Alias de Il Manifesto - 11.05.2013.PDF

January 6, 2017 | Author: Andrea Cerutti | Category: N/A
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JODOROWSKY JAMES FRANCO SOFIA COPPOLA BERTOLUCCI DICAPRIO CAMPION LAV DIAZ PENNE ROCK LA STRAGE DEI KOMBO KOLOMBIA

CANNES

JASON COLLINS OCCUPY SPORT JOSEFA IDEM

POLANSKI VON MASOCH, UNA BAMBOLA PER MENGELE, IL KAMASUTRA DELLA MACCHINA DA PRESA, PIZZI E PIUME DI VALENTINO LIBERACE LA TRILOGIA TEXANA DI MINERVINI, COME È DIFFICILE FARE UN FILM SECONDO TOBACK

FOLLIES

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ALIAS 11 MAGGIO 2013

Le sorprese: Alejandro Jodorowsky, il maestro delle immagini Lav Diaz in pagina: Alejandro Jodorowsky e i suoi tarocchi, in basso: Anselmo Duarte e Leonora Amar in «Veneno». In alto: Paul Newman e Joanne Woodward nel manifesto di Cannes 2013

IL FESTIVAL 66

Il sistema francese e il resto del mondo Un circuito «chiuso» ad alto rischio C.Pi.

●●●La coppia Paul Newman-Joanne Woodward è l’icona della prossima edizione del Festival di Cannes (15-26 maggio), anche se Hollywood continua a disertare la Croisette, e quest’anno più del solito (mancano persino eventi tipo l’anteprima di Kung Fu Panda). L’unico vero film di studio è Il Grande Gatsby, mentre Nebraska di Payne è Paramount ma con distributore indipendente fuori dagli Usa, e i Coen sono prodotti con capitali francesi. Sismografo di umori, emozioni, economie, la «bolla» della Croisette è lo spazio in cui gli immaginari si mettono alla prova, rivelando pensiero, strategie produttive, e anche il proprio fuoricampo, quello che non c’è e che però ne costituisce l’energia propulsiva forse di maggiore deflagrazione. Che festival sarà questo numero 66? Il dato più evidente è la straripante presenza francese in tutte le sezioni. Non solo i sei titoli in gara - Bruni Tedeschi, Ozon, Kechiche, Deslpechin, de Pallières, Polanski - ma anche nel Certain regard, tra gli esordi della Semaine de la critique e le scoperte della Quinzaine des Realisateurs. Al di là delle produzioni nazionali, la Francia appare nel festival come un «sistema», riferimento obbligato per buona parte della produzione mondiale pensiamo al nuovo film del regista iraniano Asghar Farhadi, in concorso con Le Passé girato in francese. Si dice che la fortuna, e la tenitura di Thierry Frémaux, il direttore artistico, siano in buona parte dovute alle relazioni privilegiate con alcune società chiave di produzione/distribuzione francesi, e però la stessa cosa potrebbe applicarsi alle altre sezioni, in cui la maggior parte dei film rivelano una presenza francese. Questo sistema, se da una parte costituisce uno strumento di potere per la cinematografia nazionale, rischia dall’altra di condizionare gli orientamenti della macchina festivaliera, che finisce così per ripetere sé stessa, e gli autori nella sua orbita. Frémeaux per i venti titoli in corsa per la Palma, che sarà assegnata dalla giuria presieduta da Steven Spielberg, sembra aver voluto ciò che può essere «il meglio» del cinema mondiale nelle sue declinazioni più consolidate, e all’interno di una politica autoriale senza «rischi», accantonando anche le polemiche dello scorso anno sulla mancata presenza di cineaste (ce ne è una, Valeria Bruni Tedeschi), mentre il documentario, e quelle «moving images» di crossover che attraversano da anni gli immaginari, sono esclusi ovunque. Nella selezione ufficiale la ricerca è delegata al Certain Regard - pensiamo a Lav Diaz, a James Franco ma anche al bell’esordio di Valeria Golino, Miele, a Minervini ecc - pure se poi alcuni di questi sono registi già stati «collaudati» (e amati) nel complesso festivaliero globale. Certo il festival ha poi il suo controcampo in un mercato vivo, cosa che manca alla Mostra di Venezia, che ne scuote l’aspetto «ufficiale». Sarà per questo che almeno un giorno tutti vogliono esserci?

di SILVANA SILVESTRI

film

●●●Ha vinto lo scorso anno la Quinzaine des Réalisateurs il film cileno «No» di Pablo Larrain ed ora è candidato agli Oscar: la selezione di Cannes guarda con occhio particolare al continente latino, non solo, ma con i suoi aiuti allo sviluppo dei film alleva da tempo una promettente generazione di cineasti che già si sono affermati, come ad esempio gli argentini Lucrecia Martel e Pablo Trapero (peraltro scoperto alla Settimana della critica a Venezia). Ma il nome che spicca quest’anno non è quello di un giovane cineasta, ma di un decano, Alejandro Jodorovsky che racconta la sua infanzia in La danza de la realidad in uno dei luoghi più magici del pianeta, il deserto di Atacama con le sue lagune di sale e i suoi colori violenti. Tocopilla si chiamava il villaggio dove i suoi genitori ebrei ucraini immigrarono e lì nacque. Suo padre lavorava nel circo prima di diventare commerciante e già si possono sommare parecchi elementi di straordinaria eccentricità, che stanno certamente all’origine della sua creazione, la psicomagia, il metodo per curare con l’inconscio, la magia, la letteratura, e alla base dei suoi film che sembrano psichedelici ma che riflettono in pieno paesaggio e personaggi del luogo, (El Topo, La montagna sacra o il più recente Santa Sangre). Nel film ricorrono scene da provincia cilena degli anni quaranta, ma anche successivamente si sarebbero potuti incontrare i circhi «de malamuerte» (qui il più dignitoso circo Piripipi), los bomberos, i pompieri completi di autopompa, l’intero villaggio in gramaglie, i cinemini dal nome «Cine Ideal» dipinti a colori pastello. Inoltre Frank Pavich presenta Jodorowsky’s Dune, che documenta la vicenda che ci raccontò, la preparazione del suo Dune negli anni ’70, tratto dal famoso romanzo di fantascienza per cui aveva già avuto l’accordo per le scenografie di Salvador Dalì. È di un’altra generazione, ma il suo film coglie luoghi altrettanto misteriosi del Cile Sebastian Silva, il regista di La nana, classe ’79, che viene dalla capitale Santiago: è a Cannes con Magic Magic un horror psicologico di produzione statunitense con attori internazionali ed effetti speciali. Una ragazza (Juno Temple) va a trovare l’amica (Emily Browning) in vacanza nel misterioso e lussureggiante sud del Cile e lì perderà il senso della realtà, aiutata in questo da Michael Cera (il giovane attore canadese di Juno). Esordisce nel lungometraggio la documentarista Marcela Said (classe ’72) con El verano de los peces voladores. Studi di cinema a New York e a Parigi è la regista di I love Pinochet, che ha ricevuto una quantità di premi, ed è anche stato acquistato dalla televisione nazionale cilena che non lo ha mai programmato. Opus Dei è stato record di vendite dvd in Cile. In El Mocito faceva il ritratto di un aiutante degli agenti della Dina, il centro di sterminio e di repressione della dittatura. Anche il suo film è ambientato al sud, a Temuco, dove l’adolescente Manena passa le vacanze con la sua famiglia, mentre il padre è deciso a sterminare le carpe della laguna del suo latifondo con gli epslosivi e lei è l’unica a percepire il conflitto che sta per nascere tra i mapuche della zona. Altra zona che appartiene ai ricordi letterari è Los dueños (I padroni) di Agustín Toscano ed Ezequiel Radusky (entrambi classe 1981). «Tucumán Tucumán», sussurrava nel suo delirio il piccolo Marco/Cesare Barbetti di Dagli Appennini alle Ande (di Flavio Calzavara, 1943) in viaggio da Genova in Argentina alla ricerca della mamma. Viene da Tucumán Los dueños, selezionato dalla Semaine de la critique, il primo film tucumano a Cannes in

una sezione competitiva, prodotta dall’Università Nazionale di Tucumán. I padroni sono i proprietari della casa dove vivono per tutto l’anno i guardiani, finché non arrivano i proprietari (protagonista è Rosario Bléfari, famosa protagonista di Silvia Prieto), film sulla lotta di classe, «un tema che va trattato con cura, dicono i registi, soprattutto in questo momento. Già famosa regista e scrittrice è un’altra argentina, Lucia Puenzo, (figlia del regista Luis Puenzo) che da un suo romanzo ha tratto Wokolda selezionato al Certain Regard: nel 1951 Josef Mengele il medico degli esperimenti nazisti sulla razza arriva in Argentina come tanti altri nazisti in incognito e si trova a vivere a San Carlos de Bariloche in Patagonia accanto a una famiglia di cui non manca di notare per alcune particolarità la giovane figlia Lilith

che porta con sé la bambola Wokolda e che non sospetta minimamente a cosa si riferiscono le sue attenzioni. Con Heli il cineasta messicano Amat Escalasnte sarà in competizione per la Palma d’oro con Polanski, i fratelli Cohen, Soderbergh. È stato invitato a Cannes già altre volte fin dal suo esordio Sangre. E un altro film messicano La Jaula de oro (la gabbia d’oro) di Diego Quemada Díez è stato selezionato al Certain Regard, segno di grande vitalità di questa cinematografia.

Danza della realtà latinoamericana

CANNES2

di MATTEO BOSCAROL

●●●L’Asia estremo orientale sarà ben rappresentata nel concorso ufficiale del festival di Cannes di quest’anno, proveranno ad aggiudicarsi infatti la Palma d’Oro due lavori provenienti dal Giappone ed uno dalla Cina, paese quest’ultimo che vedrà anche un suo film presentato nella sezione Un Certain Regard, quasi a (ri)stabilire un equilibrio, almeno artistico, che sembra mancare del tutto a livello geopolitico in questo periodo, con entrambi i governi «impegnati» in proclami e politiche fondati sul più becero nazionalismo. A questi si aggiungeranno due opere targate Filippine (Un Certain Regard) il cui movimento cinematografico è ormai una realtà più che affermata a livello internazionale proprio grazie alla vetrina offerta dai festival più prestigiosi. Se per i film giapponesi si tratta in fondo di continuare a scegliere e credere alla bontà artistica di nomi che in riviera sono spesso passati negli ultimi anni, Takashi Miike e Hirokazu Kore’eda, per le opere cinesi si tratta di un lieto ritorno e di una novità assoluta, e per il filippino Lav Diaz, uno dei cineasti contemporanei più importanti e originali a nostro modo di vedere, della prima volta a Cannes. Kore’eda è uno degli autori giapponesi più conosciuti, il suo

Serrata caccia all’uomo, fino a Tokyo Nobody Knows nel 2004 si portò a casa il premio come miglior interpretazione maschile proprio qui in Francia, mentre il delizioso Still Walking (2008) ci racconta, con un esplicito omaggio al cinema di Yasujiro Ozu, le relazioni familiari e il loro mutare col passare del tempo. Il penultimo lungometraggio, I Wish (2011) con protagonisti due bambini, ci conferma come il regista giapponese sia un maestro a catturare la spontaneità dei piccoli attori, qualità che probabilmente gli deriva dal suo passato di documentarista. Va ricordato inoltre che è dell’anno scorso la realizzazione di una serie tv incentrata sul rapporto di un anziano padre ormai morente con suo figlio e la famiglia, lavoro che ha sorpreso in positivo per i tocchi surreali e comici che Kore’eda ha saputo inserire in quello che oramai riconosciamo come il suo stile. Il lavoro presentato qui a Cannes, Like Father, Like Son sembra continuare su questa linea, Kota è un uomo e un padre realizzato, tutto sembra andare per il verso giusto quando un giorno gli arriva una telefonata dall’ospedale che gli cambierà la vita. Quello che lui e sua moglie considerano il loro figlio infatti non è veramente tale a causa di un errore, di uno scambio di culle fatto sei

anni prima subito dopo la nascita del bambino. Questa scoperta getterà in crisi Kota e la moglie che si interrogheranno sul loro ruolo di genitori. Sarà interessante vedere come Masaharu Fukuyama, famosissimo cantante e attore, qui nel ruolo del padre, saprà interpretare un uomo in profoda crisi, lui che in Giappone è l’immagine della persona vincente. Di tutt’altro genere l’altro film in concorso, Shield of Straw di Takashi Miike, un action movie e grande produzione quasi di stampo hollywoodiano con il regista nipponico che partecipa a Cannes per il terzo

Mitologie sognate nel quotidiano ●●●Il nome «inedito» in corsa per la 66a Palma d’oro è quello di Arnaud des Pallières, almeno per il grande pubblico internazionale visto che il cinquantenne regista francese è da tempo tra i «coup de coeur» della critica di tendenza d’oltralpe. Cresciuto cinematograficamente alla Femis, la scuola di cinema che orienta la produzione d’autore in Francia, e «discepolo» di Gilles Deleuze - nell’88, quando è ancora studente invita il filosofo e filma la sua conferenza in Gilles Deleuze: Qu’est-ce que l’acte de Création ? - de Pallières gira diversi cortometraggi, tra cui La Mémoire d’un Ange (1989) e Les Choses rouges (1993), e arriva al lungometraggio con Drancy Avenir, una investigazione che

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segue le tracce della persecuzione contro gli ebrei a Parigi e nella periferia metropolitana. Lo spazio della memoria sembra essere uno dei riferimenti privilegiati della sua ricerca, memoria intima, personale, e memoria dell’immaginario, un viaggio che spesso rimbalza spesso tra più sponde con gli occhi europei «affascinati» da mitologie pop e da orizzonti inafferabili. Lungo questi bordi le sue immagini si mettono alla prova, sperimentano a ogni passaggio lo scarto dei generi, «documentario» e «finzione», che si fondono in una specie di io collettivo e insieme assolutamente personale. L’America di Disneyland mon vieux pays natal (2000) scoperta tra le istallazioni a tema di Euro Disney, in cui il regista a fa di un lavoro «su

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commissione» una sorta di ballata piena di dolce malinconia. Nel vagabondaggio di una giornata a Marne-la-Vallée, in mezzo alla folla che oscilla tra Topolino e Paperino, e i bambini che ridono o gridano di spavento, des Pallières ritrova la nostalgia di un’infanzia che non esiste più, quel sentimento dell’innocenza perduta - o forse mai esistita - in cui si consuma la vertigine dell’età adulta. Poussieres d’Amerique (2001) è un made in Usa fatto di archivi che mescolano film familiari, pubblicità filmati istituzionali in cui appare l’America del capitalismo, delle conquiste spaziali ma anche della grandezza di produzione d’immaginario dove il quotidiano si trasforma in mitologia. Michael Kohlhaas, il film in concorso al festival, è per dichiarazione del regista un lavoro completamente diverso da tutto quanto ha fatto finora. Il punto di partenza è l’omonimo racconto che Heinrich von Kleist scrisse nel 1811 (allo scrittore tedesco si è ispirato anche Eric Rohmer per il sublime La Marchesa von O), nella scia del trauma per la fine del Sacro Romano impero tedesco sconfitto da Napoleone. La storia del mercante di cavalli la cui vita viene distrutta da una condanna ingiusta, è anche tra i romanzi prediletti da Kafka, che in Il Processo ricreerà lo stesso clima di angoscia, col protagonista condannato per una colpa che ignora. Von Kleist si ispira a un fatto realmente accaduto, Hans Kohlhaase, è un mercante di cavalli che il 1 ottobre del 1539, mentre si reca alla fiera di Lipsia, al passaggio della dogana nel territorio dello Junker von Zaschnitz non ha un lasciapassare di cui non ha mai sentito parlare né è disposto a pagare un dazio che giudica arbitrario. Per questa ragione viene prima privato di due dei suoi cavalli, e poi accusato di averli rubati. Al primo sopruso, infatti, quello dello Junker ribattezzato von Tronka, segue la reazione rabbiosa di Michael dopo che a Lipsia stabilirà che il lasciapassare richiesto non esiste affatto, ma soprattutto quando, al suo ritorno

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Tutto il programma del festival all’indirizzo www.festival-cannes.fr

rapportarsi al resto della Cina. Il film infatti rappresenta il debutto dietro la macchina da presa con un lungometraggio per la giovane autrice, laureata alla London Film School, che si avvale però di una grande ed esperto direttore della fotografia come Christopher Doyle, ricordiamolo almeno per il capolavoro In the Mood for Love. Nella stessa sezione vedremo anche il filippino Adolfo Alix Jr presentare il suo Death March, la storia del trasferimento forzato di 76.000 prigionieri di guerra, sia americani che filippini, da parte dell’esercito imperiale giapponese nel 1942. La sorpresa più bella però è vedere (finalmente) quel grande artista delle immagini che è Lav Diaz approdare a Cannes (Un Certain Regard) con North, The End of History, speriamo che il regista filippino riesca ad affascinare con il suo cinema lento ed avvolgente anche il pubblico francese, dopo quello veneziano che molto gli ha dato a livello di popolarità e prestigio festivalieri.

GERENZA Il manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri a cura di Silvana Silvestri (ultravista) Francesco Adinolfi (ultrasuoni) in redazione Roberto Peciola redazione: via A. Bargoni, 8 00153 - Roma Info: ULTRAVISTA e ULTRASUONI fax 0668719573 tel. 0668719557 e 0668719339 [email protected] http://www.ilmanifesto.it impaginazione: il manifesto ricerca iconografica: il manifesto

«Un chatêau en Italie di Bruni Tedeschi, «A Touch of Sin» di Jia Zhangke, a sinistra «La Vénus à la fourrure» di Polanski, a destra «Jimmy P.» di Arnaud Desplechin, in alto a destra «Nebraska» di Alexander Payne

NEW ENTRY ■ Des Pallières, «Michael Kohlhaas»

di CRISTINA PICCINO

anno consecutivo. Dopo aver presentato il primo film in 3D in competizione nel 2011, Hara-Kiri: Death of a Samurai, e l’anno scorso la deliziosa parodia musical For Love’s Sake, Miike dimostra ancora così la sua inesauribile versatilità e la sua passione per il lavoro di regista, che siano le sperimentazioni di inizio carriera per il mercato home video, l’ultraviolenza di Ichi The Killer, l’insostenibile tensione di Audition o le grandi produzioni jidai geki come lo splendido 13 Assassins, il regista di Osaka riesce sempre a sorprendere, regista unico e autore senza i vezzi negativi dell’autorialità. La storia di Shield of Straw, tratta da un romanzo di successo, segue le vicende dell’uccisione della nipote di Ninagawa, un potente uomo politico che mette una taglia di un miliardo di yen su chiunque uccida il presunto sospetto, Kunihide Kiyomaru. Il film si svolge spazialmente nei 1200 chilometri tra Fukuoka, dove il ragazzo si consegna alla polizia per paura della sua vita, e Tokyo dove 5 agenti di polizia cercheranno di riportarlo parando gli attacchi della gente, affamata dalla montagna di soldi promessa dall’anziano politico. Grandi distanze sono anche quelle che copre l’ultimo film di Jia Zhangke A Touch of Sin che infatti segue gli intrecci di quattro storie in zone diametralmente diverse della moderna Cina, dalla megalopoli Guangzhou alla provincia più rurale di Shanxi. Il regista, comunemente associato ai registi cinesi di sesta generazione, nel 2006 vinse il Leone d’Oro a Venezia con Still Life, dove raccontava l’impatto per un piccolo villaggio dalla costruzione della cosiddetta Diga delle Tre Gole sul Fiume Azzurro, lo Yangtze e continuava la sua indagine delle trasformazioni sociali della modernità cinese nel 2008 con 24 City, in competizione a Cannes. Novità assoluta invece per Flora Lau con Bends (Un Certain Regard), storia dell’amicizia fra una ricca casalinga e il suo autista in una Hong Kong che sempre più deve fare i conti e

scoprirà che i suoi due bellissimi cavalli sono stati messi al tiro e quasi ridotti in punto di morte, e che il suo fedele servo è stato picchiato. Gli ulteriori tentativi di Michael di ottenere ascolto producono altre vessazioni, fino all’uccisione dell’amata moglie Lisbeth. Allora Kohlhaas si trasforma in un brigante, raccoglie un gruppo di uomini, assalta il castello del suo persecutore e uccide tutti i presenti. Dopo aver messo a fuoco la città di Lipsia, Kohlhaas ha un incontro con Martin Lutero, che gli concede un lasciapassare fino a Dresda, dove potrà ripresentare la sua istanza al tribunale ... Il conflitto tra innocenza e colpa, e tra legge e giustizia, suddito e autorità, individuo e Stato vengono ripercorsi nelle pagine di von Kleist che al tempo stesso racconta il passaggio tra due mondi, da una parte il Medioevo e dall’altra lo stato assoluto moderno. Des Pallières sposta l’ambientazione in Francia, a Cèvennes, in Galizia, regione che nel sedicesimo secolo era divisa tra cattolici e protestanti, per mantenere il legame con l’inizio del protestantesimo che è un altro dei riferimenti kleistiani. In realtà l’idea di fare un film da questo libro risale a molti anni fa, alla prima lettura quando il regista aveva venticique anni. Un colpo di fulmine: «Allora però ero troppo giovane, non ne sarei stato capace. Avevo in mente dei riferimento come Aguirre di Herzog o I sette samurai di Kurosawa. Invecchiando, ho raggiunto la conoscenza necessaria» dice des Pallières che per il ruolo di Kohlhaas ha voluto Mads Mikkelsen (Valhalla Rising di Winding Refn, Il sospetto di Tomas Vinterberg). Ma non è solo questo che lo ha spinto a tornare al suo vecchio amore. Dice des Pallières: «Come è possibile che un uomo rispettato, marito e padre amorevole diventi un fanatico ossesionato da una unica idea? L’interrogativo che pone la storia di Kohlhaas contiene molti dei conflitti politici del nostro tempo. Non vedo però questa figura come quella di un rivoluzionario. Direi piuttosto che la sua è una vendetta personale».

