGALINA: Ma ti pare! Falla. REGALONE: Se uno è nel mezzo del cammin di nostra vita e si porta a casa una moglie della stessa età, se vecchio com’è impregna per combinazione la sua vecchia, hai da faticare a capire che nome andrà affibbiato al ragazzino? Che altro potrà essere se non Postumo17? Io questa fatica te la risparmierò, sorella mia, te la eliminerò. Grazie agli dèi ed ai nostri padri, di quattrini ce ne ho abbastanza. Queste parentele d’alto bordo, con la superbiaccia che si portano appresso, queste doti vistose, i comandi a voce spiegata, i cocchi d’avorio, i begli abiti di porpora, io me ne frego: tutta roba che un uomo te lo rende schiavo, con quello che ti costa! LEGALINA: Ma allora, scusa, chi ti vorresti sposare? REGALONE: Mo’ te lo dico. Lo conosci Tienichiuso, quel povero vecchio squattrinato che ci abita accanto? LEGALINA: Lo conosco e t’assicuro che non mi pare affatto un cattivo soggetto. REGALONE: E io vorrei prendermi proprio la figlia sua, quella giovinetta che lo assiste. Non sprecare parole, sorella mia. So già quello che mi vuoi dire: che è povera. Ma a me è proprio quella povera ragazza che mi va a genio. LEGALINA: E va be’, gli dèi ti assistano! REGALONE: Lo spero anch’io. LEGALINA: E c’è bisogno di me? In che cosa posso servirti? REGALONE: Niente, niente, ciao, cara, statti bene. LEGALINA: Anche tu, fratello. [Rientra.] REGALONE: Ora è il momento di vedersela con Tienichiuso, se è in casa. Ma eccolo in vista. Da dove diavolo sta rientrando?

Tienichiuso, Regalone, Consigliagiusto TIENICHIUSO: Me lo diceva il cuore, mentre uscivo di

casa, che era inutile andare; perciò non mi andava giù. Non è venuto nessuno dei membri della curia, e meno che mai il capo che doveva distribuire i quattrini. Ora a casa, con le mani e coi piedi, tanto per ora sto qui, ma il cuore sta sempre a casa. REGALONE: Ti assista sempre la fortuna, Tienichiuso! TIENICHIUSO: Gli dèi assistano te, Regalone!

REGALONE: Be’, ma stai proprio bene come vuoi? TIENICHIUSO [a parte]: Ma non è un caso che un ricco

si metta a fare i complimenti a un poveraccio. Perciò questo qui sa già che ho il tesoro; per questo mi fa tutte queste svenevolezze. REGALONE: Dunque te la passi bene, sì o no? TIENICHIUSO: Be’, quanto a quattrini proprio non direi. REGALONE: Be’, se l’animo ti sta a posto, ne hai abbastanza per una vita serena. TIENICHIUSO [a parte]: Perdio, la vecchia gli ha fatto parola del tesoro, ormai è chiaro come il sole. Ma io a casa le taglierò la lingua e le caverò gli occhi. REGALONE: Ma che hai da bofonchiare per conto tuo? TIENICHIUSO: Ma che vuoi? Mi dispero della mia povertà. Ho una figlia in età da marito, ma non ha un quattrino di dote e quindi non ha possibilità d’accasarsi. A chi la posso maritare? REGALONE: Ma sta zitto, Tienichiuso, tírati su. La dote ti arriverà, ti aiuterò io. Se ti serve qualcosa dillo, non hai che da comandare. TIENICHIUSO [a parte]: Adesso promette per prendere; sta già a bocca aperta per papparselo, il tesoro. In una mano mostra il pezzo di pane, ma nell’altra nasconde la pietra per spaccarti la testa. Nessun ricco che fa le smancerie a un povero m’ispira fiducia: quando ti stringe amorevolmente la mano, è per affibbiarti qualche fregatura. Le conosco bene queste piovre che appena sfiorano qualcosa se la tengono stretta, e addio. REGALONE: Ma prestami attenzione un momento. Insomma, Tienichiuso, voglio intrattenermi con te in breve per una faccenda che riguarda te e me insieme. TIENICHIUSO [a parte]: Ih, poveretto me! Lì dentro il tesoro m’è stato buggerato18. Ora ’sto farabutto, è evidente, vuole patteggiarne il possesso con me. Andiamo dentro a dare un’occhiata. REGALONE: Ma dove stai andando? TIENICHIUSO: Niente, tornerò da te all’istante: ora debbo andar a vedere una cosa dentro casa. [Rientra.] REGALONE: Perbacco, credo che quando gli parlerò della figlia e gliene chiederò la mano, lui penserà ch’io voglia prenderlo in giro; e in verità oggi non c’è uno che sia più di lui taccagno per micragna. TIENICHIUSO [Uscendo di nuovo, a parte]: Gli dèi mi assistono, il tesoro è salvo. Se qualcosa non ti è andata a male, tutto è a posto e sei salvo. Ho avuto una paura verde. Prima di metter piede in casa, non avevo più fiato in corpo. [A Regalone:] Torno da te, Regalone. Che hai da dirmi? REGALONE: Grazie. Non ti seccare, ti prego, di rispondermi a segno alle domande che ti farò. TIENICHIUSO: Purché non mi domandi quello su cui mi secca di risponderti a segno. REGALONE: Dimmi, come giudichi la mia famiglia? TIENICHIUSO: Eccellente. REGALONE: E la mia onestà? TIENICHIUSO: Specchiata. REGALONE: E le mie azioni? TIENICHIUSO: Superiori a ogni sospetto. REGALONE: Conosci la mia età? TIENICHIUSO: Be’, è ragguardevole, come la tua ricchezza. REGALONE: E pure io, t’assicuro, t’ho sempre considerato un paesano senza un briciolo di cattiveria, e così ti considero anche adesso. TIENICHIUSO [a parte]: Questo qui sente l’odore del tesoro. [A Regalone:] Be’, che vuoi da me? REGALONE: Poiché tu sai chi sono io e io chi sei tu, coi migliori auguri per me, per te e per tua figlia ti chiedo proprio tua figlia in moglie. Concedimela. TIENICHIUSO: Olà, Regalone, non sei bravo a farmi questa bravata. Che brogli son questi? Prendere in giro me, un poveraccio che non ha mai torto un capello né a te né alla gente di casa tua! Né a parole né a fatti ho meritato nei tuoi riguardi d’essere burlato con tanta birbanteria da te. REGALONE: Ma io non ho nessuna voglia di burlarti, né sono venuto per questo e non ti giudico affatto meritevole di un simile trattamento. TIENICHIUSO: Ma allora perché mi chiedi la mano di mia figlia? REGALONE: Perché tu te la passi meglio per merito mio e anch’io mi avvantaggi grazie a te e alla tua famiglia. TIENICHIUSO: Be’, ma io penso, Regalone, che tu sei un riccone, con un sacco di parentele altolocate, mentre io sono il più poveraccio dei poveretti; se ora accasassi mia figlia con te, mi viene in testa che a tirare il carro tu saresti il bue ed io l’asino; se consentissi a farmi aggiogare a fianco a te, non potendo reggere il peso alla pari con te, io asino mi sbracherei nel fango, e tu bue non ti volteresti neppure a guardarmi, manco fossi mai nato. Oserei farmela con uno tanto al disopra di me e perciò tutti quelli della mia condizione mi scornerebbero, e quando naturalmente ci trovassimo nella necessità di separarci, non potrei snidare né qui né lì una greppia sicura, perché gli asini mi sbranerebbero a morsi e i buoi m’infilzerebbero a cornate. Questo è il grave rischio che si corre se si vuol salire dalla categoria degli asini a quella dei buoi. REGALONE: E invece se t’imparenti da vicino ai benestanti, vedrai che bel guadagno farai! Sentimi, approva il mio progetto, concedimi tua figlia. TIENICHIUSO: Ma io non ho un soldo di dote da darle. REGALONE: E chi ti dice di dargliene? Basta che mi entri in casa con la sua buona educazione, e per me di dote ce ne ha già abbastanza. TIENICHIUSO: Ma io ti debbo avvertire, perché non vorrei ti fosse venuto in testa che ho trovato un tesoro. REGALONE: Ma lo so, risparmiati la fatica di informarmi. Su, concedimi la ragazza. TIENICHIUSO: E va be’! Ma, in nome di Dio, è proprio finita per me? REGALONE: Che ti piglia? TIENICHIUSO: Ma non l’hai sentito adesso quel rumore di ferro battuto? Cos’è? [Schizza in casa.] REGALONE: Ma è da me, ché ho dato ordine di scavare nel giardino. E mo’ dov’è andato ’sto benedetto uomo? È scomparso all’improvviso senza dirmi neanche un accidente. Fa il difficile con me, perché vede che vado cercando la sua amicizia: già, sono fatti tutti così! Se uno ricco va a chiedere amicizia a un povero, il povero ha paura di stringere relazione con lui e per la paura fa andare tutte le cose a catafascio. Poi, dopo che l’occasione è andata a farsi benedire, la rimpiange quando tutto è svanito. TIENICHIUSO [rientra, ma rivolgendo ancora la parola a Uva]: Perdio, se non ti faccio strappare la lingua dalle radici, te lo dico io stesso, anzi te lo ordino: assegnami a chi vuoi tu perché mi taglio i testicoli. REGALONE: Insomma vedo, Tienichiuso, che tu mi pigli per un tipo adatto, vecchio come sono, ad essere sfottuto. Ma io non me lo merito. TIENICHIUSO: Ma per carità, Regalone, non ci penso nemmeno, e anche se me ne venisse il capriccio, la capacità chi me la darebbe? REGALONE: Be’ insomma, me la concedi una buona volta la mano di tua figlia? TIENICHIUSO: A quelle condizioni, con quella dote che ti ho detto.

REGALONE: Dunque me la dai? TIENICHIUSO: Te la do. REGALONE: Oh, ci assistano gli dèi! TIENICHIUSO: Amen. Ma ricordati bene quel patto: che mia figlia non ti porterà neppure un soldo di dote. REGALONE: Sta’ sicuro, lo ricordo. TIENICHIUSO: Ma io so in che modo cincischiate cavilli: il patto finisce per non essere più patto, ciò che

non è patto diventa patto, secondo come vi gira in testa. REGALONE: Ma per me non ci sarà nessun motivo di controversia con te. Queste nozze insomma per quale motivo non le facciamo oggi stesso? TIENICHIUSO: Ma è una proposta eccellente! REGALONE: E allora vado a preparare tutto. Hai altro da dirmi? TIENICHIUSO: No, quello soltanto che abbiamo detto. Va’ e statti bene. REGALONE: Su, Consigliagiusto, seguimi difilato al mercato. [Esce.] TIENICHIUSO: Oh, finalmente s’è levato dai piedi! Dèi del cielo, alla grazia, che importanza ha l’oro! Lui ha fiutato che ci ho un tesoro in casa, e quindi sta a bocca aperta per papparselo, e per questo s’incaponisce a imparentarsi con me. [Drizzando la voce verso l’interno:] Dove sei tu che hai blaterato a tutti i vicini ch’io darei una dote a mia figlia? Ehi, Uva, parlo a te; mi stai a sentire? Su, affréttati a lavare a dovere lì dentro quelle povere suppellettili. Ho promesso in matrimonio mia figlia: oggi la darò in moglie a Regalone.

Tienichiuso, Uva UVA: E Dio ci benedica! Però, ti giuro, così non si può, fare subito tutto è impossibile. TIENICHIUSO: Statti zitta e tornatene dentro. Devi fare in modo che tutto sia pronto quando

tornerò a casa dal Foro; e soprattutto pensa a chiudere bene la porta; del resto sarò qui in un baleno. [Esce.] UVA: E io ora che posso fare? Ora si presenta proprio la rovina per me e per la padroncina, perché ora stanno alle porte, pubblicamente alla portata della popolazione, il parto e quindi lo sputtanamento; quello che sono finora riuscita a occultare, a nascondere, ora non lo si può più tener segreto. Be’, mo’ entro, perché, quando il padrone verrà, tutto quello che ha ordinato di fare sia pronto. Ma santo Dio, ho una paura buggerata di dovermi bere una bobba di busse battute col bastone19. [Entra in casa.]

Consigliagiusto, Ulcera, Cuocigrongo, Frigia, Eleusina CONSIGLIAGIUSTO:

Il padrone, dopo aver fatto la spesa e aver affittato in piazza i cuochi e queste flautiste, ha ordinato di fare due porzioni distinte della grascia. ULCERA: Di me però due porzioni separate, perdio, non ne farai, è meglio parlarci chiaro. CUOCIGRONGO: Ma che grazioso, che fiore di verecondia questo bordelluccio pubblico! Sono sicuro che se a qualcuno gli saltasse il ticchio, sai come ti faresti spaccare volentieri il sedere in due! CONSIGLIAGIUSTO: Ma io, Ulcera, l’avevo detto in tutt’altro senso, non in quello che hai voluto arzigogolare tu. Ma oggi è il mio padrone che va a nozze. ULCERA: E di chi è figlia la sposa? CONSIGLIAGIUSTO: Di questo vecchio Tienichiuso che abita qui accanto. Perciò il padrone mi ha ordinato di consegnargli metà della grascia, uno dei due cuochi e anche una delle due flautiste. ULCERA: Perciò metà deve andare qua dentro e metà a casa tua? CONSIGLIAGIUSTO: Proprio come hai detto. ULCERA: Ma dimmi, il vecchio non poteva pagarsela del suo la mangiatoria per le nozze di sua figlia? CONSIGLIAGIUSTO: E mi domandi anche perché? Ma la pomice stessa non è a secco come questo vecchiaccio. ULCERA: Ma dici sul serio? CUOCIGRONGO: Dunque dobbiamo credere che le cose stiano come dici tu? CONSIGLIAGIUSTO: Ma giudica tu stesso. (Se c’è una spesa da fare), crede20 che tutto gli sia crollato attorno e lui stesso si sente sradicato. Si mette a gridare, a chiamare in causa il sacro ed il profano, se dalla sua catapecchia scappa fuori un filo di fumo. Quando va a dormire si appiccica alla bocca un mantice. ULCERA: E perché? CONSIGLIAGIUSTO: Per non sprecare dormendo nemmeno un briciolo di fiato. ULCERA: E che credi? Non si ottura anche l’altra bocca, quella di sotto, per non far scappare nel sonno un briciolo di fiato neanche di lì? CONSIGLIAGIUSTO: Ma! Credo che sia proprio il caso di credere tutti noi tale e quale, a tutto. ULCERA: E figúrati se non lo credo! CONSIGLIAGIUSTO: Ma non sai che altro fa? Quando si lava, è capace di piangere sull’acqua che si versa. ULCERA: Pensi allora che gli si possa andare a chiedere, a questo vecchiaccio, un talento d’argento per acquistare la libertà? CONSIGLIAGIUSTO: Ma figúrati, non ti darebbe neanche la fame se gliela andassi a chiedere in prestito! Tempo fa, un barbiere gli aveva tagliato le unghie; e lui ebbe il coraggio di raccogliere e portarsi a casa tutti i ritagli. ULCERA. Insomma, mi stai rivelando il tipo tassativo della taccagneria! CONSIGLIAGIUSTO: Ma ti sei proprio persuaso della maniera sordida e miserabile con cui campa? Giorni fa un nibbio gli sfila una polpetta che stava mangiando; e lui è capace di precipitarsi piangendo dal pretore21. E lì, giù a frignare, a uggiolare perché gli si permettesse di fare un processo al nibbio! Se avessi tempo te ne potrei contare a migliaia. Ma chi di voi due è più svelto? Fammelo vedere. ULCERA: Lo sono io, e molto più esperto pure. CONSIGLIAGIUSTO: Ma io cerco un cuoco, non un ladro. ULCERA: E io di un cuoco ti parlo. CONSIGLIAGIUSTO: E tu che discorso mi fai? CUOCIGRONGO: Sono come mi vedi. ULCERA: Ma quello è un cuoco da mercato, solo ogni nove giorni sa mettere roba al fuoco22. CUOCIGRONGO: E tu, uomo di due sillabe23, osi insultare me? Sì, ladro. ULCERA: Ma tu piuttosto, ladro, sì, ladro da lardellare tre volte sulla forca24.

CONSIGLIAGIUSTO: Ora statti zitto, e quello dei due agnelli che è più cicciuto…25 ULCERA: D’accordo. CONSIGLIAGIUSTO: Tu, Cuocigrongo…26 pígliatelo e vattene là dentro [indica la casa di

Tienichiuso;] e voi seguitelo27. Voialtri che state di qua venite

da noi [indica la casa di Regalone.] CUOCIGRONGO: Le parti le hai fatte proprio con ingiustizia: quelli lì si pigliano l’agnello più grasso. CONSIGLIAGIUSTO: Ma tu in compenso ti piglierai la flautista più grassa. Vattene con lui Frigia. Tu, Eleusina, vieni dentro invece con noi. CUOCIGRONGO: O ciurmadore d’un Consigliagiusto, e così m’hai cacciato qua dentro da un vecchiaccio sordido, dove se ho da chiedere

qualcosa debbo sputare i polmoni prima di vedermela dare? CONSIGLIAGIUSTO: Sei uno scemo e un ingrato: fare del bene a te è come perdere il ranno e il sapone. CUOCIGRONGO: E perché? CONSIGLIAGIUSTO: E me lo domandi? Prima di tutto lì dentro non avrai nessuno che ti scocci; poi, se avrai bisogno di qualcosa, non avrai che da portartela da casa tua, e così non perderai il tuo tempo a chiederla. Qui da noi invece c’è folla, c’è servitù senza fine, un sacco di mobilio, d’oro, di vesti, d’argenteria; se qualcosa scompare (so che tu invece puoi stare con le mani in mano, dato che non ti viene niente a tiro), cominciano tutti a strillare: «Sono stati i cuochi a rubarsela, afferrateli, legateli, fustigateli, cacciateli nel sotterraneo». A te laggiù non potrà capitare niente di tutto questo, perché lì non c’è niente da sgraffignare. Su vienimi dietro per di qui. CUOCIGRONGO: Va bene, ti vengo dietro. CONSIGLIAGIUSTO: Ehi, Uva, vieni fuori, apri la porta.

Uva, Consigliagiusto, Cuocigrongo UVA: Chi è che chiama? CONSIGLIAGIUSTO: Consigliagiusto. UVA: Che vuoi? CONSIGLIAGIUSTO: Che tu faccia entrare

questi cuochi, la flautista e la roba da mangiare che serve per le nozze. Regalone ha ordinato di mandare ’sta roba a Tienichiuso. UVA: Ma che debbono celebrare nozze in onore di Cerere? CONSIGLIAGIUSTO: Come sarebbe a dire? UVA: Perché vedo che di vino non ne entra neppure un goccio28. CONSIGLIAGIUSTO: Ma entrerà non appena tornerà lui stesso dal Foro. UVA: Ma legna qui da noi non ce n’è. CUOCIGRONGO: Ma i travi ci sono? UVA: Certo che ci sono. CUOCIGRONGO: Allora la legna c’è, non c’è bisogno di andarla a cercare fuori. UVA: Ma che vuoi, sporcaccione? Sei tanto devoto a Vulcano che per preparare una cena e beccarti la tua paga pretendi che io bruci casa nostra? CUOCIGRONGO: No, non arrivo a pretendere questo. CONSIGLIAGIUSTO: Su, falli entrare. UVA: Be’ seguitemi. CONSIGLIAGIUSTO: Su, all’opera. Io vado a vedere che cosa mi accocchiano i cuochi da quest’altra parte. Oggi la preoccupazione più grossa è proprio di sorvegliare quella gente. A meno che non mi decida a fargli cuocere il pranzo nel sotterraneo: poi potremo issare le cibarie al piano di sopra coi panieri. E se poi quelli di sotto tutto quello che cuociono se lo sparecchiano, i superi rimarranno non mangiati e gl’inferi invece mangiati a dovere29. Ma guarda un po’ che sto a perder tempo a blaterare fesserie, come se non ci fosse niente da fare, mentre in casa c’è una banda di rapinatori. [Esce.]

Tienichiuso [poi Cuocigrongo] TIENICHIUSO:

Oggi volevo sollevare un po’ il mio povero cuore, fare un po’ di bisboccia dato che mia figlia si sposa. Me ne vado al mercato, domando quanto costa il pesce. Caro arrabbiato! Cara la carne d’agnello, cara la carne vaccina, quella di vitello, il tonno, il maiale, tutto caro. E tanto più mi sembrava cara la roba, perché soldi in tasca non ne avevo. Perciò me ne vado via incacchiato, per mancanza di quattrini. Così tutti quei farabutti li ho fatti fessi30. Ma poi per la strada ho cominciato a pensare fra me e me, che se cominci a scialacquare in un giorno di festa, poi ti tocca soffrire la fame nei giorni successivi, se non sei stato sparagnino. Dopo aver fatto questo bel discorsetto alla pancia e al cervello, spinsi l’animo mio a questa decisione, di celebrare le nozze di mia figlia con la più minuscola spesa possibile. Perciò ho comprato questo granello d’incenso e queste coroncine di fiori: le appenderò sul focolare in onore del nostro Lare, perché porti bene alle nozze di mia figlia31. Ma com’è che vedo aperte le porte di casa? E, cos’è quel chiasso lì dentro? O povero me! M’hanno già spogliato? CUOCIGRONGO [da dentro]: Va’ a prendere, se puoi, una pentola32 più grossa dal vicino. Questa è piccola, la roba non ci cape dentro. TIENICHIUSO: O Dio, son fottuto! Mi stanno fregando l’oro, mi stanno buscherando la pentola! Sono morto, se non mi precipito là dentro33. Apollo, ti supplico, soccorrimi, aiutami, inchioda con le tue saette i ladri del tesoro, se già in una simile occasione hai fatto sentire il tuo aiuto34. Ma che indugio a correre, che aspetto prima che mi abbiano rovinato del tutto? [Si precipita in casa.]

Ulcera ULCERA [uscendo dalla casa di Regalone]: Corricorri, squama i pesci. E tu, Spadazzo, spella meglio che puoi il grongo e la murena. Io me ne vado

a chiedere in prestito qui accanto un fornello a Cuocigrongo. Tu, se sei capace, vedi di ridurmi quel galletto più spennato di uno di quei froci di ballerini depilati. Ma che è ’sto casino che si sente qua dal vicino? E già, i cuochi stanno combinando i cazzi loro. È meglio filarsela dentro se no anche qui chissà che cacchio mi accocchiano. [Fine del secondo atto]

ATTO TERZO

Cuocigrongo CUOCIGRONGO [uscendo di corsa dalla casa di Tienichiuso]: O Dio, o Dio, cittadini, camerati, gente di

città, burini di campagna, gente di fuori, tutti, tutti, sgombrate la strada, per farmi scappare in fretta, svuotate, disertate le piazze! Mai prima d’oggi m’era capitato d’andare a cuocere in un baccanale, tra le Baccanti35, come ora che io e i miei garzoni, poveri disgraziati, ne abbiamo asciugato bastonate! Mi sento tutto un dolore, proprio non mi reggo in piedi, per come quel vecchiaccio mi ha preso per la sua palestra36; non ho mai visto offrire in nessun posto una così bella quantità di legna, tante sono state le legnate con cui quello lì ci ha sbattuti fuori, me e questi poveracci37. Accidenti, me disgraziato, son proprio fottuto! Si riaprono i baccanali, è qui, mi corre dietro. Ma io mo’ so quel che debbo fare: lui stesso me l’ha insegnato, è stato un ottimo maestro. [Tocca il suo coltello da cuoco.]

Tienichiuso, Cuocigrongo TIENICHIUSO: Torna indietro. E mo’ dove stai scappando? Tenetelo, tenetelo! CUOCIGRONGO: Cretino, che stai a strillare? TIENICHIUSO: Ma io ti vado a denunciare immediatamente dai triumviri 38. CUOCIGRONGO: E per quale ragione? TIENICHIUSO: Perché tieni in mano un coltello. CUOCIGRONGO: Un cuoco può farlo. TIENICHIUSO: Ma tu mi hai minacciato. CUOCIGRONGO: Ma anzi sono stato un fesso che non ti ho ancora bucato la pancia. TIENICHIUSO: Oggi fra i viventi non c’è ne è uno più fetente di te; muoio dalla voglia di spolverarti il groppone proprio di gusto! CUOCIGRONGO: Ma anche se stai zitto, lo si scopre a prima vista: i fatti parlano da sé: a furia di bastonate sono ridotto più frollo di

un frocio. Ma che ragione c’è di scotennarci, pezzente? TIENICHIUSO: Che ragione? E me lo chiedi pure? Ma credi sul serio che ho fatto meno di quel che dovevo? CUOCIGRONGO: Ma lascia stare, se no, perdio, se sono ancora capace di intendere e di volere, te la faccio pagare come si deve. TIENICHIUSO: Quello che succederà non mi curo di saperlo: per ora è la testa tua ad intendere… le legnate! Ma che avevi da fare in casa mia, in mia assenza, senza che te l’avessi ordinato io d’entrare? Questo voglio sapere. CUOCIGRONGO: Ma sta’ zitto una buona volta. Siamo venuti a cuocere il pranzo per le nozze. TIENICHIUSO: Ma a te che te ne frega, puzzone, se mangio crudo o cotto? Che per caso sei il mio tutore? CUOCIGRONGO: Voglio sapere se tu permetti o non permetti che noi si cuocia qui il pranzo. TIENICHIUSO: E io voglio sapere se a casa mia la roba mia può rimanere al sicuro. CUOCIGRONGO: Ma potessi almeno riportarmi indietro intatte le cose mie che ho portate qua! A questo tengo, del tuo non me ne frega niente. TIENICHIUSO: Lo so, non hai niente da insegnarmi, vi conosco bene io. CUOCIGRONGO: Ma insomma che ragione c’è di impedirci di cuocere il pranzo? Che abbiamo fatto, che abbiamo detto che ti desse ai nervi? TIENICHIUSO: E me lo chiedi pure, farabutto, quando tu e i tuoi vi cacciate negli angoli più riposti di casa mia? Se te ne fossi rimasto dinanzi al fuoco, dov’era obbligo tuo di stare, non ti riporteresti indietro la testa rotta: quello che t’è piovuto te lo sei meritato. E ora sta’ bene a sentire le mie intenzioni: se mo’ t’avvicini d’un passo alla porta, senza ch’io t’abbia invitato, farò di te il più sciagurato uomo del mondo. Oramai le mie intenzioni le conosci. CUOCIGRONGO: Ma dove stai andando? Torna, torna indietro. Perdio, com’è vero che mi assiste Laverna 39 se non mi fai rendere le mie stoviglie, farò tale un casino dinanzi alla tua porta da ridurti la favola del paese. [Tienichiuso rientra.] E mo’ che faccio? Cacchio! Ma son venuto proprio con la iella qua dentro! Son venuto per guadagnarmi un quattrinello: e mo’ dovrò spendere di più per un medico! TIENICHIUSO [Riesce. A parte, tenendo sotto il mantello la pentola incriminata ]: D’ora in poi, perbacco, questa, dovunque andrò, starà sempre con me, me la porterò sempre appresso; con tutti i pericoli di scippo che ci sono, non la lascerò più esposta alle tentazioni. [A Cuocigrongo :] Ora tornate pure dentro tutti, cuochi e flautiste. Se vuoi, fa’ entrare pure una banda di cucinieri prezzolati. Cucinate, datevi da fare, arrangiatevi come vi pare. CUOCIGRONGO: Oh, era ora, dopo che col bastone m’hai riempito la testa di buchi! TIENICHIUSO: Su, entrate, qui siete stati affittati per lavorare, non per chiacchierare. CUOCIGRONGO: No, vecchio mio, io ti chiederò un indennizzo per le botte che m’hai date: m’hanno affittato per cuocere, non per prenderle. TIENICHIUSO: Va bene, ricorri pure alla giustizia, ma non mi scocciare. Entra e cuoci pure il pranzo, o se no va’ a farti fottere lontano di qui. CUOCIGRONGO: Vacci tu piuttosto! [Entra.]

Tienichiuso TIENICHIUSO: Oh, se n’è andato finalmente!

Dèi del cielo, che faccenda ingarbugliata per un povero intrecciare un affare, trattare un interesse con un ricco! Ecco qui Regalone che me le sta combinando proprio tutte, che finge di mandarmi in casa cuochi in omaggio a me, ma li ha mandati solo per fregarmi questa [indica la pentola], povero me! Alla stessa maniera persino il mio gallo (no, veramente era proprietà della vecchia) lì dentro è stato a un filo dal fottermi. Dove questa era imbucata, cominciò a raspare con le unghie tutt’intorno. C’è da dirlo? Mi saltò subito uno sturbo in testa, afferro un tortore e spiaccico il gallo, quel ladro colto sul fatto. Sicuramente a quel gallo dovevano aver promesso una ricompensa i cuochi perché la facesse fuori, la pentola. Ma io gli ho fatto scivolare il manubrio dalle mani. Insomma, a farla breve, c’è stata battaglia per un gallo. Ma ecco che viene dal Foro il mio nuovo parente Regalone. Be’, questo qui non ho il coraggio di passargli davanti senza guardarlo, senza fermarmi

e attaccare discorso con lui.

Regalone, Tienichiuso REGALONE:

Ho comunicato a molti amici il mio progetto di mutar condizione. Tutti mi parlano bene della figlia di Tienichiuso, dicono che l’ho pensata proprio bella, che mi sono comportato da uomo che la sa lunga. E in realtà, per come la penso, se tutti gli altri più ricchi si scegliessero in moglie le figlie dei poveri e se le portassero a casa senza dote, la città vivrebbe in uno stato di molto più stabile concordia e noi non saremmo più circondati dall’invidia che ci affligge ora, le mogli avrebbero più paura di castighi di quanto non ne abbiano ora, e noi dovremmo ammazzarci di spese molto meno di adesso. Questo è il meglio per la maggior parte della gente; ci sarebbe da litigare solo con i pochi più attaccati ai quattrini, che hanno un temperamento così ingordo e insaziabile, che né le leggi né i calzolai gli possono trovare la misura. E se uno mi dicesse: «E allora con chi si sposeranno le donne ricche con dote, se si stabilisce questo diritto per le poverelle?», io gli risponderei: «Vadano a sposare dove gli pare, purché non si portino appresso la dote come riconoscimento». Se si facesse così, quelle ragazze penserebbero a formarsi costumi molto più sani di quelli che portano adesso, e sarebbero quelli la dote loro. I muli, che oggi costano più dei cavalli, li farei scendere così più a buon mercato dei cavalli da soma della Gallia. TIENICHIUSO [a parte]: Gli dèi mi sian testimoni della gioia che provo ad ascoltarlo. Come ha parlato a dovere delle virtù del risparmio! REGALONE: Non ci sarebbe più nessuna a sproloquiare: «Io t’ho portato una dote molto più grossa del tuo patrimonio; perciò è giusto che mi si regalino vestiti di porpora, gioielli d’oro, ancelle, muli, cocchieri, servi accompagnatori, schiavetti al seguito e carrozze per andare a spasso». TIENICHIUSO [a parte]: Come conosce alla perfezione le gesta delle dame di società! Lo vorrei creare sorvegliante dei costumi femminili 40! REGALONE: Ora, dovunque tu vada, vedi più carriaggi nelle case di città che in campagna, quando arrivi a un casolare. Ma questo è ancora niente in confronto alle spese che ti portano da pagare. Ti vedi schierati il tintore, il ricamatore, l’orefice, il lanaiolo. E poi tutta la schiera dei mercanti, i gallonari, i vestagliari, i colorari in rosso, in viola, in giallo scuro, i manicari, gli odorari, i mutandari, i calzolari, gli scarpari eterni sedentari, e i sandalari ti stanno addosso, e ti stanno addosso gl’impiastricciari41. Ti rompono l’anima i tintori, i rammendatori 42. E ti stanno addosso i pettorari, ti stanno addosso pure i bustari. E quando credi di averli liquidati tutti, ecco che ti si precipitano a reclamare il conto, a trecento per volta, come mendicanti che montano la guardia nell’atrio, i borsettari, gli stipettari. Li ricevi, gli saldi il conto, credi di aver soddisfatto tutti, ed ecco che ti si presentano gli zafferanari, qualche altro merdoso arnese che ti rompe i coglioni per i quattrini. TIENICHIUSO: Io mo’ lo chiamerei, se non avessi paura che smetta di fustigare le fetenzie delle femmine; perciò lasciamolo lingueggiare. REGALONE: Quando s’è saldato il conto a tutti gli spacciatori di cianfrusaglie, ecco all’ultimo che ti si presenta un militare a chiederti il soldo43. E allora devi metterti per istrada, devi andare dal banchiere a esaminare il bilancio; e il soldato ti sta alle costole, senza neanche andar a mangiare, sperando che gli si versino i quattrini. Ma quando il bilancio l’hai discusso ben bene col banchiere, ne vien fuori che è proprio il padron di casa a essere in debito col banchiere: e allora il soldato deve rassegnarsi ad attendere il pagamento a babbo morto. Questi e molti altri sono i divertimenti che ti producono le grosse doti, sono le spese spaventose che ne derivano. La ragazza senza dote, quella invece è completamente in potere del marito; quelle con la dote ammazzano i mariti con le ambizioni e gli aggravi finanziari che gli procurano. Ma ecco il nuovo parente sulla porta. Che fai, Tienichiuso? TIENICHIUSO: Non ti so dire con che piacere ho ascoltato il tuo sermoncino. REGALONE: Ma che, m’hai inteso? TIENICHIUSO: Tutto fin dalla prima parola. REGALONE: Senti però, a dirti il mio parere, non sarebbe mica male se per le nozze di tua figlia ti ripulissi un po’! TIENICHIUSO: Quelli che ce ne hanno, quelli possono sfoggiare magnificenze in proporzione dei mezzi e onori in proporzione delle ricchezze, così sanno mostrare da che origine si ricordano di discendere. Ma per me, Regalone, e per ogni poveraccio come me in casa non c’è proprio di più di quello che tutti vedono e sanno! REGALONE: Ma no, ce n’è abbastanza, e gli dèi ti assistano e ti aiutino a farti avere molto di più di quello che hai già. TIENICHIUSO [a parte]: «Di quello che hai già»! No, queste parole non mi vanno proprio giù. Allora lui sa quanto me quello che ho. Ho capito, la vecchia ha svesciato. REGALONE: Ma perché ti separi in solitudine dal Senato? TIENICHIUSO: Eh, cavolo, mugugnavo fra me e me meritamente i rimproveri da farti. REGALONE: Perché? TIENICHIUSO: E mi chiedi perché? Ma se mi hai riempito, povero me, ogni angolo della casa di una banda di ladri, mi hai spedito in casa cinquecento cuochi con sei mani ciascuno, della razza di Gerione44, che se pure Argo, quello che era tutt’occhi, quello che una volta Giunone mise a guardia di Io45, volesse custodirli, farebbe un buco nell’acqua; e per giunta una flautista che se la fonte Pirene di Corinto versasse vino, sarebbe capace di prosciugarla tutta da sola; e poi tutte quelle provviste… REGALONE: Ih, ma di quello ce n’era abbastanza per una legione! Ti ho mandato anche un agnello. TIENICHIUSO: Ma di quell’agnello io so che non c’è su tutta la terra una bestia di curia come quella. REGALONE: Be’, si potrebbe sapere che cavolo significa un agnello di curia? TIENICHIUSO: Che è tutto pelle e ossa, tante sono le cure che lo macerano46. Mentre è ancora vivo, se lo guardi alla luce del sole, gli puoi contare le budella: è trasparente come una lanterna di Cartagine! REGALONE: Ma io l’ho comprato per farlo macellare. TIENICHIUSO: Ma la miglior cosa da fare sarebbe invece di pagare qualcuno per farlo seppellire; perché a quest’ora credo sia già morto. REGALONE: Be’, oggi mi voglio sbronzare con te, Tienichiuso. TIENICHIUSO: Ma per me ’ste cose sono proibite. REGALONE: E io invece farò portare da casa un bel bottaccino di vino vecchio. TIENICHIUSO: Se è per me non ci sto, perché ho deciso di bere solo acqua. REGALONE: E io invece oggi, com’è vero che non sono ancora crepato, ti farò asciugare una bella sbronza, alla faccia del tuo proposito di bere acqua. TIENICHIUSO [a parte]: Lo so a che cosa mira: ha preso questa strada per farmi rincitrullire col vino, e far cambiare residenza alla mia proprietà. Ma io farò buona guardia, ’sta pentola la seppellirò in qualche posto fuori di qui. Farò in modo che gli vadano a rovescio il vino e tutti i suoi maneggi. REGALONE: Be’, se non hai più niente da dirmi, io mi vado a lavare per prepararmi al sacrificio. [Esce.] TIENICHIUSO: Cazzica, pentola mia, ne avete nemici tu e l’oro che t’è stato depositato in corpo! Ora per me il meglio da fare è di portarti via, pentola diletta, nel tempio della Fede47: quello è un nascondiglio eccellente. O Fede, ci conosciamo bene a vicenda. Guardati dal rinnegare il tuo nome, proprio ora che ti affido questo tesoro. Vengo da te, o Fede, fidando nella tua fedeltà.

[Fine del terzo atto]

ATTO QUARTO

Trottola TROTTOLA: Questo è il compito di

un servo compíto, fare quello che faccio io, sì che gli ordini del padrone non soffrano indugio né impaccio. Perché il servo che aspira a servire il padrone secondo i buoni sentimenti deve far le cose di corsa per il padrone e andarci adagio per sé. Se ha voglia di dormire, dormicchi pure, ma lasciando aperto uno spiraglio al pensiero che il servo è lui. Chi poi presta servizio a un padrone innamorato, secondo tocca proprio a me di servire, se sa che l’amore gli sturba il padrone, be’ questo deve considerare come compito sicuro del servo, di assicurare la salvezza del suo signore, non di sospingerlo per il pendio che lo porta al precipizio. Come ai ragazzini che imparano a nuotare gli si appioppa un salvagente di giunchi, perché s’affatichino di meno e possano nuotare più facilmente muovendo le mani, così penso che il servo dev’essere il buon salvagente del padrone innamorato, deve sostenerlo perché non affondi come…48 Bisogna saper interpretare i voleri del padrone, sì che ciò che gli si atteggia sul viso gli occhi del servo lo sappiano leggere. I suoi ordini li deve eseguire a spron battuto col carro spinto al galoppo. Chi adotterà questo conteggio si risparmierà lo scotto del nervo di bue e non luciderà a sue spese le catene. Ora il mio padroncino è cotto della figlia di questo morto di fame di Tienichiuso; ora gli è stato rifilato ch’essa va sposa qui accanto a Regalone. Perciò m’ha mandato a osservare tutto attentamente, sì da farlo entrare a parte di quello che succede da ogni parte. Ora senza suscitare nessun sospetto mi metterò a sedere sul sacro altare; di qui potrò intuire, guardando a destra e a sinistra, tutto quello che si sta trafficando.

Tienichiuso, Trottola [uscendo dal tempio della Fede, senza scorgere Trottola ]: Be’, sorella Fede, non lo svelare a nessuno che il mio oro ce l’hai tu: perché è nascosto così sapientemente, che non ho paura che qualcuno possa trovarlo. Però che bel bottino si sbolognerebbe chi riuscisse a trovare una pentola piena d’oro! Ma proprio questo ti supplico d’impedire. Ora voglio andare a fare un bagno per apprestarmi al sacrificio e non far aspettare il mio parente. Anzi appena lui chiama dev’essere in grado di portarsi subito mia figlia a casa sua. Su, Fede, ancora una volta ti supplico, fa’ che mi possa portare via da te intatta la mia pentola: il tesoro l’ho affidato alla tua … fede, è situato nel tuo sacro bosco, nel tuo tempio. [Rientra.] TROTTOLA: Santi numi, che razza d’avvenimento m’è toccato d’apprendere da quest’uomo! Ha nascosto una pentola piena d’oro qui dentro, nel tempio della Fede. O Fede, ti scongiuro, bada di non essere più fedele a lui che a me! Questo qui mi pare che sia il padre della ragazza di cui è incapricciato il mio padroncino. Ora entrerò e mi metterò a inventariare tutto il tempio, per pescare l’oro, mentre il vecchio ha da fare. Ma se lo troverò, Fede mia, ti offrirò una fedelina49 ripiena di tre litri e più di vino melato. Sì, te la offrirò, ma poi, dopo che te l’avrò offerta, me la scolerò io. [Entra nel tempio.] TIENICHIUSO

Tienichiuso TIENICHIUSO [riuscendo di casa]: Dev’esserci

qualcosa sotto se un corvo mi gracida a mano manca: proprio adesso grattava la terra con le zampe gracchiando con quella sua vociaccia. Subito il cuore mi ha cominciato a esercitare la professione del ballerino e a balzarmi in petto. Che aspetto a correre, ad andare a vedere? [Entra nel tempio.]

Tienichiuso, Trottola TIENICHIUSO [riesce dal

tempio, trascinando Trottola ]: Fuori di qui, lombrico, che mo’ sei sbucato dalla terra, che prima non eri visibile da nessuna parte, ma ora che ti sei fatto vivo, sei morto! Vedrai come ti ridurrò, perdio, sor maneggione! TROTTOLA: Che frenesia ti agita? Che hai da fare con me, vecchio cucco? Perché mi scocci? perché mi trascini? per quale ragione me le dai? TIENICHIUSO: O meta della frusta, e me lo domandi? Non ladro, ma arciladro! TROTTOLA: E che t’ho rubato? TIENICHIUSO: Avanti, ridammelo. TROTTOLA: E che ti debbo ridare? TIENICHIUSO: E me lo domandi? TROTTOLA: Ma io non t’ho preso niente. TIENICHIUSO: Ma quello che avevi preso per te, mollalo. Vuoi deciderti? TROTTOLA: A che debbo decidermi? TIENICHIUSO: Tanto non riuscirai a piluccartelo. TROTTOLA: Ma insomma che vuoi? TIENICHIUSO: Molla, ti dico. TROTTOLA: Ma forse sei abituato tu, vecchio porco, a mollarlo il sedere50! TIENICHIUSO: Molla, ti dico, e non dire spiritosaggini, perché ora faccio sul serio. TROTTOLA: Ma che debbo mollare? Ma le cose fa’ il favore di chiamarle per nome. Io non ho preso, anzi non ho toccato niente. TIENICHIUSO: Mostrami le mani. TROTTOLA: Eccole, te le ho mostrate. TIENICHIUSO: Le vedo. E ora mostrami pure la terza. TROTTOLA: Ma questo vecchio lo stanno sturbando gli spettri, e chi sa quali umori mefitici e quali pazzie! Insomma te la vuoi prendere proprio con me? TIENICHIUSO: E più che mai, perché non ti vedo ancora sulla forca. Ma mo’ ti succede subito, se non confessi. TROTTOLA: E che debbo confessarti? TIENICHIUSO: Che hai rubato qui?

