Agostino Di Scipio: TECNOLOGIA DELL’ESPERIENZA MUSICALE NEL NOVECENTO
April 3, 2017 | Author: Stefano A E Leoni | Category: N/A
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Rivista Italiana di Musicologia – vol.XXXV – 2000 – NN.1-2. Firenze, Leo S.Olschki Editore 2001
TECNOLOGIA DELL’ESPERIENZA MUSICALE NEL NOVECENTO Agostino Di Scipio n.b. Questo testo è una copia della bozza preliminare dell’articolo dato alle stampe dall’editore. Esso viene reso qui disponibile in formato elettronico a solo uso personale. I diritti di riproduzione, di uso pubblico, e la responsabilità sui contennuti sono dell’autore.
Introduzione Uno dei tratti più significativi del Novecento musicale riguarda lo sviluppo dei linguaggi e delle estetiche in rapporto alla tecnica. In effetti già l’idea tutta novecentesca di “artigianato musicale”, come categoria riferita alle soluzioni pratiche interne al lavoro di composizione e di esecuzione musicale, accoglie il senso di una tradizione consolidata nei modi stessi del far musica, nelle tecniche del lavoro musicale prim’ancora che in questioni di linguaggio musicale. Tuttavia, decisivo è stato anche e soprattutto il rapporto delle specifiche tecniche musicali con la razionalità e il sapere della tecnica in generale – con la “tecnologia”. Nel corso del Novecento la musica occidentale non solo ha sviluppato una crescente consapevolezza teorica delle proprie tecniche tradizionali, ma si è spesso anche assunta la responsabilità delle proprie tecnologie. Con ciò, essa sembra indicare che uno degli aspetti essenziali dell’esperienza dell’arte, nel contesto storico generale, consiste nel definire le condizioni della propria esistenza in un contesto di sempre crescente razionalità tecnica. Si pensi, per es., all’esperienza della “musica elettronica”. La quale, pur non essendo la sola ad articolare in profondità la questione della tecnica, ne ha però tematizzato radicalmente gli aspetti peculiari sia rispetto al più ampio contesto socio-culturale, sia rispetto ad elementi specifici di teoria della musica, dando vita inoltre ad un repertorio emblematico di varie tensioni intellettuali che hanno attraversato il secolo. Come ha scritto Luigi Rognoni nel 1956, il significato storico della musica elettronica va compreso come «una domanda rivolta al problema della tecnica in generale [...] che investe l’essenza umana del suo stesso operare, prima di essere un problema di linguaggio specifico».1
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Luigi Rognoni, “La musica ‘elettronica’ e il problema della tecnica”, in Fenomenologia della musica radicale (Garzanti, Milano, 1974), p.34. Testo riassuntivo di due conferenze tenute Darmstadt nel 1956.
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Le problematiche tecnologiche possono apparire piuttosto particolari, o anche specialistiche, e tuttavia costituiscono materia estremamente articolata e densa di implicazioni. Nell’affrontarle, a mio avviso occorre guardare alla pluralità dei fenomeni e delle esperienze, provando a comprenderne il significato storico insieme musicale e tecnico – e cioè “tecnico in quanto musicale” (far musica implica sempre la conoscenza di un ambito di azioni possibili in vista di certi scopi) e “musicale in quanto tecnico” (ogni azione tecnica si offre ad un giudizio che mette in rapporto, cioè armonizza, idealità e materialità, potenzialità e attualità). Eccoci allora ad un primo chiarimento, in base al quale “tecnologia della musica” indica non tanto un insieme di tecniche e di strumenti (una configurazione di oggetti tecnici con le loro regole d’uso e di funzionamento), o la logica delle premesse funzionali e materiali della loro costruzione (il sostrato dei componenti di base le cui proprietà fisiche rendono possibili molteplici campi applicativi), quanto una più ampia forma di studio e riflessione vòlta a comprendere l’elemento tecnologico – cioè relativo alla comprensione del fare – che è essenziale ad ogni agire musicale, e artistico in genere. La situazione attuale e futura della cultura musicale appare, oggi (all’inizio di un nuovo secolo), inscindibilmente legata a condizioni di esistenza profondamente mediate in senso tecnologico. Per questo, sviluppare un ambito di studi e di comprensione secondo le istanze appena indicate sembra quanto mai opportuno e perfino urgente. Nel guardare all’intero arco del Novecento si dovrà allora non solo rilevare la sensibilità di alcuni repertori nei confronti di questioni tecnologiche, ma anche cogliere quel tratto caratteristico del secolo che è consistito nell’attribuire possibilità conoscitive e “critiche” al lavoro dell’arte in generale.2 Il quadro storico-musicale del secolo presenta alcune forme tecnologiche già mature, perchè ereditate direttamente da prassi di tradizione (tecniche di scrittura, liuteria meccanica, orchestrazione, studio di prassi esecutive anche legate a problemi filologici, ecc. – tutte dimensioni a vario titolo assimilate di solito alla categoria dell’ “artigianato” cui si è fatto cenno all’inizio). Altre forme tecnologiche 2 Si tratta di una delle tensioni più caratteristiche dell’arte del Novecento: per es., tutto il discorso della “teoria critica” in materia d’arte va in tal senso (cfr. T.Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1975). Nella letteratura critico-musicologica del secondo Novecento se ne trovano innumerevoli tracce: per fare due esempi vicini agli ambiti di esperienza che qui interessa evocare, si veda la “Prefazione” di Domenico Guàccero a Walter Branchi, Tecnologia della musica (Lerici, Roma, 1976), dove per “tecnologia” si intende “tecnologia elettroacustica analogica”, e la “Prefazione” di Luigi Pestalozza a Massimo Del Duca, Musica digitale (Muzzio, Padova, 1987), dove la tecnologia ne frattempo è diventata appunto digitale (informatica musicale).
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appaiono invece nelle loro configurazioni iniziali (radiofonia, sviluppo della “liuteria elettronica”, sviluppo di sistemi e supporti musicali analogici e digitali, ecc.). Nello studio di queste ultime si possono riscontrare connessioni significative non solo con la storia e teoria della composizione,3 ma in generale con la storia della teoria musicale e con alcune importanti istanze di estetica del Novecento.4 Le forme del fare (I): tecnologia come “mondo della strumentalità” Affrontare la “questione della tecnica” induce a collocare gli sviluppi musicali nel contesto di fenomeni di più ampia portata legati al ruolo sempre più centrale che la tecnologia ha assunto nelle società occidentali. L’inizio del secolo, si deve ricordare, fu marcato da un forte ottimismo scientista che declinava le istanze conoscitive e politiche dell’Illuminismo nel linguaggio del Positivismo ottocentesco. Anche dottrine economico-sociali potenzialmente critiche, come il Marxismo, in realtà si presentavano a loro volta come “scienze”, in particolare come “scienze positive” che guardano al futuro con fiducia accordando al “progresso tecnico” un ruolo determinante nel quadro delle mutazioni delle condizioni sociali.5 L’ottimismo scientista risultava rispecchiato 3 Mark Lindley, “Composizione come termine musicale, un’indagine storica”, Musica/Realtà, 1988; Otto Laske, “Towards an epistemology of composition” (Journal of new music research, vol.20, n.3-4, 1992); Gottfried M. Koenig, Summary observations on compositional theory, 1963-1970 (Università di Utrecht, 1971). L’indagine di Lindley sul concetto di “composizione” nella storia è di notevole interesse, ma presume che l’unica “tecnologia della composizione” sia la “scrittura”. I suoi esempi sono tratti da schizzi del processo di elaborazione tematica in alcuni documenti autografi di Beethoven. La prospettiva di Laske e Koenig, definita come “teoria della composizione”, è più adeguata alle tecnologie compositive del Novecento, e tuttavia provenendo da esperienze specifiche (“musica elettronica”, poi anche “informatica musicale”) può apparire metodologicamente troppo specializzata. 4 Fra le estetiche filosofiche di rilievo per alcune delle questioni poste in queste pagine si può segnalare quella di Luigi Pareyson, riassunta in Estetica. Teoria della formatività (Bompiani, Milano, 1988; ed. or. 1950-54): non a caso si tratta di una «estetica della produzione e della formatività» (p.7), ovvero attenta al processo del fare dell’arte, all’esperienza tecnico-costruttiva oltre che a quella ricettiva. Orientamenti simili si riscontrano in milieu intellettuali del tutto diversi, come per es. in Michael Rosenberg, The cybernetics of art (Gordon and Breach, Londra, 1983). Nonostante l’approccio assai formalizzante non sempre condivisibile, Rosenberg parte dalla considerazione fondamentale che vede nell’arte un «metodo di conoscenza» (p.xvii). (Qui e in seguito per tutte le citazioni tradotte dall’inglese e dal francese si intenda “traduzione mia”). 5 Si veda, per es., Sul marxismo e le scienze (numero tematico di Quaderni di critica marxista, 6, 1974, con scritti di, tra gli altri, Ludovico Geymonat, Giulio Giorello, Enrico Bellone e Vittorio Somenzi). Si vedano anche gli spunti storici in Andrew Feenberg, Critical theory of technology (Oxford University Press, 1991).
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dal corso musicale post- e anti-romantico, e informava di sè tanto l’immaginario collettivo (il Futurismo e altre avanguardie ne sono esempi di ricaduta estetica) quanto alcuni progetti teorici ed estetici (si pensi all’estetica razionalista del Bauhaus, oppure, per un esempio di teoria musicale, agli schizzi di Nuova estetica della musica di Ferruccio Busoni, pubblicati inizialmente nel 1911). Nel corso dei decenni, e comunque già a partire dai primi anni del secolo (a quel periodo risalgono le prime pubblicazioni di Einstein), la scienza è andata assumendo forme ben più complesse e articolate di conoscenza, mentre l’ottimismo del Positivismo si è rivelato piuttosto un empirismo ingenuo che avrebbe poco alla volta lasciato spazio ad una forma di comprensione non coincidente con la “razionalità scientifica”, e invece definibile come una vera a propria “razionalità tecnologica” – termine col quale si suole indicare l’orizzonte dei principi di razionalizzazione di comportamenti e sistemi tecnici economicamente o socialmente utili.6 Nel corso del secolo la filosofia ha ben presto riconosciuto che la tecnica, prima concepita come “mondo della strumentalità” (dai tempi dell’Encyclopedie), si andava trasformando in una vera e pervasiva forma di comprensione umana, diventando un modo di stare al mondo e di concepire il ruolo dell’uomo in esso. In questo passaggio estremo della modernità, da “mondo della strumentalità” la tecnologia diventava “ambiente di vita” (l’esistenza sociale e culturale dipendente da mediazioni tecniche).7
6 Luciano Gallino, nel suo “Critica della ragione tecnologica. Valutazione, governo, responsabilità dei sistemi socio-tecnici” (in La tecnologia per il XXI secolo. Prospettive di sviluppo e rischi di esclusione, a c. P.Ceri e P.Brogna, Einaudi, Torino, 1998), definisce la “ragione tecnologica” come il «dominio delle intenzioni, dei paradigmi, dei modelli di mondo, delle tecniche argomentative, dei giudizi di valore, dei criteri di scelta che orientano l’azione teoretica e pratica di coloro i quali producono, diffondono, applicano tecnologia, e – più in generale – prendono decisioni in merito ad essa» (p.5). 7 La questione è stata posta in innumervoli luoghi della letteratura filosofica del secolo. Qui vale richiamarsi, poichè talvolta vi torneremo, a Martin Heidegger, Die frage nach der technik, 1953 (“La questione della tecnica”, in M.Heidegger, Saggi e discorsi, a c. G.Vattimo, Mursia, Milano, 1976). Si veda anche M.Heidegger, Filosofia e cibernetica (a c. A.Fabris, ETS Editrice, Pisa, 1988), e Reiner Schürmann, Dai principii all’anarchia. Essere e agire in Heidegger (Il Mulino, Bologna, 1985). Alcune premesse generali al pensiero di Heidegger su “scienza e tecnica” vanno individuate nel lavoro del suo maestro, Edmund Husserl (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 1961; ed. or. 1959). A sua volta Herbert Marcuse, allievo di Heidegger sebbene più spesso associato alla scuola francofortese di Horkheimer e Adorno, ha indicato nella razionalità tecnologica un evento storico che tocca l’essenza umana: «quando la tecnica diventa la forma universale della produzione materiale, ciò delimita un’intiera cultura: configura una totalità storica – un “mondo”» (L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967, p.168; ed. or. 1964).