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In copertina: «Les demoiselles de Rochefort» di Jacques Démy (1967) con Françoise Dorleac e Catherine Deneuve

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Da Jarmush ai Coen, Coppola e Soderbergh, gli Usa alla Croisette

film di GIULIA D’AGNOLO VALLAN

●●●Come trovare i soldi per un quasi-remake di Ultimo tango a Parigi? I protagonisti di quest’avventura (involontariamente) picaresca, condotta porta dopo porta, yacht dopo yacht, avanti e indietro lungo la Croisette, sono il regista James Toback e l’attore Alec Baldwin. Il film è Seduced and Abandoned e sarà presentato (in una proiezione speciale fuori concorso) al festival di Cannes, durante il quale è stato girato l’anno scorso. L’espediente narrativo di Toback farebbe immaginare una commedia sarcastico/crudele. E di crudeltà nel film ce n’è abbastanza, con Baldwin (una delle star televisive più pagate del momento, dopo il successo di 30 Rock) che si presta stoicamente all’esperimento e al giudizio impietoso dei potenziali finanziatori del film: non solo lui non è Marlon Brando, ma –gli dicono i money men- per un progetto come quello, oggi non c’è proprio più posto. «Forse lo potrei produrre mettendoti vicino una coppia di giovani star, e facendo scendere il budget a uno/due milioni di dollari», concede magnanimo Avi Lerner, stando al gioco e dimostrando, unico tra gli altri, un po’ di senso dell’umorismo.. Fortunatamente Toback è troppo raffinato, e soprattutto troppo un insider, per perdere tempo ed energia a fare un film sarcastico, sugli orrori dell’industria cinematografica e la morte del cinema d’autore. Seduced and Abandoned, con il suo titolo che ammicca a Germi, è un racconto più sfumato di così. Bertolucci, Scorsese e Polanski (che quest’anno ha un film in concorso al festival, Venus in Fur) emergono poco a poco come co-protagonisti e parlano di fare cinema con l’entusiasmo e la passione di quando erano mattatori assoluti del tappeto rosso locale. Solo che, si legge tra le righe dei loro sorrisi (privi dell’acidità di tanti autori più giovani), oggi lavorare è diventato molto più difficile. Nel mondo della produzione indipendente ridotto in gran parte anche lui a una grossa, spaventata, burocrazia (cosa che si vede benissimo nel film di Toback), è diventato molto più difficile oggi anche fare un grosso festival che spiazzi, sorprenda, o cambi il modo di vedere il cinema. In questo senso, a partire dalla serata d’apertura (The Great Gatsby di Luhrman) che è quasi un remake di quella fortunatissima del 2001 (il film era Moulin Rouge), anche la selezione Usa alla Croisette quest’anno, è quasi un documentario su Cannes. Jim Jarmush, i fratelli Coen, Steven Soderbergh, Alexander Payne, Sofia Coppola e James Grey sono già stati tutti in concorso al festival. Jarmush torna (chiaramente per il rotto della cuffia, annunciato all’ultimo momento e programmato in uno slot punitivo a chiusura del festival) con Only Lovers Left Alive, una storia a tre di vampiri (Tom Hiddleston musicista, Tilda Swinton l’amante, Mia Wasikowska la cugina intenibile) che, girato in tre continenti diversi (nelle città Detroit, Tangeri e Amburgo) e prodotto con capitali tedeschi, sulla carta ha un po’ il sapore di un tardo Wenders. Ambientato nella scena musicale del Village newyorkese degli anni sessanta, e liberamente ispirato dal libro di Dave Van Ronk The Mayor of

JAMES FRANCO

L’inesauribile immaginario del creatore di sogni di G.D.V.

●●●«Tra l’infinito numero di progetti artistici cha hai intrapreso quello che, più di tutti ha fatto alzare gli occhi al cielo?», chiede Zach Galifianakis a James Franco. Il set è quello di Wack Wednesday, il finto talk show comico per il sito internet Funny or Die: la satira è implicita. Ma la domanda (a cui Franco reagisce con un assoluto silenzio) è più che legittima. Attore, regista, sceneggiatore, produttore, videoartista, poeta, saggista, musicista, insegnante universitario, star di soap opera, documentarista, presentatore degli Oscar, twittermaniaco e promotore di un sito tv che porta il suo nome….Franco è una fabbrica d’immaginario (culturale) apparentemente inarrestabile, ed altrettanto onnivora. L’attore degli hit primaverili Oz The Great and the Powerful e Spring Breakers (di cui è anche produttore) sarà a Cannes con un film da regista (il 21esimo, secondo Internet Movie Database, ma ci sono parecchi corti), l’adattamento di As I Lay Dying, uno dei più famosi, e dei più difficili, romanzi di William Faulkner, di cui Franco firma la sceneggiatura e in cui interpreta Darl, il secondo dei fratelli Bundren, principale narratore della storia. Non è il primo viaggio nella letteratura americana del plurilaureato ex James Dean: il suo Broken Tower (bianco e nero, poverissimo e non poco confuso) era una biografia di Hart Crane. Child of God, attualmente in postproduzione, un adattamento dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy. Bukowski, che sta girando, ripercorre infanzia e gioventù dell’autore di Taccuino di un vecchio porco, The Garden of Last Days, in preproduzione, è basato sul libro di Andre Dubus II. E Franco non si ferma ai testi letterari: Rebel Without a Cause (Rebel, un’installazione del 2011), Cruising (Interior. Leather Bar, in prima mondiale a Sundance 2013) e My Own Private Idaho (My Own Private River, un’installazione e un film del 2012) sono film sui cui materiali, ha riffato liberamente, talvolta in modo molto interessante (specialmente nel caso di Van Sant). Il suo Sal era invece un omaggio biografico a Sal Mineo. Le frontiere non fermano James Franco attore, che ha film annunciati con Wim Wenders e Werner Herzog, e sicuramente non sono una barriera budget o generi: This Is the End diretto da Seth Rogen, è una delle commedie demenziali più attese dell’estate, Homefront (previsto entro fine anno), di Gary Fleder, un film d’azione durissimo, da una sceneggiatura di Sylvester Stallone, in cui Franco interpreta la nemesi di Jason Statham. L’incredibile, ossessivo, horror vacui del trentacinquenne di Palo Alto (che è tra l’altro il titolo di un film indipendente che ha appena finite di produrre e interpretare per la nipote di Francis Coppola, Gia) gli ha procurato non poco ridicolo e

MIGUEL GOMES ●●●Il regista portoghese autore del celebratissimo «Tabou», è il presidente della giuria dei critici istituita qualche anno fa dalla Semaine de la Critique. «Sono molto fiero di poter partecipare a questo premio, e anche se ho appena finito di girare un cortometraggio, e sto lavorando al mio prossimo lungo, non sono riuscito a resistere all’invito. Sono un regista, e nel ruolo di presidente di una giuria composta da critici di tutto il mondo, sarò molto democratico e aperto. La cosa che cerco in un film è la capacità del suo autore di proiettarvi il proprio universo e la propria sensibilità. sarà questo aspetto che privilegerò guardando gli esordi che compongono la selezione. Nel Certain regard c’è anche Rithy Pahn, il regista cambogiano che vive in Francia da molti anni, presenta «L’image manquante», un nuovo capitolo nella ricostruzione della memoria del suo paese, a partire dal genocidio compiuto dal regime di Pol Pot. Pahn ha di recente pubblicato un’autobiografia in cui ripercorre quei giorni, la fuga e la prigionia insieme alla sua famiglia, la perdita dolorosa delle persone amate, e insieme delle speranze di cambiamento del paese. MacDougal Street (titolo che viene dal soprannome di Ronk), Inside Llewyn Davis è una nuova collaborazione tra i Coen e il produttore Scott Rudin, ma anche lui è stato in gran parte finanziato in Europa. Oscar Isaac, Carey Mulligan, John Goodman, Garret Hedlund sono nel cast, con Timberlake e Isaacs che collaborano alle musiche insieme a T Bone Burnett, già autore per i Coen della bellissima colonna sonora d’epoca di O’Brother Where Are Thou? (Cannes 2000). Tra i titoli Usa che sembrano più interessanti e controcorrente è «l’ultimo» film di Soderbergh, Behind the Candelabra, una produzione HBO (nessuno dei produttori di cinema voleva toccarlo, troppo osè e politically incorrect nell’era dei matrimoni gay) e un omaggio alla fiammeggiante storia d’amore tra Liberace (Michael Douglas, da premiare già in fotografia) e il suo autista Scott Thorson (Matt Damon). Insieme a The Great Gatsby, l’unico film «da studio» (in Usa è Paramount) della selezione americana, Nebraska è un ritorno di Alexander Payne nei luoghi di Election e About Schmidt e nel Midwest in cui è cresciuto (il regista di origine greca è nato a Omaha). La storia è quella del viaggio di un padre e u figlio (Bruce Dern e l’ex di Saturday Night Live Will Forte) dal Montana al Nebraska. Considerato il lavoro di dettaglio che Payne fa sugli attori, questo film (inizialmente pensato per Gene Hackman), potrebbe portare al sottovalutato, ex cormaniano, Dern un riconoscimento che si merita da tempo. Ha una lunga storia con Cannes (The Yards, We Own The Night, Two Lovers) anche l’ultimo autore Usa in concorso, James Grey, sceneggiatore/regista di The Immigrant, in cui Marion Cotillard è sedotta e fatta prostituire da Joaquin Phoenix. Con Jeremy Renner nella parte del mago. Bad girls in Hollywood per Sofia Coppola che apre Un Certain Regard con The Bling Ring, ispirato alla storia vera di un gruppo di svaligiatrici di case di trash celebrities come Paris Hilton, Lindsay Lohan e Megan Fox. Sempre in un Un Certain Regard, debuttano invece al festival James Franco (As I Lay Dying) Ryan Coogler, con Fruitvale Station, vincitore di Sundance 2013. Per la prima volta al festival (e una delle uniche scelte «fuori sistema» del programma Usa, qui però con un sales agent francese) anche il marchigiano trapiantato a Houston Roberto Minervini, con Stop the Pounding Hart, terzo capitolo della sua trilogia texana, dopo The Passage e Low Tide. Robert Redford è fuori concorso, solo in mezzo al mare, in All Is Lost, di J.C. Chandor (Margin Call).

Così ti finanzio il film. Il gioco degli indipendenti qualche clamoroso scivolone (la cerimonia degli Oscar rimane uno degli esempi migliori). Ma, cocciutamente, con il tempo, Franco (che lavora con un gruppo ristretto di amici/collaboratori e, come provano le borse sotto gli occhi non ha replicanti) sembra essere stato capace di trasformare la sua tuttologia in un’ipotesi di performance art totale in cui anche quando le cose non vengono bene o rimangono in superficie, le curiosità e l’intelligenza ci sono. E si sentono.

Nelle pag 4 e 5 la celebre coppia Dean Martin e Jerry Lewis, a pag 5 in alto: All is Lost, l’ultimo imperatore, Grand Central

CANN

LIBERACE

ALIAS 11 MAGGIO 2013

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Un alieno molto camp ●●●Wladziu Valentino Liberace (1919 – 1987) nato nel Wisconsin, padre italiano e madre polacca, non è stato un uomo di cui è facile dare definizioni. Di professione era un pianista e un vocalist, uno showman indubbiamente dotato del senso dello spettacolo. Una specie di entertainer con la mania delle Ziegfield Follies fuori tempo massimo e dal gusto decisamente camp, meglio evidenziato dal suo (deliberato e consapevole?) uso del kitsch nell'abbigliamento e negli atteggiamenti. In Italia non è una figura molto conosciuta, forse i cinefili se lo ricordano perché interpretava un venditore di bare neIl caro estinto di Tony Richardson, e pochi sanno che i suoi show hanno affascinato gli americani per quasi 40 anni, anche quando approdò nei teatri degli hotel di Las Vegas, come tutte le glorie invecchiate dello spettacolo americano. Molti scopriranno una parte della sua vita e delle sue stravaganze con Behind the Candelabra, il film che Steven Soderbergh porta a Cannes, e il pericolo è che il suo personaggio appaia proprio quello che lui ha sempre negato di essere: un artista molto legato al guadagno, omosessuale in the closet che denunciava chi lo diceva (nel 1959 il Daily Mirror gli pagò una fortuna per averlo definito «maschile, femminile e neutro» e «dal sapore di frutta», fruit è un sinonimo dispregiato di gay). Forse, Liberace era anche così. Anzi, molte biografie sostengono che fosse proprio così. Lo sostiene anche Scott Thorson, suo fidanzato per sei anni, dalla cui autobiografia è stata tratta la sceneggiatura del film di Soderbergh (per nascondere la loro relazione, Thorson lavorava come suo valletto, finita la storia lo denunciò per sexual harrassment, poi si accontentò di un accordo monetario). Ma la vita di personaggi così complessi andrebbe analizzata con altri parametri. Da un punto di vista di stile, per esempio, è un peccato che la moda non se ne sia mai occupata. Certo, quella del suo tempo non avrebbe potuto elevarlo a icona di stile, ma oggi gli si potrebbe riconoscere almeno la qualifica di anticipatore di tendenze. Forse inconsapevolmente, con il suo abbigliamento Liberace credeva di ridare al maschio dell’uomo il ruolo che il maschio degli animali ha in natura: gli abiti come le piume del pappagallo, come la ruota del pavone, come la criniera del leone. Liberace indossava camicie di seta stampata o con enormi ruches di pizzo, giacche ricamate di oro zecchino e con applicazioni di pietre preziose, smoking con bottoni di diamanti; portava un anello enorme a ogni dito con diamanti incastonati; arrivava sul palco con un’auto bianca e ne scendeva trascinandosi il peso di una pelliccia di sessanta chili, portava mantelli di cincilla anche fuori scena e non sopportava un pianoforte a coda se sopra non fossero stati sistemati grandi candelabri d’oro. Insomma, un perfetto stile camp flamboyant che in anni successivi avrebbe goduto di maggiori fortune e di minore riprovevolezza. Come anticipatore di tendenze, quindi, non c’è male. La sua concentrazione ossessiva sull’estetica l’hanno adottata i metrosexual degli Anni 90; pellicce, anelli d’oro e orecchini di diamanti sono diventati i distintivi dei rapper african-americans e del loro stile ghetto fabulous (Puff Daddy e anche Usher e Kanye West); giacche con ricami d’oro si notano su parecchie passerelle e per le strade (Dolce&Gabbana in primis), e le camicie con le ruches di Sangallo si vedranno anche di giorno addosso agli uomini nel prossimo inverno (Prada). Certo, tutto molto più raffinato e senza ombra di camp. Come si addice agli uomini di oggi liberati ma che non fanno spettacolo. michele ciavarella

di LUCA CELADA NEW YORK

●●●«Ricordo che la prima volta ebbi l’impressione di esser finito ne La Dolce Vita ed ogni volta che ci torno è ancora un po’ così; l’intera città si trasforma in un gigantesco red carpet». Leonardo Di Caprio parla del festival vissuto la prima volta poco più che ventenne, come interprete del Titanic che l’avrebbe catapultato nella alla super-celebrità che all’epoca rischiò di inghiottirlo. L’anno prima, ancora teenager emergente, aveva girato Romeo+Juliet, uno degli adattamenti più azzeccati e originali della commedia shakespiriana, per un regista australiano ancora quasi sconosicuto fuori dai festival e dai circuiti d’essai. La prossima settimana Di Caprio e Baz Luhrmann saranno nuovamente assieme sulla Croisette per presentare un altro film che rivisita un classico letterario: stavolta è il Grande Gatsby, il romanzo di F. Scott Fitzgerald sul misterioso magnate di Long Island (un uomo enigma, in parte affine al Kane di Orson Welles) e la sua fatale ossessione per Daisy, l’amante proibita per cui inventa un mondo di rutilante eccesso. Questo Gatsby è il quarto adattamento cinematografico del romanzo-capolavoro di Fitzgerald dopo quello del 1974 di Jack Clayton con Robert Redford (sceneggiata da Francis Ford Coppola), la versione di Elliot Nugent con Alan Ladd nel 1949 e quella perduta girata da Herbert Brenon nel 1926 per Adolph Zukor e Jesse Lassky (a sua volta basata sulla versione teatrale diretta su Broadway quello stesso anno da George Cukor). Tutte - anche un telefilm del 2000 versioni piuttosto prosaiche di una storia la cui forza evocativa sta, più che nella trama, nell’invenzione letteraria e nelle atmosfere rese dall’autore. Quella di Luhrmann è una versione che lo stesso Di Caprio definisce «ad alto rischio», per la spregiudicatezza stilistica per cui è noto il regista ma, aggiunge l’attore, «è un film di cui vado fiero e credo che Cannes sia il luogo ideale per presentarlo ad un pubblico mondiale». Al di là dell’accoglienza critica che potrà avere, come scelta per l’apertura è ineccepibile, per il glamour che porterà alla prima (con Di Caprio recitano Tobey McGuire, Carey Mulligan, Joel Edgerton e Isla Fisher) e per l’obbligatorio quoziente polemico verosimilmente rappresentato dall’adattamento di un «capolavoro letterario» in 3D con abbondanza di effetti digitali. Anche se la reputazione di Luhrmann come regista innovatore si è un po’ appannata dopo il mega feuilleton di Australia, artisticamente, il regista di Ballroom Dancing in qualche modo ha comunque il fisique du rôle dell’iconoclasta e, secondo Di Caprio, anche un’affinità naturale con il soggetto. «Credo che Baz sia un po’ Gatsby. Non ho mai incontrato nessuno capace di ’manifestare’ la propria esistenza secondo i propri sogni, come fa Baz Luhrmann. Possiede un entusiasmo contagioso per la vita e l’arte ed è impossibile, quando ci

lavori, non essere completamente coinvolti in questo suo mondo». Nella fattispecie, le megafeste di Gatsby con tutto l’eccesso mondano dell’epoca proibizionista e della New York anni ’20 sono rese da Luhrmann nello stile pop-barocco già applicato alla Parigi Belle époque di Moulin Rouge: i questo caso, un remix di «roaring twenties» infuso di hip hop com’è nelle corde «ibridanti» del regista che spiega: «Fitzgerald era un modernista, il suo romanzo è venato di jazz. Oggi viviamo in un’era hip hop e quindi avevo l’idea di mescolare jazz e hip hop, soprattutto quando Di Caprio mi ha presentato Jay-Z (autore delle musiche, ndr). Volevo ricreare la sensazione che si

era avuta leggendo il libro nel 1925 quando il jazz, la colonna sonora del romanzo, era non una musica ’d’epoca’, ma il furore contemporaneo». Malgrado questo e l’identificazione più esplicita del personaggio narrante Nick Carraway con lo stesso Fitzgerald, Luhrmann rivendica una fedeltà al testo del libro maggiore che nei precedenti adattamenti. «Lo abbiamo letto e riletto non so quante volte», conferma Di Caprio, «lo abbiamo discusso in gruppo per cercare di arrivare all’essenza, all’intento originale di Fitzgerald. Abbiamo consultato i massimi esperti ciritici e anche letto il suo Trimalchio: ci è stato di grande

aiuto». Trimalchio era il titolo originale dell’opera che dalla Francia (il libro fu terminato nel 1924 a San Raphael, proprio nei pressi di Cannes) Fitzgerald aveva inizialmente spedito a Scribner’s, il suo editore di New York. Il romanzo era stato impaginato, ma dopo aver riguardato le bozze, Fitzgerald aveva riscritto intere parti del lavoro rispedendo alla casa editirice la versione definitiva col nuovo titolo di Great Gatsby. Quel primo titolo ’provvisorio’ era una citazione di Trimalcione, il personaggio del Satyricon, l’ex schiavo che nel racconto di Petronio Arbitro offre l’opulenta e dissoluta cena a nobili commensali, meno ricchi di lui, ma