TROTTOLA: Ma che gli dèi m’annientino, se ti ho rubato un briciolo! TIENICHIUSO: Su, ora sbatacchia il mantello. TROTTOLA: A piacer tuo. TIENICHIUSO: Vediamo se non ce l’hai sotto la tunica. TROTTOLA: Tastami dove ti pare. TIENICHIUSO: Guarda come fa il compiacente, ’sto mascalzone,

[A parte:] … o se non vorrei avertelo già rubato.

per farmi bere che non m’ha rubato nulla! Ma io li conosco questi raggiri. Su, daccapo: mostrami la mano destra. TROTTOLA: Eccola. TIENICHIUSO: E adesso la sinistra. TROTTOLA: Eccole tutte e due. TIENICHIUSO: Be’, ora la smetto di frugarti. Sbrighiamoci, sputa! TROTTOLA: Ma che debbo sputare? TIENICHIUSO: Ah, mo’ ricominci a fare il fesso; ma ce la devi avere sicuramente tu. TROTTOLA: Io ce l’ho? Ma che cacchio ci ho? TIENICHIUSO: Non te lo dico, perché lo vorresti sapere da me. Ma la roba mia, qualunque cosa sia, ridammela. TROTTOLA: Ma tu sei pazzo: m’hai fatto il solletico dappertutto come t’è parso e piaciuto, e non m’hai trovato niente addosso. TIENICHIUSO: Ferma, ferma. Chi è quello lì? Chi c’era con te lì dentro? [A parte :] Sono decisamente fottuto: quell’altro ora lì dentro sta facendo gli affari suoi, ma se ora lascio perdere questo qui, lui se la svigna. Ma in fondo l’ho già frugato sotto e sopra, e non ci aveva nulla. [A Trottola :] Vattene dove ti pare. TROTTOLA: Giove e gli dèi tutti ti subissino! TIENICHIUSO: Oh, che bel ringraziamento! Ma io ora rientro là e quel tuo bel camerata lo strangolo. Ti vuoi levare dai coglioni? Insomma, te ne vai sì o no? TROTTOLA: Me ne vado, me ne vado. TIENICHIUSO: E non farti più rivedere da queste parti. [Rientra nel tempio.] TROTTOLA: Vorrei crepare di mala morte se oggi a quel vecchiaccio, non lo frego. Ché ormai non oserà più nascondere il tesoro qui dentro: penso che se lo porterà via con sé e cambierà posto. Attenzione, la porta scricchiola. Ecco il vecchio che porta fuori il tesoro. Per ora mi accosterò ad origliare dietro questa porta. [Si nasconde dietro la porta della casa di Regalone.]

Tienichiuso, Trottola TIENICHIUSO [senza scorgere Trottola ]: Credevo

che nella Fede si potesse aver fede a occhi chiusi; e invece per poco non me l’ha messo in culo: se non m’avesse soccorso il corvo, ero bell’e fottuto. Ora perbacco desidererei proprio che venisse da me quel corvo che è stato tanto bravo da suonarmi la sveglia, per dirgli una parolina di gratitudine; perché in quanto a dargli da mangiare quello che darei a lui lo perderei io. Ora debbo azzannarmi il cervello a scegliere un posto isolato dove imbucare questa roba. Be’, c’è il bosco di Silvano51 fuori le mura, che è proprio fuori mano, tutto coperto da una cortina di salici. Il posto per il nascondiglio lo troverò lì. Ho deciso, è meglio affidarsi a Silvano che alla Fede. [Esce.] TROTTOLA: Ohilì, ohilà, gli dèi mi vogliono proprio sano e salvo. Ora io lo anticipo, il vecchiaccio, e lì m’arrampico sopra un albero e di lassù spio dove nasconde il tesoro. Veramente il padroncino m’aveva ordinato di aspettarlo qui; ma ormai ho deciso: meglio buscarsi un castigo, ma con un bel guadagno per compenso.

Lupacchiotto, Legalina, Luminosa LUPACCHIOTTO: T’ho

detto tutto, mamma – ormai ne sai quanto me, della figlia di Tienichiuso. Ora ti prego e ti straprego, mamma, per quello di cui t’avevo pregata già: parlane allo zio, mamma mia. LEGALINA: Ma tu non puoi dubitare che io voglio quello che vuoi tu, e spero proprio di riuscire a ottenerlo da mio fratello; del resto c’è una buona ragione di chiederlo, se le cose sono andate come le racconti tu, cioè che hai violentato la ragazza sotto l’effetto del vino. LUPACCHIOTTO: E come potrei dirti una bugia, mamma? LUMINOSA [di dentro]: Nutrice mia, sto morendo! Aiutami, ti scongiuro, l’utero è tutto un dolore! Giunone Lucina52, a te mi raccomando! LUPACCHIOTTO: Ecco, mamma, un fatto più eloquente delle parole: strilla perché sta partorendo. LEGALINA: Rientriamo, figlio mio, presentiamoci a mio fratello; così gli strapperò quello che m’hai pregato di chiedergli. LUPACCHIOTTO: Sì, va’, mamma, fra poco sarò da te. [Legalina rientra.] Ma dove s’è cacciato il mio servo? Gli avevo comandato di aspettarmi qui. Ma ora, a pensarci bene, se mi sta aiutando, non è giusto che me la pigli con lui. Ora entro dove c’è questione di vita o di morte per me53.

Trottola TROTTOLA: Ora da solo sono più ricco delle sfingi 54, che custodiscono i

monti d’oro. E non mi degno di nominare tutti gli altri ricconi, i signori re, che mi sembrano re della pezzenteria. Sono io il re Filippo55. O giorno provvidenziale! Quando sono sgattaiolato di qui, sono arrivato là molto prima di lui e molto prima che arrivasse mi sono arrampicato sopra un albero e di lassù spiavo dove il vecchio nascondesse il tesoro. Appena se n’è andato, io scivolo dall’albero e disseppellisco la pentola piena d’oro. Poi vedo il vecchio che tornava indietro di lì; ma lui non m’ha visto, perché avevo scantonato un pochino fuor di strada. Ma cribbio, eccolo qui di nuovo. Io me la svigno a nascondere la provvidenza in casa. [Entra in casa di Regalone.]

Tienichiuso TIENICHIUSO: Sono morto, sono sepolto, sono distrutto56. Dove correre? dove non correre? Acchiappalo, acchiappalo!

Ma chi? E chi c’è a pigliarlo? Non lo so, non vedo più niente, cammino come un cieco, non riesco più a capire dove vado, dove sono, chi sono. [Rivolgendosi agli spettatori:] Vi scongiuro, aiutatemi, ve ne prego e riprego a mani giunte, indicatemi il colpevole, indicatemi chi l’ha rubata. Che c’è? Perché ridete? Vi conosco tutti, so che qui di ladri ce n’è tanti, che si nascondono sotto la toga imbiancata con la creta57 e stanno a sedere come se fossero

persone per bene. E tu che ne dici? A te è il caso di credere, perché dalla faccia mi sembri un galantuomo. Ehi, dunque, non ce l’ha nessuno dei presenti58? M’hai ammazzato! Ma dimmi allora, chi ce l’ha? Non lo sai? Oh, disgraziato me, sono proprio distrutto, liquidato, rovinato, condannato ad andare in giro come un mostro! Che pianto, che sciagura, che dolore m’ha portato questo giorno maledetto, l’abisso della fame e della povertà! Sono l’uomo più tartassato che ci sia sulla terra. Che me ne faccio più della vita, dopo aver perduto un tesoro di quella sorta, cui facevo la guardia con tanto zelo? Mi sono rovinato la vita, ho mandato a male tutte le mie possibilità, tutti i miei desideri; e ora sono altri a godere del mio male e della mia rovina. Io non ce la faccio a sopportarlo.

Lupacchiotto, Tienichiuso LUPACCHIOTTO [Uscendo

di casa alle grida di Tienichiuso]: Ma chi è l’uomo che uggiola e si lamenta strappandosi i capelli davanti casa nostra? Ma, se non erro, quello è proprio Tienichiuso! Ora sono decisamente fottuto: tutto ora è venuto alla luce. Sta’ a vedere che sa già che la figlia ha partorito. Ora non so proprio se è meglio andarmene o rimanere, affrontarlo o scappare. Proprio non so che cavolo fare. TIENICHIUSO: Ma chi è che sta parlando qui? LUPACCHIOTTO: Quel disgraziato del sottoscritto. TIENICHIUSO: Ma il disgraziato sono io, ma disgraziato sul serio, schiacciato da guai e disperazione infinita! LUPACCHIOTTO: Ma no, tienti su. TIENICHIUSO: Ma scusami, chi me ne dà la forza? LUPACCHIOTTO: Io, perché sono stato io, lo confesso, a commettere la mala azione che ora ti affanna. TIENICHIUSO: Ma che devo sentire da te? LUPACCHIOTTO: La verità. TIENICHIUSO: Ma che male mi meritavo da te, giovanotto, perché tu mi facessi un’azione simile e mandassi in rovina me e i figli miei? LUPACCHIOTTO: Il mio istigatore è stato un dio, che mi ha spinto verso di lei 59. TIENICHIUSO: E come? LUPACCHIOTTO: Riconosco d’aver fallato, so d’aver commesso una colpa; perciò vengo a pregarti d’esser tanto longanime da perdonarmi. TIENICHIUSO: Ma come hai osato ardir di toccare quello che non era tuo? LUPACCHIOTTO: Che vuoi farci? Quello che è successo è successo e ormai non può non essere successo. Penso che l’hanno voluto gli dèi, perché se non l’avessero voluto, non sarebbe successo, ne sono sicuro. TIENICHIUSO: Ma ora credo che gli dèi vogliano vederti schiattare a casa mia con una bella catena al piede. LUPACCHIOTTO: Oh, non dirlo! TIENICHIUSO: Ma come hai osato toccare una mia proprietà a mio dispetto? LUPACCHIOTTO: Sono stati il vino e l’amore che me l’hanno fatto fare. TIENICHIUSO: O svergognato, e con questo bel discorso hai il coraggio di venirmi in faccia, spudorato! Ma se la scusa che tiri fuori tu è valida, allora mettiamoci a spogliare le signore dei loro gioielli alla luce del sole, e poi, quando siamo ingabbiati, scusiamoci col dire che eravamo sbronzi, che l’abbiamo fatto per amore! Ma allora il vino e l’amore sono una schifezza, se allo sbronzo e all’innamorato è lecito fare impunemente tutto quello che gli schizza nella testa! LUPACCHIOTTO: Ma non lo vedi che vengo a supplicarti, a riconoscere che sono stato uno scriteriato? TIENICHIUSO: Non mi piace chi viene a scusarsi dopo aver fatto il guaio. Tu lo sapevi che quella non era tua, perciò non dovevi osar di toccarla. LUPACCHIOTTO: Allora, poiché ho osato toccarla, non cerco pretesti per non tenermela in specifico possesso60. TIENICHIUSO: E tu pretenderesti tenertela contro la mia volontà? LUPACCHIOTTO: Ma io non te la chiedo contro la tua volontà, ma giudico che è bene ch’io me la tenga. Anche tu, Tienichiuso, finirai per riconoscere, scusa, che è bene che la tenga io. TIENICHIUSO: Ma io, perdio, ti porto dal pretore e ci faccio una bella denuncia scritta, se non me la ridai. LUPACCHIOTTO: E che ti debbo ridare? TIENICHIUSO: La roba mia che m’hai rubata. LUPACCHIOTTO: Io rubato? E dove? E che cosa? TIENICHIUSO: Poverino, che Giove ti assista, mo’ non lo sai! LUPACCHIOTTO: Se non mi dici che cavolo vuoi da me! TIENICHIUSO: Insomma, la pentola piena d’oro, quella voglio da te, quella che tu stesso m’hai confessato d’avermi rubato. LUPACCHIOTTO: Ma che dici? Ma io questo non l’ho né detto né fatto. TIENICHIUSO: E lo neghi? LUPACCHIOTTO: Perdio, lo stranego. Che vuoi che ne sappia dell’oro, della pentola, come diavolo è fatta? TIENICHIUSO: Ma insomma quella che m’hai rubata nel bosco di Silvano. Su, vammela a prendere. Avanti, faremo a metà. Anche se sei un ladro, non ti creerò rogna. Ma fammi il favore di andarmela a prendere. LUPACCHIOTTO: Ma se mi credi un ladro sei impazzito. Io, Tienichiuso, credevo che tu avessi saputo un’altra faccenda che mi riguarda; è una faccenda molto seria, di cui voglio parlarti, se ci hai testa a discuterne. TIENICHIUSO: Allora giurami: non sei stato tu a rubarmi il tesoro? LUPACCHIOTTO: Lo giuro. TIENICHIUSO: E non sai chi l’ha rubato? LUPACCHIOTTO: No, anche questo te lo giuro. TIENICHIUSO: E se arrivassi a sapere chi è stato il ladro, me lo denuncerai? LUPACCHIOTTO: Sì. TIENICHIUSO: Non te ne farai dare una parte, non ospiterai il ladro da te61? LUPACCHIOTTO: Ma no. TIENICHIUSO: E se non stai ai patti? LUPACCHIOTTO: Allora il sommo Giove mi punisca come vuole. TIENICHIUSO: Mo’ va bene. Ora spiffera pure quel che ti pare. LUPACCHIOTTO: Se non sai bene in che famiglia son nato, ecco qui: Regalone che abita qui è mio zio materno, mio padre era Battagliadicontro, io mi chiamo Lupacchiotto, mia madre è Legalina. TIENICHIUSO: Ma la famiglia la conosco. Ma tu che vuoi? Questo voglio sapere.

LUPACCHIOTTO: Tu ci hai una figlia. TIENICHIUSO: Certo, e sta qui in casa. LUPACCHIOTTO: Mi si dice che l’hai promessa a mio zio. TIENICHIUSO: È precisamente così. LUPACCHIOTTO: Ora lui m’ha incaricato di dirti che non ne vuol più sapere. TIENICHIUSO: Come! Non ne vuol più sapere ora che le nozze sono preparate? Che gli dèi tutti e le dèe, quanti

ce n’è, lo subissino! Oggi proprio per colpa sua, povero me, ho perso tutto quel bel tesoro! LUPACCHIOTTO: Ma no, consólati, non fare la iettatura. Ora, con l’augurio che ne venga la più bella fortuna a te e a tua figlia, di’: «gli dèi ci facciano la grazia». TIENICHIUSO: Gli dèi ci facciano la grazia. LUPACCHIOTTO: E la facciano anche a me la grazia gli dèi. Ora sta’ a sentire. L’uomo che ha commesso un fallo, per quanto poco possa valere (ma non ce n’è fino a quel punto), se se ne pente, ha la possibilità di scolparsi. Ora io ti scongiuro, Tienichiuso, di perdonarmi, se sconsideratamente ho procurato un guaio a te e a tua figlia, e di darmela in moglie, come ordina la legge. Io confesso d’aver violato tua figlia durante la veglia di Cerere, sotto lo stimolo del vino e per l’ardore della giovinezza. TIENICHIUSO: O sciagurato me, che fattaccio mi tocca udire dalla tua bocca? LUPACCHIOTTO: Perché guaisci, se io ti ho fatto nonno il giorno stesso delle nozze di tua figlia? Perché tua figlia ha già partorito, proprio a nove mesi compiuti; non hai che da fare il conto. Per questo, e per un riguardo a me, mio zio ha rinunciato a prendersela. Entra e domanda e vedi se le cose stanno sì o no come te le ho dette. TIENICHIUSO: Insomma sono proprio rovinato. A un guaio se ne accavallano altri senza fine. Ora entro a informarmi che c’è di vero. LUPACCHIOTTO: E fra poco ti starò accanto. [Tienichiuso entra in casa di Regalone.] Mi pare che, poco più poco meno, siano arrivati al guado della salvezza. Ma non so immaginare dove diavolo si possa trovare Trottola, il mio servo. Voglio aspettarlo ancora un minuto; poi mi deciderò a entrare, a raggiungere Tienichiuso. Per il momento gli darò il tempo di chiarire bene la mia avventura dalla bocca della nutrice di sua figlia, la vecchia che le sta sempre appresso: lei lo sa bene il fatto. [Fine del quarto atto]

ATTO QUINTO

Trottola, Lupacchiotto TROTTOLA [uscendo

dalla casa di Regalone senza vedere Lupacchiotto]: Santi dèi, quali e quante gioie mi concedete! Posseggo una pentola piena di più d’un chilo d’oro. Ce n’è uno più ricco di me? Esiste adesso ad Atene un uomo meglio assistito dal favore degli dèi? LUPACCHIOTTO: Sicuramente ho avuto l’impressione di sentir parlare qualcuno qui accanto. TROTTOLA: Oh, ma è o non è il mio padroncino che vedo? LUPACCHIOTTO: Ma è o non è il servo mio che vedo? TROTTOLA: Ma è proprio lui. LUPACCHIOTTO: Ma non è altri che lui. TROTTOLA: Mo’ gli vo incontro. LUPACCHIOTTO: Mo’ lo avvicino. Forse s’è incontrato con quella vecchia come gli avevo ordinato, con la nutrice della ragazza. TROTTOLA: E perché non rivelargli il bottino che ho fatto? Così potrò pregarlo di affrancarmi 62. Mo’ vado e gli parlo. Ho trovato… LUPACCHIOTTO: Che hai trovato? TROTTOLA: Certo non quello che i ragazzini strillano d’aver trovato nella fava63. LUPACCHIOTTO: Insomma fai come al solito, ti diverti a sfottermi? TROTTOLA: No, padrone, aspetta, te lo dirò, ascoltami. LUPACCHIOTTO: E allora su, parla. TROTTOLA: Oggi ho trovato, padrone, un tesoro incommensurabile. LUPACCHIOTTO: Ma dove? TROTTOLA: Pensa, una pentola piena di più d’un chilo d’oro! LUPACCHIOTTO: Ah, ’sto bel fattaccio mi tocca sentire da te? TROTTOLA: L’ho fregata a Tienichiuso, il vecchiaccio qui accanto. LUPACCHIOTTO: E ora ’sto tesoro dov’è? TROTTOLA: Nel baule di camera mia. Così ora voglio che mi si affranchi. LUPACCHIOTTO: Io affrancarti, manigoldo recidivo? TROTTOLA: Ma va’, ma va’, padrone, so che vuoi fare. Ma io ho parlato per ischerzo, per metterti alla prova. Già ti preparavi a metterci le mani su: non avresti fatto così, se l’avessi trovata sul serio? LUPACCHIOTTO: E speri ch’io creda a ’ste altre fesserie? Su, sputa l’oro. TROTTOLA: Io restituirti l’oro? LUPACCHIOTTO: Restituiscilo, ti dico: così potrò ridarlo al proprietario. TROTTOLA: E dov’è? LUPACCHIOTTO: Nel baule: sei stato tu a dirmelo. TROTTOLA: Ma lo sai quante fesserie sono abituato a inventarmi … Ti assicuro… LUPACCHIOTTO: Ma non lo sai in che modo…64? TROTTOLA: Puoi anche scannarmi, ma non me lo strapperai mai 65.

FRAMMENTI

Per quegli stracci color zafferano, quei reggipetti, tutte quelle spese di cui vanno matte le donne66. * Come lo ha scotennato67! * 68 [TIENICHIUSO]: Pensa, scavavo dieci fosse in un giorno ! * [TIENICHIUSO]: Non stavo in pace né di notte né di giorno: ora finalmente potrò dormire69. * Quelli che m’imbandiscono legumi crudi, facciano il piacere d’aggiungerci pure un po’ di salsa piccante70. [FINE]

Bacchides

Le due Bacchidi

Il Ritschl aveva già subodorato il modello di questa commedia nel Dis exapatón («Il due volte ingannatore») di Menandro. Il sempre felice intuito del Plautinissimus vir, del maestro di Federico Nietzsche ha ricevuto di recente la più evidente e luminosa conferma con la scoperta nei papiri d’Ossirinco di un brano della commedia menandrea (le cui interruzioni nel testo papiraceo ci obbligano a parlare di frammenti diversi, successivamente pubblicati dallo Handley e dal Sandbach), che corrisponde alle scene 3-6 dell’atto terzo della commedia plautina. È stata una scoperta di capitale importanza, perché finalmente s’è riusciti a pescare almeno un avanzo di uno dei testi greci sfruttati da Plauto (mentre per Terenzio già il lungo frammento degli Epitrépontes menandrei aveva presentato una buona testimonianza del modello indiretto dell’Hecyra), e quindi a sincerarsi del metodo, dello stile con cui Plauto rielaborava i modelli greci. E la scoperta ha confermato ciò che già l’acume di Eduard Fraenkel aveva prospettato nella celebre, classica opera Plautinisches im Plautus: che cioè la struttura della trama risale in massima ai modelli e che l’originalità di Plauto consiste principalmente nell’autentica frenesia verbale (e spesso ritmica) con cui egli rimpolpa tutti gli spunti farseschi offertigli dalla situazione, trasformando la tendenza introspettiva, l’acuta analisi dei costumi tipiche della commedia attica nuova nel delirio, nella sarabanda sfrenata della più rutilante e pirotecnica comédie bouffonne. Del resto già il Dis exapatón di Menandro è ritenuto una delle sue prime commedie, in cui l’arte sua non era ancora maturata fino all’accorta padronanza dell’ethos ch’è ritenuto la sua più tipica peculiarità; egli lì sarebbe ancora sensibile alla tecnica della commedia motoria, e ciò, a parte gl’insulti, le variazioni, le comiche ribattute di cui sovrabbonda Plauto, sarebbe visibile anche nell’andamento piuttosto prolisso delle Bacchides, in cui le situazioni e i tiri finirebbero per reduplicarsi un po’ alla stanca. Basti pensare che, come è già stato osservato, in questa commedia si stipano tutti i tipi fissi caratteristici della commedia nuova, salvo il lenone, che, com’è noto, non era personaggio gradito a Menandro. Per giunta il confronto fra i nuovi frammenti del Dis exapatón e le scene corrispondenti delle Bacchides confermano: 1) che Plauto sostituiva ai nomi dei modelli nomi greci coniati da lui (quello che in Plauto è Mnesiloco è Sostrato in Menandro, quello che in Plauto è Nicobulo è Demea in Menandro, quello che in Plauto è Pistoclero è Mosco in Menandro, quella che in Plauto è Bacchide è Criside in Menandro, quello che in Plauto è Crisalo è Siro in Menandro, e quello che in Plauto è Filosseno è indicato in Menandro col generico appellativo di «padre»; solo il nome di Lido s’incontra uguale in Menandro, quasi a confermare che il singolare personaggio del pedagogo discende in tutte le sue tipiche caratteristiche dal culto dell’ethos peculiare del commediografo greco); 2) che Plauto, pur impegnando la sua originalità di rielaboratore soprattutto nel mutamento della temperie linguistica ed espressiva, talvolta rielabora lo schema scenico del modello proprio per meglio disporre la sua prospettiva stilistica; in Menandro la cessione totale della somma fatta da Sostrato al padre avveniva in due dialoghi, direttamente sceneggiati, fra Sostrato e il padre Demea; Plauto ha soppresso i due dialoghi, riassumendone il contenuto nel secondo monologo di Mnesiloco-Ricordinsidia (come proposito espresso in anticipo) e poi nella scena fra Pistoclero-Fedesindacato e MnesilocoRicordinsidia. Il titolo della commedia menandrea ha fatto sorgere un grosso problema nell’interpretazione della commedia. Rubaloro, che ne è fondamentalmente il protagonista (si pensi ai suoi due trionfali monologhi, quello ai vv. 640b-667 e quello ai vv. 925-978), proprio nel primo di questi monologhi, al v. 641, parla di una duplice impresa compiuta, di un doppio bottino conquistato. Ma allora egli è reduce solo dalla prima impresa, dal primo inganno, quello d’aver fatto bere al vecchio che la massima parte dell’oro è rimasta giacente ad Efeso. Non siamo ancora alla gestazione dell’inganno fondamentale su cui è basata la trama della commedia, cioè lo sfruttamento della venuta del soldato per far sborsare a Bramavittoria ben quattrocento filippi d’oro. Per giunta nell’ultima scena Bacchide II dice (v. 1128) che Bramavittoria è stato già tonduto due volte, con allusione al fatto che prima gli si son fatti scucire duecento filippi e poi altri duecento: il doppio inganno si profilerebbe pertanto solo riguardo alla seconda parte della commedia, con esclusione della favola prima architettata da Rubaloro riguardo alla permanenza dell’oro ad Efeso. Il colmo della confusione è poi generato ai vv. 953-972 del secondo e maggiore dei monologhi di Rubaloro. Ivi il servo, sviluppando il paragone con la leggenda di Troia che sostanzia il suo dire, afferma che come tre furono i segnali premonitori della distruzione di Troia, così tre sono quelli che preannunciano la rovina delle finanze del vecchio: avergli fatto bere prima la frottola del denaro giacente ad Efeso, avergli portato poi la prima lettera, facendogli credere che Ricordinsidia fosse a letto con la moglie del soldato, e da ultimo averlo indotto a versare al soldato duecento filippi. Così da dis exapatón sembra ch’egli si sia trasformato in tris exapatón («tre volte ingannatore»), sì che sembra di dover concludere che o Plauto abbia voluto potenziare e reduplicare l’astuzia di Rubaloro, secondo il suo tipico istinto della ribattuta farsesca, o, com’è stato supposto, ch’egli abbia operato una contaminatio. In realtà, a ben guardare, c’è ancora di peggio, perché dai tre fata che il servo enumera come già manifestatisi è assente l’ultimo colpo, quello compreso nella seconda lettera ch’egli consegnerà al vecchio e che gli farà sborsare gli altri duecento filippi: di questo nel monologo egli parlerà solo come di un nuovo proposito, quasi come di un hors-d’oeuvre rispetto ai tria fata prima enunciati, e solo nella decima scena del quarto atto, nel momento in cui Bramavittoria legge la seconda lettera, lo identificherà col terzo dei fata. Dovremo allora considerarlo addirittura quattro volte ingannatore? In realtà aver fatto vantare da Rubaloro un duplice bottino quand’egli aveva giocato solo il primo tiro, aver fatto presentare Bramavittoria da Bacchide II come tosato due volte nella stessa giornata, aver fatto paragonare da Rubaloro i tre segni premonitori della caduta di Troia con tre tiri giocati al vecchio sono solo alcuni fra i ghiribizzi verbali di cui si compiace la scapricciata veemenza farsesca di Plauto, e che noi dobbiamo saper valutare con discernimento, evitando p. es. le accuse d’incoerenza mosse ad alcuni versi del secondo monologo di Rubaloro (su questo vedi le nn. 55 e 60). Nella sostanza lo sviluppo stesso della trama punta a isolare due inganni principali, quello consistente nella frottola della permanenza dell’oro a Efeso e quello successivo che riesce a far sborsare al vecchio quattrocento filippi in due tempi, profittando del credito vantato dal soldato su Bacchide II e dell’altra frottola di presentare costei come moglie di Gloriadipugna. La commedia va avanti proprio sulla base dell’improvvido colpo di testa di Ricordinsidia, che equivocando sulla Bacchide amata dal suo compagno, e credendo quindi d’essere stato ingannato da lui e da lei, restituisce al padre tutto l’oro portato da Efeso e perciò manda a monte il primo inganno ordito dal servo, costringendolo a tramarne un secondo. Questa è la vera ripetizione, il vero doppio inganno su cui è tramata tutta l’azione. E che questa sia la doppia apáte lo confermano due elementi essenziali: i due monologhi del servo e le due lettere ch’egli fa scrivere al padroncino e consegna al padroncione vecchio. Il primo monologo di Rubaloro è il canto di trionfo per aver fatto trangugiare al vecchio la complicata frottola relativa alle

presunte avventure di Efeso, il secondo è il canto di trionfo per l’ormai irresistibile trappoleria che sta obbligando Bramavittoria a sborsare la bellezza di quattrocento filippi. Le due fasi dell’opera giuntatrice del servo sono nettamente individuate e distinte. Così la prima lettera fa ancora interamente riferimento alla prima trappola e agl’inconvenienti nati dall’ingenuità di Ricordinsidia che ne ha smontato gli effetti; l’unico collegamento col secondo tiro è che Rubaloro già concepisce di sfruttare l’ira del vecchio per le rivelazioni contenute nella lettera allo scopo di preparare meglio il nuovo colpo di scena che aprirà la strada alla realizzazione della seconda e più catastrofica trappola. La seconda lettera introduce invece la fase conclusiva del secondo tiro. Anche le due lettere individuano perciò chiaramente i due distinti episodi che costituiscono il duplice inganno su cui tutta la commedia è tramata. E se ben si guarda, anche quando nel secondo monologo Rubaloro enumera i tria fata che incombono sul vecchio, vediamo che in realtà a giocare son sempre le due trame successivamente escogitate dal servo. Il primo dei fata riguarda la frottola della permanenza dell’oro a Efeso, cioè la prima apaté; il terzo riguarda lo sborsamento dei primi duecento filippi al soldato, cioè la seconda apaté. Ma il secondo serve a collegare proprio la prima apaté alla seconda, perché parla della prima lettera consegnata al vecchio, cioè di quella relativa al primo inganno, ma presentandola proprio nello scopo cui essa tendeva, cioè come preparazione alla nuova frottola presentante Bacchide II come moglie del soldato, che è appunto la frottola che più cuoce a Bramavittoria quand’egli scopre d’essere stato ingannato, l’unica su cui egli moltiplica le sue querimonie. Non è quindi il caso di favoleggiare di contaminatio o di arbitraria gonfiatura della trama del modello da parte di Plauto. C’è se mai da scovare una traccia di retractatio al v. 107, in cui si è voluto scorgere, nella battuta di Bacchide II, preannunciante l’arrivo di Lido e del suo alunno, l’anticipazione dell’arrivo del coro che segnerebbe la fine del primo atto. In realtà nulla si può documentare precisamente né sulla presenza sistematica del coro nella commedia nuova né sulla cura che Plauto avrebbe avuta di sottolinearne sia pur vagamente la funzione. Il caso della Rudens, l’unico chiaramente individuabile, ha un carattere tutto particolare, come vedremo. E in realtà, se ci si leva dalla testa l’uzzolo di scoprire nel verso un riferimento a misteriose strutture originarie del modello greco, esso è spiegabilissimo come allusione all’arrivo dei due nuovi personaggi e non deve perciò essere espunto, anche se il luogo presenta altre tracce di corruttela, e non deve indicare la fine del primo atto, che va posta più tardi. Caso mai un’evidente traccia di retractatio è da scorgere al v. 393, dove, nel pieno del monologo di Ricordinsidia, gli si fa dire ch’egli vede arrivare un personaggio che, per quello ch’egli ha espresso prima, non può essere che Rubaloro. In realtà allora il servo non ha alcuna ragione di comparire, e l’azione sarà messa in moto necessariamente dall’arrivo di Lido che rivelerà a Ricordinsidia come proprio il suo compagno faccia all’amore con Bacchide, che il giovane crederà sia la Bacchide da lui amata. Perciò l’emistichio deve essere riferito a Lido, e quindi dev’essere la traccia di un’ulteriore elaborazione della scena che omettesse il resto del monologo, sempre relativo a Rubaloro, e si completasse con un’indicazione, ora perduta, che chi veniva era appunto Lido. Al contrario dell’Aulularia in cui è caduto il finale, qui è caduto l’inizio della commedia, cioè, com’è stato calcolato, all’incirca i primi duecento versi del primo atto, che si è ritenuto di poter ricostruire in una scena in cui Ricordinsidia (ma senza la presenza di Rubaloro) presenta l’antefatto, parlando dell’amore sorto in lui già prima di andare ad Efeso, per Bacchide II, che egli non aveva incontrata lì mentre era l’amante in carica del soldato, quell’amore che lo ha indotto a rimanere due anni nella città asiatica (forse perché aveva avuto una vaga notizia ch’essa era lì), cosa che fra l’altro contraddice alla sua dichiarazione d’aver ricevuto subito dall’ospite l’oro per cui s’era recato colà (e il fatto ch’egli non l’abbia incontrata e quindi non abbia saputo dell’esistenza di un’altra Bacchide spiega l’equivoco in cui egli poi cadrà); in un’altra scena in cui Bacchide I riceveva la sorella tornata anch’essa da Efeso (ma dalla prima scena del quarto atto si può supporre che si trovasse invece nella natia Samo), la quale le narra le pretese che il soldato accampa nei suoi riguardi; e infine nell’inizio della prima scena pervenutaci in cui Fedesindacato, parlando con le due sorelle, riferisce dell’amore di Ricordinsidia per la seconda delle due e fa i primi approcci con Bacchide I, pur ostentando ancora una certa maschile burbanza. Cfr. inoltre la n. 8. O sulla base del v. 56 si può intendere la battuta come detta da Bacchide I a Fedesindacato? Altri ritiene invece che Ricordinsidia avesse incontrato Bacchide II proprio ad Efeso e avesse scritto al compagno dopo la partenza di lei per Atene. Il Ritschl ha datato la commedia al 189 a.C., sulla base dei vv. 1072-73 in cui Rubaloro dice che i trionfi sono diventati cosa comune, perché in quell’anno se ne sarebbero celebrati addirittura quattro. Il v. 53, in cui Fedesindacato parla con terrore delle Baccanti e dei loro riti, e il v. 371 ispirano la tentazione di ritenere la commedia composta dopo il senatusconsultum de Bacchanalibus, di farla quindi coeva alla Casina. Di recente invece il Williams, contestando che nel 189 ci siano stati quattro trionfi e adducendo invece il dato dei sei trionfi celebrati dal 197 al 194, ha fatto risalire di qualche anno la data di composizione della commedia, anche perché essa presenta analogie di struttura con lo Pseudolus, rappresentato nel 191. Ad ogni modo saremmo sempre nel periodo finale, quello della piena maturità di Plauto, cui le Bacchides meritano di essere ascritte, perché – se la trama soffre di una certa lentezza, addebitabile al modello – il prestigioso virtuosismo dei suoi cantica e la pirotecnica, travolgente veemenza verbale dei monologhi di Rubaloro e di quasi tutte le più marcate concessioni ai contrasti dialogici ed ai soliloqui fortemente emotivi rivelano un artista giunto alla pienezza dei propri mezzi. E che vi siano analogie con lo Pseudolus è innegabile, ed è legittimo sottolinearle perché ormai si va facendo strada decisamente il metodo di studiare e comprendere il riaffiorare sistematico in Plauto di gags, di situazioni tipiche ormai fisse ch’egli sfrutta abitualmente anche a prescindere dai modelli. P. es., anche se il D?skolos di Menandro ci ha rivelato che anche nel così intimista commediografo greco era possibile veder concludere, come nelle Bacchides, una commedia con la partecipazione di un vecchio scontroso a un’allegra baldoria e se quindi è facile supporre che anche il Dis exapatón si concludesse nella medesima maniera, tuttavia questa conclusione – che sotto un certo aspetto è l’opposto di quella dell’Asinaria (ma in entrambe le commedie la cortigiana manifesta il suo ribrezzo di dover fare all’amore con un vecchio) – richiama quella dello Pseudolus in cui il servo trascina il padrone Simone all’orgiastico festino celebrato dal figlio per la liberazione della sua amante e gli fa balenare la speranza di recuperare parte dei quattrini sborsati per un’incauta scommessa. Ma l’analogia maggiore è nel fatto che in entrambe le commedie una circostanza improvvisa offre al servo trappolone l’espediente provvidenziale per condurre a buon fine la sua trama, sì che finiamo per non poter più intuire precisamente quale fosse il progetto originario ch’egli aveva disegnato: nello Pseudolus subito dopo che Pseudolo ha annunciato con aria di trionfo d’aver già approntato una trappola destinata immancabilmente a sicura riuscita, l’arrivo di Harpax gli fa imboccare di colpo un’altra strada molto più agevole e più sicura; qui l’arrivo di Gloriadipugna permette a Rubaloro di coonestare con irrisoria facilità la sua frottola che Bacchide II è la moglie del soldato sopraggiunto. C’è però, nonostante tutto, una sensibile differenza: che l’arrivo di Harpax fa mutare radicalmente il progetto di Pseudolo, che abbandona di colpo tanti espedienti prima architettati (quelli p. es. che gli avevano già fatto proclamare l’utilità della presenza di Callifone), mentre qui l’arrivo di Gloriadipugna non fa che rafforzare nella maniera più opportuna e più ovvia la trappola principale già imbastita da Rubaloro, cioè che Bacchide II era la moglie del soldato. In questo si riflette anche il fatto che nello Pseudolus sussiste una contaminatio, mentre nelle Bacchides non c’è alcuna ragione di presupporla. Per giunta le affinità di struttura fra commedie plautine non significano affatto di norma una loro contemporaneità o prossimità cronologica. Abbiamo dimostrato che proprio lo Pseudolus palesa una massiccia affinità di struttura col Curculio, commedia precedente di quasi dieci anni, che determina proprio la forma di

una singolare contaminatio, che non è già quella fra due commedie greche, ma quella fra un modello greco principale e la situazione di una precedente commedia plautina, riposta a frutto dal suo autore.

PERSONAE

PERSONAGGI

Pistoclerus, adulescens Bacchis (I) meretrices Soror (Bacchis II) } Lydus, paedagogus Chrysalus, servus Nicobulus, senex Mnesilochus, adulescens Philoxenus, senex

Fedesindacato, giovanotto Bacchide I cortigiane La sorella (Bacchide II) } Lido, pedagogo Rubaloro1, servo Bramavittoria, vecchio Ricordinsidia, giovanotto Ospitalone, vecchio

Parasitus Puer Artamo, lorarius Cleomachus, miles

Un parassita Un giovane schiavo Macellaio, aguzzino Gloriadipugna, soldato

La scena è ad Atene. [Sullo sfondo la casa delle Bacchidi e quella di Bramavittoria, e il tempio d’Apollo.]

[ACTUS I]

Fragmenta [I.] Quibus ingenium in animo utibile est, modicum et sine vernilitate. [II.] Vincla, virgae, molae: saevitudo mala fit peior. [III.] Converrite * scopis, agite strenue. [IV.] Ecquis evocat

5 cum nassiterna et cum aqua istum impurissimum? [V.] Sicut lacte lactis simile est. [VI.] Illa mea cognominis fuit. [VII.] * Latronem * suam qui auro vitam venditat. [VIII.] Scio spiritum eiius maiorem esse multo 10 quam folles taurini habent, cum liquescunt petrae, ferrum ubi fit. Praenestinum opino esse, ita erat gloriosus. [IX.] Neque haud subditiva gloria oppidum arbitror. [X.] nec quoquam acciperes alio mercedem annuam 15 nisi ab sese, nec cum quiquam limares caput. [XI.] Limaces viri. [XII.] Cor meum, spes mea, mel meum, suavitudo, cibus, gaudium. [XIII.] Sine te amem. 20 [XIV.] Cupidon tecum saevit anne Amor? [XV.] Ulixem audivi fuisse aerumnosissimum, quia annos viginti errans a patria afuit; verum hic adulescens multo Ulixem anteit qui | ilico errat intra muros civicos. 25 [XVI.] Quidquid est nomen sibi. [XVII.] Quae sodalem atque me exercitos habet. [XVIII.] Nam credo cuivis excaritare cor potes. [XIX.] Sin lenocinium forte conlibitum est tibi, videas mercedis quid tibi est aequum dari, 30 ne istac aetate me sectere gratiis. 31-32 XX. Arabus. 33-34 XXI. Noenum.

[35] [BA.] Quid si hoc potis est ut tu taceas, ego loquar? SO. Lepide, licet [BA.] Ubi me fugiet memoria, ibi tu facito ut subvenias, soror. so. Pol magi’ metuo mihi in monendo † ne defuerit oratio †. [BA.] Pol ego metuo lusciniolae ne defuerit cantio. Sequere hac. [PI.] Quid agunt duae germanae meretrices cognomínes? 40 Quid in consilio consuluistis? [BA.] Bene. PI Pol haut meretriciumst. [BA.] Miserius nihil est quam mulier. [PI.] Quid esse dices dignius? [BA.] Haec ita me orat sibi qui caveat aliquem ut hominem reperiam, ut istuc militem… ut, ubi emeritum sibi sit, se revehat domum. Id, amabo te, huic caveas. [PI.] Quid isti caveam? [BA.] Ut revehatur domum, 45 ubi ei dediderit operas, ne hanc ille habeat pro ancilla sibi; nam si haec habeat aurum quod illi renumeret, faciat lubens. [PI.] Ubi nunc is homost? [BA.] Iam hic: credo aderit. Sed hoc idem apud nos rectius poteris agere; atque is dum veniat sedens ibi opperibere. Eadem biberis, eadem dedero tibi, ubi biberis, savium.