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La concezione della tecnologia come “mondo della strumentalità” è ancora ben presente nella “liuteria elettronica” dei primi decenni del secolo, e informa la concezione stessa degli innumerevoli strumenti musicali legati alle allora nuove risorse tecniche (per es. Theremin, Telharmonium, Ondes Martenot, Trautonium e Mixtur-Trautonium, organi elettrici Würlitzer e Hammond, ecc.). Tali strumenti si configuravano come specifiche applicazioni nel controllo di generatori elettrici (l’organologia li classifica come “elettrofoni”), e talvolta si appoggiavano perfino alle possibilità della telefonia. Per es., il Telharmonium di Thaddeus Cahill, brevettato nel 1895, era un enorme organo elettromeccanico i cui suoni erano trasmessi lungo cavi telefonici.8 In genere la costruzione di tali strumenti rispondeva soprattutto all’esigenza di allargare le possibilità coloristiche ed espressive dello strumentario musicale tradizionale – esigenza cui aveva risposto fino a qualche tempo prima la crescente dimensione delle masse orchestrali. Pur non mancando di interesse, soprattutto rispetto a sviluppi tecnici successivi (sintetizzatori analogici degli anni Sessanta e Settanta) e rispetto alla figura del rapporto “uomo/macchina” nell’immaginario popolare, essi rimanevano legati al rituale concertistico Ottocentesco e a stilemi musicali raramente in sintonia con gli sviluppi compositivi dei loro tempi (ad eccezione delle Ondes Martenot, strumento presente nelle risorse orchestrali di vari compositori, da Honegger a Boulez, da Jolivet a Messiaen, da Varèse a Scelsi).9 8 Si veda Reynold Weidenaar, Magic music from the Telharmonium. The story of the first music synthesizer (Magnetic Music Publ., New York, 1998). Da un punto di vista funzionale, la tecnica di generazione del suono implementata nel Telharmonium, ben documentata nella pubblicistica riguardante lo strumento, anticipava la “sintesi additiva” usata in strumentazioni analogiche e digitali successive di molti decenni. Si deve notare che alla data del brevetto di Cahill, la letteratura scientifica in ambito fisico-acustico non si era esplicitamente interessata a dispositivi elettrici in grado di produrre vibrazioni acustiche ad uso musicale, benchè l’impianto concettuale necessario, quello della sommatoria di frequenze armoniche, fosse già da tempo consolidato (a partire dagli studi di Georg Ohm e di Hermann von Helmoltz, sulla base della formulazione matematica di Jean-Baptiste Fourier risalente al 1807, pubblicata nel 1822). In The theory of sound, di J.W.S.Rayleigh (New York, 1877) vi è un capitolo intitolato “Electrical vibrations”, che riguarda però argomenti strettamente analitico-scientifici. Forse il primo esempio di “sintesi del suono” commentato in ambito fisico-acustico è nel paragrafo “Examples of wave-form analysis and synthesis” in A.B.Wood, A textbook of sound (Londra, 1930), di epoca successiva alla costruzione di buona parte dei primi esempi di “liuteria elettronica”. 9 Si ricordi che dal 1947 esiste un insegnamento di Ondes Martenot al Conservatorio di Parigi. Su questo strumento si può vedere Fred Prieberg, Musica ex machina (Einaudi, Torino, 1963, pp.242-250). Sulle manifestazioni dell’immaginario collettivo a proposito delle “macchine musicali” e del rapporto “uomo/macchina” si possono vedere
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I primi anni del secolo, però, lasciavano intravedere anche segni di una diversa percezione di come si sarebbero potute coniugare le nuove opportunità tecnologiche col lavoro musicale. Il primo “oscillatore elettronico” fu brevettato dallo statunitense Lee De Forest, dapprima nel 1906, poi di nuovo nel 1915 col titolo esplicito di Mezzi elettrici per produrre note musicali.10 Nel 1928 il tedesco Robert Beyer, personaggio di formazione sia musicale che elettrotecnica, aveva considerato la concreta possibilità di fare musica con tali oscillatori (venti anni più tardi egli fu tra i fondatori dello Studio für Elektronische Musik di Colonia).11 Un altro segno importante è quello di una diversa sensibilità nei confronti dei fenomeni udibili, che si accompagnava alla possibilità di registrare e riprodurre il suono già con l’uso del fonografo (brevettato da Thomas Edison nel 1878, ma sperimentato da altri già prima). Un indizio di questa nuova sensibilità è il “laboratorio dell’udito” di Dziga Vertov, coi “documentari sonori” che ne scaturirono (1916-17).12 Un altri capitoli di quello stesso volume, ma anche Mario Losano, Storie di automi. Dalla Grecia classica alla belle époque (Einaudi, Torino, 1990). 10 Cfr. Joel Chadabe, Electric sound. The past and promise of electronic music, Prentice-Hall, Upper Saddle River, 1997 (p.7). 11 R.Beyer, “Das Problem der kommanden Musik” (Die Musik 20, n.12, 1928). Cfr. anche Marietta Morawska-Büngeler, Schwingende elektronen. Eine dokumentation über das Studio für Elektronische Musik des Westdeutschen Rundfunk in Köln, 1951-1986, (P.J.Tonger MusikVerlag, Köln, 1988). Mentre scrivo, apprendo che, a cinquant’anni dalla fondazione, lo Studio für Elektronische Musik della WDR di Colonia rischia oggi di essere smantellato. 12 Si veda Pietro Montani, Dziga Vertov (La Nuova Italia, 1975), in particolare pp.12-21, dove sono evidenziate le differenze del lavoro di Vertov rispetto a quello di futuristi russi e italiani cui talvolta è stato associato. Nelle pagine sucessive prenderò in esame soprattutto tecnologie che riguardano il lavoro compositivo e interpretativoesecutivo, mentre potrò soffermarmi solo di passaggio sulle “tecnologie dell’ascolto”. In questa circostanza, comunque, mi pare importante segnalare che il fonografo era nato con finalità del tutto estranee al mondo della musica, nel quale invece ha avuto ripercussioni profonde, trattandosi piuttosto di finalità di archiviazione in ambito aziendale. Si vedano a riguardo le annotazioni di Jacques Attali, nel suo Bruits: essai sur l’économie politique de la musique (Parigi, PUF, 1977, in particolare il capitolo IV), e i passaggi dedicati al fonografo in Neil Baldwin, Edison. Inventing the century (Hyperion, New York, 1995). Esperienze come il “laboratorio dell’udito” di Vertov – con la sua intenzione di documentare la “musicalità delle cose” – paradossalmente restituiscono in parte al fonografo una funzione archivistica, ma allo stesso tempo assegnano una valenza culturale prima sconosciuta all’idea stessa di “archivio sonoro”. L’unico precedente in tal senso potrebbe essere l’uso del fonografo da parte dell’etnomusicologia degli inizi del secolo (cfr. Otto Abraham e Erich Hornbostel, “Über die Bedeutung des Phonographen für die vergleichende Musikwissenschaft”, Sammelbände der internationalen musikgesellschaft, n.3, 1904). Oggetti tecnici come il fonografo e il grammofono, che hanno colpito l’immaginario collettivo in modo profondo, sono stati storicamente sottoposti ad una dinamica di
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indizio successivo è riscontrabile nel lavoro di Walter Ruttmann, coi suoi “film senza immagini”, consistenti cioè soltanto nella traccia sonora incisa sulla pellicola cinematografica (per es. il famoso Weekend, 1930). In tali esperienze, da una parte si delineava un approccio fenomenologico al suono, quasi una forma di “riduzione ai fenomeni” vòlta a rimuovere l’automatismo delle percezioni acquisite; dall’altra, sorgevano problematiche tecniche che sarebbero poi rimaste rilevanti per decenni, come quella di un’adeguata metodologia generale di lavoro – che fu diffusamente detta “montaggio” col linguaggio del cinema, arte specificamente novecentesca13 – e quella dei “supporti di registrazione”, ovvero di adeguate tecnologie di memorizzazione del suono. Questi tre aspetti – fenomenologia del sonoro, tecniche di montaggio e supporti di registrazione – sarebbero divenuti poi decisivi nell’esperienza che fu detta prima “arte radiofonica” (dal 1945) e poi musique concrète (dal 1948) nel lavoro di Pierre Schaeffer alla radio di Parigi.14 Le forme del fare (II): tecnologia come “ambiente di vita” Quello che la filosofia ha talvolta definito come “evento storico della tecnologia”15 – la tecnologia come “ambiente di vita” e come “orizzonte di comprensione dell’uomo” – segna un passaggio epocale di cui troviamo significativa testimonianza in alcune diramazioni importanti della musica del Novecento. Il passaggio dalla tecnologia come “mondo della strumentalità” (in musica: l’invenzione di nuovi strumenti, di nuove tecniche di scrittura, di tecniche esecutive non convenzionali, di nuovi “metodi” compositivi, ecc.) alla tecnologia come “ambiente di esistenza” (in musica: la costruzione di ambienti di lavoro costituiti da attrezzature non specializzate ma interconnesse e riconfigurabili a significazione molto articolata e spesso in bilico tra “magia” e “alterità”: magia di una voce “senza corpo”, che rifà l’umano in sua assenza; alterità di una voce che nasce da un oggetto estraneo a quel “mondo della vita” cui l’intimità della voce sempre rimanda. Su questa dinamica interpretativo-antropologica, che in qualche caso ha fatto del fonografogrammofono perfino “arma di colonizzazione culturale” da parte dell’Occidente, si vedano ampi stralci dello studio etnografico in Michael Taussig, Mimesis and alterity. A particular history of the senses (Routledge, New York, 1993). 13 Quella del “montaggio” è in realtà forma costruttiva che attraversa varie manifestazioni dell’arte del primo Novecento: a parte l’ovvio riferimento al cinema, che rimanda agli scritti di Ejzenstein degli anni Venti (Teoria generale del montaggio, Venezia, 1985), si può anche pensare ad alcune tecniche letterarie (cfr. C.W.Wallace, Montage in James Joyce’s Ulysses, Madrid, 1980) e agli effetti perseguiti inizialmente dal cubismo in pittura, da cui poi si svilupparono anche le tecniche di collage. 14 John Dack, “Pierre Schaeffer and the significance of radiophonic art”, Contemporary music review, vol.10, n.2, 1994. 15 Cfr. Schürmann, op.cit., passim.
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seconda di specifici compiti) è un momento decisivo che si accompagna ad una tematizzazione consapevole delle condizioni concettuali ed operative del pensiero e dell’espressione musicale nel contesto sociotecnico generale: scelte e responsabilità tecnologiche (del compositore ma anche dell’interprete) assumono allora valore musicale nel senso che vengono accolte come determinazioni sottoposte a giudizio estetico. La nuova situazione coincide con un modo di vita in cui l’uomo “abita la tecnologia”. Già negli anni Venti, Le Corbusier aveva descritto le abitazioni delle moderne città occidentali come “macchine in cui vivere”. In ambito musicale la figura corrispondente è quella del compositore che lavora nel chiuso degli studi di musica elettronica, circondato da macchine, sistemi e supporti tecnologici di vario tipo.16 Si può pensare anche alla figura dell’interprete chiuso in sala di 16
Mi riferisco chiaramente ai famosi “studi di musica elettronica”, come lo Studio für Elektronische Musik della WDR di Colonia (ufficialmente a partire dal 1952), lo Studio di Fonologia della RAI di Milano (dal 1954) e il Groupe de Recherches Musicales di Pierre Schaeffer alla radio di Parigi (dal 1948). Naturalmente questi sono solo i centri istituzionali meglio attrezzati e più conosciuti, dato anche il valore dei compositori che vi lavorarono e delle musiche che vi furono realizzate. In realtà negli anni Cinquanta si aprirono numerosi altri centri di musica elettronica, non solo in Europa (per es. Monaco, Varsavia, Londra), ma anche negli Stati Uniti (Università di Princeton e Columbia, dal 1952), in Giappone (Tokyo, dal 1953) e in Sud America (Università di Buenos Aires, dal 1958). Per una panoramica cfr. Armando Gentilucci, Introduzione alla musica elettronica (Feltrinelli, Milano, 1972), dove però sono contenute alcune imprecisioni, e le rassegne offerte da Peter Manning, Electronic and computer music (Clarendon Press, Oxford, 1985) e Joel Chadabe, Electric sound (op.cit). Si veda anche La nuova Atlantide. Il continente della musica elettronica (a c. R.Doati e A.Vidolin, La Biennale di Venezia, 1986; catalogo della mostra omonima con schede storiche e interventi di vari autori). A partire dagli anni Ottanta, già in epoca informatica, l’evoluzione dei centri musicali elettronici e computerizzati è stata segnata da una biforcazione in seguito alla quale le attività sono proseguite, da una parte, in centri di “ricerca musicale” e, dall’altra, in centri di “produzione musicale”. Si tratta di una scissione dei compiti che riflette un andamento caratteristico delle istituzioni scientifiche e culturali nel corso del secolo: si pensi alla distinzione, valida per molto tempo, tra “ricerca” pubblica e “produzione” privata (oggi la distinzione appare assorbita all’interno delle dinamiche di mercato, dove anche le direttive della ricerca sono ampiamente soggette a logiche industriali). Elementi interessanti circa l’evoluzione dei centri musicali elettronici nel loro rapporto con le istituzioni si possono evincere non solo dalla pubblicistica riguardante particolari iniziative (Musique et institution, numero tematico di Inharmonique, n.6, 1990; Il complesso di Elettra, Federazione CEMAT, Roma, 1997), ma anche da studi specifici (Anne Veitl, Politiques de le musique contemporaine, L’Harmattan, Parigi, 1997; Hugues Dufourt, Musique, pouvoir, écriture, C.Bourgois, Parigi, 1991). Di rilievo è anche la prospettiva di studio nella quale gli ambienti di ricerca e produzione computerizzati vengono studiati con taglio etnografico (come in Georgina Born, Rationalizing culture. IRCAM, Boulez and the institutionalization of the musical avant-garde, University of California Press, Berkeley, 1995).
