Aaa! - Aldo Busi

April 8, 2017 | Author: Giuseppe Porro | Category: N/A
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Prete fino al midollo ma comandato a vivere nelle vesti di un laico di potere con una moglie di rappresentanza, il Casto cede alla tentazione di entrare in una galleria d’arte moderna per cercare tra le fotografie della famosa serie di pretini di Giacomelli lo scatto di un passato che gli è stato rubato. Sconsigliabile, se c’è in giro uno snidatore di inferni come lo Scrittore Innominabile: perfino quei ricordi di un’infanzia affamata e struggente potranno rivelarsi una fiaba crudele. Quell’Italia del dopoguerra ancora capace di non mentire sul dolore c’è mai stata davvero? Nel secondo e nel terzo racconto, che Aldo Busi consegna alle stampe dopo quasi sette anni di astinenza dalla scrittura, l’Italia che troviamo è quella di oggi, dura con gli immigrati come lo sprovveduto D. che fa sesso a pagamento dove capita, durissima con chi non appartiene ad almeno una confraternita: tanto vale scrivere una brillante domanda di assunzione alla première dame dell’Eliseo in qualità di aspirante cervello in fuga.

ALDO BUSI È nato a Montichiari, Brescia, nel 1948.

© 2010 RCS Libri S.p.A., Milano Via Mecenate 91 – 20138 Milano

ISBN 978-88-58-70033-4 Prima edizione digitale 2010 da Prima edizione Bompiani gennaio 2010

In copertina: Restano, Prima elementare, 2006, olio su tela, coll. priv.

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AAA!

A

Il casto, sua moglie e l’Innominabile

O voi ch’avete li ’ntelletti sani mirate la dottrina che s’asconde sotto ’l velame de li segni strani! D. Alighieri, Inferno, canto IX

“Giacomelli?”, mi sfugge dalla bocca, e lei, girandosi, “Cosa? Fringuelli? Cip cip da ciucca, Fon…” Questo nome non mi è nuovo, e questa immagine in bianco giglio e nero tonaca neppure. Ma non è quel fotografo che nel millenovecentosessantadue… o nel sessantatré?… mise un toscanello in bocca ai più sprovveduti, e perciò non a me, che fecero a gara a chi tirava di più e faceva i cerchiolini di fumo più grossi e che poi fu cacciato dal rettore, lui con tutti i suoi scatti soavemente blasfemi? Io girai alle larghe per tutto il tempo che lui rimase lì in seminario a curiosare e a inquadrarci negli aspetti più triviali della nostra giornata di novizi, non volevo essere fotografato, per la stessa ragione che mi ha sempre portato lontano dagli specchi e dai loro mendaci riflessi dopo la faccenda dell’uccellino giallo e verde,

ma una volta questo Giacomelli mi colse alla sprovvista, o forse non proprio, un po’ me l’aspettavo, stavo seduto a un tavolo del refettorio, un qualche compagno mi stava facendo sorridere non ricordo perché… no, il perché me lo ricordo, mi stava dicendo che ogni notte il suo angelo custode passava a fargli una carezza su e giù sul ventre con la punta di entrambe le ali… mi sono girato e il Giacomelli, appostato fuori dietro l’anta del finestrone, zac, mica ci fu un lampo al magnesio, capii lo stesso, e da qualche parte nel suo album di foto ci devo essere anch’io. Quindi anch’io devo avere avuto… oh, mio Dio… diciotto, diciannove anni! Fermandomi ieri sera davanti al manifesto con preti e pretini svolazzanti nella neve appeso alla vetrina di una galleria che vende fotografie spacciate per opere d’arte… be’, allora con la sua digitale è un artista anche il capo della sorveglianza alla mia persona… e ormai a pochi passi da casa mia… una delle tante a disposizione quando non sono a Roma e tutte di proprietà delle varie diocesi, perché io di mio non possiedo che il respiro… dico alle due guardie del corpo più appresso a me di tranquillizzare le altre due dall’altra parte del percorso… di sgranchimento giunture ossidate dal sovrappeso, con la berlina che mi viene dietro a passo d’uomo… e di stare fuori dalla porta del negozio brulicante di gente che ingurgita stuzzichini e non resisto alla piccola vanità di entrare non annunciato ignorando le caute, rituali proteste del caposcorta, “Ma Vostra Eccellenza, impediamo almeno che prendano scatti loro, se non lo gradisce”, e io, “In una mostra di fotografie?” e quelle più vibranti, delle rampogne vere e proprie, di quell’altra ombra al mio fianco da quasi quarant’anni, “Ma questo è

Alzheimer puro, tesoro, è stenosi andropausale da vene varicose seccate alla radice! No, Fonzie, si tira innanz”, ombra che mi è stata cucita addosso da quando, arrivata la licenza papale che mi concedeva di prendere i voti malgrado avessi solo ventitré anni, si è pensato che la mia strada doveva apparire tutt’altra per essere appieno imboccata a servizio di Dio. E mi hanno sposato a una donna. Immolatomi all’altare della società civile, sono passato dalla partita semplice della teologia, in quanto facoltà universitaria di perdere forza contrattuale al momento per la gloria eterna dell’ideale ecumenico, alla partita doppia della Teologia della Finanza in quanto facoltà di guadagnarci sempre e comunque e a ogni costo… compreso quello, scontato, in birilli umani da sacrificare… a gloria del senso divino per eccellenza: il senso spiccio. Perché se Dio facesse anche in pratica gli sconti che fa in teoria, il Golgota sarebbe ormai un meschino monte di pietà gestito da ebrei e la Chiesa ancora una bancarella di cianfrusaglie settarie a una sagra itinerante di ramoscelli d’ulivo spruzzati d’argento. Invece Noi qui da duemila anni… e in particolar modo qui tra le smarrite, italiche genti… siamo in pratica quello che, se la Nostra pratica discendesse dalla Nostra teoria dell’ama il prossimo tuo come te stesso, non saremmo neppure per due settimane, bancarotta garantita. Non è da tutti elaborare una fede a uso delle masse… oh, il vecchio, caro, umano popolo bue… affinché vi si attengano al punto non perfettibile di credulità da non accorgersi che a Noi non ce ne frega un’ostia di niente della loro fregola in hora mortis… o meglio, dall’accorgersene ma, che lo vogliano o no, di esserne complici perdenti su tutti i fronti della loro di vita

pratica, mentale, ed economica e affettiva, giustamente devoluta alla Nostra per volere di Dio, di cui Noi abbiamo il monopolio della zecca con l’unico magazzino a costo zero dell’imprenditoria universale. Perché Noi non siamo tutti: Noi, Uno per Uno, siamo i Suoi vice qui in Terra. Noi delle alte gerarchie dentro e, soprattutto, fuori dal Vaticano. La proiezione del Cielo è democratica, il Cielo no. Per conquistare e mantenere e imporre un potere in Cielo e del Cielo occorre la tempra terragna del despota sanguinario. Prendere o lasciare. E siccome nessuno prenderebbe il Cielo smenandoci la Terra, in religione un minimo di coercizione in pianta stabile verso i renitenti e i bastiancontrari ci vuole sempre. Il fendente ultimo non lo dà la spada di un Arcangelo, ma la spada della politica di un Parlamento connivente… di una Banca centrale connivente, di una rete d’informazione connivente, di un sistema scolastico connivente, di una sanità connivente, di una Borsa connivente… di un Tomás de Torquemada meno appariscente e tanto più operativo. L’Inquisizione mica è mai finita, si è aggiornata e indossa comuni abiti costituzionali, niente più cappucci e sai neri e croci infuocate nella notte e macchine della tortura, e non c’è strega da cacciare che dal calderone non Ci versi il suo bell’Otto per Mille a ogni dichiarazione di schifo nei Nostri confronti, quindi Ci conviene lasciarla libera di sbraitare, tanto chi l’ascolta: anche la pur modesta Breccia di Porta Pia con gli ultimi Patti Lateranensi tra Bettino e Noi si è percentualizzata annualmente in modo accettabile, non disingrato per Noi. Bruscolini, certo, ma poi c’è tutto l’indotto. Se Cesare dà poi a Dio, si può anche

dare a Cesare quel che è di Cesare. Io sono una delle punte di diamante di queste alte gerarchie ecclesiastiche fuori che arrotonda il bruscolino di Cesare, e sembro un Cesare del popolo, ma sono di fatto una porpora della Chiesa travestita in grisaglia borghese. Sono il sottopassaggio a serpentina che scorre ben al di sotto del ponte dritto. Sono la metamorfosi terrena del celeste Dio Uno e Trino: sono uno e duplice. Sono io innanzitutto dove non mi si vede e sono sempre altrove e ben di più di come e di dove mi manifesto. Di più su me non posso dire: posso essere un Primo Ministro, un Ministro con Portafoglio, pingue, un Capo Partito, un Governatore della Banca d’Italia, un Proprietario di Reti Televisive e di Gruppi Editoriali con ambizioni monarchiche o di colpo di Stato, ma anche un Presidente di Regione, un Giudice di Corte d’Assise o di Cassazione e, perché no, un semplice, patentato Banchiere di Dio o il bizantino Tramite di fusione con i pochi residuali Banchi di Credito propriamente di Belzebù, un comunista che non vede l’ora di fare il salto di qualità. Anche un modesto Sindaco, posso essere, però di capitale, nei due sensi. Per Capitale, poi, intendo non solo Roma ma anche Milano, Caserta, Locri, Catanzaro, Corleone, ovunque ci siano grossi snodi finanziari in ballo. Non posso essere un giornalista, un direttore di banca o di giornale, un industriale, un armatore, un presentatore televisivo, un palazzinaro, un avvocato o un parlamentare di grido: quelli sono dei semplici sottoposti, dei caporali per quanto selezionatissimi, quelli sono influenti a bacchetta, emanazioni del Nostro potere, sono o non sono a seconda delle

esigenze, delle opportunità, delle contingenze, delle cose Nostre. Quelli sono la pioggia o il ciel sereno, Noi siamo l’atmosfera che li determina. Io so chi sono e chi non sono senza bisogno che qualcun altro me lo dica e me lo indichi, non sono un’identità ancillare, un ego a tempo. Io semmai do l’identità al Tempo. Più resta immutabile, più è puntuale. Che lo resti almeno qui in Italia: fuori di qui sta andando tutto alla malora, porcodd… Io posso inviare al Papa stesso un pizzino con sottinteso fin de non-recevoir, lui a me no: fintantoché io calo denari, lui non può rispondermi picche. Quando mi chiama Fonzie la ucciderei. Non posso essere, per esempio, uno che dice quel che fa e che fa quel che dice, e nemmeno un cattolico atipico, per quanto Creso, infuso di un tale timor di Dio da garantire una qualche coerenza tra l’operato encomiabile della retorica e quello delle sgrinfie. I cattolici che promettono e mantengono quel che promettono mi sgomentano, vuol dire che sono usciti dal seminato e, invece di limitarsi a promettere illusioni, perché altro il popolo bue non vuole, deviano verso i fatti, le cose, i servizi, verso l’emancipazione dalle illusioni a base del Nostro magistero stesso, il che per Noi sarebbe la fine. Questi fedeli qua, Cresi o incapienti che siano, per Noi sono dei manovali alla giornata, fanti anche se con i gradi degli ufficiali, preziosi, sì, perché danno quell’esempio che a Noi è proibito, ma, per carità, niente di più. Li premieremo e li faremo santi, per l’appunto, anche se non saranno stati dei figli di puttana consapevoli di esserlo come piacciono a Noi, ma poi morta lì. ’Sti qua sono come quei preti operai o quei

missionari che danno la vita per gli altri e che vivono in ristrettezze al limite dell’evangelismo e quindi dell’eresia: in effetti, come ebbe a scrivere l’Innominabile, “costoro sono i preti peggiori, perché con la loro buona opera e la loro caparbia buonafede e la loro esistenza di soli mirabili esempi di dono totale di sé vanno a cementare le sabbie mobili delle ciniche, egolatriche, palancaie, vampiresche gerarchie vaticane”. Ovviamente questo non è il mio punto di vista, non del tutto, ma è bene sapere che nel frattempo, e per la prima volta in duemila anni, ne è saltato fuori un altro, e nero su bianco quando scrive o da dietro il primo microfono a tiro, perché, penna a parte, l’Innominabile ha la lingua lunga da qui a Voltaire quando va in televisione a fare le sue sparate da mangiapreti scalmanato. Questo suo punto di vista completamente e pubblicamente anticlericale e senza mai la minima flessione o concessione… anche nei confronti dell’islamismo, dell’ebraismo, dei valdesi, dell’induismo, del confucianesimo, di Scientology, dell’astrologia, del Superenalotto e simili, non solo contro di Noi… è la prima volta che in Italia salta fuori dal segreto delle alcove e delle quattro mura domestiche tra i propri cari e dei salotti tra sodali di ipocrisia, perché lì le critiche, non avendo eco esterna e non rischiando niente chi le professa, risuonano come le trombe dell’Apocalisse. Tutti ce l’hanno a morte con la Chiesa, anche la Chiesa, e non certo perché i siti gay più cliccati d’Italia, come si è premurato di sbandierare in giro l’Innominabile, lo sono entro le strette mura del Vaticano. Senza Internet non verrebbero alla luce del sole certe statistiche. Ogni giro di vite che non si dà a

questa macchina dell’inferno è un giro di vite dato alla Nostra… espansione – stavo per formulare “sopravvivenza”. Grazie ai libri dell’Innominabile, che lui scrive per chi avrebbe bisogno di leggerli per difendersi da Noi e sbaragliarci e toglierci dai coglioni e non lo fa, Noi, che invece li leggiamo con l’avidità peccaminosa che a suo tempo mi diedero solo i vangeli apocrifi e Tex Willer, possiamo correre ai ripari, perché i suoi lettori, infine, siamo Noi, i soli rimasti a dare importanza alle Scritture in questa landa di analfabeti di andata senza ritorno dove le scuole private non incontrano tuttora quel favore che meriteremmo. Siamo Noi, i suoi nemici per eccellenza, a suggere il nettare politico delle sue frasi ordinatamente babeliche e sensatamente profetiche, non altri. È anche per questo che questa laida, sublime pecora nera che si vanta di aver sputato in faccia al prete l’ostia della Prima Comunione continua a essere lasciata in vita: perché ci rivela dove si sta spostando il Tempo, perché così Noi possiamo precederLo e scavarGli sotto la prossima trincea per fermarLo al punto di prima. E perché, infine, è al Nostro servizio l’Innominabile come chiunque altro. È un’altra strega presa in contropiede e ricondotta alla ragione per le Nostre vie ovvero leggi traverse. Ma almeno lui ha la sinistra dignità di non volerlo essere, al Nostro servizio, di volere la nostra distruzione e azzeramento totali per la rinascita del Paese e dell’umanità. Povero nanetto giacobino: Rinascita o Resurrezione, sempre cosa Nostra è, mica tua. L’unica realtà della Storia è specialità della Nostra casa: la restaurazione e, per l’appunto, tirare indietro gli orologi. Ogni tanto il popolo si costruisce dei piccoli