Gatsby, Amleto americano

Luhrmann e Di Caprio parlano del celebre personaggio tratto dal romanzo «cinematografico» di F. Scott Fitzgerald

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che tuttavia lo deridono per il suo rango sociale inferiore. Pur avendone in seguito cambiato il titolo, anche nel romanzo definitivo Fitzgerald conserva la metafora e la voce narrante si riferisce al protagonista, appunto, come «a un Trimalcione», per sottolineare l’impossibilità di Gatsby di comprare, assieme alla villa, ai ricevimenti e al lusso sfrenato, il posto che vorrebbe nella high society di Long Island. Sullo sfondo del misterioso tycoon che alle sue leggendarie feste invita governatori e stelle del cinema, c’è l’impietosa demarcazione sociale che è alla radice dell’ossessione del protagonista, miliardario venuto dal nulla e destinato a rimanere eterno escluso. Lo «straordinario dono della speranza» che Fitzgerald conferisce a Gatsby si tinge così di amara ironia e il personaggio diventa simulacro ribaltato dell’ottimismo americano e della solare mitologia nazionale del self-made man. Fitzgerald, come l’amico e altro contemporaneo precursore modernista Nathanael West (Il Giorno della Locusta) è anche acuto osservatore e cronista della disperazione che si nasconde dietro al materialismo e alla violenza «idiomatica» dell’esperienza americana. È Gatsby l’uomo che inizialmente appare come maestro manipolatore che finisce per rivelarsi il vero illuso – protagonista di un amore impossibile e di un sogno altrettanto vano di assimilazione sociale, improbabile come il boom che all’orizzonte avviluppa i grattacieli scintillanti di New York in una sbornia destinata a postumi dolorosi. «Appare inizialmente come un personaggio assolutamente amorale», afferma Luhrmann, «un affarista che ha fatto i soldi con manipolazioni illecite del mercato, o chissà quali oscuri e misteriosi affari. Poi invece emerge che si tratta di un personaggio che ha un singolo obbiettivo; lui è, in un certo senso, ’ipermorale’. Secondo me è ciò che rende Gatsby l’equivalente americano di un Amleto, un paradosso che può essere interpretato e adattato con infinite sfumature a diverse epoche, un vero classico». Naturale, dunque, che il ruolo abbia attratto Di Caprio: lo considera parte di un trittico sul lato oscuro del mito americano assieme al proto-capitalista schiavista Candie da poco visto in Django e a Jordan Belfort, banacarottiere amorale degli anni ’90 che interpreterà nel prossimo Wolf of Wall Street di Martin Scorsese. «Credo che Gatsby si rivolga ancora a tutti noi. È un romanzo universale il cui sfondo anticipa il grande crollo di Wall Street negli anni ’30», spiega l’attore. «Lo prefigura attraverso il grande eccesso degli anni ’20. Parla di un periodo in cui l’America stava diventando una superpotenza attraverso una sorta di anomalia aristocratica che era l’alta società di Long Island. E accanto a loro, c’è la valle delle ceneri che devono attraversare per andare a New York, il luogo dove abita la classe operaia che rende possibile il lusso sfrenato. È profetico: parla del crollo inevitabile già qualche anno prima che avvenisse, e quindi di quel ciclo che si ripete da 80 anni, in America e nel mondo. Continuamo a ’progredire’ senza alcuna comprensione del prezzo da pagare. Fitzgerald ha perfettamente colto l’ingenuità e arroganza del progresso umano». Quanto a Luhrmann, forse in previsione di una accoglienza non uniformemente positiva al suo film, mette le mani avanti. «Verso la fine della sua vita Fitzgerald girava per le librerie comprando copie del suo stesso romanzo per alzare le quote di vendita del libro che era stato rapidamente dimenticato. Ora, per l’interesse suscitato dal film, il Grande Gatsby è tornato al primo posto nelle classifice Amazon. Nelle ultime settimane ha venduto più copie di tutte quelle vendute durante la vita del suo autore. E per me questo può già bastare».

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ALIAS 11 MAGGIO 2013

Jane Campion, la regista neozelandese torna in Croisette di CECILIA ERMINI

●●●Jane Campion è senza ombra di dubbio la figlia di Cannes. Scoperta dalla Croisette nel 1986 con Peel, primo premio nel concorso cortometraggi, e osannata nel 1993 con la Palma d’oro per Lezioni di piano, anche se in comproprietà con Addio mia concubina di Chen Kaige, la regista neozelandese torna quest’anno nella triplice veste di presidente di giuria del concorso cortometraggi, presidente della Cinéfondation e vincitrice della Carrozza d’oro, il premio assegnato dai registi della Société des Réalisateurs de Films (Srf) che vanta illustri predecessori come Clint Eastwood, David Cronenberg e Jafar Panahi. Ma l’anno magico della Campion è già cominciato da un po’, grazie allo straordinario successo ottenuto dalla miniserie in sei puntate Top of the Lake, prodotta dal Sundance Channel, da un paio di settimane si è conclusa la messa in onda americana mentre in Italia al momento non c’è ancora una distribuzione televisiva, e passata prima sul sobrio red carpet di Salt Lake City per poi migrare sotto zero all’ultima Berlinale. Scritta con il vecchio complice Gerard Lee, collaboratore della regista all’epoca di Sweetie, primo lungometraggio del 1989, e co-diretto insieme al giovane Garth Davis, Top of Lake è stata concepita prima dell’ultimo, splendido film della regista, in concorso guarda caso a Cannes nel 2009, Bright Star, con la precisa volontà di ambientare una crime story al femminile nei cunicoli delle primitive comunità neozelandesi, circondate da paradisiaci scenari d'inquietante potenza. Jane Campion dunque si immerge nuovamente, dopo vent'anni da Lezioni di piano, nella natura brumosa della sua Nuova Zelanda ma le nere e gotiche spiagge, dove un pianoforte in una cassa giaceva al fianco di Holly Hunter e della piccola Anna Paquin, hanno lasciato il posto ai pericoli di un lago leggendario e uterino, venerato e temuto, pare che sul fondo dello specchio d'acqua riposi il cuore di un demone, dai Maori superstiti e civilizzati. La vicenda è confinata negli immensi paesaggi dell’immaginaria Laketop, violenta e patriarcale cittadella, dominata da maschi prevaricatori e minacciose montagne e costruita nei pressi dell'oscuro bacino. Qui ritorna dopo lustri di assenza, per accudire una madre oramai condannata dal cancro, la giovane poliziotta Robin Griffin, Elizabeth Moss già Peggy Olson in Mad Men, ma ben presto le forzate cure amorevoli nei confronti della genitrice, lasceranno il

posto a un’indagine complessa e spaventosa. Robin si imbatte nel caso della piccola Tui Mitcham, dodicenne meticcia figlia del boss locale, un ferino Peter Mullan, incinta di cinque mesi e con nessuna intenzione di rivelare l’autore di tale crimine contro l’infanzia. Nel frattempo una carovana di pittoresche donne, in fuga da anni di casalingo predominio maschile, si trasferisce, con un pesantissimo fardello di ferite psicologiche e non, in cerca di utopie matriarcali a Paradise, lembo fatato di terra vergine di proprietà del Mitcham. A capo della spedizione una santona amorevole, sciamanica e scorbutica, Holly Hunter dalla chioma grigia e fluente che lo spettatore attento non può non associare a Jane Campion, che regala perle di cruda saggezza alle smarrite adoratrici. La piccola Tui però molto presto sparirà dal violento ambiente familiare per nascondersi nella foresta, aiutata da un combattivo drappello di amici, decisa a difendere con le unghie la creatura che porta in grembo, mentre Robin sarà costretta a fare di nuovo i conti con una tragedia adolescenziale, molto simile al dramma della giovane Mitcham, che sconvolgerà il suo già precario equilibrio, umano e professionale. Superficialmente paragonato ai brumosi misteri di Twin Peaks, oramai è sufficiente uno specchio d'acqua e una donna scomparsa per rievocare David Lynch, Top of the Lake è il romanzo cinematografico sognato per anni dalla Campion, in grado finalmente di trovare un respiro fluviale, circa sei ore la durata totale della miniserie divisa in sei o sette puntate a seconda del canale di trasmissione, alla sua riconoscibilissima poetica, influenzata costantemente da nomi tutelari del calibro di Henry James e

SOCIÉTÉ DES RÉALISATEURS

L’assemblea dei cineasti il 18 e il 21 maggio ●●●Due importanti appuntamenti nell’ambito del festival per la Société des réalisateurs de films, associazione che riunisce circa 200 registi e che festeggia quest’anno 45 anni di attività. Il suo scopo è da sempre quello di difendere le libertà artistiche, morali professionali ed economiche del cinema. Per l’occasione ha organizzato il Meeting dei Filmmakers che si terrà in due diverse sessioni: il 18 maggio alle 14.30 in un incontro dal titolo «Come fare film da indipendenti oggi?». Il 21 maggio - stesso orario - si discuterà sul tema «Fare cinema oggi in Europa: quali scenari».

film

delle sorelle Brönte. «Top of the Lake è un’allegoria: bambine innocenti e donne ferite nell’animo contro la cattiveria maschile», ha dichiarato la regista alla stampa presente alla Berlinale, rimarcando ancora una volta il piano di studi che accompagna il suo cinema fin dai primissimi cortometraggi, quando studentessa di antropologia all’università, si abbandonava, ancora incerta, al corteggiamento della macchina da presa. Da sempre interessata al conflitto che s’instaura fra uomo e donna in situazioni estreme, Jane Campion prosegue la sua indagine sulle conseguenze dello scontro fisico e mentale fra i sessi, mescolando aspirazioni primitive a desideri di civiltà, retaggio degli studi antropologici, senza mai perdere di vista le istanze primarie delle sue protagoniste. Le eroine della Campion infatti di norma sono creature single, o mal accoppiate, dalle pulsione ambivalenti: scisse fra desiderio e aspirazione, ragione e sentimento, sono sempre il motore narrativo primario dei film, racchiuse al centro del loro personalissimo microcosmo, ambiente fragile minacciato nella sua integrità da fattori esterni, quasi sempre da uomini. Robin Griffin dunque non è altro che una figlia moderna della Ada McGrath di Lezioni di piano e di Isabel Archer di Ritratto di signora, donne di inesplosa sensualità in attesa di una corporea e definitiva liberazione, possibilmente con la complicità di Madre Natura. Il corpo femminile è dunque il vero protagonista di Top of the Lake, non solo perché il mistero del whoddunit sul quale poggia l'intera vicenda si cela nel ventre della piccola Tui, ma anche per l'apertura panica e pagana del corpo, unico veicolo possibile per la conoscenza di se stessi, di Robin, impegnata in dannunziani accoppiamenti nei boschi con l'antico amore di gioventù Johnno Mitcham, unico esemplare di positiva mascolinità. Ma il corpo è soprattutto uno spazio interiore da frammentare ed esplorare nella migliore tradizione del cinema femminile contemporaneo, da Claire Denis a Marina de Van e non a caso, come in tutto il cinema della Campion, anche gli amplessi e le triviali funzioni quotidiane del corpo vengono mostrati senza pudori o riverenze. Esemplare una delle taglienti massime pronunciate dalla guru GJ, «nulla può superare l'incredibile intelligenza del corpo» e ogni personaggio della narrazione sembra obbedire a questa sorta di condivisibile filosofia di vita. Niente Twin Peaks, ma nemmeno i procedurali polizieschi di gran moda oggi riescono ad avvicinarsi per stile e profondità: le indagini di Robin travalicano la ricerca della piccola e di chi ha compiuto il crimine, diventando pian piano un’inchiesta introspettiva, come per la Meg Ryan del sottovalutato In the Cut,

dove l'oscuro passato e il confuso presente, di Robin e di Laketop, si disvela in tutta la sua drammaticità. «Dirigere un film vuol dire essere uno specchio», ha dichiarato la regista, ma nel caso di Top of the Lake significa guardarsi soprattutto allo specchio, ripensando alle eroine del passato e a tutto il suo cinema: non è un caso che, nelle ultime sequenze della miniserie, la guru GJ, trascinando il suo piccolo trolley lontano dalle terre di

Laketop, osservi con amoroso distacco il suo bestiario femminile, allontanandosi dalle false utopie di Paradise. «Il cinema contemporaneo è molto conservatore mentre oggi la televisione osa di più», dice Campion. E mentre GJ ricomincia il suo peregrinare, non è poi così difficile confonderla con il nuovo viaggio di Jane Campion, verso Cannes, verso il traguardo dei sessant’anni e chissà incontro a quali nuove sfide cinematografiche.

Lo scontro dei sessi tra scenari brumosi e corpi «primitivi»

CANNES2

ALIAS 11 MAGGIO 2013

FILMCRITICA 634

Numero speciale sito rinnovato ●●● Il consistente numero 634 di «Filmcritica» si apre con «L’immagine è virtuale» del direttore Edoardo Bruno, quindi la conversazione con Bertolucci, «In margine a Io e te» (di Alessandro Cappabianca), «Cukor o della regia» (di Edoardo Bruno), «Ripensamenti, Il grande e potente Oz» (di Andrea Pastor), «Il cinema di Don DeLillo» (di Alessandro Cappabianca), «Cinema cubano: Hello Hemingway (1990)» di Fernando Pérez (di Francesco Salina), «Sulla fotografia» (di Alessandro Cappabianca), «Persistenza dello sguardo» (di Edoardo Bruno), «Fra limite e illimite. Ancora su Rossellini-Spielberg» (di Giovanni Festa), «Film di tendenza» (di Bruno Roberti), Lo spettatore critico (di Alessandro Cappabianca, Sergio Arecco). Entro maggio il sito di Filmcritica sarà rinnovato e si potranno acquistare (prezzo politico) i numeri arretrati degli ultimi dieci anni.

a cura di LORENZO ESPOSITO GIONA A. NAZZARO E BRUNO ROBERTI

●●●(pubblichiamo in parte, come anticipazione, l’intervista sul numero di Filmcritica n. 634 che uscirà in occasione del festival di Cannes. Sulla Croisette, per Cannes Classic, proiezione di «L’ultimo imperatore») ●Partiamo da ciò che manca, o che è mancato, o che forse è solo stato. La questione del 3D e poi del digitale. Averci rinunciato è stata solo una scelta economica, oppure, per usare dei termini rosselliniani, di economia del segno? Non ho mai detto che è stata una ragione economica. Mi sono reso conto, andando a fare dei provini a Cinecittà con un perfetto equipment 3D, quindi con due macchine da presa che devono sempre interagire fra loro per giungere all’immagine unica, che per cambiare posizione alla macchina avrei dovuto aspettare ogni volta due o tre ore, e per cambiare obiettivo un’ora e mezza o due. Ebbene, quando la mattina arrivo sul set, trovata la prima inquadratura, da quella viene la seconda, dalla seconda viene la terza, cioè io sono uno che tende a girare il più possibile basandosi su una specie di partenogenesi delle inquadrature che si generano una dall’altra. Dunque è proprio il contrario di una questione economica. Io faccio fatica anche quando un direttore della fotografia mi fa aspettare una o due ore, per me diventa un incubo e mi viene subito voglia di licenziarlo e farne venire uno più veloce. Invece è come se io rincorressi le mie inquadrature, e il 3D, come è fatto adesso, non me lo permetteva. Allora mi sono detto: lasciamo che questo sistema si alleggerisca e, nel frattempo, visto che il 3D ti permette questa superdefinizione, proviamo con il digitale. Anche qui ho fatto dei provini, che ho proiettato proprio qui a casa mia. Ecco, col digitale la definizione diventava ossessiva, e avevo come la sensazione che se avessi girato così, con quel tipo di fuoco su tutto, avrei come cancellato quello che c’era di impressionistico nella pellicola, o comunque nel sistema analogico. Il cinema è sempre stato impressionistico, le sfocature facevano parte della sua natura, col digitale era come cancellare tutto Monet, tutto Renoir… Insomma, ecco perché ho rinunciato anche al digitale. Voi avete visto Sedia elettrica, il documentario sulla lavorazione di Io e te? Lì si parla di questa trafila.

Bertolucci, assenza e desiderio pensato e girato… Io lo vidi in 3D… Di quando era esattamente?

●Prima di tutto è un film tutto chiuso in una stanza… È vero.

●Del 1954. Si, lo vidi all’epoca.

●...Hitchcock fa una cosa semplicissima: mette in primo piano, anzi in rilievo, gli oggetti… Mi ricordo un telefono…

●Dunque, benché Hitchcock nella famosa conversazione con Truffaut, ne parli come di un’esperienza fallimentare, e fallimentare proprio per quanto riguarda il concetto di rilievo, a rivederlo oggi non si può non pensare a «Io e te…» Ah si?