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registrazione, come nel caso emblematico di Glenn Gould17 o come nella prassi delle produzioni discografiche di repertori sinfonici ed operistici. Si pensi infine all’industria dei prodotti musicali di più ampia portata commerciale, dove le singole proposte vengono confezionate in laboratorio secondo un processo estremamente articolato, in seguito al quale risultano differenziate solo sulla base di pochi accorgimenti tecnici in fase di produzione (più che di composizione e di esecuzione) col differente sound che ne scaturisce. Sul piano storico, gli studi di musica elettronica già negli anni Cinquanta prefiguravano un tempo in cui tutti gli aspetti legati all’esperienza musicale avrebbero avuto luogo in ambiente tecnologico. Non si trattava di usare le nuove apparecchiature per fissare l’esecuzione di musiche indipendentemente composte e interpretate, ma di ideare, produrre e ascoltare musica direttamente nello “studio”, nel nuovo ambiente di lavoro, con conseguenze importanti sul piano cognitivo. Le forme del suono (I): centralità del timbro È significativo come proprio in quel passaggio nel quale, in musica, la tecnologia da “strumento” diventa “ambiente” (diciamo, dunque, tra 1948 e il 1958) sia sorta l’idea secondo la quale ogni minimo elemento di un lavoro musicale diventa potenzialmente fattore espressivo di cui il compositore è responsabile, compreso ogni singolo suono nella sua struttura interna, in ogni sua componente fonica: mi riferisco, insomma, all’emancipazione decisiva del “timbro” a dominio di invenzione, costruzione e giudizio. Con ciò veniva istituita la possibilità di “comporre-il-suono”, e di conseguenza anche la distinzione tra questa possibilità e la più normale prassi del “comporre-coi-suoni”. La condizione estetica più propria e specifica della musica elettroacustica è apparsa dunque storicamente legata alla possibilità di studiare precise correlazioni tra quei due termini, e perfino di fonderli insieme per comporre suono e forma musicale in un solo gesto. Sul piano storico-musicale generale, simili sviluppi mettevano in prospettiva esperienze in cui la dimensione timbrica era apparsa già in qualche modo fondante (per es. Debussy, o Webern e Schönberg nel periodo atonale pre-dodecafonico, ma anche certi luoghi della produzione di Oliver Messiaen e, soprattutto, l’intera produzione di Edgard Varèse18). Inoltre l’acquisizione definitiva del timbro a 17
Glenn Gould, “The prospects of recording” (Hi-fidelity magazine, 46, 1966). A Varèse accennerò diffusamente più avanti. Qui devo ricordare che vari compositori meno giovani guardarono con schietto interesse alle attività iniziali dei 18
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dimensione strutturale dell’opera rifletteva un’istanza tipicamente illuminista, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso: nella prassi del “comporre-il-suono”, potenzialmente nulla è lasciato fuori dalla conoscenza: perfino il sostrato elementare della musica – il suono stesso, nelle rappresentazioni fornite dalla scienza – è investito di progettualità, di proiettività umana. La categoria del “materiale sonoro”, prima riferita a qualcosa di pre-esistente e perfino di “naturale”, veniva ora ad indicare qualcosa di altrimenti inesistente, di deliberatamente forgiato in base ad un idea musicale particolare: l’opera musicale tende a diventare “artificio integrale”. Ovviamente un qualsiasi strumento musicale tradizionale costituisce anch’esso un artefatto, denso di cultura e storia (in grado ben più elevato di artefatti elettronici), e ricco peraltro di una speciale dimensione di contatto e confidenza col corpo dell’esecutore (ergonomia). La radice illuministica richiamata dalle nuove condizioni dell’esperienza musicale consisteva però nel sentire ciò che è “ignoto” – ciò che è “oltre” la conoscenza – come terreno di esplorazione e ulteriore conquista che richiede una reinvenzione, o un riadattamento, dei mezzi stessi di esplorazione. Essa è presente anche in uno degli sviluppi paralleli alla sperimentazione elettronica, quello dello studio di “nuove tecniche esecutive”, concepito in qualche caso come vera e propria “ricerca strumentale”, nel senso di una permanente attitudine di reinvenzione delle tecniche esecutive degli strumenti tradizionali. L’acquisizione del timbro alla composizione per via elettronica o informatica stabilisce quindi “solo” una condizione-limite. Tuttavia esso acquista una rilevanza emblematica, e di maggior rilievo storico e teorico, in quanto fenomeno che più di altri fa precipitare nella prassi musicale il concetto che valeva come indicazione estrema dell’arte
centri di musica elettronica (per es. Messiaen lavorò al Groupe de Recherches Musicales, dove compose Timbres-durèes, nel 1952; Ernst Krenek, lavorò allo Studio di Colonia, nel 1955; lo stesso Varèse sarà con Schaeffer a Parigi nel 1954). Ciò segna un importante elemento di continuità storica. Si sa bene, d’altra parte, come il direttore dello Studio di Colonia, Herbert Eimert (che aveva alle spalle una lunga esperienza di musica dodecafonica, e che già nel 1924 aveva redatto un saggio intitolato Teoria musicale atonale), avesse insistentemente rivendicato una tangibile continuità storica in particolare con la musica di Anton Webern (si vedano i suoi interventi del 1955 sui primi due numeri della rivista Die Rehie, di cui il primo dedicato a chiarire “cos’è la musica elettronica” [Was ist elektronische musik], e il secondo dedicato ad una “necessaria rettifica” [Die notwendige korrektur] circa la novità storica della musica elettronica stessa).
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moderna, secondo il quale, con parole di Adorno, «nell’opera d’arte non c’è nulla che valga come causalità naturale».19 La tensione a fare dell’opera “artificio integrale” diventa davvero sensibile nel momento in cui entra in contrasto con la ricchezza dell’esperienza vissuta, dove i fenomeni – anche quelli della comporredel-suono – rimangono piuttosto inesauribili: l’orecchio scorge, nella radice illuministica di quella tensione, una componente essenzialmente utopica, una tensione irrisolvibile, impossibile da condurre a termine. 19
T.W.Adorno, “Vers une musique informelle” (in Quasi una fantasia, Verso, Londra, 1992, p.293); si vedano d’altra parte anche certi passi di T.Adorno e M.Horkeimer, Dialettica dell’illuminismo (Einaudi, Torino, 1966). La letteratura sul timbro come dimensione portante dell’articolazione musicale è sconfinata. La sua centralità – la centralità del suono-in-quanto-forma, del “comporre-ilsuono” – è stata elaborata in innumerevoli occasioni già a partire dalle prime prove di musique concrète (Pierre Schaeffer, A la recherche d’une musique concrète, Seuil, Parigi, 1952). In Germania, il dibattito estetico dei primi anni della elektronische musik si focalizzò presto su questa nuova dimensione del comporre (si veda la ricostruzione storica di Gianmario Borio, “New technology, new techniques. The aesthetics of electronic music in the 1950’s”, Journal of new music research, vol.22, n.1, 1993; traduzione italiana in Quaderni della Civica Scuola di musica di Milano, 26, 1999). In seguito, il dibattito si è allargato fino a includere i più recenti sviluppi della ricerca acustica e psicoacustica, spesso condotti parallelamente alle ricerche dell’ “informatica musicale” – un nome da richiamare, in tal senso, è quello del fisico e compositore francese Jean-Claude Risset (nato nel 1937, allievo di Andrè Jolivet per la composizione, pioniere della sintesi digitale del suono e delle ricerche informatizzate di psicoacustica musicale). Una rassegna di vari approcci al timbro nell’ambito delle tecnologie digitali della composizione è fornita in Le timbre. Métaphore pour la composition (a c. J.B. Barrière, C.Bourgois, 1991). Più ricca di spunti di rilievo teorico e musicologico, però, è la raccolta Timbre composition in electroacoustic music (numero tematico di Contemporary music review, vol.10, n.2, 1994). Devo anche segnalare che dubbi assai severi sono stati sollevati dall’area della psicologia cognitivista circa la possibilità di fare della dimensione timbrica “parametro portatore di forma musicale”. Si vedano, in proposito, alcuni contributi in La musique et les sciences cognitives (a c. S.McAdams e I.Deliège, Mardaga Ed., Liegi, 1989). Rimane però indiscutibile come il timbro, nella sua infinita problematicità, sia assurto ad elemento espressivo e costruttivo in tutti quei repertori musicali che rinviano ad un confronto di qualche profondità con le condizioni tecnologiche del fare musica. Ciò vale naturalmente per i repertori elettroacustici in genere, la cui dialettica interna anzi quasi impone di volgere a proprio vantaggio gli aspetti sfuggenti del timbro (come segnalava già Adorno nei primi anni Sessanta, cfr. “Music and new music”, in Quasi una fantasia, op.cit., p.267), facendo profitto dell’anarchia in cui ricadono i tentativi di delineare una possibile metrica delle relazioni timbriche. Inoltre si sa bene che la centralità del timbro, anche nella sua valenza generale di “matericità ” e “morfologia del gesto sonoro”, è elemento estetico caratterizzante anche di repertori di musica strumentale: si pensi alla composizione post-seriale nei suoi vari orientamenti (per es. Salvatore Sciarrino, Helmut Lachenmann, Gerard Grisey), o anche ad esperienze coeve al serialismo (Giacinto Scelsi), e si pensi infine alla violenta matericità di certe interpretazioni jazzistiche (Cecil Taylor) e di altre prassi musicali che contaminano improvvisazione e stilemi delle avanguadie (Art Ensemble of Chicago, John Zorn).
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Questa aporia vitale riflette un elemento dialettico caratteristico del processo dell’arte in generale, per il quale infatti la tecnica deve sempre essere massimamente potenziata per poi svelarsi di nuovo insufficente ed inadeguata, impotente. Un tentativo sempre ripetuto – quasi una “fatica di Sìsifo” nel cuore dell’esperienza costruttiva dell’arte – che è fonte di interrogativi più che di risposte, di miti più che di descrizioni scientiste e oggettivanti. L’opera come artificio integrale è presente come terminus ad quem: ad essere sensibile, anche nei casi di più estremo furore tecnicistico, è la sua assenza, la sua impossibilità. Perciò la problematicità inesauribile legata all’esperienza del timbro come parametro strutturante riflette l’infinità del compito di conoscenza di qualsiasi prassi d’arte, ed evidenzia che la sua stessa dialettica di potenziamento e depotenziamento della conoscenza ha come “teatro” i mezzi tecnologici di creazione, trasformazione e controllo del suono. È significativo che questo compito sempre presente ma mai risolto della tecnica viene in qualche modo reso “udibile” nei repertori elettroacustici attraverso un lavoro che si attua con mezzi tecnici di solito percepiti come fonte di comfort, come strumenti atti alla risoluzione di problemi (per es. gli odierni calcolatori), secondo una concezione appunto soltanto “strumentalistica” ed efficentistica. Nell’esperienza artistica, la razionalità tecnologica viene chiarita nella sua incapacità di tener fede alle sue stesse premesse, nella sua componente idealistica (o anche ideologica). Non a caso nel corso del Novecento è stato scritto che «l’arte critica il mondo della razionalità senza sottrarlesi»20 e che essa costituisce quel dominio di esperienza nel quale l’uomo stabilisce «un confronto libero con la tecnica».21 Per “liberarsi” dalla tecnica onnipresente occorre un confronto ravvicinato e partecipe, piuttosto che una deliberata indifferenza. Una delle prime lezioni imparate dai compositori operanti a Colonia, già entro il 1953, fornisce il profilo di una presa di coscienza della problematicità intrinseca in ogni mediazione tecnologica: quando infatti Eimert e colleghi si avvicinarono alle attrezzature elettroniche con la speranza che queste avrebbero dato seguito al potenziale estetico della composizione seriale, permettendo di superare i condizionamenti dovuti ai limiti fisiologici dell’esecuzione strumentale, essi di fatto cercavano una soluzione a problemi che nascevano da esigenze di linguaggio musicale; tuttavia quei nuovi mezzi, peraltro ancora imprecisi e non perfettamente padroneggiabili, condussero ad esiti che scantonavano appunto nella dimensione timbrica, e che tradivano le premesse. Sul 20 21
Adorno, Teoria estetica (op.cit.), p.93. Cfr. La questione della tecnica (op.cit.), p.27.