labirinti per darsi come può il senso dell’aria aperta e Noi glieli concediamo, come varianti del Carnevale, perché tanto si incanala da sé, e lo aspettiamo all’uscita col sacco aperto. L’esito è univoco, passata l’ora d’aria si rientra nell’ovile e si ribloccano le lancette, il tutto in bell’ordine, l’Ordine di sempre: il Nostro. Inutile che la mia velenosa metà adesso faccia segno all’autista di fermare la berlina a filo del marciapiede e mi strattoni, questo sfizio voglio togliermelo, sono sicuro che una volta dentro vedrò la mia foto da ragazzo. Un bel ragazzo. Irriconoscibile, oggi, dimostro dieci anni più di quelli che ho e venti più dell’Innominabile che ne ha solo un paio meno di me, l’ho visto circa una settimana fa che a torso nudo ballava una rumba indiavolata, a Ballarò sotto le stelle, credo, in coppia, forzata, con il Nostro buon Sergio Cavoli in Rai, l’archetipo del gerontocrate poltrone, strappato con virulenza dalla sua aura totemica e che faceva buon viso a cattivo gioco per poi lasciarsi prendere dal vortice afrolatino al punto di togliersi la giacca e scagliarla sulla poltrona come a dire, avrò pure novant’anni ma prima o poi ritorno e mi ci risiedo per altri novanta, e mentre il Cavoli, spiritosissimo, strascicava i piedi in modo forsennato nemmeno avesse le pattine incerate di olio di ricino sotto, l’Innominabile saltellava da uno schieramento all’altro di quei vecchi bacucchi di destra e sinistra in studio, anch’essi tutti Nostri garanti, piroettandosi da un cretino di Stato all’altro con un’elasticità, un senso del ritmo, una tonicità muscolare, e non era affatto ridicolo e patetico un decimo di tutti lor cretini con quella espressione di schifata sufficienza, anzi, lui era… era divino! Che mosse! Un Peter Pan da Bolshoi. Più gli

si spennano le ali, più vola. Io nasco tarpato, e il seguito non ne è che la ricerca del perfezionamento assoluto. L’ortodossia non produce gli anticorpi che le permettono di sopravvivere a se stessa e di perpetuarsi, l’ortodossia è ottusa per statuto, è il robot che cammina grazie alla corrente altrui, è roba di travet dello stato di fatto, di spaventapasseri di stoppa a guardia del fondo acquisito, non ha niente di geniale a parte la sua abilità nel fare propri i geni che non possono fisiologicamente nascere al suo morto interno, i quali le possono appartenere solo derubandoli, saccheggiandoli, integrandoli con la stessa forza con cui prima li si disintegra civilmente. Il lievito in divenire delle nostre ostie ce lo dà un Galileo, mica cento Tolomeo, ce lo dà un Karlheinz Deschner con la sua Storia criminale del Cristianesimo, mica dieci o mille Agostino da Ippona, ce lo dà un Innominabile, mica diecimila in nomina per essere insigniti del titolo di primo sagrestano delle patrie lettere. L’eretico affina l’ortodossia, l’aggiorna, le apporta sangue, pagandolo col proprio. Se non fosse per gli eretici che hanno un po’ di fantasia e che elaborano per Noi il futuro che col Nostro presente immobile su se stesso non sapremmo immaginare… o che immaginare ci costerebbe la faccia, sicché il lavoro sporco lo facciamo fare agli ignari, neghittosi preposti, che talvolta ci conviene annientare fisicamente per annettere spiritualmente, talaltra no… staremmo freschi, anzi, Ci avrebbero già messi tutti al fresco di enciclica in enciclica dall’Editto di Costantino in poi. O i roghi li fai o ci finisci sopra: questa è l’essenza vera dei Padri della Chiesa. Degli amanuensi di comandamenti, degli smanettatori di inchiostro a comando in

confronto all’Innominabile e alla lunga vita che i dialettici rabbiosi, alienati come lui, garantiscono a Noi pacifici depositari della task force della Verità rivelata. Dei segaioli nel giro di un chiostro. Padri, per l’appunto. Mio padre ha avuto un padre ancora meno di me, e io mi sono reso conto che esistevano le figure dei nonni solo una volta a scuola dai Padri. Però una madre lui almeno l’ha avuta di sicuro, io chissà. Era mattina presto, avrò avuto quattro, cinque anni e c’era una brezza fredda, e l’uccellino giallo e verde volava tra le canne e il fico e l’alloro e veniva a sbattere il becco in picchiata contro il vetro della finestra, si faceva male, io ero allarmato, l’ho anche aperta, ma lui mica entrava, la richiudevo e lui tornava con un piccolo verso a sbatterci contro con tutta la forza del suo volo disperato, non capivo, e riaprivo e richiudevo, e mi dicevo, se anche entra dentro, poi qui che ci fa, che vuole, che cerca, me no di sicuro, ho preso del pane secco e l’ho sbriciolato sul davanzale, ma le briciole non gli interessavano, e intanto il vetro si macchiava di sottilissime striature di sangue, anche il petto giallo si era macchiato di porpora, mi dispiaceva, ho spinto il paiolo fin sotto, l’ho ribaltato, mi sono issato sopra, sono salito sulla mensola della finestra e ho chiuso le ante e l’uccellino lì non veniva più a sbatterci contro, e poi ho sentito la bicicletta cadere contro il muro e mia nonna è rientrata in fretta e furia senza andare in mare a lavarsi, mi fa, “Che è tutto questo scuro? Apri le ante, no?”, “C’è un uccello tutto colorato che si butta contro il vetro”, lei aprì le ante e richiuse la finestra e un istante dopo l’uccellino tornò a buttarsi a capofitto lì contro emettendo uno stridio per il colpo sempre più mortale e lei

gridò, “È un cardellino! Da queste parti! Primavera presto”, e poi, stupita, “Ma il vetro è pieno di sangue!”, io chiesi tutto agitato, “Cosa vuole? Cosa vuole? Perché si fa male?”, lei restava muta, la testa all’insù verso il vetro dove lui continuava a buttarsi e a franare sempre più ferito, ostinato, impazzito. Riaprì la finestra dicendo, “Si specchia e crede che è un altro cardellino. Crede che non è solo, povero scemo. Questo fa prima a crepare che a capire”, e richiuse le ante e andò a buttarsi tutta vestita sulla branda sospirando esausta, sospirando una parola esausta, “…passione…”. Io uscii, mi guardai attorno e perlustrai tra i rami e le canne e poi lo vidi a terra che sbatteva le zampine a pancia in su contemplato dalla capra immobile, non avevo mai visto un cardellino prima e aveva già esaurito i suoi voli, deglutii un groppo di saliva via l’altro, mi sono impressionato, ero così piccolino, ma non mi sono avvicinato, ho chiuso gli occhi con quanta forza avevo, il capino ha continuato a reclinarsi dentro la mia retina… per ore, per giorni, per decenni… era stato vivo e insieme a un’immagine dell’altro in sé il tempo di morirne, era stato sempre lui, non c’era un altro cardellino all’infuori di lui, ma non aveva voluto capirlo, a costo della sua vita aveva continuato ad andargli incontro, ad andarsi addosso… e gli ho girato le spalle per sempre. Io avrei capito che ero solo io, invece. Cioè: che io ero e sarei rimasto solo. Se lavorassi in Borsa, sarei colui che sa tutto quel che c’è da sapere ventiquattro ore prima che si subodori lontanamente l’andamento di un titolo da comprare o di cui disfarsi… insomma, qui in Italia io, e non esagero, sono la vita e la morte. E sono famoso, io, per essere laico, e talvolta addirittura tacciato di

laicista: con una mano faccio finta di sporcare, con l’altra pulisco molto più a fondo di quanto non abbia sporcato. Il trucco c’è ma non si vede… certo, se avessi avuto i capelli rosso rame invece di quel color destino che avevo alla radice dello scalpo, prima o poi una frase così mi sarebbe sfuggita mentre magari facevo il gioco del cilindro e del coniglio con la banda sopra le quinte che attaccava la sua marcetta circense, “Signore e signori, il trucco c’è ma non si vede!”… Perché non l’ho scelto io di studiare da prete. Io sono come un casinò o il gioco del lotto: non distribuisco soldi o vincite in denaro o premi in gettoni d’oro… e dividendi men che meno: a quel punto, meglio una bancarotta fraudolenta, un paio d’anni solo perché venga fissata la data del primo grado di giudizio, e staremmo davvero freschi se adesso la magistratura, tutta Nostra, quella che conta tutta infusa della Nostra catechesi, si mettesse a inseguire i reati finanziari… i soldi io li do solo in prestito momentaneamente. Gli altri giocano d’azzardo e non possono certo smettere di punto in bianco, se no che vizio sarebbe? Nel pomeriggio perdono sempre un po’ di più di quanto credono di aver vinto la mattina. E restituiscono il maltolto, cioè l’illusoria vincita con gli interessi, concreti. Io sto fermo, io sono il banco. Intasco anche quando spingo le fiches verso il vincitore. Tu puoi metterti in tasca tutto quello che vuoi e che puoi, droga armi schiave bambini per milioni di milioni di valuta, ma io sono l’agente del riflesso che ti muove la mano dentro e fuori dalla tasca. Ti lascio la tasca: mi accontento del

riflesso che la svuota. E la ribalta nella mia cassetta delle elemosine a fessura diretta con i Nostri fini superiori. Del resto, essendo italiano, che te ne faresti di un cervello per intero? Quello che ne hai fatto sino adesso. A te, non avendone avuto mai una, piace troppo avere una doppia vita. Io faccio in modo che tu l’abbia, che, per amor del Cielo, non ti manchi mai, anzi, te ne do una di scorta per l’oltretomba. Il potere non ha impulsi irrefrenabili al di fuori di quelli per sé e la propria conservazione. Tu li hai, io no: tutto ritorna a Me. Spermatozoi, ovaie: una massa indistinta di papadipendenti, di pappadipendenti a sbafo. Di papponi in nuce con l’estasi quaresimale dell’idiota nato. Lasciate che gli italiani vengano: verranno a Me. Non so se ci sia o non ci sia scelta. Io di certo non sono qui per lasciarne. Ma non sono cattivo in fondo: lo sono dove conta esserlo, lo sono in superficie. Dove a nessuno conviene credere ai propri occhi. Da Platone all’odierno netturbino, la superficie resta lo spazio meno esplorato, e indiziario, dell’universo. E lei ora apre la portiera posteriore della berlina e mi guarda infuriata, il mio sorriso non cambia: entrerò. Sono una persona universalmente ritenuta perbene, moderatamente temuta come compete alla mia posizione. Sono ben altri da me quelli da me sguinzagliati per essere temuti sul serio, e da me si fa per dire, perché troppe sono le bamboline in scala vieppiù ridotta prima di arrivare a quella che le contiene tutte. Costoro mica hanno la faccia mite e condiscendente che porto io. Non sono uno psicopatico riconoscibile, io.

Le due volte della merenda sulla spiaggia, la donna era scesa da un’automobile nera, ne avevo sentito il rombo accanto alla baracca, ero corso fuori, pensavo fosse un carrarmato… anche se dal vivo io ne ho visti solo un paio riversi sui cigli della strada quella volta che mia nonna mi portò sulla canna della bici in città a vedere le giostre e il tendone del circo e la vita che riprendeva il suo giro-regalo di calcinculo… non ho mai fatto caso se la guidava lei o se qualcun altro era al volante, mia nonna, china a fare la cenerata per lavare la roba sporca, mi era venuta dietro, la donna frugò nella borsa ancora prima di parlarle, stava ritta, le arrivavo alle ginocchia, ero davvero minuto, guardai in su e mi sembrò di non vedere niente, e il sole che accecava fece la sua parte, la signora dentro quel niente come seconda cosa fece una piccola corsa d’istinto e andò a risciacquarsi le mani sul bagnasciuga. Le faceva più ribrezzo il contatto con me o con mia nonna? Quella donna forestiera, mia madre, deve aver tirato fuori dalla borsa un bel po’ di soldi di volta in volta e altri gliene avrà fatti avere… e non solo a lei, ma ai Padri in seguito… ma dubito che mia nonna le abbia chiesto mai niente in cambio di me, e anche che li abbia mai usati per sé o per noi in casa, sottraendoli alla cocciuta povertà senza sbocchi di noi tre che non voleva alterare, e forse sotterrandoli e lasciandoli scadere o marcire. Un’altra dritta per dare un’idea di chi sono io: mi occupo di politica in senso stretto, e la politica che altro è se non la gestione dei capitali spuri accumulati per stare dietro ai vizi ormai nominabili dalla a alla zeta e triti e ritriti ma pur sempre immondi del genere umano in generale e di quello nostrano in

particolare? Per i capitali puliti, e se i capitali tutti fossero puliti, la politica non serve e non servirebbe affatto, basterebbe la ragioneria. Se non fosse che, corrompendosi, ogni ragioneria ridiverrebbe politica bella e buona, e sporca. Un politico che operasse esclusivamente alla luce del sole sarebbe un qualsiasi bagnante che prende la tintarella… mi sembra di vederlo, ora, dall’oblò nella lamiera, il bagnante qualsiasi, sorseggia la gazzosa e dà un morso al pezzo di cocco con cui mio padre si industriava sul litorale verso la fine degli anni Quaranta, il bagnante qualsiasi scampato alla guerra, alla fame e alle vendette che comincia a godersi la vita… e quella donna forestiera che passava di là a fine guerra e vede quel giovinetto che allora era mio padre e lo fa suo come la prima boccata d’ossigeno uscendo da una camera a gas chi poteva mai essere: l’amante in fuga di un ufficiale tedesco in ritirata, una kapò di lusso, una fiamminga madonna frastornata che dopo tanta morte voleva almeno servire a dare vita a una vita? Una viziosa, intanto. In politica la tenebra è fisiologica, e senza mitizzare niente, perché è lo specchio pedissequo del mare che c’è di mezzo… il mare, la merenda al mare…tra il dire e il fare in cui sta in ammollo il genere umano. Io, per dirla fuori dai denti, mi occupo in modo trasversale… che per Noi è il modo per eccellenza di essere diretti… della Finanziaria autenticamente ufficiale, quella nelle tenebre, di cui i cittadini niente sanno e vogliono sapere, quella che soggiace alla Finanziaria ufficiosa varata dal Governo in carica e della quale si sa anche il superfluo tanto ci importa un fico secco. Fumo negli occhi. Non scopro

l’acqua calda, ma ogni Governo in carica, ricordo, è Nostra propaggine papale papale anche se non proprio a furor di popolo, ormai… e già che ci sono: sì, il Concordato, l’otto per mille e l’esenzione dell’Ici anche per gli ostelli, le agenzie viaggi, le mense, e poi dell’Irap, dell’Ires e trifole varie, tipo il contentino di un seicentocinquanta milioni per gli stipendi degli insegnanti di religione, più un altro di un settecento milioni per le convenzioni su scuole e sanità, e un trecento milioni per la passamaneria e il red carpet dei grandi eventi con performance di Sua Santità in Persona eccetera, sì, non è male, ma sono festuche, minuzzoli, capirai che sforzo per uno Stato che fino a ieri era Nostro! Con quei due baiocchi di beneficenza arriveremmo sì e no a metà mese solo per le mozzette very old age del Santo Padre e i set di sci per padre Porkalochen, quel Suo nibelungico di segretario privato, un gerontofilo convinto inviatoci dalla divina, e un po’ zoofila, Provvidenza. Mi sembra di sentirla la domanda che l’Innominabile Gli farebbe se gliene fosse data l’occasione, “Santo Padre, nei Suoi momenti di intimità col Porkalochen preferisce indossare la lingerie della Victoria’s Secret o della Es wird Nacht, mystische Fotze?”. La Finanziaria ufficiosa, la Finanziaria del Governo italiota insomma… ufficiale solo per i più naïf e quindi per sessanta milioni e passa di beoti a bocca beante… non può essere fatta che con le tasse regolarmente pagate e riscosse dalle tasche dei poveri cristi più poveri e più tartassati, notamente i lavoratori dipendenti a busta paga fissa, e dalla vera feccia del Pil, quei rari liberi professionisti che si fanno un punto d’onore di non lavorare e non produrre un