50 [PI.] Viscus meru’ vostrast blanditia. [BA.] Quid iam? [PI.] Quia enim intellego: duae unum expetitis palumbem, † perii †, harundo alas verberat. Non ego istuc facinus mihi, mulier, conducibile esse arbitror. [BA.] Qui, amabo? [PI.] Quia, Bacchis, Bacchas metuo et bacchanal tuum. [BA.] Quid est? quid metuis? ne tibi lectus malitiam apud me suadeat? 55 [PI.] Magis inlectum tuum quam lectum metuo: mala tu es bestia. Nam huic aetati non conducit, mulier, latebrosus locus. [] Egomet, apud me si quid stulte facere cupias, prohibeam, sed ego apud me te esse ob eam rem, miles cum veniat, volo, quia, cum tu aderis, huic mihique haud faciet quisquam iniuriam: 60 tu prohibebis, et eadem opera tuo sodali operam dabis; et ille adveniens tuam med esse amicam suspicabitur. Quid, amabo, opticuisti? [PI.] Quia istaec lepida sunt memoratui: eadem in usu atque ubi periclum facias aculeata sunt: animum fodicant, bona destimulant, facta et famam sauciant. 65 [SO.] Quid ab hac metuis? [PI.] Quid ego metuam rogitas? adulescens homo penetrem huius modi in palestram, ubi damnis desudascitur? ubi pro disco damnum capiam, pro cursura dedecus…? [BA.] Lepide memoras! [PI.] …ubi ego capiam pro machaera turturem, ubique inponat in manum alius mihi pro cestu cantharum, 70 pro galea scaphium, pro insigni sit corolla plectilis, pro hasta talos, pro lorica malacum capiam pallium, ubi mihi pró eq lectus detur, scortum pro scuto accubet? Apage a me, apage. [BA.] Ah, nimium ferus es. [PI.] Mihi sum. [BA.] Malacisandus es. Equidem tibi do hanc operam. [PI.] Ah, nimium pretiosa es operaria. 75 [BA.] Simulato me amare. [PI.] Utrum ego istuc iocon adsimulem an serio? [BA.] Heia, hoc agere meliust. Miles quom huc adueniat, te uolo me amplexari. [PI.] Quid eo mihi opust? [BA.] Ut ille te videat volo. Scio quid ago [PI.] Et pol ego scio quid inetuo. Sed quid ais? [BA.] Quid est? [PI.] Quid si apud te veniat desubito prandium aut potatio 80 forte aut cena, ut solet in istis fieri conciliabulis, ubi ego tum accumbem? [BA.] Aput me, mi anime, ut lepidus cum lepida accubet. Locus hic aput nos, quamvis subito venias, semper liber est. Ubi tu lepide voles esse tibi, ‘mea rosa’, mihi dicito ‘dato qui bene sit’: ego ubi bene sit tibi locum lepidum dabo. 85 [PI.] Rapidus fluvius est hic, non hac temere transiri potest. [BA.] Atque ecastor aput hunc fluvium aliquid perdundumst tibi. Manum da et sequere. [PI.] Aha, minime. [BA.] Quid ita? [PI.] Quia istoc inlecebrosius fieri nihil potest: nox, mulier, vinum homini adulescentulo. 90 Ill’ quidem hanc abducet; tu nullus adfueris, si non lubet. [BA.] Age igitur, equidem pol nihili facio nisi causa tua. [PI.] Sumne autem nihili qui nequeam ingenio moderari meo? [BA.] Quid est quod metuas? [PI.] Nihil est, nugae. Mulier, tibi me emancupo: tuu’ sum, tibi dedo operam. [BA.] Lepidu’s. Nunc ego te facere hoc volo. Ego sorori meae cenam hodie dare volo viaticam: 95 eo tibi argentum iubebo iam intus ecferri foras;

tu facito opsonatum nobis sit opulentum opsonium. [PI.] Ego opsonabo, nam id flagitium meum sit, mea te gratia

et operam dare mihi et ad eam operam facere sumptum de tuo. [BA.] At ego nolo dare te quicquam. [PI.] Sine. [BA.] Sino equidem, si lubet.

100 Propera, amabo. [PI.] Prius hic adero quam te amare desinam.– [SO.] Bene me accipis advenientem, mea soror. [BA.] Quid ita, obsecro? [so.] Quia piscatus meo quidem animo hic tibi hodie evenit bonus. [BA.] Meus ille quidemst. Tibi nunc operam dabo de Mnesilocho, soror, ut hic accipias potius aurum quam hinc eas cum milite. 105 [SO.] Cupio. [BA.] Dabitur opera. Aqua calet: eamus hinc intro ut laves. Nam ut in navi vecta es, credo, timida es. [SO.] Aliquantum, soror; simul huic nesciocui, turbare qui huc it, decedamus . [BA.] Sequere hac igitur me intro in lectum ut sedes lassitudinem.

Lydus, paedagogus; Pistoclerus, adulescens [LY.] Iam dudum, Pistoclere, tacitus te sequor,

110 spectans quas tu res hoc ornatu geras. Namque ita me di ament, ut Lycurgus mihi quidem videtur posse hic ad nequitiam adducier. Quo nunc capessis te hinc adversa via cum tanta pompa? [PI.] Huc. [LY.] Quid ‘huc’? quis istic habet? 115 [PI.] Amor, Voluptas, Venu’, Venustas, Gaudium, Iocu’, Ludus, Sermo, Suavisaviatio. LY Quid tibi commercist cum dis damnosissimis? PI Mali sunt homines qui bonis dicunt male; tu dis nec recte dicis: non aequum facis. 120 [LY.] An deus est ullus Suavisaviatio? [PI.] An non putasti esse umquam? o Lyde, es barbarus; quem ego sapere nimio censui plus quam Thalem, is stultior es barbaro † poticio †, qui tantus natu deorum nescis nomina. 125 [LY.] Non hic placet mihi ornatus. [PI.] Nemo ergo tibi haec apparavit: mihi paratum est quoi placet. [LY.] Etiam me advorsus exordire argutias? Qui si decem habeas linguas, mutum esse addecet. [PI.] Non omnis aetas, Lude, ludo convenit. 130 Magis unum in mentest mihi nunc, satis ut commode pro dignitate opsoni haec concuret cocus. [LY.] Iam perdidisti te atque me atque operam meam, qui tibi nequiquam saepe monstravi bene. [PI.] Ibidem ego meam operam perdidi | ubi tu tuam: 135 tua disciplina nec mihi prodest tec tibi. [LY.] O praeligatum pectus! [PI.] Odiosus mihi es. Tace atque sequere, Lyde, me. [LY.] Illuc sis vide, non paedagogum iam me, sed Lydum vocat. [PI.] Non par videtur neque sit consentaneum, 140 cum † haec intus intus sit † et cum amica accubet cumque osculetur et convivae alii accubent, † praesentibus † illis paedagogus una ut siet †. [LY.] An hoc ad eas res opsonatumst, obsecro? [PI.] Sperat quidem animus: quo eveniat dis in manust. 145 [LY.] Tu amicam habebis? [PI.] Cum videbis, tum scies. [LY.] Immo neque habebis neque sinam. † Iturus sum domum †. [PI.] Omitte, Lyde, ac cave malo. [LY.] Quid? ‘cave malo’? [PI.] Iam excessit mihi aetas ex magisterio tuo.

[LY.] O baratrum, ubi nunc es? ut ego te usurpem lubens! 150 Video nimio iam multo plus quam volueram; vixisse nimio satiust iam quam vivere. Magistron quemquam discipulum minitarier? Nihil moror discipulos mihi [esse] tam plenos sanguinis: valens afflictat me vacivom virium. 155 [PI.] Fiam, ut ego opinor, Hercules, tu autem Linus. [LY.] Pol metuo magi’ ne Phoenix tuis factis fuam teque ad patrem esse mortuum renuntiem. [PI.] Satis historiarumst. [LY.] Hic vereri perdidit. Compendium edepol haut aetati optabile 160 fecisti cum istanc nactu’s inpudentiam. Occisus hic homo est. Ecquid in mentem est tibi patrem tibi esse? [PI.] Tibi ego an tu mihi servus es? [LY.] Peior magister te istaec docuit, non ego. Nimio es tu ad istas res discipulus docilior 165 quam ad illa quae te docui, ubi operam perdidi. Edepol fecisti furtum in aetatem malum qum istaec flagitia me celavisti et patrem. [PI.] Istac tenus tibi, Lyde, libertas datast orationis: satis est. Sequere hac me ac tace.–

[ACTUS II]

Chrysalus, servos 170 [CH.] Erilis patria, salve, quam ego biennio postquam hinc in Ephesum abii, conspicio lubens. Saluto te, vicine Apollo, qui aedibus propinquus nostris accolis, veneroque te ne Nicobulum me sinas nostrum senem 175 priu’ convenire quam sodalem viderim Mnesilochi Pistoclerum, quem ad epistulam Mnesilochus misit super amica Bacchide.

Pistoclerus, adulescens; Chrysalus, servos [PI.] Mirumst me ut redeam te opere tanto quaesere,

qui abire hinc nullo pacto possim, si velim: 180 ita me vadatum amore vinctumque adtines. [CH.] Pro di inmortales, Pistoclerum conspicor. O Pistoclere, salve. [PI.] Salve, Chrysale. [CH.] Compendi verba multa iam faciam tibi: venire tu me gaudes, ego credo tibi; 185 hospitium et cenam pollicere, ut convenit peregre advenienti: ego autem venturum adnuo. Salutem tibi ab sodali solidam nuntio: rogabis me ubi sit vivit. [PI.] Nemp’ recte valet? [CH.] Istuc volebam ego ex te percontarier. 190 [PI.] Qui scire possum? [CH.] Nullus plus. [PI.] Quemnam ad modum? [CH.] Quia si illa inventa est quam ille amat, [vivit] recte [et] valet; si non inventa est, minu’ valet moribundu’que est. Animast amica amanti: si abest, nullus est; si adest, res nullast: ipsus est… nequam et miser. 195 Sed tu quid factitasti mandatis super? [PI.] Egon ut, quod ab illo attigisset nuntius, non impetratum id advenienti ei redderem? Regiones colere mavellem Acherunticas. 199-200 CH. Eho, an invenisti Bacchidem? [PI.] Samiam quidem. [CH.] Vide quaeso ne quis tractet illam indiligens: scis tu ut confringi vas cito Samium solet. [PI.] Iamne ut soles? [CH.] Dic ubi ea nunc est, obsecro. [PI.] Hic, exeuntem me unde aspexisti modo. 205 [CH.] Ut istuc est lepidum! proximae viciniae habitat. Ecquidnam meminit Mnesilochi? [PI.] Rogas? Immo unice unum plurimi pendit. [CH.] Papae! [PI.] Immo ut eam credis? misere amans desiderat. [CH.] Scitum istuc. [PI.] Immo, Chrysale, em non tantulum 210 umquam intermittit tempus quin eum nominet. [CH.] Tanto hercle melior [Bacchis]. [PI.] Immo… [CH.] Immo hercle abiero potius. [PI.] Num invitus rem bene gestam audis eri? [CH.] Non res, sed actor mihi cor odio sauciat: etiam Epidicum, quam ego fabulam aeque ac me ipsum amo, 215 nullam aeque invitus specto, si agit Pellio.

Sed Bacchis etiam fortis tibi visast? [PI.] Rogas?

Ni nanctus Venerem essem, hanc Iunonem dicerem. [CH.] Edepol, Mnesiloche, ut hanc rem natam esse intellego,

quod ames paratumst, quod des inventost opus. 220 Nam istic fortasse aurost opu’. [PI.] Philippeo quidem. [CH.] Atque eo fortasse iam opust. [PI.] Immo etiam prius: nam iam huc adveniet miles… Et miles quidem? …qui de amittenda Bacchide aurum hic exiget. [CH.] Veniat quando vult, atque ita ne mihi sit morae. 225 † Domist: non metuo nec quoiquam supplico †, dum quidem hoc valebit pectus perfidia meum. Abi intro, ego hic curabo. Tu intus dicito Mnesilochum adesse Bacchidi. [PI.] Faciam ut iubes. – [CH.] Negotium hoc ad me adtinet aurarium. 230 † Mille et ducentos Philippos attulimus aureos † Epheso, quos hospes debuit nostro seni. Inde ego hodie aliquam machinabor machinam, unde aurum efficiam amanti erili filio. Sed fori’ concrepuit nostra: quinam exit foras?

Nicobulus, senex; Chrysalus, servos 235 [NI.] Ibo in Piraeum, visam | ecquae advenerit in portum ex Epheso navis mercatoria. Nam meu’ formidat animus, nostrum tam diu ibi desidere neque redire filium. [CH.] Extexam ego illum pulchre iam, si di volunt. 240 Haud dormitandumst: opus est chryso Chrysalo. Adibo hunc, quem quidem ego hodie faciam hic arietem Phrix, itaque tondebo auro usque ad vivam cutem. Servus salutat Nicobulum Chrysalus. [NI.] Pro di inmortales, Chrysale, ubi mihist filius? 245 [CH.] Quin tu salutem primum reddis quam dedi? [NI.] Salve. Sed ubinamst Mnesilochus? [CH.] Vivit, valet. [NI.] Venitne? [CH.] Venit. [NI.] Evax, aspersisti aquam. Benene usque valuit? [CH.] Pancratice atque athletice. [NI.] Quid hoc? qua causa | eum | in Ephesum miseram, 250 accepitne aurum ab hospite Archidemide? [CH.] eu, cor meum et cerebrum, Nicobule, finditur, istíus hominis ubi fit quoque mentio. Tun hospitem illum nominas hostem tuum? [NI.] Quid ita, obsecro hercle? [CH.] Quia edepol certo scio: 255 Vulcanus, Luna, Sol, Dies, dei quáttuor, scelestiorem nullum inluxere alterum. [NI.] Quamne Archidemidem? [CH.] Quam, inquam, Archidemidem. [NI.] Quid fecit? [CH.] Quid non fecit? quin tu id me rogas? Primumdum infitias ire coepit filio, 260 negare se debere tibi triobolum. Continuo antiquum | hospitem nostrum sibi Mnesilochus advocavit, Pelagonem senem; eo praesente homini extemplo ostendit symbolum, quem tute dederas, ad eum ut ferret, filio. 265 [NI.] Quid ubi ei ostendit symbolum? [CH.] Infit dicere adulterinum et non eum esse symbolum. Quotque innocenti ei dixit contumelias!

Adulterare eum aibat rebus ceteris. [NI.] Habetin aurum? | id mihi dici volo. 270 [CH.] Postquam quidem praetor recuperatores dedit,

damnatus demum, vi coactus reddidit † ducentos et mille Philippum. [NI.] Tantum debuit. † [CH.] Porro etiam ausculta pugnam quam voluit dare. [NI.] Etiamnest quid porro? [CH.] Em, accipetrina haec nunc erit. 275 [NI.] Deceptus sum, Autolyco hospiti aurum credidi. [CH.] Quin tu audi. [NI.] Immo ingenium avidi haut pernoram hospitis. [CH.] Postquam aurum abstulimus, in navem conscendimus domum cupientes. Forte ut adsedi in stega, dum circumspecto… | atque ego lembum conspicor 280 † longumst rigorem † maleficum exornarier. [NI.] Perii hercle, lembus ille mihi laedit latus. [CH.] Is erat communis cum hospite et praedonibus. [NI.] Adeon rne fuisse fungum ut qui illi crederem, qum mihi ipsum nomen eiius Archidemides 285 clamaret dempturum esse, si quid crederem? [CH.] Is lembus nostrae navi… | insidias dabat. Occepi ego observare eos quam rem gerant. Interea e portu nostra navis solvitur. Ubi portu eximus, homines remigio sequi, 290 neque aves neque venti citius. Quoniam sentio quae res geretur, navem extemplo statuimus. Quoniam vident nos stare, occeperunt ratem † turbare † in portu. [NI.] Edepol mortalis tnalos! Quid denique agitis? [CH.] Rursum in portum recipimus. 295 [NI.] Sapienter factum a vobis. Quid illi postea? [CH.] Revorsionem ad terram faciunt vesperi. [NI.] Aurum ercle auferre voluere: ei rei operam dabant. [CH.] Non me fefellit, sensi, eo exanimatus fui. Quoniam videmus auro insidias fieri, 300 capimus consilium continuo; postridie auferimus aurum omne | illis praesentibus, palam atque aperte, ut illi id factum sciscerent. [NI.] Scite ercle. Cedo quid illi? [CH.] Tristes ilico, qum extemplo a portu | ire nos cum auro vident, 305 subducunt lembum capitibus quassantibus. Nos apud Theotimum omne aurum deposvimus, qui illic sacerdos est Dianai Ephesiae. [NI.] Qui istíc Theotimus [CH.] Megalobuli filius, qui nunc in Ephesost Ephesiis carissimus. 310 [NI.] Ne ille ercle mihi sit multo tanto carior, si me illo auro tanto circumduxerit. [CH.] Quin in epse aede Dianai conditumst; ibidem publicitus servant. [NI.] Occidisti, me; nimio hic privatim servaretur rectius. 315 Sed nihilne | attulistis inde auri domurn? [CH.] Immo etiam. Verum quantum attulerit nescio. [NI.] Quid? nescis? [CH.] Quia Mnesilochus noctu clanculum devenit ad Theotimum, nec mihi credere nec cuiquam in navi voluit: eo ego nescio 320 quantilum attulerit; verum haud permultum attulit. [NI.] Etiam dimidium censes? [CH.] Non edepol scio; verum haud opinor. [NI.] Fertne partem tertiam? [CH.] Non ercle opinor; verum verum nescio.

Profecto de auto nihil scio nisi nescio. 325 Nunc tibimet illuc navi capiundumst iter, ut illud reportes aurum ab Theotimo domum. Atque heus tu. [NI.] Quid vis? [CH.] Anulum gnati tui facito ut memineris ferre. [NI.] Quid opust anulo? [CH.] Quia id signumst cum Theotimo, qui eum illi afferet, 330 ei aurum ut reddat. [NI.] Meminero, et recte mones. † Sed divesne est istic Theotimus? † [CH.] Etiam rogas? Qui | auro | habeat soccis subpactum solum? [NI.] Qur ita fastidit? [CH.] Tantas divitias habet; nescit quid faciat auro. [NI.] Mihi dederit velim. 335 Sed qui praesente id aurum Theotimo datumst? [CH.] Populo praesente: nullust Ephesi quin sciat. [NI.] Istuc sapienter saltem fecit filius, cum diviti homini id aurum servandum dedit; ab eo licebit quamvis subito sumere. 340 [CH.] Immo em tantisper numquam te morabitur quin habeas illud quo die illuc veneris. [NI.] Censebam me ecfugisse a vita marituma, ne navigarem tandem hoc aetatis senex; id mihi haud utrum velim licere intellego: 345 ita bellus hospes fecit Archidemides. Ubi nunc est ergo meu’ Mnesilochus filius? [CH.] Deos atque amicos iit salutatum ad forum. [NI.] At ego hinc ad illum, ut conveniam quantum potest.– [CH.] Ille est oneratus recte et plus iusto vehit. 350 Exorsa haec tela non male omnino mihi est: ut amantem erilem copem facerem filium, ita feci ut auri quantum vellet sumeret, quantum autem lubeat reddere ut reddat patri. Senex in Ephesum | ibit aurum arcessere, 355 hic nostra agetur aetas in malacum modum, siquidem hic relinquet neque secum abducet senex med et Mnesilochum. Quas ego hic turbas dabo! Sed quid futurumst, cum hoc senex resciverit, cum se excucurrisse illuc frustra sciverit 360 nosque aurum abusos? quid mihi fiet postea? Credo hercle adveniens nomen mutabit mihi facietque extemplo Crucisalum me ex Crusalo. Aufugero hercle, si magis usus venerit. Si ero reprehensus, macto ego illum infortunio: 365 si illi sunt virgae ruri, at mihi tergum domist. Nunc ibo, erili filio [eius] hanc fabricam dabo super auro amicaque eius inventa Bacchide.–

[ACTUS III]

Lydus, paedagogus [LY.] Pandite atque aperite propere ianuam hanc Orci, obsecro.

Nam equidem haud aliter esse duco, quippe quo nemo 370 advenit, nisi quem spes reliquere omnes esse ut frugi possiet. Bacchides non Bacchides, sed Bacchae sunt acerrumae. Apage istas a me sorores, quae hominum sorbent sanguinem. Omnis ad permitiem instructa domus opime atque opipare. Quae ut aspexi, me continuo contuli protinam in pedes. 375 Egone ut haec conclusa gestem clanculum? ut celem patrem, Pistoclere, tua flagitia aut damna aut desidiabula? Quibu’ patrem et me teque amicosque omnis affectas tuos ad probrum, damnum, flagitium appellere una et perdere. Neque mei neque te tui intus puditumst factis quae facis, 380 quibu’ tuum patrem meque una, amicos, adfinis tuos tua infamia fecisti geruli figulos flagiti. Nunc priu’ quam malum istoc addis – certumst: iam dicam patri – de me hanc culpam demolibor iam et seni faciam palam, ut eum | ex lutulento caeno propere hinc eliciat foras.–

Mnesilochus, adulescens 385 [MN.] Multimodis meditatus egomet mecum sum, et ita esse arbitror: homini amico qui est amicus, ita uti nomen possidet, nisi deos ei nihil praestare; id opera expertus sum esse ita. Nam ut in Ephesum hinc abii (hoc factumst ferme abhinc biennium) ex Epheso huc ad Pistoclerum meum sodalem litteras 390 misi, amicam ut mihi inveniret Bacchidem. Illum intellego invenisse, ut servus meu’ mihi nuntiavit Chrysalus. Condigne is quam tecnam de auro advorsum meum fecit patrem, ut mihi amanti copia esset! [Sed eccum video incedere.] Nam pol quidem meo animo ingrato hómine nihil impensiust; 395 malefactorem amitti satius quam relinqui beneficum; nimio inpendiosum praestat te quam ingratum dicier: illum laudabunt boni, huc etiam ipsi culpabunt mali. Qua me causa magi’ cum cura esse aeqm, obvigilatost opus. Nunc, Mnesiloche, specimen specitur, nun certamen cernitur 400 sisne necne ut esse oportet, malu’, bonus quoivis modi, iustus iniustus, malignus largus, † commodus incommodus. † Cave sis te superare servm siris faciundo bene. Utut eris, moneo, haut celabis. Sed eccos video incedere rem agant.

-Lydus, paedagogus; Philoxenus, senex; Mnesilocus, adulescens 405 [LY.] Nunc experiar sitne aceto tibi cor acre in pectore. Sequere. [PH.] Quo sequar? quo ducis nunc me? [LY.] Ad illam quae tuum

perdit, pessum dedit tibi fílium uni unicum. [PH.] eia, Lyde, leniter qui saeviunt sapiunt magis.

Minu’ mirandumst illaec aetas si quid illorum facit 410 quam si non faciat. Feci ego istaec itidem in adulescentia. [LY.] Ei mihi, ei mihi, istaec illum † perdidit † assentatio. Nam absque te esset, ego illum haberem rectum ad ingenium bonum: nunc propter te tuamque pravus factus est fiduciam Pistoclerus. [MN.] Di immortales, meum sodalem hic nominat. 415 Quid hoc negoti est Pistoclerum Lydus quod erum tam ciet? [PH.] Paulisper, Lyde, est libido homini suo animo obsequi: iam aderit tempus qum sese etiam ipse oderit. Morem geras; dum caveatur praeter aequum ne quid delinquat, sine. LY. Non sino, neque equidem illum me vivo corrumpi sinam.

420 Sed tu, qui pro tam corrupto dicis causam filio, eademne erat haec disciplina tibi, qum tu adolescens eras? Nego tibi hoc annis viginti fuisse primis copiae digitum longe a paedagogo pedem ut efferres aedibus. Ante solem exorientem nisi in palaestram veneras, 425 gymnasi praefecto | haud mediocris poenas penderes. Id quoi optigerat, hoc etiam ad malum accersebatur malum: et discipulus et magister perhibebantur inprobi. Ibi cursu, luctando, | hasta, disco, pugilatu, pila, saliendo sese exercebant magi’ quam scorto aut saviis: 430 ibi suam aetatem extendebant, non in latebrosis locis. Inde de hippodromo et palaestra ubi revenisses domum, cincticulo praecinctus in sella apud magistrum adsideres: cum librum legeres, si | unam peccavisses syllabam, fieret corium tam maculosum quam est nutricis pallium. 435 [MN.] Propter me haec nunc meo sodali dici discrucior miser; innocens suspicionem hanc sustinet causa mea. [PH.] Alii, Lyde, nunc sunt mores. [LY.] Id equidem ego certo scio. Nam olim populi prius honorem capiebat suffragio quam magistro desinebat esse dicto oboediens; 440 at nunc, priu’ quam septuennis est, si attingas eum manu, extemplo puer paedagogo tabula disrumpit caput. Cum patrem adeas postulatum, puero sic dicit pater: ‘Noster esto, dum te poteris defensare iniuria.’ Provocatur paedagogus: ‘Eho senex minimi preti, 445 ne attigas puerum istac causa, quando fecit strenue.’ † It magister quasi lucerna uncto expretus linteo. † Itur illinc iure dicto. Hóccine hic pacto potest inhibere imperium magister, si ipsus primus vapulet? [MN.] Acris postulatio haec est. Cum huiius dicta intellego, 450 mira sunt ni Pistoclerus Lydum pugnis contudit. [] Sed quis hic est quem astantem video ante ostium? [LY.] O Philoxene, deos propitios me videre quam illum mavellem mihi. † PH. Quis illic est? [LY.] Mnesilochus, gnati tui sodalis Pistocleri †: haud consimili ingenio atque ille est qui in lupanari accubat. 455 Fortunatum Nicobulum qui illum produxit sibi! [PH.] Salvus sis, Mnesiloche, salvum te advenire gaudeo. [MN.] Di te ament, Philoxene. [LY.] Hic enim rite productust patri: in mare it, rem familiarem curat, custodit domum, obsequens oboediensque est mori atque imperiis patris. 460 Hic sodalis Pistoclero iam puer puero fuit; triduum non interest aetatis uter maior siet: verum ingenium plus triginta annis maiust quam alteri. [PH.] Cave malo et compesce in illum dicere iniuste. [LY.] Tace: stultus es qui illi male aegre patere dici qui facit. 465 Nam illum meum malum promptare malim quam peculium. [PH.] Quidum? [LY.] Quia, malum si promptet, in dies faciat minus. [MN.] Quid sodalem meum castigas, Lyde, discipulum tuum? [LY.] Periit tibi sodalis. [MN.] Ne di sirint. [LY.] Sic est ut loquor. Quin ego qum peribat vidi, non ex audito arguo. 470 [MN.] Quid factum est? [LY.] Meretricem indigne deperit. [MN.] Non tu taces? [LY.] Atque acerrume aestuosa: absorbet ubi quemque attigit. [MN.] Ubi ea mulier habitat? [LY.] Hic. [MN.] Unde eam esse aiunt? [LY.] Ex Samo. [MN.] Quae vocatur?

[LY.] Bacchis. [MN.] Erras, Lyde: ego omnem rem scio

quem ad modumst. Tu Pistoclerum falso atque insontem arguis: 475 nam ille amico et benevolenti suo sodali sedulo rem mandatam exsequitur, ipsus neque amat nec tu creduas. [LY.] Itane oportet rem mandatam gerere amici sedulo ut ipsus ausculantem in gremio mulierem teneat sedens? Nullon pacto res mandata potest agi, nisi identidem 480 † manus ferat ad papillas, † labra a labris nusquam auferat? Nam alia memorare quae illum facere vidi dispudet: qum manum sub vestimenta ad corpus tetulit Bacchidi me praesente, neque pudere quicquam. Quid verbis opust? Mihi discipulus, tibi sodalis periit, huïc filius; 485 nam ego illum periisse dico quoi quidem periit pudor. Quid opust verbis? si opperiri vellem paulisper modo, ut opino, illius inspectandi mihi esset maior copia, plus viderem quam deceret, quam me atque illo aequom foret. [MN.] Perdidisti me, sodalis. Egone ut illam mulierem 490 capitis non perdam? Perire me malis malim modis. Satin ut quem tu habeas fidelem tibi aut cui credas nescias. [LY.] Viden ut aegre patitur gnatum esse corruptum tuum, suum sodalem, ut ipsus sese cruciat aegritudine? [PH.] Mnesiloche, hoc tecum oro ut illius animum atque ingenium regas: 495 serva tibi sodalem | et mihi filium. [MN.] Factum volo. [LY.] Melius multo, me quoque una si cum hoc reliqueris. [PH.] Adfatim est. Mnesiloche, cura, ei, concastiga hominem probe, qui dedecorat te, me, amicos atque alios flagitiis suis. In te ego hoc onus omne impono. Lyde, sequere hac me. [LY.] Sequor.–

Mnesilocus, adulescens 500 [MN.] Inimiciorem nunc utrum credam magis sodalemne esse an Bacchidem incertum admodumst. Illum exoptavit potius? habeat, optumest. Ne illa illud hercle cum malo fecit… meo: nam mihi divini nunquam quisquam creduat, 505 ni ego illam exemplis plurumis planeque… amo. Ego faxo haud dicet nactam quem derideat: nam iam domum ibo atque… aliquid surrupiam patri. 507a Id isti dabo. Ego istanc multis ulciscar modis. Adeo ego illam cogam usque ut mendicet… meu’ pater. Sed satine ego animum mente sincera gero, 510 qui ad hunc modum haec hic quae futura fabulor? Amo hercle, opino, ut pote quod pro certo sciam. Verum quam illa umquam de mea pecunia ramenta fiat plumea propensior, mendicum malim mendicando vincere. 515 Numquam edepol viva me inridebit. Nam mihi decretumst renumerare iam omne aurum patri. Igitur mihi inani atque inopi subblandibitur † tum quom mihi nihilo pluris referet † quam si ad sepulcrum mortuo narret logos. 519a [Sed autem quom illa umquam meis opulentiis 519b ramenta fiat gravior aut propensior, 519c mori me malim | excruciatum | inopia. 520 Profecto stabilest me patri aurum reddere.] Eadem exorabo Chrysalo causa mea pater ne noceat neu quid ei suscenseat mea causa de auro quod eum ludificatus est; nam illi aequumst me consulere, qui causa mea 525 mendacium ei dixit. Vos me sequimini. –

Pistoclerus, adulescens [PI.] Rebus aliis antevortar, Bacchis, quae mandas mihi:

Mnesilochum ut requiram atque ut eum mecum ad te adducam simul. Nam illud animus meu’ miratur, si a me tetigit nuntius, quid remoretur. Ibo ut visam huc ad eum, si forte est domi.

Mnesilocus, Pistoclerus, adulescentes 530 [MN.] Reddidi patri | omne aurum. Nunc ego illam me velim convenire, postquam inanis sum, contemptricem meam. Sed veniam mihi quam gravate pater dedit de Chrysalo! Verum postremo impetravi ut ne quid ei suscenseat. [PI.] Estne hic meus sodalis? [MN.] Estne hic hostis quem aspicio meus? 535 [PI.] Certe is est. [MN.] Is est. Adibo contra [et]. [PI.] Contollam gradum. Salvus sis, Mnesiloche. [MN.] Salve. [PI.] Salvus quom peregre advenis, cena detur. [MN.] Non placet mihi cena quae bilem movet. [PI.] Numque advenienti aegritudo obiectast? [MN.] Atque acerruma. [PI.] Unde? [MN.] Ab homine quem mihi amicum esse arbitratus sum antidhac. 540 [PI.] Multi more isto atque exemplo vivunt, quos cum censeas esse amicos, reperiuntur falsi falsimoniis, lingua factiosi, inertes opera, sublesta fide. Nullus est qui non invideat rem secundam optingere; sibi ne invideatur, ipsi ignavi recte cavent. 545 [MN.] Edepol ne tu illorum mores perquam meditate tenes. Sed etiam unum hoc: ex ingenio malo malum inveniunt suo: nulli amici sunt, inimicos ipsi in sese omnis habent. Atque i se qum frustrant, frustrari alios stolidi existumant. Sicut est hic quem esse amicum ratu’ sum atque ipsus sum mihi: 550 ille, quod in se fuit, accuratum habuit quod posset mali faceret in me, inconciliare copias omnis meas. [PI.] Inprobum istunc esse oportet hominem. [MN.] Ego ita esse arbitror. [PI.] Obsecro hercle loquere, quis is est. [MN.] Benevolens vivit tibi. Nam ni ita esset, tecum orarem ut ei quod posses mali 555 facere faceres. [PI.] Dic modo hominem qui sit: si non fecero ei male aliquo pacto, me esse dicito ignavissimum. MN Nequam homost, verum hercle amicus est tibi. [PI.] Tanto magis dic quis est; nequam hominis ego parvi pendo gratiam. [MN.] Video non potesse quin tibi eiius nomen eloquar. 560 Pistoclere, perdidisti me sodalem funditus. [PI.] Quid istuc est? [MN.] Quid est? misine ego ad te ex Epheso epistulam super amica, ut mihi invenires? [PI.] Fateor factum, et repperi. [MN.] Quid? tibi non erat meretricum aliarum Athenis copia quibu’cum, haberes rem, nisi cum illa quam ego mandassem tibi, 565 occiperes tute amare et mihi ires consultum male? [PI.] Sanun es? [MN.] Rem repperi omnem ex tuo magistro, ne nega. Perdidisti me. [PI.] Etiamne ultro tuis me prolectas probris? [MN.] Quid amas… [PI.] Bacchidem? duas ergo hic intus eccas Bacchides. [MN.] Quid, duae…? [PI.] Atque ambas sorores. [MN.] Loqueris nunc nugas sciens. 570 [PI.] Postremo, si pergis parvam mihi fidem arbitrarier, tollam ego ted in collum atque intro hinc auferam. [MN.] Immo ibo, mane. [PI.] Non maneo, neque tu me habebis falso suspectum. [MN.] Sequor.–

[ACTUS IV]

Parasitus; Puer adulescens [PA.] Parasitus ego sum | hominis nequam atque inprobi,

militi’ qui amicam secum avexit ex Samo. 575 Nunc me ire iussit ad eam et percontarier utrum aurum reddat anne eat secum semul. Tu dudum, puer, cum illac usque isti semul: quae harum sunt aedes, pulta. Adi actutum ad fores. Recede hinc dierecte. Ut pulsat propudium! 580 Comesse panem tris pedes latum potes, fores pultare nescis. [PU.] Ecquis [his] in aedibust? Heus, ecquis hic est? ecquis hoc aperit ostium? Ecquis exit? [Pistoclerus, adulescens; Parasitus] [PI.] Quid istuc? quae istaec est pulsatio?

† Qui te mala crux agitat †, qui ad istunc modum 585 alieno viris tuas extentes ostio? Fores paene exfregisti. Quid nunc vis tibi? [PA.] Adulescens, salve. [PI.] Salve. Sed quem quaeritas? [PA.] Bacchidem. [PI.] Utram ergo? [PA.] Nihil scio nisi Bacchidem. Paucis: me misit miles ad eam Cleomachus, 590 vel ut ducentos Philippos reddat aureos vel ut hinc in Elatiam hodie eat secum semul. [PI.] Non it. Negat se ituram. Abi et renuntia. Alium illa amat, non illum. Duc te ab aedibus. [PA.] Nimis iracunde. [PI.] At scin quam iracundus siem? 595 Ne tibi hercle haud longe est os ab infortunio, ita dentifrangibula haec meis manibus gestiunt. [PA.] Cum ego huiius verba interpretor, mihi cautiost ne nucifrangibula excussit ex malis meis. Tuo ego istaec igitur dicam illi periculo. 600 [PI.] Quid ais tu? [PA.] Ego istuc illi dicam. [PI.] Dic mihi, quis tu es? [PA.] Illius sum integumentum corporis. [PI.] Nequam esse oportet cui ta integumentum improbust. [PA.] Sufflatus ille huc veniet. [PI.] Dirrumptum velim. [PA.] Numquid vis? [PI.] Abeas. Celeriter factost opus. 605 [PA.] Vale, dentifrangibule.– [PI.] Et tu, integumentum, vale. In eum [nunc] haec revenit res locum, ut quid consili dem meo sodali super amica nesciam, qui iratus renumeravit omne aurum patri, neque nummus ullust qui reddatur militi. 610 Sed huc concedam, nam concrepuerunt fores. Mnesilochus eccum maestus progreditur foras.

Mnesilochus, Pistoclerus, adulescentes [MN.] Petulans, protervo iracundo animo, indomito incogitato,

sine modo et modestia sum, sine bono iure atque honore, incredibilis imposque animi, ínamabílis inlepidus vivo, 615 malevolente ingenio natus. Postremo id mihi est quod volo

ego esse aliis. Credibile hoc est? Nequior nemost neque indignior quoi di bene faciant neque quem quisquam homo aut amet aut adeat. 620 inimicos quam amicos aequumst me habere; 620a malos quam bonos par magis me iuvare. omnibus probris quae improbis viris digna sunt, dignior nullus est homo, qui patri reddidi omne aurum, amans, quod fuit prae manu. Sumne ego homo miser? 624a perdidi me atque operam Chrysali. 625 [PI.] Consolandus hic mist, ibo ad eum. Mnesiloche, quid fit? [MN.] Perii! 626a [PI.] Di melius faciant! [MN.] Perii! [PI.] Non taces, insipiens? [MN.] Taceam? 627a [PI.] Sanu’ sati’ non es. [MN.] Perii! Multa mala mi in pectore nunc 628a acria atque acerba eveniunt: criminin me habuisse fidem? 629a Inmerito tibi iratu’ fui. 630 [PI.] Heiia, bonum habe animum. [MN.] Unde habeam? 630a Mortuu’ pluri’ pretist quam ego sum. [PI.] Militis parasitu’ modo 631a venerat aurum petere hinc: eum ego meis dictis malis 632a his foribus atque hac reppuli, reieci hominem. [MN.] Quid mihi id prodest? Quid faciam nihil habeo miser: 634a ille quidem hanc abducet, scio. 635 [PI.] Si mihi st, non pollicear. [MN.] Scio, dares: novi. Sed nisi ames, non habeam tibi fidem tantam; nunc agitas sat tute tuarum rerum: egone ut opem mihi ferre putem posse inopem te? [PI.] Tace modo: deu’ respiciet nos aliquis. [MN.] Nugae! 640 [PI.] Mane. [MN.] Quid est? [PI.] Tuam copiam 640a eccam Chrysalum video.

Crysalus, servos; Mnesilocus, Pistoclerus, adulescentes [640b] [CH.] Hunc hominem decet auro expendi, huic decet statua statui ex auro: nam duplex hodie facinus feci, duplicibus spoliis sum affectus. Erum maiorem meum ut ego hodie lusi lepide, ut ludificatust! Callidum senem callidis dolis compuli et perpuli mi omnia uti crederet. 645 Nunc amanti ero filio senis, quicum ego bibo, quicum edo et amo, regias copias aureasque optuli ut domo sumeret neu foris quaereret. Non mihi isti placent Parmenones, Syri 650 qui duas aut tris minas auferunt eris. Nequius nihil est quam egens consili servus nisi habet 652a multipotens pectus: ubicumque usus siet pectore expromat suo. Nullus frugi esse potest homo 655 nisi qui et bene facere et male tenet. Improbis cum improbu’ sit, arpaget furibus, furetur quod queat: versipellem frugi convenit esse hominem

pectus cui sapit: 660-61 bonu’ sit bonis, malu’ sit malis, utcumque res sit ita animum | habeat. Sed lubet scire quantum aurum erus sibi dempsit et quid suo reddidit patri. 665 Si frugi est, Herculem fecit ex patre: decimam partem ei dedit, sibi novem abstulit. Sed quem quaero optume eccu obviam mihi est. Numqui nummi exciderunt, ere, tibi quod sic terram optuere? 668a Quid vos maestos tam tristisque esse conspicor? 670 Non placet nec temerest etiam. Quin mi respondetis? [] Chrysale, occidi. [CH.] Fortassis tu auri dempsisti parum? [MN.] Qua, malum, parum? immo vero nimio minu’ multo quam parum. [] † Quid igitur stulte, quoniam occasio ad eam rem fuit † mea virtute parta ut quantum velles tantum sumeres, 675 sic hoc digitulis duobus sumebas primoribus? An nescibas quam eius modi homini raro tempus se daret? [MN.] Erras. [CH.] At quidem tute errasti, cum parum immersti ampliter. [MN.] Pol tu quam nunc me accuses magi’, si magi’ rem noveris. Occidi. [] Animus iam istoc dicto plus praesagitur mali. 680 [MN.] Perii. [CH.] Quid ita? [MN.] Quia patri omne cum ramento reddidi. [CH.] Reddidisti? [MN.] Reddidi. [CH.] Omnene? [MN.] Oppido. [CH.] Occisi sumus. Qui in mentem venit tibi istuc facinus facere tam malum? [MN.] Bacchidem atque hunc suspicabar propter crimen, Chrysale, mi male consuluisse: ob eam rem omne aurum iratus reddidi 685 meo patri. [CH.] Quid, ubi reddebas aurum, dixisti patri? [MN.] Me id aurum accepisse extemplo ab hospite Archidemide. [CH.] Em, istoc dicto † dedisti † | hodie in cruciatum Crusalum: nam ubi me aspiciet, ad carnuficem rapiet continuo senex. [MN.] Ego patrem exoravi… [CH.] Nempe ergo hoc ut faceret quod loquor? 690 [MN.] Immo tibi ne noceat neu quid ob eam rem suscenseat; atque aegre impetravi. Nunc hoc tibi curandum est, Chrysale. [CH.] Quid vis curem? [MN.] Ut ad senem etiam alteram facias viam. Compara, fabricare, finge quod lubet, conglutina, ut senem hodie doctum docte fallas aurumque auferas. 695 [CH.] Vix videtur fieri posse. [MN.] Perge, ac facile ecfeceris. [CH.] Quam, malum, facile, quem mendaci prendit manufesto modo? quem si orem ut mihi nihil credat, id non ausit credere. [MN.] Immo si audias quae dicta dixit me adversum tibi. [CH.] Quid dixit? [MN.] Si tu illum solem sibi solem esse diceres, 700 se illum lunam credere esse et noctem qui nunc est dies. [CH.] Emungam hercle hominem probe hodie, ne id nequiquam dixerit. [PI.] Nunc quid nos vis facete? [CH.] Enim nihil est, nisi ut ametis impero. Ceterum quantum lubet me poscitote aurum: ego dabo. Quid mihi refert Chrysalo esse nomen, nisi factis probo? 705 Sed nunc quantillum usust auri tibi, Mnesiloche? dic mihi. [MN.] Militi nummis ducentis iam usus est pro Bacchide. [CH.] Ego dabo. [MN.] Tum nobis opus est sumptu. [CH.] Ah, placide volo

unumquidque agamus: hoc ubi egero, tum istuc agam. De ducentis nummis primum intendam ballistam in senem; 710 ea ballista si pervortam turrim et propugnacula, recta porta invadam extemplo in oppidum antiquum et vetus: si id capso, geritote amicis vostris aurum corbibus, sicut animus sperat. [PI.] Apud test animus noster, Chrysale. [CH.] Nunc tu abi intro, Pistoclere, ad Bacchidem, atque ecfer cito… 715 [PI.] Quid? [CH.] Stilum, ceram et tabellas, linum. [PI.] Iam faxo hic erunt.– [] Quid nunc es facturus? id mihi dice. [CH.] Coctumst prandium? Vos duo eritis atque amica tua erit tecum tertia? [MN.] Sicut dicis. [CH.] Pistoclero nulla amica est? [MN.] Immo adest. Alteram ille amat sororem, ego alteram, ambas Bacchides. 720 [CH.] Quid tu loquere? [MN.] Hoc, ut futuri sumus. [CH.] Ubist biclinium vobis stratum? [MN.] Quid id exquaeris? [CH.] Res itast, dici volo. Nescis quid ego acturus sim neque facinus quantum exordiar. [MN.] Cedo manum ac subsequere propius me ad fores. Intro inspice. 724-25 CH. Evax, nimi’ bellus atque ut esse maxume optabam locus. [PI.] Quae imperavisti. Imperatum bene bonis factum ilicost. [CH.] Quid parasti? [PI.] Quae parari tu iussisti | omnia. [CH.] Cape stilum propere et tabellas tu as tibi. [MN.] Quid postea? [CH.] Quod iubebo scribito istic. Nam propterea volo 730 scribere ut pater cognoscat literas quando legat. scribe. [MN.] Quid scribam? [CH.] Salutem tuo patri verbis tuis. [PI.] Quid si potius morbum mortem scribat? id erit rectius. [CH.] Ne interturba. [] Iam imperatum in cera inest. [CH.] Dic quem ad modum. [MN.] ‘Mnesilochus salutem dicit suo patri.’ [CH.] Adscribe hoc cito: 735 ‘Chrysalus mihi usque quaque loquitur nec recte, pater, quia tibi aurum reddidi et quia non te defrudaverim.’ [PI.] Mane dum scribit. [CH.] Celerem oportet esse amatoris manum. [PI.] At quidem hercle es perdundum magis quam ad scribundum cita. [MN.] Loquere, hoc scriptumst. [CH.] ‘Nunc, pater mi, proin tu ab eo ut caveas tibi: 740 sycophantias componit, aurum ut abs te auferat; et profecto se ablaturum dixit.’ Plane adscribito. [MN.] Dic modo. [CH.] ‘Atque id pollicetur se daturum aurum mihi quod dem scortis quodque in lustris comedim et congraecer, pater. Sed, pater, vide ne tibi hodie verba det: quaeso cave.’ 745 [MN.] Loquere porro. [CH.] Adscribedum etiam… [MN.] Loquere quid scribam modo. [CH.] ‘Sed, pater, quod promisisti mihi, te quaeso ut memineris, ne illum verberes; verum apud te vinctum adservato domi.’ Cedo tu ceram ac linum actutum. Age obliga, obsigna cito. [MN.] Obsecro, quid istis ad istunc usust conscriptis modum, 750 ut tibi ne quid credat atque ut vinctum te adservet domi? CH Quia mihi ita lubet. Potin ut cures te atque ut ne parcas mihi? Mea fiducia opu’ conduxi et meo periclo rem gero.