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piano delle esigenze intrinsecamente musicali, un’apertura decisiva al timbro non era forse meno necessaria e urgente rispetto all’organizzazione seriale di altezze, durate e dinamiche, e tuttavia non era stata consapevolmente preventivata come finalità primaria. Fu chiaro, quindi, che una percezione dei mezzi come puro dominio di soluzione di problemi predeterminati non avrebbe colto in profondità la nuova situazione. Ecco davvero un problema di tecnologia, cioè di comprensione delle possibilità dell’azione e delle dinamiche inerenti. Peraltro, in rapporto a questa stessa circostanza, si dovrà anche notare che laddove si auspicava un certo tipo di rapporto causale, si materializzava infine il suo inverso: le strategie della composizione seriale (forma di artigianato radicato in una particolare tradizione) erano state poste inizialmente come “fine”, ma di fatto diventarono un “mezzo” – piuttosto che usare le attrezzature dello studio elettronico per conseguire più profonde ed articolate condotte seriali, furono queste ultime ad essere utilizzate per stabilire un rapporto proficuo con le attrezzature, orientando metodi e scelte altrimenti arbitrari, con conseguenze che sul piano del linguaggio musicale eccedevano ampiamente l’orizzonte iniziale delle soluzioni estetiche.22 Si pensi, per es. all’uso di griglie di permutazione nell’organizzazione dello spettro del suono o delle durate dei periodi interni alla vibrazione sonora, nei lavori elettronici di Stockhausen tra il 1954 e il 1960, dove l’impostazione seriale, del tutto arbitraria rispetto alla dimensione timbrico-percettiva e tuttavia avvertita come “necessitante” sul piano dell’articolazione musicale, fu di fatto gradualmente tralasciata (come pure accadde nel processo compositivo di Artikulation, di Ligeti, del 1958). Sul piano generale, simili esempi illustrano bene il concetto per cui «l’azione e il suo contesto sono elementi che si elaborano e determinano reciprocamente».23 Le forme del suono (II): lo spazio. L’esperienza del Poème électronique Il concetto di tecnologia come “ambiente di vita” non ha l’unica corrispondenza nello spazio chiuso del laboratorio elettroacustico. 22
Il processo può essere ricostruito attraverso alcune fonti storiche di rilievo, come gli scritti di Eimert, Stockhausen e Koenig nel primo numero della rivista Die Rehie (1955), alcuni scritti di Stockhausen tra quelli raccolti nei suoi Texte (DuMont Schauberg, Colonia, 1963-64) e poi tradotti in La musica elettronica (a c. Henri Pousseur, Feltrinelli, Milano, 1976), e gli interventi di Eimert e Koenig nella rivista italiana di filosofia Aut-Aut (n.79-80, 1964). 23 Patrice Flichy, L’innovazione tecnologica. Le teorie dell’innovazione di fronte alla rivoluzione digitale (Feltrinelli, Milano, 1996), p.116.
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Un’altra corrispondenza sensibile riguarda il contesto di fruizione del lavoro musicale. Mi riferisco a quei casi in cui l’opera assume la forma di un vero e proprio spazio sonoro, inglobando peraltro anche elementi extra-musicali (in lavori detti “multimediali” o “intermediali” – definizioni assai problematiche, queste, sulle quali ora non posso soffermarmi, ma entrate da tempo nel linguaggio comune). L’esempio storico cui è doveroso richiamarsi è quello del Poème électronique, la struttura immaginata da Le Corbusier per l’Expo di Bruxelles del 1958, progettata dall’allora giovane musicista-ingegnere Iannis Xenakis, attrezzata con tecnologie dell’azienda olandese Philips (committente del progetto) e destinata ad accogliere la diffusione sonora di un breve lavoro registrato su nastro di Edgard Varèse (l’omonimo Poème électronique, opera di “suono organizzato” secondo l’accezione varesiana,24 realizzata negli studi Philips di Eindhoven specificamente per l’occasione). Come in occasioni successive (i Polytopes dello stesso Xenakis, e i tanti esempi di “installazione sonora” portati avanti prima in Nordamerica, negli anni Sessanta, poi anche in Europa), qui il riferimento alle condizioni di esistenza tecnologica è consolidato anche nella socialità della situazione fruitiva, come pure nell’interferenza tra suoni ed elementi visivi e spaziali (proprietà geometriche dello spazio occupato, proiezione di luci e di immagini, oltre che di suoni). Insomma, “abitare la tecnologia” viene ridefinito come qualcosa che avviene in comunità: al solipsismo del laboratorio (dove la socialità è limitata al team di tecnici ed esperti, con la necessaria divisione del lavoro) viene contrapposta la figura di una piccola collettività di ascoltatori-visitatori accolta in uno spazio che è esso stesso l’opera: il singolo è parte di un tutto e la comunità viene tenuta insieme innanzitutto dalla condivisione di un ambiente tecnologico disegnato a proposito, esso stesso integralmente artefatto. Non è questa la sede per soffermarsi sui particolari della genesi e realizzazione del Poème électronique.25 L’emblematicità della vicenda che ruota intorno ad esso sta nella sovrapposizione di molteplici aspetti rilevanti per le esigenze di studio che qui preme sottolineare: la mescolanza delle competenze tecniche in gioco; i rapporti problematici fra i funzionari Philips nel ruolo dei committenti e il gruppo degli artisti; la collaborazione difficile tra i tecnici di Eindhoven, nel ruolo delle forze di produzione disponibili, e Varèse, nel ruolo del musicista “di genio” chiamato dalle circostanze a prestare la sua arte, ma soprattutto 24 Edgard Varèse, Il suono organizzato. Scritti sulla musica (Unicopli/Ricordi, Milano, 1985). Cfr. anche Odile Vivier, Varèse (Seuil, Parigi, 1983). 25 Una documentata ricostruzione è in Marc Treib, Space calculated in seconds. The Philips Pavilion, Le Corbusier, Edgard Varèse (Princeton University Press, 1996).
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chiamato dalla propria storia personale a coronare il sogno di conquistare al gesto compositivo la dimensione dello spazio, insieme a quella del timbro.26 Qui la figura di Varèse assume un valore perfino simbolico: posta al centro di un grande sforzo artistico-tecnologico, alquanto impegnativo per l’epoca, essa catalizza un insieme di riferimenti storici. L’esperienza compositiva del compositore franco-statunitense, “visionaria” ma anche radicata in antiche tradizioni musicali (il suo amore per la polifonia fiamminga), fa infatti da ponte tra generazioni come quelle di Debussy, Schönberg, Busoni e Satie (coi quali era stato in contatto diretto) e l’avanguardia, seriale e non, del secondo dopoguerra.27 Inoltre nel corso della sua lunga permanenza negli Stati Uniti, Varèse non solo si era nutrito di varie riflessioni sulla musica come “arte-scienza”, ma sin dagli anni Venti aveva stabilito rapporti di collaborazione con ingegneri e scienziati, pur senza effettivi risultati. Negli ultimi anni di vita, per apportare alcuni perfezionamenti ai suoni di Dèserts, Varèse trovò preziosi collaboratori in personaggi come Max Mathews e Newman Guttmann, che da qualche anno conducevano ricerche pionieristiche
26 Non è possibile soffermarsi, qui, sul rilievo musicale che la dimensione dello “spazio” ha assunto nel corso del Novecento. Al di là di alcuni casi maggiormente noti (Varèse, Stockhausen, Nono), le posizioni teoriche e le prosopettive di lavoro sono molteplici. Si vedano le rassegne Musica, spazio, architettura, numero tematico dei Quaderni della Civica Scuola di musica di Milano (n.25, 1995) e L’espace: musique/philosophie (a c. J.M.Chouvel e M.Solomos, L’Harmattan, Parigi, 1998). Per uno studio delle diverse e contrastanti implicazioni tecniche ed estetiche, mi permetto anche di rinviare al mio “Le son dans l’espace, l’espace dans le son” (Nota Preliminares, n.2, 1998, in francese e spagnolo). 27 In particolare per Desèrts (per percussioni, ottoni, pianoforte e suoni registrati su nastro magnetico, 1950-1954), Varèse aveva lavorato a stretto contatto con Pierre Schaeffer (che lo aveva ospitato, non senza polemiche, negli studi del Groupe de Recherches Musicales, per le fasi finali della lavorazione dei suoni su nastro), e con Pierre Henry (collaboratore di Schaeffer, che si occupò anche della diffusione dei suoni registrati su nastro per la prima esecuzione assoluta, diretta a Parigi da Hermann Scherchen, nell’Ottobre 1954); egli si avvalse poi della stretta collaborazione di Bruno Maderna (che diresse l’opera due volte sotto la supervisione di Varèse, ad Amburgo e Stoccolma nel Dicembre 1954) e di Stockhausen (che si occupò della diffusione per le esecuzioni di Maderna). Con altri, tra cui Luigi Nono, Varèse si era incontrato nel 1950 a Darmstadt, luogo canonico della neue musik. In quella circostanza il compositore incontrò anche Herbert Eimert, Robert Beyer e Werner Meyer-Eppler, che avrebbero presto definito gli orientamenti musicali e tecnici dello Studio di Colonia. A sancire l’emblematicità dell’esperienza di Dèserts concorre il fatto che la prima esecuzione assoluta del brano avvenne in quel Théâtre de Champs Élysées dove quarantuno anni prima era stata data la prima del Sacre du printemps stravinskiano (cui Varèse aveva assistito), destando ora come allora grande scandalo.
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sull’uso del computer per la sintesi del suono e, in generale, sulla tecnologia dell’informatica musicale.28 Le forme del fare (III): tecnologia come “abito” o “protesi” Nella seconda metà del Novecento, alla condizione di esistenza che abbiamo indicato come “abitare la tecnologia” si è aggiunta la condizione dell’ “indossare la tecnologia”, vestendo il corpo di protesi ed elongazioni che ne stabiliscono le prestazioni, se non perfino la sussistenza (l’esistenza biologica dipendente da condizioni tecniche, le biotecnologie, ecc.). La figura corrispondente in ambito musicale è quella dell’esecuzione “interattiva” di musica informatica (anni Settanta e Ottanta), e dell’interprete strumentale interconnesso a sistemi analogici o digitali di live electronics. Esempi molto noti sono alcuni dei lavori dell’ultima produzione di Luigi Nono e il Rèpons di Boulez (1981-84), senza dire poi di innumerevoli compositori ben più giovani. D’altra parte quella del corpo rivestito di tecnologie è immagine che è andata prendendo forma lentamente nel corso dei decenni, già prefigurata in lavori di John Cage risalenti agli anni Quaranta, poi divenuta vera e propria prassi esecutiva almeno a partire dai primi anni Sessanta (lavori di Stockhausen, David Tudor e altri).29 Nell’ambito delle musiche di largo consumo, l’immagine viene riverberata in prassi esecutive tipiche di repertori da discoteca degli anni Ottanta e Novanta nei quali viene dismesso lo strumentario convenzionale “voce-chitarratastiere-basso-batteria” (che ancora riconduceva le varie manifestazioni di popular music alla tradizione dell’orchestra “leggera” e delle big band jazzistiche dell’inzio del secolo) a favore di tutto un insieme di attrezzature digitali e di qualche oggetto di “antiquariato elettronico” (come il “giradischi”, usato in modo non convenzionale nel rap).30
28 Max Mathews, The technology of computer music (MIT Press, Cambridge Mass., 1969). 29 Per una panoramica su tecnologie e repertori di live electronics, cfr. Nicola Bernardini, “Live electronics”, in La nuova Atlantide (op.cit.). Per alcune considerazioni sulla figura emergente dell’ “interprete elettronico”, cfr. Alvise Vidolin, “Ambienti esecutivi”, in I profili del suono (a c. S.Tamburini e M.Bagella, Musica Verticale Galzerano, 1987), e “Nuovi interpreti per nuovi strumenti” (Atti del convegno 19481998: dalla molecola al bit. Cinquant'anni di musica elettroacustica, Nuova Consonanza, Roma, in corso di stampa). 30 È degno di nota che le strumentazioni digitali usate in queste musiche (“campionatori”, “batterie elettroniche”, ecc.) conoscano qui un utilizzo che tradisce le finalità della loro stessa progettazione: concepite come strumentazioni da studio di produzione, esse sono qui piegate ad una finalità performativa, e anche proprio ad una manualità, che ne forza il quadro di funzionamento e d’uso cui destinate.