centesimo in nero pur di venire in culo a Noi, perché i veri eretici del Sistema sono i contribuenti fiscali totali, che potrebbero sgambettare via e chi li prende più e non lo fanno per principio e in cambio hanno solo derisione e persistono nella loro nequizia da pervertiti, e si sa, per Noi non c’è peggior ideale, ed esempio, di quello gratuito e che non si contraddice incassando sottobanco quanto respinge con sdegno sopra il tavolo. Gesù qui è Giuda appena un po’ più in là, gemelli siamesi con un unico cuore. “Dài, Giornifelici, sbrighiamoci che non voglio perdere gli sviluppi di Bruno Fede su Cogne! La Franzoni è la cugina di tutti Noi prodi. In più ci si sintonizza, più la fa franca”. Le do una gomitata tra femore e fegato, guaisce e trattiene il fiato per qualche secondo, più dallo stupore che per il dolore. Io devo, devo entrare. Per quanto detta Finanziaria varata dal Governo fortunatamente tracimi di anno in anno da ogni argine inibitorio solo a norma di legge e quindi chissenefrega, sono noccioline rispetto alle tasse programmaticamente evase e istituzionalmente coperte e licitate e dei cui patrimoni a monte io muovo molti, moltissimi fili e tutte, tutte le sacrosante pedine della Nostra scacchiera a forma di stivale nessuna esclusa. Mi occupo del Tesoro Nazionale nascosto, ché occulto non si può più dire dopo l’avvento di quel pettegolaio di Internet; io indirizzo il merchandising dell’anima da rimettere a Dio, ovvero mi occupo della politica economica della Fede, questo svergognato bisognino del popolino di pretendere un al di là a rifusione di questo al di qua che hanno sprecato, grazie a Dio, devolvendoGlielo, tramite Noi. Vale a dire che mi preoccupo assai dell’economia

vera e propria del Bel Paese, quella sommersa dal punto di vista erariale e che ingenuamente si crede di origine criminale e che a modo suo non lo è o non più di quella apparentemente legale. Mi preoccupo che tanta manna di Dio… e intendo Dio Onnipotente tout court, non il dio Mammona, che di Dio è solo una sfumatura in filigrana… non vada demonizzata e dispersa, bensì perdonata, ripulita e religiosamente incanalata dove deve essere: nel Tempio più bello, il Nostro. Nel mio piccolo, intendo, nel mio piccolo ambito, col mio piccolo contributo, intendiamoci, che, senza l’indotto, non è mai superiore oggigiorno a un giro sottotraccia tra i trecento e i trecentocinquanta milioni di euro l’anno. Eh, sì, bisogna accontentarsi di sempre meno carne sul fuoco, non sono più i tempi di La Pira! Però trecento milioni da Uno, trecento milioni dall’Altro… non lamentiamoCi, via! Dal mio modesto alveo, rimetto in strada i rivoli ribelli, ecco, perché la strada, se è maestra, è una sola, e porta al Dio della Sua Santa Sede, Noi. Tutte le strade che non portano a questo Dio non portano da nessuna altra parte, perché io le snido e le rimetto in riga. Le snido con comodo, voglio dire, non prima che abbiano messo su un pezzo d’asfalto consistente, le confisco, ecco, le annetto entro i Nostri confini come una qualsiasi provincia barbara, do loro asilo politico, quindi fiscale, mica siamo così miopi da troncarle sul nascere o di raderle al suolo. Preferiamo che escano all’aria aperta, che si rivelino, che non crescano sotterranee, e catacombali come le Nostre, la catacomba l’abbiamo inventata Noi, è monopolio Nostro, abbiamo Noi l’esclusiva territoriale del sommerso. Se

non fosse Nostro il sottoterra prima ancora della superficie, come potrebbe esserlo l’Alto dei Cieli? Una volta che queste strade birichine sono fuori e perimetrate anche per il tratto che ancora manca all’appello e alla resa dei conti, o si integrano come un Raffaele Cutolo o, come un Montezuma, le cancelliamo dalla faccia della terra, della geografia economica… oh, terra italiana, va da sé, fuori da questi confini abbiamo dovuto piegare il capo per più di un mappale, ormai. Sì, pronta cassa ci restano le Filippine e un po’ di Sud e Centro America e il Messico, ma sono briciole in confronto a come eravamo abituati. E la Spagna e la Germania: sono vieppiù le spine che le rose, erano Eldoradi e ora hanno la consistenza di una cassetta delle elemosine all’interno di una mensa di quei braccini corti di Comunione & Liberazione o dell’Unesco o della Croce Rossa. E che dire degli Stati Uniti d’America? Da quando i predicatori negri seducono di blues e di verga tutte le tardone ereditiere da Miami a Santa Monica e i preti cattolici sono non solo pedofili, e questo passi, ma pedofili con le spalle al muro e addirittura melliflui rei confessi che danno giustificazioni edipiche, da quelle parti non tira aria di colletta nemmeno con la pertica affinché non si sentano infettati. Era un regno di Dio, è una ’ndrina che non produce abbastanza ghiande nemmeno per i propri maiali. La manna per il Nostro deserto si è seccata. E io ho cominciato negli anni Settanta a dire in Trastevere: si investa nella ricerca scientifica, nelle nuove tecnologie, nella biogenetica, nella microbiologia, nell’informatica, nella telefonia mobile, nell’agriturismo religioso con annessa apparizione mariana, nel surgelato, nel precotto, nello smaltimento veloce dei

rifiuti sempre più tossici, in don Giussani Catering, nelle nuove energie eoliche… “Scorregge”, mi è stato risposto. Mi hanno fatto storie, all’inizio, anche con le fideiussioni alla Sacra Corona Unita, la più giovane e intraprendente delle associazioni imprenditoriali catechistiche meridionali… e io a insistere: investiamo nella moda alternativa, buttiamo poi un obolo in cosmesi e farmacologia allucinogena e chirurgia plastica, infine, nelle quali si è deposta una immortalità del corpo più passabile e fruibile per l’odierno consumatore di quella che noi continuiamo a proporre per l’anima, lo dice anche Platone, cui dobbiamo parecchio con la faccenda della caverna, nel Gorgia che alla fin fine il dominio del corpo, e quindi della medicina interna, sta nel dominio della toeletta! No, non mi hanno dato retta, anche sullo sviluppo industriale del prêt-à-porter, arroccati unghie e denti al gessato da sartoria partenopea, una nicchia per le mummie alla Achille Lauro, e, per l’agroalimentare, al decotto di ortiche di frate Indovino, introvabile. E negli anni Ottanta? Idem con mitra: “Santità”, Gli ho detto più di una volta tra due tournée e una discodance a Cracovia, quando riuscivo a beccarlo in un momento in cui stava fermo, affetto com’era dalla sindrome della trottola, “Si legga le opere dell’Innominabile, Gliele faccio tradurre, c’è tutto sullo sviluppo della grande distribuzione organizzata e sui cadaveri che si lascerà dietro, è come sbirciare nel primo numero del Financial Times del 2001”, ma Lui no, perché si sentiva troppo vate e star Lui per accettare che esistesse al mondo qualcosa di meglio delle Sue poesie in lode alla fimosi polacca. Ecco perché i Nostri strateghi della finanza sono ancora lì con il trasporto merci su ruote e le

autostrade e gli immobili del centro che cadono a pezzi e non li vuole più nessuno e la difesa dei valori etici della famiglia che, se mai sono stati in Cielo, in Terra non ci stanno più di sicuro, e quindi lì a spaccarsi le ultime corna contro l’inseminazione artificiale, le coppie di fatto, l’eutanasia, i ’recchioni, i preservativi, le pillole per la passera infeconda, l’aborto mutuabile e tutta la baracca e i burattini dell’Ottocento dal delitto di lesa maestà dello schiaffo di Anagni in poi: perché hanno sbagliato gli investimenti chiave della modernità. Se no a Karol sarebbe succeduto Milingo e saremmo tutti felici e contenti come una Pasqua, potremmo dormire tra due guanciali per altri duemila anni minimo e non saremmo costretti a fare comunella con i musulmani per arginare la disfatta inarrestabile. Sì, dicevo io al benemerito, per carità, benemeritissimo monsignor Marcinkus, va bene Sindona, va bene Calvi, ma… tanto per evitare un po’ di grand guignol a base di caffè avvelenato e cappi da impiccato e fanciulle di impiegati vaticani rapite e violentate e gettate nei tritarifiuti… e un po’ di Ior bond anche nel world tour della nascente e forse definitiva Madonna? Manco l’avevano sentita nominare. “Non si governa la chiesa con un’avemaria”, ripeteva il buon Casimir Marcinkus, che usava le maiuscole solo nell’ufficialità della sala stampa, e io, che non l’ho mai rinnegato e che gli sono stato vicino fino all’ultimo anche nell’esiliopecetta oltreatlantico, “Ma con una Like a virgin si tapperebbero tanti buchi”. Io pensavo a quelli del cracchete del Banco Ambrosiano, quelli della Pontificia chissà a quali, e così… Comunque, anche se non mi è stata data la soddisfazione di riconoscermelo, io

sono diventato Io ai loro occhi nella serena e pazzerella primavera del Settantotto, allorché mi fu chiesto che ne pensassi della liberazione di Aldo Moro in cambio della scarcerazione di tutti quei brigatisti, e mi fu chiesto così en passant, lì alla buvette di Monte Citorio, che capii subito che la terronica mezza figura istituzionale che me lo chiedeva era stata mandata lì dai più alti scranni governativi; io non mi facevo alcuna preoccupazione sull’intelligenza strategica dei rapitori, piccoli pidocchi senza arte né parte né lungimiranza, tuttavia mi dicevo, adesso sta’ a vedere che al colmo della sfiga qualcuno comincia per miracolo a ragionare, fa un colpo di testa e liberano l’Aldo vivo senza alcuna condizione e costui, dopo quello che gli hanno fatto e non fatto i suoi esimi compagni di merenda, diventa il Cavallo di Troia del comunismo più sovietico e anticlericale che si sia mai visto dal Diciassette in poi in Occidente, e per Noi è finita, e così la buttai sulla boutade, “Oh, ormai è troppo tardi, la mente di Moro è compromessa del tutto, la mente politica, intendo, lui ragiona come sempre, contrariamente a come vi fa comodo pensare, mica lo dopano, la sua melensaggine stilistica depone a suo favore, da qui per andare a Santa Croce in Gerusalemme passa sempre da Pietrelcina anche per missiva, continua a vedere vie crucis dove chiunque vede un incrocio. Diciamo che… lentamente, senza dare troppo nell’occhio, scaglionando le libertà vigilate… si potrebbero liberare tutti i brigatisti richiesti e anche parecchi di quelli futuribili a patto che… Vedi, mio caro, va ribaltato il ricatto. Ora lo fate voi a loro, sì, insomma lo Stato, la nostra Democrazia Cristiana, se torna vivo… Mi spiego?”, e lui faceva di no col mento,

ma c’era un’acquolina di meraviglia e di terrore quasi riconoscente negli occhi, un’illuminazione risolutiva, quindi mi ero spiegato fino in fondo… al bagagliaio della R4… e quello è corso via, con una fretta che in un portaborse palermitano è contronatura. E infatti, Moro è stato ritrovato in quell’auto rossa a via Caetani non a fare volantinaggio contro la Santa Sede e contro Cossiga, Zaccagnini, DonatCattin, Andreotti, Forlani, Bodrato, Colombo, Fanfani e il Lima salvo per poco, ma come era acconcio che fosse. E uno oggi, uno domani, di quei brigatisti in carcere non ne resta più nemmeno uno: lo Stato, in cambio dell’ordine marziale eseguito, ha rispettato i patti imposti… ma non è vero niente, non ci sarei arrivato neppure io a tanta sensatezza, quindi non ho mai consigliato niente a nessuno in nessuna buvette su come e perché bisognava liquidare il Presidente: l’Innominabile ha cominciato a pubblicare, e a diventarmi prezioso, solo dall’Ottantaquattro. Se l’avesse fatto un lustro prima, io, grazie all’ispirazione che mi avrebbe portato dritto a concepire quella soffiata, sarei diventato come minimo il Governatore della Banca d’Italia più giovane dai tempi di Romolo e Remo. “Guarda, io non ti seguo lì in quella bolgia, me ne ritorno a casa da sola, Fonzie”, e cerca di spingermi dentro la berlina con la portiera spalancata, e, inavvertitamente, le do un’altra gomitata all’altezza di dove dovrebbe avere l’avanzo di un seno, però più leggera di quella di prima. “Fonzie, non fare così, si accorgeranno tutti che hai alzato il gomito, andiamo via”, e lancia uno sguardo d’intesa al caposcorta perché le dia una mano con una spintarella anche lui. Lo fulmino, “Tu, come…”, e si ritrae, ’sto cazzone d’oro… per quanto mi costa… a

bacchetta della vecchia in calore, che sarà un gelo artico tra due grandi ghiaccioli di labbra, eh. L’Italia deve, deve restare Nostra nei secoli dei secoli, se anche questa vena aurifera ci diventa apolide… Qui abbiamo le Nostre fondamenta sampietrine che suggono il sangue vivo per le Nostre cupole e le Nostre torri. Ma ho un rovello amletico: soldati di Cristo come me sono sostituibili, rinnovabili oggi come oggi? E sarebbero ancora necessari? Che succede se Troia scavalca ogni Ulisse e il Cavallo di Troia se lo fa e se lo infiltra da sé entro le sue proprie mura? Io provengo da tempi in cui c’era ancora un po’ di sentimento e quindi di opposizione alla Chiesa, in cui l’espressione “quinta colonna”, per esempio, aveva un senso perché le fazioni erano ancora minimo due e ben distinte, e in cui i comunisti, che Dio li abbia in gloria, esistevano ancora e, romantici incalliti specialmente se italiani da Bandiera rossa cantata dopo messa, portavano, sì, acqua al Nostro mulino, ma non intenzionalmente come ora! Oggi farei l’infiltrato presso quale nemico? BertinottiVeltroni CasiniFiniProdiRutelliPannellaBindiMussi MaroniMiccichéCofferatiFinocchiaroBondi PecoraroNapolitanoLuxuriaBassolinoJervolino SantanchéGrilliniBossiPezzottaAlfanoDiPietro Squacquarone et similia? Quel Mussolini con il muso di castoro e le tette? L’Arcibocciofila? Gli opponenti… opposti di maniera… si sono attratti tanto da diventare tutt’uno, una pastetta all’incenso unica.