●Si, lo abbiamo visto, ma te lo chiedevamo per un altro motivo. Rivedendo, durante l’ultima Berlinale, Delitto perfetto di Hitchcock in 3D, cioè così come era stato originariamente

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●...In «Io e te» il modo in cui tu metti in questione il set, non è in 3D, ma fa capire perché volevi inizialmente che lo fosse, e cioè c’è un movimento interno, non lontano dalla partenogenesi

delle inquadrature che ci spiegavi, per cui ogni singola inquadratura non solo è diversa dalla precedente, ma proprio ne viene trasformata, mutata. L’effetto è quello della lanterna magica… Mi fa piacere sentirlo. Nel 1954, quando ho visto Delitto perfetto avevo tredici anni, andavo al cinema da solo, al cinema Vascello… ●I due film si richiamano talmente che, scherzando ma non troppo, poiché i personaggi

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di «Delitto perfetto» sono tre, si può dire «Io e tre…» Questo mi piace molto, come tutti i calembour. ●Tu pensi che le immagini possano generare, che possano letteralmente figliare? Una volta hai parlato di kamasutra della macchina da presa…In «Io e te» ci sono proprio degli esercizi erotici con la macchina da presa, che avvengono in una situazione di apparente totale claustrofobia e costrizione. Non solo nella cantina, per esempio con i movimenti che fai nel cortile del palazzo sembra di rivedere «Shanghai Gesture» di Sternberg. Insomma c’è proprio una capacità totalmente fisica dell’immagine, continuamente è come se ti mettessi e mettessi l’immagine a testa in giù, Lorenzo legge a testa in giù, Olivia dorme a testa in giù, il sogno del tip tap sulla parete di vetro… È a testa in su. Proprio perché prima si parlava di Hitchcock e del 3D, diciamo che allora il 3D veniva usato in modo un pochino clamoroso, e anche pacchiano, per cui ti arrivavano addosso delle frecce, delle sassate, qualunque cosa ti potesse essere scagliata contro. Poi invece vai a vedere Delitto perfetto, cioè nell’originale Dial M for Murder, dove il 3D viene usato come una specie d’iscrizione, non nella maniera un po’ banale di tutti i film di fantascienza o nei b-movie. ●C’erano anche western come «Hondo» di John Farrow. Non l’ho visto. Mi ricordo quello con i formiconi giganti… ●«Them!» di Gordon Douglas, che pure è del ’54. Era bello perché in tutti questi i film, soprattutto quelli americani a basso costo, c’era un momento in cui i protagonisti uscivano nella notte e guardavano il cielo, sentendo che c’era una speranza, sembrava proprio che dicessero: ecco, ce la possiamo fare. Questo da un lato. Per quanto riguarda il testa in giù, è vero, c’è forse nel film, forse perché è girato quasi tutto in cantina, il desiderio di perforare con lo sguardo i piani e arrivare a vedere la madre cosa fa in casa da sola, se cerca Lorenzo, se lui le manca e così via, ma tutto questo, ora ne sono sicuro, viene, soprattutto il sogno in cui lui vede da sotto i piedi della madre e dell’analista (che forse è il padre ma non si sa), tutto questo viene da un film di Hitchcock, The Lodger, dove a un certo punto loro, che hanno affitatto l’appartamento a questo strano personaggio scuro, coperto da un mantello, che entra e esce in modo che chiunque lo scambierebbe per un assassino, sentono i suoi passi e li vedono dal sotto in su, vedono proprio le suole di quest’uomo che cammina, credo che Hitchcock abbia usato una lastra di vetro. Insomma questo per riprendere il discorso di quella che è la tessitura delle citazioni, delle copiature, delle citazioni inconsce, delle copiature inconsce. Nel cinema si ruba, come in tutto. Mi viene in mente il mio papà che ha scritto uno dei suoi ultimi libri che si chiama Ho rubato due versi a Baudelaire… Io credo che nel cinema sia proprio fatale che si rifacciano cose già fatte…

Foto grande: «L’impero dei sensi» e Buster Keaton in una foto di scena. Foto piccole in alto: «The Bling Ring» di Sofia Coppola, «Salt Lake» di Jane Campion, «My Sweet Pepperland» by Hiner Saleem, «Wakolda» di Lucia Puenzo, «As I Lay Dying» di James Franco

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ALIAS 11 MAGGIO 2013

I DIRITTI DEGLI ATLETI

Il cestista Jason Collins durante due incontri Nba, la tennista Martina Navratilova, il pugile portoricano Orlando Cruz. A destra, in basso, il calciatore Justin Fashanu

Jason Collins. fa coming out, un vaso di Pandora si svuota, ma non del tutto. La difficoltà di dichiarare l’omosessualità nello spogliatoio di NICOLA SELLITTI

●●●Un cestista Nba che si confessa gay. Primo caso in assoluto nello sport professionistico americano. Con una lettera - copertina sul numero di Sport Illustrated, sacra scrittura dello sport a stelle e strisce. Un vaso di Pandora che si svuota, ma non del tutto. Sono passati alcuni giorni dall’intervista di Jason Collins, 34enne centro ex Boston Celtics, ora ai Washington Wizards, che ha deciso di rendere pubblica la sua omosessualità. Un racconto lucido e toccante. La scoperta dell’omosessualità a Los Angeles, la confessione alla zia magistrato di San Francisco, il rapporto con le donne, il basket come terapia. E la maratona di Boston,

detonatore per la liberazione. Collins, costretto ad alzare la mano perché nessuno aveva avuto il coraggio, prima di lui. E l’America, dopo la rincorsa - forse scontata - all’endorsement al coraggioso di turno, orgoglio di un Paese che crede di accogliere e tutelare le diversità, ora s’interroga. Lo sport professionistico, le quattro leghe principali, Mlb, Nba, Nfl, Nhl, microcosmo plastico della composizione sociale del Paese, è pronto per accogliere, vivere l’omosessualità negli spogliatoi lontano dalla luce rossa delle telecamere e sui divani di casa? Se lo è chiesto anche Collins, nella lettera, micropolaroid di un atleta che sa giocare duro, che ha vissuto l’omosessualità come autocensura, esercizio di

autocontrollo. Uno strumento – filtro tra sé e gli altri, per evitare il pregiudizio. Per lui, la telefonata di un orgoglioso presidente Obama. E il tweet immediato dell’ex capo della Casa Bianca Bill Clinton (sua figlia Chelsea aveva studiato con Collins a Stanford University). Assieme al sostegno di Kobe Bryant, Lebron James, Shaquille O’Neal. E altri pezzi grossi (o ex) della Lega. «Credo che il Paese sia pronto per avere un giocatore di basket omosessuale», ha spiegato Collins dopo il coming out. Più in generale, sulla stampa americana Jason Collins è stato paragonato da molti a Jackie Robinson, il primo atleta di colore a giocare nel baseball pro’. Evidenziando il ruolo degli sportivi, l’impatto sociale e politico dei loro

comportamenti, specie se educativi. Solo che la tolleranza verso gli omosessuali, come Collins, implicherebbe una vera rivoluzione copernicana che riscriverebbe molte leggi non scritte del cosmo Nba. Che Collins conosce bene. È il suo mondo da 12 anni. Lui non è un attore principale ma un caratterista. Uno di quelli che gioca pochi minuti a sera. Che usa il fisico per fare falli, anche duri. Per intimidire, come ha ammesso nella lettera a SI. Un pesce nell’acqua della Nba, lega con campioni come pochi ma cinica, verticale, a tinte machiste, con alto tasso di testosterone dentro e fuori al parquet. Che ha impiegato molti anni, per esempio, ad accettare i cestisti stranieri, specie gli europei.

Universo a predominanza afroamericana. Con atleti che provengono da realtà complicate, violente. E che, finiti nelle prime file dopo un contatto sotto i tabelloni, sono aiutati a rialzarsi solo dai compagni di squadra. Mai degli avversari, sarebbe un segno di debolezza, come dice la legge dello spogliatoio. Una Lega darwiniana, vince chi si adatta meglio alle consuetudini. In cui si mischiano episodi di omofobia (addirittura Kobe Bryant multato per 100 mila dollari due anni fa per aver detto «frocio» a un arbitro durante una partita tra i suoi Los Angeles Lakers e i San Antonio Spurs). Anche perché molti cestisti arrivano da realtà collegiali in cui le matricole sono costrette a vagare per il campus con lo

Orgoglio gay nell’Nba Essere diversi da chi

ALIAS 11 MAGGIO 2013 PERFORMING GENDER ●●●Si chiama «Performing Gender» per inaugurare, attraverso l’arte e la cultura, una riflessione sulle differenze di genere e di orientamento sessuale. Il progetto coinvolge 16 giovani coreografi di 4 Paesi europei in un percorso biennale di ricerca, formazione e spettacoli sul tema della sessualità e dei ruoli di genere. Il progetto – ideato e promosso dal Comitato provinciale Arcigay Il Cassero/Gender Bender Festival (Italia) in partnership con Dutch Dance Festival (Paesi Bassi), Paso a 2 Plataforma Coreográfica (Spagna) e Domino/Queer Zagreb

zainetto di Hello Kitty sulle spalle. A subire riti iniziatori, discriminatori. E se per Collins era prevedibile la pioggia di tweet degli imbecilli di turno, tra insulti, minacce di morte, incitamento all’omicidio, ecco l’attacco del talk show man Rush Limbaugh, (tutti i giorni, week end escluso, tiene una trasmissione di tre ore su Abc radio con un’ audience di un centinaio di milioni di persone, un terzo degli americani), che ha duramente criticato Obama per il sostegno all’atleta. Non un caso isolato. Spia del

disagio che Collins dovrà affrontare. E chi verrà dopo di lui a vivere liberamente la sua sessualità. Prima dell’outing di Collins, il cambiamento era già nell’aria nello sport Usa da qualche mese, prima con l’iniziativa della Nhl per lottare contro l’omofobia, poi con la confessione di Brittney Griner, la fuoriclasse del basket femminile che pochi mesi fa aveva addirittura «rischiato» di passare alla lega maschile grazie alle sue doti agonistiche. E dire che Mark Cuban, enigmatico proprietario dei Dallas Mavericks, anche

stavolta ci ha preso, avendo pronosticato qualche anno fa che presto un giocatore Nba avrebbe fatto coming out, rivelando la sua omosessualità. Senza contare che pochi giorni prima dell’outing di Jason Collins era la volta di Brendon Ayanbadeio, 36enne dei Baltimore Ravens (Nfl) che al quotidiano Baltimore Sun rivelava che quattro suoi colleghi stessero riflettendo sull’opportunità di rendere nota in pubblico la propria omosessualità. «Succederà prima di quanto si pensi» diceva Ayanbadeio, favorevole in passato

alle unioni gay. «Stiamo parlando con un gruppo di giocatori che stanno valutando la situazione. Stiamo parlando con 4 giocatori, almeno. Stanno provando a organizzarsi per fare coming out tutti insieme, nella stessa giornata. La manovra collettiva «sarebbe un grosso colpo e toglierebbe la pressione dai singoli. Sarebbe una giornata storica». E la Nfl è probabilmente anche più dura della Nba. «E’ chiaro che ci sarebbero delle ripercussioni, ma sarebbe meglio se potessero condividere tutto questo». E il tema dell’omosessualità nel football è stato uno degli argomenti che hanno caratterizzato la vigilia dell’ultimo SuperBowl. Chris Culliver, il cornerback dei San Francisco 49ers è incappato in una serie di infelici dichiarazioni quando è stato chiamato a rispondere sull’eventuale presenza di giocatori gay nello spogliatoio. Dopo lo scivolone, Culliver si è scusato e, su indicazione della sua franchigia, ha collaborato con un Gay Support Center. Mai tolleranza preventiva, sempre pentimento nei titoli di coda.

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Festival (Croazia) – è stato selezionato dall’Unione europea sul «Culture Programme 2007-2013 Strand 1.2.1, Cooperation projects» e sarà fra quelli che riceveranno un sostegno economico pari al 50% dei costi complessivi dell’intero progetto (che ammontano a 400 mila euro). «Performing Gender» è uno dei 12 vincitori italiani, risulta al 6˚ posto tra i 114 selezionati sui circa 500 arrivati da tutta Europa ed è l’unico selezionato in Emilia. I partner di Performing Gender hanno, pianificato di far visita ad altri Paesi (Turchia, Cipro, Finlandia, Gran Bretagna) in occasione di festival o piattaforme di danza, per condividere i contenuti del progetto e promuoverne la visibilità.

DISCRIMINAZIONI

Navratilova, Thomas, quei nomi da black list ●●●Jason Collins, ultimo della black list. Prima di lui, l’ex cestista inglese, con un passato nella Nba, John Amaechi. Le tenniste Martina Navratilova, Amelie Mauresmo, Billie Jean King. L’ex giocatore professionista di football americano, Esera Tuaolo, l’ex rugbista gallese, Gareth Thomas, l’ex giocatore, oggi manager Nba, Rick Welts, l’ex pugile Emile Griffith, il tuffatore Matthew Mitcham, l’ex ciclista scozzese, campione del mondo su pista, Graeme Obree, la campionessa mondiale svedese specializzata nel salto in alto Kajsa Margareta Bergqvist, l’ex sciatrice alpina Anja Paerson. Più recentemente il pugile portoricano Orlando Cruz. E qualche anno fa anche l’ex calciatore Justin Fashanu, suicida negli anni ’90. Esempi che nel mondo dello sport l’omosessualità esposta ai quattro venti non conviene. Più donne che uomini: nell’immaginario collettivo, la donna omosessuale è figura più debole, fragile, rispetto all’uomo. Tra discriminazioni, di colleghi, tifosi, inni al machismo, alla virilità. Con danni anche economici (Sports Illustrated, in un sondaggio rivelava che il 65% del campione selezionato sarebbe stato meno propenso ad acquistare un marchio sostenuto da un atleta gay).

PER UN PAESE PIÙ MATURO Ieri pomeriggio, al primo spettacolo in una sala purtroppo semivuota spero solo per via dell'orario, ho visto Miele prima regia di Valeria Golino un bel film coraggioso e sorprendentemente poco italiano pur essendo recitato, scritto e diretto da italiani e scrivo questo perchè effettivamente questo film non rispetta nessuna delle limitanti e coercitive regole del nostro misero panorama culturale. Cominciando dal tema affrontato che è la morte, o meglio la libertà di scegliere di porre fine volontariamente alla vita quando le condizioni in cui la si vive diventano insopportabili, malattie altamente invalidanti e dolorose che la rendono un'interminabile agonia, depressione acuta e indomabile che offusca e annulla ogni plausibile motivazione a volerla vivere o, e questo è il nocciolo e lo snodo del racconto, desiderio «stoico», filosoficamente parlando, di chiudere il proprio percorso che si percepisce come concluso. Non voglio svelare tutta la trama ma ho molto apprezzato l'assenza di «pregiudizio» nell'affrontare l'argomento con tutte le sue problematiche. Ha avuto intuito Valeria Golino a scegliere questa storia, il film è liberamente tratto da un romanzo di Covacich, che l'aveva pubblicato una prima volta sotto pseudonimo e che la regista ha sceneggiato insieme a Valia Santella e Francesca Marciano, e le auguro sinceramente di venir ripagata da meritato successo non solo perchè il film è ben girato e ottimamente recitato da Jasmine Trinca e Carlo Cecchi insieme agli altri attori tutti bravi e giusti nei loro ruoli, né perchè nonostante il soggetto sia così delicato non cede mai alla tentazione melodrammatica , pietistica o sentimentale che poteva trasformarlo in una cartolina macabra, ma soprattutto perchè questo film mi fa sperare che ci sia una parte del paese che è diversa, più matura e raziocinante, più laica e civile di quel che l'immarcescibile e apparentemente immutabile potere costituito politico e religioso ci mostra e ci propina rendendoci la vita, a voler usare un tiepido eufemismo, molto faticosa. C' è da sperare di poter uscire apertamente dall'ipocrisia che ci governa, c'è da illudersi di poter cambiare qualcosa? non so, magari uscire dalla contraddizione di uno stato laico che ne contiene uno teocratico che di fatto impone le proprie leggi e non rispetta quelle della costituzione del paese ospitante, che teoricamente ci mette tutti sullo stesso piano senza distinzioni di sesso o fede , a partire dalla crociata dei crocefissi appesi in ogni dove per finire con la cervellotica esenzione (che i prelati si autoapplicano basta avere qualche altarino qua e là per l'appunto) dell'iniqua tassa imu. Di codesto balzello si parla in continuazione eppure misteriosamente la chiesa, che di questi tempi non mi pare proprio risenta di crisi economica assalita com'è da pellegrini di ogni razza e paese e che se pagasse il dovuto forse risanerebbe le casse comunali, non fa cenno di voler assolvere all'impegno né il governo la sollecita a farlo. Si può sperare che venga eletto, magari sindaco, visto che col governo è andata come è andata, meglio non commentare, qualcuno che sia veramente laico e che riporti in questa città un po’ di cultura, un po’ di respiro internazionale com'era tanti decenni fa, e che non si occupi soltanto di genuflettersi e prendere ordini oltretevere, che ridia dignità alle istituzioni pubbliche invece di massacrarle a favore dei privati (che poi da noi sono sempre sinonimo di cattolici). Si può sperare? a volte basta farsi sorprendere da una voce diversa, guardare le cose da un'altra angolazione.

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ALIAS 11 MAGGIO 2013

INIZIATIVE

SPORT Occupy sport. A Vicenza si incontrano per tre giorni le associazioni sportive contro razzismo e discriminazione

Una rovesciata per cambiare di PASQUALE COCCIA

●●●Occupy sport anche in Italia, sulla scia del movimento Occupy Wall Street, che nato negli Stati Uniti due anni fa ha messo in discussione le politiche speculative economiche su scala mondiale, facendo pagare alle fasce sociali più deboli la crisi. Palestre popolari e polisportive non ne possono più dei cavilli burocratici e delle norme che imbrigliano e impediscono ai figli dei migranti di fare sport a livello agonistico, perché non sono di sangue italiano (ius sanguinis, recita la legge sulla cittadinanza italiana del 1991/92). Non ne possono più di un potere dello sport rinchiuso nel Palazzo e tutto proteso all'autoconservazione e all'autorappresentazione. Non ne possono più di un Coni pigliatutto, che prende dalla finanziaria 470 milioni all'anno, metà dei quali servono a mantenere se stesso. Non ne possono più dei giochi di potere del vertice dello sport italiano, che ignora le società sportive di base e pensa solo al numero di medaglie da conquistare. Perciò, palestre popolari, polisportive, atleti e studiosi dello sport si daranno appuntamento a Vicenza per una tre giorni di tornei, dibattiti, film, mostre e presentazioni di libri, tutto all'insegna dello sport antirazzista e solidale. Nella città veneta, il 17-18 e 19 maggio, Sport alla Rovescia

(www.sportallarovescia.it) vuole davvero capovolgere la piramide dello sport e portare al vertice lo sport per tutti, secondo la definizione del Cio, quello che in Italia è maggioranza perché conta 12 milioni di persone, ma ignorato dal Coni-pigliatutto, che tra le federazioni sportive e le associazioni non va oltre i 5 milioni di iscritti. La tre giorni vicentina, promossa in collaborazione con l'assessorato allo Sport del comune di Vicenza e l'Uisp, va sotto il nome di Gioco anch'io: « spiega Max

Gallob uno degli organizzatori della manifestazione «. Una condizione che ha spinto Sport alla Rovescia a promuovere una raccolta di firme (la petizione può essere sottoscritta on line [email protected]) da presentare alla Federcalcio e alle altre federazioni sportive, altrimenti, avvertono, daranno vita a Occupy Sport «» affermano gli organizzatori. Le realtà associative impegnate sul fronte dello sport che aderiscono a Sport alla Rovescia, e che saranno protagoniste a Vicenza la settimana prossima, sono la Polisportiva Assata Shakur di Ancona, la Palestra Popolare TPO, HicSuntLeones football antirazzista di Bologna, la Polisportiva San Precario di Padova, la Polisportiva Ackapawa di Jesi, la Palestra Popolare Rivolta di Marghera, La Paz! Antirazzista di Parma, la Polisportiva Indipendiente di Vicenza, Autside socialfootball di Rimini e Equipo Popular di Napoli, alle quali si assoceranno altre palestre popolari e realtà sportive che fanno riferimento ai vari centri sociali presenti in tutta Italia. Si comincia venerdi 17 maggio al Cs Bocciodromo con l'ex campione Andrea Zorzi, colonna portante della nazionale italiana di pallavolo fino al 1996 e più volte campione mondiale, oggi commentatore televisivo, che presenterà il progetto Terre di Sport, poi seguirà il dibattito tra il presidente della Federcalcio veneta Giuseppe Ruzza e l'avvocato Saccon, impegnato al fianco delle polisportive dei centri sociali nella battaglia per l'abolizione delle norme che impediscono ai migranti di far parte di squadre e partecipare ai

campionati agonistici, perché non sono cittadini italiani, e con loro ci sarà Daniela Conti, dirigente nazionale dell'Uisp e presidente della squadra Liberi Nantes di Roma (www.liberinantes.org ), organizzazione che tra mille difficoltà consente ai rifugiati politici, sia donne che uomini, in attesa di permesso di soggiorno di giocare a calcio o praticare altre attività sportive. Tra tornei ed esibizioni degli atleti delle palestre popolari, sabato 18 maggio si discute della riforma dello sport tra giornalisti, dirigenti sportivi e assessori allo sport, in particolare interverranno Renzo Ulivieri, presidente dell'associazione allenatori e candidato alle recenti politiche nelle liste di Sel, il neoeletto presidente dell'Uisp Vincenzo Manco, che esporrà il punto di vista dell'associazionismo sportivo rappresentato dagli enti di promozione, un'altra fetta consistente di sport sociale ignorata sul piano legislativo dal parlamento e sul piano economico esclusa dai contributi pubblici, costretta ad accontentarsi delle briciole dispensate dal Coni, pur

che occupandosi di tutto poi si finisce per occuparsi di nulla. Dietro l'angolo ci sono viceministri e sottosegretari all'insegna della spartizione del potere. Quello assegnato a Josefa Idem è un ministero dello Sport senza portafoglio, dunque, privo di risorse economiche, indispensabili per agire a favore di nuove politiche sportive, perciò abbiamo notevoli perplessità che con il suo mandato possa incidere su quello che il Cio (Comitato olimpico internazionale) definisce lo sport per tutti. Ci permettiamo di segnalare al In pagina alcune scene di sport di base, il ministro dello Sport alcune priorità. logo di Occupy Sport e, a destra, Josefa Innanzitutto il diritto dei migranti e Idem in attività sportiva e in un ritratto dei loro figli nati in Italia a praticare lo sport a qualsiasi livello, da quello amatoriale all'agonistico, oggi NOMINE ■ JOSEFA IDEM negato perché non sono cittadini italiani, mantenendo di fatto un assunto fascista basato sulla purezza della razza, ribadito dall'articolo 2 della legge costitutiva del Coni del 1942 e abolito solo nel 1999, ma evidentemente i residui permangono. L'Italia è il primo Paese in Europa per abbandono dell'attività sportiva in età adolescenziale e l'associazionismo sportivo presente sul territorio sembra inerme di fronte a tale fenomeno. È necessario garantire un sostegno finanziario alle associazioni, e in tempi di crisi promuovere politiche di alleggerimento della spesa per di P.C. quelle famiglie che consentono ai ●●●Josefa Idem è il nuovo loro figli di praticare sport ministro dello Sport del governo organizzato. L'Italia ha il più alto Letta. È passata in pochi mesi dalle tasso di bambini in età scolare in vogate delle olimpiadi di Londra sovrappeso d'Europa, si tratta allo scranno più alto di molto spesso di bambini destinati Montecitorio. È un bene che Josefa a diventare obesi da adulti e a Idem sia ministro dello sport di contarre malattie dell'apparato questo Paese, perché è un'atleta che cardio-circolatorio, oltre che il ha vissuto i problemi del mondo diabete mellito, che graveranno sportivo, inoltre è una donna e a un sul sistema sanitario nazionale. ambiente improntato a lungo al Sono bambini che appartengono machismo mussoliniano non può alle fasce sociali più deboli, che far bene. È stata, all'inizio dello lasciati per molte ore al giorno scorso decennio, assessore allo davanti alla Tv a consumare cibi sport del comune di Ravenna, poco salutari e spesso in assenza esperienza che le ha consentito di dei genitori, impegnati in lavori capire meglio i problemi dello sport senza orari fissi, come le pulizie o di base. Ma tutto questo non é l'assistenza domiciliare. Vita sufficiente. Il suo è un ministero che sedentaria e cattiva alimentazione è stato compattato con quello delle Pari Opportunità, il imbrigliano questi bambini. Più in generale i che non sarebbe male, visto che lo sport è terreno fertile bambini italiani, in Europa, risultano essere quelli per ribadire il diritto all'uguaglianza, ma l'idea di che giocano di meno all'aperto. Su queste priorità a concentrare due ministeri in uno la dice lunga sul fatto Josefa Idem auguriamo buon lavoro. consentendo a svariati milioni di persone, donne, bambini, anziani adolescenti di praticare l'attività sportiva a prezzi davvero popolari e presso impianti sportivi gestiti spesso tra mille difficoltà. A concludere l'assessore allo sport del comune di Vicenza Umberto Nicolai e il professor Borgogni dell'università di Cassino.