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Sul fronte della fruizione, “indossare la tecnologia” è quanto avviene in quella forma di ascolto distratto che si attua vestendo il walkman (anni Ottanta), e che peraltro si configura dichiaratamente, a livello tecnico e musicale, come ascolto “di bassa qualità” (lo-fi: low-fidelity, piuttosto che hi-fi). Alcune considerazioni sul nodo storico centrale Dall’insieme delle riflessioni sopra esposte emerge un dato non trascurabile: le varie problematiche cui si è accennato riguardano spesso fenomeni che si collocano nel cuore stesso del Novecento, nel decennio che inizia col 1948. Non a caso, evidentemente: gli eventi della Seconda Guerra Mondiale, con la loro tragica traiettoria – dal delirio nazionalsocialista alle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki – ed il successivo rischio di guerra “atomica”, imprimevano nelle menti e nei corpi segni indelebili di un’ormai avanzato grado di tecnologizzazione delle condizioni di sopravvivenza dell’uomo. Poco alla volta quei segni si sono trasformati in condizionamenti più lievi ma comunque pervasivi e onnipresenti, che riguardano appunto la tecnologia come “ambiente di vita” e che finiscono col toccare l’individuale, il corpo (“indossare la tecnologia”) e più profonde dimensioni di esistenza umana quali la coscienza di sè, la sfera spirituale, ecc. In base a tali constatazioni, che appaiono perfino banali ma alle quali pure abbiamo il dovere di richiamarci nel guardare al Novecento nel suo complesso, il fatto che dagli anni Cinquanta in poi l’esperienza musicale abbia avuto come luogo proprio un habitat tecnologico può e deve essere ricondotto ad un quadro di riferimenti propriamente umanistici: l’immagine del compositore e dell’interprete che interagiscono in laboratorio con assistenti tecnici, e soprattutto con macchine, talvolta rendendosi anche indipendenti e imparando anche a fare da sè (senza assistenza tecnica, costruendo e controllando di persona le proprie macchine), non riflette un eccesso di tecnicismo, di scientismo – cioè non riflette necessariamente l’idea, fin troppo immediata, per la quale in un mondo ipertecnologico l’arte, al pari di ogni altra attività umana, si riduce ad «epifenomeno degli apparati tecnici».31 Si tratta infatti anche dell’immagine di musicisti che, prendendo atto della situazione storica, dell’ “evento storico della tecnologia”, si impegnano con sensibilità propria nel comprendere (letteralmente: nel portare presso di sè, nel “fare propria”) le mutevoli condizioni di azione, nel ritagliare spazi
31 Jacques Ellul, L’empire du non-sens. L’art et la société technicienne (Parigi, PUF, 1980), pp.59-60.
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possibili di azione ed espressione musicale, aprendo margini di manovra attraverso cui decidere consapevolmente del destino della propria arte. Ci si può chiedere a che titolo si possa attribuire all’esperienza creativa caratteristica dell’arte la capacità di un tale confronto col contesto tecnologico, data la sua natura sostanzialmente ineffabile, personale e intima, così differente rispetto ad altri ambiti di esperienza. Si possono articolare riposte diverse, ma tutte basate su un elemento decisivo, messo in luce più volte in diversi campi di studio: ogni tecnologia è soggetta ad un processo ermeneutico solo attraverso il quale diventa di rilievo sociale; in altre parole, vi è sempre una dinamica di interazione e di scambio tutt’altro che scontata circa l’uso e il funzionamento degli apparati tecnici, la quale talvolta si traduce perfino in un sovvertimento delle finalità di progettazione.32 Vale qui il suggerimento più generale per cui «le tecnologie produttive sono socialmente determinanti perchè sono socialmente determinate».33 Dunque le tecnologie della musica sorte nel Novecento costituiscono altrettanti domini di interazione culturale e cognitiva. Un’interazione certo non facile, sofferta e rischiosa, ma proprio per questo potenzialmente “liberante”, come si è detto. Si deve vedere nell’ambiente di lavoro musicale, con le macchine di cui è composto, il luogo nel quale “razionalità dei fini” e “razionalità dei mezzi” si scontrano e, scontrandosi, entrano infine in comunicazione pervenendo ad un momento di coesione e di sintesi (la filosofia direbbe: il polemos come possibilità della philia, la crisis come condizione alla poiesis).34 La problematica delle tecnologie musicali riguarda quindi la nozione più generale per cui l’esperienza dell’arte si dà come misura dell’invenzione: all’esigenza “espressiva” (cioè all’ambito delle istanze rappresentative, estetiche), essa affianca un elemento che implica sempre un superamento, uno sconfinamento delle tecniche costruttive date. É in tal senso che quello dell’arte in generale è un lavoro che 32 Sul tema si veda, per es., Andrew Feenberg, Critical theory of technology (op.cit.) e David Noble, La questione tecnologica (Bollati Boringhieri, Torino, 1993). Mi permetto inoltre di rinviare al mio “Musica tra determinismo e indeterminismo tecnologico” (Musica/Realtà, n.54, 1997), dove queste premesse guidano la riflessione su alcuni esempi storici riguardanti le tecnologie della musica. 33 Flichy, L’innovazione tecnologica (op.cit.), p.65. 34 Cfr., per es., Jacques Derrida, “L’orecchio di Heidegger. Filopolemologia” (in J.Derrida, La mano di Heidegger, a c. M.Ferraris, Laterza, Bari 1991), in particolare alle pp.160-170; e cfr. Massimo Cacciari, Dell’inizio (Adelphi, Milano, 1990), in particolare alle pp.360-451. Non dimentichiamo che Nietzsche aveva lasciato al Novecento un’immagine assai eloquente che incitava a “filosofare col martello” (Così parlò Zarathustra, 1886), per esprimere l’urgenza di un confronto diretto tra pensiero e possibilità di azione, tra conoscenza astratta ed empirica, tra distacco della riflessione e violenza dell’esperienza.
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riguarda la libertà – la libertà “di azione” come presupposto per quella “di espressione”, dunque come elemento decisivo e fondante. Un esempio: l’automazione Molteplici sarebbero le circostanze storiche da esaminare nella prospettiva appena accennata. Qui posso richiamare brevemente un solo esempio, relativo ad un’idea caratteristica dell’era industriale matura, quella della “automazione” del lavoro. Sebbene lo scenario della fabbrica interamente automatizzata risalga ad alcune proposte di Charles Babbage risalenti ad oltre un secolo prima35 e alle prime forme di controllo automatico nei telai meccanici disegnati da Jean-Marie Jacquard all’inizio dell’Ottocento,36 l’automazione divenne vero e proprio criterio tecnologico generale solo dopo la metà del Novecento, quando fornì un principio innovativo di progettazione per gli impianti di montaggio dell’industria automobilistica, anche a seguito dell’esigenza di mettere a frutto ricerche finanziate dall’industria bellica negli anni precedenti. Ora, è proprio entro la fine degli anni Cinquanta che lo Studio di Colonia e lo studio Siemens di Musica Elettronica di Monaco (uno dei pochi centri privati di musica elettronica, in quegli anni, insieme a quello della Philips di Eindhoven) iniziarono a configurare le proprie attività secondo procedure automatizzate di generazione e montaggio del suono.37 In tal modo veniva a stabilirsi un legame tempestivo e concreto tra un tipo di esperienza musicale e un’idea più generale che trascendeva di gran lunga lo specifico ambito musicale. Consapevolmente o meno, le musiche così realizzate segnalavano come l’idea e il processo dell’automazione fossero densi di ripercussioni non solo per il mondo aziendale e industriale. Allo stesso tempo, facendo dell’automazione un elemento della prassi compositiva, esse 35 Babbage, che fu inventore della analytical engine considerata il precursore del computer, profetizzò nel 1832 la «fabbrica interamente computerizzata [...] come un gigantesco automa in cui tutte le parti agiscono di concerto, subordinate ad un motore auto-regolatore» (Noble, La questione tecnologica, op.cit, pp.17-18). 36 Si vedano i paragrafi “Il calcolatore” e “L’automatizzazione” in Bertrand Gille, Storia delle tecniche (Editori Riuniti, Roma, 1985), pp.491-501. 37 In particolare, l’esigenza fu sollevata con una certa impellenza nella realizzazione di brani come Essay, di Koenig (1957), Incontri di fasce sonore, di Evangelisti (1957) e Anepigraphe, di Herbert Brün (1958), tutti brani su nastro magnetico realizzati a Colonia. Esempi subito successivi furono Kontakte (per pianoforte, percussioni e nastro magnetico), di Stockhausen, realizzato sempre a Colonia con l’assistenza di Koenig (1960), e Klänge unterwegs di Brün, realizzato a Monaco (1961). Testimonianze dirette in proposito sono in Gottfried M. Koenig, Genesi e forma. Nascita e sviluppo dell’estetica musicale elettronica (a c. A.Di Scipio, Semar, Roma, 1995).