L’antimafia, per fare un tristo esempio, è una collocazione ad interim spontanea e non convogliata, non intenzionale da parte Nostra, nessuno di Noi fa niente per sistemare lì i suoi picciotti meno dotati, niente nepotismi o raccomandazioni, ci arrivano da sé come le zecche alla rogna: arrivano lì per selezione naturale, perché qui da Noi non potrebbero arrivare mai, troppo parassiti. Noi ci sveniamo, loro succhiano solo: ci siamo limitati a dargli un piccolo presente di carcassa nata morta e loro ci si sono buttati sopra grati, zitti e mosca. Ah, che smidollati di contendenti! Non c’è più gusto, tutto è già inginocchiato e arrendevole naturaliter. È come se ormai ogni specie di uccello nascesse con il suo tot di vischio già attaccato alle zampe, non c’è più bisogno di stendere la pania o le reti per catturarli, sgusciano fuori dall’uomo… dall’uovo… già catturati e catturabili di loro, contano solo sul fatto di essere graziati in proporzione al loro favoloso piumaggio elettorale, e io mi annoio, mi annoio, mi annoio, e mangio, mangio, mangio. E, ma qui lo dico e qui lo nego, guardo più la televisione che fuori dai vetri oscurati delle limousine o dalle finestre delle biblioteche. Perché verso fine mattinata, quando le Borse restano in stand by per alcuni minuti ma ho ancora troppa gente intorno, chiamo il paziente Monsignor Ravasi e gli dico che intendevo giusto fare una verifica su una citazione blasfema di Kant, corro verso la biblioteca del posto seminando gli ultimi scocciatori, se c’è qualcuno dentro smamma fuori d’istinto, giro la chiave nella toppa, metto gli auricolari e, nel silenzio assoluto garantito per i curiosi che strisciassero lungo la porta, mi sparo La prova del cuoco a tutto volume. Mai incontrato il Ravasi in vita mia, mai

parlatogli neppure per telefono, ma come alibi per pervenire infine alla Clerici fa fine, e poi è uno dei pochi che potrebbe dare dei numeri persino a me in fatto di cultura dell’economia in Cultura per fare soldi grazie all’assenza della medesima. Oggi mi avrebbero lasciato fare il prete e poi il cardinale e poi il papa, mi avrebbero lasciato in pace, e non sarei costretto a vivere fianco a fianco con questa iena disossata che si è raschiata via il fondo del budello a forza di ditalini con l’ostensorio e le canne delle Beretta in dotazione ai nostri maschietti multiuso del Sismi. Ecco chi sono, più chiaro di così si può essere solo trasparenti. Entro. Con lei che da dietro ancora mi tira la martingala, mentre un gruppetto di persone stava uscendo e, nel vedermi, indietreggia per farmi passare mimando all’unisono un inchino e torna a disperdersi nella sala, perché c’era ormai aria di sbaraccamento e degli stuzzichini sulle consolle restavano gli spiedini di legno e i tovagliolini di carta. “Buonasera”, bisbiglio timidamente, a voce non solo bassa ma tremula, come temendo di essere inopportuno, e inarcando lievemente le scapole. Io sarei anche meno pretesco, ma non voglio deludere le aspettative del mio pubblico, loro ci tengono tanto: come tutti i servi, stanno molto più sull’attenti se io sul proscenio mi presento un po’ ingobbito. Il divo Giulio docet, anche se non è stato facile imitare alla perfezione uno che la gobba ce l’ha dal Signore per primigenia unzione.

Stavano già tutti girati verso di me, a parte uno, che insisteva a mostrarmi le spalle e che ormai nel pentecostale silenzio ingigantito da un pissi-pissi di sagrestia non si dava pena di appurare cosa era improvvisamente accaduto dietro di sé e che come se niente fosse, e come se io fossi parte di quel niente, stava finendo una sua considerazione e che con voce… ma è proprio lui, l’Innominabile, porca di una betlemme porca che ti venga una lourdes di cazzi di cera in culo… e che, con voce a dire il vero non petulante come quella che sfoggia in televisione, sentenziava tutto giocoso e in punta di piedi neanche acchiappasse farfalle sui fili della luce, “… e mi si passi l’autocitazione, ma è ora di finirla di dire che i preti sono uomini come gli altri solo perché vanno a puttane o a trans o a incularsi i bambini e mai perché fanno affari sporchi come tutti. Siamo in Italia più che mai, il marchio fascista è tristemente indelebile a destra come a sinistra, la democrazia qui o è democristianmafiosa o non è. L’Italia è a vocazione ottomana, finalmente è diventata la Bulgaria degli anni Ottanta e lo resterà per un bel po’, ormai ce l’ha fatta. Qui sono gli uomini a essere preti come tutti gli altri, il più laico è un ciellino. E l’informazione? Da Repubblica a Avvenire…” … ma quello lì, quello scrittore da due soldi, un ex cameriere col complesso di superiorità tipico della categoria dei famigli metropolitani, è uno, duole dirlo, al quale non sfugge niente, come se avesse una terza pupilla dove Noi avevamo la chierica…” no, non stava affatto finendo una sua trita e ritrita considerazione iniziata chissà quanto prima, l’aveva coniata e bulinata lì per lì, doveva avermi colto con la coda dell’occhio che ero ancora fuori sul marciapiede e quello era il suo discorsetto di

benvenuto al Cotanto Paraculo che secondo lui sono io. Ho pensato non una volta sola che avremmo dovuto farlo fuori e lo avremmo anche già fatto, se non fosse che avremmo alimentato un mito e ci saremmo dati la zappa sui piedi. Così, invece, il suo quid lo consuma giorno per giorno facendo ospitate televisive presso le Nostre stesse reti, consorelle cresimate e marianizzate e defilippate dalla Nostra longa manus, e ci fa un baffo lui, a Noi, con i suoi bons mots volti a ridicolizzarci, ci vendica con le sue stesse arti, arguzie spuntate, e, che lui ne sia consapevole o no, è già stato brevettato e omologato come qualsiasi letterina e meteorina e velina e billionarina con tette e chiappe al vento, è funzionale anche lui come tutti, una vespa senza pungiglione del suo porta a porta di figa in metastasi con le stigmate da minchietta di boy scout, sei un pretino di quarta segata come tutti gli altri, eh! Be’, che faccio, posso rilassare le scapole, dovrò pur avvicinarmi alla parete adesso, dare un’occhiata alle installazioni in bianco e nero di questo Giacomelli qua, mica posso fare dietrofront. Non prima che quella schiena si sia girata. Resta imperturbabilmente girata e lui sembra che se la goda, continua a sproloquiare tutto giulivo ignorando gli occhi dei suoi interlocutori che certo non sono puntati verso la sua faccia e, non lo nascondo, ho un istante di panico. Non so se poi l’anno dopo sono stato ad aspettarla o no, e automobili che facevano lo stesso rumore ce n’erano più di una, ormai; fuori non correvo più a vedere, avevo solo il compito di portare una manciata di sale nel gabbiotto, una volta mi sono avvicinato alla capra e stavo per metterle una mano sopra, forse

l’avrei accarezzata, ma si mise a muso basso impennandosi sugli zoccoli anteriori e io scappai. Una carezza va negoziata, uno mica sempre vuole riceverla e non dal primo che ha voglia di fargliela. No, invece facevamo meglio a eliminarlo in tempo, quell’Innominabile dell’ostia. Tanto i giornali sono Nostri, la stampa la stampiamo Noi, un coccodrillo di tre righe concordato col Bramby del cartello e morta lì. Questo qua mica si converte, questo qua fa sul serio. Un gennaio di un paio d’anni fa si è fatto persino un punto d’onore di non andare al funerale di sua madre perché sarebbe dovuto stare dietro a un prete, e quella maledetta di Internet gli ha pubblicato questa enormità di suo pugno. Altrove non sarebbe potuto succedere, non su una sola delle gazzette nostrane. Ma chi avrebbe mai potuto prevedere che uno, che lui, che uno come lui, così ambizioso, paranoico, così vulnerabile di nervi, sembrava, non avrebbe finito per chiederci qualcosa? Chi avrebbe potuto divinare che ci sarebbe sfuggito, quel letteratino tutto apologia del buco del culo che si crede Behemoth? “Guarda che hai appena affermato il contrario… anzi, non hai appena detto che i suoi libri te li bevi come acqua del Giordano? O ti piace proprio bere il deflusso del bidet?” mi fa dentro un’acidula vocina di sfottò. Ci avviciniamo alla prima foto solo con lo sguardo, la mia damazza rotariana si dà un gran da fare a drappeggiare la pashmina su una spalla, la fa scendere, la fa salire, accoglie a distanza i tributi delle signore come se le assicurasse che anche lei, in fondo, fa parte del loro stesso, modesto genere, siamo ancora parecchio lontano in ogni

senso, non solo dalle pareti, c’è ancora troppa immobilizzazione, qualcuno dal fondo della sala però sta venendo verso di noi con un volume retto sulle palme delle mani nemmeno fosse il dono di un Re Magio al Divin Bambinello o la daga con cui farsi meritatamente decapitare…mio padre fu così che mi offrì al prete oltre la rete della colonia, come Abramo offrì Isacco a Dio, ma per me Dio non intervenne a fermargli la mano… e tuttora ho l’impressione che non solo io, non solo lei questa sanguisuga qui attaccata a me come una strainciucciata ventosa di tiramerda di quel cesso che butti fuori quando mi aliti addosso, ma che tutti, tutti si faccia parte dello stesso museo delle ceneri, delle cere, sì, di quella cosa morta lì. Lui escluso, il girato maledetto. Non è certo venuto al mondo col capo già cosparso di quella cosa morta lì come me, lui. Io residuo inorganico lo ero già in pancia, con i capelli color della cenere ci sono nato. Mia nonna li aveva però definiti biondo cenere, una sera dal crepuscolo infinito che eravamo proprio accanto al caminetto di tizzoni spenti nella piccola cucina della baracca dove stavamo noi tre, tra il canneto e il mare… oh, una stufa in ghisa e un muretto di pietroni per custodirci il fuoco e una tavola con la tovaglia fatta con pezze di paracadute, niente di più, se si escludono le brande… e può darsi che da bambino ci fosse una qualche sfumatura dorata nella mia capigliatura, ma io li ho sempre visti come grigi, seppure di un grigio in erba, vivido, un grigio da giovane dio senza età, non da vecchio fauno incanutito… mi

viene da ridere: un fauno io, io che sono l’immacolatezza fattasi persona, io che sono la sessualità fattasi branca della teologia senza dar di matto e che non conosco né versione né perversione! Un grigio gioioso, se posso osare, il grigio di una vittoria definitiva, espugnata dal proprio sangue prima ancora che dal sangue altrui… che pure ho saputo far versare copiosamente di Borsa in Borsa e di legislatura in legislatura ai nostri milioni di fedeli pecorelle smarrite e fessi beati senza riportarne io macchia visibile… il grigio perlaceo di una guerra combattuta in segreto, tra le proprie vene che si affrontano l’un l’altra all’arma bianca della rinuncia senza ritorno, senza ripensamenti, senza tentennamenti, senza piagnistei. La parola cuore non ha spazio in chi ne ha, se no l’avrei usata. Un cuore in cenere non significa un cuore di cenere, e comunque la metafora del cuore è da converse sospirose e da mistiche a tempo perso. Io sono un grigio uomo di potere, io i cuori li ingrosso e poi li estirpo, li illudo e poi li eludo per mandato divino. Io ti do la casa ma poi devo anche togliertela variando i tassi di interesse, altrimenti potresti montarti la testa con quel tetto sopra tutto tuo e cambiare l’ordine naturale delle cose, di chi sta sopra e di chi sta sotto e dov’è la tua vera casa, che è il Tempio di Dio. Io devo stare sopra, voi non so, ma dove sto io voi non potete starci. Potete arrancare, sia con la delinquenza che con l’onestà, ma io devo respingervi giù, magari ancora più in basso da dove siete partiti. Ho la politica, la scuola, le leggi, la stampa, la magistratura, le banche, le imprese, l’edilizia, i sindacati dalla mia. E ho le conoscenze straniere, ne avessi mai

bisogno. Uno Stato si trova con un arsenale in disuso che di certo non può distruggere perdendoci investimenti e faccia solo perché è obsoleto? Io invento la strategia dell’odio tra due tribù o due popoli o due etnie… o due Famiglie… in pace fino a quel momento, e il gioco è fatto. Non mi si prenda alla lettera ma anche: mi si prenda pure. Io opero in questi ambiti irraggiungibili da mente umana e sensata e insensata, e troppo subliminali per non essere terra terra. Io faccio quadrare i conti che altrimenti non tornerebbero, e che non tornerebbero indietro oltretutto più. Non c’è burattinaio che non sia marionetta a sua volta, e io sarò anche una marionetta come tutti gli altri, ma i miei fili li tiene Dio, i vostri li tengo io. Voi siete un certo numero di casualties, di vittime sacrificali, di ceneri in aspettativa messe in conto sin dal primo vagito. Oh, sarebbe troppo lunga da spiegare, e io non do giustificazioni. Se anche lo volessi, non saprei come giustificarmi. Non esiste una retorica simile accreditata e credibile. Non è tema, punto. La mia Chiesa deve trionfare, mica sopravvivere o vivacchiare. Come, è un risibile dettaglio. Io sono il pulviscolo… la polvere sottile… che arriva dappertutto e s’impossessa di ogni cosa e di ogni coscienza e di ogni risparmio accumulato al fine più ignobile: la libertà da Dio e dai Suoi sicari… uff, vicari, volevo dire. Ho il fascino delle enormi ricchezze e degli stenti indicibili. Io sono la Croce e chi inchioda e chi la fa e se la fa pagare salata ogni ora d’uso in più. Per non lasciare pericolosi vuoti di potere, sono anche l’inchiodato… be’, un sosia di buona volontà e miglior masochismo. E ve la farò pagare fino al vostro ultimo rantolo e al mio estremo sorriso di benevolenza misericordiosa.

Comincio ad aprire il volume a caso: preti, sì, col tricorno, e pretini con la papalina, allora si portava la veste già al ginnasio. Me li ricordo tutti uno per uno, ma guai a me se mi lascio andare all’anacronismo imperdonabile di rivelarlo, ah, di rivelare che qui dentro ci sono anch’io, sarebbe una bella sorpresa, e che titoloni sulle prime pagine domani… se li volessi, si intende. A proposito: nessun fotografo qui? Non mi si immortala neanche un po’, nemmeno quel tanto da farsi pubblicità e far cassetta? Faccio come sono abituato a fare: faccio finta di niente. So che la mia muliebre ombra pencolante sul volume dietro di me sta oramai cercando il mio sguardo ma questa soddisfazione non te la darò, oh troia irrisolta, oh frustrata santarellina che fingi l’isteria della casta per dovere e poi ti fai tutte le guardie del corpo da Castelgandolfo alla Santa Casa chiusa di Loreto! E io pago! Lo so che lo sai e che hai riconosciuto luoghi e ambienti e persone, non c’è alcun bisogno di sottolinearmi la tua complicità, sono quarant’anni che cerco di farti capire che la recita della nostra intimità riguarda gli altri e che non abbiamo alcuna intimità tra di noi da autenticare fosse pure solo con uno sguardo d’intesa. Lo so anch’io che come me anche tu stai aspettando che il catalogo si apra su una certa pagina e una certa foto. Ah, se solo te ne andassi a guardarle alle pareti invece di farmi sentire la tua alitosi di anoressica indiavolata mai scopata dalla tua preda più ambita, me… “Edificanti”, dico al gallerista senza sollevare la testa dal catalogo, “E quanto costano?” “Non sono in vendita, appartengono alla fondazione, ma per Lei, Eccellenza…” e lei, la mia croce di compagnia che scorreggia di bocca, che ti venga un padrepio piorroico alle ganasce, si mette a