[MN.] Aequum dicis. [CH.] Cedo tabellas. [MN.] Accipe. [CH.] Animum advortite.

Mnesiloche et tu, Pistoclere, iam facite in biclinio 755 cum amica sua uterque acubitum eatis, ita negotiumst, atque ibidem ubi nunc sunt lecti strati potetis cito. [PI.] Numquid aliud? [CH.] Hoc atque etiam: ubi erit accubitum semel, ne quoquam exsurgatis, donec a me erit signum datum. [PI.] O imperatorem probum! [] Iam bis bibisse oportuit. 760 [PI.] Fugimus.– [CH.] Vos vostrum curate officium, ego efficiam meum.

Chrysalus, servus [CH.] Insanum magnum molior negotium,

metuoque ut hodie possiem emolirier. Sed nunc truculento mihi atque saevo usus senest; nam non conducit huïc sycophantiae 765 senem tranquillum | esse ubi me aspexerit. Versabo ego illun hodie, si vivo, probe. Tam frictum ego illum reddam quam frictum est cicer. Adambulabo ad ostium, ut, quando exeat, extemplo advenienti ei tabellas dem in manum.

Nicobulus, senex; Crysalus, servos 770 [NI.] Nimio illaec res est † mane † dividiae mihi, supterfugisse sic mihi hodie Chrysalum. [CH.] Salvos sum, iratus est senex. Nunc est mihi adeundi ad hominem tempus. [NI.] Quis loquitur prope? Atque hicquidem, opinor, Chrysalust. [CH.] Accessero. 775 [NI.] Bone serve, salve. Quid fit? quam mox navigo in Ephesum, ut aurum repetam ab Theotimo domum? Taces? per omnis deos adiuro ut, ni meum gnatum tam amem atque ei facta cupiam quae is velit, 779-80 ut tua iam virgis latera lacerentur probe ferratusque in pistrino aetatem conteras. Omnia rescivi scelera ex Mnesilocho tua. [CH.] Men criminatust? optimest: ego sum malus, ego sum sacer, scelestus. Specta rem modo; 785 ego verbum faciam . [NI.] Etiam, carnufex, minitare? [CH.] Nosces tu illum actutum quali’ sit. Nunc hasc’ tabellas ferre me iussit tibi. Orabat, quod istic esset scriptum ut fieret. [NI.] Cedo. [CH.] Nosce signum. [NI.] Novi, ubi ipse est? [CH.] Nescio. 790 Nihil iam me oportet scire, oblitus sum omnia. Scio me esse servum: nescio etiam id quod scio. Nunc ab trasenna hic turdus lumbricum petit; pendebit hodie pulcre, ita intendi tenus. [NI.] Manedum parumper; iam exeo ad te, Chrysale.– 795 [CH.] Ut verba mihi dat, ut nescio quam rem gerat! Servos arcessit intus qui me vinciant. Bene navis agitur, pulcre haec confertur ratis. Sed conticiscam, nam audio aperiri fores.

Nicobulus, senex; Chrysalus, servus; , lorarius [NI.] Constringe tu illi, Artamo, actutum manus. 800 [CH.] Quid feci? [NI.] Inpinge pugnum si muttiverit.

Quid hae locuntur litterae? [CH.] Quid me rogas?

Ut ab illo accepi, ad te obsignatas attuli. [NI.] Eho tu, † loquitatusne es gnato meo †

male per sermonem, quia mihi id aurum reddidit, 805 et te dixisti id aurum ablaturum tamen per sycophantiam? [CH.] Egone istuc dixi? [NI.] Ita. [CH.] Quis homost qui dicat me dixisse istuc? [NI.] Tace, nullus homo dicit: hae tabellae te arguunt, quam tu attulisti. Em hae te vinciri iubent. 810 [CH.] Aha, Bellorophontem [iam] tuu’ me fecit filius: egomet tabellas tetuli ut vincirer. Sine. [NI.] Propterea hoc facio ut suadeas gnato meo ut pergraecetur tecum, tervenefice. [CH.] O stulte, stulte, nescis nunc venire te; 815 atque in eopse adstas lapide, ut praeco praedicat. [NI.] Responde: quis me vendit? [CH.] Quem di diligunt adulescens moritur, dum valet, sentit, sapit. Hunc si ullus deus amaret, plus annis decem, plus iam viginti mortuum esse oportuit: 820 † terrae odium † ambulat, iam nihil sapit nec sentit, tantist quantist fungus putidus. [NI.] Tun terrae me odium esse autumas? abducite hunc intro atque adstringite ad columnam fortiter. Numquam auferes binc aurum. [CH.] Atqui iam dabis. 825 [NI.] Dabo? [CH.] Atque orabis me quidem ultro ut auferam, qum illum rescisces criminatorem meum quanto in periclo et quanta in permitie siet. Tum libertatem Chrysalo largibere; ego adeo numquam accipiam. [NI.] Dic, scelerum caput, 830 dic, quo in periclo est meu’ Mnesilochus filius? [CH.] Sequere hac me, faxo iam scies. [NI.] Quo gentium? [CH.] Tris unos passus. [NI.] Vel decem. [CH.] Agedum tu, Artamo, forem hanc pauxillum aperi; placide, ne crepa; sat est. Accede huc tu. Viden convivium? 835 [NI.] Video exadvorsum Pistoclerum et Bacchidem. [CH.] Qui sunt in lecto illo altero? [NI.] Interii miser. [CH.] Novistine hominem? [NI.] Novi. [CH.] Dic sodes mihi, bellan videtur specie mulier? [NI.] Admodum. [CH.] Quid illam, meretricemne esse censes? [NI.] Quippini? 840 [CH.] Frustra’s. [NI.] Quis igitur obsecrost? [CH.] Inveneris: ex me quidem hodie numquam fies certior.

Cleomachus, miles; Nicobulus, senex; Chrysalus, servos [CL.] Meamne hic Mnesilochus, Nicobuli filius,

per vim ut retineat mulierem? quae haec factiost? [NI.] Quis illest? [CH.] Per tempus hic venit miles mihi. 845 [CL.] Non me arbitratur militem sed mulierem,

qui me meosque non queam defendere.

Nam neque Bellona mihi umquam neque Mars creduat, ni illum exanimalem faxo, si convenero, nive exheredem fecero vitae suae. 850 [NI.] Chrysale, quis ille est qui minitatur filio? [CH.] Vir hic est illius mulieris quacum accubat. [NI.] Quid, vir? [CH.] Vir, inquam. [NI.] Nupta est illa, obsecro? [CH.] Scies haut multo post. [NI.] Oppido interii miser. [CH.] Quid nunc? scelestus tibi videtur Chrysalus? 855 Age nunc vincito me, auscultato filio. Dixin tibi ego illum inventurum te quali’ sit? [NI.] Quid nunc ego faciam? [CH.] Iube sis me exsolvi cito; nam ni ego exsolvor, iam manufesto hominem opprimet. [CL.] Nihil est lucri quod me hodie facere mavelim, 860 quam illum cubantem cum illa opprimere, ambo ut necem. [CH.] Audin quae loquitur? quin tu me exsolvi iubes? [NI.] Exsolvite istum. Perii, pertimui miser. [CL.] Tum illam, quae corpus publicat volgo suum, faxo se haud dicat nactam quem derideat. 865 [CH.] Pacisci cum illo paulula pecunia potes. [NI.] Pacisce ergo, obsecro, quid tibi lubet, dum ne manufesto hominem opprimat nive enicet. [CL.] Nunc nisi ducenti Philippi redduntur mihi, iam illorum ego animam amborum exsorbebo oppido. 870 [] Em illoc pacisce, si potest; [NI.] perge, obsecro, pacisce quidvis. [CH.] Ibo et faciam sedulo. Quid clamas? [CL.] Ubi erus tuus est? [CH.] Nusquam. Nescio. Vis tibi ducentos nummos iam promittier, ut ne clamorem hic facias neu convicium? 875 [CL.] Nihil est quod malim. [CH.] Atque ut tibi mala multa ingeram? [CL.] Tuo arbitratu. [NI.] Ut subblanditur carnufex! [CH.] Pater hic Mnesilochi est; sequere, is promittet tibi. Tu aurum rogato; ceterum verbum sat est. [NI.] Quid fit? [CH.] Ducentis Philippis rem pepigi. [NI.] Ah, salus 880 mea, servasti me. Quam mox dico ‘dabo?’ [CH.] Roga hunc tu, tu promitte huic. [NI.] Promitto, roga. [CL.] Ducentos nummos aureos Philippos probos dabin? [CH.] ‘Dabuntur’ inque. Responde. [NI.] Dabo. [CH.] Quid nunc, inpure? numquid debetur tibi? 885 Quid illi molestu’s? quid illum morte territas? Et ego te et ill’ mactamus infortunio: si tibi est machaera, at nobis vervinast domi: qua quidem te faciam, si tu me inritaveris, confossiorem soricina nenia. 890 Iam dudum hercle equidem sentio suspicio quae te sollicitet: eum esse cum illa muliere. [CL.] Immo est quoque. [CH.] Ita me Iuppiter, Iuno, Ceres, Minerva, Lato, Spes, Opis, Virtus, Venus, Castor, Polluces, Mars, Mercurius, Hercules, 895 Submanus, Sol, Satumus deique omnes ament, ut ille cum illa neque cubat neque ambulat

neque ausculatur neque illud quod dici solet. [NI.] Ut iurat! servat me ille suis periuriis. [CL.] Ubi nunc Mnesilochus ergost? [CH.] Rus misit pater.

900 Illa autem in arcem abiit aedem visere Minervae. Nunc apertast. I, vise estne ibi. [CL.] Abeo ad forum igitur. [] Vel hercle | in malam crucem. [CL.] Hodie exigam aurum hoc? [CH.] Exige ac suspende te: ne supplicare censeas, nihili | homo.– 905 Ille est amotus. Sine me (per te, ere, opsecro deos immortalis) ire huc intro ad filium. [NI.] Quid eo introibis? [CH.] Ut eum dictis plurumis castigem, cum haec sic facta ad hunc faciat modum. [NI.] Immo oro ut facias, Chrysale, et ted opsecro, 910 cave parsis in eum dicere. [CH.] Etiam me mones? Satin est si plura ex me audiet hodie mala quam audivit umquam Clinia ex Demetrio?– [NI.] Lippi illi oculi servus est simillimus: si non est, nolis esse neque desideres; 915 si est, abstinere quin attingas non queas. Nam ni illic hodie forte fortuna hic foret, miles Mnesilochum cum uxore opprimeret sua atque obtruncaret moechum manufestarium. Nunc quasi ducentis Philippeis emi filium, 920 quos dare promisi militi: quos non dabo temere etiam priu’ quam filium convenero. Nunquam edepol quicquam temere credam Chrysalo; verum lubet etiam mi has perlegere denuo: aequomst tabellis consignatis credere.

Chrysalus, servos 925 [CH.] Atridae duo fratres cluent fecisse facinus maxumum, quom Priami patriam Pergamum, divina moenitum manu, armis, equis, exercitu atque eximieis bellatoribus milli cum numero navium decumo anno post subegerunt. Non pedibus termento fuit praeut ego erum expugnabo meum 930 sine classe sineque exercitu et tanto numero militum. Cepi, expugnavi amanti erili filio aurum ab suo patre. Nunc prius quam | huc senex venit, lubet lamentari dum exeat. O Troia, o patria, o Pergamum, o Priame periisti senex, qui misere male mulcabere quadringentis Philippis aureis. 935 Nam ego has tabellas obsignatas, consignatas quas fero non sunt tabellae, sed equos quem misere Achivi ligneum. Epiust Pistoclerus: ab eo haec sumpta; Mnesilochus Sino est relictus, ellum non in busto Achilli, sed in lecto accubat; Bacchidem habet secum: | ille olim habuit ignem qui signum daret, 940 hic ipsum exurit; ego sum Ulixes, cuiius consilio haec gerunt. Tum quae hic sunt scriptae litterae, hoc in equo | insunt milites armati atque animati probe. Ita res successit mihi usque adhuc. Atque hic equus non in arcem, verum in arcam faciet impetum: exitium, excidium, exlecebra fiet hic equos hodie auro senis. 945 Nostro seni huic stolido, ei profecto nomen facio ego Ilio; miles Menelaust, ego Agamemno, | idem Ulixes Lartius, Mnesilochust Alexander, qui erit exitio rei patriae suae; is Helenam avexit, cuia causa nunc facio obsidium Ilio. Nam illi itidem Ulixem audivi, ut ego sum, fuisse et audacem et malum: 950 dolis ego deprensus sum, ill’ mendicans paene inventus interit dum ibi exquirit facta Iliorum; adsimiliter mihi hodie optigit. Vinctus sum, sed dolis me exemi: item se ille servavit dolis. Ilio tria fuisse audivi fata quae illi forent exitio: signum ex arce si periisset; alterum etiamst Troili mors; 955 tertium, cum portae Phrygiae limen superum scinderetur paria item tria eis tribus sunt fata nostro huic Ilio. Nam dudum primo ut dixeram nostro seni mendacium

et de hospite et de auro et de lembo, ibi signum ex arce iam abstuli. Iam duo restabant fata tunc, nec magis id ceperam oppidum. 960 Post ubi tabellas ad senem detuli, ibi occidi Troilum, cum censuit Mnesilochum cum uxore esse dudum militis. Ibi vix me exsolvi: atque id periclum adsimilo, Ulixem ut praedicant cognitum ab Helena esse proditum ecubae; sed ut olim ille se blanditiis exemit et persuasit se ut amitteret, 965 item ego dolis de illo extuli e periclo et decepi senem. Poste cum magnifico milite, urbis verbis qui inermus capit, conflixi atque hominem reppuli; dein pugnam conserui seni: eum ego adeo uno mendacio devici, uno ictu extempulo cepi spolia. Is nunc ducentos nummos Philippos militi, 970 quos dare se promisit, dabit. Nunc alteris etiam ducentis usus est, qui dispensentur. Ilio capto, ut sit mulsum qui triumphent milites. Sed Priamus hic multo illi praestat: non quinquaginta modo, quadringentos filios habet atque equidem omnis lectos sine probro: 975 eos ego hodie omnis contruncabo duobus solis ictibus. Nunc Priamo nostro si est quis emptor, comptionalem senem vendam ego, venalem quem habeo, extemplo ubi oppidum expugnavero. Sed Priamum adstantem eccum ante portam video. Adibo atque adloquar.

[NI.] Cuianam vox prope me sonat? [CH.] O Nicobule! [NI.] Quid fit?

980 Quid quod te misi, ecquid egisti? [CH.] Rogas? congredere! [NI.] Gradior. [CH.] Optumu’ sum orator: ad lacrumas coegi | hominem castigando maleque dictis, quae quidem quivi comminisci. [NI.] Quid ait? [CH.] Verbum nullum fecit: lacrumans tacitus auscultabat quae ego loquebar; tacitus conscripsit tabellas, obsignatas mihi has dedit. 985 Tibi me iussit dare, sed metuo ne idem cantent quod priores: nosce signum. Estne eiius? [NI.] Novi. Libet perlegere has. [CH.] Perlege. Nunc superum limen scinditur, nunc adest exitium | Ilio, turbat equo’ lepide ligneus. [NI.] Chrysale, ades dum ego has perlego. 988a [CH.] Quid me tibi adesse opus est? [NI.] Volo ut quod iubeo facias ut scias quae hic scripta sient. 989a [CH.] Nihil moror neque scire volo. 990 [NI.] Tamen ades. [CH.] Quid opus? [NI.] Taceas: 990a quod iubeo, id facias. [CH.] Adero. [NI.] Eugae, litteras minutas! [CH.] Qui quidem videat parum, verum qui sati’ videat, grandes sati’ sunt. [NI.] Animum advortito igitur. [CH.] Nolo inquam. [NI.] At volo inquam [CH.] Quid opust? [NI.] At enim id quod te iubeo facias. [CH.] Iustumst tuus tibi servus tuo arbitratu serviat. 995 [NI.] Hoc age sis nunc iam. [CH.] Ubi lubet, recita: aurium operam tibi dico. [NI.] Cerae quidem haud parsit neque stilo; 996a sed quicquid est, pellegere certumst. ‘Pater, ducentos Philippos quaeso Chrysalo da, si esse salvum vis me aut vitalem tibi.’

Malum quidem hercle magnum. [CH.] Tibi dico. [NI.] Quid est? 1000 [CH.] Non priu’ salutem scripsit? [NI.] Nusquam sentio. [CH.] Non dabis, si sapies; verum si das maxume,

ne ille alium gerulum quaerat, si sapiet, sibi: nam ego non laturus sum, si iubeas maxume. Sat sic suspectus sum, cum careo noxia. 1005 [NI.] Ausculta porro, dum hoc quod scriptumst pellego. [CH.] Inde a principio iam inpudens epistula est. [NI.] ‘Pudet prodire me ad te in conspectum, pater: tantum flagitium, te scire audivi meum, quod cum peregrini cubui uxore militis.’ 1010 Pol haud derides; nam ducentis aureis Philippis redemi vitam ex flagitio tuam. [CH.] Nihil est illorum quin ego illi dixerim. [NI.] ‘Stulte fecisse fateor. Sed quaeso, pater, ne me, in stultitia si deliqui, deseras. 1015 Ego animo cupido atque oculis indomitis fui; persuasumst facere quoius me nunc facti pudet.’ Priu’ [te] cavisse ergo quam pudere aequom fuit. [CH.] Eadem istaec verba dudum illi dixi omnia. [NI.] ‘Quaeso ut sat habeas id, pater, quod Chrysalus 1020 me obiurgavit plurumis verbis malis, et me meliorem fecit praeceptis suis, ut te ei habere gratiam aequum sit bonam.’ [CH.] Estne istuc istic scriptum? [NI.] Em specta, tum scies. [CH.] Ut qui deliquit supplex est ultro omnibus! 1025 [NI.] ‘Nunc si me fas est opsecrare aps te, pater, da mihi ducentos nummos Philippos, te opsecro.’ [CH.] Ne unum quidem hercle, si sapis. [NI.] Sine perlegam. ‘Ego ius iurandum verbis conceptis dedi, daturum id me hodie mulieri ante vesperum, 1030 priu’ quam a me abire. Nunc, pater, ne perierem cura atque abduce me hinc ab hac quantum potest, quam propter tantum damni feci et flagiti. Cave tibi ducenti nummi dividiae fuant; sescenta tanta reddam si vivo tibi. 1035 Vale atque haec cura.’ Quid nunc censes, Chrysale? [CH.] Nihil ego tibi hodie consili quicquam dabo, neque ego haud committam ut, si quid peccatum siet, fecisse dicas de [me] mea sententia. Verum, ut ego opinor, si ego in istoc sim loco, 1040 dem potius aurum quam illum corrumpi sinam. Duae condiciones sunt: utram tu accipias vide: vel ut aurum perdas vel ut amator perieret. Ego neque te iubeo neque veto neque suadeo. [NI.] Miseret me illius. [CH.] Tuus est, non mirum facis. 1045 Si plus perdundum sit, periisse suaviust quam illud flagitium volgo dispalescere. [NI.] Ne ille edepol Ephesi multo mavellem foret, dum salvus esset, quam revenisset domum. Quid ego istic? quod perdundumst properem perdere! 1050 Binos ducentos Philippos iam intus ecferam, et militi quos dudum promisi miser et istos. Mane istic, iam exeo ad te, Chrysale.– [CH.] Fit vasta Troia, scindunt proceres Pergamum. Scivi ego iam dudum fore me exitium Pergamo. 1055 Edepol qui me esse dicat cruciatu malo dignum, ne ego cum illo pignus haud ausim dare; tantas turbellas facio. Sed crepuit foris: ecfertur praeda ex Troia. Taceam nunciam. [NI.] Cape hoc tibi aurum, Chrysale, i, fer filio. 1060 Ego ad forum autem hinc ibo, ut solvam militi.

[CH.] Non equidem accipiam. Proin tu quaeras qui feras.

Nolo ego mihi credi. [NI.] Cape vero, odiose facis. [CH.] Non equidem capiam. [NI.] At quaeso. [CH.] Dico ut res se habet. [NI.] Morare. [CH.] Nolo, inquam, aurum concredi mihi,

1065 vel da aliquem qui servet me. [NI.] Ohe, odiose facis. [CH.] Cedo, si necesse est. [NI.] Cura hoc. Iam ego huc revenero.– [CH.] Curatum est… esse te senem miserrumum. Hoc est incepta efficere pulcre: † veluti mihi † evenit ut ovans praeda onustus † incederem: † 1070 salute nostra atque urbe capta per dolum domum reduco | integrum omnem exercitum. Sed, spectatores, vos nunc ne miremini quod non triumpho: pervulgatum est, nihil moror; verum tamen accipientur mulso milites. 1075 Nunc hanc praedam omnem iam ad quaestorem deferam.–

[ACTUS V]

Philoxenus, senex [PH.] Quam magis in pectore meo foveo quas meu’ filiu’ turbas turbet,

quam se ad vitam et quos ad mores praecipitem inscitu’ capessat, magi’ curae est magi’que adformido ne is pereat neu corrumpatur. Scio, fui ego illa aetate et feci illa omnia, sed more modesto; 1080 duxi, habui scortum, potavi, dedi, donavi, ed enim id raro. Neque placitant mores quibu’ video volgo gnatos esse parentes: ego dare me [ludum] meo gnato institui ut animo obsequium sumere possit; aequum esse puto, sed nimi’ nolo desidiae ei dare ludum. Nunc Mnesilochum, quod mandavi, 1084a viso ecquid eum ad virtutem aut ad 1085 frugem opera sua conpulerit, sic ut eum, si convenit, scio fe1086a cisse: eost ingenio natus.

Nicobulus, Philoxenus, senes II [NI.] Quicumque ubi sunt, qui fuerunt quique futuri sunt posthac

stulti, stolidi, fatui, fungi, bardi, blenni, buccones, solus ego omnis longe antideo stultitia et moribus indoctis. 1090 Perii, pudet: hoccine me aetatis ludos bis factum esse indigne? Magi’, quam id reputo, tam magis uror quae meu’ filiu’ turbavit. Perditu’ sum atque [etiam] eradicatus sum, omnibus exemplis excrucior. Omnia me mala consectantur, omnibus exitiis interii. Chrysalu’ me hodie laveravit, Chrysalu’ me miserum spoliavit: 1095 is me scelus auro usque attondit dolis doctis indoctum ut lubitumst. Ita miles memorat meretricem esse eam quam ille uxorem esse aiebat, omniaque ut quidque actum est memoravit: eam sibi hunc annum conductam, relicuom id auri factum quod ego ei stultissimus homo promisissem: hoc, hoc est quod peracescit; hoc est demum quod percrucior, 1100 me hoc aetatis ludificari, immo edepol sic ludos factum cano capite atque alba barba miserum me auro esse emunctum. Perii, hoc servum meum non nauci facere esse ausum! atque ego, si alibi plus perdiderim, minus aegre habeam minu’que id mihi damno ducam. [PH.] Certo hic prope me mihi nescioquis loqui visust; sed quem video? 1105 Hicquidem pater Mnesilochi. [NI.] Eugae, socium aerumnai et mei mali video. Philoxene, salve. [PH.] Et tu. Unde agis? [NI.] Unde homo miser atque infortunatus. [PH.] At pol ego ibi sum, esse ubi miserum hominem decet atque infortunatum. [NI.] Igitur pari fortuna, aetate ut sumus, utimur. [PH.] Sic est. Sed tu. Quid tibist? [NI.] Pol mihi par, idem est quod tibi. 1110 PH. Numquidnam ad filium haec aegritudo adtinet? [NI.] Admodum. [PH.] Idem mihi morbus in pectorest. [NI.] At mihi Chrysalus optumus homo perdidit filium, me atque rem omnem meam. PH Quid tibi ex filio nam, obsecro, aegrest? [NI.] Scies, 1115 id: perit cum tuo, [atque] ambo aeque amicas habent. [PH.] Qui scis? [NI.] Vidi. [PH.] Ei mihi, disperii. [NI.] Quid dubitamus pultare atque huc evocare ambos foras? [PH.] Haud moror. [NI.] Heus Bacchis, iube sis actutum aperiri fores nisi mavoltis fore et postis comminui securibus.

Bachides, II; , senes II 1120 [BA.] Quis sonitu ac tumultu tanto [nomine] nominat me atque pultat aedis? [NI.] Ego atque hic. [BA.] Quid hoc est negoti?

1121a Nam, amabo, quis has huc ovis adegit? [NI.] Ovis nos vocant pessumae. [SO.] Pastor harum dormit, quom haec eunt [sic] a pecu balitantes. [BA.] At pol nitent, haud sordidae videntur ambae. 1125 [SO.] Attonsae hae quidem ambae usque sunt. [PH.] Ut videntur deridere nos! [NI.] Sine suo usque arbitratu. [BA.] Rerin ter in anno tu has tonsitari? [SO.] Pol hodie altera iam bis detonsa certo est. Vetulae sunt † thimiamae †. [SO.] At bonas fuisse credo. 1130 [BA.] Viden limulis, opsecro, ut intuentur? Ecastor sine omni arbitror malitia esse. [PH.] Merito hoc nobis fit, qui quidem huc venerimus. [BA.] Cogantur quidem intro. [SO.] Haud scio quid eo opus sit, quae nec lact’ nec lanam ullam habent. Sic sine astent. 1135 Exsolvere quanti fuere, omnis fructus iam illis decidit. Non vides ut palantes [solae liberae] grassentur? quin aetate credo esse mutas: ne balant quidem, cum a pecu cetero absunt. stultae atque haud malae videntur. 1140 [BA.] Revortamur intro soror. [NI.] Ilico ambae 1140a manete: hae oves volunt vos. [SO.] Prodigium hoc quidemst: humana nos voce appellant oves. [PH.] Haec oves vobis malam rem magnam, quam debent, dabunt. [BA.] Si quam debes, te condono: tibi habe, numquam aps te petam. Sed quid est quapropter nobis vos malum minitamini? 1145 [PH.] Quia nostros agnos conclusos istic esse aiunt duos. [NI.] Et praeter eos agnos meus est istic clam mordax canis: qui nisi nobis producuntur iam atque emittuntur foras, arietes truces nos erimus, iam in vos incursabimus. [BA.] Soror, est quod te volo secreto. [SO.] Eho, amabo. [NI.] Quo illae abeunt? 1150 BA. Senem illum tibi dedo ulteriorem lepide ut lenitum reddas; ego ad hunc iratum adgrediar possumu’ nos hos intro inlicere hoc. [SO.] Meum pensum ego lepide accurabo: quam odiosum est mortem amplexari! [BA.] Facito ut facias. [SO.] Taceas. Tu tuum facito: ego quod dixi haud mutabo. [NI.] Quid illaec illic in consilio duae secreto consultant? 1155 [PH.] Quid ais tu, homo? [NI.] Quid me vis? 1155a [PH.] Pudet dicere me tibi quiddam. [NI.] Quid est quod pudeat? [PH.] Sed amico homini tibi quod volo credere certumst. Nihili sum. [NI.] Istuc iam pridem scio. Sed qui nihili’s? i d memora. [PH.] Tactus sum vehementer visco; cor stimulo foditur. [NI.] Pol tibi multo aequius est coxendicem. 1160 Sed quid istuc est? etsi iam ego ipsu quid sit probe scire puto me; verum audire etiam ex te studeo. [PH.] Viden hanc? [NI.] Video. [PH.] Haud mala est mulier. [NI.] Pol vero ista mala et tu nihili. [PH.] Quid multa? Ego amo. [NI.] An amas? Nai; gavr. [NI.] Tun, homo putide, amator istac fieri aetate audes? [PH.] Qui non? [NI.] Quia flagitium est.

[PH.] Quid opus verbis? meo filio non sum iratus, 1165 netque te tuost aequum esse iratum: si amant, sapienter faciunt. [BA.] Sequere hac. [NI.] Eunt eccas tandem probriperlecebrae et persuastrices. Quid nunc? etiam redditi’ nobis filios et servum? an ego experior tecum vim maiorém? [PH.] Abin hinc? Non homo tuquidem es, qui istoc pacto tam lepidam inlepide appelles. 1170 [BA.] Senex optume quantust in terra, sine hoc exorare aps te, ut istuc delictum desistas tanto opere ire oppugnatum. [NI.] Ni abeas, quamquam tu bella es, malum tibi magnum dabo iam. [BA.] Patiar, non metuo ne quid mihi doleat quod ferias. [NI.] Ut blandiloquast! Ei mihi, metuo. [SO.] Hic magi’ tranquillust. 1175 Ei hac mecum intro atque ibi si quid vis filium concastigato. [NI.] Abin a me, scelu’? [BA.] Sine, mea pietas, te exorem. [NI.] Exores tu me? [SO.] Ego quidem ab hoc certe exorabo. [PH.] Immo ego te oro ut me intro abducas. [SO.] Lepidum te! [PH.] At scin quo pacto me ad te intro abducas? Mecum ut sis. [PH.] Omnia quae cupio commemoras. 1180 [NI.] Vidi ego nequam homines, verum te neminem deteriorem. [PH.] Ita sum. [BA.] Ei hac mecum intro, ubi tibi sit lepide victibu’, vino atque unguentis. [NI.] Sati’, sati’ iam vostrist convivi, me nihil paenitet ut sim acceptus: quadringentis Philippis filiu’ me et Chrysalu’ circumduxerunt. 1183a Quem quidem ego ut non excruciem alterum tantum auri non meream. [BA.] Quid tandem si dimidium auri 1185 redditur, in’ hac mecum intro? atque ut eis delicta ignoscas. [PH.] Faciet. [NI.] Minime, nolo, nihil moror, sine sic: malo illos ulcisci ambo. [PH.] Etiam tu, homo nihili? quod dei dant boni cave culpa tua amissis: dimidium auri datur: accipias potesque et scortum accumbas. 1189-90NI. Egon ubi filiu’ corrumpatur meus, ibi potem? [PH.] Potandumst. [NI.] Age iam, id ut est, etsi est dedecori, patiar, facere inducam animum: egon cum haec cum illo accubet inspectem? [BA.] Immo equidem pol tecum accumbam, 1192a te amabo et te amplexabor. [NI.] Caput prurit, perii, vix negito. [BA.] Non tibi venit in mentem |, amabo, si dum vivas tibi bene facias tam pol id quidem esse haud perlonginquum, 1195 neque, si hoc hodie amiseri’, posi in morte [id] eventurum esse umquam? [NI.] Quid ago? [PH.] Quid agas? rogitas etiam? [NI.] Libet et metuo. [BA.] Quid metuis? [NI.] Ne obnoxiu’ filio sim et servo. [BA.] Mel meum, amabo, istaec fi ant, tuust: unde illum sumere censes, nisi quod tute illi dederis? Hanc veniam illis sine te exorem. [NI.] Ut terebrat! satin offirmatum 1200 quod mihi erat id me exorat? Tua sum opera et propter te improbior. [BA.] Neis quam mea mavellem. Satin ego istuc habeo offirmatum? [NI.] Quod semel dixi haud mutabo. [BA.] It dies, ite intro accubitum, filii vos exspectant intus. [NI.] Quam quidem actutum emoriamur. 1205 [BA.] Vesper hic est, sequimini. [NI.] Ducite nos quo libet tamquam quidem addictos. [BA.] Lepide ipsi hi sunt capti, suis qui filiis fecere insidias [ite]. GREX Hi senes nisi fuissent nihili iam inde ab adulescentia,

non hodie hoc tantum flagitium facerent canis capitibus; neque adeo haec faceremus, ni antehac vidissemus fieri 1210 ut apud lenones rivales filiis fierent patres. Spectatores, vos valere volumus, [et] clare adplaudere.

ATTO PRIMO

Frammenti2 A quelli che ci hanno in cuore il senso della cordialità reciproca e della moderazione, ma senza servilismo. Ceppi, verghe, lavoro sfibrante al mulino: andiamo di male in peggio con questa maledetta spietatezza. Datevi da fare a pulire con la scopa, sputate l’anima! Ma non c’è nessuno che voglia far uscire questo lezzone con la sua brocca d’acqua? Simile come una goccia di latte a un’altra goccia. BACCHIDE3: A lei hanno appioppato il mio stesso nome. Quel venturiero che vende la vita sua stessa per beccarsi quattrini. So che il fiato suo è molto più potente di quello dei mantici fatti col cuoio dei tori, quando vi si fanno liquefare le pietre per estrarne il ferro. Credo che fosse di Palestrina4, tanto era spaccone. Non credo che la città goda di una fama posticcia5. Diceva che non dovevi ricevere la paga dell’annata da nessun altro che da lui, e non dovevi strofinare la capoccia con chicchessia6. Razza di sanguisughe! Cuore mio, speranza mia, debolezza mia, focaccina mia di miele, nutrimento mio, gioia mia. Fammi fare all’amore con te. È la fregna a farti bollire o proprio l’amore? Ho sentito dire che Ulisse è stato l’uomo più scalognato, perché vagabondò per vent’anni senza riuscir a rimettere piede in patria; ma ’sto giovanotto batte Ulisse di parecchio, perché sta sempre lì a girare fra le mura della città. Come cavolo si chiami. Lei che fa bollire il sangue al mio compagno e a me7. Credo che a chiunque ti passi per la testa tu sei capace di fare la fattura. Ma se ti è venuto in testa di far la corte alle donne, comincia a pensare alla grana che devi scucire, non credere alla tua età di poterti appiccicare a me gratis8. Arabo. Proprio nessuno9.

Le due Bacchidi, Fedesindacato10 BACCHIDE I: È possibile che una volta tanto tu stia zitta e parli io? SORELLA: Ma va benone; concesso. BACCHIDE I: Però, se la memoria mi pianta in asso, vedi di darmi una mano, sorella. SORELLA: Piuttosto mi turba il timore di restare a bocca chiusa al momento d’avvertirti. BACCHIDE I: Ma va là, sarebbe più facile che restasse a bocca chiusa l’usignolo. Vienimi appresso per di qua. FEDESINDACATO: Be’, che combinano le due sorelle puttanelle omonime? Che avete concluso nel colloquio? BACCHIDE I: Decisioni utili. FEDESINDACATO: E quando mai ne pigliano le puttane? BACCHIDE I: Povere donne! Non c’è niente di più disgraziato! FEDESINDACATO: Perché, trovi qualcosa che lo meriti di più? BACCHIDE I [accennando alla sorella]: Questa qui mi supplica perché le peschi un uomo che pensi a lei,

uno sì, che quel maledetto Capitan Fracassa… insomma che, quando lei abbia finito il servizio da quello lì, possa riportarla a casa. Cocco bello, perché non ci pensi tu? FEDESINDACATO: E come ci dovrei pensare? BACCHIDE I: In maniera che possa tornarsene a casa, dopo avergli fatto tutti i servizi; così non potrà tenersela ancora come una schiava. Se potesse avere i quattrini per il rimborso, non ci penserebbe due volte. FEDESINDACATO: E dov’è ora quell’omaccione? BACCHIDE I: Credo che fra poco lo avremo tra i piedi. Ma di tutto questo potrai parlar più comodamente a casa nostra. Lì lo aspetterai a sedere, lì potrai farti una buona bevuta, lì dopo la bevuta ti darò pure un bacio. FEDESINDACATO: Eh, le carezze vostre sono vischio di prima qualità. BACCHIDE I: Ma che ti salta in testa? FEDESINDACATO: Perché, credi che non abbia capito? Siete in due a dar la caccia al medesimo palombello. Siam fottuti! Già la morchia mi blocca le ali. Senti, cocca mia, penso che ’st’affare non sia proprio per me. BACCHIDE I: Perché, cocco mio? FEDESINDACATO: Perché, Bacchide mia, a me le Baccanti e il tuo baccanale mi fanno prudere il sedere. BACCHIDE I: Ma come! E di che hai paura? Che stare sdraiato a mangiare ti costi una mala azione? FEDESINDACATO: A me non mi spaventano le portate, ma le puttanate 11: tu sei una brutta bestia. Vedi, alla mia età, bella mia, non convengono più le case chiuse. BACCHIDE I: Ma proprio io, se ti saltasse l’uzzolo di fare una fesseria in casa mia, te lo proibirei. Io voglio che tu stia in casa mia, quando verrà il soldato, solo perché, essendoci tu, nessuno possa fare una cosaccia a lei e a me: lo impedirai tu, e così farai un favore anche al tuo compagno; quello lì12 arrivando penserà ch’io sia l’amante tua. Be’, gioia mia, sei diventato muto? FEDESINDACATO: E già, tutto grazioso a parlarne! Ma quando lo si mette in pratica e si corre il rischio d’attuarlo, ecco che ti diventa una selva di punteruoli che ti trapassano il cuore, ti dissipano il patrimonio, ti piagano a morte l’esistenza e la buona reputazione.