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esprimevano l’urgenza di un adeguato confronto: si trattava in fondo di porre interrogativi di rilievo più diffuso – “cosa (ci) sta accadendo attraverso il processo di automazione?”, “cosa dovrebbe o potrebbe essere l’automazione, e cosa ci si dovrebbe o potrebbe fare?”. Interrogativi che ognuno avrebbe potuto sollevare sulla base di una percezione sufficentemente acuta e informata del particolare momento storico, tale da cogliere nel fenomeno aspetti qualitativi che non è fuori luogo definire “epocali” (infatti «l’automazione è stata per la seconda rivoluzione industriale ciò che la meccanizzazione fu per la prima»38). Per un giovane europeo degli anni Cinquanta doveva essere piuttosto naturale legare il concetto di automazione a quello di “alienazione”, così tipico del gergo sociologico e politico del periodo a seguito delle tradizioni socialiste e marxiste.39 Come in seguito avrebbe osservato Adorno, «nella musica elettronica l’alienazione diventa una provocazione»:40 invece di “dire” le condizioni alienate di esistenza storica, si trattava di trasformarle in una determinata prassi compositiva, e quindi di dar loro concreta forma udibile – un lavoro interno alla musica che finiva con l’attribuire un proprio significato ad un processo tecnico di rilievo sociale generale.41 Non meno rilevante del processo costruttivo era l’esteticità delle musiche elaborate in forme più o meno profondamente automatizzate. Va da sè che non poteva trattarsi di un’esteticità conciliante ed eufonica: alcune di quelle composizioni sono divenute parte nel repertorio più emblematico delle avanguardie post-belliche (per es. Incontri di fasce sonore di Evangelisti, Gesang der Jünglinge e Kontakte di Stockhausen), e tuttavia le loro sonorità potevano solo darsi come testimonianza interrogativa circa le condizioni tecnologiche di esistenza cui l’automazione, sul piano generale, contribuiva con impulso 38
Noble, La questione tecnologica (op.cit.), p.26. “Alienazione e intenzionalità musicale” è anche il titolo di un saggio di Luigi Rognoni del 1964 (Aut-aut, n.79-80). Nelle prime righe si legge: «Oggi siamo nell’età della tecnica, anzi della tecnologia, e quindi l’arte, se ha ancora una ragione d’essere in un’epoca come la nostra, deve per prima cosa porsi il problema della tecnica [...] Ma il problema della tecnica non riguarda tanto la tecnica in senso strumentale, come potevano ancora intenderla un Kandisky o un Klee, uno Schönberg o un Webern, quanto la tecnica tramutata in “ideologia” [...]» (p.7). 40 Adorno, Quasi una fantasia (op.cit.), p.265 41 Mi pare di rilevare, qui, i tratti di un grande insegnamento caratteristico dell’arte del Novecento: il fare artistico partecipa al momento storico rifacendone a proprio modo la struttura e il processo interno, piuttosto che farne “programma poetico” e darne una rappresentazione coi mezzi della tradizione musicale – come ancora avveniva nel Futurismo, per es., o in lavori sinfonici quali Pacific231 di Arthur Honegger (1923), La macchina di Fritz Klein (1921) e altri esempi musicali degli anni Venti e Trenta. 39
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irreversibile.42 In alcuni casi si pervenne a soluzioni sonore davvero dure ed estreme, e non solo a Colonia e a Monaco (si ascoltino, per es., i suoni abrasivi del ciclo Funktionen di Koenig, realizzato negli anni Sessanta a Utrecht, l’eccesso materico di Bohor di Xenakis, realizzato a Parigi nel 1962 e contestato pubblicamente perfino da Schaeffer, o il rumorismo di Fontana Mix, realizzato da Cage a Milano già nel 1958). All’ascolto di quei suoni, le condizioni tecnologiche di esistenza in epoca post-bellica erano restituite non solo come elemento dell’attualità storica, ma anche come evento prefigurato dalla pianificazione e realizzazione “scientifica” dello sterminio durante la Guerra. Dall’automazione all’informatica musicale Sempre sul finire degli anni Cinquanta, di nuovo a seguito di pregressi investimenti dell’industria bellica, andava maturando la possibilità di una “tecnologia dell’informazione” affidabile e socialmente utile, la quale, come sappiamo, ha poi effettivamente conosciuto diffusione capillare nel corso di pochi decenni (transizione dai grandi calcolatori mainframe all’home computing).43 Tale possibilità scaturiva da due premesse maturate nel corso della prima metà del secolo e ben radicate nella tradizione scientifica dell’Ottocento, cioè da iniziali teorizzazioni matematiche (“teoria dell’informazione”) e da tangibili sviluppi dei sistemi di comunicazione (“teoria della trasmissione dei segnali”). Le prime prove di musica generata al computer (computer music, “informatica musicale”) in parte erano legate proprio al concetto di automazione del processo produttivo, perseguito ora attraverso una forte astrazione simbolica delle operazioni compositive. Non a caso le prime musiche composte mediante computer furono lavori strumentali le cui partiture risultavano da procedure precisamente formalizzate (per es. i lavori del ciclo ST di Xenakis, nei primi anni Sessanta). Anche le prime esperienze musicalmente significative di sintesi digitale del suono, come quelle di James Tenney ai laboratori Bell Telephones (New Jersey, 42
L’irreversibilità del processo mediante il quale l’economia mondiale veniva fatta poggiare su sistemi di produzione interamente automatizzati fu segnalata da un matematico e ingegnere quale Norbert Wiener, la cui nozione di “cibernetica” è stata fondativa per la struttura delle società altamente tecnologizzate. In effetti, proprio Wiener non rinunciò a sottolineare la problematicità di soluzioni tecnocratiche in tal senso, preservando una prospettiva umanistica sulle questioni tecniche e sociali sollevate dal suo stesso lavoro (cfr., per es., Introduzione alla cibernetica, Bollati Boringhieri, Torino, 1966; ed. or. 1950). 43 Un profilo storico della diffusione di massa della tecnologia informatica si trova in Paul Ceruzzi, A history of modern computing (MIT Press, Cambridge Mass., 1998).
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1961-64), lasciavano comunque l’articolazione musicale a programmi basati su regole più o meno deterministiche (“composizione algoritmica”). Stesso discorso vale per alcuni lavori della metà degli anni Sessanta composti da Herbert Brün (all’Università di Urbana, Illinois) e da Pietro Grossi (a Firenze). Quello che in ambito informatico oggi viene detto “ambiente di programmazione” può essere paragonato per sommi capi ad una ricostruzione al computer di ciò che era stato l’ambiente di lavoro costituito da varie macchine, ciascuna con una sua diversa funzione. Data la forte astrazione logica e simbolica propria di questa tecnologia, si ha qui come la tendenza a spostare il giudizio estetico dalla forma sensibile dell’opera come prodotto finito alla forma dei processi di produzione – tendenza che comunque è caratteristica di vari luoghi del Novecento musicale e che riflette un elemento comune ai vari “sperimentalismi” che ne hanno segnato il corso.44 Nella struttura logica e “priva di corpo” della forma digitale, è lo stesso materiale sonoro a diventare tutt’altro che “materiale”, e quindi anche tutt’altro che “sonoro”: prima di adeguate procedure di conversione in vibrazioni percepibili, il suono rimane muto, codificato in valori numerici (sequenze di dati) o in una descrizione degli stati logici interni al computer (sequenze di istruzioni di programmazione). In base a questi due aspetti – enfasi sul processo e condizione di esistenza puramente virtuale – la prospettiva dell’informatica musicale ha finito con l’assimilare in retrospettiva anche tutte quelle “macchine compositive”, ovvero quei vari formalismi musicali su base logicomatematica, proposti più volte nel corso del secolo, con illustri precedenti storici (dal Musikalisches Würfelspiel attribuito a Mozart, K294d, alla Tabula mirifica di Athanasius Kircher). Per attenerci al Novecento, si dovrà ricordare, per es., il lavoro pre-informatico di 44
Si pensi a certi lavori del primo Cage (anni Quaranta) o ai procedimenti di “serialismo integrale” del primo Boulez (primi anni Cinquanta) e di Milton Babbit (anni Cinquanta e Sessanta). Si pensi anche alla definizione di Steve Reich di “musica come processo” (“Musica come processo graduale”, traduzione in La musica elettronica, op.cit., pp.265-267; ed. or. 1971), tipica del minimalismo americano (anni Sessanta). Negli anni Novanta la nozione di “arte come processo generativo” (per la quale cfr. Generative systems in electronic arts, numero monografico di Leonardo Music Journal, in corso di stampa – Atti dell’omonimo convegno tenuto a Melbourne nel Dicembre 1999) ha avuto ricadute perfino su musiche di ampio consumo, e ciò sia per il diffondersi di sistemi di house music (con i quali si ottengono facilmente sul proprio computer brevi componimenti simili a brani musicali di grande successo, destinati alle discoteche), sia per il diffondersi su Internet di una specie di “arte genetica”, impersonale e anche letteralmente priva di autore, secondo quanto auspicato già dall’avanguardia Dada negli anni Venti e da altri esempi di anarchismo artistico negli anni Sessanta e Settanta.
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Joseph Schillinger, negli anni Trenta e Quaranta,45 oppure l’uso da parte di Cage nei primi anni Cinquanta di automatismi aleatori legati alla consultazione dell’antico libro degli oracoli cinese I-ching (nel 1983 queste procedure cageane sono state tradotte da Alvin Culwer in un vero e proprio programma per computer). Ai primordi dell’informatica musicale, significativo è stato il tentativo di Lejaren Hiller e Leonard Isaacson di formalizzare regole stilistiche musicali per far generare al computer brevi componimenti contrappuntistici.46 Tutto il campo della “composizione assistita da 45
J.Schillinger, The Schillinger system of musical composition (New York, Fischer, 1946). Il libro, tra l’altro, contiene un’interessante Prefazione di Henry Cowell. Il lavoro di serializzazione congiunta di altezze e ritmi proposto dal compositore e matematico russo-statunitense è stato paragonato da Earle Brown (cfr. libretto del compact disc Earle Brown. Music for piano[s] 1951-1995, New Albion Rec., NA082CD, 1996) ad un “principio generativo di crescita” analogo alle proposte di Oliver Messiaen (“modi di valori di intensità”, “modi ritmici”, ecc.) che risultarono rilevanti per i compositori seriali negli anni Cinquanta. 46 L.Hiller e L.Isaacson, Experimental music (McGraw-Hill, New York, 1959). Sulle problematiche della formalizzazione di strutture musicali, una prospettiva storica tutta “americana” ma non priva di interessanti spunti teorico-musicologici è Machine models of music (a c. S.Schwanauer e D.Levitt, MIT Press, Cambridge Mass., 1993); si veda anche Computer representations and models in music (a c. A.Marsden e A.Pople, Academic Press, Londra, 1992). Più significativi per la teoria della musica del Novecento i contributi di Iannis Xenakis raccolti in Formalized Music (Pendragon Press, Stuyvesant, 1992; ed.or. Musiques formelles, numero monografico di La revue musicale, n.253-254), e alcuni spunti teorici di Gottfried M. Koenig in Genesi e forma (op.cit.). Sul fronte musicologico e teorico-musicale, in seguito a lavori iniziali come quello di Hiller e Isaacson si è andato sviluppando tutto un ambito di ricerca e di analisi della musica basato sul concetto di “grammatica generativa”. Cfr., per es., Mario Baroni, “Sulla nozione di ‘grammatica’ musicale” (Rivista italiana di musicologia, 16, 1981); Curtis Roads, “Le grammatiche come rappresentazioni della musica” (in Musica ed elaboratore, op.cit.), e il volume antologico Musical grammars and computer analysis (a c. M.Baroni e L.Callegari, Olschki, Firenze, 1984). Successivamente anche ricerche di stampo psicologico-cognitivista hanno adottato una metodologia di rappresentazione di questo tipo (cfr. Fred Lerdahl e Ray Jackendoff, A generative theory of tonal music, MIT Press, Cambridge Mass., 1983). Lerdahl ha provato ad estendere il suo approccio di studio, inizialmente vòlto alla formalizzazione di una “sintassi” dei processi di ascolto relativi a repertori classico-romantici, anche a musiche atonali e seriali, ma con esiti decisamente contraddittori (si veda, per es., la sua discussione di Le marteau sans maitre di Boulez in “Cognitive constraints on compositional systems”, nel volume Generative processes in music, a c. J.Sloboda, Oxford University Press, 1988). Può risultare interessante segnalare, di passaggio, la differenza tra l’approccio di Lerdahl e quello della set-theory di Allen Forte (The structure of atonal music, Yale University Press, New Haven, 1973): entrambi influenzati da paradigmi computazionalistici, i due musicologi statunitensi pervengono a valutazioni del tutto antitetiche circa l’analisi di musiche non tonali, e ciò a causa di differenti premesse epistemologiche circa le tecniche di rappresentazione della struttura musicale (in Forte: formalismo simbolico astratto; in Lerdahl: formalismo su base psicologica e semantica).
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elaboratore”, caratteristico di tendenze sviluppatesi a partire dagli anni Sessanta, consiste da una parte nello specializzarsi di “micro-teorie musicali” incorporate nel software, dall’altra nel moltiplicarsi degli stili di programmazione, e cioè dei modi di progettare e costruire adeguate rappresentazioni della struttura musicale. Cenni di antropologia dell’informatica musicale Uno degli aspetti più interessanti del software musicale consiste nel fatto che esso rappresenta, per un osservatore esterno, una “registrazione” delle azioni e delle scelte compiute da un musicista nel corso del suo lavoro – se si tratta di programmi scritti da un musicista, compositore o esecutore che sia – oppure delle azioni e delle scelte che si ritengono in generale pertinenti a compiti musicali – se si tratta di software prodotto dall’industria musicale (di solito concepito con un’occhio alla manualistica tradizionale e uno a stilemi di musica di consumo). In tal senso il software è una rappresentazione di conoscenze specifiche di un dominio di azione, rese operative in forma logica. Il paradigma della cosiddetta “musicologia cognitiva” consiste in parte proprio nello studiare il processo compositivo, o quello interpretativo, a partire dalle traccie che esso lascia nel calcolatore.47 Ciò apre ad alcune interessanti direzioni di studio come, per es., ad una sorta di etnomusicologia delle prassi musicali in ambiente tecnologico, oppure all’analisi dell’evoluzione software come traccia dell’evoluzione delle teorie musicali del secondo Novecento.48 Nonostante l’interesse di una simile prospettiva di studio, questo aspetto del processo di conoscenza insito nel software sembra scontrarsi col fatto che l’evoluzione tecnologica appare in questo settore talmente rapida da creare, paradossalmente, un problema di “conservazione di beni culturali”: essa rende difficile la conservazione, la ricostruzione e 47 Si vedano gli studi di Otto Laske (per es. Otto Laske. Navigating new musical horizons, a c. Jerry Tabor, Greenwood Press, New York, 1999) e l’antologia Understanding music with artificial intelligence. Perspectives on music cognition (a c. O.Laske, K.Ebcioglu e M.Balaban, MIT Press, Cambridge Mass., 1992). 48 Considerazioni sulla storia del software musicale sono sparse nella letteratura specialistica dell’informatica musicale, che per brevità non posso richiamare. L’approccio cui si fa cenno, in ogni caso, fa valere il concetto per cui il computer è mediatore non solo di “dati” o “informazioni”, ma anche di processi di significazione e di interpretazione: ciò riguarda in fondo il rilievo cognitivo e perfino esistenziale (vista la loro presenza nella nostra quotidianità) delle cosiddette “interfacce”, cioè dei meccanismi di scambio e interazione tra uomo e macchina. L’importanza di questo aspetto era stata sottolineata con intenzione per metà filosofica e per metà ingegneristica già all’inizio degli anni Ottanta; cfr. Terry Winograd e Fernando Flores, Understanding computers and cognition. A new foundation for design (Ablex, Norwood, 1986).