solfeggiare canterina, “Ma che adorabili mattacchioni questi chierici qua! E che belle vesti di una volta! Ora tutto è così appiattito, sembrano tutti dei pìerre alle sfilate di moda. Anch’io avevo un parente in quel seminario lì, sa?”, le do una impercettibile gomitata nel gomito, “Oh”, dice il gallerista, “in quello o in un altro erano tempi di fame, era difficile per chiunque non avere un parente in seminario!”, e cerca inutilmente il mio sguardo per condividere l’ironia intesa per farmi piacere. La cenere ha mille e un colore che non si vedono a occhio nudo, sono infinite le sfumature di ciò che è bruciato fino all’ultima fibra. Non vorrei sembrare saccente, ma anche se sono da poco uscito dalla pubertà, e nella mia condizione di poter osservare da ogni possibile angolazione dell’alto ideale sapendo tutto del basso volgare, se per i più ritornare cenere ha l’ineluttabilità del luogo comune religioso, partire cenere e restare cenere com’è stato per me è una volontà o mia o di Dio in vece mia. Non mi imbarazza nemmeno un po’ caricare dei peli in testa di un simbolismo paracelsico ai limiti della bestemmia…l’affollamento nella sala continua a essere spartito in due, bene, come se ognuno attendesse istruzioni sul prossimo passo da fare, e sono riapparsi dei piatti di portata pieni di grissini e prosciutto e fette di salame e scaglie di grana, ma io mi trattengo umilmente dal fendere le due ali, mentre un vassoio con le flûte spumeggianti di bollicine si allunga verso di me e quella vecchiona di suora laica macilenta di mia moglie già investita della disinvoltura, festaiola con buon gusto, che una volta le toccava recitare e che ora le sfugge via del tutto inconsulta… e tuttavia bisogna pur

pensare che Dio ci invia i suoi segnali, e i suoi ordini, attraverso le umane apparenze della nostra nuda carne non ancora addobbata dagli orpelli del ruolo. Capelli, peli, cartilagini nasali di setti camusi o affilati, unghia ippocratica, ginocchia gemelle, alluce valgo, piede caprino, orecchie a sventola, membra lillipuziane o gigantesche, labbro leporino, doppio strabismo, psoriasi congenita, pupille di poca o troppa melanina che spinge l’azzurro o arretra il castano o si sfilaccia addirittura nell’albinismo, il più insignificante dei segni genetici o ereditari spesso incanala tutto il significato di un’esistenza, di una carriera, di una compressione artificiale di tutta un’anima nell’angusta scatoletta di un ruolo. Ci sono carni missionarie e carni dimissionarie. Constato, non ne faccio una questione di valore o di elezione. Non ho mai neppure per un istante pensato che sono stato creato per un fine superiore, ma per un fine ulteriore a ogni altro sì, a ogni altro rispetto a quello che avrei potuto infingermi per conto mio, intendo dire. Non ho mai avuto vocazione per la vocazione, ma un istinto infallibile per la missione sì. Che questo missionario spirito di remissione a un fine ulteriore mi sia stato cucito addosso dagli eventi o dalla casualità o dalla malafede o dall’incuria di chi avrebbe dovuto tenermi caro e invece mi ha abbandonato, ne indica ancora maggiormente la veridicità. Ma all’origine c’è quest’ineffabile colore di morte pregressa e di vita ulteriore, inedito per un neonato: un ciuffetto grigio che scendeva a triangolo in mezzo alla fronte! Sono nato portando su di me le vestigia di ben due millenni di impero, da qui il segno che dovevo provvedere al mio meglio ad altri millenni a venire. Provvedere alla perpetuità di Santa Romana

Chiesa, sia detto chiaro e tondo. E ci sto riuscendo tuttora molto bene, anzi, di bene in meglio. Scalpitino pure le altre nazioni dell’Unione Europea criticando l’oscurantismo culturale di stampo antidemocratico e berlusconiano dell’Italia: finché ci sono io, e decine di migliaia di preti sotto mentite spoglie come me, l’Italia resterà dove deve stare, e dove deve restare lo dico io, una entità in incognito costituita da mille e mille e mille adepti miei, si fa per dire, simili. Laici, sì, ma di tipo italiano, per l’appunto. Preti en travesti, l’ho sputato fuori, tanto prima o poi me lo sentirò ridire ad alta voce da quella macchietta dalla molle identità che mi gira le spalle con insistenza. E tanto chi mi sente, a parte Nostro Signore Gesù Cristo? Per Lui le bestemmie sono solo invocazioni al contrario, atti di sottomissione in negativo, Lui se la ride di quel che va farneticando la mente, a Lui interessa solo quello che è riordinato dalla viva voce. Non Gliene frega niente della verità o della Verità, dell’enunciato vuole l’ufficialità che echeggia nella pubblica piazza. Se voglio, persino dentro di Me sarei in grado di parlarmi e di non ascoltarmi. La destra non sappia cosa fa la sinistra, lo spirito separato dalla materia, la sostanza e l’apparenza, la moglie e l’amante. La notte e il giorno. Divide et impera, ecco tutto. L’Impero Romano mica è morto, ha solo aggiornato la batteria. Grazie a Noi. Devo aver avuto nove anni quando ho pensato così che se avessi avuto i capelli rosso rame forse mio padre mi avrebbe affidato al primo tendone di circo di ritorno sulla costa, ecco tutto, e che oggi sarei un pagliaccio o un giocoliere o un domatore di leoni, anche se secondo a nessuno. Rimasto orfano anche lui, e

così giovane e pieno di struggimenti a fior di pelle, voleva imbarcarsi sulla prima nave da crociera che riprendeva il giro del Mediterraneo ancora ingombro di portaerei e dragamine e con un fardello come me non avrebbe potuto che arrivare al faro e rigirare il gozzo verso riva. La donna della merenda al mare li aveva così come i miei, li portava corti, più corti ancora di mio padre, che io ricordo a petto nudo, pantaloni al ginocchio sfilacciati e una chioma di riccioli neri che gli copriva il collo, perché io lo ricordo o sempre di spalle o su in alto, su, su, davanti a un pennacchio di fumo di ciminiera quel mattino che salpò. Purtroppo lei non riesco a descriverla nemmeno tanto poco, non la ricordo affatto, e anche le proporzioni del fisico, certo era ben più magra di mia nonna, e più alta, e non mi guardava mai dritto negli occhi come mia nonna, che era affetta da un brutto strabismo che la rendeva ancora più animalesca, dunque, ancora più desider… come odio questa radice… per certi gusti. Fuoriusciti da monta, sdentati, malnutriti e con quella atroce voglia di femmina su cui ammattire qualche minuto e dimenticare gli spettri delle atrocità patite e fatte patire. Repubblichino o partigiano poco importa, era un’epoca di scroti alla deriva, disperati ex bambini seviziati dai rastrellamenti e dalle carneficine tardive da una parte e dall’altra, senza dimora e senza pace, patte senza bottoni che vagolavano di bettola in fienile, e di madre perduta in madre ritrovata in madre sognata in madre incarnita nella memoria della narice del lattante, madri tutte generosamente a gambe aperte per poco. Ma lì al nostro canneto mia nonna aveva conservato tutto il paradiso possibile, l’inferno se lo sudava fuori dalla nostra casamatta

dando di polpaccio e di reni ai pedali della bicicletta, e non se lo portava mai a casa come penso per la notte, quando si avvicinava un uomo lei staccava la carabina dal muro e usciva imbracciandola. Però, dato che palanche, appunto, non dovevano mancarle da un certo paese forestiero, lei non deve essere stata meno viziosa dei suoi clienti, o meno di loro portataci di natura. Grossa e sgraziata com’era, sarà stata una bestia imbattibile nelle orge. A me faceva un po’ schifo, per la verità. Se è per questo, mi facevano schifo anche gli uomini. Non mi è costato molto tenere fede all’illibatezza del celibato, anche se, a onor del vero, dopo che hanno fatto virare la mia strada, non ero più tenuto alla verginità. “Ecco qui la licenza del papa, puoi essere ordinato sacerdote anche domani. Studi eccelsi, e la tesi sulle tasse a discrezione presso i Medici un capolavoro, lingue straniere, grande predisposizione all’ubbidienza attiva, autentico slancio nello staccarsi dalle cose materiali… encomiabile la tua rinuncia ai beni della tua genitrice… anche qui, dai marmi agli stucchi rinnovati, è tutto merito tuo, Noi ti siamo ancora grati… e un pallino per le cose di finanza che si direbbe una mongolfiera, no, uno sputnik, se non fosse dei bolscevichi… Tutto ’sto ben di Dio… Che vogliamo farne?” mi disse il vescovo, ma più tra sé e sé che formulando una domanda a me; mi chiusi nelle spalle come a rispondere, ‘Facciamone un sacerdote, no?’ e lo guardavo stranito e restavo in un silenzio di tomba, sentii per tutto il corpo come un rimescolio di larve, non avevo idea di che cosa mi si stava per chiedere. “Tu sei allenato ai rigori della solitudine, tu sei un unto del Signore e lo sai… e te le fai ancora quelle docce gelate da polmonite fulminante? Certo

che hai sfidato la divina provvidenza non poco. Fede cieca e lungimirante. Ascendente sulle persone. Umiltà… umiltà propria che sa capitalizzare, mettere a frutto l’arroganza altrui, piegarla… Un seduttore nato, e i tratti belli del tuo volto e della tua persona. Una moralità a prova di Circe. Tu puoi diventare il cardinale più giovane d’Italia con uno schiocco di dita, non ci sono incerti del mestiere con te se vuoi fare l’ovvia carriera”, poi batté l’anello sul bordo della tazzina tre volte, la portò alle labbra, bevve un sorso di cioccolata calda e fissandomi con immensa pietà, “Potresti in-fil-trar-ti”, scandì ridacchiando, e poi, facendosi serio, “Mai sentita l’espressione ‘quinta colonna’?” e me la spiegò, insieme a buona parte della recente guerra di Spagna, non mancando l’occasione per dare lustro a quel sant’uomo di Franco, ancora saldo al potere. Poi ordinò al suo attendente, “Falla entrare”, ed entrò colei che sarebbe diventata la mia ombra quotidiana, una donna che come me rinunciava per nesso della causa a prendere i voti e invece di monaca diventava mia sposa. Non era pelle e ossa come adesso, ma lo sguardo di luciferina, delirante, vuota intensità era più o meno lo stesso. Non mi doveva piacere. Né la gradii né feci resistenza. Ma già che c’ero, ho messo… un matrimonio di circostanza, ai privilegi dell’astinenza… un matrimonio di facciata, un sì farlocco con questa ombra verminosa del diavolo qua accanto che ancora parla del dolore della maternità negata, per colpa sua, che le si sarebbero staccate entrambe, le ovaie, a seguito di una puntura di zecca nell’età dello sviluppo. Che attrice! Del resto, madre badessa che presieda alla manifattura di canestri di vimini o funghi porcini o pesche di beneficenza o sciroppate o di asilo

nido o caposala di urologia maschile o qui a fare la moglie moderatamente femminista del sottoscritto impegnata oggi contro la Cina nel Darfur e ieri nel procurare le vernici per ridipingere le barchette post tsunami che differenza le fa? Se è per questo, ci hanno assortiti bene. Dio è trino per statuto: uomini & donne & Vaticano. Eunuchi e infibulate à gogo e chiavi di San Pietro. Qualcuno deve pur sacrificarsi. Cosa sono una sessantina di milioni di pecoroni da macello al confronto di sei miliardi e passa che tutto sommato la fanno franca o, meglio, che offrono la cotenna alla concorrenza religiosa? Se dovessi dire io di che colore sono i miei capelli, e oggi come allora, tanti decenni fa, per quanto siano ormai radi, direi che è il colore del non vissuto, del non detto, del non sentito, del non ascoltato, del palpitante disatteso, e tanto da cessare ogni palpito, e forse questo riguarda non tanto me e l’esistenza mia, ma anche quella della donna delle due merende al mare che non mi tenne per mano nemmeno per saltare il rivolo dello scolo giù dal villaggio e che neppure mi ha mai sfiorato una guancia con una carezza. Il modo di mia nonna di farmi sapere che non mi voleva male era mondarmi un pezzo di torsolo di cavolfiore e farmelo balenare tra le dita come un’ala di colombella bianca e come se se lo levasse lei di bocca… e quando tirava fuori dalla pignatta bollente mezza patata e me la porgeva su un piattino con un filo di olio? Io andavo in deliquio, le volevo ancora più bene, ero più sicuro che non mi avrebbe annegato nemmeno quel giorno lì. Carezze, però, niente neanche da lei. Se non sai cos’è una cosa, mica la rimpiangi, quindi posso tutt’al più rimpiangere un torsolo di cavolo e mezza

patata calda con un filo d’olio. Eccola qua, la foto con me. Un po’ d’affanno improvviso, un po’ di sangue che mi va alla testa, un attimo che mi si fa tutto scuro davanti, e parlandomi da sopra la spalla lei mi fa, lei, l’unica al mondo qui in grado di abbinare me di ora a quello sconosciuto di allora lì in basso a destra nella foto, “Chi lo crederebbe? Ha un che di cimiteriale ’sto quadretto di coglioncini neri, non trovi? Come tante foto di ceramica sulle lapidi. Chissà che ne è di quello lì in basso a destra così carino e dolce, per esempio. Magari ha messo su pancia, la carogna, e la sugna gli cola dalle guance e dalle cosce e gli sta per venire un cancro alla prostata offerta a Dio”, e ha alzato la voce, come se già non fosse abbastanza stentorea e gracchiante, la maledetta poiana sderenata dalle emorroidi anche nell’utero di pus che ti ritrovi. Non so perché, predestinazione tricologica da Mercoledì delle Ceneri a parte, ero capitato lì a studiare da prete. So però che, a distanza di dieci anni dal primo giorno che entrai in quell’edificio dove per prima cosa mi fu insegnato a recitare le preghiere, perché è tutta una recita anche le suppliche e i mea culpa… e allorché è stata presa questa foto con me così fresco e bellino e sereno e sorridente e che vedo adesso per la prima volta mentre con mia moglie prendo a muovermi tra i manducanti a ganasce immobilizzate che, usciti dall’incantesimo da autosuggestione codina, hanno ripreso a muoversi e a masticare e che al mio passaggio accennano un’espressione di gradita sorpresa e di timore reverenziale… so che non ho mai desiderato per un attimo essere altrove… e nel