Un cambiamento atletico e salutare al ministero

ALIAS 11 MAGGIO 2013

I FILM A LADY IN PARIS DI ILMAR RAAG, CON JEANNE MOREAU, LAINE MAGI. FRANCIA 2013

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Frida, una signora estone che vive a Parigi è assistita da Anna una giovane arrivata dall'Estonia per prendersi cura di lei, ma Frida fa di tutto per renderle la vita difficile.

SINTONIE C'è molto realismo e per chi ha il cuore debole sarà dura parare la botta. È anche un progetto schizofrenico: nella prima parte ci affezioniamo a dei comuni ragazzi, nella seconda entriamo in una specie di zona allucinogena. (fi.bru.) CONFESSIONS

AMERIQUA DI GIOVANNI CONSONNI, MARCO BELLONE, CON BOBBY KENNEDY III, GIANCARLO GIANNINI. ITALIA 2013

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Charlie Edwards neolaureato in pausa di riflessione è messo alle strette dalla famiglia e con gli ultimi soldi ricevuti compra un biglietto aereo per l'Italia, è derubato al suo arrivo e incontra Lele chiamato il re di Bologna che lo inizia ai piaceri della città. IL GRANDE GARSBY (3D) DI BAZ LUHRMANN, CON LEONARDO DICAPRIO, CAREY MULLIGAN. USA 2013

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Una nuova versione dal romanzo di F. Scott Fitzgerald (la quarta). Sulla costa settentrionale di Long Island arriva il ricco James Gatsby che diventa ben presto famoso per le sue feste. Il suo ritorno è legato al grande amore che ha perduto, Daisy, che ora è sposata. Il ruolo fu a suo tempo rifiuytato da Marlon Brando, e Robert Redford ne fece una celebre interpretazione.

DI TETSUYA NAKASHIMA, CON CON TAKAKO MATSU, YUK NISHII, GIAPPONE 2010

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Nakashima, noto soprattutto per il coloratissimo Kamikaze Girls, film simbolo del genere kawaii («carino», «colori pastello»), è considerato un maestro del genere. Confessions rappresenta un drammatico cambiamento di rotta, annegato in un’atmosfera opprimente e cupamente monocromatica. Rispetto alle deflagrazioni visive dei suoi film precedenti, si muove all’interno di uno spettro cromatico teso esclusivamente fra il nero più minaccioso e il grigio più asfissiante. Come in una variante da incubo del classico schema Rashomon, Confessions mette in scena la vendetta di un’insegnante ai danni della sua scolaresca convinta che fra i suoi studenti si celino gli assassini di sua figlia, una bambina di quattro anni. Il mondo surreale di Kamikaze Girls si spalanca su un abisso di malessere inquietante che il finale solo in parte riscatta. Si celebra con ogni evidenza la fine del modello produttivistico tardo-liberista. (g.a.n.)

POST TENEBRAS LUX

EFFETTI COLLATERALI

DI CARLOS REYGADAS, CON ADOLFO JIMENEZ CASTRO, NATHALIA ACEVEDO. MESSICO 2013

DI STEVEN SODERBERGH, CON JUDE LAW, CHANNING TATUM. USA 2013

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L’elemento oscuro che l’intreccio promette si perde nella commistione consueta di generi, il genere psichiatrico innestato sulla detective story, più il film di denuncia contro le case farmaceutiche genere tenuto ben sotto controllo per non far perdere proventi e nella necessità di confezionare un prodotto rassicurante. Infatti, tranquilli non di devastanti effetti collaterali a causa di medicinali si tratta (non siamo nei pressi di Michael Moore), ma come sempre di quell’inafferrabile mostro senza volto che è la finanza (condita di misoginia). (s.s.)

Juan ha lasciato Città del Messico per andare a vivere in campagna con la famiglia, ma il nuovo tipo di vita risulta assai difficile, la violenza della città ha preso anche qui forme diverse e forse più pericolose. BENUR - UN GLADIATORE IN AFFITTO DI MASSIMO ANDREI, CON NICOLA PISTOIA, PAOLO TRIESTINO. ITALIA 2012

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Le caratteristiche che hanno fatto apprezzare Andrei nel suo film d’esordio Mater Natura alla Settimana della critica di Venezia, qui ci sono tutte, la propensione al pop fiammeggiante, l’andamento musicale importante, la tenerezza, il melodramma. Qui si passa gagliardamente dall’ambientazione napoletana a quella romana, dove, dalla pièce teatrale di Gianni Clementi, Sergio, che era uno dei primi cinque stuntman di Cinecittà ora si arrangia facendo il gladiatore al Colosseo, insieme a Milan (un nome adatto ai giochi di parole). Commedia dal cuore amaro. (s.s.) BEKET DI DAVIDE MANULI, CON FABRIZIO GIFUNI, JEROME DURANTEAU. ITALIA xxxx

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Nella rilettura di "Aspettando Godot" di Beckett: Freak e Jajà stanchi di aspettare Godot, decidono di andarlo a cercare percorrendo una terra di nessuno popolata di personaggi deliranti e situazioni paradossali. LA CASA DI FEDE ALVAREZ, CON JANE LEVY, SHILOH FERNANDEZ. USA 2013

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Sembra quasi privo di elaborazione o progettazione, remake dello stracult di Sam Raimi, diretto dall'uruguaiano Fede Alvarez. Compatto, veloce, sprezzante. Alvarez divora tutto, nella calma impassibile del (solito) chalet scricchiolante e dei boschi dove il male è in agguato. Ritorna anche l'impervio Necronomicon, rilegato in pelle umana e scritto col sangue di una vergine. Alvarez elegge Mia a «scream queen», dissennata,assonnata, nevrotica. Un'anti-Ash dei nostri giorni, drogata e con un fratello come angelo custode.

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HANSEL E GRETEL CACCIATORI DI STREGHE DI TOMMY WIRKOLA, CON JEREMY RENNER, GEMMA ATERTON. GERMANIA USA 2013

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Stravagante, forse non totalmente riuscito, ma molto divertente Hansel e Gretel cacciatori di streghe del regista norvegese Tommy Virkola, ricca coproduzione tedesco-americana (50 milioni di dollari, ne ha già incassati 55 in America). È una vera incursione del cinema europeo nel territorio horror fiabesco in 3D della nuova Hollywood, che non ha finora prodotto grossi risultati e ci ha ammorbato con inutili Biancaneve e nani non sempre di prima scelta. (m.gi.) KIKI CONSEGNE A DOMICILIO DI HAYAO MIYAZAKI, ANIMAZIONE. GIAPPONE 1989

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Capolavoro di Hayao Miyazaki uscito dallo Studio Ghibli nel lontano 1989 (ora nelle sale italiane, distribuisce Lucky Red), è la magnifica metafora dei turbamenti di un corpo - e una mente - in rapido cambiamento. È un romanzo di formazione tutto al femminile dove la «crisi», la perdita di potere e la riconquista della fiducia in se stessi sono le temibili prove da superare. Nessun effetto speciale sostiene Kiki nella sua impresa, se si esclude quel prodigioso volo che affascinerà uno dei pochi esemplari maschili del film, Tonbo, il simpatico ragazzino che sogna di costruire macchine per attraversare il cielo e che costituirà l’occasione del riscatto. (a.d.g.)

A CURA DI SILVANA SILVESTRI CON FILIPPO BRUNAMONTI, ANTONELLO CATACCHIO, ARIANNA DI GENOVA, GIULIA D’AGNOLO VALLAN, MARCO GIUSTI, CRISTINA PICCINO, GIONA A. NAZZARO

IL FILM

IL MINISTRO

BELLAS MARIPOSAS

DI PIERRE SCHOELLER, CON OLIVIER GOURMET, MICHEL BLANC. FRANCIA 2011

DI SALVATORE MEREU; CON SARA PODDA, MAYA MULAS, MICAELA RAMAZZOTTI. ITALIA 2012

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La scommessa del regista e sceneggiatore francese è portarci dentro ai rituali del potere. E al di là degli schieramenti, destra o sinistra, e visto che il film è del 2011 è abbastanza facile leggervi il riferimento alla Francia dell’ex presidente Nicolas Sarkozy. Schoeller fotografa lucidamente l’ambiguità attuale della democrazia, e soprattutto quella frattura che nel caso italiano, ma non solo, sta diventando sempre più grande tra «noi», i cittadini, e «loro», gli uomini politici. Prodotto dai fratelli Dardenne è l’occasione per interrogarsi su un diverso senso di «cinema politico». (c.pi.) MI RIFACCIO VIVO

DI SERGIO RUBINI, CON NERI MARCORé, LILLO, EMILIO SOLFRIZZI. ITALIA 2013

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Minnelli? Blake Edwards? Capra? In questo un po' pasticciato, ma carinissimo film l'ispirazione viene applicata al cinema fantastico dello stesso Rubini, che ci aveva dato un piccolo gioiello come L'anima gemella, dove già c’erano scambi di personalità e di corpi, trova la sua chiave di messa in scena grazie a gran parte dei nostri migliori attori brillanti, che il regista riesce a dirigere alla perfezione. Così, anche se il copione ha qualche pecca, la commedia è gradevole (m.gi.) NO I GIORNI DELL’ARCOBALENO

DI PABLO LARRAIN, CON GAEL GARCIA BERNAL, ALFREDO CASTRO. CILE 2012

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Larrain Chiude la sua trilogia con la fine della dittatura in questo film dedicato al plebiscito che senza colpo ferire, con la sola forza dell’ironia (una risata vi seppellirà) costrinse i militari ad andarsene. Si chiedeva al popolo se votare Sì o No a Pinochet e la campagna per il No sembrava persa perché era evidente che intimidazioni e brogli avrebbero avuto la meglio. Nei 15 minuti concessi in tv a notte fonda passa per la prima volta il pensiero dell’opposizione: tutta la lotta clandestina dei cineasti, anche di quelli che durante la dittatura lavoravano in pubblicità oltre che nella controinformazione emerge nel film con forza liberatoria e uno stile trascinante. (s.s.) LE STREGHE DI SALEM

DI ROB ZOMBIE, CON SHERI MOON ZOMBIE, BRUCE DAVISON. USA 2013

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I White Zombie diventano un’icona del metal alternativo e poco dopo Zombie molla la band e firma La casa dei 100 corpi, il suo esordio. A fronte della riuscita assoluta di Le streghe di Salem si capisce come abbia faticosamente e con umiltà tratto tutte le lezioni necessarie dai suoi film successivi fino a questo horror adulto e colto che sarà nelle sale dal 24 aprile. (g.a.n.) VIAGGIO SOLA DI MARIA SOLE TOGNAZZI, CON MARGHERITA BUY, STEFANO ACCORSI. ITALIA 2013

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Irene, viaggiatrice di professione per verificare le stelle degli hotel di lusso, la sua non è una solitudine depressa o deprimente, al contrario appare come una specie di sottile resistenza nel rovesciamento, anche meno evidente, del luogo comune femminile. Il terreno è rischioso, ma la regista riesce con affettuosa complicità a tradurre le impercettibili sfumature del sentimento in una narrazione cinematografica. La suspence è altrove, nel corpo corpo tra una sceneggiatura che potrebbe rimanere chiusa e il talento della regista che ne spiazza continuamente gli esiti producendo sorprese e grandi piaceri. (c.pi.)

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BOWIE IN SAJO FRANCESCANO AXIS UK, 2013, 3’50”, musica: Pet Shop Boys, regia: autore ignoto fonte: Youtube

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I Pet Shop Boys ritornano con l’album Electric nuovamente sulla scena musicale e – parlando di videoclip – ritornano allo stile anni ’90 di Howard Greenhalgh, quando il regista rivestiva di animazioni al computer 3-D la loro musica. Stavolta il gioco di astrazioni digitali è anche più hard, così come lo è il brano technopop Axis perlopiù strumentale; i due ragazzi del negozio di animali, Tennant e Lowe, neppure li vediamo, sono sosituiti dalle sagome di due performer che assumono di tanto in tanto le sembianze di diabolici caproni trafitti da un reticolo di raggi luminosi, imprigionati dentro una coloratissima struttura speculare. L’effetto, percettivamente, non è niente male, e non fa rimpiangere il visual ironico e pop di quasi 25 anni fa. THE NEXT DAY

Usa/UK, 2013, 5’54”, musica: David Bowie, regia: Floria Sigismondi, fonte: Vevo

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Secondo singolo dell’omonimo album e secondo video firmato da Sigismondi. Già censurato su youtube e sicuramente votato ad una difficile esistenza, The Next Day ci mostra preti lascivi e violenti, cardinali diabolici e pornosuore martirizzate con tante di stimmate, tutti avventori di un pub dove Bowie in sajo francescano si esibisce con la band. Il talento visionario della regista italo-canadese stavolta è più contenuto, ma comunque il clip rimane surreale (la Santa Lucia con i bulbi sul piatto d’argento) e totalmente blasfemo. In tempi di riforma come quelli di papa Francesco l’eretico Duca Bianco picchia duro visualizzando la Chiesa come un’accolita di peccatori senza limiti. Guest star Marion Cotillard e Gary Oldman. BLUE TIP

Usa, 2011, 3’15”, musica: The Cars, regia: Eron Ocasek, fonte: Vevo

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Ritorna dopo 25 anni di silenzio con l’album Move Like This e per il video di Blue Tip la band capitanata da Ric Ocasek si affida al figlio Eron. The cars (che vantano un videoclip diretto addirittura da Andy Warhol negli anni ’80) appaiono sotto forma di sagome incrostate sui muri di palazzi e inseriti nella skyline della Grande Mela, come fossero videoproiettate o trasferite con vernice spray da uno street artist. Non male questo gioco grafico che, tra l’altro – come tante volte accade –, si ricollega alla stessa copertina dell’album dal titolo omonimo.

MAGICO

La bella farfalla, la bambina dei quartieri poveri di Cagliari riempie lo schermo con una energia di cinema nuovo, con lo stile deciso di Mereu che dei brani di realismo, dei frammenti di documentario, dei volti presi dalla strada compie metamorfosi spettacolari. Li annoda come fiocchi, li stringe al collo dello spettatore. Mereu offre assaggi di cinema classico giusto per accennare alcuni accordi e poi suonare la sua musica. «Hey mambo» come la Mangano nella risaia, come se il filo conduttore portasse direttamente a Giuseppe De Santis, ma nell’angusta stanza da bagno, sguardo al neorealismo nella casa dove si affollano i figli, ma dove le battute sono amare, «Glory glory alleluia» strimpellata al piano, a fare da colonna alla procace vicina nella vasca riempita di schiuma, come in un film di Hollywood, ma nell’assoluta degradazione. Il look in camera di Cate la protagonista, inventivo stravolgimento della voce fuori campo costante degli ultimi anni al cinema è più che una confessione, una spavalda presenza davanti allo schermo. Ma il racconto diventa superbamente flaneur, sfida il destino, sorprende. L’elemento stregato della storia (dal romanzo di Sergio Atzeni, ed. Sellerio), mediato dalla lingua sarda, dall’ironia della protagonista - la preadolescenza delle bambine è l’età della stregoneria - si concretizza infine in una vera strega che arriva e predice a tutti il futuro immediato e risolve conflitti e problemi irrisolvibili, salva la vita e fa tornare il sorriso. (s.s.)

IL FILM STA PER PIOVERE DI HAIDER RASHID, CON LORENZO BAGLIONI, MOHAMED HANIFI. ITALIA 2013

Pacato il racconto, straziante l’argomento. Tra questi due poli si sviluppa il punto di vista del regista che dirige deciso il film alla sua tesi: perché un ragazzo nato in Italia deve trovarsi nell’assurda situazione di vedersi negato il permesso di soggiorno? Il motivo raccontato nel film è che il capofamiglia, il padre di origine algerina da trent’anni in Italia, operaio in una piccola industria di Firenze perde il lavoro a causa della crisi dopo il suicidio del padrone dopo undici mesi di cassa integrazione. Perde così anche il permesso di soggiorno e arriva l’ordine di espulsione entro quindici giorni. Si dibatte, come ormai radio e televisione fanno incessantemente, ma senza alzare i toni. E si continua ad andare avanti cercando di districarsi tra avvocati, giudici, burocrazia, leggi, politici e perfino trasmissioni televisive dove raccontare la storia. Il protagonista Said, il figlio maggiore, nato in Italia, studente di ingegneria, fidanzato con una ragazza italiana, tifoso della nazionale e per cui l’Algeria è un luogo esotico, in pubblico racconterà con il suo accento fiorentino come i permessi di soggiorno siano catene dolorose, e come tutti gli altri simili a lui, siano uniti in un profondo dolore perpetrato da azioni razziste e ingiuste. (s.s.)

FESTIVAL DEL CINEMA SPAGNOLO ROMA, CINEMA FARNESE PERSOL, 9-15 MAGGIO

il Festival del cinema spagnolo sesta edizione, fondato e diretto da Iris Martín-Peralta e Federico Sartori. Film di apertura Blancanieves di Pablo Berger, vincitore di 10 Premi Goya. La Nueva Ola presenta le produzioni spagnole più recenti, tra cui Grupo 7, di Alberto Rodríguez (stasera alle 20.30), De tu ventana a la mía, opera prima di Paula Ortiz. Tra gli ospiti, il regista Xavi Puebla, con A puerta fría , interpretato da María Valverde e Nick Nolte. L’omaggio al cinema italo-spagnolo è dedicato (lunedì 13 ore 20.30) - al 50˚ anniversario del film El verdugo (La ballata del boia), di Luis García Berlanga, Premio FIPRESCI a Venezia 1963, sceneggiato da Rafael Azcona ed Ennio Flaiano, interpretato da Nino Manfredi. Novità assoluta di questa edizione, la sezione La Nueva Ola Latinoamericana - L'immagine assente, con il regista colombiano Ciro Guerra presente al film di chiusura , Los viajes del viento, gli argentini El studiante, di Santiago Mitre e l’anteprima di Infancia clandestina di Banjamín Ávila in uscita a giugno. La sezione latinoamericana è completata da altri titoli quali il cult-movie ecuadoregno Ratas, ratones, rateros (Roditori) di Sebastián Cordero e il messicano El violín di Francisco Vargas. (s.s.)