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la valorizzazione di ricerche e repertori informatico-musicali sorti solo pochi anni prima, con potenziale perdita del bagaglio di cultura corrispondente, e dunque con potenziale perdita di elementi di analisi altrimenti non rinvenibili. Nella prospettiva di antropologi ed etnografi, conservare gli strumenti, conservando memoria delle rispettive tecniche, è condizione decisiva per preservare idee e valori: «gli strumenti sono segni», scriveva Andrè Schaeffner nel quadro dell’etnomusicologia degli anni Trenta, «essi rappresentano un insieme di credenze, abitudini e bisogni umani [...], e sono sede di azioni».49 Molti strumenti della “liuteria elettronica” dell’inizio del Novecento sono già in musei pubblici o privati, come pure le apparecchiature di alcuni degli studi radiofonici degli anni Cinquanta. A sua volta, l’industria discografica fa largo uso, ormai da diversi anni, di tecnologie digitali per il restauro e la conservazione di registrazioni di valore storico, i cui repertori sono inevitabilmente quelli di tradizione classico-romantica. Anche alcuni repertori elettroacustici fissati su nastro analogico negli anni Cinquanta e Sessanta sembrano poter essere preservati grazie ad attente procedure di restauro sonoro.50 In generale, invece, poco si sta facendo per la conservazione ed il restauro di “beni musicali informatici”.51 Le macchine digitali, nella loro doppia componente software e hardware, rischiano invece di scomparire per effetto del cosiddetto processo di “innovazione tecnologica”. Si deve anche sottolineare, comunque, che contrariamente alle apparenze questo non costituisce un problema specifico di “logica della tecnica”, ma piuttosto, e sempre più profondamente, appare essere un effetto indotto dalle “logiche di mercato” (mi riferisco all’industria dei prodotti informatici). Alcuni software non commerciali per la sintesi del suono, come i famosi MusicV e Csound (i cui progetti iniziali risalgono 49
Andrè Schaeffner, Origine degli strumenti musicali, Sellerio, Palermo, 1978 (ed. or. 1968), p.334. 50 Si possono segnalare le iniziative di restauro di brani elettronici degli anni Cinquanta e Sessanta, come quelli dello Studio di Fonologia di Milano, per es. Thema (Omaggio a Joyce) di Berio, del 1958, restaurato nel 1995 presso Centro Tempo Reale di Firenze sotto la supervisione del compositore (cfr. Paolo Zavagna, “Thema (Omaggio a Joyce) di Luciano Berio. Un’analisi”, Quaderni della Civica Scuola di musica di Milano, n.21-22, 1992). Alcuni nastri di Luigi Nono sono stati restaurati negli ultimi anni per iniziativa di Ricordi e della Fondazione Archivio Luigi Nono in occasione di recenti esecuzioni in concerto. 51 Fino ad oggi pochissime sembrano essere state le iniziative vòlte a “restaurare” software musicale di rilievo storico: negli Stati Uniti, Arun Chandra ha riscritto e reso funzionanti programmi di Lejaren Hiller e di Herbert Brün risalenti agli anni Cinquanta e Settanta; in Europa, il programma Project1 di Koenig, disegnato nei tardi anni Sessanta, è stato reso operativo sugli attuali computer ad opera di alcuni collaboratori del compositore.
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rispettivamente ai primi anni Sessanta e agli anni Settanta), sono ancora perfettamente funzionanti sugli odierni calcolatori, nonostante la loro età sia decisamente fuori da ogni norma valida per le logiche di mercato, e ciò grazie al fatto che, scaturendo dal lavoro di gruppi di musicisti e ricercatori non aventi immediate finalità lucrative, essi hanno conosciuto un grado di “portabilità” e un “ciclo di vita” assai più elevato di gran parte del software commerciale. In casi del genere, il criterio di “innovazione” implica uno sviluppo che non rimane mai del tutto irreversibile e che non predetermina la rapida obsolescenza dei sistemi che esso stesso mette a disposizione. Ciò implica la progettazione di programmi piuttosto indipendenti dal sostrato hardware, ma soprattutto implica l’adesione a strategie di sviluppo “partecipative”, nelle quali cioè i codici di programmazione sono pubblicamente disponibili senza oneri (un po’ come accade oggi per sistemi informatici alternativi a quelli di ampia diffusione commerciale, come per es. il sistema operativo Linux). Ecco allora che occuparsi di informatica musicale ha comportato, dal punto di vista dell’esperienza di numerosi musicisti che a partire dagli anni Sessanta hanno contribuito al suo stesso sviluppo, la maturazione di competenze sufficenti a garantire loro una certa “autonomia di azione” rispetto all’industria dei “prodotti informatici per la musica”. Ricompare allora la figura di un rapporto dialettico e contraddittorio interno al processo tecnologico-musicale, teatro di un confronto tutt’altro che ovvio e lineare. La musicologia di fronte allo “sperimentalismo” del Novecento Le problematiche affrontate nelle riflessioni fin qui esposte sono in genere considerate, ancora oggi, di poco rilievo per studi propriamente musicologici. Alcuni argomenti di senso comune, riguardanti per es. il concetto della “inevitabilità” dell’evoluzione tecnologica, della sua “neutralità”, della forza autonoma e trainante della tecnologia rispetto alle attività produttive dell’uomo (argomenti accettati con troppa immediatezza, ma da tempo screditati in ambito di scienze sociali e di filosofia e storia della scienza), uniti a residui di estetica idealista che fanno delle varie manifestazioni dell’arte un dominio di espressione a sua volta sostanzialmente autonomo rispetto alle cose del mondo, inducono a pensare che si tratti effettivamente di problematiche estranee alle competenze musicologiche e della teoria musicale, e semmai di interesse per la sociologia della musica.52 52 L’analisi sociologica in ambito musicale mi pare interessante laddove offre materia per una sorta di “storia delle percezioni”: purtroppo più spesso si tratta invece
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Questa estraneità viene contraddetta se siamo disposti a riconoscere al lavoro musicale la capacità di restituire valori non solo strettamente estetici ma anche “etici”, e cioè se riusciamo a rilevare nel fare musica i termini di un comportamento dialettico e costruttivo con le condizioni culturali consolidate nelle tecnologie di produzione e fruizione disponibili. Ciò è possibile perchè, come si è accennato, sul piano generale ogni strumento, in senso lato, è sede di conoscenze, speranze e sistemi di valori particolari, e reca l’impronta di coloro che lo hanno ideato e/o costruito, e contribuisce come tale a confermare e diffondere idee e valori caratteristici di quell’impronta, dunque relativi e storicamente definiti. In particolare, ogni tecnologia della musica rimanda ad un dominio di conoscenze pratiche e ad una “teoria della musica” – ad un campo di possibilità di azione musicale circoscritto da proprie regole: pertanto la pregnanza di un fatto musicale, proprio in quanto tale, sta non solo nelle sue qualità strutturali ed espressive in quanto esito finale del fare, ma anche nei modi e nelle tecniche del suo essere fatto. Un tratto importante della storia musicale nel Novecento sta proprio nel manifestare con chiarezza l’intermediazione permanente tra razionalità dei mezzi e razionalità dei fini, tra determinazione dall’esterno e autonomia delle tecniche individuali e delle particolari attività partecipative. Molte delle prassi musicali sorte nel Novecento condividono una tensione latente che deriva dalla presa di coscienza che “ormai” – nel regno della tecnica divenuta storia – il fine estetico, da solo, non può più giustificare i mezzi. In alcuni casi ciò si è manifestato in posizioni intellettuali che, nella loro radicalità, chiariscono la situazione più generale: risulta significativa, per es., un’annotazione di Luigi Nono risalente al 1970, circa il suo disagio nel doversi «giostrare usando mezzi tecnici di oggi, in possesso di quelle stesse organizzazioni contro le quali sono destinato a scontrarmi».53 Al di là della vicenda personale del compositore veneziano, con la sua posizione morale e politica, l’annotazione rimanda in effetti alla più diffusa conflittualità tra orizzonte dei mezzi e orizzonte dei fini che emerge ogni volta che la dell’elaborazione statistica e del commento di dati e impressioni riguardanti i consumi musicali indotti dall’industria della cultura e dell’intrattenimento di massa. Ciò raramente permette una visione profonda delle trasformazioni cognitive delle relative questioni tecnologiche. La difficoltà purtroppo si riscontra spesso anche nel discorso “massmediologico” degli esperti del settore (per es., Michel Chion, Musica, media e tecnologie, Il Saggiatore, Milano, 1996; Franco Fabbri, Il suono in cui viviamo. Inventare, produrre e diffondere musica, Feltrinelli, Milano, 1996). 53 Citato in Luigi Pestalozza, “Impegno ideologico e tecnologia elettronica nella musica di Nono degli Sessanta”, Musica/Realtà, n.23, 1987, p.53.