1951 mio padre era un ragazzo padre con pochi più anni di quelli che io ho qui nella foto… certo, nel vederla, così inaspettata anche se me l’aspettavo, lo spumante ha tremato nella flûte e ho sentito la gola chiudersi in un urlo ingoiato a viva forza tanto che è un miracolo che non sia svenuto o che almeno non mi sia appoggiato al suo braccio da spaventapasseri rivelando infine una debolezza poco istituzionale… Mio padre, subito dopo la fine della guerra, è stato il primo ad improvvisarsi venditore di noci di cocco e di gazzose sul litorale, e quell’agosto del 1951 che poi sono planato qui in seminario si è avvicinato alla rete che separava la spiaggia di tutti, ancora inselvatichita, dalla colonia tutta bonificata e rastrellata a puntino dei preti e pretini e orfanelli di guerra e s’è messo a parlare con la tonaca nera più anziana fra quelle con i piedi nudi sulla battigia che sorvegliavano bambini e adolescenti in acqua, l’anziano prete pelato si è sollevato la sottana bagnata fino alle ginocchia e si è avvicinato un po’ stizzito alla rete e a quello che doveva essergli apparso un perdigiorno, un gigione, un fanfarone, un ennesimo pezzente che chiedeva senza dare niente in cambio. Mio padre s’è girato con la testa appena appena, ha indicato col braccio verso la mia direzione, io ero accucciato sui talloni, non stavo affatto accovacciato nella sabbia, volevo esercitarmi all’equilibrio necessario per pesare le cose fuori, così forti e spietate, contrapponendole a quelle pensate dentro, così deboli, vili, compiaciute, e autoassolutorie, e sono rimasto come pietrificato con le mie telline in mano e il numero delle stesse impigliato nella memoria, “Trentatré”, come gli anni del Signore, e quando è iniziata la prima elementare siamo passati al

camposanto, abbiamo messo le tre mazzesorde prese dallo scolo sotto la crocetta di legno della nonna e mi sono trovato intruppato lì in tutto quel nero sdrucito, logoro, lucido, denso, scolorito, e pesante in inverno come in primavera, nero, nero, nero. Per prima cosa mi hanno tosato i capelli, non mi sono guardato nello specchio nemmeno una volta, tenevo gli occhi serrati. Non avendo versato una lacrima prima, nemmeno al funerale, non ne versai una né in quella circostanza né in seguito. E poi l’odore di minestra di verza e patate e di carne in scatola dappertutto a me piaceva, era un odore di rancido tenuto sotto controllo, era un odore di umano andato a male a fin di bene; inoltre, be’, non è che ci si lavasse granché; in inverno, poi, solo a quarti con lo strofinaccio, e neppure dappertutto. Il sesso, pur non avendo nome nemmeno per quello dei maschi, non potendo essere toccato tanto meno per soprannome, non andava lavato. Questo, e poi il fatto che la biancheria di sotto non è che vedesse il paiolo del bucato giù nei sotterranei più di una volta ogni quindici giorni, perché in effetti erano molti di più gli abbandonati completi come me che coloro con ancora un qualche genitore che provvedesse al ricambio o a una parola insolita nei conversari al refettorio. A me nessuno ha mai detto, “Come sei cresciuto, figlio mio!” e neanche mi ha mai guardato con quella pena quasi gioiosa che prelude al pianto represso di una persona cara. Io mi facevo invece una doccia giorno sì giorno no, di nascosto, e senza rubare niente a nessuno, visto che usavo solo acqua fredda gelata e mi asciugavo col mio panno in dotazione. Provavo dei brividi mentre la pelle mi diventava talvolta paonazza all’inizio per scoppiare in men che non si dica nel

rosa glorioso di una salute pressoché di ferro. Capivo la morte e i numeri, sottrarre una madre senza mai aver contemplato il calcolo di includerla da qualche parte, sotterrare una nonna trovata morta chissà come in una pensione del porto, agitare la manina dietro invito del prete calvo verso quel mio padre sulla tolda che si asciugava una lacrima, forse perché l’avevano costretto a raparsi a zero per via dei pidocchi come me o niente ingaggio. Mi sentivo in pari col mondo sia alla preghiera del mattino che a quella del vespro, e le persone che mi erano toccate in sorte da vicino erano tutte o svanite o lontane, chi c’era era allo stesso tempo chi non c’era più o era altrove. Bisognava imparare a calcolare l’apporto improvviso, dato anche per sottrazione, che compare a ogni scomparsa o inattesa apparizione. Sapevo per istinto che per durare col mio respiro anche domani dovevo ragionare per schemi e tuttavia prevedere i giochetti del tempo che rendono risibili un solo attimo dopo tutte le tabelline, per così dire, dell’attimo prima. Mai contare sulle persone che ci sono perché all’improvviso non ci sono più, e non tanto perché sono morte ma perché possono prendere il largo, qualcuno avvisandoti, altri senza nemmeno questo. Il mio maestro è rimasto stupito perché a sette anni scarsi, e senza che me lo avesse insegnato nessuno, sapevo contare fino a mille e riuscivo a fare a mente sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni e a enunciare il risultato come un grande, anzi, meglio di un grande, perché i grandi possono sbagliare, io mai. Già in seconda elementare avevo l’impressione che mi si guardasse con un occhio particolare, di particolare riguardo ecclesiale, non so, anche quando veniva

in visita un prelato titolato, per esempio mi si chiamava nel piccolo salotto delle grandi occasioni e il monsignore in questione mi sparava di punto in bianco mentre ancora stavo chino con le labbra sull’anello, “Due per due per otto meno quindici più trecentotré diviso per sei?” e dalla terza in poi tenevo il registro dell’economia della classe e, quando sono passato dal brefotrofio al seminario praticamente uscendo da una porta, svoltando un angolo e rientrando da una del tutto uguale, ho gestito via via la cancelleria di tutte le classi del ginnasio e del liceo, e in direzione, fianco a fianco col rettore – i gessetti, i quaderni, l’inchiostro, le penne e i pennini, il computo della cartoleria in generale, l’occorrente, ecco, per classi talvolta di ben trentadue alunni, e dovevo essere io a ricordarlo a ognuno, specialmente a quelli che costavano solo e non rendevano in proporzione ai consumi e ai voti. Sapevo quanto gravavamo su Dio con le nostre sviste e svogliatezze e distrazioni dal compito assegnatoci e riuscivo a dire quanto costava in centesimi una singola macchia d’inchiostro caduta sul foglio per sbadataggine o monelleria o sonno perso. Riuscivo a far sentire in colpa esponendo i meri fatti dell’economia che soggiaceva alla propedeutica della teologia vera e propria che ci aspettava dopo il diploma. Parlavo quasi esclusivamente di sprechi e di uscite, mai di risparmi e di guadagni, e ovviamente non sapevo niente delle entrate nella cassa dell’economato, e facevo già in seconda ginnasio le mie osservazioni a gente lì lì per prendere i voti, gliele impartivo con quel sorriso di benevolenza e verecondia che prelude al perdono, anzi, che lo preventiva.

Preventivare il perdono significa preventivare la necessità della colpa a venire: se si aspira alla guarigione di un sano, bisogna prima inventargli la malattia. L’inghippo primo del cristianesimo mi era chiaro: pervertire l’intollerabile salute e vitalità dei pagani, rompergli il giocattolino del vitello d’oro e di tutta la movida politeista senza accise attorno, costringerli col terrore e le carneficine a versare prima quella gabella doganale che erano abituati, comoda, a dare a Caronte dopo. La dessero subito a Noi, e poi transitavano come sul rosolio. E basta hybris, troppo anarchica e incontrollabile e duty free, e poi così elitaria, bisognava sostituirla con dei tabù di massa ad hoc da infrangere conformandosi al relativo tariffario fornito da Noi. Creare peccati specifici, cioè finte malattie assunte come tragiche necrosi dell’anima, nei campi più disparati ma innanzitutto nella sessualità – visto che il peccato originale era troppo poca cosa per farvi un affidamento non transeunte –, è sempre stata la specialità commerciale più spiccata di madre Chiesa. Essendo maestra di vita, è docente di alta, altissima finanza – e il lungo, lunghissimo, insolvibile termine è anche il più immediato, sincronico nunc et semper all’eternità da subito. L’Innominabile adesso ha fatto una scivolata di suole da libellula e sta attaccando un ricamo ai suoi spropositi in un altro gruppetto di cavie involontarie, so che si fa pagare apposta un tanto a dichiarazione passibile di querela, e che voce da tribuno quello lì, lui sì che sarebbe nato per parlare dai balconi anche a schiena girata, “… gli anni Sessanta non erano già più tempi di vocazioni a cascata, la Chiesa viveva ancora di rendita sugli orfani di guerra, di entrambe le

guerre mondiali. Per dirne una, vicino a casa mia, nell’ubertosa val Trompia ricca di castagni, dove per l’appunto sono specializzati nella fabbrica di armi da fuoco e di mine antiuomo e nella cottura istantanea dei marroni umani ai quattro poli della Terra, in un comune di mille abitanti scarsi nel millenovecentodieci si vantarono sessanta vocazioni di cui solo quattro non giunte a buon fine, ma pur sempre a mani giunte, un decennio dopo… me l’ha detto una mia parente osservante stretta proprio ieri quando le ho detto che venivo qua a fare una marchetta, e lei è una soldatina di Cristo e, be’, ovvio che non si renda conto che neppure quelle quattro sottane nere mancate sono andate perdute e che, anzi, sono quelle che sono giunte a buon fine più di tante altre consacrate. Quelle quattro in abiti borghesi-borghesi avranno dato valore aggiunto a quelle altre cinquantasei in piena mise routinaria. Saranno diventati quattro cani da guardia in civile degli interessi dei loro oculatamente generosi pedagoghi e salvatori dalle plaghe veteroleghiste dell’analfabetismo, saranno diventati dei fascisti esemplari, dei podestà in orbace su un balcone che promettevano l’olio di ricino, che è ancora la cosa più vicina a una tonaca nera su un pulpito che brandisce un’ostia divina. Minimo oggi sarebbero i corrispettivi, che ne so, di un direttore di ospedale civile che si avvale dell’obiezione di coscienza per non praticare l’aborto gratis… e convogliare le disgraziate imploranti verso un collega dal cucchiaino d’oro… o di un mastino di guardia a un’agenzia stampa o di un rettore d’università, magari rossa, o di un capostruttura Rai o di un autore di punta della satira politica sulle reti Mediaset, debitamente di sinistra, un mangiapreti che

mangia coi preti che se lo mangiano. Balla coi preti, il resto del bughi viene da sé. Avete notato come anche le migliori menti atee, agnostiche, aconfessionali… dio-del-ciel-se-fossi-una-colomba, che termini del cacchio… e i più insospettabili illuminati illuministi italiani emanino nei loro discorsi quel retrolezzo di sacrista che spegne tutti i ceri meno uno perché non si sa mai e arrivare al ventisette senza la spintarella del prevosto può diventare problematico da un mese all’altro? E i politici che propugnano la fine dello Stato etico? Più la poltrona gli traballa sotto il culo, più si danno pubblicamente all’intima ricerca di Dio. Prendete Bertynight… Siamo arrivati al paradosso che il vero Scalfaro è Scalfari! Non sarebbero da ghigliottinare tutti senza nemmeno il conforto di una telecamera?”. Io non credo alle mie orecchie, sembra abbia tradotto dai miei lambiccamenti quanto non oserei confessare nemmeno in confessionale al mio Padre di riferimento. Che sia vero quello che dicono di lui? Che se ti guarda per più di 6,6 secondi ti ruba l’anima? A me ne bastano 5,5, se è per questo. Col senno di poi, posso ridimensionare, seppur di non molto, quell’occhio di particolare riguardo che in seminario sentivo premuto su di me e il mio futuro da indirizzare a scopi di quella più vasta ed ecumenica salvezza che garantisce l’abilità di gestire i numeri correnti della società civile in ristagno: qualcuno pagava a mia insaputa una generosissima retta per me all’interno della società ecclesiastica. Ho dovuto impormi io per non godere di una camera con turca tutta per me e poter restare nella camerata come tutti i miei simili morti di fame puzzolenti di smegma da far ribrezzo. E chi l’ha pagata non è certo stato un

marinaio, un mozzo senza arte né parte, che avrà vissuto alla giornata e che mi ha beneficiato della sua provvidenziale assenza. Di mia madre… di colei ascrittami quale madre da mia nonna, che doveva avere più o meno i suoi anni e che però, a differenza della svedese capricciosa e girovaga, aveva fatto del sesso un mestiere… ho un ricordo molto vago, sì. Più lo spremo, meno ne esce. È venuta a trovarmi d’estate due volte, a due e a quattro anni, mi portava al mare… uff, lì a venti metri, mica alle Eolie… con un cestino di paglia azzurro pieno di cose buone da mangiare e da bere e non parlava, neanche sapevo chi era e non aveva alcun nome, non dormiva da noi, mi guardava come fossi qualcosa di vetro o di spuma, o un cagnolino senza coda, non un essere reale uscito a suo tempo da un grembo di donna, e comunque non fatto da lei; mia nonna mi ha detto che era già su con gli anni quando mi ha partorito, che sono nato in Svezia, che mia madre, dunque quella donna delle merende al mare per qualche ora per due pomeriggi di fila per due anni e poi basta, si era tolta un capriccio da nordica con quel giovanotto di suo figlio dal canestro di vimini avanti e indietro dai rari asciugamani stesi sulla rena a stappare bottigliette di acqua, zucchero e limone e a spaccare noci di cocco, frutto tropicale che mia nonna gli procurava facendo la posta a certe navi, e a certi doganieri, che conosceva lei. Io non ho mai dubitato che mia madre fosse quella che mi era stato riferito fosse. Non essendocene una o un’altra, per me andava bene anche lei, era lei e nessun’altra che lei, era nessuna come lo sarebbe stata una bagnante dentro una cameradaria di camion sulla cresta della

bonaccia. E infatti ne ho avuto conferma del tutto anche quando, all’età di vent’anni e a pochi mesi dalla tonsura, mi è piombata tra capo e collo un’eredità a dir poco principesca, con tanto di castello in quel di Malmö che guarda di sghimbescio verso il castello danese di Elsinore… di persona mai visto né l’uno né l’altro. Mia madre, da vedova, era diventata la regina dello stoccafisso svedese e del surgelato industriale e, spergiura fino all’ultima goccia del sangue del suo sangue, mi faceva sapere nel testamento che io ero stato il suo figlio più ama… il suo figlio prediletto, venuto al mondo per mondarla dei suoi peccati eccetera. Che delusione, quella donna, che animuccia da un milione di baccalà nella rete e da quattro acciughe in scatola per dettare una cosa così insulsa, da donnina allegra pentita che scambia gli sfoghi degli uomini cui soggiace per dei peccati, e oltretutto suoi! Una sirena del sesso libero ormai invecchiata e beghina che faceva dei mea culpa tramite notaio lasciando fuori la sua colpa vera, l’avermi buttato via. Mah, io ho girato tutte quelle proprietà e quei pescherecci e quelle merlature, e quei liquidi, al vicariato e ho sempre evitato il Kattegat come l’acquasanta il diavolo. Immagino che quel paio di lettere che ho ricevuto in seguito siano state di coeredi a pari diritto, ho fatto rispondere che non desideravo incontrare nessuno, che il mio nome di famiglia restava quello di mia nonna e che la mia esperienza materna lì si era compiuta e lì finiva e restava. Avrei sistemato mio padre dove mi avesse richiesto lui, purché remoto da me e dal seminario, ma non c’è stato niente da fare, nessuna indagine ha portato a rintracciarlo, nemmeno da estinto. Sarà andato a nutrire i merluzzi del suo

stupratore in due pezzi o in camicia nera. Penso che quella tocca di svedese allattasse l’avventura più di tutto, e che dei sentimenti prediligesse la parte oppressa, tenuta giù, non profferta, l’aureola penitenziale. Io le sono servito per crearsi una pena incommensurabile che non potesse finalmente lenire con una bevuta e una scopata sotto le stelle. Paturnie sotto sale. Già il fatto di fare un viaggio in Italia a quei tempi… e forse da sola, non so e non ho mai indagato, forse con un marito, dei figli, visto che sembra averne avuti, chissà, anche prima di me, ma certo accontentandosi di alloggi di fortuna, oggi qui domani là, e la pazza idea di una specie di bagnino di primo pelo dove le capitava di tuffarsi. Giocava alla finta povera, hippy anzitempo e lì lì per sfiorire del tutto nel suo pensiero stupendo di pura razza ariana? Avrei potuto chiedere a mio padre che tipo di donna era quella delle due merende al mare, almeno in seguito, oh, in seguito per ben poco tempo, ma non l’ho mai fatto. Io non sono curioso dove posso farne volentieri a meno. Temo che lui ne sapesse addirittura meno di me, era un ingenuo, un cazzetto a zonzo sul lido e poi a pulire patate in una cambusa, non credo abbia fatto molta strada anche se avrà attraversato tutti gli oceani di questo mondo. Se lui non aveva e non ha mai pensato di darmi delle informazioni, e nemmeno per lettera, nemmeno facendosela scrivere, significa che non aveva informazioni da darmi, a parte quella che doveva ben sapere mi era stata data da sua madre, mia nonna, e senza tante infiorettature. Forse quello che mia nonna mi ha taciuto… ma solo perché ero così piccolino quando è morta e poi, per l’appunto, sono stato affidato ai preti del brefotrofio prima e a

quelli del seminario dopo… è che quella mia madre naturale, alla quale va comunque l’ambiguo merito di non avermi abortito… “C’hai pensato da te dopo”, si rifà viva la vocina di sfottò… quella mia madre, insisto, deve aver lasciato giù dei bei soldini affinché mia nonna, che lo fosse o no, mi tenesse a balia. Mia nonna, che con ogni probabilità si era abituata allo stressante malaffare dalle miserie della guerra, non mi ha mai fatto mancare niente, avevamo persino una capra da latte, e parecchie galline nel recinto, sacchi di farina e di mais, uova e pasta fatta in casa a volontà. L’importante era che né io né quell’altro bambinone di mio padre intralciassimo mai i suoi movimenti, i suoi intrallazzi, i suoi pernottamenti altrove. Rientrava all’alba, buttava giù la bici dove capita capita e, estate o inverno, si tuffava in mare, la spiavo dall’oblò nella lamiera, prima che diventasse un muro con una finestra addirittura con vetri e ante, e non potevo ancora immaginare che non era per nuotare ma per lavarsi. Poi capii, ma mi meravigliai lo stesso perché si lavava solo sotto le ascelle e dentro la scanalatura dei seni, e continuai a non capire per un bel po’. Ma il seminario, che più allontana dalla vita quotidiana degli uomini e delle donne più acuisce l’immaginazione, apre gli occhi della mente sull’uso più impensabile di quelle parti anomale per un’abluzione. E sugli sconti se i maschi sono in comitiva e si procede di tre in tre. La schiena dell’Innominabile ora non è più girata rispetto alla mia postazione, sta addirittura di profilo, ma se fa finta di niente lui, figurarsi io, e stava dicendo sorridendo in modo smagliante, “… ma sì, l’enciclica più cavernicola del secolo, la