FULVIO WETZL CINETECA DI BOLOGNA, CINEMA LUMIÈRE SALA OFFICINA/MASTROIANNI (PIAZZETTA P.P.PASOLINI VIA AZZO GARDINO,65), 15 MAGGIO

Dopo la personale di Fulvio Wetzl che si è tenuta a Napoli l’8-9 maggio, la Cineteca di Bologna con la rassegna «4 film per conoscere un autore» dopo aver già presentato uno dei suoi film più emblematici Prima la musica poi le parole, che rappresenta al meglio il sofisticato lavoro del regista sui materiali del cinema e la sua poetica. Esordisce con Rorret (Berlino ’88) con Lou Castel, Quattro figli unici a Venezia ’92, del ’98 è Prima la musica poi le parole, nel 2000 entra nella onlus «Cinema nel presente» con cui realizza 13 documentari autoprodotti di impegno sociale (mercoledì 15 ore 18: Fame di diritti, lettere dalla Palestina). Gira anche Non voltarmi le spalle (2006), sulle difficoltà d’integrazione e la sensibilità dei sordi, e Mineurs - minatori, minori (2007), con Franco Nero, un film sull’emigrazione italiana nelle miniere del Belgio. Dal 2010 prepara Stella e Strisce-Star and Stripes, film sull’artista Giuseppe-Joseph Stella, nato nel sud Italia e diventato negli Stati Uniti il più importante pittore futurista americano, oltre a fondare con Marcel Duchamp e Man Ray il Dadaismo newyorkese. In anteprima Prima la trama poi il fondo diretto con Laura Bagnoli con Renata Pfeiffer, ottantaduenne artista milanese di origine austriaca ancora in attività (mercoledì 15, ore 20.15). (s.s.)

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ALIAS 11 MAGGIO 2013

di GUIDO MICHELONE

Benché il pubblico ne viva soprattutto la dimensione prettamente musicale, addirittura ipersonica o rumorista, il rock possiede da sempre una componente letteraria assai marcata che dai testi cantati si riversa sulle complesse action performative o nelle intere operazioni discografiche. Anche la sociologia più ferrea - quella che sostiene la netta prevalenza teatrale/spaziale/musicale nella fruizione quasi corporea dell'evento concertistico (subliminato dall'ascolto riprodotto o liquido) - ammette la naturale propensione del rock a usare le parole non solo in senso fisico (oralità intonata), ma a cantarle per narrare, spiegare, affabulare. Ciò spiega la vocazione di molte insospettabili star - in apparenza tutte sex&drugs&rockandroll - a «raccontare» andando oltre la musica e la canzone per approdare alla letteratura strictu senso, poesia o romanzo. Fermo restando che per tutti i «maestri» buoni o cattivi della popular music (non solo rock) l'industria dello spettacolo pretende da loro la classica autobiografia a fine carriera o sul più bello, affiancando un giornalista o un romanziere che sappia redigere per benino le memorie talvolta confuse o sgrammaticate degli stessi divi, per diversi rocker, invece, la scrittura creativa è un imperativo kantiano o una necessità fisiologica, tanto estrema e genuina quanto indifferibile e trascinante, come mostrano i seguenti libri (poesie o romanzi) scelti fra tutti quelli con traduzione italiana. Non ci sono regole precise o sistemi chiusi in tutto questo: si può solo constatare che per alcuni l'esordio avviene prima con il libro e poi con i dischi, o che per altri carta e penna sostituiscono progressivamente microfoni e chitarre. Si può anche constatare come alcuni rocker siano «scrittura in nuce', ancora inesplosi, ma calati a fondo nella letteratura, tanto da citarla espressamente nelle loro song: ad esempio John Cale musica due liriche del poeta gallese Dylan Thomas (che a sua volta ispira il giovane Robert Zimmerman al punto da copiargli il nome). Il folksinger inglese Peter Bellamy licenzia due grandi dischi Oak Ash and Thorn (1970) e Merlin's Island Of Gramarye (1972) ispirandosi a Rudyard Kipling. Del resto altri tre cantautori britannici (però scozzesi) non nascondono mai i loro

amori letterari, a partire dal poeta Robert Burns: Eddi Reader lo omaggia direttamente con il cd Sings the Songs of Robert Burns (2003; Dick Gaughan musica la struggente Aly Bain and Friends per l'lp Handful of Earth (1980); l'antesignano Donovan guarda spesso alle nursery rhymes o ai poemi medievali dei bardi ossianici, così come i gruppi folk rock e prog rock dell'intera Gran Bretagna nutrono rispetto e ammirazione per l'antica letteratura inglese e con essi il concept-album (non-plus-ultra della letteratura applicata alla

musica ) sarà la prassi quotidiana. Anche i Blue Aeroplanes di Bristol, attivi fin dal 1981 fanno spesso riferimento alle liriche di W. H. Auden e Sylvia Plath: del resto il leader vocalist Gerard Langley esordisce come poeta negli anni universitari. A spulciare fra i testi del macrocosmo rock forse Shakespeare, Beaudelaire, Rimbaud, Dickens, Villon, Majakovksij, Ginsberg, Kerouac, Burroughs sono gli autori più frequentati, anche se - escludendo gli scrittori viventi che talvolta collaborano con i musicisti alle canzoni - spetta a Poe l'unico tributo letteral-discografico con il doppio cd Closed on Account of Rabies. Poems And Tales Of Edgar Allan Poe (1997), ideato e prodotto dal geniale Hal Willner, con la partecipazione, tra

IN PAGINA ■ DA «TARANTULA» ALLE «STRATEGIE OBLIQUE»

Penne alla chitarra Storie di rocker tra romanzi e poesie gli altri, di Marianne Faithfull, Iggy Pop, Gavin Friday, Jeff Buckley, Debby Harry e Diamanda Galas; quest'ultima già negli anni Ottanta compone una musica sperimentale (spesso a sfondo rock) con abbondanza di agganci poetici, tra Bibbia, medioevo, romantici e maudits. La storia del rockman che si fa scrittore è recente, ma c'è un importante antecedente: Woody Guthrie, nell'immediato dopoguerra, quando è ancora un temuto country singer protestatario, è il primo a parlare di se stesso, evitando i cliché dell'autobiografia, ma inventando un romanzo dove le rocambolesche avventure sono fatti veri. Negli anni ’60 la sperimentazione che nutre il rock coevo alimenta pure le ricerche letterarie in testi divenuti mitici come i loro stessi autori. Dagli anni ’90 a oggi prevale invece il gusto In grande l’opera di Brian rigoroso per il costrutto naturalista, Eno, «Strategie Oblique». salvo le dovute eccezioni che, Si tratta di un mazzo come in musica, fanno dire, con di carte contenute Mick Jagger e Keith Richard: «It's in una scatola nera only rock and roll but I like it!».

Negli anni ’60 gli esperimenti rock alimentano la letteratura. Negli anni ’90 trionfa l’intento naturalista

WOODY GUTHRIE Questa terra è la mia terra (Bound for Glory) 1943 Il sottotitolo italiano «Romanzo autobiografico di un intellettuale ribelle» spiega cosa succede a un giovane che ben presto abbandona la città natale di Okemah, in Oklahoma, a seguito di tragedie familiari che lo segnano per la vita: crac finanziario paterno, sorella deceduta in un banale incidente domestico ecc. Il ragazzo intraprende il lungo viaggio attraverso gli Usa, facendo qualsiasi lavoro o adattandosi a suonare folk in strada. Reportage dall'America della grande crisi, il libro puntualizza con lucidità, gli aspetti degradanti della povertà sociale tra sordide periferie o vagoni merci carichi di disperati, ma l'America dalla faccia sporca non perde orgoglio e dignità, nella voglia di ribellarsi contro un sistema senza scrupoli. Da Marcos y Marcos.

ALIAS 11 MAGGIO 2013

JOHN LENNON John Lennon Vivendo Cantando (In His Own Write), 1964 Pubblicato all'inizio della beatlesmania (Longanesi e Arcana), con disegni dello stesso Lennon, il librino, fra critiche entusiasmanti, ha un successo incredibile al di là delle più rosee speranze editoriali. Si tratta di una serie di racconti talvolta brevi, dai toni comici e surreali tra humour britannico e nonsense avanguardista. Ci sono di mezzo l'Alice di Lewis Carroll e i limericks di Edward Lear, non senza qualche occhiataccia all'Ulisse di James Joyce. Il positivo riscontro fa sì che Lennon ripeta il colpo già nel 1965 con un secondo volume, A Spaniard In The Works, che riprende gli spunti felicissimi dell'esordio. E alcuni elementi di quest'approccio alla scrittura in prosa - rimasti estranei ai testi delle canzoni emergeranno poi nel canzoniere beatlesiano della fase psichedelica a cominciare da Strawberry Fields Forever, A Day in the Life, I Am the Walrus. Da Arcana

CANZONI, LA PAROLA «LOVE» È SPARITA di FRANCESCO ADINOLFI Non cambiano solo i suoni ma anche le parole nei titoli delle canzoni. Negli ultimi anni, ad esempio, il termine «love» è andato lentamente sparendo rispetto a quanto avveniva nel 1980. Da notare che negli ultimi 120 anni la parola «love» è risultata la più ricorrente nei titoli insieme a pronomi personali come «you» o «I» e all’onniprensente articolo determinativo «the». Lo rivelava tempo fa un’indagine del Whitburn Project basandosi sui brani delle classifiche della rivista Billboard. Adesso si cambia. Il linguista Tyler Schnoebelen e i suoi colleghi della

JIM MORRISON Jim Morrison: The Lords. Notes on Vision 1969 Questo librino di poesie come i successivi The New Creatures (1969) e An American Prayer (1970) vengono stampati privatamente con tiratura limitata di 100 copie (500 per il terzo) dalla Western Lithographers di Los Angeles. Poi, dopo la morte, sul cantante dei Doors come poeta si assiste al diluvio: centinaia di pubblicazioni (anche in Italia) su inediti (o presunti tali) e su manoscritti (di dubbia provenienza).Tuttavia l'autore/performer del Re Lucertola - più simbolismo francese che beat generation - declamata in pubblico assieme al gruppo, resta ancor oggi il miglior esempio di rock poetry. Da Kaos edizioni

ED SANDERS

YOKO ONO

E l'asina vide l'angelo (And the Ass Saw the Angel), 1989 Il musicista e sceneggiatore australiano - dopo la raccolta di poesie e racconti King Ink (1988) seguita da King Ink II (1997) pubblica un romanzo crudo e brutale, dagli accenti gotici: al centro la vicenda di Euchrid Eucrow, giovane americano che vive in uno stato del sud, in una valle abitata da predicatori e profeti, dominata dall'ignoranza; e la quotidianità del protagonista muta di colpo quando il popolo dei timorati di dio dichiara che una trovatella è prescelta dal Signore. Il successivo romanzo - La morte di Bunny Munro (2009) - tratta invece dell'ultimo viaggio di un commesso viaggiatore alla ricerca di un'anima. Il venditore di prodotti di bellezza alle solitarie casalinghe della South Coast inglese è alla deriva dopo il suicidio della moglie e in corsa per mantenere una presa sulla realtà. Bunny si mette quindi sulla strada con il figlio Bunny Junior in una peregrinazione sempre più bizzarra e frenetica fino alla resa dei conti. Incandescente e moderno racconto morale, il libro è anche un ritratto dei rapporti tra padri e figli. Da Arcana

JIM CARROLL

BOB DYLAN Tarantula, 1971 Se è vero, come scrive Allen Ginsberg che la poesia fece il suo ingresso nei jukebox grazie a Bob Dylan, è altrettanto giusto attribuirgli la paternità (condivisa dallo stesso Lennon) di primo artista rock a tutto tondo, dalla pittura alla narrativa. Tarantula ha una gestione lunga e complessa, perché Bob vuole resistere alle pressioni degli editori che sfruttano il momento positivo di Like a Rolling Stone e Blonde on Blonde, carpendogli gli appunti buttati giù nel convulso biennio '65-'66. Ma il testo è dato alle stampe solo nel 1971, quando Dylan sembra fuggire da alcune influenze artistico-letterarie che celebrano tanto il suo folk rock quanto un libro di culto, fra scrittura automatica, flusso di coscienza, beat generation, psichedelia. Da Feltrinelli

PATTI SMITH

LEONARD COHEN

Idibon, azienda di San Francisco specializzata in comunicazione, hanno rilevato che il punto più basso per la parola «love» è stato il periodo dal 2003 al 2007, ossia anni in cui ha sempre più prevalso la parola «hate», odio. Nel database dell’azienda compaiono solo 30 canzoni con «hate» nel titolo e undici sono presenti nel suddetto periodo. La Idibon ha fatto un’ulteriore, illuminante scoperta: la permanenza in classifica dei pezzi con «love» nel titolo è di gran lunga minore rispetto a quelle che scelgono di non adottare il termine: le prime restano in vetta 9,4 settimane, le seconde 11.4. Insomma, l’amore ti porta in classifica ma non ti ci fa restare. Occhio alla tabella, quadriennale, presentata dalla Idibon, qui: http://theweek.com/article/index/243403/pop-song-titles-are-losing-the-love

NICK CAVE

Racconti di gloria beatnik (Tales Of Beatnik Glory), 1975 Il leader e cantante dei Fugs è da sempre poeta e agitatore culturale: lavorando sul genere «biografia» in modo complementare tra fiction, saggio, memoria, licenzia un testo cult, divenuto ormai un classico della letteratura beat: un romanzo autobiografico sui primi Sixties, dove il personaggio Sam Thomas è proprio l'alter ego del futuro leader della newyorchese rock band tra cabaret e politica, tratteggiando surrealisticamente la Grande Mela alternativa dei primi anni Sessanta, fra reading poetici, jazzmen balordi, sesso sfrenato. Da ShaKe

Grapefruit, 1964 La scultrice giapponese, dal 1980 vedova Lennon, prima di conoscere il beatle (e diventare rock woman) è una giovane esponente del gruppo radicale Fluxus e con esso cerca di esplorare l'arte concettuale tra happening e performance. E un esempio di arte concettuale è anche questo Pompelmo che comprende istruzioni dadaiste in stile Zen da completare nella mente dei lettori, come «Nascondino: nasconditi finché tutti si dimenticano di te». Nasconditi finché tutti muoiono. Ci sono versi assurdi o divertenti, ma colti e profondi nella direzione degli haiku millenari; insomma, «Il miglior libro che abbia mai bruciato», dichiara all'epoca Lennon. Da Mondadori

Jim entra nel campo di basket (Basketball Diaries), 1978 L'esistenza «on the road» di un ragazzo straordinariamente intelligente, campioncino di pallacanestro con il talento per la scrittura: tra i 12 e i 15 anni tiene infatti un diario che diventa una sorta di «manifesto» per la sopravvivenza nella giungla urbana newyorchese, fra precoce ossessionante uso di stupefacenti, successi scolastici e sportivi, amici e famigliari osservati attraverso con l'insofferenza e la ribellione tipiche di un'intera generazione. È l'opera di un enfant prodige: vero caso letterario negli Stati Uniti degli anni Settanta, con l'autore quale vocalist e leader rock (The Jim Carroll Band) soltanto nel 1980 per Catholic Boy, disco da ritenuto all'altezza della migliore di Patti Smith. Da Minimum Fax

PETE TOWNSHEND

Patti Smith: Poesie (Seventh Heaven), 1972 È autrice di libri di poesie già prima dello strepitoso esordio discografico (Horses, 1975); il debutto letterario risale a tre anni prima con questo libriccino figlio dell'underground newyorchese: brevi liriche su eros e droga nell'alienante contesto urbano. Ma il suo capolavoro è forse Complete (1998) raccolta di testi (song, riflessioni, diari) con note autobiografiche, dove sembra voler esprimere la propria arte in riuscito mix di immagini e lettere. È una ricerca del sé che non concede spazi a parole inutili, a frasi lunghe, a discorsi complicati: prevalgono appunti, bozzetti e fotografie per le canzoni ormai elevate a poesie. Da segnalare tra gli altri quindici libri da lei pubblicati nel corso di 40 anni Babel (1978), Early Work: 1970-1979 (1994), The Coral Sea (1996), Auguries of Innocence (2005), Just Kids (2010), tradotti anche in italiano. Da Newton Compton

Leonard Cohen: Belli e perdenti (Beautiful Losers) 1966 Poeta e romanziere che prima cantautore e musicista, il quasi ottantenne montréalese riesce a eccellere in ogni trovata artistica in una vicenda professionale lunga oltre mezzo secolo. Difficile però orientarsi tra le decine di raccolte di versi - Flowers For Hitler (1964) e L'energia degli schiavi (1972), tra le raccolte più rappresentative mentre nella narrativa Cohen si ferma a due romanzi: il primo è Il gioco favorito («The Favorite Game», 1963); il secondo Belli e perdenti composto tra il 1964 e il 1965 sull'isola greca di Idra, digiunando e facendo uso di anfetamine per concentrarsi meglio sul testo - narra la storia della santa Mohawk Kateri Tekakwitha, intrecciata alla vicenda di un triangolo amoroso tra un folklorista (canadese senza nome), sua moglie Edith (nativa americana morta suicida) e il suo migliore amico F, (parlamentare, a capo di un movimento separatista), che finirà in manicomio. Da Rizzoli

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BRIAN ENO Strategie oblique (Oblique Strategies, Over One Hundred Worthwhile Dilemmas), 1975 Si tratta di un mazzo di carte da 7x9 centimetri che sono contenute in una scatola nera, a mo' di scrigno, che il polistrumentista transfuga dai Roxy Music crea assieme a Peter Schmidt; tra libro d'artista e conceptual art, ogni carta propone un aforisma che intende aiutare l'artista, in particolare il musicista, a spezzare i blocchi mentali e a incoraggiare il cosiddetto pensiero laterale. Da Gammalibri

Fish & Chips e altri racconti (Horse's Neck), 1985 Il protagonista si chiama Pete, ma prose e versi, a comporre una bislacca raccolta, superano le pure o semplici testimonianze autobiografiche. La «mente» degli Who - a cui si deve per primo la drammaturgia del teatro rock con Tommy e Quadrophenia - si abbandona al piacere della scrittura, narrando vicende di donne e amici oppure incontri, luoghi vissuti o sfiorati mediante il calore e il ritmo pacato da ballad acustica. «Ogni racconto - spiega Pete - tratta di un aspetto della mia lotta per scoprire che cosa sia veramente la bellezza». Da Minimum Fax

SUZANNE VEGA The Passionate Eye (Solitude Standing), 1999 Qui sono raccolte pagine di diario scritte on the road, novelle autobiografiche, poesie che diventeranno canzoni, testi pensati per song che non hanno ancora visto la luce: un viaggio dietro le quinte nell'universo creativo di una tra le più raffinate cantautrici newyorchesi. Sorprende, oltre il lirismo, il talento narrativo con il quale descrive o ricorda luoghi, persone, incontri, casi surreali, o la duttilità nel plasmare personaggi femminili al contempo fragili e complessi; affascina una sensibilità poetica da cui nascono, con apparente semplicità racconti o versi delicati, algidi, sognanti, talvolta ricchi di calore, vitalità, passione. Da Minimum Fax

KURT COBAIN

JULIAN COPE Krautrocksampler, 1996 Benché rientri nella saggistica, questo bel libro sulla kosmische music tedesca fa dell'ex leader dei Teardrop Explodes un autentico professionista della scrittura, attività alla quale si dedica quasi a tempo pieno, tenendo un blog di cultura, redigendo poi nel 2007 il fondamentale Japrocksampler, sull'evolversi del pop nipponico tra il 1951 e il 1978. Attualmente Cope dà alle stampe testi storici notevoli come The Modern Antiquarian e The Megalithic European, entrambi sui monumenti preistorici, non ancora tradotti in Italia a differenza dei primi due. Da Fazi

Diari (Journals), 2002 Durante la breve e tormentata esistenza, il cantante e leader dei Nirvana riempie quaderni e bloc notes di poesie, schizzi, bozze, appunti, annotando progetti, riflessioni su fama e notorietà, i pensieri sulla musica e sul sottobosco di produttori, discografici, aficionados. Appena dopo il suicidio, vengono ritrovati circa venti quaderni (compilati tra il 1990 e il 1994) che, rimasti chiusi in cassaforte fino al 2002, vengono pubblicati in un volume illustrato anche dalle foto dei disegni e delle pagine più significative. Benché a tratti deliranti, questi «diari» regalano l'opportunità per capire a fondo lo sguardo di un artista poliedrico, interrogativo, sofferente. Da Mondadori

AUTORI VARI The Haiku Year, 1998 Ecco un'antologia delicata e impalpabile di nuovi haiku scritti da una serie di musicisti. Tra i tanti Michael Stipe, Grant Lee Phillips, Douglas Martin, Tom Gilroy, Anna Grace, Rick Roth, Jim McKay e introdotti da Steve Earle. Il libro è ancora inedito in Italia, come molti altri testi di rockstar e musicisti vari, dalle due raccolte di poesie e racconti Earthed Nineveh/The Ephemeron di Steve Kilbey (leader degli australiani Church) ai romanzi autobiografici Bookstore, Jrnls80s e Road Movies di Lee Ranaldo (chitarrista di Sonic Youth) fino a Empty Places (1991) di Laurie Anderson.