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forza del pensiero musicale richiede un serio lavoro tecnologico, una condizione profonda di “ricerca” (dei fini e dei mezzi). La conseguenza della situazione in cui i mezzi della creazione artistica possono essere portatori di valori contrastanti con gli scopi e le funzioni riconosciute all’arte, è che l’opera d’arte è sempre sul punto di perdere normatività estetica a favore di una diversa esemplarità, che si direbbe caratterizzata nel senso di un’ “etica della responsabilità”: ogni opera si offre come traccia sensibile di un’insieme di scelte ed opzioni che stabilisce un particolare rapporto tra il fare dell’arte e le condizioni tecniche di esistenza ad esso relative nel dato momento storico, e rimanda a determinate forme di lavoro, a vari saperi tecnici, a vari modi di comprensione del fare arte, e in definitiva a vari modi di comprensione del mondo e del nostro esserne parte. Per questo repertori musicali diversi rimandano a diverse “tecnologie musicali”, a molteplici configurazioni nei processi di creazione e di ricezione musicale, ciascuna potenzialmente in grado di appropriarsi in maniera originale di una possibilità tecnica tra quelle esistenti nel determinato momento storico, o perfino di inventarla ex novo da sè. L’idea che l’esperienza musicale sia in grado di determinare, almeno in parte, le proprie tecnologie risulta, in fondo, relativamente soprendente: la storia del Novecento illustra bene come gli sviluppi del “mondo della tecnica” non seguano una linea di progressiva crescita ma piuttosto una trama di ramificazioni, di processi diversificati, e talvolta perfino in forte contraddizione tra loro, e che questi processi di diversificazione sono causati da una ricca interazione sociale, da una dinamica cognitivo-interpretativa aperta e, almeno in certe fasi, indeterminata. Si pensi, per richiamare un esempio di ampia rilevanza culturale, alle istanze che i movimenti ambientalisti hanno contrapposto a sviluppi tecnici di forte impatto ecologico, con conseguenti problemi di rigenerazione di interi sistemi industriali e relativi risvolti in materia di occupazione. Il cammino della conoscenza scientifica ed il “progresso tecnologico” non procedano affatto lungo un percorso univoco e autonecessitante, nonostante le apparenze. L’arte nella storia, al di là della sua determinazione relativamente recente (moderna) di “esperienza estetica”, è sempre stata laboratorio di reinterpretazione e invenzione tecnica. D’altra parte, nella prospettiva umanistica che qui interessa, occorre anche chiedersi se poi uno dei compiti di studio e analisi di fenomeni di creatività artistica e musicale non consista in fondo nel descrivere e comprendere il formarsi di specifici modi di operare, nel loro organizzarsi in più estesi sistemi di pensiero. E quindi nell’illustrare
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come ciascuna prassi musicale rifletta una particolare interazione tra configurazioni tecniche specifiche e il contesto in cui esse sorgono. Per fare un esempio, consideriamo lo “sperimentalismo” che ha segnato così profondamente le estetiche musicali del Novecento, sin dal suo inizio, e che oggi viene inteso di solito in accezione riduttiva, come disperata ricerca di rinnovamento, come permanente provvisorietà dell’esperienza. Non si tratta, forse, di una delle risposte che l’arte ha dato, secondo razionalità propria, all’evento storico nel quale la tecnologia diventa ambiente dell’esistenza umana? I repertori più ricchi di “sperimentazione” (cioè più aperti all’esperienza) sono infatti quelli che riflettono un’istanza culturale che contrasta con l’idea di neutralità e di autonomia della tecnica, ma che contrasta anche con l’idea di neutralità e autonomia dell’arte. Le discipline di tradizione umanistica (oggi “scienze umane”) per lungo tempo hanno lasciato che l’evoluzione tecnologica proponesse un suo proprio ambito discorsivo, di solito teso all’auto-legittimazione e quindi a consolidare indirettamente una forma silenziosa di egemonia culturale (“tecnocrazia”). Ciò è stato possibile perchè esse ritenevano erroneamente che non occuparsi di questioni tecnologiche fosse condizione sufficente a non lasciarsi influenzare dalla loro specifica forma di razionalità, e a non lasciare che questa penetrasse l’oggetto stesso delle loro osservazioni. Così è avvenuto anche per la musicologia rispetto al suo oggetto. Un’eredità del Novecento Intorno alla metà degli anni Sessanta, Pierre Schaeffer affermava che gli studi musicologici conoscevano, a fronte dei cambiamenti in corso all’epoca, un’impasse profonda riconducibile a tre ordini di problemi: 1 - diventava problematica la definizione stessa di cosa si debba intendere per “musicale” (una questione di antropologia culturale e di semiologia, naturalmente già nota all’etnomusicologia sin dall’inizio del secolo, ma ora riguardante fenomeni della cultura musicale occidentale piuttosto che culture extra-occidentali); 2 - mutavano profondamente le condizioni tecniche di produzione, fruizione e diffusione (un problema di tecnologia, di comprensione della prassi);
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3 - risultava gravemente lacunoso il vocabolario musicologico rispetto al rinnovarsi delle percezioni (un problema di terminologia, o anche, in un certo senso, di “filologia”).54 Le questioni così poste costituiscono forse un’unica ampia problematica relativa alle fondamenta teoriche della disciplina e al suo rapporto con i cambiamenti intervenuti, nel corso del Novecento, nelle attività dette “musicali”. La prospettiva di Schaeffer nel Traitè des objects musicaux non era a sua volta in grado di farsi carico di una riarticolazione teorica complessiva.55 Essa però rilevava con chiarezza i 54
Cfr. Schaeffer, Traitè des objets musicaux (op.cit.), pp.18-19. Si deve notare che le problematiche segnalate da Schaeffer offrono valide motivazioni per seguire una via “etnomusicologica” ai repertori nati in ambiente tecnologico. La formazione musicologica, d’altra parte ancora oggi, non implica la necessaria familiarità con le tecnologie musicali successive a quelle del repertorio tardo-romantico e neo-classico, e dunque non permette di valutare il gesto esecutivo o compositivo sulla base di una comprensione attiva della prassi: fra un lavoro di Brahms e uno di Stockhausen, come peraltro anche tra Brahms e Haendel o tra Haendel e Perotinus, la differenza non è innanzitutto nei rispettivi “linguaggi musicali”, ma nei modi del fare musica, negli strumenti e nei concetti ad essi relativi. Di qui la necessità di porre riparo al decifit di comprensione della prassi attraverso uno studio “sul campo” (l’esigenza è argomentata nel mio “Centrality of techne for an aesthetic approach on electroacoustic music”, Journal of new music research, vol.24, n.4, 1995). Ciò risponde alla opportunità, d’altra parte ben nota all’analisi musicale, di adattare i metodi di osservazione alla specificità culturale dei repertori: si tratta di una questione propriamente “etnometodologica”, cioè relativa alla «ricerca empirica dei metodi utilizzati [in un certo dominio di esperienza] per dare senso e portare a termine le azioni» (Alain Coulon, L’ethnométhodologie, PUF, Parigi, 1993, p.26). L’esigenza di un approccio etnomusicologico è stata sollevata anche a seguito dell’assenza, quasi totale nei repertori elettroacustici, di forme di notazione musicale: ciò in effetti mette chi voglia occuparsi di simili repertori in una posizione simile a quella dell’etnomusicologo di fronte a musiche extra-occidentali, con la necessità di effettuare una “trascrizione” da sottoporre a successiva indagine (e con la necessità di formulare i criteri stessi di trascrizione, pervenendo anche ad inevitabili questioni di teoria della musica). Naturalmente in una simile situazione sorgono difficoltà dovute a contenuti musicali timbricamente piuttosto complessi, non facili da segmentare e trascrivere (ciò rimanda anche alla carenza terminologica cui si riferisce Schaeffer). Da qui un certo psicologismo nelle analisi che seguono questa strada, come per es. nel lavoro di François Delalande (“En l’absence de partition: le cas singulier de l’analyse de la musique électro-acoustique”, Analyse musicale, n.3, 1986), e nei contributi di vari autori in Analysis of electroacoustic music (numero tematico di Journal of new music research, vol.27, n.1-2, 1998). In italiano si veda Lelio Camilleri, “Metodologie e concetti analitici nello studio di musiche elettroacustiche”, Rivista italiana di musicologia, vol.28, n.1, 1993, e Strategie di analisi della musica elettroacustica (numero tematico del Bollettino di analisi e teoria musicale, vol.5, n.1, 1998). 55 Non è il caso di soffermarsi sui contenuti della proposta di Schaeffer, spesso messa in discussione anche dai suoi contemporanei (talvolta anche all’interno del Groupe de Recherches Musicales). Pregi e difetti di “Schaeffer teorico” sono stati richiamati da Jean-Jacques Nattiez (cfr. alcuni capitoli del suo Musicologia generale e
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sintomi di una crisi che da lì a poco si sarebbe generalizzata, e infine segnalava l’urgenza di una prospettiva di studio interdisciplinare. Non a caso il secondo Novecento ha visto il moltiplicarsi delle comunità musicologiche, ormai distinte non più solo in base al repertorio o periodo storico di riferimento, ma anche in base a diverse attitudini metodologiche, se non anche a differenti premesse epistemologiche. Considerando le difficoltà messe in evidenza già da Schaeffer, sembra del tutto naturale che i principali spunti di riflessione in rapporto alle tecnologie musicali e alle relative questioni estetiche siano provenuti non tanto da musicologi quanto da musicisti coinvolti di persona nell’elaborazione dei fenomeni stessi,56 con poche eccezioni.57 D’altra parte è vero che un serio lavoro musicologico ha bisogno di una certa “distanza storica” (e anche di distanza critica) dai fenomeni. Inoltre, nel caso che ci riguarda, i cambiamenti tecnologici sembrano conoscere tempi di rinnovamento così rapidi da impedire la necessaria sedimentazione e interiorizzazione di concetti, idee, ecc. Sebbene ragionevoli, tali obiezioni sono perà entrambe sollevabili attualmente (lo dimostra anche il numero di ricerche dedicate negli ultimi anni ai repertori qui richiamati58): da una parte, la distanza storica sta venendo semiologia, EDT, Torino, 1989, passim; ed. or. 1987), e sono stati ben delineati nel recente volume antologico Ouïr. Entendre, écouter, comprendre après Schaeffer (a c. M.Solomos e J.C.Thomas, Buchet/Chastel, Parigi, 1999). 56 Gli esempi sono i più vari, da Karlheinz Stockhausen (i primi due volumi dei Texte, op.cit.) e Henri Pousseur (Fragments théoriques de la musique expérimentale, Università di Bruxelles, 1970) a Robert Erickson (Sound structure in music, University of California Press, Berkeley, 1975) e Trevor Wishart (On sonic art, Imagineering Press, York, 1985; oggi riedito da Harwood Academic Press, Londra), fino ad innumerevoli autori di più giovane generazione (cfr. volumi antologici quali The language of electroacoustic music, a c. S.Emmerson, MacMillan, Londra, 1986; il già richiamato Timbre composition in electroacoustic music, op.cit., e infine Martin Supper, Elektroakustische music & computer musik. Geschichte, ästhetik, methoden, system, Wolke Verlag, Hofheim, 1997). In italiano, valga un richiamo generico alle varie fonti storiche raccolte in La musica elettronica (op.cit) e, per sviluppi successivi, le antologie Musica ed elaboratore (a c. A.Vidolin, La Biennale di Venezia, 1980), e Teoria e prassi della musica nell’era dell’informatica (a c. A.Di Scipio, G.Laterza, Bari, 1995). 57 Tra le eccezioni vale segnalare un significativo contributo estetico-teorico di Carl Dahlhaus, “Ästhetische probleme der elektronischen musik” (in Experimentelle musik, Atti dell’omonimo convegno tenutosi a Berlino nel 1968, Gebr Mann Verlag, Berlino, 1970; traduzione italiana in Quaderni della Civica Scuola di musica di Milano, n.26, 1999). Scrive fra l’altro Dahlhaus: «non è sufficente imputare questa mancanza evidente [di capacità di analisi della “musica elettronica”] alla mania dei compositori di atteggiarsi a tecnici. La difficoltà si fonda in realtà nella “cosa” stessa», laddove infatti il tentativo di caratterizzare i suoni e rumori di questa musica non può avvenire «che definendo l’oggetto o il processo» della loro produzione (p.29 della traduzione italiana). 58 Per limitarmi ad alcuni contributi più direttamente rilevanti per le considerazioni qui sviluppate, segnalerei i volumi di Angelo Orcalli (Fenomenologia della musica
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da sé; dall’altra, una più matura consapevolezza delle questioni tecnologiche dovrebbe far rilevare che, come accennato sopra, la rapidità dell’innovazione riguarda più l’alternanza tra “nuovo” ed “obsoleto” adeguata al ciclo dei consumi, che non certe invarianti di progetto e funzionalità di una tecnologia matura. Le novità che impongono una profonda reimpostazione delle condizioni tecnologiche di lavoro appaiono relativamente frequenti in ambito musicale. Ne è segno evidente la sostanziale costanza di termini e concetti in uso negli ultimi venticinque o trent’anni in ambito musicale elettroacustico e informatico.59 Il quadro delle funzioni di controllo e manipolazione applicabili al suono e ad estese strutture musicali si è andato ormai consolidando in una vera e propria “tradizione elettroacustica”. Anche qui: una tradizione che prende corpo nella prassi, nelle modalità del fare, prima che in opzioni stilistiche e di linguaggio musicale. In conclusione, nel prestare attenzione alle condizioni tecnologiche dell’esperienza musicale dobbiamo intendere non solo le condizioni poste dalla tecnologia alla musica, ma anche le condizioni tecnologiche che la musica pone a se stessa. Sorge quindi la necessità di integrare lo studio dei repertori musicali – nei loro linguaggi, nelle loro proprietà strutturali, nelle loro idealità – con lo studio e la comprensione della loro coerenza nel definire le proprie possibilità fattuali e cognitive di esistenza, anch’esse portatrici di rilevanti idealità. Si tratta di affiancare lo studio delle opere, e delle circostanze storiche e biografiche, con lo studio della loro messa in opera. Il Novecento è l’epoca in cui prendono forma nuove prassi e nuovi repertori che richiedono questa diversa prospettiva di studio. In tal senso esso si offre anche come importante eredità e come occasione di comprensione particolarmente preziosa per la situazione attuale e futura della musica. Parafrasando un’osservazione
sperimentale, Sonus Ed., 1993), Nicola Scaldaferri (Musica nel laboratorio elettroacustico. Lo Studio di fonologia di Milano e la ricerca musicale negli anni Cinquanta, LIM, Lucca, 1997), e Helena Ungeheuer (Wie die elektronische musik “erfunden” wurde... Quellenstudie zu Werner Meyer-Eppler entwurf zwischen 1949 und 1953, Schott, Mainz, 1992). 59 Consultando il Dictionary of musical technology (a c. Tristram Cary, Greenwood Press, New York, 1992) è raro imbattersi in voci che rimandano a sviluppi tecnici interamente successivi al 1975. Uno studente di musica elettronica che oggi legga un documento tecnico dei primi anni Sessanta – per es. la “partitura realizzativa” di Essay di Koenig (Universal Edition, 1958), l’elenco delle strumentazioni presenti allo Studio di Fonologia di Milano tra il 1955 e il 1968, o il manuale di uno dei primi sintetizzatori digitali dei primi anni Ottanta – non incontra grandi difficoltà terminologiche, pur usando quotidianamente strumentazioni il cui quadro d’uso ha ormai ben poco in comune con le macchine e le procedure tecniche ivi descritte.
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di Hans Jonas,60 è lo smisurato potere che ci siamo dati, su noi stessi come musicisti e sulle nostre musiche (anche quelle del passato) a imporci di sapere cosa stiamo facendo e di intervenire sulle direzioni possibili.
60 Hans Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Il Mulino, Bologna, 1991 (ed. or. 1974), p.50.
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