Donum vitae.. Che pizza agli embrioni e finocchi! Ognuno scrive e diffonde i suoi pizzini come può… oh, il Vaticano è tutto un bunker di matte che nei loro boudoir si ispirano al Paradiso Maurizia, chiamano la ragione civile ‘relativismo etico’ e ci bombardano di moniti contro ’sto relativismo etico… ma, scusate, cosa oppongono le folli bertucce al relativismo etico se non l’assolutismo criminale?”, e una rifattissima signora meneghina gli fa, “E cosa pensa della nostra televisione? Non è uno scempio dei nostri soldi?”, e lui, “No, se sulla scena irrompe Paolini, l’unico vip che vale il canone, a parte lei. Solo con quegli zigomi, darling, farebbe il sessantanove per cento di share”. Chiudo il catalogo quasi di botto, lo consegno a questa perpetua di moglie, e vado difilato alle foto appese. Vedermi ora nella foto non più nel catalogo ma alla parete, con quel nitore in più che esalta il grigio della carneficina collettiva officiata per un fine superiore… ulteriore, intendevo pensare… acuisce i grumi di memoria fino a darmi fitte di cervicale. Chi ero? Chi volevo congelare in me con quelle docce gelate? Ora io con l’acqua calda non solo mi lavo, ma fredda la odio anche da bere: la bevo solo se più che tiepida, per andare di corpo! Produco solo merda, una colata di merda via l’altra, la merda dello stitico quando finalmente va di corpo: quando non ce n’è più, ce n’è ancora. Quanti anni ho lì di già? Diciotto-diciannovemila? Portati da adolescente, ma li ho. Quando tutto è dolore, niente è dolore. Non può esserci stato, il dolore non me lo ricordo, non come qualcosa che si staccava tanto da qualcos’altro da farci caso.

Se non ho mai desiderato essere altrove dal seminario, non è certo perché siano rare le informazioni che filtrano sino qui dentro o perché nessuno di noi abbia una qualche idea di posti diversi da questo, con gente diversa da questa qua tutta in nero, a parte le loro famiglie coi fazzolettoni in testa o attorno al collo e gli zoccoli ai piedi che i pretini tendono a vedere sempre più raramente. Anche i nostri libri di testo sono illustrati e sarebbe bastato un mappamondo per rendersi conto che esistono geografie sconosciute e senza sforzo affascinanti, mica bisogna aspettare una cartolina, che comunque non mi è mai arrivata… forse mai consegnata, e avrebbero fatto bene, i Padri veri. Per me il mio posto lontano da qui è proprio quello dove sto, e pochi mi crederebbero, anche i miei superiori, se rivelassi che non nutro curiosità che si spingano oltre il portone che mi segrega. Quando ci viene permesso, una volta la settimana e mai più di mezz’ora di fila, di sedere in sala mensa davanti al televisore in speciali occasioni in cui parla il Santo Padre o un qualche pastorello visionario di Fatima o una ex posseduta dal demonio che ha fatto il triplo salto immortale e, da imbalsamata, è stata integrata tra le schiere delle beate, si vede pur sempre abbastanza del mondo per desiderarlo anche se solo in bianco e nero… la piazza gremita di palloncini, trionfi di gigli su tavole imbandite, signore in espressioni contrite col foulard di seta in testa ma pur sempre molto belle e abbastanza pie da volerle profanare… esche a dozzine per desiderare fare una fuga, anche breve, da qui dentro a fuori di qua. Io no.

Conosco la parola rimpianto, e non è perché ho solo tredici quattordici quindici sedici diciassette diciotto diciannove venti anni che non mi passa mai per la testa, e quanto a nostalgia ho solo quella per l’oblò nella lamiera, non avrebbero mai dovuto sostituirlo con una finestra, il cardellino non si sarebbe dilaniato senza capire che non era un altro cardellino; invece molti miei compagni, che ancora sospirano o piangono di notte nelle loro cuccette, hanno già rimpianti e sono addirittura più giovani di me. So a cosa pensano o me lo posso immaginare, perché siamo fatti di carne e ossa umane e siamo così bambini ancora, così pieni di turbamenti ai quali riusciamo a dare una qualche forma organica grazie all’idea del male che qui respiriamo come l’aria, e che ci viene, per così dire, inculcata molto più che non l’idea del bene. L’idea del male qui insegnata è davvero molto grossolana, grezza, una predica per contadini analfabeti e per dannunziani sifilitici, e non ha mai avuto alcuna presa su di me, tante tiritere sui peccati della carne e le fiamme dell’inferno, la Chiesa dovrebbe aggiornarli un po’, ’sti peccati e ’sti gironi, anche mongoli e mongoloidi tra un po’ andranno sulla luna, noi non possiamo stare fermi sui pioli in giù di una cantina che butta fiamme di cartastagnola. Non posso avere un vero rimpianto, quello di prendere una donna tra le braccia e darle un bacio, ma provo compassione e tenerezza per chi ne ha. È così duro per i più non afferrarsi almeno con la mente a una donna o a un compagno da accarezzare! Io so tutto di me, anche della mia avvenenza fisica, noto come mi guardano certi ragazzi, e la lavandaia e la cuoca, che insieme arriveranno a un secolo e

passa di anni, e anche il don Profe, l’effeminato insegnante di religione-religione che ha i cespugli di peli neri anche sulle nocche. Io non abbasso mai il mio sguardo se vengo fissato e passo oltre, faccio finta che sia il loro uno sguardo di muto e blando saluto, al quale rispondo con un mezzo sorriso di cortesia, perché qui non si fa ovviamente che incontrarsi e né puoi sempre formulare un saluto a voce né sempre avere un qualcosa da dire per fermarti a parlare. Io capisco il loro sguardo, loro non possono capire il mio sorvolare, che afferra il loro solo per depistarlo. Ma non c’è supponenza o disprezzo o fastidio nel mio: non mi posso permettere di tradirmi, perché sarebbe come ammettere che so interpretare le loro intenzioni e che, quindi, potrei sia averne avendole sia averne non avendole ancora messe a fuoco. L’innocenza va ben al di là di una verginità di pensiero e di azioni, è la necessaria corruzione della medesima per salvaguardarla dagli attacchi esterni. E renderla intangibile. Non so se c’è eccessivo amor proprio in questo, ma a me non è mai costato eccessiva fatica dare per perso il mio corpo e i suoi slanci una volta per tutte. Non lo metto in conto, e la cancellazione, progressiva, lo ammetto, non mi suscita, notti a parte, particolari miasmi di spettri. Il mio è un corpo che non si vendica su di me per non essere messo in gioco con i corpi degli altri, non che io me ne avveda, anche se mi sveglio in una veronica di sudore e di umori. Non ricordo niente, e di questo ringrazio Dio, perché posso immaginare cosa sarebbe per me non risparmiarmi la crudeltà di ricordare sogni dolci e abietti. Io non sarò l’estensione dei miei tessuti cavernosi: non avendo potuto avere lei, io non avrò donna. Certo, la volontà e lo spirito di

sacrificio per mantenermi non dico puro, che è una parola insensata, ma per, diciamo, mantenermi all’altezza del pensiero che mi sono fatto di me e del mio destino di sacerdote, all’inizio mi facevano soffrire molto e poi, gradualmente, più vedevo con somma letizia arrivare dei risultati, sempre di meno, fino ad azzerarsi ogni pena. Io non nutro alcuna sufficienza o gelosia o invidia o superbia per ciò che sono e per ciò che, a differenza di me, non sono i miei confratelli. Molti di loro sono venuti qui perché spinti da famiglie indigenti che non potevano farli studiare e, talvolta, nemmeno sfamarli abbastanza. Io capisco che loro guardandosi allo specchio per farsi la barba vedono anche una faccia che nemmeno la madre a cui assomiglia osa più accarezzare e che è una sofferenza, e che non c’è speranza che questo cambi, pena lo scadere a uno stato che niente ha a che fare con quello del prete o, meglio, che niente ha a che fare con lo stato che un prete dovrebbe avere con se stesso, perché alla società dei fedeli e no poco importa che cosa faccia e che cosa sia e che cosa senta o che cosa dica di sentire un prete, il gregge è abituato nei secoli al prete che dice una cosa e un’altra ne fa, la sua sacralità sta proprio nel fatto che può permetterselo senza mai pagar dazio, ci pensano gli agnelli e le pecore stesse a pagarlo per lui. L’unica coerenza che gli viene richiesta è abbassarsi a sgozzarli o a tosarle fino a che producono più latte e lana dell’erba che brucano. Non è certo mentendo alla società che un prete perde il suo stato di prete, è mentendo a se stesso, proprio come chiunque altro si racconti menzogne per tenere il passo con un’identità che ha perduto. E io, che

aspiravo a questa divina coerenza, sono stato scelto per diventare il pastore macellaio per antonomasia. Non so come ma a otto anni, in terza elementare, svolsi un tema in classe che si concludeva con la frase, “Non mentirò a me stesso e vivrò per sempre felice e contento insieme a dio”. Ancora non sapevo bene l’enormità che mi era uscita dalla penna, tanto che ricevetti una sonora tirata di orecchie dal maestro perché avevo scritto Dio con la minuscola. A distanza di mezzo secolo e passa, qui lo dico e qui lo nego: andava scritto con la minuscola. Dio è molto più terra terra di quanto lo si voglia senza che lo voglia lui. Se lo senti in te come lo sentivo io, lo senti così perché ti fai minuscolo e fai tutt’uno e lo scrivi dio per la stessa ragione per cui non scriveresti mai Io. Basta che non si sappia in giro… “Senti, scusa, ma al presente ti sei imbambolato?”, mi mormora mia moglie, “Guarda che sono tre minuti buoni che sei impalato qui davanti alla nostalgia delle guance paffute. Non ti senti bene o ti senti almeno male? Sarebbe un bel cambiamento”. “No, che dici, era che ero un po’ soprappensiero… quegli strozzapreti al cinghiale, tutto quello stufato al barolo Einaudi…” “Hai visto chi c’è?”, mi fa lei, allungando le labbra a lama di coltello in un sorriso ferino tra gli zigomi scavati dalla tenia del Maligno. “E chi c’è?”, faccio io, ben sapendo chi c’è lì a tre metri da noi e che ora si sta girando completamente verso di me. “C’è quella finocchiona tutta rappresa di… fa’ finta di niente, non guardarmi

oltre la spalla… di Sublaido. Vuoi che andiamo via?” “E chi è?”, mi sorprendo io, ben sapendo che non gliela do a bere. “Questa domanda me la fai appena ti è passata la sbronza, Fonzie. Ma se ti chiudi nel cesso a leggerlo! Tipico. Un poco di buono come te, un sepolcro imbiancato come te, Fonzie, chi altri può leggere se non…” “E non chiamarmi Fonzie porc…” “Sì, sì, fatti pure sentire a bestemmiare adesso… Un’altra tracannata di vinsanto barricato, Fonzie? Il brillio da rosacea ti dona, ti rende quasi umano, Fonzie pene moscio per bolla papale…” “Ma senti questa clitoride lessa qua…” “Moderati, Fonzie, dicono che quello lì legge nel pensiero. Pensa se leggesse nel mio o anche solo nel tuo…” “Ehilà, Happy days!” ci esclama col suo franco e tanto più orrido sorriso l’Innominabile tendendo spudoratamente la mano, che ignoriamo entrambi, “Guardate che non me la sporcate mica, se vi state facendo un riguardo per me. Oh, darling, ma che trendy il suo impermeabile in pelle di coccodrillo! E con la martingala cara a nonna Speranza per sdrammatizzare la blusa del fanciullino balilla! Signùr che chic. Anche il Leviatano veste vintage?”, e io zitto, impassibile, stacco ogni corrente dallo sguardo, non alimento, smetterà a combustibile esaurito, vinco l’istinto di girarmi verso la porta, il capogorilla è già in tensione, pronto a scattare, lo so, non voglio casini, cadrei nella sua trappola, e lui, la faccia di bronzo, continua diabolicamente argentino, “Stavo giusto dicendo a una

psicolabile di grido che non si cambia religione, ci si libera anche di quella che si ha, non trova? Quel Magdi cristiano Allam…”, non raccolgo, mi limito a scuotere appena il capo, e lui, come se ogni non reazione gli stimolasse uno spunto in più, “Anche voi mortali non comuni vorreste tanto una di queste foto e non ve la vendono? Pensate che io l’ho pretesa solo per mettere piede qui dentro e…” “Uh, quante informazioni non richieste, mio caro”, lo interrompo io, “E comunque: gliel’hanno data?”, e qui purtroppo mi è scappato un mezzo rutto da cucchiaino di bicarbonato a scoppio ritardato. “Buon pro. No. Quindi sarei pronto per fare uno scandalo”. “Oh che peccato mancarlo, stavamo proprio andandocene. Sarà per un’altra volta”, dice tutta finta divertita mia moglie prendendomi a braccetto e portandomi verso l’uscita, ma l’Innominabile non demorde, “Esperienza da nave scuola in small talk da discorso alla nazione di meteoropatici, eh? Che brava, mia cara. È così difficile interessare senza dire mai niente di interessante. Anzi”, e qui fissa negli occhi me, “senza mai dire niente di niente o dicendo solo cosucce che puntellino le cosacce che si fanno in silenzio… Eh, non esistono più le quinte colonne di una volta, adesso sono tutte seconde, quasi di retrovia… Buonanotte. I figli maschi non ve li auguro perché mi sembra un po’ tardino e… Happy days!”. Che insolente! Che chiavica! Un portento di uomo. Lui il suo specchio l’ha sfondato davvero, non si è nemmeno rotto il becco e continua a gorgheggiare da Dio. Un mito dell’altra sponda, ahi Noi. È stato lì che ci hanno fatto la foto in fila indiana, l’unica scattata in nostra