SORELLA: Ma che ragione hai d’avere tanta paura di lei? FEDESINDACATO: E mi chiedi perché ho paura? Un giovanotto

come me entrare in una palestra di questa fatta, dove si suda a sconquassarsi, dove invece del disco si busca una fregatura e invece della vittoria nella corsa si ottiene il disonore? BACCHIDE I: Ammappela, che eloquenza! FEDESINDACATO: … dove invece della scimitarra dovrei brandire l’uccello13, dove invece del cesto mi metterebbero in mano una coppa di vino e invece dell’elmo un «bidet», invece del cimiero una ghirlandetta ben intrecciata, invece dell’asta i dadi, invece della corazza un soffice mantello, invece del cavallo troverei un letto e invece che allo scudo dovrei appoggiarmi a una puttana? Via da me, via! BACCHIDE I: Ma sei proprio intrattabile! FEDESINDACATO: Lo sono nel mio interesse. BACCHIDE I: Ti si deve proprio addomesticare. Non vedo l’ora di farla ’sta faticaccia per te. FEDESINDACATO: Alla larga! Una faticatrice come te mi costerebbe un occhio! BACCHIDE I: E fingi d’essere innamorato di me. FEDESINDACATO: Ma sarebbe una finta per fingere o per fare sul serio? BACCHIDE I: Be’ insomma, è meglio andarci alla brava. Stammi bene a sentire: quando arriva il soldato tu abbracciami. FEDESINDACATO: E che bisogno avrei di farlo? BACCHIDE I: Voglio che lui ti veda. Lo so io quel che c’è da fare. FEDESINDACATO: E io, cacchio, so quel che c’è da temere. Ma dimmi… BACCHIDE I: Che cosa? FEDESINDACATO: Ma se lì per lì spunta di fare uno spuntino, o una bevuta, o addirittura un pranzo, come succede in questi begl’incontri, io da che parte mi debbo stendere? BACCHIDE I: Ma vicino a me, anima mia; occorre che il bel giovine stia accanto alla bella ragazza. Quel posto da noi, anche se vieni all’improvviso, te lo troverai sempre a disposizione. Quando vorrai cavarti uno sfizio, basta che mi dica: «rosa del mio giardino, dammi da passarmela bene», e io perché te la spassi ti troverò un posticino proprio delizioso. FEDESINDACATO: Ma qui c’è un torrente che trabocca, non lo si può traversare alla spensierata! BACCHIDE I: Be’, certo nella traversata qualcosa ti toccherà lasciarla andare; ma tu dammi la mano e vieni con me. FEDESINDACATO: Manco per idea! BACCHIDE I: E mo’ perché? FEDESINDACATO: Perché non ci può essere tentazione più pericolosa per un giovanottino: la notte, la femmina, il vino. BACCHIDE I: E va be’, come vuoi, io del resto non faccio niente se non per il tuo interesse. Quello lì se la porterà via [accenna alla sorella]; e tu non ci stare qui, se non ti va. FEDESINDACATO [a parte]: Ma sono tale una scamorza da non riuscire a frenarmi le voglie? BACCHIDE I: Ma di che hai paura? FEDESINDACATO: Niente, niente, fesserie. Bella mia, mi dichiaro tuo schiavo; sono in tuo potere, ligio ai tuoi ordini. BACCHIDE I: Oh, ora sei un tesoro! Ora vorrei che mi facessi questo. Oggi voglio offrire a mia sorella il pranzo del benvenuto. Per questo ti farò portare i quattrini da casa, e tu arrángiati perché ci si serva un servizio sontuoso. FEDESINDACATO: Eh, il servizio te lo pagherò io. Sarebbe una bella vergogna per me che tu ti dia da fare per amor mio, e per giunta l’affare lo faccia a spese tue. BACCHIDE I: Ma io non voglio che tu spenda neppure un soldo. FEDESINDACATO: Ma no, permettimelo. BACCHIDE I: Be’, te lo permetto, se proprio lo vuoi. E allora sbrìgati, tesoro. FEDESINDACATO: Quando sarò di ritorno non avrò cessato d’amarti. [Esce.] SORELLA: Per il mio arrivo mi farai una bella accoglienza. BACCHIDE I: Scusa, che intendi dire? SORELLA: Perché, a quel che mi pare, oggi t’è capitata una buona pesca. BACCHIDE I: Eh, sì, lui ormai è mio. Ora ti darò una mano per Ricordinsidia, sorellina, in maniera che tu becchi la grana piuttosto che ripartire con quell’ammazzasette. SORELLA: Volesse il cielo! BACCHIDE I: Ci daremo da fare. Ma ormai l’acqua s’è scaldata: entriamo, così ti farai il bagno. Dopo aver viaggiato per mare, non ti devi sentire a posto. SORELLA: Proprio per niente, sorella mia. E poi a quest’individuo, che ci viene a scocciare, è il caso di voltare le spalle. BACCHIDE I: E allora vieni dentro con me; così potrai sdraiarti sul letto e riposare.

Lido14, Fedesindacato LIDO: È

già un secolo, Fedesindacato, che ti vengo appresso senza parlare, guardando che diavolo tu voglia fare messo su così. Qui, salv’ognuno, pure Licurgo15 sarebbe forse spinto alla corruzione. Insomma dove te ne vai in salita con tutta questa processione fastosa? FEDESINDACATO: Qua. LIDO: Come sarebbe a dire qua? Chi ci sta qui? FEDESINDACATO: L’Amore, la Voluttà, Venere, la Grazia, la Gioia, il Riso, lo Scherzo, Ciacoletta e Baciolungo. LIDO: E che hai da spartire tu con questi dèi della malora? FEDESINDACATO: Ma un malanno sono quelli che parlano male dei buoni; e tu parli a sproposito degli dèi: ma è un’azione indegna, sacrilega! LIDO: Ma perché, è un dio Baciolungo? FEDESINDACATO: E credi che non lo sia? O Lido, ma sei proprio un primitivo! Ma, mentre ti credevo più sapiente di Talete 16, mi ti riveli più babbeo d’un barbaro col grembiulino dei lattanti; sei così anziano e ancora non conosci i nomi degli dèi! LIDO: A me tutta questa pompa non mi va proprio giù. FEDESINDACATO: Ma nessuno l’ha preparata per te; è per me che l’ho disposta, e a me mi piace. LIDO: Anche per contrastare me cominci ad arzigogolare cavilli? Ma anche se avessi dieci lingue, dovresti sentire il dovere di chiudere il becco. FEDESINDACATO: La tua età, Lido, litiga17 con le piacevolezze. Ora mi sta tassativamente in testa che il cuoco cucini questa roba come la sua squisitezza comporta. LIDO: Ormai ti sei rovinato e hai rovinato anche me e tutte le mie fatiche, che ho sprecate per mostrarti la via giusta.

FEDESINDACATO: Ma sono stato io a sprecare le mie fatiche, quanto tu le tue; le tue lezioni sono una baggianata per me e anche per te. LIDO: Ci hai proprio un cuore rintorzato! FEDESINDACATO: M’hai proprio scocciato. Chiudi il becco e vieni con me, Lido. LIDO: Ma guarda che mi tocca sentire! Non mi chiama più maestro mio, ma Lido! FEDESINDACATO: Ma non mi pare né giusto né ragionevole che, mentre il ganzo18 sta dentro e sta sdraiato accanto all’amante, coprendola di

baci, e c’è a tavola anche un sacco di commensali, ci stia piantato in mezzo un pedagogo. LIDO: Dunque è per questo, dimmi, che s’è accumulata tutta questa roba? FEDESINDACATO: Precettor, lo spera il cor; come vada a finire, poi, lo sanno e lo stabiliscono gli dèi. LIDO: Dunque, d’ora in poi avrai un’amante? FEDESINDACATO: Quando lo vedrai lo saprai 19. LIDO: E invece tu l’amante non ce l’avrai perché non te lo permetterò. Intanto me ne torno a casa. FEDESINDACATO: Oh, Lido, ora smettila e guarda di non buscare una fregatura. LIDO: Che? «buscare», «fregatura»? FEDESINDACATO: Be’, ormai sono abbastanza grande per non stare più sotto la tua ferula. LIDO: O baratro, dove sei? Come mi ti ci caccerei dentro volentieri! Debbo vedere molte cose più di quelle che avrei voluto; per me ormai è infinitamente meglio aver vissuto che vivere. Un moccioso di allievo minacciare il maestro? Ma io non so che farmene di allievi con tutto questo sangue caldo in corpo: uno così robusto bistratta un poveretto così estenuato come me! FEDESINDACATO: Ma che mi fai pensare che io sia diventato Ercole e tu Lino20? LIDO: Ma io piuttosto, con le tue belle imprese, temo di diventare Fenice21 e di dover annunciare a tuo padre la tua morte. FEDESINDACATO: Basta con tutte queste storie. LIDO: Ha perduto ogni vergogna! Per tutti i diavoli, ti sei acquistato un bel prontuario di buoni costumi, adatto proprio alla tua età, con questa svergognatezza che hai pompata! Quest’uomo è finito! Ma ti ricordi che hai un padre? FEDESINDACATO: Ma sono io il tuo schiavo o tu il mio? LIDO: Un maestro pestifero t’ha insegnato ’ste belle cose, non io. E tu sei uno scolaro che questi insegnamenti te li bevi molto più docilmente di quelli che ti ho dati io, quando ho sprecato il mio tempo. Perbacco, che frode schifosa, indegna della tua giovinezza, hai commessa, nascondendo queste azioni vergognose a me e a tuo padre! FEDESINDACATO: Be’ finora, Lido, ti ho lasciato sproloquiare come t’è parso e piaciuto: ora basta. Vieni con me e chiudi il becco. [Fine del primo atto]

ATTO SECONDO

Rubaloro RUBALORO:

Salve, patria del padrone; dopo due anni che t’ho lasciata per andarmene ad Efeso, come ti rivedo con piacere! E salve anche a te, casigliano Apollo 22, che abiti accanto a casa nostra; mi prosterno dinanzi a te pregandoti di non farmi sbattere il naso con Bramavittoria, il padrone vecchio, prima che io abbia visto Fedesindacato, il compagno di Ricordinsidia, quello a cui Ricordinsidia ha mandato una lettera riguardante Bacchide, la sua amante.

Fedesindacato, Rubaloro FEDESINDACATO [parlando verso l’interno, evidentemente a Bacchide I]: Ma

è straordinario che tu ti affanni tanto a chiedermi di tornare, quando io non me ne potrei andare a nessun costo, nemmeno se lo volessi: che l’amore mi ti ha assegnato in proprietà, mi ha consegnato a te, legato mani e piedi. RUBALORO: Grazie al cielo, è proprio Fedesindacato che vedo! Salve, Fedesindacato! FEDESINDACATO: Salve, Rubaloro. RUBALORO: Be’, quando ci sarà il tempo, ti farò un mucchio di complimenti; tu hai piacere che io sia venuto, e io ti credo; tu mi prometti l’ospitalità e una buona cena, come bisogna fare con chi arriva da fuori, e io accetto e assicuro che verrò. Ti comunico che il tuo compagno campa comodamente, e tu certo mi domanderai dov’è: be’, campa. FEDESINDACATO: Ma almeno campa bene? RUBALORO: Ma questo desideravo saperlo proprio da te. FEDESINDACATO: E io come posso saperlo? RUBALORO: Nessuno invece più di te. FEDESINDACATO: Ma come sarebbe a dire? RUBALORO: Perché se si pesca quella di cui si è invaghito, allora sta benone; ma se non la si pesca, allora è sofferente, anzi è moribondo. Per l’innamorato l’amante è la vita stessa: se non c’è, lui non esiste più; ma se c’è non esiste più la grana, e lui esiste, sì, ma miserabile e povero in canna. Ma tu che hai combinato della commissione che ti aveva data? FEDESINDACATO: E io, dopo aver ricevuto una commissione da lui, non gliela dovrei far trovare bell’eseguita al suo ritorno? Ma preferirei abitare già fra i morti! RUBALORO: Ehi, allora l’hai trovata Bacchide? FEDESINDACATO: Ma certo, quella di Samo. RUBALORO: Be’, scusami, allora sta’ attento che qualcheduno non la palpeggi brutalmente: lo sai com’è fragile il vasellame di Samo. FEDESINDACATO: Ah, le solite barzellette? RUBALORO: Ma dimmi dov’è adesso, ti scongiuro. FEDESINDACATO: Qui, di dove m’hai visto uscire ora. RUBALORO: Ma guarda che bella combinazione! Abita proprio a un passo. E si ricorda di Ricordinsidia? FEDESINDACATO: E me lo chiedi? Ma sogna, sospira solo lui! RUBALORO: Minchia! FEDESINDACATO: E le vuoi credere? Additandoselo col desiderio si fa ditalini. RUBALORO: Be’, questo è quello che ci vuole. FEDESINDACATO: Ma non basta, Rubaloro; non lascia passare un minuto senza nominarlo. RUBALORO: Cacchio, meglio ancora. FEDESINDACATO: Anzi… RUBALORO: Anzi mo’, perdio, è meglio che me ne vada. FEDESINDACATO: Che forse ti dà ai nervi ascoltare i successi del tuo padrone? RUBALORO: Ma non è la commedia, è l’attore che mi fa venire il vomito; così è dell’Imputato23, che è una commedia che amo come me stesso, ma che, se la recita Pellione, ascolto proprio a contraggenio come se fosse la più brutta che abbiano mai rappresentato. Ma Bacchide ti è sembrata sempre in gamba? FEDESINDACATO: E me lo chiedi? Se non fossi riuscito ad acchiappare Venere, ne farei la mia Giunone24. RUBALORO: Per la miseria, Ricordinsidia mio, come capisco che si sono messe le cose, ciò che desideri è in vetrina, ma occorre scovare ciò che devi scucire. Perché qui forse occorrono quattrini. FEDESINDACATO: Altro che! Addirittura filippi 25! RUBALORO: E proprio alla mano. FEDESINDACATO: Anzi sul piano… del tavolo, addirittura; perché ormai sta arrivando qua il soldato… RUBALORO: E mo’ c’è pure un soldato di mezzo? FEDESINDACATO: …che esige la grana per lasciare Bacchide in libertà. RUBALORO: Venga quando vuole, lo sto aspettando con impazienza; tanto, a casa c’è il contante: non ho paura di nessuno e non debbo baciare i piedi a nessuno, finché ci avrò in corpo questa fucina di bidoni. Tu rientra, qui della faccenda me ne occupo io. Lì dentro avvisa Bacchide che Ricordinsidia è qui. FEDESINDACATO: Fedele agli ordini! [Rientra in casa.] RUBALORO: ’Sta faccenda quattrinaria tocca a me. Da Efeso abbiamo pompato milleduecento filippi d’oro, di cui l’ospite di lì era debitore al nostro vecchietto. Di lì oggi, tramando una trappola qualsiasi, spremerò i quattrini occorrenti al padroncino innamorato. Ma cigola la porta di casa nostra: chi sta uscendo?

Bramavittoria, Rubaloro BRAMAVITTORIA: Mo’ me

ne vo al Pireo a vedere se è approdato qualche mercantile da Efeso. Ché sono preoccupato, perché è un secolo che mio figlio sta lì e non si degna di ritornare. RUBALORO [a parte]: Mo’ io me lo scuoio per benino, se Dio m’assiste. Ma guai a sonnecchiare: ci vuole un Rubaloro proprio d’oro 26. Mo’ affronto questo fesso e ne faccio il montone di Frisso; quello del vello d’oro27, e l’oro glielo scortico fino alla viva pelle. [Indirizzandosi a Bramavittoria:] Lo schiavo Rubaloro s’inchina al padrone Bramavittoria. BRAMAVITTORIA: Dèi del cielo, Rubaloro! Ma mio figlio dov’è? RUBALORO: Be’, ma perché prima di tutto non rispondi al saluto? BRAMAVITTORIA: Va bene, salve. Ma Ricordinsidia dove diavolo è? RUBALORO: Campa e sta bene. BRAMAVITTORIA: È arrivato? RUBALORO: È arrivato. BRAMAVITTORIA: Dio sia lodato! È come se m’avessi irrorato d’acqua fresca. Ma se l’è passata sempre bene? RUBALORO: Da atleta, da campione ginnico. BRAMAVITTORIA: E be’? La grana per cui l’avevo spedito ad Efeso l’ha riscossa dall’ospite Capopopolide? RUBALORO: Ahi, Bramavittoria, mi si fanno a pezzi il cuore e il cervello, ogni volta che sento nominare quel cialtrone. E tu chiami ospite il tuo nemico? BRAMAVITTORIA: Cacchio, per carità, che è successo? RUBALORO: Eh, lo so io, porca miseria, a meraviglia: Vulcano, la Luna, il Sole, il Giorno, quattro dèi tutti insieme non hanno mai illuminato un puzzone più fetente. BRAMAVITTORIA: Più di Capopopolide? RUBALORO: E già, più di Capopopolide. BRAMAVITTORIA: Ma che ha fatto? RUBALORO: Ma chiedimi che cosa non ha fatto. Perché non mi chiedi questo? Prima di tutto cominciò a opporre un no deciso a tuo figlio, a dire che non ti doveva un centesimo. Allora Ricordinsidia ha mandato a chiamare subito il nostro ospite d’un tempo, il vecchio Maregrosso; in sua presenza sbandiera in faccia a quello lì il documento di riconoscimento che proprio tu avevi dato a tuo figlio per portarglielo. BRAMAVITTORIA: E be’, e quando gli ha mostrato il documento di riconoscimento? RUBALORO: Cominciò a strillare ch’era falso, che quello non era un documento. E che pioggia di contumelie su quel povero innocente! Urlava ch’era un falsario già pregiudicato, già noto per molti altri reati. BRAMAVITTORIA: Ma la grana ce l’avete? È questo che mi preme di sapere da te. RUBALORO: Dopo che il pretore28 ebbe nominato i commissari, finalmente il puzzone fu condannato e dovette restituire per forza milleduecento filippi. BRAMAVITTORIA: Tanto era il suo debito. RUBALORO: Sì, ma ora ascolta il colpo che ci ha voluto assestare. BRAMAVITTORIA: Perché, c’è ancora dell’altro? RUBALORO: E già, ora spunta la beccata dello sparviero. BRAMAVITTORIA: E mo’ siamo fritti: credevo di affidare i miei quattrini a un ospite, invece li ho prestati ad Autolico29! RUBALORO: Mo’ stammi a sentire. BRAMAVITTORIA: Ma io non sapevo d’avere un amico d’un carattere così ingordo. RUBALORO: Dopo avergli finalmente strappato la grana, salimmo sulla nave per tornarcene a casa. Volle il caso che mi mettessi a sedere sul cassero e cominciassi a guardarmi intorno. E che ti vedo? Una goletta affilata, che già preparava una maledetta rotta al largo30. BRAMAVITTORIA: O Dio, siam fottuti! Quella goletta mi getta il gancio in gola! RUBALORO: La possedevano in comune il tuo amico e un gruppo di pirati. BRAMAVITTORIA: Ma sono stato tanto carciofo a fidarmi di lui? Ma il suo nome stesso, Capopopolide, doveva rivelarmi a gran voce che m’avrebbe spogliato come un arruffapopolo31 se gli avessi consegnato qualcosa! RUBALORO: Quella goletta insomma stava lì per dar di corno alla nostra nave. Allora cominciai a scrutare che cavolo facessero. La nostra nave leva l’ancora dalla riva. Non appena usciamo dal porto, quelli ci seguono a forza di remi. Né gli uccelli né i venti potevano andare così in fretta. Appena m’accorgo di come si stavano mettendo le cose, fermiamo di colpo la nave. Subito che ci vedono fermi, cominciarono a virare verso il porto. BRAMAVITTORIA: Cribbio, che figli di puttana! E voi allora che avete fatto? RUBALORO: Eh, siamo rientrati anche noi nel porto. BRAMAVITTORIA: Il meglio che potevate fare. E quei farabutti allora? RUBALORO: Di sera completano il ritorno a terra. BRAMAVITTORIA: Boia d’un mondo, certo volevano fregarvi la grana: per questo si affannavano tanto. RUBALORO: E io non avevo preso un granchio, l’avevo capito, e perciò stavo col fiato sospeso. Sicuri che la grana era in pericolo, scegliamo subito un sistema; decidiamo di sbarcargli in faccia tutto l’oro, in piena evidenza, alla luce del sole, in maniera da fargli constatare con precisione la manovra. BRAMAVITTORIA: Manovra perfetta, perdio! Be’, e loro allora? RUBALORO: Incazzati a dovere, appena ci vedono lasciare il porto coi quattrini, spingono in secco la goletta scuotendo la capoccia. Noi depositammo tutta quanta la grana da Amadio, quello che proprio lì ad Efeso fa il sacerdote di Diana Efesia. BRAMAVITTORIA: E chi è ’sto Amadio? RUBALORO: Ma è il figlio di Allagrande, quello che ad Efeso è il più caro a tutti gli Efesini 32. BRAMAVITTORIA: Cacchio, ma sarà tanto più caro33 per me, se mi gratta tutto quell’oro. RUBALORO: Ma che dici? È custodito nel tempio stesso di Diana, sorvegliato dalla pubblica autorità. BRAMAVITTORIA: M’hai assassinato! Ma quanto sarebbe sorvegliato meglio qui dalla mia autorità privata! Ma non ne avete portato a casa neanche un pochino, d’oro? RUBALORO: Be’ sì, ma non so la quantità. BRAMAVITTORIA: Come? Non la sai?

RUBALORO:

Eh sì, perché Ricordinsidia s’è infilato di notte in casa di Amadio, senza consegnare niente né a me né a nessun altro della ciurma. Perciò non posso sapere quanto diavolo ne abbia portato; ma non deve averne portato molto. BRAMAVITTORIA: Credi che sia la metà? RUBALORO: T’assicuro che non lo so; ma non credo. BRAMAVITTORIA: Allora porta la terza parte? RUBALORO: Ti ripeto che proprio non lo so; veramente…, ma no, proprio non so niente. Della grana non so niente se non che non ne so. Ora tocca a te metterti per mare da quella parte per riportare la grana da Amadio a casa; ah, bada! BRAMAVITTORIA: Che vuoi? RUBALORO: Ricórdati di portare l’anello di tuo figlio. BRAMAVITTORIA: E che bisogno c’è dell’anello? RUBALORO: Perché quello è il segnale convenuto con Amadio: chi glielo porta riceve in consegna l’oro. BRAMAVITTORIA: Me ne ricorderò; e fai bene ad avvertirmi. Ma ’sto Amadio è ricco? RUBALORO: E me lo domandi? Ma se ha pure le suole delle scarpe foderate d’oro! BRAMAVITTORIA: A questo punto ci sputa e lo calpesta? RUBALORO: Ma di quattrini ce ne ha un pozzo; non sa che farsene dell’oro. BRAMAVITTORIA: Allora vorrei che me ne desse un po’! Ma c’era presente qualcuno quando quell’oro è stato consegnato ad Amadio? RUBALORO: C’era presente un popolo intero; non c’è un cane ad Efeso che non lo sappia. BRAMAVITTORIA: Questo almeno mio figlio lo ha fatto felicemente e con la testa a posto, a dare in consegna l’oro a un riccone; così sarà possibile riprenderlo anche subito. RUBALORO: Ma anzi, non ti farà perdere neanche un briciolo di tempo, ti farà riavere tutto nel giorno stesso che arriverai. BRAMAVITTORIA: Credevo di averla fatta finita con la marineria, di non dover più navigare alla mia tarda età; e invece capisco che non mi è concesso fare o non fare quello che voglio: così mi ha ridotto quella buona lana dell’ospite Capopopolide! Ma ora dove si trova mio figlio Ricordinsidia? RUBALORO: È andato al Foro a salutare gli dèi e gli amici. BRAMAVITTORIA: E mo’ me ne vado da lui, per incontrarlo il più presto possibile. [Esce.] RUBALORO: Mo’, quel fesso si porta un basto carico a dovere, anzi più del possibile. Be’, s’è cominciata a tessere mica male questa tela; per sistemare convenientemente il padroncino innamorato, ho fatto in modo che della grana se ne possa pappare quanto vuole e darne al padre solo quanto gliene pare. Ora il vecchio se l’andrà a cercare a Efeso, e noi intanto ce la spasseremo qui a delizie e bagordi, a condizione che lui ci lasci qui e non voglia condurre con sé me e Ricordinsidia. Che putiferio voglio scatenare qui! Ma che succederà, quando il vecchio scoprirà l’inghippo e constaterà d’aver fatto un viaggio inutile fin laggiù e che noi ci siamo sorbito il malloppo? Allora che ne sarà di me? Porca la vacca, credo che tornando mi cambierà nome, e da Rubaloro che sono mi trasformerà di colpo in Rubalacroce34. Ma alla prima occasione, mannaggia, me la svigno, e se mi riacciuffano, vada pure a farsi fottere, il vecchiaccio. Se lui in campagna possiede buone verghe, io in casa posseggo una buona schiena addosso. Ora andiamo a contare al padroncino tutta questa favola della trappola escogitata per la grana e la bella notizia della sua amichetta Bacchide ritrovata. [Fine del secondo atto]

ATTO TERZO

Lido LIDO [uscendo

dalla casa delle Bacchidi]: Apritemi subito, lo esigo, spalancatemi questa porta del Tartaro. Ché per me questa sentina non può esser altro che quella caverna, dove nessuno arriva se non ha lasciato ogni speranza di… rimanere un galantuomo. Le Bacchidi non sono Bacchidi, rna Baccanti in delirio. Lungi da me queste sorelle che succhiano il sangue degli uomini. Tutta la casa è organizzata con sfarzo e con sfoggio per la loro rovina. Appena le ho dato un’occhiata, sono scappato subito pedalando a precipizio. E io queste belle imprese me le dovrei tenere in corpo alla chetichella, nascondere a tuo padre, Fedesindacato, le tue vergogne, le tue magagne, la tua scioperataggine, con cui spingi tuo padre e me e te stesso e tutti gli amici al disonore, alla rovina, all’infamia, all’abisso35? Non hai avuto riguardo né a me né a te stesso, non ti vergogni nell’intimo36 delle sconcezze che sciorini, con cui a tua infamia hai reso tuo padre, e insieme me, gli amici, i parenti tuoi, tutti muratori cooperanti a edificare la tua vergogna? Ma ora, prima che tu ci metta la giunta con quest’altra azionaccia, ho deciso: spiffero tutto a tuo padre. Mi scarico d’ogni responsabilità e scombicchero tutto al vecchio, perché s’affretti a disincagliarti da questo putrido fango. [Esce.]

Ricordinsidia RICORDINSIDIA:

Ho meditato molto fra me e me, e mo’ sono arrivato a questa conclusione: un amico che è veramente un amico, che è degno insomma di questo nome, non ci ha che gli dèi che possano stargli al di sopra; l’esperienza m’ha insegnato che è così. Perché quando partii di qui per Efeso (e oramai son quasi due anni), spedii qua da Efeso al mio compagno Fedesindacato una lettera dove lo pregavo di ritrovarmi Bacchide, la mia amichetta. E ora m’è riuscito di sapere che l’ha ritrovata, come mi ha comunicato il mio servo Rubaloro. E che bel marchingegno ha poi messo in piedi questo qui per fregare la grana a mio padre, perché io ne avessi a disposizione per rinfrescare la cotta! [Ma ecco che lo vedo venire qua]37. A parer mio niente è più odioso di un ingrato. È meglio lasciare in libertà un malfattore che lasciare nel dimenticatoio un benefattore. È molto meglio che ti considerino uno scialacquatore anziché un ingrato. Del primo parleranno bene pure i benpensanti, ma del secondo diranno corna anche i farabutti. Perciò ora è il momento di darsi da fare con giudizio e di spalancare gli occhi attentamente. Ora, Ricordinsidia, si saggia se sei saggio, si approva la tua prova: se tu sei, sì o no, quello che dovresti essere, un fetente o un bravuomo, come ti pare, giusto o ingiusto, taccagno o liberale, affabile o rompicoglioni. Ma bada soprattutto a non farti superare dal servo tuo in buone azioni. Mettiti in testa che, come che ti comporterai, non lo potrai nascondere. Ma ecco che arrivano il padre e il precettore del mio compagno. Da quest’angolo origlierò di che discorrono. [Si ritira in un angolo senza essere visto dai sopravvenienti.]

Lido, Ospitalone, Ricordinsidia LIDO: Ora constaterò se hai sangue nelle vene. Vieni con me. OSPITALONE: Ma dove debbo venire? dove diavolo mi conduci? LIDO: Dalla puttana che ha rovinato, che ha subissato il tuo unico figlio, il tuo unico bene. OSPITALONE: Ma va’ là, Lido, quelli che s’incacchiano in tono minore sono quelli che se ne

intendono meglio. C’è da meravigliarsi meno se quella benedetta età fa quegli stravizi anziché se non li fa. Quand’ero giovane li ho fatti tale e quale anch’io. LIDO: Me disgraziato, me sciagurato, ma proprio questa tua indulgenza l’ha guastato! Se non ci fossi stato di mezzo tu, io l’avrei indirizzato senza fallo alla saggezza più specchiata: ora per causa tua, per colpa della tua connivenza, Fedesindacato è diventato un debosciato. RICORDINSIDIA [a parte]: Dio bonino, ma questo sta parlando del compagno mio! Che è successo per far fare tante prediche a Lido sul suo padrone Fedesindacato? OSPITALONE: Ma Lido, ce n’è tanto poco di tempo per i poveri mortali se vogliono cavarsi uno sfizio! Arriverà presto il tempo in cui pure lui avrà in uggia se stesso. Moderazione e tolleranza: purché si eviti che faccia una grossa fesseria, quanto al resto lasciagli correre la cavallina. LIDO: E io invece non gliela lascio correre affatto; finché camperò non permetterò che si corrompa. Ma tu, che fai l’avvocato difensore di un figlio così depravato, hai avuto quest’educazione tu, quand’eri ragazzo? Affermo che fino a vent’anni non potevi staccarti di un dito dal precettore per mettere il piede fuori di casa. Se non ti presentavi in palestra prima che sorgesse il sole, c’era una buona strigliata da parte del maestro di ginnastica. E a chi toccava questa stangata, un altro guaio poi s’accavallava sul primo guaio: alunno e maestro, tutti e due, si guadagnavano una pessima reputazione. E lì dagli con la corsa, con la lotta, col lancio del giavellotto, del disco, della palla, col pugilato, col salto: altro che baci e bagasce! Lì si temprava la gioventù, non nelle case chiuse. E quando tornavi a casa di lì, dal galoppatoio o dalla palestra, con una piccola canottiera attorno ai fianchi ti sedevi in faccia al maestro sopra uno sgabello: e se leggendo un libro sbagliavi d’una sola sillaba, la cotenna ti diventava più impataccata del grembiule di una nutrice38. RICORDINSIDIA [a parte]: Quanto mi dispiace che per colpa mia si venga a sparlare così del mio compagno! Lui è innocente e per colpa mia si deve veder cadere addosso tutti questi sospetti. OSPITALONE: Ma ora, Lido, i costumi sono diversi. LIDO: Eh, altro che lo so! Un tempo uno si faceva eleggere a una carica che obbediva ancora al suo precettore; ma ora uno che non ha ancora compiuto sette anni, se il maestro lo tocca con un dito, gli rompe la tavoletta in testa. E se vai a reclamare dal padre, il padre si rivolge al ragazzo e ha il fegato di dirgli: «Móstrati sempre un figlio degno di tuo padre, finché saprai ribattere le offese». E al precettore questo bel complimento: «Ehi, vecchio idiota, non ti permettere di toccare il ragazzino, se ha avuto il coraggio delle sue azioni!». E il poveraccio se ne va con la testa fasciata da un panno unto, manco fosse una lucerna. E dopo aver pronunciato quel capolavoro di sentenza, il tribunale si scioglie. In queste condizioni il maestro come può far valere la sua autorità, se è proprio lui il primo a prenderle? RICORDINSIDIA [a parte]: Che razza di geremiade! Se ho ben capito, è un miracolo se Fedesindacato non ha ammaccato Lido a cazzotti. LIDO: Ma chi è che vedo in piedi, dinanzi alla porta? Ospitalone, non vedrei più volentieri di costui gli stessi dèi protettori! OSPITALONE: Ma chi c’è? LIDO: Ricordinsidia, il compagno di tuo figlio Fedesindacato. Però ha tutt’altro carattere da quello lì che si voltola nei bordelli. Fortunato Bramavittoria che se l’è fatto!

OSPITALONE: Salute a te, Ricordinsidia; godo di vederti tornato sano e salvo. RICORDINSIDIA: Ti custodiscano gli dèi, Ospitalone. LIDO: Questo sì che è nato per la consolazione di suo padre! Si mette

in mare, si preoccupa delle finanze paterne, provvede alla casa, è ossequente e obbediente alla mentalità e agli ordini del padre. È compagno di Fedesindacato da quando erano ragazzini; è questione di meno di tre giorni la loro differenza d’età: ma quanto a carattere lui ha più di trent’anni dell’altro. OSPITALONE: Be’, Lido, non mi fare perdere la pazienza e smettila di calunniarlo senza ragione. LIDO: Ma statti zitto: sei proprio tu irragionevole a inalberarti se si parla male di chi agisce male. Come sarebbe preferibile per me che egli amministrasse le mie rogne anziché i miei quattrini! OSPITALONE: E perché? LIDO: Perché, se amministrasse le rogne come i quattrini, le farebbe diminuire ogni giorno di più. RICORDINSIDIA: Lido, perché biasimi il mio compagno, che è alunno tuo? LIDO: Ma il tuo compagno non ce l’hai più. RICORDINSIDIA: Dio non voglia! LIDO: Ma è proprio come ti dico. L’ho visto io mentre precipitava nel baratro, non mi metto ad accusare per sentito dire. RICORDINSIDIA: Ma che è successo? LIDO: S’è incaponito vergognosamente d’una puttana. RICORDINSIDIA: Ma vuoi stare zitto? LIDO: Una voragine insaziabile! Inghiotte chiunque abbia la disgrazia di sfiorarla. RICORDINSIDIA: E dove abita ’sta femmina? LIDO: Qui, guarda. RICORDINSIDIA: E di dove si dice che venga? LIDO: Da Samo. RICORDINSIDIA: E come si chiama? LIDO: Bacchide. RICORDINSIDIA: Tu prendi un granchio, Lido. Lo so io, per intero, come va la faccenda. Tu accusi Fedesindacato senza fondamento: lui è innocente. Lui non fa altro che un favore a un amico affezionato, a un compagno che gliel’aveva chiesto, e glielo fa con fervore. Non è affatto innamorato, e tu non lo devi credere. LIDO: Ah, significa fare con fervore un favore a un amico su richiesta, tenersi sulle ginocchia una femmina che ti copre di baci? Il favore richiesto non lo si può fare assolutamente senza strofinare ogni minuto le mani sulle poppe, senza stare con le labbra appiccicate alle labbra? E arrossisco di parlare del resto che gli ho visto fare: per esempio quando a Bacchide gli ha infilato le mani sotto la veste per palpeggiarsela presente me, senza vergognarsi minimamente. C’è bisogno di altri discorsi? Per me è finito l’alunno, per te l’amico, e per lui [accenna ad Ospitalone] il figlio; perché io giudico finito chiunque abbia perso il pudore. C’è bisogno di altri discorsi? Penso che se avessi voluto fermarmi ancora un po’, se avessi voluto prendermi un po’ più di tempo per osservarlo, ne avrei viste di zozzerie al di là di ogni decenza, da discreditare me e pure lui. RICORDINSIDIA: Camerata, m’hai ammazzato! E io non la farò scontare con la morte a quella femmina? Meglio se no morire io di mala morte! Non c’è proprio più nessuno di cui ci si possa fidare, a cui si possa affidare un’incombenza! LIDO [a Ospitalone]: Vedi come s’affligge che tuo figlio, il suo compagno, si sia depravato, come è profondo, è tormentoso il suo cruccio? OSPITALONE: Ricordinsidia, ti prego, pensaci tu a moderare la sua fregola, la sua passione: salva a te il compagno a me il figlio. RICORDINSIDIA: È proprio quello che voglio. LIDO [ad Ospitalone]: Sarebbe molto meglio, se lasciassi pure me con lui. OSPITALONE: Ma basta lui. Ricordinsidia, datti da fare, va’, sermoneggia a dovere quel disgraziato che disonora te, me, gli amici e tutti quanti con le sue sconcezze. Affido il compito interamente a te. Lido, vienimi dietro per di qua. LIDO: Vengo, vengo.

Ricordinsidia RICORDINSIDIA:

Ma c’è da azzannarsi la testa per stabilire se mi va peggio in culo il compagno o Bacchide. Ah, lei lo preferisce a me? E va be’, buon pro gli faccia. Ma, cazzo, come l’ha fatto a danno… mio39! Perché voglio che nessuno d’ora in poi presti fede a un mio giuramento, se io a più riprese e con perfetta evidenza non la… amo40! Ora ci penso io a toglierle la possibilità di dire che ha trovato il fesso da sfottere! Mo’ me ne vado a casa e frego un po’ di quattrini a paparino, e li do a lei. Ah sì, gliela farò pagare in mille modi. La ridurrò in maniera che stenda la mano come un mendicante… mio padre. Ma ci ho la testa a posto sul serio, riesco veramente a ragionare, arzigogolando qui in questa bella maniera e favoleggiando del futuro? La faccenda è, mi sembra, che sono proprio innamorato, porca vacca, se posso essere sicuro di qualcosa. Ma prima che lei sbilanci di lato un pochino, un briciolo di piuma con un gruzzolo dei miei quattrini, voglio eliminare elemosinando l’esempio del più umile degli accattoni. Porca vacca, finché avrà fiato in corpo, non potrà riuscire a sfottermi. Oramai ho deciso di conteggiare la somma sana sana a mio padre. Lei mi verrà a far le moine, senza sapere che ormai ho le tasche vuote e sono al verde; ma a me non me ne fregherà manco un’unghia più che se contasse fanfaluche a un morto accanto alla sua tomba. [Mo’ prima che lei sbilanci di lato un pochino o s’appesantisca di un briciolo coi miei quattrini, preferisco morire dilaniato dalla fame. Ho deciso fermamente di restituire la somma per intero a mio padre]41. Ma dovrò pensare anche a supplicare mio padre perché non infierisca su Rubaloro per colpa mia, perché non s’incazzi con lui per il bidone della grana che gli ha combinato per fare un piacere a me: è mio dovere darmi da fare per chi l’ha sparata grossa in mio aiuto. [Agli schiavi accompagnatori:] Voi seguitemi. [Entra in casa.]

Fedesindacato FEDESINDACATO [parlando verso casa a Bacchide I]: Prima d’ogni

altra cosa, Bacchide, penserò a sbrigare il compito che m’hai affidato, di cercare Ricordinsidia e condurtelo qua con me. Ma non capisco come mai tarda tanto, se il messaggio è arrivato a raggiungerlo. Mo’ vado qua da lui; può darsi che stia ancora a casa.

Ricordinsidia, Fedesindacato

RICORDINSIDIA: Ho restituito tutta la somma a mio padre. La vorrei

incontrare ora che ho le tasche vuote, quella che se ne fotte di me! Ma quanto mi ce n’è voluto per strappare a mio padre il perdono a Rubaloro! Ma alla fine ci sono riuscito a ottenere che non se la pigli con lui. FEDESINDACATO: Ma è qui il compagno mio? RICORDINSIDIA: È qui che mi tocca vedere il mio nemico? FEDESINDACATO: È lui certamente. RICORDINSIDIA: È lui. Ora gli vo incontro, FEDESINDACATO: Ora lo avvicino. Salve, Ricordinsidia. RICORDINSIDIA: Salve. FEDESINDACATO: Dato che sei tornato in perfetto stato, ti si offrirà un bel pranzo. RICORDINSIDIA: A me non mi va giù un pranzo che mi irriterebbe la bile. FEDESINDACATO: Ma perché, al tuo arrivo sei incappato in qualche difficoltà? RICORDINSIDIA: E come! E delle peggiori! FEDESINDACATO: E da che parte t’è arrivata? RICORDINSIDIA: Da un uomo che finora credevo mi fosse amico. FEDESINDACATO: Eh, ce n’è che vivono in questa bella maniera che scelgono questa esemplare ipocrisia, ce n’è di quelli che tu li credi amici e poi ti si rivelano favolosamente falsi, a parole «fasotutomi», ma pelandroni a fatti, di una credibilità molto avariata! Non c’è nessuno che non invidiano se gli tocca una fortuna; e per non farsi invidiare loro, badano a battere la fiacca. RICORDINSIDIA: Eh cavolo, si vede proprio che lo hai ben meditato il loro modo di fare! Ma una cosa hai dimenticato di aggiungere: che se fanno puttanate finiscono a puttane: non gli rimane più un amico, gli diventano tutti nemici. E son tanto fessi da credere d’aver coglionato gli altri mentre invece si coglionano loro stessi da sé. Come quel tanghero che io stimavo amico, anzi una cosa sola con me: e proprio lui s’è impegnato a fondo, con tutte le sue possibilità, per farmi tutto il male che poteva e mettermi a soqquadro tutte le mie gioie. FEDESINDACATO: Ma deve trattarsi proprio d’un figlio di puttana! RICORDINSIDIA: Eh, credo che sia proprio così! FEDESINDACATO: Ma ti supplico, per Giove, dimmelo: chi è? RICORDINSIDIA: Uno che conosci e che ti vuol bene. Se no ti pregherei di fargli la fregatura peggiore possibile. FEDESINDACATO: Dimmi solo chi cazzo è: e se non trovo il modo di fregarlo, di’ pure che sono il cazzaccio più cornuto della terra. RICORDINSIDIA: È inutile: è un farabutto, ma è amico tuo. FEDESINDACATO: E tanto più devi dirmelo: io me ne fotto dell’amicizia di un farabutto. RICORDINSIDIA: Vedo di non poter proprio fare a meno di rivelarti il suo nome: ebbene, sei stato tu, Fedesindacato, a gettare l’amico nel baratro! FEDESINDACATO: Come sarebbe a dire? RICORDINSIDIA: Come sarebbe a dire! Ma non t’ho mandato da Efeso una lettera riguardante la mia amichetta, perché me la ritrovassi? FEDESINDACATO: Precisamente, proprio così; e te l’ho ritrovata. RICORDINSIDIA: E be’? E con tutto l’oceano di puttane che c’è ad Atene pronte a farsi fottere, non c’era da fare all’amore altro che con quella che avevo affidato a te, e da farmi questa puzzonata? FEDESINDACATO: Ma ti sei impazzito? RICORDINSIDIA: La schifezza me l’ha scoperta il tuo precettore, è inutile che neghi. M’hai fottuto. FEDESINDACATO: Ma vuoi ancora infangarmi con le infamie che mi sputi addosso? RICORDINSIDIA: Ma non è vero che fai all’amore… FEDESINDACATO:42… con Bacchide? Ma qui dentro di Bacchidi ce ne sono due. RICORDINSIDIA: Euh!!! Due? FEDESINDACATO: E sorelle fra loro. RICORDINSIDIA: Ora lo fai apposta a contarmi balle. FEDESINDACATO: Oh, se ti ostini, ostia, a credermi un bugiardo, mi ti carico sul groppone e ti rimorchio qua dentro. RICORDINSIDIA: Ma no, ci andrò coi piedi miei, aspetta un minuto. FEDESINDACATO: Non aspetto un corno; ci mancherebbe altro che continuassi a sospettarmi a vanvera! RICORDINSIDIA: E va bene, vengo con te. [Entrano dalle Bacchidi.] [Fine del terzo atto]

ATTO QUARTO

Un parassita, un giovane schiavo IL PARASSITA :

Sono il parassita di un cornutone al cubo, di quello spadazza che s’è trasportata qua l’amica fino da Samo. Ora m’ha ordinato di andare da lei e domandarle se gli restituisce i quattrini o se è disposta a ripartire con lui. Be’ tu, ragazzo che finora l’hai sempre accompagnata, dato che quella è casa sua, bussa. Su, sbrìgati, accòstati alla porta. Ma lévati dai piedi! Guarda che maniera di bussare, ’sto figlio di puttana! Quanto a sbolognarti una pagnotta larga tre piedi, ce la sai fare, ma di bussare a una porta non ce la sai. Be’, c’è nessuno in casa? Ehi, dico, c’è nessuno qui dentro? Non c’è nessuno che apre la porta, nessuno che esce?