LOU REED

The Raven, 2003 Si tratta dei testi dell'omonimo album che sconfina in qualcosa di diverso dalla sequenza di tracce musicali per sfociare, con lo spirito dark che contraddistingue l'ex Velvet Underground, nella rilettura in chiave postmoderna di racconti e poesie di Edgar Allan Poe (con la collaborazione di altri grandi nomi della musica e del cinema: David Bowie, Willem Dafoe, Laurie Anderson, Steve Buscemi, Ornette Coleman). Sulla scia di POEtry, musical progettato nel 2002 con Robert Wilson, il maestro del gotico del XIX secolo viene quindi riscritto da Reed che non esita a manipolare e ad «arrangiare» le parole di Poe, saltando, elidendo e aggiungendo pezzi propri, così da lasciarsi alle spalle gli eventuali anacronismi a favore dell'intenso stupore dell'hic et nunc. Da Einaudi

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ALIAS 11 MAGGIO 2013

RITMI Il gruppo si esibiva nel nord del Messico, zona di guerra tra cartelli dei narcos che assoldano anche i musicisti per autocelebrarsi. La band, non legata alle cosche, ha scelto il locale sbagliato Non si sa come il superstite, la cui identità è stata tenuta segreta dalle Si chiamavano Kombo Kolombia e suonavano un misto di due generi musicali, autorità, sia riuscito a sopravvivere al il vallenato e la cumbia. Li avevano soprannominati «i poderosi». Sapevano far massacro. Forse è scappato, forse è ballare e divertire la gente. Si esibivano nelle feste di paese e nei locali della stato lasciato in vita per poter provincia messicana. Sono stati eliminati, uno per uno, da un commando raccontare cosa è accaduto, ma armato della più sanguinosa organizzazione criminale del pianeta. Solo in un qualcuno all’inizio sospetta che abbia paese come il Messico dove dall’inizio dell’anno si contano già più di 4mila agito da talpa o abbia tradito i omicidi, la storia del Kombo Kolombia può essere considerata come una compagni. In Messico nella guerra tra tragedia simile a tante altre e dimenticata in fretta. Solo in un paese come il cartelli dei narcos, la musica gioca un Messico i musicisti sono ormai ritenuti come inevitabili effetti collaterali di un ruolo importante. conflitto tra cartelli rivali in cui i morti sono più di quelli di una guerra civile. I membri delle cosche amano le Il vallenato e la cumbia sono stili musicali che hanno origine nella regione canzoni e adorano essere protagonisti caraibica colombiana, ma sono ormai amati in tutto il continente Usa. I Kombo delle ballate di un genere che ha Kolombia nascono nel 2010 con l’ambizione di diventare un punto di preso il nome di Narcocorrido (Alias riferimento per questo genere molto richiesto nei locali da ballo e nelle feste del nord del Messico. Si esibiscono a volte con otto, a volte con tredici elementi sotto la guida del cantante Carlos Alberto Aguirre, 37 anni, fisico imponente e sorriso contagioso. Lo scorso 24 gennaio il gruppo viene invitato a esibirsi a una festa privata nel locale La Carreta in un paese chiamato Hidalgo, nello stato del Nuevo Leon, a circa 40 chilometri da Monterrey. È un piccolo locale angusto, ma simile a tanti altri della zona. Alla fine del concerto una squadra di persone armate entra nel locale e preleva, armi in pugno, tutti i componenti del gruppo e i loro assistenti. Vengono bendati, caricati su un furgone e su alcuni fuoristrada e trascinati via. Sembrano scomparire nel nulla. I parenti li chiamano ai telefoni cellulari, ma nessuno risponde. Nessuno chiede un riscatto. Due giorni dopo si presenta alle autorità un musicista del gruppo. È stato trovato da un contadino, scalzo e ferito. L’uomo racconta come sono andate a finire le cose. I musicisti sono stati trasportati lungo strade sterrate in un ranch abbandonato chiamato Estacas, nel comune di Mina a 90 chilometri da Monterrey lungo l’autostrada Monclova. Sono stati allineati e colpiti ripetutamente al volto e al corpo. Sono stati STORIE ■ TRUCIDATI DOPO AVER SUONATO IN UN sommariamente interrogati ed è stato loro chiesto se appartenevano a qualche cartello criminale. I rapitori volevano sapere i loro rapporti con la criminalità locale. Poi, uno dopo l’altro, sono stati uccisi. Un’esecuzione di massa. I loro corpi sono stati poi abbandonati in un pozzo. Lunedì 28 gennaio la polizia si reca nel luogo indicato dal testimone e trova ammassati uno sull’altro 17 cadaveri. Presentano ferite d’arma da fuoco, segni di tortura. Molti di loro indossano ancora una maglietta rossa con la scritta «Il poderoso Kombo Kolombia». Vengono uno a uno riconosciuti. Tredici musicisti e quattro uomini del loro staff tecnico. di GUIDO MARIANI

LA CAPITALE ROCK di R. PE. Dopo la chiusura in bellezza dell’edizione 2012 con il concerto dei Radiohead, gli organizzatori del festival Postepay Rock in Roma hanno annunciato la line up definitiva (ma alla quale potrebbero ancora aggiungersi altri nomi) dell’edizione 2013, che - a leggere gli artisti che vi participeranno - sembra

si è già occupato di questo fenomeno nell’articolo «Narcocorrido: canta e muori» del 27 giugno 2009). Lo spensierato ritmo delle polke latino-americane celebra avventure di sicari, spacciatori e boss sanguinari. È la prosecuzione del mito di Pancho Villa, soltanto che qui la lotta politica è diventata scontro senza pietà per il controllo del mercato della cocaina. Gli interpreti musicali della scena del Narcocorrido frequentano il mondo criminale, spesso ne sono organici. Suonano a party organizzati da boss o sicari (le «narco-fiestas»), talvolta vengono pagati per scrivere su commissione ballate celebrative per i cartelli. Guadagnano bene, sono eroi locali. «In alcuni stati del Messico i ragazzi imparano prima le parole dei corridos che quelle dell’inno nazionale», ha detto un interprete di questo genere. Ma il mondo del crimine non perdona e molti di loro diventano bersagli di un conflitto che non conosce limiti. La mattanza di

LOCALE DI NUEVO LEON

Canta e muori. La tragica fine dei Kombo Kolombia

essere in assoluto la più prestigiosa di sempre. Il festival, che si dipana nell’arco di due mesi esatti e che si svolgerà come al solito all’interno dell’ippodromo delle Capannelle, prende il via con una preview all’Orion di Ciampino il 29 maggio con l’atteso ritorno dei My Bloody Valentine, e proseguirà poi a giugno con i concerti dei Green Day + All Time Low (il 5), The Killers + Stereophonics (l’11), Toto (il 21),

Korn + Bullet for My Valentine + Love&Death (il 25), e a luglio con Iggy & The Stooges (per la prima volta a Roma, il 4), Max Gazzè + Il Cile (il 5), Rammstein + Dj Joe Letz (il 9), Arctic Monkeys + The Vaccines + Miles Kane (il 10), Bruce Springsteen and E Street Band (nella foto, l’11), Mark Knopfler (il 13), The Smashing Pumpkins (unica data italiana) + Mark Lanegan Band (il 14), Atoms for

artisti musicali negli ultimi anni è andata intensificandosi. Secondo lo scrittore Edmundo Pérez, autore del libro Que me entierren con narcocorridos («Possano seppellirmi con i narcocorridos») più di 50 musicisti di questo genere musicale sono stati vittima negli ultimi anni delle rappresaglie dei narcos. L’anno scorso Rodolfo Gomez Valenzuela, leader di un gruppo che portava addirittura il nome di una fazione, i Cartel del Sinaloa, è stato ucciso a casa sua. Cinque membri di una formazione chiamata La Quinta Banda sono stati massacrati sul palco mentre suonavano in un locale a Chihuahua, una delle loro ballate più famose era intitolata El corrido de la linea e celebrava le gesta eroiche del Cartello di Juarez. Il cantante dei Los Ciclones del Arroyo è stato rapito e gambizzato per essersi rifiutato di cantare una canzone che gli era stata richiesta. Ma è questo l’aspetto forse più terrorizzante della strage dei Kombo Kolombia, l’orchestra di vallenato non faceva parte del mondo del Narcocorrido e non era affiliata con il mondo criminale. Le loro canzoni erano brani popolari da ballo, senza riferimenti alle faide armate. Il tastierista Heider Cuéllar, 24 anni, era l’unico del gruppo di nazionalità colombiana. «Non ha mai ricevuto minacce, non ha mai avuto timore per le sue esibizioni», ha detto suo padre dopo la strage. La madre del percussionista Ricardo Verduzco Sáenz, 27 anni, ha assicurato alla stampa messicana: «Mio figlio non è mai stato coinvolto in nessuna attività criminale. Era una persona sana». La madre della seconda voce del Kombo, Saúl Reynoso Sáenz, 30 anni, ha però dichiarato che il figlio sembrava preoccupato e stava pensando di abbandonare la musica. Le indagini hanno rivelato che la formazione si esibiva in una zona di guerra, dove ogni locale, ogni festa, ogni serata è controllata da qualche boss o da qualcuno in affari con un cartello. Lo stato del Nuevo Leon è al centro di una faida spietata tra il Cartello del Golfo e i loro rivali i Los Zetas. I Los Zetas hanno scalato la gerarchia criminale messicana con azioni spietate e tecniche di guerriglia. Il gruppo è stato fondato nel 1999 da alcuni militari appartenenti ai corpi speciali delle forze armate messicane che decisero di mettersi al servizio dei ricchi e potenti boss della cocaina. Scelsero di diventare il braccio armato del Cartello del Golfo. Arricchitisi e diventati potentissimi, i capi dell’organizzazione hanno deciso però che era arrivato il momento di mettersi in proprio e nel febbraio 2010 hanno dichiarato guerra ai loro vecchi datori di lavoro del Cartello del Golfo. Da quel momento sono In grande i Kombo Kolombia; sopra diventati la più spietata macchina gli spartiti del gruppo, il locale La Carreta criminale del mondo, compiendo in cui si erano esibiti, la ricerca e il recupero stragi senza precedenti come il dei corpi, il presunto mandante, massacro di più di 200 abitanti del un momento dei funerali villaggio di San Fernando nel 2011. Le indagini successive all’assassinio dei membri del Kombo Kolombia hanno chiarito gli assurdi contorni della vicenda e chiamato in causa questa sanguinosa faida. Alcune settimane dopo la strage, la polizia dello stato del Nuevo Leon arresta un fiancheggiatore dei Los Zetas, Orlando Eruviel Garza Luna. Il suo compito è quello di sorvegliare i luoghi dei crimini e le basi da cui partono le azioni. Sotto torchio parla e rivela i particolari della strage. Ha visto i criminali che torturavano e uccidevano con un colpo di grazia i componenti del gruppo. L’unica colpa del Kombo Kolombia era stata quella di essersi esibiti in locali che appartenevano al Cartello del Golfo ed aver, a quanto pare, ringraziato gli organizzatori dei concerti che erano affiliati o collaboratori del clan. Il pentito ha pagato con la vita il suo racconto ed è stato ucciso in carcere lo scorso 10 aprile. Ma ora gli investigatori hanno in mano un nome, l’ideatore della strage dei musicisti sarebbe José Isidro Cruz Villarreal detto El Pichilo, il capo degli Zetas nell’area di Monterrey. Villareal è latitante dal febbraio 2012, quando scappò da un carcere del Nuovo Leon con altri 29 detenuti, non prima però di aver scatenato una rivolta e aver ucciso più di 40 reclusi vicini al Cartello del Golfo. I 17 membri del Kombo Kolombia sono stati ammazzati per una vendetta trasversale, per aver cantato davanti a un pubblico di nemici. In una zona di guerra dove la violenza è legge, far divertire le persone può essere una colpa e cantare davanti alle persone sbagliate è un errore fatale.

ALIAS 11 MAGGIO 2013

Peace + Owiny Sigoma Band (il 16), Ska-P (il 18), Deep Purple (il 22), Daniele Silvestri (il 25), Neil Young & Crazy Horse + Devendra Banhart (il 26), Sigur Rós (il 28) e Blur (il 29). Tra le iniziative collaterali da segnalare poi il Postepay Rock in Roma Factory, una «competition» per band emergenti che darà la possibilità di esibirsi in uno spazio apposito all’interno della rassegna. Per informazioni: postepayrockinroma.com.

ULTRASUONATI DA STEFANO CRIPPA JESSICA DAINESE LUCIANO DEL SETTE VIOLA DE SOTO SIMONA FRASCA GUIDO MICHELONE ROBERTO PECIOLA

ELECTRIC SARAJEVO MADRIGALS (Autoprod.) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Sarajevo fu uno dei teatri dove andarono in scena gli innumerevoli orrori che, tra il 1991 e il 1995, dissolsero nel sangue l’ex Jugoslavia. Gli Electric Sarajevo erano allora adolescenti inorriditi e spaventati dalle immagini tv delle stragi e delle pulizie etniche. Musicisti oggi, hanno voluto dedicare un album a quegli anni feroci. Madrigals si muove tra atmosfere scure, dominate da elettronica suggeritrice e suggestiva e da echi post rock. Afferma il gruppo: «il rifugio antibomba è l’amore». Utopia, ma può far bene crederci con la buona musica (l.d.s.)

JAZZ

Il talento obliquo di Claudio Pacini Claudio Pacini, chitarrista e compositore, è uno di quei talenti nascosti che in Italia abbondano, nei piccoli studi che producono grande musica. Lui è attivo presso il Maccaja di Pivio e Aldo De Scalzi, e (anche) lì ha affinato un talento mercuriale e magnificamente ondivago, messo a fuoco in quest'opera d'esordio, Lettere (Creuza). È un disco che sembra, in epitome, una potente colonna sonora: temi che non si dimenticano, ospiti di valore dal jazz e dalle musiche senza etichette. Coordinate che inquadrano anche Alisachni (Working Bee), del chitarrista e compositore Marocchi, attorniato da eccellenti compagni. Alisachni, il sale che resta sugli scogli, è metafora per indicare il residuo culturale tutto sostanza lasciato a decantare, dopo aver transitato nel mare che culla le sorti umane. La musica, quindi, come fonte di connessioni: dal tango obliquo al blues, dagli echi balcanici a quelli morriconiani e della stagione jazz rock. La varietà, l'inventiva, il dono strumentale sulle corde (chitarra classica, battente, flamenca) anche in Errando (Rara) del compositore Giovanni Seneca: al quinto disco, una sonora riconferma. (Guido Festinese)

ON THE ROAD

THE KNIFE SHAKING THE HABITUAL (Rabid/Coop Music) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Di che pasta è fatto il nuovo lavoro del duo svedese lo si intuisce già dall'apertura, A Tooth for an Eye, dove l'elettronica si fonde al tribalismo, ma ancor più nelle seguenti Full of Fire e A Cherry on Top. Brani lunghissimi, stranianti, acidi, che poco hanno di elettropop e molto di sperimentazione. A volte sembra di aver a che fare con i Dead Can Dance che duettano con i Suicide e la Björk più folle. L'album fa onore al titolo e smuove tutto ciò che siamo abituati a pensare di un certo genere. E più lo ascolti più scopri finezze e ne apprezzi il valore! (r.pe.) LYRES A PROMISE IS A PROMISE (Munster/Goodfellas) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Boston negli Ottanta è un gran posto. Band seminali come Dmz, The Real Kids e Lyres danno il senso di come si suonasse nella città culla di un punk rock «britannizzato» con energiche dosi psych garage. L’album è la terza ristampa dal catalogo della Ace of Hearts, anno 1988. Il terzo lp in studio dei Lyres. È un bel mix di cose varie, brani originali, live (Touch), cover (Jagged Time Lapse di Marc Bolan, The Witch dei Sonics). L’aggiunta qui di tre bonus a rimarcare l’attitudine freak beat della leggendaria garage band. (s.fr.) LUIGI MARTINALE ARIETIS AETAS (Albóre Jazz) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Quarto album con un’etichetta giapponese per il pianista torinese, che in perfetta solitudine negli studios di Bricherasio, praticamente sotto casa, registra un album notevole lasciando, dopo i primi due brani a firma propria (la title track e The Absynth) che siano ben otto standard a parlare, mentre si congeda con un bonus track (Aka Tombo) della tradizione nipponica. E dunque attraverso Strayhorn, Carmichael, Jobim, Van Heusen, Martinale recupera le qualità di improvvisatore che, proprio nel sottolineare talune celebri melodie, riesce a liberare un pathos viscerale, dolente, cantabile. (g.mic.)

DI GUIDO FESTINESE

PSICHEDELIA

L'apoteosi dello psych rock! Siete disposti a lasciarvi trasportare a fine anni Sessanta? E allora non vi serve altro che affidarvi alla musica dei Black Angels, e, nello specifico, alla loro ultima fatica, Indigo Meadow (Blue Horizon). Non che nei precedenti capitoli della loro carriera il gruppo texano non abbia già dato prova concreta della loro predilezione per certi suoni saturi e «onirici» (specie in Directions to See a Ghost), ma in questo nuovo lavoro lo ribadiscono con forza, certamente maggiore rispetto al precedente, splendido peraltro, Phosphene Dreams. Qui la lezione Jefferson (Love Me Forever) si scontra a ripetizione con riff hard rock che avrebbero potuto creare Tony Iommi e Ozzy Osbourne (Evil Things, Don't Play with Guns). Per non parlare dei «tributi» pagati ai Floyd barrettiani (The Day, War on Holiday), e via dicendo. Fatto sta che Indigo Meadow è un gran disco! Per rimanere in tema, dalla California ecco i Feeding People, formazione guidata dalla giovanissima vocalist Jessie Jones e dal chitarrista e autore Louis Filliger. Island Universe (Innovative Leisure/Goodfellas) è un album che ha nel rock psichedelico la matrice principale, con una discreta attitudine post punk. (Roberto Peciola)

Alla seconda prova, il cantautore ligure Massimo Schiavon conferma buone doti di scrittura, sapendo anche gestire il flusso di canzoni in una sorta di «concept»: avviene in Piccolo blu (Incipit/ Egea), dodici brani legati dal tema del colore. Ospite il grande chitarrista Armando Corsi, e un regalo finale in coda: I passi di una donna, una delle ultime canzoni di Enzo Jannacci. Un talento fresco e ironico, con disincanto, e al contempo una non temuta fragilità, è quello di Carolina Bubbico, in origine «one girl band», e ora alla prima uscita ufficiale dopo aver maturato anche esperienze da attrice e autrice di colonne sonore. La musica in Controvento (Workin' Label/Goodfellas) è un funk jazz cantautorale aggraziato e ammiccante, occasionalmente intessuto di dream pop, non particolarmente originale, ma sempre in equilibrio. È al terzo lavoro invece il pescarese Giuliano Clerico. In La diva del cinemino (Zimbalam) dieci brani, con testi spesso sorprendenti, e note in bilico fra smooth jazz, country rock e rock classico, e storicizzate esperienze cantautorali anni Settanta: senza sterile filologia. (Guido Festinese)

Strade già percorse che brillano di luce propria. Solo a tratti illuminante quella dei Survival che esordiscono con un disco omonimo per Thrill Jockey. Il trio composto da navigati musicisti si muove tra sonorità heavy rock e alternative metal. Tanto volume da sfondo a un cantato corale continuo, quasi ipnotico. Che però riesce ad essere evocativo quanto l'arrangiamento musicale proposto solo in Freedom 3 e Triumph of the Good. Andrà meglio la prossima. Brillano invece in maniera convincente e decisa i Ventura, con il loro Ultima Necat per Africantape. Il trio svizzero che arriva da Losanna, cammina in territori che rimembrano le Spore dei nostrani Marlene, aneliti God Machine e storie soniche. Il tutto in versione 2.1. Bravi davvero: segnaliamo Little Wolf e Intrudeer. Luminescente quasi ad essere suggestivo il quartetto inglese Wolf People che pubblica il secondo disco Fain (Jagjaguwar/Goodfellas). Centro pieno. Sprazzi di Canterbury si inframezzano tra stoner e Groundhogs. La voce di J. Sharp, esaltata da una band validissima, vola con tratti leggiadri. Tra le perle di questo disco scegliamo Hesperus e All Returns. (Gianluca Diana)

NORTICANTA TRA L'INCUDINE E L'AURORA BOREALE (Seahorse Recordings/Audioglobe) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Le canzoni, in italiano, spaziano dal rock con lontani sfondi psichedelici alle ballate rock, sperimentando le più disparate sonorità. I testi sono terreni instabili, in perenne disequilibrio tra le tensioni dell’essere umano e i suoi desideri di rivalsa ed emancipazione. Il disco assume i toni dell’aurora boreale e come essa nasce nel freddo ma trae e sprigiona calore dai suoi colori, dalla sua essenza. (v.d.s.)