Fedesindacato, il parassita FEDESINDACATO: Ma chi

canchero è? Che maniera è questa di bussare? Che t’ha morso la tarantola, che vieni a sfoggiare i bicipiti con questa furia fottuta contro le porte altrui? Hai quasi sfondato i battenti. Che cacchio vuoi? IL PARASSITA: Salve, giovanotto. FEDESINDACATO: Salve, ma chi stai cercando? IL PARASSITA: Bacchide. FEDESINDACATO: Ma quale delle due? IL PARASSITA : Che vuoi che ne sappia? Io so questo nome soltanto: Bacchide. In due parole: mi manda Gloriadipugna, il soldato, a dirle che o gli restituisce i duecento filippi d’oro o si fa un bel viaggetto oggi stesso con lui a Elatea43. FEDESINDACATO: Non se lo fa per niente. Lei dice che non partirà. Vattene e riferisciglielo. Lei vuol bene a un altro, non a lui. Ora lévati dai piedi. IL PARASSITA: Ih, e c’è da incazzarsi così? FEDESINDACATO: Ma lo sai che succede se m’incazzo? Perdio, penso che sul tuo grugno incombe già un uragano. Già in punta alle mani mi prudono due catapulte spaccamandibole. IL PARASSITA: A quel che sembra, c’è da badare che non mi faccia schizzar via dalle mandibole gli spaccanoce. Be’, gli riferirò la tua risposta, a tuo rischio e pericolo. FEDESINDACATO: Come sarebbe a dire? IL PARASSITA: Che gli riferirò la risposta. FEDESINDACATO: Ma di’, chi sei? IL PARASSITA: La sua fascia di copertura44. FEDESINDACATO: Dev’essere proprio rincoglionito ad avere una coperta così sbrindellata! IL PARASSITA: Altro che vedrai come verrà gonfio! FEDESINDACATO: Be’, così creperà. IL PARASSITA: Hai altro da dirmi? FEDESINDACATO: Sì, che te ne vada. E su due piedi. IL PARASSITA: Statti bene, spaccamandibole. FEDESINDACATO: Statti bene tu, fascia di copertura. [Il parassita esce.] Le cose sono arrivate al punto che non so più che consiglio dare al mio compagno sull’amichetta. Lui, incacchiato com’era, ha fatto la fesseria di consegnare tutta la grana a suo padre, e ora non ha neanche un centesimo da restituire al soldato. Ma ora mi ritiro da questa parte, perché la porta cigola. Ecco Ricordinsidia che esce col latte alle ginocchia.

Ricordinsidia, Fedesindacato RICORDINSIDIA [senza vedere Fedesindacato]: Impulsivo sono, aggressivo, emotivo, irriflessivo, sempre

arrabbiato, sfrenato, smodato, emarginato, disonorato, incapace di freno, infedele, inamabile, insopportabile, nato insomma in odio alla natura umana. E il risultato è che mi piglio tutte le storture che vorrei fossero appannaggio del prossimo. Ma c’è da crederlo? Non c’è un lavativo peggiore, uno più indegno dell’aiuto divino, più indegno di essere amato e frequentato anche dall’ultimo degli uomini. È giusto che io non abbia l’amicizia d’un cane e abbia invece legioni di nemici, che mi aiutino i farabutti e non i galantuomini. Tutti gli epiteti che si meritano le carogne nessuno se li merita più di me che, mentre ero innamorato e avevo in mano i quattrini, ho fatto la pensata di consegnarli interamente a mio padre! Ma non sono uno sciagurato? Rovinarmi così e mandare all’aria quel capolavoro di Rubaloro! FEDESINDACATO [a parte]: Su, lo debbo consolare. Mo’ gli vado incontro. [Accostandolo:] Ricordinsidia, come va? RICORDINSIDIA: Son fottuto! FEDESINDACATO: Ma per carità! RICORDINSIDIA: Sì, son fottuto! FEDESINDACATO: Ma quando ti decidi a chiudere il becco, fregnone? RICORDINSIDIA: E perché dovrei chiuderlo? FEDESINDACATO: Ma sei tocco nella capoccia. RICORDINSIDIA: No, son fottuto! Ora ci ho il cuore oppresso da una valanga di crucci aspri ed acerbi. Così pazzo da credere a una calunnia! Che imbecille a incacchiarmi con te! FEDESINDACATO: Ma non ci pensare, sta’ su con la vita. RICORDINSIDIA: E a che mi serve la vita? Un morto vale più di me. FEDESINDACATO: Proprio ora è arrivato il parassita di Capitan Fracassa a chiedere la grana: ma io a forza di parolacce l’ho sbattuto lontano dalla porta e dalla ragazza, l’ho messo bellamente in fuga.

RICORDINSIDIA: E questo che mi giova? Ma se sono ridotto a non saper che fare? Quello me la porterà via, sono sicuro. FEDESINDACATO: Se ne avessi, non mi limiterei a promettertene. RICORDINSIDIA: Lo so, me ne daresti: so chi sei. Ma se non avessi preso la cotta pure tu, non so fino a che punto ti crederei. Per ora

ce ne hai già

abbastanza dei cazzi tuoi. Come potrei sperare che possa portarmi aiuto tu, che smanii per un aiuto? FEDESINDACATO: Ma sta’ zitto: qualche dio ci getterà uno sguardo benevolo. RICORDINSIDIA: Balle! FEDESINDACATO: Aspetta un po’! RICORDINSIDIA: Perché? FEDESINDACATO: Ecco la tua provvidenza che arriva. Non lo vedi Rubaloro?

Rubaloro, Ricordinsidia, Fedesindacato RUBALORO [non

ha ancora visto i due giovani]: Ecco un drittaccio da pagare a peso d’oro, sì, un dritto che ha diritto a una statua d’oro! E già perché oggi doppio colpo ho calibrato, ho trionfato con trofeo doppio. Come ho giocondamente giocato il padrone vecchio, come è stato giubilato!

Il vecchietto furbacchione con accorte furberie l’ho ridotto in condizione d’ingoiar le fesserie. A suo figlio che ora è cotto, con cui bevo, mangio e fotto, ho ammucchiato un bel granaio che allontana l’usuraio. Non mi piacciono per niente quei Parmenoni, quei Siri45 incaponiti a fregare ai padroni due o tre monete. Nulla è più lurido di un servo che non ha sale in zucca, che non ha un temperamento multiforme: ogni volta che occorre, bisogna che tiri fuori dalle meningi l’espediente al bacio. L’uomo in gamba è solo quello capace di fare il bene e il male: sia puzzone coi puzzoni, ladro coi ladri, e rubi a man salva tutto quello che può: l’uomo in gamba che ci sa fare dev’essere un camaleonte, galantuomo coi galantuomini, fetente coi fetenti, pronto sempre alla volata secondo il vento che tira. Ma mo’ mi garberebbe sapere quanto oro il padroncino s’è grattato per sé e quanto ne ha ridato a suo padre. Se è in gamba, deve aver trasformato il padre in Ercole46, dandogli la decima e fregandosi le altre nove parti. Ma guarda un po’, quello che cercavo ci sto sbattendo il muso contro. [A Ricordinsidia :] Ma che ti son caduti gli spiccioli per terra, padrone, che ci hai gli occhi sprofondati in basso? Ma perché vi debbo vedere così ingrugnati, così aggrondati? No, questa non la mando giù, ci dev’essere qualcosa sotto. Perché non mi rispondete? RICORDINSIDIA: Rubaloro, son fottuto! RUBALORO: Che forse ti sei accorto d’averne insabbiato troppo poco, d’oro? RICORDINSIDIA: Maledizione, altro che poco! Incredibilmente meno che troppo poco! RUBALORO: O coglione, ma come! La mia abilità ti aveva offerto l’occasione d’arraffarne quanto ne volevi, e tu ti sei limitato a piluccarne un briciolo con la punta delle dita? Ma che non lo sapevi che agli uomini occasioni del genere capitano una volta sola nella vita? RICORDINSIDIA: Ma non ci puoi arrivare. RUBALORO: Ma sei tu che non ci sei arrivato, che non ci hai attuffato le mani a fondo. RICORDINSIDIA: Ma canchero, sai quante me ne diresti di peggio, se sapessi meglio com’è andata? Ti dico che son fottuto. RUBALORO: Ma questo che mi dici mi puzza; ma che c’è da prevedere un disastro? RICORDINSIDIA: Son fottuto! RUBALORO: Ma insomma perché? RICORDINSIDIA: Perché ho consegnato tutto a mio padre, fino all’ultimo briciolo. RUBALORO: Gliel’hai consegnato? RICORDINSIDIA: Gliel’ho consegnato. RUBALORO: Tutto? RICORDINSIDIA: Proprio tutto. RUBALORO: Allora siamo veramente fottuti. Ma come t’è saltato in testa di accocchiare questa cacchiata? RICORDINSIDIA: Rubaloro, una calunnia m’aveva messo in testa che Bacchide e lui [accenna a Fedesindacato] m’avessero preso in giro. Allora mi sono incazzato e ho restituito l’oro sano sano a mio padre. RUBALORO: E mentre gli restituivi l’oro che hai detto a papà? RICORDINSIDIA: Che me l’aveva consegnato subito l’ospite Capopopolide. RUBALORO: Bravo! Così oggi hai spedito Rubaloro sulla croce! Il vecchio, appena gli capiterò sott’occhio, mi butterà subito nelle mani del carnefice. RICORDINSIDIA: Ma io ho pregato mio padre… RUBALORO: … di fare proprio quello che sto dicendo? RICORDINSIDIA: Tutto il contrario, di non farti del male, di non incacchiarsi per quella faccenda; ce n’è voluto, ma ci sono riuscito. Ma ora ti devi dare da fare, Rubaloro. RUBALORO: Da fare che? RICORDINSIDIA: Devi aprire un altro varco in corpo al vecchio. Spremiti il cervello, arzigogola, abborraccia quello che ti pare, incolla; l’importante è che a imbroglione risponda imbroglione e mezzo e che tu gli freghi la grana. RUBALORO: Ma è quasi impossibile. RICORDINSIDIA: Ponza come sai fare tu, e ti sarà facile. RUBALORO: Ma come facile, maledizione, se mi ha già colto in flagrante reato di menzogna? Ora, anche se lo pregassi di non credermi, non avrebbe il coraggio di credere di non dovermi credere. RICORDINSIDIA: E se avessi sentito quello che ha detto di te quando gli stavo davanti! RUBALORO: Che ha detto, che ha detto?

RICORDINSIDIA: Che se gli dicessi che il sole che sta lassù è il sole, lui crederebbe che sia la luna e che il giorno che ci illumina sia la notte. RUBALORO: Porca miseria, oggi me lo spolpo come si deve, così imparerà a parlare. FEDESINDACATO: Allora che vuoi che si faccia? RUBALORO: Per ora non c’è da prescrivervi altro che di fare all’amore. Quanto al resto chiedetemi tutta la grana che volete: ve la darò. Che

ragione c’è di chiamarmi Rubaloro, se non ne do la prova coi fatti? Ma di che quantità d’oro hai bisogno, Ricordinsidia? Dimmelo. RICORDINSIDIA: Occorrono i duecento filippi da dare al soldato per il riscatto di Bacchide. RUBALORO: Te li darò. RICORDINSIDIA: Poi ce n’è di bisogno per qualche spesetta. RUBALORO: Ah, andiamo adagio, prima una cosa e poi l’altra: quando avrò fatto la prima, passerò alla seconda. Prima il colpo d’ariete di duecento filippi al vecchio. Se con l’ariete arrivo a traforare la torre e i baluardi, allora irrompo d’un colpo per la porta nella vecchia, fatiscente cittadella: se me n’impadronisco, voi con le ceste potrete portare l’oro alle ganze vostre; ho ben ragione di sperarlo. FEDESINDACATO: Siamo nelle tue mani, Rubaloro. RUBALORO: Ora tu torna là dentro da Bacchide, Fedesindacato, e sbrigati a portar fuori… FEDESINDACATO: Che cosa? RUBALORO: Uno stilo, cera, tavolette, filo. FEDESINDACATO: Te li farò avere subito. [Rientra da Bacchide]. RICORDINSIDIA: Ma che diavolo pensi di fare? Dimmelo. RUBALORO: È già cotto il pranzo? Ci sarete voi due e ci starà con te l’amica tua, terza fra cotanto senno? RICORDINSIDIA: Tale e quale come dici. RUBALORO: E Fedesindacato non ce l’ha l’amica? RICORDINSIDIA: E vuoi che non ce l’abbia? Delle due Bacchidi, lui fa all’amore con l’una, e io con l’altra. RUBALORO: E allora che mi dici? RICORDINSIDIA: Be’, come staremo disposti. RUBALORO: Ma dov’è disposta piuttosto la vostra tavola a due letti? RICORDINSIDIA: Perché me lo domandi? RUBALORO: Be’, ci vuole, ho bisogno di saperlo. Tu non lo sai quello che sto per fare, l’atto grande che sto pensando. RICORDINSIDIA: Qua la mano, avvicinati con me alla porta e guarda là dentro. RUBALORO: Accidenti, che bellezza! È proprio come lo desideravo io sto’ ritrovo! FEDESINDACATO [uscendo di nuovo dalla casa delle Bacchidi]: Ecco ciò che mi avevi comandato. Quando a chi è in gamba si dà un ordine in gamba l’esecuzione è immediata. RUBALORO: Che mi hai procurato? FEDESINDACATO: Tutto quello che mi avevi ordinato di procurarti. RUBALORO [a Ricordinsidia]: Prenditi subito lo stilo e ’ste tavolette. RICORDINSIDIA: E per farne che? RUBALORO: Scrivici quello che ti detterò. Voglio che la lettera la scriva tu in maniera che tuo padre leggendo riconosca la tua scrittura. Scrivi. RICORDINSIDIA: E che cacchio devo scrivere? RUBALORO: Prima di tutto i saluti a tuo padre; le parole sceglile tu. FEDESINDACATO: E invece che augurargli la buona salute non sarebbe meglio scriverci l’augurio d’una bella malattia e della morte? Sarebbe proprio più opportuno. RUBALORO: Tu non rompere i coglioni. RICORDINSIDIA: Quello che volevi è già tracciato sulla cera. RUBALORO: Dimmi come hai scritto. RICORDINSIDIA: «Ricordinsidia augura buona salute a suo padre». RUBALORO: Mo’ su, forza, aggiungi questo: «Rubaloro mi rompe l’anima, caro papà, lamentandosi a sproposito perché ti ho restituito l’oro sano sano, senza truffartene una parte». FEDESINDACATO: Ma abbi la pazienza d’aspettare che abbia finito di scrivere. RUBALORO: La mano dell’innamorato dev’essere sbrigativa. FEDESINDACATO: Sì, cavolo, ma sbrigativa nello scucire la grana, non nello scrivere47. RICORDINSIDIA: Be’, detta, ho già scritto. RUBALORO: «Ora perciò, papà caro, bisogna che tu stia con gli occhi bene aperti su lui, perché lui sta architettando qualche bidone per fregarti la grana; lo ha detto espressamente che te la scippa». Avanti, sbrìgati a scrivere. RICORDINSIDIA: Su, detta. RUBALORO: «…e assicura che la grana la darà a me perché io la prodighi alle puttane e me la mangi nei bordelli e faccia la bella vita dei Greci 48. Perciò, papà, guárdati dalle fregnacce che potrà dirti oggi: guardatene, ti prego». RICORDINSIDIA: Be’ avanti. RUBALORO: Devi scrivere anche… RICORDINSIDIA: Ma tu límitati a dettare. RUBALORO: «Però, papà, ti prego di ricordarti quello che m’hai promesso, cioè che non lo fustigherai; ma tientelo pure a casa incatenato a dovere». [A Fedesindacato:] Su, forza, la cera e il filo. [A Ricordinsidia:] E tu sbrigati, lega e sigilla. RICORDINSIDIA: Ma scusami, a che cavolo ti può servire una lettera scritta in questa maniera barbina? Vuoi proprio che non ti creda per niente e ti tenga segregato in catene a casa? RUBALORO: A me piace così. È possibile che ti faccia i cazzi tuoi e non mi rompa i coglioni? Io la faccenda me la sono addossata perché fido nelle mie forze e la conduco avanti a mio rischio e pericolo. RICORDINSIDIA: E chi ti può dare torto? RUBALORO: Su, dammi le tavolette. RICORDINSIDIA: Prendile. RUBALORO: Ora statemi a sentire. Tu, Ricordinsidia, e tu, Fedesindacato, pensate soltanto ad andarvi a sdraiare tutti e due in sala da pranzo, ciascuno accanto all’amichetta sua, non c’è altro da fare; e stesi lì, dove ora sono preparati i letti, sbronzatevi in un baleno. FEDERSINDACATO: E non c’è altro?

RUBALORO: Be’, questo ancora: una volta che vi siete stravaccati, non v’azzardate ad alzarvi, se non ve ne do il segno io. FEDERSINDACATO: O impeccabile comandante! RUBALORO: Avreste già dovuto cioncare due volte. FEDERSINDACATO49: Be’, è ora di battercela. RUBALORO: Voi pensate al compito vostro, che io concluderò il mio.

[I due giovani rientrano dalle Bacchidi.]

Rubaloro RUBALORO: Oggi

sto fabbricando un affare formidabile, ma ho una fifa maledetta di non farcela a farlo stare in piedi. Ma ora mi fa comodo di avere il vecchio ferocemente incazzato con me; perché non conviene al mio bidone che il vecchio conservi la calma se m’incontra. Oggi, se Dio mi dà vita, me lo girerò e rigirerò in piena regola. Fritto me lo voglio fare, ma fritto proprio come un cece. Ora mi metto a passeggiare davanti alla porta; così quando esce gli posso andare subito incontro e consegnargli le tavolette da mano a mano.

Bramavittoria, Rubaloro BRAMAVITTORIA [che non ha ancora scorto Rubaloro]: Mi prude proprio brutto che stamani Rubaloro l’abbia fatta franca dal mio castigo. RUBALORO [a parte]: Siamo a posto, il vecchio è incavolato, ora è il momento di sbattergli il muso addosso. BRAMAVITTORIA: Ma chi sta parlando da ’ste parti? Guarda un po’, ma, se ci vedo bene, è proprio Rubaloro! RUBALORO: Bisogna affrontarlo. BRAMAVITTORIA: Salute, servo esemplare! Che c’è da fare? È già il momento ch’io mi metta in mare alla volta di Efeso per andar a chiedere

ad Amadio l’oro da riportare a casa? Mo’ t’è caduta la lingua? Giuro per tutta la coorte celeste che, se non volessi a mio figlio il bene che gli voglio e non volessi contentarlo in tutto quello che desidera, la tua schiena sarebbe scuoiata a punto dallo staffile e tu consumeresti il resto dei tuoi giorni ben inferrato alla ruota d’un mulino. Ricordinsidia me le ha riferite tutte, per filo e per segno, le tue canagliate. RUBALORO: Ah, mi ha pure caricato d’accuse? A meraviglia! Sono io il mascalzone, io il satanasso, il farabutto. Esamina a modo i fatti: io neppure fiato. BRAMAVITTORIA: Ah, ti metti pure a minacciare, boiaccia? RUBALORO: Non passerà un minuto che vedrai com’è fatto tuo figlio. Per ora m’ha ordinato di consegnarti queste tavolette. Vorrebbe che tu facessi quello che c’è scritto. BRAMAVITTORIA: Dammele. RUBALORO: Lo riconosci il sigillo? BRAMAVITTORIA: Sì, e lui dov’è? RUBALORO: Non lo so. Ormai il mio dovere è di non sapere più nulla, ho dimenticato tutto. So soltanto che sono un servo: non so più neanche quello che so. [A parte:] Ora il tordo s’infila nella rete per acchiappare il lombrico; ci rimarrà accalappiato a puntino, tanto l’ho tesa a dovere. BRAMAVITTORIA: Aspetta un momento; sono subito da te, Rubaloro. [Esce.] RUBALORO: Poverino! Pensa di prendermi per il culo, come se non sapessi che cavolo vuol fare! È andato a radunare in casa i servi per incatenarmi. Bene, la nave prende il largo e la mia galera le zompa addosso. Ma ora stiamoci zitti, perché sento che la porta si apre.

Bramavittoria, Rubaloro, Macellaio [e gli aguzzini] BRAMAVITTORIA: Macellaio, inchiavardagli subito le mani. RUBALORO: Ma che ho fatto? BRAMAVITTORIA: Se osa soltanto mugolare, scaricagli un cazzotto. [A Rubaloro:] Perché, non lo sai che dice questa lettera? RUBALORO: E lo chiedi a me? Ma io te l’ho consegnata ancora sigillata, come l’ho ricevuta da lui. BRAMAVITTORIA: Perché, non hai coperto mio figlio di contumelie per avermi restituito interamente quella grana, e non hai detto

che quella grana me l’avresti fregata lo stesso con un tranello? RUBALORO: Io ho detto questo? BRAMAVITTORIA: Sì. RUBALORO: E qual è l’individuo che dice che ho detto questo? BRAMAVITTORIA: Taci, non lo dice un cane: sono queste tavolette ad accusarti, proprio quelle che m’hai portate. Sono loro che mi obbligano a ferrarti come si deve. RUBALORO: Ah, sì? E così tuo figlio ha fatto di me un Bellerofonte 50. Così sono stato proprio io a portarti le tavolette per farmi incatenare; guarda un po’! BRAMAVITTORIA: E così t’insegno io, pubblica calamità, a indurre mio figlio a fare con te la dolce vita dei Greci 51! RUBALORO: Pezzo di coglione, ma non lo capisci che stai per essere messo all’incanto? Ma non lo vedi che stai già piantato sul banco, come baccaglia il banditore? BRAMAVITTORIA: E allora abbi il fegato di rispondermi: chi mi vuole vendere? RUBALORO: Muor giovane colui che al cielo è caro52 mentre è ancora in salute, in sentimento e in situazione sicura d’intendere e di sapere. Questo bischero, se un qualunque dio gli avesse voluto bene, avrebbe dovuto tirar le cuoia da più di dieci, anzi da più di venti anni; ormai è divenuto il rifiuto dell’umanità, perché è condannato a trascinarsi ancora sulla terra, ormai ha perso tutti i sentimenti, e vale tale e quale un fungo marcito. BRAMAVITTORIA: Ah, e sei proprio tu a definirmi rifiuto dell’umanità? Strascinate dentro questo mascalzone e incatenatelo stretto a una colonna. Di lì l’oro non potrai soffiarmelo. RUBALORO: E invece sarai proprio tu a darmelo fra poco. BRAMAVITTORIA: Io dartelo? RUBALORO: Anzi sarai proprio tu a pregarmi di fregartelo, quando saprai a quali pericoli, a quale rovina è esposto il mio accusatore. Allora arriverai a offrire la libertà a Rubaloro; ma io non sarò disposto ad accettarla. BRAMAVITTORIA: Canta, capobanda d’assassini, canta: che pericolo minaccia mio figlio Ricordinsidia? RUBALORO: Vienimi appresso per di qua, e te lo farò sapere. BRAMAVITTORIA: Ma dove mai? RUBALORO: A tre passi soltanto di qui.

BRAMAVITTORIA: Ma anche a dieci. RUBALORO: Su da bravo, Macellaio, apri

questa porta [Accenna alla casa delle Bacchidi], ma solo un pochino; adagio, non farla cigolare. Férmati, basta così. [A Bramavittoria:] Lo vedi che razza di banchetto? BRAMAVITTORIA: Ma io vedo lì in faccia Fedesindacato e Bacchide. RUBALORO: E chi c’è sull’altro letto? BRAMAVITTORIA: E mo’ siam fottuti, poveretto me! RUBALORO: L’hai riconosciuto quello dei due ch’è di sesso maschile? BRAMAVITTORIA: L’ho riconosciuto. RUBALORO: E ora dimmi un po’, ti pare bbona la femmina? BRAMAVITTORIA: E quanto! RUBALORO: Naturalmente la prendi per una puttana. BRAMAVITTORIA: E che altro dev’essere? RUBALORO: E invece no. BRAMAVITTORIA: Ma allora, porca miseria, chi è? RUBALORO: Indovinala, grillo: da me oggi la confidenza non l’avrai manco per il cavolo.

Gloriadipugna, Bramavittoria, Rubaloro [e gli aguzzini] GLORIADIPUGNA [entra di furia, senza vedere nessuno]: E così questo signor Ricordinsidia, il figlio di Bramavittoria, può tenersi con la forza la donna

mia? A questa prepotenza siamo arrivati? BRAMAVITTORIA: E questo qui chi canchero è? RUBALORO [a parte]: Il soldato mi arriva proprio a tempo giusto. GLORIADIPUGNA: Crede che io non sia un menafendenti, ma una

malafemmina, uno che non sappia difendere me e i miei familiari? Ma Bellona e Marte mi ritirino la loro protezione, se incontrandolo non gli faccio sputare l’anima, se non gli faccio perdere il patrimonio dell’esistenza. BRAMAVITTORIA: Rubaloro, ma chi è quel bravaccio che minaccia mio figlio? RUBALORO: È il marito della donna a cui lui è sdraiato accanto. BRAMAVITTORIA: Come! Il marito? RUBALORO: Sì, proprio il marito. BRAMAVITTORIA: Ma perché, Dio santo, è maritata? RUBALORO: Lo saprai fra un minuto. BRAMAVITTORIA: Ora siamo definitivamente fottuti. RUBALORO: E allora dunque? Rubaloro ti sembra ancora un criminale? Su, mettimi in catene, segui i consigli di tuo figlio. Non ti avevo detto che avresti scoperto che bel tipo è? BRAMAVITTORIA: E ora che posso fare? RUBALORO: Be’ ora, se ti pare, fammi sciogliere subito. Perché se non mi sciogliete, quello lì certamente te lo sorprende sul posto. GLORIADIPUGNA: Oggi, per tutto l’oro del mondo, non vorrei che mi capitasse altro che sorprendere lui a letto con lei; li scannerei tutti e due. RUBALORO: Lo senti che dice? Perché non mi fai sciogliere? BRAMAVITTORIA [agli aguzzini]: Scioglietelo. Non ne posso più, la fifa mi acceca. GLORIADIPUGNA: Lei che prostituisce il suo corpo, non potrà vantarsi d’aver trovato il fesso da sfottere. RUBALORO [a Bramavittoria]: Puoi cercar di venire a patti con lui con un po’ di quattrini. BRAMAVITTORIA: Ma sì, patteggia, ti supplico, al prezzo che ti pare, purché non me lo peschi sul fatto e non me lo ammazzi. GLORIADIPUGNA: Ora, se non mi si scuciono i duecento filippi, io l’animaccia di tutti e due me la suco in un sorso. BRAMAVITTORIA: Hai sentito? patteggia a quel prezzo, se è possibile; su sbrìgati, ti scongiuro: patteggia a qualsiasi prezzo. RUBALORO: Mo’ ci corro e metto tutto a posto. [A Gloriadipugna:] Che hai da strillare? GLORIADIPUGNA: Il tuo padrone dov’è? RUBALORO: Ma che ne so io? da nessuna parte. Vuoi che ti si assicuri di pagarti i duecento filippi, così la smetti di fare questa baracca, questo torneo d’insulti? GLORIADIPUGNA: Non chiedo di meglio. RUBALORO: Ma a patto ch’io ci metta di mezzo un sacco di male parole contro di te. GLORIADIPUGNA: A piacer tuo. BRAMAVITTORIA [a parte]: Come se lo smucina quel boiaccia! RUBALORO: Questo è il padre di Ricordinsidia; vienimi appresso, lui stringerà l’impegno. Tu pensa a chiedergli la grana; quanto al resto, basta una parola. BRAMAVITTORIA: Be’, che si combina? RUBALORO: Ho sistemato la faccenda per duecento filippi. BRAMAVITTORIA: O mio salvatore, m’hai proprio ridato la vita! Be’, quando potrò dire: «te li darò?». RUBALORO [a Gloriadipugna]: Tu fagli la domanda. [A Bramavittoria:] E tu impégnati con lui. BRAMAVITTORIA: Io m’impegno. Tu fa’ la domanda. GLORIADIPUGNA: Mi darai duecento filippi d’oro di conio ineccepibile? RUBALORO: Di’: «Ti saranno dati». Su, rispondi. BRAMAVITTORIA: Te li darò. RUBALORO [a Gloriadipugna]: E allora, puzzone? C’è ancora qualcosa che ti è dovuto? Che hai ancora da rompergli i coglioni? Cosa sono queste minacce di morte? Io e lui ti mandiamo a farti fottere; se tu ci hai la scimitarra, noi a casa ci abbiamo il tortore, e se tu mi fai venire le buggere ti sbudello peggio del culo d’un topo. Del resto lo sento, lo sospetto quello che ti sfrocolia: che lui ora se la spassi con quella femmina. GLORIADIPUGNA: Ma ci sta proprio insieme. RUBALORO: Mi assistano Giove, Giunone, Cerere, Minerva, Latona, la Speranza, l’Abbondanza, la Virtù, Venere, Castore, Polluce, Marte, Mercurio, Ercole, Sottomano53, il Sole, Saturno, insomma tutti gli dèi, com’è vero che lui ora con lei non ci sta a letto né ci sta andando a passeggio, né se la sta sbaciucchiando né le sta facendo… be’, lo sai come si dice. BRAMAVITTORIA [a parte]: Com’è capace di spergiurare! Quell’uomo lì mi salva coi suoi spergiuri.

GLORIADIPUGNA: Ma allora dove si trova Ricordinsidia ora? RUBALORO: Suo padre l’ha spedito in campagna. Lei è salita

sull’Acropoli, a fare le sue devozioni nel tempio di Minerva. Adesso lì è aperto, vacci, cerca se ci sta. GLORIADIPUGNA: Be’, me ne vado in piazza. RUBALORO: Ma va’ piuttosto a fa’ ’n culo! GLORIADIPUGNA: Ma la potrò beccare la grana oggi? RUBALORO: Sì, e va’ a farti impiccare: non crederai che ti ci si getti in ginocchio davanti, cazzone! [Gloriadipugna esce.] Oh, finalmente ci ha tolto il disturbo! Ora, padrone, ti, scongiuro per tutti gli dèi, lasciami correre qua dentro da tuo figlio. BRAMAVITTORIA: E perché vuoi entrare là? RUBALORO: Per fargli un liscebusso interminabile per le fetenti fesserie fatte a strafottere. BRAMAVITTORIA: Ma sono io che ti prego di farlo. Rubaloro; anzi ti scongiuro di non risparmiargli una bella lavata di capo. RUBALORO: E c’è da raccomandarmelo? Ti basta se oggi si dovrà sorbire da me più male parole di quelle che toccò sentire a Clinia da Demetrio54? [Entra dalle Bacchidi.] BRAMAVITTORIA: ’Sto servo adesso è tale e quale un occhio con la cispa; se non c’è, non vorresti che ci fosse e non soffri della sua assenza; ma se c’è, non puoi far a meno di starci sempre a contatto. Pensa un po’ se oggi la sorte non avesse stabilito che ci stesse qui il servo: il soldataccio avrebbe sorpreso sua moglie con Ricordinsidia e me lo avrebbe ammazzato come adultero colto in flagrante. Ora è come se avessi riscattato mio figlio coi duecento filippi che ho promesso di pagare al soldato: ma col cavolo che li darò alla cieca se prima non avrò riabbracciato mio figlio. Pure però col cavolo che darò retta a Rubaloro a occhi chiusi; anzi ci ho proprio voglia di rileggermi con tutti i sentimenti ’sta lettera: è un obbligo prestar fede a tavolette sigillate. [Esce.]

Rubaloro RUBALORO [uscendo dalla casa delle Bacchidi]: Dicono

che i due fratelli Atridi fecero un atto grande, grandissimo, perché con un fottio di armi, di cavalli, con un intero esercito di eroici ammazzasette, con la bellezza di mille navi, solo dopo dieci anni riuscirono a domare Pergamo, la patria di Priamo, attrezzata a difesa dalle dita degli dèi. Ma non è stato che un graffio a un piede a confronto dell’assalto che ardirò sferrare contro il mio padrone senza flotta, senza esercito e tutta quella marmellata di soldati. Per il padroncino innamorato ho arraffato, ho conquistato alla baionetta un tesoro a suo padre55. Ora prima che il vecchietto se ne torni qua mi garba intonare il canto delle prefiche per celebrargli il funerale. O Troia, o patria, o Pergamo 56! O vecchio Priamo, t’han fottuto, tu miseramente multato dal malanno della mungitura di ben quattrocento filippi d’oro. Perché queste altre tavolette ben contrassegnate e sigillate che ho qui in mano, non sono tavolette, ma il cavallo di legno, quel bel regalo che gli Achei fecero a Troia. Fedesindacato è Epeo 57: le tavolette me le ha date lui. Ricordinsidia è Sinone58 lasciato in retroguardia; ma guardalo lì, non è mica steso sul sepolcro d’Achille, ma sopra un bel letto, con la sua Bacchide fra le braccia. Sinone aveva il fuoco per dare il segnale, lui invece ce lo ha dentro il fuoco che lo brucia. Io poi sono Ulisse, l’artefice di tutta la baracca per la sua spiccata intelligenza. Le sillabe tracciate qui sulle tavolette sono né più né meno che gli eroi appiattati nel cavallo, in armi e infiammati d’ardore bellico. M’è andata a fagiolo fino a questo punto. Ma ora ’sto cavallo si avventerà non contro un castello, ma contro un cestello… di quattrini. Catastrofe, carneficina… cavaturaccioli sarà oggi ’sto cavallo per la grana del vecchio. Al nostro vecchio cazzone non c’è che da attribuirgli il nome di Ilio; il soldato è Menelao59, io Agamennone e anche il Laerziade Ulisse 60. Ricordinsidia è Paride, che sbaraccherà le fortune della sua patria; infatti è stato lui a rapire quell’Elena per cui ho posto l’assedio ad Ilio. Mi hanno raccontato che lì pure Ulisse fu un temerario e un briccone, tale e quale come me: a me m’hanno beccato sul più bello delle mie trappolerie e lui per poco non ci rimetteva la pellaccia quando fu quasi scoperto mentre travestito da mendicante spiava le mosse dei Troiani 61; oggi m’è capitato all’incirca lo stesso. Sono stato incatenato, ma mi sono slegato a forza d’inventare castronerie: e anche lui si salvò a furia di strafottentissime invenzioni. Ho sentito dire che tre fatali circostanze avrebbero dato il segnale della distruzione di Ilio: anzitutto se la statua fosse scomparsa dalla rocca62, il secondo segnale sarebbe stato la morte di Troilo 63, il terzo se si fosse spaccato lo stipite superiore della porta Frigia64. Sono ugualmente tre i segnali di rovina per questo nostro Ilio. Il primo quando poco fa ho fatto ingollare al vecchio la bugia dell’ospite, dell’oro e della goletta; è stato come se avessi fatto sparire la statua dalla rocca. Restavano ancora da compiersi due fatali circostanze prima di poter dire d’aver espugnato la città. La seconda fu quando consegnai le tavolette al vecchio; allora fu come se avessi ucciso Troilo 65, quando credette66 che la donna con cui stava sdraiato Ricordinsidia fosse la moglie del soldato. A quel punto fu un miracolo se riuscii a farmela franca: quel Pericolo lì lo paragono a quando, come dicono, Ulisse fu riconosciuto da Elena e denunciato ad Ecuba67. Ma come allora quello se la svicolò a furia di moine e persuase la vecchia regina a lasciarlo andare, così io coi più raffinati bidoni mi sono sganciato da quel pericolo e ho fatto fesso il vecchiaccio. Dopo ho dovuto battermi col glorioso guerriero, che a chiacchiere espugna le città disarmato, e ho sgominato anche il gradasso. Poi m’è toccato rinnovare la pugna col vecchio: e, tac! l’ho talmente disarmato con una sola bugia che con un sol colpo all’istante gli ho tratto le spoglie. Ora lui darà al soldato i duecento filippi che ha promesso di dargli. Ma ora ne occorrono altri duecento, da profondere in sbronze a vantaggio dei soldati per festeggiare la presa d’Ilio. Ma ’sto Priamo di casa nostra è molto superiore a quello di Troia: non ne ha solo cinquanta di figli, ma quattrocento e tutti, senza fallo, tirati al sugo, senza la minima imperfezione: io oggi con due soli colpi glieli stermino tutti. Ora poi, se c’è chi ha voglia di comprare il nostro Priamo, io glielo metto in vendita (tanto, lo posso vendere in aggiunta), subito dopo aver espugnato la cittadella. Ma ecco che vedo Priamo fermo dinanzi alla porta di casa sua; mo’ gli vado incontro e gli parlo.

Bramavittoria, Rubaloro68 BRAMAVITTORIA [uscendo di casa]: Di chi è la voce che mi risuona qui accanto? RUBALORO: Oh, Bramavittoria! BRAMAVITTORIA: Che c’è? l’hai fatto quello che ti avevo detto? RUBALORO: E c’è da chiederlo? Accóstati. BRAMAVITTORIA: Eccomi a te. RUBALORO: Sono proprio un oratore nato: a furia di rimproveri e di male parole,

di tutte le trovate che son riuscito a escogitare lì per lì, gli ho strappato le lagrime! BRAMAVITTORIA: Che ha detto? RUBALORO: E che poteva parlare? Non faceva che piangere in silenzio ascoltando quello che gli dicevo io; e in silenzio ha scritto un’altra lettera su queste tavolette, le ha sigillate e me le ha date, ordinandomi di darle a te. Ma ho una paura maledetta che ci stia dentro la stessa canzone di prima. Be’, lo riconosci il sigillo? È quello suo?

BRAMAVITTORIA: Sì. Mo’ me la voglio leggere per benino. RUBALORO: Leggi, leggi. [A parte:] Ora si demolisce l’architrave, ora incombe la rovina su Ilio, il cavallo sbaracca tutto ch’è una delizia. BRAMAVITTORIA: Rubaloro, stattene qui mentre me la leggo. RUBALORO: E che bisogno hai che ci stia io? BRAMAVITTORIA: Voglio che tu faccia quello che avrò da comandarti, dopo che si sarà saputo quello che c’è scritto qui. RUBALORO: Ma io me ne frego e non ho nessuna voglia di saperlo. BRAMAVITTORIA: Devi restare comunque. RUBALORO: Ma, ti dico, che bisogno c’è? BRAMAVITTORIA: Zitto, fa’ quel che dirò. RUBALORO: E va bene, rimarrò. BRAMAVITTORIA: Ih, che lettere minute! RUBALORO: Per quell’orbo son sparute, ma per chi ha pupille acute, grosse sono, ed un bel po’. BRAMAVITTORIA: Mo’ sta’ attento. RUBALORO: Me ne fotto. BRAMAVITTORIA: Senti mo’, se no t’abbotto. RUBALORO: Ma se a me non preme un fico! BRAMAVITTORIA: Fammi invece quel che dico. RUBALORO: Be’, è giusto che un tuo servo ti serva a ogni tuo segno. BRAMAVITTORIA: E allora stammi bene a sentire adesso. RUBALORO: E allora spiffera quel che ti pare: le mie orecchie sono al tuo servizio. BRAMAVITTORIA: Ih, non ha fatto economia né di cera né di graffi con lo stilo! Qualunque cosa ci stia qui dentro, ho deciso di

leggermela attentamente. «Papà, ti scongiuro, da’ duecento filippi a Rubaloro, se vuoi salvarmi e conservarmi in vita». Cazzo, che bella fregatura! RUBALORO: E te lo dico io! BRAMAVITTORIA: Che mi dici? RUBALORO: Niente, ti domandavo se a principio non ci ha scritto i saluti. BRAMAVITTORIA: Non ce ne trovo traccia da nessuna parte. RUBALORO: Se hai sale in zucca, non gli darai un centesimo; ma se ti decidi a sganciare, lui, se ce l’avrà anche lui il comprendonio, se lo cerchi pure un altro postino: perché io col cavolo che gli porterò la grana, anche se tu t’ostinassi a comandarmelo. Già così com’è sono sospettato a strafottere, con tutto che sono innocente come un bambino. BRAMAVITTORIA: Ma pensa a sentire, finché termino di leggere quello che c’è scritto. RUBALORO: Ma non vedi già dall’inizio che questa lettera è un capolavoro di faccia tosta? BRAMAVITTORIA: «Io mi vergogno di presentarmiti davanti, papà, tanto è grande la schifezza da me commessa, e che ho sentito che hai appresa, mettendomi a letto con la moglie di un soldato forestiero». Perdio, c’è poco da sfottere; ci son voluti duecento filippi d’oro per salvarti la vita dopo quell’obbrobrio. RUBALORO: Di tutto questo non c’è una parola che non gli abbia detta. BRAMAVITTORIA: «Confesso che mi sono diportato da dissennato. Ma se ho commesso una dissennatezza, non mi abbandonare, papà. Mi son lasciato trascinare dal temperamento focoso e dagli occhi golosi: questi mi hanno spinto ad azioni di cui, ora che le ho commesse, mi vergogno». Ma che! Quanto era meglio che ci avessi pensato prima, anziché vergognartene adesso! RUBALORO: Ma è proprio, per filo e per segno, quello che gli dicevo un minuto fa! BRAMAVITTORIA: «Ti prego, papà, conténtati del terribile contropelo che mi ha inflitto Rubaloro, che mi ha redento con le sue reprimende, tanto che tu devi essergliene riconoscente». RUBALORO: Ma c’è scritto proprio questo lassù? BRAMAVITTORIA: Guardalo tu stesso, così ti convincerai. RUBALORO: Quando la si è fatta grossa, come ci si sente umili e supplichevoli con tutti! BRAMAVITTORIA: «Ora, se mi è concesso supplicarti, papà, dammi duecento filippi, ti supplico». RUBALORO: Neppure uno, cribbio, se non hai smarrito il cervello! BRAMAVITTORIA: Lasciami arrivare alla fine. «Ho pronunciato un solenne giuramento, nelle forme sacramentali, che io oggi, prima di sera li avrei dati a quella donna, prima ch’essa si separasse da me. Ora, papà, provvedi a non farmi venir meno al giuramento, e per quanto ti è possibile, riscattami da questa casa e da questa femmina che mi ha fatto commettere tanti sperperi e tante vergogne. Non ti far venire le buschere per doverti separare da duecento filippi: te ne restituirò seicento dello stesso peso, se rimarrò in vita. Statti bene e asseconda le mie preghiere». E mo’ che ne pensi tu Rubaloro? RUBALORO: Io non ti darò manco l’ombra d’un consiglio: ci mancherebbe altro che, se poi qui sotto c’è un bidone, tu dicessi che te lo si è combinato su consiglio mio! Ma, a dire la mia opinione, se io mi trovassi al tuo posto, scucirei la grana anziché farlo precipitare nella perdizione. Il dilemma è cornuto: sta a te scegliere uno dei due corni: o perdere i quattrini o far spergiurare l’innamorato. Io non ti dico né sì né no: non aspettare consigli da me. BRAMAVITTORIA: Che vuoi, lui m’impietosisce. RUBALORO: E che c’è da meravigliarsi? In fondo è figlio tuo. Anche se c’è da sganciare di più, è meno sgradevole mandar la grana a farsi fottere che sputtanarlo per quel cumulo di schifezze che ha fatto. BRAMAVITTORIA: Perdio, quanto avrei preferito che fosse rimasto ad Efeso (sempre che se la fosse passata bene, eh), anziché fosse tornato a casa! Ma ormai che altro c’è da fare? Sbrighiamoci a sbracarci di quel che c’è da sganciare! Caverò di lì [accenna a casa sua] due volte duecento filippi, quelli che ho promesso poco fa al soldato, e questi altti. Aspettami qui, a momenti torno da te, Rubaloro. [Esce.] RUBALORO: Troia è già in preda al saccheggio, i capoccioni stanno abbattendo Pergamo. Da mo’ che sapevo che sarei stato io la perdizione di Pergamo! Porca vacca, se qualcuno sentenzia che mi merito le più atroci torture, io con lui la scommessa non ce la faccio; tanto è stato il terremoto che ho scatenato! Ma la porta cigola: ecco il bottino scaricato fuori da Troia! Mo’ acqua in bocca! BRAMAVITTORIA [uscendo di casa]: Prenditi questi quattrini, Rubaloro, su va’, portali a mio figlio. Io intanto me ne vado al Foro a soddisfare il soldato. RUBALORO: Perdio, io non prendo un cazzo. Vatti a cercare un altro che li porti. Io incarichi del genere non li accetto. BRAMAVITTORIA: Ma su, prendi, non essere odioso. RUBALORO: Ti ripeto che non prendo un cazzo. BRAMAVITTORIA: Ma sono io a pregarti.

RUBALORO: Be’, allora ti dico come si può aggiustare la faccenda. BRAMAVITTORIA: Ma mi vuoi far perdere tempo? RUBALORO: Ti ripeto che non voglio che mi si affidi la grana, ma che se insisti bisogna mettermi accanto uno che sorvegli me. BRAMAVITTORIA: Ohè, m’hai proprio seccato! RUBALORO: Be’ dammelo, se proprio non c’è rimedio. BRAMAVITTORIA: Allora occupatene tu. Io fra poco sarò di ritorno. [Esce.] RUBALORO: Mi sono occupato… di ridurti l’arcifottuto dei vecchi. Questo significa risolvere le faccende come si deve: questo

è successo a me che me ne torno in trionfo, carico di preda: messa in salvo la ghirba e presa la città, con uno stratagemma, straporto alla base l’esercito intatto. Ma voi spettatori, non spalancate la bocca se non mi presento sul cocchio trionfale: non ci vuole un cocchio per questo cacchio, una fesseriola che non mi commuove affatto: ma ad accogliere i soldati c’è la prospettiva di una solennissima sbronza. Ora bisogna portare tutto questo bottino al questore69. [Esce.]

[Fine del quarto atto]

ATTO QUINTO70

Ospitalone OSPITALONE: Quanto

più mi rigiro nel cuore i raggiri e i casini in cui è incastrato mio figlio, la vitaccia a cui si lascia andare a occhi chiusi come un debosciato, mi viene una fifa formidabile che non vada a finir male e non si deteriori irrimediabilmente. Lo so, anch’io alla sua età ho fatto tutte quelle fesserie, nessuna esclusa, ma senza oltrepassare i limiti. Mi son messo con una puttana, l’ho mantenuta, ci ho bevuto insieme, le ho scucito la grana, le ho fatto regali, ma tutto questo mica tanto spesso. E non mi sconfinferano le usanze che vedo seguite in generale dai genitori verso i figli: ho deciso di non traccheggiare con mio figlio su quel po’ con cui può assecondare i suoi desideri; mi pare giusto, ma non vorrei lasciargli troppo le briglie sul collo perché si abbandoni alla scioperataggine. Spero che il bravo giovanottino che ho incaricato di raddrizzarlo, l’abbia aggiustato proprio a modino. Se l’ha incontrato, certo che a farlo non ha tardato, ché è saggio e fino.

Bramavittoria, Ospitalone BRAMAVITTORIA [senza scorgere Ospitalone]: Dovunque stanno tutti

quelli che sono, furono e saranno fessi, fottuti, fregnoni, piglianculo, cheti, bavosi, boccaperta, qui ci sono io che da solo li supero tutti in cazzoneria e in insipienza. Mi sento morire di vergogna: alla mia età farsi bischerare due volte in una maniera così merdosa? Più ci rifletto, più mi scotta il casino combinato da mio figlio. Sono fottuto, sradicato, suppliziato in tutte le maniere. Tutti i guai mi stanno addosso, muoio d’ogni genere di morte. È stato Rubaloro oggi a scuoiarmi, Rubaloro a spogliarmi, sventurato me! Quel criminale mi ha tosato di tutto l’oro, come gli è parso e piaciuto, ha fregato, ben provveduto com’è di tutte le drittate, me sprovveduto. Il soldato m’ha spifferato che quella sottana, che lui diceva ch’era sua moglie, era invece una puttana, e m’ha raccontato come sta realmente la faccenda: che lui se l’era presa a nolo per quest’anno, e la somma con cui se l’era pagata è proprio quella che io, tre volte coglione, gli ho promessa: questo, questo mi fa inacidire il sangue, questo mi tortura, essere cornificato così alla mia età, diventare, porca miseria, lo zimbello di tutti71, con la mia testa canuta, con la mia barba bianca essere tanto disgraziato da farsi mungere tutta la grana! È proprio la fine se un cazzaccio di servo ha osato giocarmi questo tiro colossale! Anche se avessi perduto una somma più grossa, ma per un’altra ragione, non m’incavolerei così e lo giudicherei un danno meno buscherone. OSPITALONE: Ma mi sembra che qui accanto abbia parlato qualcuno; ma guarda un po’ chi mi tocca vedere: il padre di Ricordinsidia! BRAMAVITTORIA: Caspita! Mi tocca vedere il mio compagno di sventura e di fregatura! Salute, Ospitalone. OSPITALONE: Salute a te. Come te la passi? BRAMAVITTORIA: Come l’uomo più tapino e sventurato. OSPITALONE: Ma dove c’è un uomo tapino e sventurato, cacchio, ci sto io. BRAMAVITTORIA: Allora siamo pari in età e in calamità. OSPITALONE: È proprio così. Ma a te che t’è capitato? BRAMAVITTORIA: Porca miseria, te l’ho detto, siamo alla pari: quello ch’è capitato a te, è capitato a me. OSPITALONE: Insomma è tuo figlio che ti fa stare sui carboni ardenti? BRAMAVITTORIA: Precisamente. OSPITALONE: Gli stessi guai fanno scoppiare il cuore a me. BRAMAVITTORIA: Ma a me è stato Rubaloro, quella buona lana, a fare un macello di mio figlio, di me stesso e del mio patrimonio. OSPITALONE: Ma scusami, che guai t’ha combinato tuo figlio? BRAMAVITTORIA: Mo’ lo saprai. Senti: si sta fottendo insieme col figlio tuo, perché tutti e due hanno l’amica. OSPITALONE: E come lo sai? BRAMAVITTORIA: Li ho visti. OSPITALONE: Porca l’oca, mo’ son proprio fottuto72! BRAMAVITTORIA: Ma che aspettiamo ancora a bussare e a tirarli fuori tutti e due? OSPITALONE: E chi ti trattiene? BRAMAVITTORIA: Olà, Bacchide, facci aprire subito la porta, se non volete tutt’e due, femmine da conio, che vi si fracassi porta e battenti a colpi di scure!

Bacchide I, La sorella, Bramavittoria, Ospitalone BACCHIDE I: Ma chi è che pronuncia il mio nome e batte alla porta facendo tutto questo fracasso e questo casino? BRAMAVITTORIA: Io e lui. BACCHIDE I: Ma di che cavolo si tratta? Ma, scusa, chi ce le ha portate qua ’ste pecorelle? BRAMAVITTORIA: Lo senti? ’Ste puttanone ci chiamano pecorelle! SORELLA: Si vede che il pastore s’è addormentato, se queste qui hanno lasciato lo stazzo e vanno belando qua e là. BACCHIDE I: Però, perbacco, sono lustre, non sembrano rognose né l’una né l’altra. SORELLA: Eh già, ma è perché le hanno tosate da capo a piedi, tutt’e due. OSPITALONE: Mi pare che ci stiano a sfottere. BRAMAVITTORIA: Be’, per ora lasciale divertirsi come vogliono. BACCHIDE I: Ti pare che si costumi di tosarle tre volte all’anno? SORELLA: Oggi, perdio, una delle due l’hanno tosata certamente due volte.

BACCHIDE I: Ma in realtà sono vecchioline, ci hanno ormai tutte e due le poppe vuote73. SORELLA: Ma credo che un tempo la sostanza ce la dovessero avere. BACCHIDE I: Ma non vedi come ci guardano di traverso? SORELLA: Ma lascia perdere, ché devono essere, penso, proprio inoffensive. OSPITALONE: Ce lo stiamo meritando: chi ce l’ha fatto fare a venire qua? BACCHIDE I: Be’, vediamo di farli entrare. SORELLA: Ma non mi sembra il caso: per farne che? Ormai di latte e di lana non ce ne

hanno più. Lasciale stare dove stanno. Quello che valeva l’hanno già fruttato, gli è calata via di dosso ogni possibilità di prezzo. Non vedi come le lasciano girovagare in libertà fuori del gregge? E poi credo che per la vecchiaia siano diventate pure mute: non lo vedi che quando stanno lontane dal resto del gregge non belano neppure? In conclusione cretine sì, questo lo penso anch’io, ma non malvage. BACCHIDE I: Be’, rientriamo, sorellina mia. BRAMAVITTORIA: Nossignore, rimanete tutt’e due. ’Ste pecorelle son venute per voi. SORELLA: Che prodigio! Le pecore ci si rivolgono con voce umana! OSPITALONE: ’Ste pecorelle ve la suoneranno sul groppone la gragnuola di cui è giusto gratificarvi. BACCHIDE I: Ma se devi gratificarmi di qualcosa, te la condono: consérvatela, non la pretenderò mai da te. Ma per quale ragione ci andate minacciando mari e monti? OSPITALONE: Perché dicono che lì dentro ci stanno chiusi due nostri agnellini. BRAMAVITTORIA: E oltre a quegli agnellini lì dentro c’è un cane che morde a tradimento74; se ’sto bestiame non ci viene presentato e non ci viene fatto fuori ci trasformeremo in arieti d’assalto75 e ci avventeremo su di voi. BACCHIDE I: Sorellina, ti vorrei dire una parolina a quattr’occhi. SORELLA: Eh, come vuoi. BRAMAVITTORIA: Ma dove cavolo se ne stanno andando? BACCHIDE I [in disparte, accennando a Ospitalone]: Quel vecchietto che sta più discosto lo affido a te perché me lo accocchi coccolandolo; io affronterò questo così incavolato. E vediamo se ci riesce di accalappiarceli nella tana. SORELLA: Il compito cercherò di svolgerlo a puntino: ma come fa ribrezzo abbracciare la morte! BACCHIDE I: Datti da fare per farcela. SORELLA: Zitta, e pensa a quello che devi fare tu: io ho promesso e non cambio. BRAMAVITTORIA: Ma che cavolo stanno ciangottando quelle due lì in seduta segreta? OSPITALONE: Che ne diresti, bello mio? BRAMAVITTORIA: Be’, e mo’ che vuoi? OSPITALONE: Ma io mi vergogno a confidartelo. BRAMAVITTORIA: Ma cos’è che ti fa vergognare? OSPITALONE: Ma amicone come sei, quello che ho concepito ho deciso di confidartelo. Sono uno stronzo. BRAMAVITTORIA: Eh, questo lo si sapeva da un pezzo. Ma perché stronzo proprio adesso? Questo mi devi dire. OSPITALONE: M’hanno impiastrato col loro vischio; ci ho un pungiglione che mi trapassa il cuore. BRAMAVITTORIA: Cazzo, sarebbe più esatto dire che ti trapassa il cazzo. Ma cos’è ’sta faccenda? Del resto che cosa sia credo di saperlo a dovere già da me; però ho voglia di sentirlo da te. OSPITALONE: La vedi questa qui? BRAMAVITTORIA: E come! OSPITALONE: Mica male, eh! BRAMAVITTORIA: E invece, canchero, è male e tu sei uno stronzo. OSPITALONE: Be’, a dirtela chiara, la concupisco. BRAMAVITTORIA: Euh!!! La concupisci? OSPITALONE: «Oui, monsieur». BRAMAVITTORIA: E tu, fetentone, osi concupire alla tua tarda età? OSPITALONE: E perché no? BRAMAVITTORIA: Ma è una schifezza! OSPITALONE: Vuoi che te lo dica? A me ormai è passata la rabbia contro mio figlio, e anche tu non dovresti più essere incacchiato col tuo: se fanno all’amore, fanno quello che si deve. BACCHIDE I [alla sorella]: Vieni per di qua. BRAMAVITTORIA: Eccole finalmente le adescatrici all’animalità, le affossatrici! E be’? Vi decidete a riconsegnarci i figli e il servo? O debbo farti tastare un tocco più gagliardo? OSPITALONE: Ma la vuoi smettere? Ma che uomo sei da rivolgerti in questa porca maniera, da cucco, a una chicca così saporita? BACCHIDE I: O vecchiettino, il più carino che ci sia sulla terra, lasciamiti supplicare di smetterla di smammare ostilità così ostinate su questi smemorati. BRAMAVITTORIA: Se non te la fili, ’bbona come sei, non avrai però bene, ma male assai da ’ste mani. BACCHIDE I: E io me lo ciuccerò. Non ho paura che mi faccia male se mi dai le botte. BRAMAVITTORIA: Com’è capace d’infinocchiarti! Ci ho una paura! SORELLA: Questo qui invece è più manso. BACCHIDE I [a Bramavittoria]: Ma vieni là dentro con me e lì prenditela pure con tuo figlio, se ce ne hai ancora voglia. BRAMAVITTORIA: Ma non ti allontani, da me, malafemmina? BACCHIDE I: Ma permettimi di pregarti, cocco mio. BRAMAVITTORIA: Tu pregare me? SORELLA: Io invece con questo ci riuscirò a persuaderlo. OSPITALONE: Anzi sono io a pregarti di farmi entrare. SORELLA: Sei un tesoro! OSPITALONE: Ma lo sai a che patto devi farmi entrare? SORELLA: Che si stia insieme noi due. OSPITALONE: Brava! Hai detto proprio quello che desidero.

BRAMAVITTORIA: Io di puzzoni ne ho visti a iosa, ma nessuno più puzzone di te. OSPITALONE: Be’, io son fatto così. BACCHIDE I: Ma su, vieni dentro con me: vedrai come te la passerai bene, che pappata, che vino, che profumi! BRAMAVITTORIA: Ih, basta, basta co’ ’sta storia del banchetto, a me non me ne frega niente d’essere ricevuto là

dentro: tanto, quattrocento filippi mio figlio e Rubaloro me li hanno già fregati, e quell’assassino d’un servo non rinuncio a suppliziarlo neanche se di monete me ne offrissero il doppio. BACCHIDE I: Ma se ti se ne restituisce la metà, ti decidi a entrare con me e a perdonare le birbantate che hanno fatte? OSPITALONE: Ma sì che si deciderà. BRAMAVITTORIA: Col cavolo invece, ciccia, contento e canzonato, eh? Giù le mani: non penso che a tartassarli tutti e due. OSPITALONE: Ma la vuoi finire, coglione? Ci hai ’sta grazia di Dio a disposizione e la vuoi perdere per la pervicacia tua? Ti si restituisce la metà della somma: dunque accettala, sbrònzati e goditi la puttana. BRAMAVITTORIA: Io sbevazzare dove mio figlio si dà alla perdizione? OSPITALONE: Ma è nostro dovere sbevazzare. BRAMAVITTORIA: E va be’, alla bell’e meglio, benché sia uno scandalo, mi ci rassegnerò, piegherò il mio cuore a questa sconcezza. Ma dovrò contemplare lei a letto con lui? BACCHIDE I: Ma no, sarai tu, te l’assicuro, quello con cui mi metterò a letto, sarai tu ad essere coccolato, ad essere abbracciato da me. BRAMAVITTORIA: Ci ho un prurito che mi mangia la testa; siam fottuti, chi ce la fa più a dire di no? BACCHIDE I: Cocco mio, non ti schizza nel cervelluccio che, se te la puoi spassare mentre campi ancora, ‘sta baldoria non ti può durare un secolo, e se oggi ti lasci sfuggire l’occasione, poi quando sarai morto col cavolo che ti si ripresenta? BRAMAVITTORIA: E allora che debbo fare? OSPITALONE: Che devi fare? E stai pure a chiederlo? BRAMAVITTORIA: A me mi piace, ma ci ho una paura! BACCHIDE I: Ma di che hai paura? BRAMAVITTORIA: Di esporti alla prepotenza di mio figlio e del mio servo. BACCHIDE I: Gioia mia, dolcezza mia ammettiamo pure che gli salti in testa qualche altra birbonata, ma tuo figlio da chi dipende? Da dove credi che potrà sciropparsi la grana, se non sarà quella che potrai dargli tu? Permettimi perciò di strapparti il perdono per loro. BRAMAVITTORIA: Ma come ti sa adoperare il trapano! Perciò quello che m’ero incaponito a negare ad ogni costo, lei me lo strappa con le sue moine? Eccomi ridotto una schifezza per colpa tua, ad opera tua! BACCHIDE I: Preferisco che sia ad opera mia che di qualcun altro. Ma ora posso essere sicura che lo farai? BRAMAVITTORIA: Io ho una parola sola e non la cambio. BACCHIDE I: Be’, il tempo vola, andate a stendervi là dentro, lì ci sono i figli che vi aspettano. BRAMAVITTORIA: Sì, aspettano che crepiamo al più presto. BACCHIDE I: Ma s’è già fatto sera, venitemi appresso. BRAMAVITTORIA: Trascinateci dove volete, ché ormai siamo gli schiavi vostri. BACCHIDE I: Ed eccoli destramente messi in gabbia ’sti fresconi ch’erano venuti a fare il contropelo ai figli! [Su, dentro]. LA COMPAGNIA: Questi vecchioni, se non fossero stati stronzi fin da ragazzi, ora non avrebbero gettato così nel fango i loro capelli bianchi; e neanche noi vi offriremmo questo spettacolo, se prima non avessimo visto mille volte i padri battersi da rivali coi figli nei bordelli. Spettatori, a voi buona salute e per noi un applauso caloroso. [FINE]

INDICE

Introduzione Nota biobibliografica Amphitruo

Anfitrione Nota introduttiva Personaggi Sommario Prologo Atto primo Atto secondo Atto terzo Frammenti Atto quarto Atto quintro Asinaria

L’affare degli asini Nota introduttiva Personaggi Sommario Prologo Atto primo Atto secondo Atto terzo Atto quarto Atto quinto Aulularia

La pentola Nota introduttiva Personaggi Sommario Prologo Atto primo Atto secondo Atto terzo Atto quarto Atto quinto Frammenti Bacchides

Le due Bacchidi Nota introduttiva Personaggi Atto primo Atto secondo Atto terzo Atto quarto Atto quinto

Note Introduzione 1 Le ventuno varroniane ci sono pervenute in un ordine che si avvicina a quello alfabetico: però il Curculio è collocato fra i Captivi e la Casina, le commedie i cui titoli cominciano per m si susseguono nell’ordine Mostellaria, Menaechmi, Miles gloriosus, Mercator, quelle il cui titolo comincia per p si susseguono nell’ordine Pseudolus, Poenulus, Persa. L’infrazione più grave è la collocazione delle Bacchides dopo l’Epidicus perché al v. 214 della prima commedia si cita espressamente la seconda. Naturalmente nella versione abbiamo seguito un rigoroso ordine alfabetico. La distinzione varroniana fra le commedie sicuramente autentiche e le altre ha fatto sì che si salvassero solo le prime; possediamo però frammenti e testimonianze di 32 altre commedie attribuite a Plauto. Siccome l’Aulularia manca della fine e le Bacchides del principio, ciò ha fatto pensare che in origine le due commedie si seguissero in ordine alfabetico e che poi, avvenuta la lacerazione nell’archetipo, essa fosse stata malamente rabberciata con lo spostamento delle Bacchides dopo l’Epidicus per il motivo già detto. Sulla possibilità di distinguere le 19 pseudovarroniane nei 32 titoli a noi noti, cfr. il mio Plauto, Firenze 1962, pp. 16-17. 2 Su tutto questo cfr. il mio studio Plaute et la musique, ora ristampato in Romanae Litterae, Roma 1975, p. 211 sgg. 3 E si ricordi che questo è anche il nome di un personaggio del Persa, il parassita. 4 Letteratura latina e ideologia del III-II a.C., Napoli 1974. 5 Finora si credeva che la divisione delle commedie di Plauto in cinque atti fosse cominciata con l’edizione di G.B. Pio del 1500. Ma C. QUESTA, Plauto diviso in atti prima di G. B. Pio, in «Riv. di cultura classica e medioevale», 1962, p. 209 sgg., ha dimostrato che il problema della divisione in atti delle commedie di Plauto era dibattuto almeno cinquanta anni prima del Pio. Quanto quest’arbitraria divisione abbia creato sproporzioni e aporie tecniche lo rivela la semplice lettura del testo. Sull’influsso di Plauto nella commedia cinquecentesca cfr. Nuove prospettive sull’influsso del teatro classico nel ’500, nel mio Dal Petrarca all’Alfieri, Firenze 1975, p. 107 sgg. 6 Menander and Plautus, London 1968. Ora vanno aggiunti i contributi di K. GAISER, in «Philologus», 1970, p. 69 sgg. e di O. SANDBACH, edizione dei frammenti, Oxford 1973. 7 Il colmo è stato poi che la posizione oltranzista del Jachmann è stata torta in senso arbitrario, a servizio della propria tesi, sia dal Croce sia dal Pasquali nella celebre polemica sul giudizio di valore da formulare su Terenzio sulla base del criterio che l’originalità poetica non consiste nell’inventio, ma nel modo, nel tono espressivo con cui l’argomento è rivissuto. Su ciò cfr. il mio studio Il Croce e le letterature classiche, Roma 1967. 8 Ne è stata pubblicata poi a Firenze nel 1960 la versione italiana a cura di F. MUNARI, che contiene Addenda dell’autore ed è da considerare quindi come l’edizione più aggiornata. 9 Berlin 1931. 10 Cfr. soprattutto W.B. SEDGWICK, The Dating of Plautus’ Plays, in «Class. Quart.», 1930, p. 102 sgg.; J.H. HOUGH, The development of Plautus’ Art, in «Class. Philol.», 1935, p. 43 sgg.; Continuity of time in Plautus, ibid., 1936, p. 244 sgg.; The Understanding of Intrigue: Study in Plautine Chronology, in «Am. Journ. Philol.», 1939, p. 422 sgg.; CH. H. BUCK jr., A Chronology of the Plays of Plautus, Baltimore 1940, p. 376 sgg.; N.J. HOUGH, Link monologues and Plautine Chronology, in «Trans. and Proc. Am. Philol. Ass.», 1939, p. 231 sgg.; The Reverse Comic Foil in Plautus, ibid., 1942, p. 108 sgg. Alla scuola dello Enk K.E. SCHUTTER ha poi ripreso globalmente il problema della cronologia in Quibus annis comoediae Plautinae primum actae sint quaeritur, Leiden 1952. 11 Problematica e poesia in Plauto, in «Maia», 1957, p. 163 sgg; Plauto e il «metateatro» antico, in «Il Verri», 1970, p. 113 sgg. 12 Cfr. per questo discutibile orientamento R. PERNA, L’originalità di Plauto, Bari 1955. Qualche concessione in questo senso è da ravvisare anche nei nostri migliori saggi sul teatro plautino, quello di F. ARNALDI, Da Plauto a Terenzio, I, Napoli 1946 e quello di F. DELLA CORTE , Da Sarsina a Roma, Firenze 19672, il quale però ci sta dando una serie di utilissimi studi sulla tecnica drammatica plautina. 13 Perciò egli si compiace anche d’introdurre di suo termini greci nell’eloquio e crea tutta l’onomastica greca dei personaggi, che non corrisponde a quella dei modelli; su ciò cfr. N.J. HOUGH, The Use of Greek Words in Plautus, in «Am. Journ. of Philol.», 1934, p. 346 sgg., e F. MIDDELMANN, Griechische Welt und Sprache in Plautus’ Komödien, Münster 1939. 14 «Commentationes philologae Jenenses», Leipzig 1903. 15 Edizione del Truculentus, Leiden 1953, vol. I, p. 39 sgg. W.H. FRIEDRICH, Euripides und Diphilos, München 1953, ha voluto invece riferire ai modelli della commedia attica nuova anche tipiche sovrapposizioni strutturali delle commedie plautine. 16 La structure du «Pseudolus», in «Rev. ét. lat.», 1964, p. 123 sgg. 17 Plauto imitatore di se stesso, in Atti del Convegno plautino dell’Istituto del dramma antico, Siracusa 1975. 18 Berlin 1889. 19 Venezia 1472. 20 Leiden 1664. 21 Bonn 1849-53. 22 Leipzig 1875-92. 23 Berlin 1895-96. 24 Leipzig 1892-1904. 25 Oxford 19112. 26 Paris 1932-40. 27 Famosi ma ormai abbandonati i tentativi di S. SUDHAUS, Der Aufbau der plautinischen Cantica, Leipzig 1909 e di F. CRUSIUS, Die Responsion in den plautinischen Cantica, «Philologus», Supplementband, 1929. C. Questa mi avverte d’essere sulla strada di una nuova sistemazione responsoria. 28 Bologna 1967, p. X. 29 Come si vede, le regole fioccano anche riguardo ai metri del dialogo. 30 Firenze 1870-78. 31 Milano 1903. 32 Trani 1887; Torino 1891-94; Bari 1906. 33 Milano 1921. 34 Bologna 1955-57. 35 Milano 1953. 36 Milano 1928. 37 Firenze 1955. 38 Firenze 1965. La seconda edizione del testo critico (Firenze 1975) non reca più la versione del Canali. 39 Torino 1968-72.

Amphitruo 1 G. PASCUCCI, La scelta dei mezzi espressivi nel racconto militare di Sosia, Firenze 1961, p. 5, n. 2, ha negato ogni legittimità del riscontro col racconto liviano. Ma nella seconda edizione del mio commento e versione dell’Amphitruo (Firenze 1967, p. 9, n. 1) ho avuto buon gioco nel dimostrare che i due racconti corrispondono nell’essenziale.

Prologo 1 Mercurio qui non allude al personaggio di Giove, ma all’attore, all’umile mortale che lo deve interpretare. 2 Si allude a qualche rappresentazione in cui Giove è apparso sulla scena nella parte di deus ex machina.

Atto Primo 3 Allusione scherzosa alla prigione. 4 Plauto o la sua fonte fa coincidere anacronisticamente la nascita di Ercole col regno di Creonte, successore del nipote e cognato Edipo. 5 Evidentemente Sosia crede di riconoscere un tizio che lo aveva bastonato in altra occasione. 6 Sosia portava un lume ad olio dentro una lanterna fatta di lamine di corno.

7 Plauto giuoca fra i due significati del verbo comprimo «raffrenare» e «avere commercio carnale». 8 Non sappiamo se Plauto o il suo modello ha fatto di Tebe una città di mare, come Shakespeare ha fatto di Verona. 9 Era il cappello degli uomini liberi, che gli schiavi a Roma solevano mettersi in testa dopo l’affrancazione, per significare la conquista della libertà. Anche la cerimonia della tonsura

aveva questo significato. 10 A Roma il padre riconosceva il figlio appena nato sollevandolo da terra (perciò qui tollito).

Atto Secondo 11 Qui si è voluta vedere una contraddizione con quanto Sosia ha detto poco prima, negando di aver bevuto. 12 L’acqua necessaria durante l’operazione del parto. 13 Dovendo opporre subito la sorba di Sosia alle sorbe minacciate da Alcmena, cioè riprodurre con un nuovo giuoco di parole quello creato da Plauto fra malum («malanno, castigo»)

e malum («mela»), ho omesso di tradurre proprio il primo malum. Si tenga presente del resto che tuttora, nel Lazio, si adopera l’espressione «dare le mele» col significato di «infliggere le busse».

Atto Terzo 14 Il vecchio padre avaro, che nella commedia aveva il destino di essere raggirato. 15 Come se avesse partecipato ad un banchetto. 16 La caduta di un quaternione nell’archetipo dei nostri manoscritti ha determinato una lacuna di

circa 300 versi, che abbraccia la fine dell’atto terzo e quasi tutto l’atto quarto. Della parte perduta si sono salvati solo pochi frammenti conservatici da citazioni di grammatici; grazie al loro aiuto non è impossibile ricostruire a grandi linee la parte perduta. Il primo frammento conservatoci è l’ultima battuta di Anfitrione precedente questa nota; l’abbiamo unita senz’altro al contesto immediatamente anteriore alla lacuna, perché il suo posto è indiscutibilmente qui. Gli altri frammenti sono stati già raggruppati dai più recenti editori nell’ordine da noi seguito, che consente la ricostruzione della trama. Nel primo gruppo continua il comico alterco tra Anfitrione e il finto Sosia. Al baccano accorre Alcmena che è investita da Anfitrione con brutali improperi e, trasecolata, gli ricorda il giuramento fattole or ora da Giove sotto le vesti del marito (2º gruppo), e poi, disgustata, rientra in casa chiudendogli la porta in faccia. Qui forse aveva termine l’atto terzo. All’inizio dell’atto successivo Anfitrione, sul punto di tornare al porto in cerca di Naucrate, s’imbatte in Blefarone, accompagnato da Sosia, e investe il suo schiavo, che ritiene reo di averlo insultato dal tetto; lo minaccia d’inviarlo in campagna ai lavori forzati, mentre Blefarone, forse richiesto dal povero Sosia, attesta che costui era venuto a cercarlo e non poteva quindi trovarsi contemporaneamente sul tetto della casa (3º gruppo). A questo punto esce di casa Giove e la contesa raggiunge il culmine, perché il vero e il falso Anfitrione si accusano a vicenda di adulterio e vengono alle mani (4º gruppo). All’ultimo decidono di ricorrere all’arbitrato di Blefarone, che tra i due non sa riconoscere il vero Anfitrione e ne suscita il risentimento (5º gruppo). Però l’ultimo frammento, conservatoci da Festo come plautino, non reca indicazioni di commedia e perciò da alcuni editori non è compreso fra quelli appartenenti all’Amphitruo. A questo punto riprende il testo successivo alla lacuna.

Frammenti 17 Ma il termine columbar del testo significa in realtà il foro della nave da cui sporge il remo. Siccome poi columbar significa anche «collare di ferro per gli schiavi», simile ai fori in cui nidificano le colombe o in cui appunto si fissavano i remi, si può anche supporre che, per capricciosa associazione d’idee, Anfitrione definisca Blefarone «pendaglio da forca, degno di quel collare da schiavi che somiglia al sostegno dei remi». Cfr. il v. 888 della Rudens.

Atto Quarto 18 Creonte.

Atto Quinto 19 I serpenti secondo la leggenda erano stati inviati da Giunone, gelosa della scappata extraconiugale di Giove, per uccidere Ercole, il frutto della colpa: secondo la versione più nota della leggenda, essi erano stati inviati alcuni mesi dopo la nascita di Ercole. 20 Come si sa dal mito di Edipo, Tiresia era un celebre indovino che risiedeva proprio a Tebe.

Personaggi 1 Libanus, il nome del servo, corrisponde al termine che per i Greci indicava l’albero dell’incenso. Poiché questo è un dato non preciso, abbiamo preferito rendere il significato del nome con un termine che indicasse genericamente la mollezza di questo giovane schiavo. 2 Il nome greco del personaggio allude alla scena in cui, per farsi dare i denari, egli consente a farsi cavalcare da uno dei servi.

Sommario 3 Ho adoperato il termine francese per conservare l’allitterazione che caratterizza il verso, come ho tradotto l’argumentum in maniera da conservare l’acrostico. 4 Il Lindsay conserva rivinus di uno dei codici (rivalis è un emendamento umanistico). Ma in realtà il senso non cambia, perché rivalis deriva da rivus e significa

«colui che ha in

comune con un altro l’uso di un corso d’acqua», e perciò aveva frequenti occasioni d’azzuffarsi con lui per lo sfruttamento del comune possesso.

Prologo 5 Abbiamo sacrificato all’uso oggi preminente il significato originario della parola che indica il capocomico e che perciò l’umanista Kammermeister (Camerarius) emendò riducendola al singolare (domino); con lui concordano alcuni editori moderni. 6 Con uno squillo di tromba il banditore doveva ottenere silenzio e permettere all’attore di recitare il prologo. 7 I banditori si facevano pagare profumatamente le loro prestazioni. 8 L’asinaio. S’è osservato che nella commedia non figura nessun asinaio. Ma appunto per questo Plauto ha mutato il titolo in Asinaria riferendosi al prezzo della vendita degli asini, che ha ancora una funzione nella trama. V. l’introduzione. Alcuni hanno emendato Onagost in Onagrost. 9 Poeta certamente attico di cui non si sa nulla. Altri hanno voluto emendare, sostituendo al nome di Demofilo quello molto più noto di Difilo, modello della Casina e della Rudens. 10 Plauto si chiamava T. Maccio, e come tale egli si presenta nel v. 10 del Mercator come traduttore della commedia (eadem Latine Mercator Macci Titi). Si è pensato che qui l’autore, forse perché era alle prime armi (l’Asinaria è ritenuta una delle prime commedie scritte da Plauto), abbia velato intenzionalmente il suo nome sostituendo a Maccius il nome Maccus di una maschera dell’atellana, che forse egli allora, essendo attore comico, impersonava spesso. Invece Louis Havet, pubblicando l’edizione critica della commedia (Paris 1925), sostenne ch’essa non è plautina, ma è opera di un tal Macco, vissuto nell’età di Cicerone. 11 Si segue l’uso corrente dei Greci che definivano bavrbaroi (barbari) tutti i popoli stranieri, parlanti una lingua che a loro suonava confusa e rozzamente balbettante. Plauto riadopera il termine per indicare cose romane al v. 150 del Curculio, al v. 211 del Miles gloriosus e in altre commedie, e più da vicino ripete la formula di questo passo al v. 19 del Trinummus (Plautus vortit barbare). 12 Anche nel Trinummus, a ribadire l’affinità fra i due luoghi, è detto (vv. 20-21) che Plauto prega gli spettatori di accettare il nuovo titolo da lui imposto alla commedia greca. 13 L’allusione alle vittorie dei Romani, come nel prologo della Casina (vv. 87-88) e in quello della Cistellaria (v. 202). Questo confermerebbe che siamo nel pieno della seconda guerra punica.

Atto Primo 14 Il pistrinum, il mulino ove gli schiavi erano mandati in castigo a girare la macina. Per quest’ossessione del mulino alcuni critici hanno ritenuto che l’Asinaria, dopo il Saturio e l’Addictus, sia la terza commedia scritta da Plauto quando era ancora schiavo nel pistrinum. 15 È un verso che il Camerarius ha trasposto qua dal v. 47. Gli editori lo sopprimono, giudicandolo un’inutile ripetizione del precedente. Tutto il passo è squinternato dai ritocchi dei critici. Lo Havet, che giudica la commedia opera mediocre di un tardo imitatore di Plauto, il cui testo sarebbe ingrossato da abusive inserzioni da altri copioni, ritiene che questo verso e il successivo siano una di quelle inserzioni. 16 Ingegnosa allusione alle sferze che erano ricavate dal cuoio dei buoi uccisi.

17 Era un gesto apotropaico di scaramanzia. 18 Lo stesso espediente adoprerà nel Miles gloriosus Pleusicle per portar via l’innamorata a Pirgopolinice; e lì il nome indica scherzosamente proprio un navigante. 19 Il finale tibi è un emendamento aggiunto al verso che nei codici manca di un piede. Lo si accetta perché è ripetuto dal tibi finale del verso successivo, come ai vv. 18-19 è ripetuto il

finale tuam. 20 La mina d’argento valeva 100 dracme; quella d’oro 10 mine d’argento. 21 Questa è l’unica versione possibile se si conserva la lezione manoscritta; ma la contrapposizione delle due assurdità non ne risulta chiara. Perciò si sono proposti molti emendamenti. 22 Dovunque sia sceneggiata la commedia, Plauto non manca mai d’introdurre i nomi romani, familiari al suo pubblico, per indicare i luoghi principali della città. 23 Scipionem è il bastone. Ma chi è persuaso che la commedia è fra le prime, pensa che nella parola si nasconda un’allusione a Scipione l’Africano, che nel 212 era edile e quindi dirigeva le feste e gli spettacoli. 24 I codici assegnano la scena a Granacavallo; e dato che nella scena successiva con Ingambissima vien fuori la richiesta ultimativa di venti mine da parte della mezzana, che è proprio l’argomento già dibattuto fra Coccoditutti e Profumino a proposito di Granacavallo, sembrerebbe che l’indicazione dei codici fosse esatta. Ma in questa scena e nella successiva vien fuori che il giovanotto fa il mestiere del marinaio, che non è certo quello di Granacavallo. Per giunta nella prima scena dell’atto quarto Diavolo e il parassita, leggendo il contratto con la mezzana, fissano anche loro la pregiudiziale delle venti mine, ma aggiungono proprio la condizione su cui il giovanotto insiste con Ingambissima nella scena successiva a questa, cioè che la ragazza, nel periodo in cui egli se la godrà, non dovrà aver rapporto con nessun altro. Del resto, anche del contratto si parla in questa scena. E Granacavallo non s’è mai trovato in condizione di spendere tutti i quattrini che qui il giovanotto rinfaccia a Ingambissima di avere speso all’inizio per lei. Perciò ora si accoglie generalmente l’emendamento dell’Havet, che pone Diavolo al posto di Granocavallo in queste due scene. 25 C’è stato chi ha visto qui un’allusione alla lex lenonia, che sarebbe stata promulgata nel 204, e ha voluto quindi dedurne un argomento per la datazione della commedia. 26 Torna il motivo dell’innamorato in veste di marinaio, di cui s’è già parlato nella scena precedente. 27 I filippi sono monete che per l’epoca di Plauto i critici sono incerti se risalgano a Filippo II o a Filippo V di Macedonia. Di solito, quando l’allusione è a Filippo II si ritiene che il passo risalga all’originale greco, quando è a Filippo V si ritiene che il passo sia un’aggiunta o una variazione di Plauto. 28 Traduciamo così per conservare l’allitterazione del testo. 29 Concordiamo con la versione dell’Augello, perché non si potrebbe tradurre diversamente. 30 Un talento corrispondeva a 60 mine; la mezzana chiede una somma spropositata per far capire a Diavolo che ormai non c’è più nulla da fare. 31 I negozianti greci non facevano credito. 32 Dato che Diavolo è un marinaio, molti critici han trovato giusto che Ingambissima gli abbia espresso al v. 178 sgg. il paragone col pesce, e si sono meravigliati invece che qui sia introdotto il paragone con l’uccellatore, sospettando perciò una contaminatio, nel senso che Plauto, nel formare il personaggio di Diavolo, abbia sfruttato due testi, uno in cui egli appariva come marinaio e uno in cui appariva come contadino.