ORCHESTRA DI PIAZZA VITTORIO L'ISOLA DI LEGNO (Parco della Musica/Egea) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Per festeggiare i dieci anni di attività, l'orchestra nata nel quartiere multietnico per eccellenza capitolino, l'Esquilino, si regala una raccolta registrata in presa diretta all'Auditorium Parco della Musica di Roma. Orchestrato con perizia da Leandro Piccioni, è un concentrato di (belle) canzoni dove si respira creatività e voglia di suonare, declinata in tutte le lingue del mondo. (s.cr.)

ROKIA TRAORÉ BEAUTIFUL AFRICA (Ponderosa Music & Art) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Rokia Traoré afferma di usare strumenti tradizionali africani ma di scrivere canzoni moderne, e l'ascolto di Beautiful Africa (prodotto da John Parish), lo conferma. Uno stile contemporaneo e personale tra la musica maliana e il rock blues Usa. Nel disco troviamo brani rockeggianti (la title-track) e ballate lievi (Sarama), testi autobiografici, ma anche sulla crisi politica e umanitaria che sta vivendo il suo paese. Emozionante. (j.da.)

A CURA DI ROBERTO PECIOLA CON LUIGI ONORI ■ SEGNALAZIONI: [email protected] ■ EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ

Danko Jones

Omar Sosa

La formazione canadese si rifà ai suoni dell’hard rock. San Alberto di Zero Branco (Tv) SABATO 11 MAGGIO (MAXIMUM FESTIVAL)

Il pianista e compositore, di origine cubana, è in tour in Italia per presentare il suo ultimo lavoro, Eggun. The Afri-Lectric Experience. Con Sosa suonano Joo Kraus (tromba), Leandro Saint-Hill (sax, flauto), Childo Thomas (basso elettrico) e Marque Gilmore (batteria). Roma LUNEDI' 13 MAGGIO (AUDITORIUM

Unica data, già sold out, per quella che è forse la più lenta delle «slowcore» band. Bologna SABATO 11 MAGGIO (TEATRO ANTONIANO)

Swim Deep Una giovane band indie pop rock inglese. Con loro anche The 1975. Torino SABATO 11 MAGGIO (ASTORIA) Roma DOMENICA 12 MAGGIO (BLACKOUT)

Pulp Una data per la band brit pop. Vimercate (Mb) SABATO 18 MAGGIO (ACROPOLIS)

Two Gallants Il duo di San Francisco ripercorre la strada degli storyteller americani. Legnano (Mi) VENERDI' 17 MAGGIO (CIRCOLONE)

Ólafur Arnalds Un nome ormai affermato della prolifica scena musicale islandese e di quella neoclassica internazionale. Ravenna GIOVEDI' 16 MAGGIO (ALMAGIA') Roma VENERDI' 17 MAGGIO (CHIESA METODISTA EVANGELICA) Padova SABATO 18 MAGGIO (MACELLO)

ALTERNATIVE

Massimo Schiavon, Dalla Svizzera concetti a colori con Ventura

Il trio di Brighton, dalle sonorità dark wave anni Ottanta, torna in Italia. Marina di Ravenna (Ra) SABATO

Low

CANTAUTORI

Il sesto senso dei Black Angels

Esben & The Witch

11 MAGGIO (HANA-BI)

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Little Annie & Baby Dee L'incontro musicale tra le due icone del mondo dell'arte alternativa. Catania DOMENICA 12 MAGGIO (PICCOLO TEATRO EFESTIADE)

11 MAGGIO (SONAR)

Entra nel vivo la progettuale rassegna che si intitola West Coast and the Spanish Tinge. Il cartellone prevede il New Gary Burton Quartet; i Rusconi; Enrico Pieranunzi Trio; We Three; il duo Gianluca Petrella/Giovanni Guidi; Pharoah Sanders Quartet; Abraham Burton Quartet; l’Orchestra del Teatro Olimpico diretta da Pedro Javier González e con E. Pieranunzi ospite; Giuseppe Acquaviva; Jim Black & AlasNoAxis; il duo Al Di Meola/Gonzalo Rubalcaba; Istanbul Session; Mike Stern & Bill Evans Band; Ernst Reijseger; Enrico Rava Quintetto; Balanescu Quartet. Vicenza DA DOMENICA 12 A SABATO

Sacri Cuori

18 MAGGIO (TEATRO OLIMPICO; JAZZ CAFÉ TRIVELLATO; BAR BORSA)

Il post rock catartico del progetto di Antonio Gramentieri. Padova VENERDI' 17 MAGGIO (MACELLO)

Ravenna Jazz

PARCO DELLA MUSICA)

Pordenone MARTEDI' 14 MAGGIO (TEATRO GIUSEPPE VERDI)

Casalmaggiore (Cr) MERCOLEDI'

Marky Ramone

15 MAGGIO (TEATRO COMUNALE)

L’ex batterista dei Ramones dal vivo con il suo gruppo. Cisano Bergamasco (Bg) VENERDI'

Afterhours

17 MAGGIO (AREA FESTE)

Uriah Heep Il ritorno di una della band storiche dell’hard rock britannico anni Settanta. Trezzo d'Adda (Mi) SABATO 11 MAGGIO (LIVE) Padova DOMENICA 12 MAGGIO (GRAN TEATRO GEOX)

Dan Deacon L'artista statunitense propone un'elettronica sperimentale sull'orlo della follia... Milano DOMENICA 12 MAGGIO (LA SALUMERIA

La rock band milanese torna ad esibirsi nella dimensione dei club. Colle Val d'Elsa (Si) SABATO

Teardo&Bargeld Il musicista friulano Teho Teardo e l'artista tedesco Blixa Bargeld insieme per presentare l'album di canzoni Still Smiling. Bologna SABATO 11 MAGGIO (SENZA FILTRO)

DELLA MUSICA)

Roma Folk Festival

Roma LUNEDI' 13 MAGGIO (CIRCOLO

La prima edizione della rassegna ospita Riccardo Sinigallia, Discoverland (Roberto Angelini e Pier Cortese), Filippo Gatti, Leo Pari, Mammoth e altri.

DEGLI ARTISTI)

Madonna dell'Albero (Ra) MARTEDI' 14 MAGGIO (BRONSON)

Roma SABATO 11 MAGGIO (LANIFICIO 159)

Vicenza Jazz New Conversations

Il festival si conclude con l’esibizione del tenorsassofonista Joshua Redman (sarà al Blue Note di Milano il 13) insieme ad Aaron Goldberg (piano), Reuben Rogers (contrabbasso) e Gregory Hutchinson (batteria). Ravenna DOMENICA 12 MAGGIO (TEATRO ALIGHIERI)

Roma a tutto jazz Nella capitale interessanti concerti in luoghi variegati: il Majarìa Trio con Eleonora Bordonaro al Parco della

Musica; il collettivo Franco Ferguson organizza un «Improring» con i colleghi di Mediterraneo Radicale al Forte Fanfulla; gli Ibrido Hot Six di Antonio Apuzzo sono ospiti di «Jazz Standards» curato da Gerlando Gatto alla Casa del Jazz; O’-Janà (Alessandra Bossa e Ludovica Manzo) si incontrano con Michele Rabbia per l’Iceberg Festival. Roma MERCOLEDI' 15 E GIOVEDI' 16 MAGGIO (VARIE SEDI)

Crossroads Per «Correggio Jazz» si esibiscono gli Area International Popular Group (Patrizio Fariselli, Paolo Tofani, Ares Tavolazzi, Walter Paoli); Francesco Ponticelli Quartet (Dan Kinzelman, Enrico Zanisi, F. Ponticelli, Enrico Morello) e il trio del pianista Zanisi con Joe Rehmer e Alessandro Paternesi. Correggio (Re) DA GIOVEDI' 16 A SABATO 18 MAGGIO (TEATRO ASIOLI)

Triennale Bflat Festival La Triennale di Milano e l’associazione culturale Fried Bananas organizzano una rassegna in tre serate con doppi concerti. Partecipano Alberto Tafuri Trio, Monday Orchestra con Mauro Negri, Manitou Experience Trio (Furlan, Ricci, Cattaneo), la Monday Orchestra con ospite Michael Blake e Franco Ambrosetti, Antonio Faraò Trio. Milano DA SABATO 11 A LUNEDI' 13 MAGGIO (TEATRO DELL’ARTE)

UNA VOCE È PER SEMPRE Molto probabilmente un dio benigno dei watt ha concesso a uno dei più grandi rocker di tutti i tempi uno spicchio di immortalità terrena: la voce. Chi ascolti oggi la voce di Neil Young, più vicino alla settima decade che alla sesta e si ricordi solo dei tempi di Harvest e altre dolci melopee californiane con l'olezzo della cannabis a condire il tutto rimarrà piuttosto sconvolto: Neil Young ha esattamente la stessa voce dei suo vent'anni gloriosi. E dire che ne fatte di tutte i colori per perderla e ridurla a uno scheletro, come quella, diciamo, di un Bob Dylan. Senonché fa uno strano effetto immaginare la cadenza lievemente nasale del parlato e cantato del Nostro mentre pestellava sui tasti per scrivere Waging Heavy Peace, la sua autobiografia che da noi esce con tutt'altro, assai più banale titolo, Il sogno di un Hippy (Feltrinelli). Lo hanno tradotto (splendidamente) Marco Grompi e Davide Sapienza, due che non si lasciano infinocchiare dalle trappole dello slang. È un libro torrenziale, caotico, ostico e accessibile al contempo. Una miniera di informazioni sparse in una montagna di faccende che lasciano perplessi. Si apprenderà però che il nostro rocker non beve e non fuma più erba, che ha una mania compulsiva per i trenini, le auto d'epoca americane lunghe come la noia, che è epilettico ed ha avuto un aneurisma, che mentre le sue giornate le passa come un gentil signore di campagna, tra una pausa e l'altra degli incendi rock sui palchi cerca un sistema per conciliare il gelo del digitale compresso con il calore sinuoso del vecchio analogico. Nel mezzo tante belle storie di musica su un periodo irripetibile, e di cui lui è tutt'altro che svaporata coda.

¶¶¶ IL PERIODO è lo stesso di Janis Joplin, che se n'è andata imbottita d'alcol e di chimica cattiva nell'ottobre del 1970. All'inquieta e intemperante signora Sepolta viva nel blues, come recita l'efficace sottotitolo dedica un libro, il terzo in Italia, (Imprimatur Editore) la romana Clara Baldi, grande appassionata della vocalist texana che sembrava la versione rock di Aretha Franklin. Bel testo, Janis Joplin: asciutto, essenziale, pieno di informazioni, e con pochi errori da correggere (il Minstrel non è un genere dei primi del Novecento, è precedente). Una vita bruciata e bruciante, quella della Joplin, grande solitudine da esorcizzare - e gli amanti si sono chiamati, anche, Leonard Cohen, Jimi Hendrix, Jim Morrison) e troppi parassiti profittatori intorno, anche e soprattutto negli anni del sogno freak. Un'esistenza che sembra un calvario acido, riscattata da quanto nessun abisso temporale potrà sporcare: la sua musica intrisa di Kozmic Blues.

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ALIAS 11 MAGGIO 2013

INTERVISTA AL GRAFICO E ARTISTA CHE HA ATTRAVERSATO IL ’900

CARMI Galleria del Deposito, inaugurazione della mostra di Miroslav Sutej, febbraio 1964 (foto Ugo Mulas); Eugenio Carmi e Kiky Vices Vinci alla Mostra «Latte Litografate», 1964 (by Publifoto), Genova; La Galleria del deposito, Boccadasse (foto Ugo Mulas)

di NICOLA BERTASI

●●●Cinquant’anni fa nasceva a Genova la Galleria del Deposito: una storia legata alle avanguardie artistiche degli anni sessanta, dove si sono incrociate le diverse esperienze di pittori, fotografi, grafici ed editori uniti da una certa idea democratica della fruizione delle opere d’arte. La galleria vide la luce il 13 settembre del 1963 a Boccadasse, un piccolo borgo di pescatori dentro la città con le reti da riparare accantonate vicino alle barche. Non esistevano ancora i turisti alla ricerca del buon gelato o dello scorcio pittoresco da fotografare con il cellulare; il borgo viveva del mare e con il mare. C’erano gabbiani, mamme che inseguivano bambini capricciosi, biancheria stesa alle finestre e affitti poco cari. Non sembra proprio questa la migliore posizione dove aprire una galleria d’arte, così lontano dai vialoni borghesi. E invece non sarebbe potuta nascere che lì, lontano dal centro. Eugenio Carmi e sua moglie Kiky Vices Vinci, insieme a un gruppo di amici riunito in cooperativa - c’erano Bruno Alfieri, Kurt Blum, Flavio Costantini, Germano Facetti, Carlo Fedeli, Emanuele Luzzati, Achille Perilli - decisero di riprendere in mano un vecchio magazzino utilizzato come deposito di carbone e creare una galleria. La prima mostra inaugurò il 23 settembre del 1963 con il titolo Sedici quadri blu. Vi sono esposte opere di Chagall, Capogrossi, Max Bill, Dorazio, Fontana, Sam Francis, Vasarely. Fu questa la «partenza». Dal 1963 al 1968 vengono allestite 38 rassegne e chiunque fosse vicino alle avanguardie artistiche e fosse passato da Genova, sicuramente avrebbe fatto un salto a Boccadasse. Eugenio Carmi, oggi 93enne, ne parla volentieri; conserva di quegli anni un po’ magici il ricordo di un’esperienza straordinaria. ●Carmi, come funzionava la galleria del Deposito? La nostra attività era frenetica: la galleria ogni mese inaugurava una mostra personale e inoltre produceva opere multiple e serigrafie, in genere di artisti amici italiani e stranieri convinti, come noi, dell’importanza della nostra iniziativa. Tutti aderirono alla richiesta di fornire un originale senza ricevere un compenso e in

cambio noi ci impegnavamo a vendere a basso prezzo le opere multiple ricavate dal loro originale, rispettando la regola fondamentale di una cooperativa: reinvestire in nuove opere, non incassare i guadagni. Gli artisti li conoscevo quasi tutti ed è stata proprio questa amicizia e vicinanza a offrirci l’opportunità di averli

facilmente alla Galleria del Deposito. ●E il quartiere di Boccadasse come rispondeva alle vostre iniziative ? Boccadasse è un vecchio borgo alla periferia di Genova e, come nei piccoli paesi, tutti si conoscono. Noi conoscevamo tutti gli abitanti. Ricor-

Boccadasse, l’arte tra le reti dei pescatori do con nostalgia gli amici pescatori, in particolare Nanni. Lui la sera, prima di uscire in mare per la pesca, ruotava il dito indice umido e sentiva la direzione del vento. Se era buono, usciva con la sua barca e al mattino seguente sua moglie veniva a venderci il pesce appena pescato. Cose di altri tempi. Genova attraversava un periodo di grande effervescenza culturale. Nascevano le canzoni di De André, tra i vicoli del centro storico mentre teatri come lo Stabile e la Borsa di Arlecchino proponevano una programmazione di alto profilo. La Superba si distingueva anche per la sua attività editoriale: la rivista Marcatré, poi riferimento critico della neoavanguardia italiana, è stata creata proprio sotto lo sguardo vigile

della Lanterna. C’era il boom economico e l’Italsider di Gian Lupo Osti svolgeva un ruolo trainante, coinvolgendo artisti nell’idea di reinvestire soldi nella cultura. C’era il porto affacciato sul Mediterraneo, la punta di quel triangolo industriale che faceva immaginare un futuro di crescita infinita, quasi come se gli anni sessanta fossero soltanto una premessa a un futuro dove tutto sarebbe andato meglio. ●Carmi, come sta l’arte oggi? «Il mondo è cambiato. Oggi tutto questo è un ricordo, è finito il tempo della speranza, è arrivata la tecnologia a trasformare la nostra vita, con aspetti positivi ma anche negativi, soprattutto per il grande abbandono del nostro rapporto con la natura. Oggi i bambini escono dal grembo della madre col telefonino in mano, nascono già invasi di tecnologia. Anche l’arte è in crisi, ha perso l’identità che l’ha accompagnata nei millenni, non ci consente di riconoscere l’identità dell’autore. Non so bene cosa dire, ma credo che questo rispecchi la grande crisi del mondo che non è, come tutti credono economica. È una crisi di valori spirituali, solo fra venti o trent’anni potremo giudicare cosa sia accaduto. In particolare, la situazione politica ●●●Si terrà oggi a Genova l’incontro «L’esperienza del Deposito» nella sala della Polisportiva Vignocchi, via Aurora 2 , Genova Boccadasse, alle 16. Intervengono Germano Beringheli, Eugenio Carmi, Gillo Dorfles, Carlo Fedeli, Gianluca Martinelli, Paolo Minetti, Sandro Ricaldone ●●●

«La situazione politica? È fra le peggiori, chi ci ha governato negli ultimi vent’anni non conosce la bellezza e perciò non ha nessuna idea dell’Italia»

italiana è fra le peggiori, soprattutto perché chi ci ha governato negli ultimi vent’anni non conosce la bellezza e perciò non conosce l’Italia. Troppi italiani non hanno ancora capito che la bellezza e la cultura rendono molto più del petrolio». * I «Multipli del deposito» saranno in mostra nella sede storica del Deposito (piazza Nettuno 3R, Genova Boccadasse). Le fotografie relative alla galleria saranno esposte nella sala della Pro Loco di Boccadasse, in via Aurora 8R. Si potranno vedere da oggi fino al 19 maggio (orari venerdì, sabato, domenica – ore 17,00-22,00).

BIOGRAFIA

La geniale cartellonistica e l’acciaio cibernetico Eugenio Carmi nasce a Genova il 17 febbraio 1920. Adolescente, emigra in Svizzera dopo la promulgazio ne delle leggi razziali, dove studia chimica. Rientrato a Genova dopo la guerra, si sposa con Kiky Vices Vinci. Nel ’47 è allievo di Casorati a Torino, poi torna a Genova. Carmi è già orientato verso una dimensione astratta, diversa da quella concreta e pragmatica della grande industria siderurgica in cui, nel 1956, è chiamato da Gianlupo Osti, manager lungimirante. Lì, nella Cornigliano/Italsider, Carmi si rivela brillante art director e consulente di immagine. Memorabile la sua cartellonistica antinfortunistica Nel ’63, con la moglie Kiky e 7 amici, fonda il Gruppo Cooperativo di Boccadasse e apre la Galleria del Deposito, coinvolgendo Max Bill, Capogrossi, Alviani, Dorazio, Baj, César, Restany e Gillo Dorfles. Negli anni 70 è a Milano, lavora per la Rai, illustra le fiabe di Eco e si moltiplicano le sue personali e collettive fino agli anni Novanta. Sperimentantore instancabile, lavora soprattutto con acciaio e ferro e darà luogo a macchine cibernetiche interattive (influenzate da luce, calore, rumori).

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