Atto Secondo 33 Dato che questo verso ripete quasi alla lettera il v. 250, molti editori lo hanno espunto. Ma in Plauto è tipica la ripetizione di frasi a breve distanza. 34 Qui, e nelle espressioni iniziali di Leonida relative al bottino e al trionfo, s’è voluto vedere un’allusione al trionfo comune di Livio Salinatore e Claudio Nerone dopo la vittoria del

Metauro su Asdrubale, fratello di Annibale, e quindi la possibilità di datare la commedia al 207. 35 Mentre Profumino sembra non essere a giorno delle aspirazioni anche del vecchio su Chiacchierina, che formeranno poi la sostanza della trama, Leonida ne appare informato. Una delle tante piccole incongruenze della commedia, senza che per questo si debba pensare a tracce di contaminatio. 36 È ritenuta un’altra allusione al trionfo per la vittoria al Metauro. 37 Solito gioco di parole su comprimo: «raffreno» e «violento». 38 Siccome i velites, i soldati alla leggera, furono istituiti nel 211, anche da questo s’è voluto dedurre un indizio per la datazione della commedia. 39 La capitale del regno di Macedonia. 40 Di legno d’olmo eran fatte le verghe. 41 Gli animali con la pelle screziata, come il ramarro, erano ritenuti segno di malasorte perché evocavano la schiena degli schiavi lardellata dalle frustate. 42 Naturalmente Profumino fa il ritratto di Leonida. È il ritratto tipico del servo trappolone, che si ripeterà anche altrove, p. es. nello Pseudolus. I tratti fisici dovevano corrispondere forse a una maschera tipica. 43 Si è osservato che allora i Romani conoscevano certamente l’Odissea, ch’era stata tradotta da Livio Andronico, ma non è sicuro che conoscessero anche l’Iliade. Perciò è stato supposto che qui Aeacidinis alluda piuttosto ad Aiace Telamonio, anziché ad Achille (erano tutti e due Eacidi, perché l’uno figlio di Telamone, l’altro figlio di Peleo, entrambi figli di Eaco), perché Aiace era già noto ai Romani attraverso l’Aiax mastigophorus, anch’esso di Livio Andronico, che presentava proprio le furie di Aiace impazzito. Ma il Bertini ha osservato giustamente che almeno il primo verso dell’Iliade, in cui si parla dell’ira di Achille, doveva esser già noto ai Romani. Lo Herrmann ha voluto trovare invece un’allusione o a Pirro, il re dell’Epiro, che Ennio chiamava Eacide, o a un re di Macedonia (Virgilio chiama Eacide il re Perseo). 44 Stichus, nome frequente di schiavo; ad esso s’intitola una delle commedie di Plauto. 45 Spesso i padroni noleggiavano ad appaltatori il lavoro degli schiavi. Ma questi dovevano consegnare al padrone il salario così guadagnato. 46 Analoga nello Pseudolo la scena in cui Calidoro e Pseudolo fanno a gara nell’insolentire Ballione. 47 Si volevano espungere questi versi perché sembra assurdo che un libero possa intentare processo a uno schiavo. Il Bertini s’è richiamato a Saara Lilja supponente che la battuta risalga al modello di Demofilo, rispecchiante una legge attica che contemplasse la in ius vocatio di uno schiavo da parte di un libero. Ma è meglio intendere con altri che qui il mercante minacci Leonida di sottoporlo al giudizio del padrone. 48 Cfr. Curculio, 621. 49 Conferma della nostra interpretazione del v. 480; cfr. n. 47. 50 Anche qui s’è voluto vedere lo spirito greco dell’originale. 51 Naturalmente Leonida parla a doppio senso; fa credere di aver risparmiato una grossa somma, ma intende dire che i suoi risparmi non si possono contare, perché non esistono, perché egli non ha neppure un soldo. 52 Nello svolgimento della commedia manca la scena in cui Leonida e il mercante si presentano a Coccoditutti e questi conferma che Leonida è Ramarro e gli fa consegnare le venti mine. Ma dalla seconda scena del terzo atto si ricava che tutto questo è avvenuto.

Atto Terzo 53 La versione è architettata in maniera da conservare il costante procedimento allitterativo del testo. 54 È proprio la condizione di Granacavallo, la cui madre Tuttasana, tenendo le chiavi del forziere familiare, era ricca. 55 Nel testo c’è una lacuna, di cui s’è riuscito a non tener conto nella versione. 56 Anche qui una lacuna rabberciata nella versione. 57 Grossolana lepidezza con cui si trasforma negli asini stessi il denaro ricavato dalla vendita. 58 Il celebre personaggio ateniese del sec. VI a.C., di cui ci son rimasti avanzi di elegie, il quale riformò la costituzione della sua città, infrangendo l’antico regime basato sulle tribù

nobiliari e sostituendogli un sistema di classi fondato sul censo. 59 Lo schiavo punito, sottoposto alle frustate. 60 Allude al momento in cui i due schiavi sarebbero stati affrancati e da liberti sarebbero divenuti clientes del padrone, divenuto patronus (protettore). 61 Il primo hanc designa Chiacchierina, il secondo la borsa. 62 Al v. 657 Granacavallo ha pregato Leonida di appendergli la borsa al collo plane; il vocabolo ha due significati: «pienamente» e «orizzontalmente», e Granacavallo intendeva esprimere il primo; invece Leonida intende maliziosamente il secondo ripetendo il termine qui e risponde che la borsa al collo di Granacavallo non potrebbe rimaner in piano, scivolerebbe, mentre, appesa al collo di Chiacchierina, troverebbe un valido sostegno nelle sue poppe. Abbiamo cercato di rendere il gioco di parole, alternando le forme «in pieno» e «in piano», quasi che Leonida finga d’aver udito una vocale al posto di un’altra. 63 Granacavallo arriva a dire che deve esser considerato lui lo schiavo affrancato da Profumino. 64 I serpenti avevano la lingua biforcuta; Profumino adopera la similitudine per adombrare ch’egli vuole in bocca la lingua di Chiacchierina. 65 Anche qui non c’è che da adottare la versione dell’Augello.

66 Naturalmente adoperiamo questo verbo per ricostituire l’allitterazione statuam statuis del testo. 67 Queste parole sono un’integrazione umanistica del verso mutilo nei codici. 68 Allude alla borsa; ma l’indeterminatezza del pronome coinvolge un voluto doppio senso, cioè anche un’allusione a Chiacchierina.

Atto Quarto 69 Si tratta naturalmente dei letti tricliniati, di quelli che servivano per il pranzo. 70 I personaggi di Plauto parlano latino; ma in questo egli segue le condizioni che si trovano negli originali greci, senza adattarle alla sua rielaborazione.

Atto Quinto 71 Nella rubrica di scena i codici non aggiungono Chiacchierina, che effettivamente non pronuncia una parola in tutta la scena. Ma di lei si parla più d’una volta come presente e nella scena successiva essa interviene senza che sia stato sottolineato il suo ingresso. Perciò seguiamo gli editori che hanno inserito a principio il suo nome fra quelli dei personaggi presenti. 72 Tutti questi nomi greci può averli immaginati Plauto per rispettare l’illusione scenica, e per introdurre un nuovo effetto comico? Così ho già supposto (cfr. Storia del teatro latino, Milano 1957, pp. 120-121). Però proprio Plauto spesso fa scempio dell’illusione scenica; perciò è legittimo anche supporre che questi nomi si trovassero nell’originale greco, benché queste filastrocche siano piuttosto un indizio di farsa popolare. 73 Qui abbiamo invece un esempio dell’abituale adattamento plautino del testo alle costumanze romane. Forse nell’originale si doveva parlare invece della partecipazione del vecchio all’assemblea del popolo ateniese, ch’era cosa abituale: l’ej??lhsiva ateniese comprendeva tutti i cittadini, mentre il Senato romano era l’apparato deliberativo di una selezionata classe dirigente. 74 Dove si trova Granacavallo, mentre Chiacchierina si trova alla sinistra di Coccoditutti, che sta in mezzo. 75 Siccome questa battuta fa riferimento a quello che Coccoditutti dice al v. 895, molti editori hanno scompaginato il testo, trasponendo questo passo dopo quel verso e i vv. 896-98 a questo punto.

Personaggi 1 Il nome greco del testo plautino, Euclione, è così noto come sinonimo di avaro, che abbiamo provato la tentazione di conservarlo. Il nome della vecchia serva, anziché da staph´yle «livelletta», è stato fatto discendere da staph?lé, «uva, grappolo d’uva», con l’allusione al gusto del vino che hanno le vecchie della commedia. 2 Questo nome si trova in due codici non quando il personaggio inizia il suo intervento sulla scena, ma solo all’inizio della sesta scena dell’atto secondo. Invece nell’elenco dei personaggi i codici presentano dopo il nome di Regalone il medesimo nome di servo che poi è ripetuto dopo quelli delle suonatrici di flauto, riguardo al servo di Lupacchiotto. I migliori editori hanno risolto il problema, estendendo il nome di Consigliagiusto (il nome originario Pythodicus è una congettura dell’umanista Merula) a tutte le scene in cui agisce il servo di Regalone rivelando tutte le qualità contenute nel suo nome, e hanno attribuito a un errore di copista la ripetizione nell’elenco del nome dell’altro servo. Antonio Aloni (in «Annali Facoltà Lettere Milano», 1974, p. 57 sgg.) ritiene che l’Aulularia derivi dall’Hydria di Menandro, ne ripeta i nomi, e pensa che l’indicazione dei manoscritti, che introducevano Strobilus sin dall’atto secondo, sia esatta. 3 Per il nome del secondo cuoco, tieni presente che il grongo è un pesce, che il primo cuoco, Ulcera, ricorderà al v. 399. L’Aloni interpreta il nome di Anthrax non come noi, quale scherzosa allusione peggiorativa alla sua maniera di cucinare, ma come allusione alla razza cui egli appartiene, al colore nero della sua pelle. 4 Strob?lus, il nome del servo ha la i lunga, mentre strob?lus, «la pigna» ha la i breve. Se avessimo voluto conservare la quantità della parola latina avremmo potuto tradurre il nome con «Pinocchio». Però il gr. Strovbilo”, da cui deriva con la sua quantità il nome del personaggio, significa proprio «trottola», oltre che «turbine», e più di un commentatore preferisce quest’altro significato, con allusione al turbine che, col furto della pentola, il servo scatenerebbe addosso a Tienichiuso.

Sommario 5 In realtà è sua madre Legalina a intercedere presso il fratello Regalone, come si ricava dalla settima scena dell’atto quarto. 6 Il secondo sommario è acrostico, e noi nella versione abbiamo ritoccato il testo per conservare l’artificio.

Prologo 7 Il termine Lar familiaris del testo è canonico, ma nel tradurlo ci siamo discostati dalla formula, perché gli dèi della famiglia sono propriamente i Penati, mentre il Lare protegge e simboleggia la casa, nel suo materiale aspetto di sede della famiglia, di fabbricato. Infatti ciò ch’egli dice nel prologo, specie in riferimento alla pentola, conferma questa sua mansione. L’aver affidato il prologo a un dio è uno dei tanti punti di contatto dell’Aulularia col D´yskolos di Menandro, il cui prologo è affidato al dio Pan. Altre commedie plautine affidano il prologo a divinità, come la Cistellaria al dio Aiuto (e si tratta per giunta di un prologo ritardato), la Rudens al dio Arturo, il Trinummus ai personaggi allegorici Lussuria e Povertà. E sono tutti prologhi espositivi. 8 Anche l’uso plautino di familia a questo punto conferma che qui la parola è sinonimo di domus, «casa». 9 L’avarizia era quindi una qualità ereditaria nella famiglia di Tienichiuso. 10 Altro punto di contatto col D´yskolos è nel fatto che abitano accanto due vecchi, uno povero e uno ricco. 11 In un’altra commedia di Menandro, gli Epitrépontes, c’è un’uguale sverginazione di ragazza durante una festività notturna; per Plauto cfr. la Cistellaria, derivante anch’essa da Menandro.

Atto Primo 12 È stato osservato che nello stile epigrafico la I lunga non rimonterebbe più su dell’età di Silla, e si è sospettato perciò che il passo appartenga a una retractatio. 13 L’allusione è a Filippo II, che fece coniare i filippi d’oro. Ma gli spettatori romani potevano avvertire un’allusione a Filippo V. Anche il gran re di Persia, Dario I d’Istaspe, era famoso

per la sua ricchezza. 14 Non so come si sia potuto ritenere il verso corrotto, o interpretarlo come un’allusione a un vicino tempio della Fortuna o nel senso che la dea, andando a spasso per il mondo, passa anche dinanzi alla casa di Tienichiuso. Il senso evidente è che la buona fortuna sta di casa dal vicino Regalone, che poi avrà tanta parte nella sorte di Tienichiuso. In questo contegno di Tienichiuso con Uva s’è voluta trovare una delle principali affinità del D´yskolos di Menandro con l’Aulularia. 15 Si è pensato alle sistematiche restituzioni dei contributi eccezionali richiesti durante la seconda guerra punica; siccome l’ultima avvenne nel 187, se ne è tratto un indizio per la datazione della commedia. Ma i più ritengono che qui Plauto abbia tradotto un passo in cui Menandro alludesse al démarchos che distribuiva proprio il denaro per poter accedere agli spettacoli.

Atto Secondo 16 Molti editori attribuiscono ita di faxint a Regalone; ma per far questo bisognerebbe pensare ch’egli accolga volentieri l’idea di aver figli, prima che la sorella specifichi che per far questo bisogna prender moglie, e poi si ribelli all’idea del matrimonio. Ma non si riesce davvero a comprendere come possano conciliarsi i due atteggiamenti. 17 Il nome dato a Roma ai nati dopo la morte del padre. Rimane l’incongruenza che le cose non cambierebbero anche se Regalone avesse un figlio da Luminosa, come ha deciso. 18 Si ritiene che da harpagatum di questa battuta Molière abbia derivato indirettamente il nome di Harpagon per il corrispondente di Tienichiuso nel suo Avare. Per un’altra ipotesi sull’origine del nome cfr. la nostra introduzione. 19 Abbiamo ritoccato il testo per riprodurre con altro suono la martellante allitterazione. 20 Il luogo è corrotto e lacunoso. Le battute stesse sono distribuite diversamente fra gl’interlocutori, e siamo costretti a integrare congetturalmente, con le parole fra parentesi, l’ultima battuta di Consigliagiusto. 21 L’amministratore della giustizia a Roma. 22 Nei mercati, che si tenevano a Roma ogni nove giorni, c’erano cuochi da dozzina che cucinavano lì per lì roba da poco a servizio dei partecipanti al mercato. 23 Quante appunto formano la parola «ladro»; nel testo trium litterarum homo, «uomo di tre lettere», indica appunto la parola fur, «ladro». 24 Traducendo così abbiamo tentato di rendere anche la paronomasia creata da Plauto col termine furcifer, «portatore di forca», che deriva da furca, ma consuona anche con fur, «ladro» e sembra ribatterlo. 25 Nel testo c’è una lacuna che può essere colmata integrando «portalo là [indica la casa di Regalone]». Le cose sembrano disporsi come se il pranzo di nozze si scomponesse in

due fasi svolgentisi successivamente ciascuna in una delle due case. In realtà Consigliagiusto vuole soltanto ripartire nelle due cucine la cottura della roba, per fare più presto. 26 Anche qui una lacuna da integrare con «l’agnello ch’è rimasto». 27 Si rivolge a quella parte della servitù che deve seguire Cuocigrongo nella casa di Tienichiuso. 28 Plauto allude a qualche non ben nota cerimonia romana in onore di Cerere, dalla quale era escluso il culto di Bacco e quindi l’uso del vino. Come a tutte le vecchie del teatro plautino, anche a Uva piace il vino. E questo giustifica che il suo nome sia stato fatto derivare da staphylé. 29 La versione ha lo scopo di rendere fino in fondo la filigrana espressiva dell’originale: Plauto, adoperando superi e inferi, che significano rispettivamente «gli dèi del cielo» e «gli dèi dell’Averno», vuole alludere scherzosamente ai sacrifici di cui si cibavano le divinità. Oltre a ciò, per far meglio avvertire la singolarità dell’uso attivo del participio cenati, ho fatto ricorso allo strano solecismo di certe frasi dialettali, che adoperano tout court il participio «mangiato» per indicare chi ha mangiato. 30 In quanto non ha comprato nulla e quindi non ha fatto guadagnar nulla ai venditori. 31 Si costituisce così un altro aggancio a ciò che il Lare ha già detto nel prologo. 32 Il cuoco parla proprio di pentola, l’oggetto che sta più a cuore a Tienichiuso e lo fa tremare a ogni istante. 33 Questo verso è espunto dagli editori, perché, essendo un settenario trocaico in un seguito di senari giambici, appare interpolato da qualche lettore o glossatore, che lo avrà scritto a margine. Esso del resto s’incontra col v. 397. 34 I commentatori pensano che si alluda al celebre episodio del L.I dell’Iliade in cui Apollo faceva strage degli Achei per vendicare il suo sacerdote Crise cui Agamennone aveva rifiutato di restituire la figlia, o che il modello greco alludesse alla sconfitta subita nel 293 dai Galli durante il loro assalto al tempio di Apollo a Delfi, che fu attribuita all’intervento del dio. I più però pensano invece all’altra sconfitta del 280-278, che accadde una diecina d’anni dopo la morte di Menandro. Se ne dovrebbe quindi dedurre che il modello della commedia non era menandreo.

Atto Terzo 35 È stato osservato che qui Plauto non allude al senatusconsultum de Bacchanalibus, ma alla situazione degli anni precedenti, in cui il culto di Bacco era ancora tollerato a Roma. Perciò di qui non deriverebbe la necessità di datare la commedia al 186 (cfr. l’introduzione), ma sarebbe possibile conservare la datazione fra il 194 e il 191. 36 Cioè ha preso il corpo di Cuocigrongo come una palestra in cui esercitarsi nella scherma al bastone. Si sarebbe tentati di modernizzare la versione, traducendo «mi ha preso per il suo punching-ball». 37 I codici recano questi due versi dopo i vv. 411-412 b, e la loro autorità è seguita da alcuni dei maggiori editori. Ma questa disposizione turberebbe il ritmo del canticum; e per giunta il senso dei due versi obbliga a congiungerli coi vv. 409-10. 38 I tresviri capitales preposti alla giustizia nelle faccende di minor conto relative alle classi inferiori. Nota come anche qui Plauto introduca un istituto romano. 39 La dèa dei ladri. Dette nome a una porta delle mura serviane. 40 Ad Atene c’era proprio il ghynaikonómos, l’ispettore dei costumi delle donne. Si è pensato perciò che la battuta si trovasse nel modello greco. 41 Abbiamo tradotto così, per continuare la serie d’assonanze tipicamente plautina; il termine indica i tessitori di vesti di lusso a fibre di malva. 42 Il verso è ritenuto spurio, sia perché si torna a parlare dei fullones, sia perché si rompe l’assonanza delle desinenze in -arii. 43 Ad Atene e soprattutto a Roma (sì che la battuta è apparsa un’aggiunta plautina) si usava corrispondere da parte dello Stato il soldo ai militari arruolati. Non risulta che fosse imposto al riguardo un tributo ai cittadini privati. Però il particolare è apparso così reale che si è escluso possa trattarsi di un’invenzione del poeta. C’è stato però chi ha sospettato una svista di Plauto, che nel testo greco avrebbe confuso misthotés, «appaltatore» con misthotós, «soldato mercenario». 44 Mostro mitologico con tre corpi e quindi sei mani, celebre per le sue ruberie, che Ercole uccise durante il ciclo delle fatiche. Dante ne ha fatto uno dei mostri infernali, simbolo della frode. 45 Giunone era riuscita a trasmutare in vacca Io, amata da Giove, e l’aveva fatta custodire da Argo perché il padre degli dèi non trovasse modo di sottrarla alla sua degradante situazione. Ma Mercurio era riuscito a uccidere Argo infondendogli il sonno. 46 Tienichiuso fa un gioco di parole tipicamente plautino tra curio, «capo di una curia (una delle divisioni del popolo a Roma)», e cura, «preoccupazione, fastidio, malattia». 47 Il tempietto della Fides sorgeva sulla scena fra le due case di Tienichiuso e Regalone. Si effettua così una cesura netta nello svolgimento della commedia, che si rivela anche per il fatto che scompaiono personaggi che avevano campeggiato nella prima parte, come Uva, Regalone, Consigliagiusto, i cuochi, mentre al loro posto compaiono Trottola, Lupacchiotto, Luminosa, forse anche per il problema del numero degli attori.

Atto Quarto 48 Il verso è lacunoso, com’è guasto l’inizio del verso successivo: il Lambino integrò le lacune con catapirateria, «lo scandaglio», che è adottato da molti editori. Ma si possono supporre anche altri vocaboli, come «pietra, cencio» ecc. 49 Per conservare il gioco di parole stabilito nel testo con l’uso di fidelia, abbiamo introdotto una parola adattata al termine latino, con la scusa che si tratta di un vaso non bene identificabile, a cui perciò anche in italiano si poteva attribuire un vocabolo di incerto carattere semantico. 50 L’equivoco osceno nasce dal fatto che, mentre il vecchio usa pone come imperativo del verbo, il servo lo intende come avverbio, cioè nel senso di «di dietro». 51 Questa tipica divinità italica è stata sostituita da Plauto a una divinità greca che doveva essere, nell’originale, forse Pan. 52 La divinità che proteggeva le partorienti. 53 I comitia a Roma dovevano fra l’altro ratificare le condanne a morte dei privati cittadini. 54 Plauto ha confuso le sfingi con i grifi, che, secondo la leggenda, custodivano le cime dei monti Rifei, ricchissimi d’oro. Ma picis è un accusativo plurale latino corrispondente all’accusativo plurale greco phikas, forma dorica e beotica che sta al posto dell’attico sphingas; per giunta Plauto ha sostituito arbitrariamente il maschile al femminile. 55 Cfr. n. 13. 56 La singolarità della scena è nel fatto che, mentre Trottola ha raccontato che Tienichiuso, dopo aver sepolto la pentola, se n’era tornato tranquillamente a casa, qui invece lo vediamo disperato per avere scoperto che la pentola è stata rubata. Eppure nel suo monologo non v’è alcun cenno di un suo ritorno precauzionale al nascondiglio, che gli abbia fatto scoprire il furto. Ma dobbiamo postulare proprio questo particolare. Evidentemente Plauto ha voluto sfruttare il netto contrasto fra la gioia di Trottola e la disperazione di Tienichiuso, profilandole in immediata successione. 57 Le toghe candide eran quelle degli spettatori delle classi distinte, dei ricchi costituenti la prima metà delle centurie, ai quali i clienti o gli schiavi assicuravano nel teatro i posti di prima fila vicino al proscenio. Perciò Plauto ha trovato modo di far pronunciare a Tienichiuso una battuta pungente proprio per gli spettatori più vicini alla scena, una battuta che doveva esilarare e soddisfare la folla degli spettatori più poveri, in toga bruna, che assiepava i posti più appartati della cavea. È un tratto che può servire a confermare le tendenze populistiche della mentalità di Plauto. Per ottenere il biancore nitido della toga la si spalmava di creta. 58 Questi versi sono stati diversamente trasposti. Ma è più logico che la battuta in cui Tienichiuso si rivolge a uno spettatore isolato preceda quella in cui il vecchio si dispera perché egli nega che il ladro sia fra i presenti. 59 Naturalmente illam per Lupacchiotto è la ragazza e per Tienichiuso è la pentola. 60 Evidentemente Lupacchiotto vuol chiarire che è sua intenzione riparare sposando la ragazza. 61 Neanche a farlo apposta, siccome il ladro era il servo di Lupacchiotto, questi lo teneva in casa.

Atto Quinto 62 Quasi certamente Trottola sarà affrancato, per avere involontariamente contribuito al lieto scioglimento della situazione. 63 Gioco da bambini, che consisteva nell’aprire il baccello della fava, per trovarvi il germe o un vermiciattolo. 64 La lacuna va evidentemente integrata con «te lo farò sputare?». 65 Gli strilli dei due dovevano far uscire Tienichiuso, con la conseguente conclusione che la pentola ritornava nelle mani del vecchio. La commedia si concludeva indubbiamente con

la celebrazione delle nozze fra Lupacchiotto e Luminosa e forse con la cessione del tesoro agli sposi da parte del ravveduto Tienichiuso. Cfr. l’introduzione.

66 Questa ripresa delle considerazioni di Regalone era espressa forse da Tienichiuso in occasione delle nozze. 67 È forse la battuta di un personaggio che, scorgendo la pentola, ne commentava il furto, o rifletteva sul modo con cui

restituirla.

Tienichiuso e Lupacchiotto dovevano aver obbligato Trottola a

68 Tienichiuso allude alla sua maniaca sollecitudine di cambiare frequentemente nascondiglio alla pentola. 69 Questo frammento e il precedente autorizzano a supporre che Tienichiuso, sotto lo choc del furto, sia guarito dall’avarizia e abbia regalato la pentola agli sposi. 70 Allusione al pranzo di nozze. A questi frammenti se ne aggiungono altri due dubbi, di cui il primo è stato attribuito alla commedia perché vi ricorre al vocativo il

nome del servo di Lupacchiotto (Strobile); ma esso apparteneva alle Eumenidi di Varrone. Il secondo è riferito da Nonio come appartenente all’Aulularia; ma vi si parla di un lenone, personaggio che non ha nulla che vedere colla trama della commedia. Per giunta, se veramente il modello della commedia è di Menandro, dobbiamo tener presente che il teatro menandreo evitava il personaggio del lenone, sì che si dubita anche che da Menandro derivi lo Pseudolus, in cui il lenone Ballione è personaggio fondamentale.

Personaggi 1 Il nome è greco, ma non è attestato nei testi greci, come non lo è Hegio dei Captivi.

Atto Primo 2 L’ordine dei frammenti da noi seguito è quello fissato dal Leo; altri li ordinano diversamente. 3 Probabilmente è Bacchide I, dato ch’essa già era stabilmente ad Atene, mentre la sorella arriva da Efeso proprio nella parte perduta della commedia. Il

nome dell’interlocutrice è stato aggiunto dagli editori, perché Servio, che ci ha tramandato il frammento, lo attribuisce proprio ad una delle Bacchidi. 4 Il Ritschl prima di questa frase ha introdotto congetturalmente una domanda di Bacchide, «Di dove t’è sembrato che fosse?», attribuendo il seguito a un servo come risposta. Si parla evidentemente, come nel frammento precedente, del soldato, da cui ha prestato servizio Bacchide II. Ma che Bacchide dialogasse con un servo ci sembra da escludere sulla base di quello ch’è l’ulteriore svolgimento della commedia. C’è chi invece nella parte perduta non pone la scena del ritorno di Ricordinsidia, ma solo quella del ritorno di Bacchide II, che sarebbe accompagnata da un servo del soldato. 5 Si parla forse di Efeso, la città greca sulla costa dell’Asia minore dove è andato Ricordinsidia. 6 Sono le condizioni poste dal soldato a Bacchide II, come si ricava dalla successiva scena prima. 7 La battuta è congetturalmente attribuita a Fedesindacato, che parlerebbe di sé e del compagno innamorato di Bacchide II, come si ricava dalla prima scena successiva. Così forse Ricordinsidia è il giovanotto di cui si parla nel frammento XV. Si noti già l’equivoco sulle due Bacchidi. 8 In molte edizioni sono registrati qui altri due frammenti che il Ritschl ha creduto di poter ricavare dal commento di Donato a due commedie di Terenzio; ma lì i due frammenti non hanno affatto l’indicazione della commedia da cui sono desunti. Si può presumere che il frammento alluda a una prima manifestazione delle velleità senili di Ospitalone, che emergeranno nell’ultima scena. Ma bisognerebbe postulare un’altra scena nella parte perduta. 9 Non tutti gli editori attribuiscono alla commedia questo frammento, che un glossario testimonia tratto da essa. 10 Anche i frammenti precedenti sono generalmente considerati appartenenti all’atto primo, dato che solo questo è lacunoso. 11 Abbiamo reso con un altro gioco di parole allitterante quello del testo. 12 Il soldato. 13 Va inteso proprio in senso osceno. 14 Nel testo, per uniformarci alla siglatura iniziale, sostituiamo paedagogus alla rubricazione servus dei manoscritti. 15 Il mitico legislatore che avrebbe istituito il regime politico e morale e i costumi di Sparta. 16 Reputato il primo filosofo dell’Occidente, il fondatore della cosiddetta scuola fisica; visse a Mileto nel sesto secolo a.C. 17 Abbiamo ritoccato il testo per poter introdurre un gioco di parole allitterante al posto di quello originale. 18 Il testo corrotto del verso dà un soggetto femminile (haec); ma tutti quelli che han tentato di emendarlo lo hanno sostituito con un soggetto maschile, che è l’unico che si accordi con ciò che segue. 19 La versione è identica a quella del Canali; non vediamo come avrebbe potuto essere differente. 20 Ercole, messo a scuola dal cantore Lino, figlio d’Apollo, lo uccise percuotendolo con la lira. E si noti come il nome di Lino sia omofono a quello di Lido. 21 Il vecchio saggio Fenice ci è noto dal L. IX dell’Iliade, in cui unisce i suoi consigli a quelli di Ulisse per sanare l’ira di Achille e indurlo a tornare a combattere. Fu lui ad annunciare a Peleo la morte del figlio, al ritorno degli Achei da Troia. Nella commedia sovrabbondano i richiami mitologici, specie alla guerra di Troia; forse dovevano essere già una caratteristica dell’originale greco.

Atto Secondo 22 Il tempio di Apollo doveva stare sulla scena, vicino alla casa di Bramavittoria, come spesso accade nella scenografia di queste commedie. 23 È proprio una commedia di Plauto, l’Epidicus, sulla cui recitazione da parte di un attore che pure era celebre, Pellione, il poeta esprime le sue riserve; e non è escluso ch’egli abbia

voluto scherzare per fare un’arguta sorpresa o un dispettuccio a un attore da lui stimato, che già nel 200 gli aveva recitato lo Stichus alla prima rappresentazione. Questo è uno dei pochi dati cronologici del teatro plautino: l’Epidicus era anteriore alle Bacchides; e forse per questo, nell’ordinamento delle commedie nella tradizione manoscritta, le Bacchides, violando il sia pur approssimativo ordine alfabetico, hanno trovato posto dopo l’Epidicus. 24 Seguiamo l’interpretazione dell’Ernout, supponendo che Fedesindacato immagini un nuovo giudizio di Paride, nel quale la sua Bacchide I conserverebbe sempre il primato (Venere), ma Bacchide II assurgerebbe pur sempre al valore di una delle altre due dèe concorrenti. Sempre riferimenti al mito troiano. 25 I filippi d’oro, più volte menzionati in Plauto e fatti coniare da Filippo II il Macedone. E Rubaloro ha riportato da Efeso proprio filippi d’oro. 26 Il poeta fa un gioco di parole sul termine greco che indica l’oro, trasportandolo di peso nell’eloquio latino. 27 Allusione al mito degli Argonauti. Frisso si rifugiò con Elle nella Colchide, in fondo al Mar Nero, sopra un montone dal vello d’oro di cui s’impadronì Eeta, il re della regione, uccidendo Frisso. Per conquistarlo giunsero nella Colchide gli Argonauti, a mezzo della nave Argo, la prima posta in mare dagli uomini. Il loro capo Giasone, avendo fatto innamorare di sé Medea, la figlia di Eeta, riuscì col suo aiuto a rapire il vello. 28 Nota come Plauto applichi i termini della giustizia romana. 29 Figlio di Mercurio e avo materno di Ulisse, che aveva fama d’essere un sottile masnadiero. 30 Il luogo è corrotto e il senso lo si ricostituisce per congettura. 31 Nel testo il gioco di parole è fra «Archidemides» e «dempturum». 32 Abbiamo adoperato questo termine come etnico, anziché «Efesii», per conservare la patina comica del dialogo. 33 Gioco di parole sul doppio significato del lat. carus e dell’italiano «caro»: «diletto» e «costoso». 34 Allude alla pena della crocifissione che di solito s’infliggeva agli schiavi.

Atto Terzo 35 Gli editori pongono questi versi fra parentesi quadre perché li ritengono interpolati in una retractatio al posto degli analoghi vv. 380-81. 36 Intus potrebbe avere questo significato oppure quello di «lì dentro», con allusione alla casa delle Bacchidi, come intende l’Ernout. 37 Cfr. l’introduzione, sulla corruttela presentata qui dal testo e sulle ipotesi che vi sono state costruite sopra. 38 Il grembiale della balia era sempre spruzzato dai rigurgiti del poppante, come la pelle del ragazzo frustato era striata dalle verghe. 39 La tradizione manoscritta oscilla fra meo e suo, che appare più logico ed è preferito dalla maggioranza degli editori. Ma l’inattesa conclusione malo … meo s’accorda con l’altra

ugualmente inattesa planeque … amo di due versi dopo. 40 Sembrerebbe che la frase avesse a terminare con un proposito di vendetta, quando all’improvviso Ricordinsidia s’abbandona a una confessione d’amore che smentisce il furore del suo risentimento. 41 Gli editori espungono i vv. 519 a-c, perché ripetono quasi parola per parola i vv. 512-14. Ma bisogna fare altrettanto col v. 520 che ripete il v. 516. 42 Questa è la lezione dei codici. Il Kammermeister, seguito da quasi tutti gli editori, ha attribuito Bacchidem? a Ricordinsidia. Ma non c’è ragione d’introdurre emendamenti: dalle parole dell’amico, Fedesindacato ha intuito il suo equivoco e anticipa la conclusione della sua frase per fargli la rivelazione risolutrice.

Atto Quarto 43 C’erano due città di questo nome, l’una nella Focide, l’altra nella Tessaglia. Samo è la celebre isola dell’Egeo, una delle maggiori della lega attica.

44 Il parassita stava sempre alle costole del soldato per sbafargli i pranzi. 45 Nomi di schiavi. 46 Dalle iscrizioni romane si ricava che si offriva ad Ercole la decima del bottino. 47 Ci sarebbe da sospettare che nel testo ci fosse un’esortazione di Rubaloro a Ricordinsidia a scrivere più presto, che sarebbe caduta nel copione o in una retractatio. 48 Tipico di Plauto è l’atteggiamento sprezzantemente ironico relativo ai Greci, che ne fa un precursore di Catone e dei suoi atteggiamenti ideologici e sociali. E si tenga presente che,

secondo il modello, la scena è posta addirittura ad Atene! 49 Gli editori seguono un codice umanistico e l’editio princeps del Merula nell’attribuire la battuta a Ricordinsidia. Ma non c’è ragione di non seguire l’indicazione dei codici poziori che conservano la sigla. 50 Allusione al mito di Bellerofonte, che da Antea che lo amava e ch’egli aveva respinta fu accusato al marito, il re Preto di Argo, il quale lo mandò a suo suocero, il re Giobate di Licia, con una lettera crittografica in cui gli chiedeva di ucciderlo. Giobate invece lo mandò a combattere la Chimera. 51 Bramavittoria ripete le espressioni della lettera. 52 Abbiamo tradotto come il Canali, perché in italiano è inevitabile rendere la frase plautina, che gli è del resto molto affine, col verso del Leopardi che fa da intestazione ad Amore e morte e che è la versione proprio di un verso di Menandro. 53 Abbiamo tradotto così perché conserviamo la lezione Submanus dei principali codici Palatini, che sovrappone al valore di sub mane («sul far del mattino») dell’epiteto Summanus di Giove notturno, quello di sub manus del dio dei ladri, che arraffano tutto quello che gli capita sotto le mani. 54 Due personaggi di commedia a noi ignota, divenuti proverbiali per una situazione del genere. Invece il Leo ha pensato a Demetrio Falereo, il famoso oratore e statista che governò Atene alla fine del quarto secolo a.C., e ad un suo ignoto competitore. 55 I più espungono questo verso come eco superflua di ciò che precede. Del resto in tutta la scena sono state trovate ripetizioni, contraddizioni, storture che sarebbero da addebitare a una maldestra retractatio. Ma non s’è voluto tener conto sistematicamente del fine perseguito da Plauto in scene del genere, ch’era quello di suscitare il riso con ogni mezzo e a qualsiasi prezzo, e dello stimolo che doveva far sbrigliare un servo come Rubaloro ad architettare allegramente stravaganti variazioni comiche d’ogni genere, senza curarsi della logica e della coerenza. 56 Evidente parodia del lamento di Andromaca nell’Andromacha aechmalotis di Ennio. 57 Il costruttore del cavallo di Troia. 58 Il celebre autore della frode decisiva, su cui tanto s’intrattiene Virgilio nel L. II dell’Eneide: fattosi trovare sul lido dai Troiani usciti dalla città dopo la simulata partenza degli Achei, e facendosi passare per una vittima dell’odio e delle insidie di Ulisse, guadagnò la loro fiducia, e facendo loro credere che il cavallo fosse un dono espiatorio e propiziatorio lasciato dagli Achei in onore della dea Minerva per fare penitenza del furto del Palladio e guadagnare la sua protezione durante il viaggio di ritorno in patria, indusse i Troiani ad abbattere le mura per ospitarlo in città, condannando così questa alla distruzione. Anotte fatta dette con una torcia il segnale alla flotta achea nascosta presso l’isola di Tenedo e aprì la porta celata nel ventre del cavallo per farne uscire i guerrieri ivi appiattati. Plauto segue una versione secondo cui Sinone si sarebbe fatto trovare sul lido presso la tomba d’Achille. 59 Con allusione anche alle corna del re di Sparta, dato che Bacchide era fuggita per convivere con un novello Paride. 60 Rubaloro, senza preoccuparsi che Gloriadipugna è uno dei nemici bidonati, ne fa Menelao, in considerazione delle sue disavventure amorose, trascurando il fatto che Menelao era uno degli Achei vittoriosi, e non esita a far di se stesso Agamennone, cioè proprio il fratello di Menelao. Ma Agamennone era il capo dell’esercito vincitore, come Rubaloro è il capo dell’attuale trappola così ben riuscita. I pedanti filologi si sono scandalizzati che qui si muti l’elenco dei paragoni coi personaggi della leggenda troiana, che Rubaloro, prima equiparato a Ulisse, sia ora equiparato ad Agamennone, e che Ricordinsidia, prima equiparato a Sinone, sia ora equiparato a Paride. Di qui un diluvio di proposte d’espunzione, di emendamento, di spostamento di versi. Ma anzitutto la costanza dei riferimenti alla leggenda troiana rende probabile far risalire il brano alla composizione da parte di una sola mano. Ed è tipicamente plautino che il servo, imbarcatosi nel confronto con la leggenda di Troia, lo abbia rovistato in tutte le direzioni, sfruttandolo nelle varie prospettive suggerite dalla situazione, in maniera che i primi paragoni, suggeriti dall’inganno del cavallo, sono poi sostituiti da quelli suggeriti dalle circostanze fondamentali che determinarono la guerra di Troia. Proviamo anzi la tentazione di supporre che la prima serie di paragoni si trovasse già, sia pure in forma più succinta e meno spassosa, nel modello greco e che poi Plauto, obbedendo al suo tipico istinto di sfruttare sino alla feccia uno spunto farsesco, vi abbia intrecciato di suo l’altra serie di paragoni, arrivando all’assurdità di concepire un assedio della nuova Troia da parte di un nuovo Agamennone e di un nuovo Paride insieme uniti. Del resto la riprova la si avrebbe al v. 496, dove il paragone di Rubaloro con Agamennone è rinterzato da quello, già formulato, con Ulisse figlio di Laerte. E a quello si ritorna successivamente. 61 Nel L. IV dell’Odissea Elena racconta d’aver riconosciuto Ulisse sotto il suo travestimento e d’essersi impegnata a non denunciarlo finché egli non avesse raggiunto i commilitoni. Secondo un’altra versione della leggenda era stata addirittura Ecuba a riconoscerlo e, impietosita dalle sue suppliche, a risparmiargli la vita col silenzio. Di qui i poeti tragici classici che sceneggiarono la caduta di Troia introdussero Ecuba rimproverante la sua ingratitudine a Ulisse, di cui essa era divenuta schiava nella divisione del bottino. 62 Il Palladio, la statua di Pallade Atena (Minerva per i Romani), talismano e garanzia dell’inespugnabilità di Troia, il cui furto sarebbe stato opera di Diomede e Ulisse. 63 Figlio di Priamo, ucciso da Achille. Secondo una versione della leggenda, egli avrebbe affrontato il più temibile dei guerrieri achei per contendergli la schiava Criseide (confusa con Briseide, dato che questa era la schiava di guerra d’Achille, mentre Criseide lo era d’Agamennone?), di cui egli era innamorato. Su questa versione lo Shakespeare compose il Troilo e Cressida, ispirandosi al Chaucer e attraverso lui al Filostrato del Boccaccio. La versione da lui seguita faceva di Cressida la figlia di Calcante, che sarebbe stato un sacerdote troiano passato agli Achei. 64 Le famose porte Scee, principale ingresso di Troia, di cui furono abbattuti i frontoni per permettere l’ingresso in città del cavallo di legno, ch’era più alto. 65 Altra allegra confusione: Rubaloro s’è paragonato a Ulisse e ad Agamennone, mentre ora fa la figura di Achille. C’è da meravigliarsi che nessuno abbia sospettato anche del v. 960. 66 È implicito quindi un nuovo paragone del vecchio con Troilo. Ciò spiega ancor meglio il processo di vertiginoso avvicendamento dei paragoni e quindi il carattere complessivo del brano, che non è il caso di sezionare in parti plautine e parti interpolate. 67 Si fondono le due versioni di cui abbiamo parlato al n. 60. 68 Apartire dal Ritschl s’è fissato qui l’inizio di una nuova scena. Il Leo nega invece che Bramavittoria sia uscito di scena al v. 924 e pensa ch’egli sia rimasto vicino alla porta durante tutto il monologo di Rubaloro, perché di solito chi dice d’aver sentito vicino a sé una voce è già sulla scena. Ma sembra assurdo che di uno sproloquio così lungo, pronunciato con atteggiamenti farsescamente caricaturali, con movenze trenodiche e oratorie, egli non abbia inteso nulla. 69 Il questore, la prima e quindi la meno importante delle cariche del cursus honorum a Roma, era particolarmente incaricato delle esazioni. Uguale nome aveva nell’esercito l’ufficiale incaricato dell’amministrazione dei beni della truppa; e l’allusione qui va proprio a quest’ufficio.

Atto Quinto 70 L’Ernout fa cominciare da questa scena il quinto atto. Ed effettivamente, dovendo tracciare oggi una ripartizione in atti, è molto più naturale porre la pausa dopo l’uscita di Rubaloro che conclude la fase più dinamica della trama, anziché dopo il soliloquio di Ospitalone, tanto più che nella scena successiva è ancora presente Ospitalone, che s’incontra con Bramavittoria. 71 Il Ritschl e il Leo vogliono espungere quest’emistichio perché ripete il v. 1090. Come al solito, non si vuol capire che in questi accesi sproloqui le ribattute ex abundantia cordis sono all’ordine del giorno. 72 In realtà Ospitalone sapeva già che il figlio aveva l’amica. 73 Poiché il passo è corrotto e presenta un termine incomprensibile, ci siamo basati per tradurre sopra un emendamento umanistico seguito da molti editori, minae ambae, fondato sopra un passo del De re rustica di Varrone e sopra una nota del sommario di Festo ad opera di Paolo Diacono, testimonianti che minae significava le pecore che non avevano più latte. 74 Evidente allusione a Rubaloro: cfr. v. 1168. 75 È evidente il gioco di parole fra i caproni e le macchine da guerra. Perciò abbiamo preferito conservare il termine «arieti», adoperato in entrambi i significati.

View more...

Comments

Copyright ©2017 KUPDF Inc.
SUPPORT KUPDF