presenza ieri sera, fino a prova contraria, io sulla soglia e mia moglie davanti a me già sul marciapiede, l’Innominabile dietro, che ci sovrasta di non molto ma di un po’ sì, e stamattina sui giornali sembriamo una sovrimpressione una e trina, quasi un tutt’uno da gabinetto delle meraviglie, come se avessimo posato davanti al telemetro del fu Giacomelli stesso, dando luogo a una specie di chimera però senza parti animali visibili, a parte mia moglie tutta. Per la verità, del terzo elemento con nome e cognome di questa sovrimpressione sappiamo solo io e quella là che ancora fa finta di dormire ma che non vuole ammettere che i barbiturici non le fanno più niente, e nemmeno l’uso che fa del cilicio. Vi risparmio i titoli e gli occhielli: di un servilismo stomachevole, ammirevole. Tu scendi dalle stelleee, o Re dei leeeccacul. Del perché lo si sappia solo noi due di casa che fissato dietro a noi ci fosse anche l’Innominabile è presto spiegato. Neanche un’ora dopo che eravamo rientrati in diocesi, mi chiama il Bramby, il terminal del cartello della stampa, e mi fa, “Ti chiedevo il permesso di pubblicare questa foto che ci è appena pervenuta”, io faccio finta di cadere dalle nuvole, “Quale foto, di grazia?”, “Quella di te alla mostra, circa un’ora fa”, e io, “E chi me l’ha fatta, chi te l’ha data?”, “Ah, non si sa, non è d’agenzia. Non dobbiamo neanche pagarla”, e io rido sotto i baffi, la paga invece un en plein, perché la foto l’ho già vista e approvata io, è una mancetta dalla tasca altrui che di tanto in tanto lascio alla scorta attraverso il caposcorta che ha licenza di scatto e che poi la distribuisce in proporzione agli altri, poveretti, con tutto il vomito che devono ingoiarsi a trapanare quella assatanata di là che appena sveglia si fa fare il primo

fist fucking della giornata col cilicio in puro vello di capra armena donatole da Papa Montini quando fummo ricevuti in luna di miele, “E com’è?”, “Oh, sei di un fotogenico… e lei è uno schianto, la Sozzoni in confronto è bulimica… oh, una che si occupa di moda, scusa. Però c’è un problema: non siete da soli”, e io, “E chi altri c’è?”, “Guarda, non avrei neanche voglia di dirtelo, ma… c’è l’Innominabile”, “E a chi diamo tanta importanza da non nominarlo?”, ”L’Innominabile è innominabile, quello scribacchino barocco, quell’iconoclasta di maniera, però… l’avrai sentito nominare, nomen omen, ma tua moglie lo sa senz’altro, è sempre in televisione a sgranare scempiaggini populiste contro di noi”, “Ah, lì mi cogli impreparato, non guardo la televisione, e chi ha il tempo? Come la fai lunga, e chi sarà mai, suvvia”, “È l’unico non dei Nostri, neppure di nessun altro, finora. Un caso umano. Insomma, vedi tu, se dici che possiamo lasciarlo… Sarebbe la prima volta in anni…”, “Intanto io non ti ho ancora detto se puoi lasciare me”, “Scusa, scusami. Che si fa?” “Certo, da come me la metti giù dura, a prescindere da chi sia questo tal Sublaido”, e qui mi tradisco apposta, per vedere se mi becca: nessuna reazione, “è un accostamento quanto meno stravagante, vagamente improprio, imprudente, una specie di imprimatur azzardato… non trovi? Un mischiare perle e pirla, no?”, dico e penso, ‘Per lui’, “Altro che. Se vuoi lo togliamo come sempre, col computer”, suggerisce questo ventriloquo incollatore di veline fingendo di anticiparmi, e io, “Questo è esagerato, basterebbe offuscarlo un po’, dargli una mano di grigio, ma di un grigio incolore, nevvero, siete voi i tecnici, renderlo uno qualunque per caso anche lui lì nella galleria, mica uno riconoscibile

che sta uscendo con noi”, ahi, che ho detto, mi morderei un labbro, “Allora lo tolgo anche dalla didascalia e dalla breve. Fatto. Te le leggo?” “Ma no, sai che io sono contro ogni censura preventiva e per l’assoluta libertà di pensiero e di parola e di stampa, ci mancherebbe altro”, e lui, “Grazie tante, una vera chicca. Ah, che uomo, fai le radiografie anche via cavo, chissà come hai fatto a sapere che nella foto stavate uscendo dalla galleria. Grazie e buonanotte, e salutami la tua signora”, il tutto senza un filo di sarcasmo, di ironia almeno. Come dimenticare la frase che, da dietro, mentre ce la filavamo, è riuscito a far cadere nelle mie orecchie? “Vede, io comprendo lei, ma lei non potrà mai comprendere me, diventare me è stato infinitamente più difficile che restare uno come lei, mio caro, e non sono affatto spiacente”, e lì è scattata la foto. Il Bramby! Neanche a tradirsi per svista si riesce a cavare un ragno dal buco quando hai a che fare solo con buchi sovrapposti ad altri buchi. Una piacevole conferma in tanti sensi, una sinecura che ti finisce in bocca da sola, per Noi. Anche se italiano, un ragno un cervello ce l’ha. Certo, ripeto, non c’è più la soddisfazione di una volta, e io mi annoio, mi annoio, mi annoio, e mangio, mangio, mangio, e mi ingolfo di reality show, mica mi accontento di La prova del cuoco, da C’è posta per te a L’Isola dei famosi a Uomini e donne a Il Grande Fratello a Chi l’ha visto? passo i miei giorni facendo zapping, zapping, zapping ma niente mi sazierà mai come quel torsolo di cavolo e quella mezza patata calda col filo d’olio. E quel cardellino che volava nel vetro e ci sbatteva contro violentemente specchiandosi… mia nonna gli avrà dato il primo nome inusuale che le è venuto in mente, io in seguito di cardellini ne ho

visti, non assomigliavano a quell’uccellino colorato ma senza niente di rosso, a parte il sangue vivo sul petto, un essere isolato, la coda lunghissima e sottile, un cosino forestiero fuggito senza volerlo da qualche gabbietta di marinaio che non ritrovava più; se invece della finestra di una casa gli avessi spalancato la porta di una gabbia forse sarebbe entrato, a salvarsi, come me, e non ha mai visto in sé un altro, la solitudine finita, aveva solo il terrore di tutta quella libertà nelle ali, di tutto quel cielo sconosciuto, di tutte quelle altre specie uguali eppure così diverse e spaventose attorno e ha approfittato del vetro per… ma forse me lo sono solo sognato, era una volgare cavalletta e l’avrò spiaccicata contro il vetro io, e quella parola da niente di lei, “… passione…”… Passione per cosa, lei, la vecchia puttana? Quindi è stato reso anonimo, irriconoscibile, è stato rimosso. Se uno è innominabile, mi sembra giusto che sia anche invisibile. Già cenere da vivo come me, e amen.

a

Gli occhi della badante

(Dalle ore 4,14 alle ore 10,28 del 26 luglio del 2009 a Pieve di Lombardia) Mi manca non mia madre, quella l’avevo già data per persa cinque anni prima che morisse, ma le telefonate con lei quando ero via, più invecchiava, più erano spiritose: “Vedrai. A marzo ti aggrappi alle ciliegie di maggio, a giugno al grappolino di uva bianca di agosto, a settembre alle castagne lesse di novembre e a gennaio… C’è sempre una scusa per non voler morire, vedrai tu, bello”. Mi manca quella sudorazione improvvisa che dalla commozione mi prendeva dalla cima dei capelli e scendeva lungo la colonna vertebrale mentre era venuto il momento di mettere giù il ricevitore e lei stava ancora cercando una parola per trattenermi, quale voce mi darà mai più un simile, meraviglioso dolore? Da lontani, ognuno per conto suo, davamo il meglio di noi insieme, almeno lei con me, io invece con tutti. Anche lei, come me, stava giornate intere da sola ma, a differenza di me che di preferenza non metto piede fuori dalla porta, con l’uncinetto in mano sulla soglia di casa, pronta a scambiare un saluto, fulmineamente trasformato in ricamatissimi convenevoli, col primo che passava, senza però smettere di contare

i suoi punti dritti e rovesci, anche quando cominciavano a sfuggirle. Chiunque avrebbe detto di averla vista sollevare la testa, ma non era vero. Lei era più socievole di me, al di là dell’apparenza di gratitudine per ogni parola scambiata al volo, anche se di proposito non andava mai a cercare nessuno, temeva non tanto di disturbare quanto di dare licenza di essere a sua volta disturbata nelle sue improrogabili faccende. Non avendo più niente da fare entro un dato tempo, le sue giornate erano febbrilmente occupate dalla sua modesta inventiva nel non restare mai con le mani in mano, che finivano su un uncinetto. Be’, sì, siamo simili, anche se io resto tramortito a occhi chiusi almeno due volte più di lei e, come ieri, svegliandomi di soprassalto, ho impiegato un bel po’ a mettermi insieme per capire dalla luce naturale del bagno in che parte del giorno potevo mai essere capitato. Non vale dire che mia madre aveva quattro figli e pertanto era sola, come è spesso il caso delle donne dalle molte maternità, e anche in questo caso la cosa suonerebbe falsa, perché lei era circondata innanzitutto dal mio sapiente amore e poi da quello spiccio e altrettanto vitale di un sacco e una sporta di altra gente. La sua solitudine era di ben altra specie, era proprio uno stare da sola dentro e ben stabilizzata sul proprio esclusivo perno, standoci bene, e molto meglio di me, che di perni ne ho parecchi, e troppi in prestito. Da un punto di vista evolutivo, io rappresento un passo indietro rispetto a lei, lei sapeva guardare molto più lontano e da lontano di me e sapeva bene, a differenza di me, che nessuno era mai partito e che nessuno sarebbe mai arrivato o non arrivato così vicino da farle sollevare la testa e rischiare di scalare un punto dalla

fatalità del suo centro, ma allineiamo il passo se posso permettermi di affermare che sono pur sempre io, insomma, a riconoscerle un’enormità del genere e a averle reso questo omaggio, più implicito che esplicito per non farla restare male, per decenni e decenni, e anche post mortem. Da venerdì a oggi che è domenica, non ho chiamato nessuno io e non ha squillato il cellulare nemmeno una volta, me ne accorgo adesso che sono le quattro e ventidue del mattino perché la memoria sul quadrante segna in effetti due telefonate fatte dallo stesso numero nel tardo pomeriggio di ieri, squilli che non ho sentito perché, per l’appunto, ero su a pensare a come riaddormentarmi, data la cefalea dal troppo sonno e da quattro masturbazioni consecutive in ventiquattro ore con quell’ausilio del retino per atropi attempati di Skeezy, free gay porn, anche se per me non è semplice, perché gli atti sessuali altrui non mi eccitano (niente è meno sessuale del sesso visivo) né dal vivo né dal semivivo (senza star qui a specificare quali sono gli atti sessuali vivi e quali i semivivi, dato che quelli in natura-natura sono ben più recitati, e impappinati, di quelli registrati sulla natura digitale). C’è voluta tutta la mia pazienza di non guardone per trovare eccitante qualche faccia e qualche situazione, perché, come i ruoli cominciano a essere assegnati e a azzerarsi l’atmosfera, cioè dopo pochi metri di pellicola, frana ogni mio già di per sé inerpicante interesse e devo ricominciare tutto daccapo il logorio del languorino a comando. Spero proprio che tutto questo subliminale liquor di testa mi butti fuori combattimento per almeno una settimana, il pensiero di vedere un briciolo di interesse ormonale verso l’esterno

fare capolino anche solo tra me e me mi allarma, e poi mi sconforta. Mi viene da ridacchiare se penso che tutte e quattro le volte ho goduto di un’erezione di marmo e di un orgasmo da macaco e di un’eiaculazione da geyser appena fuori Reykjavik e di una intensità di battiti del cuore inteso quale sorgente del sentimento come neanche a quarant’anni, quindi non è assolutamente vero che non sarei più in grado di fare altrettanto con un uomo in carne e ossa se la sua mente non fosse stupida come le sue ritorsioni in agguato, però, alla fine della solfa, di fatto un essere umano non rimpastato dal mio potere di concentrazione mi fa schifo al cazzo, ecco. E basterebbe così poco: volontà, maturità, determinazione, libertà o almeno un funzionale libero arbitrio del momento, poi il ritmo lo si trova. Invece ho sempre a che fare con insipienza, infantilismo, costrizione, senso di colpa, e mentre uno rumina se fa bene o se fa male io sono già andato a pascolare altrove e aspetto… aspettavo… che o gli passi il bolo o gli vada di traverso. Una tortura alla quale dovevo pure fare bella cera. Non ho scelta, massicce dosi di bromuro a parte, oggi trovo il sesso con gli altri così superfluo, e noiosamente pericoloso, ce ne attaccano sempre un pezzettino che non c’entra niente, batteri a parte, intendo dire quanto a mitomanie, proiezioni senza capo né coda, aspettative abnormi e indifferenze sospette che ti buttano addosso nemmeno tu fossi un canale di scolo annesso a quel loro water che chiamano “la mia intimità”. Eppoi sembra proprio che i soli uomini e le sole donne che scopano in modo decente siano i professionisti prezzolati per la bisogna: una volta tacitata con del denaro la loro ansia di normalità, potendo far finta al

meglio della loro complicatissima arte, si scatenano anormalmente sul serio, come un innamorato non potrebbe mai, l’alibi vecchio di zecca li disinibisce completamente e è molto più il piacere che si prendono che quello che ti lasciano. Non che io abbia una grande esperienza in questo senso, rifugio dei sensi dei creduloni e dei faciloni, a parte quella poca che mi serviva per farmene un’idea e per un esborso globale che non credo superi i cinquecento euro in tutta una vita elaborativa di zoccola vaga di vivisezioni peripatetiche su di sé – fossero pure mille gli euro, generoso non lo sono mai stato, pagavo il loro tempo, ben poco d’altro, mentre per fraterna amicizia (darling, vedi se trovi qualcosa di più adatto di quel “fraterna”: “antropologica”?) ho gettato al vento una fortuna che forse facevo meglio a spendere in uomini al pezzo, se solo mi fossi arreso alla molle libidine di massa, perché non saranno pochi i beneficiati che pensano che il sesso no, l’ipocrita, ma l’affetto se lo è pagato alla grande e spudoratamente, e non sapeva neanche distinguere, accecato com’era dal terrore dell’irreversibilità di un destino di respinto dalla nascita, tra puttane da sveltina e platoniche di mestiere. A parte alcuni episodi di violenza subita da gente con la quale non era mai stato contrattato alcunché e che faceva sesso gratuitamente per poi puntarti un coltello alla gola con convinzione adeguata alla prestazione – tipo un pizzaiolo egiziano che nel cesso di un cinemino di Milano prima mi fa un pompino con l’ingoio malgrado continui a sospirare “vengo vengo vengo” senza per questo convincerlo a staccarsi e poi tutto lievitato di collera dice, estraendo un

serramanico a scimitarra, che io l’ho costretto a fare un atto contronatura proibito dalla religione eccetera –, io ho dei bei ricordi legati agli uomini che si prostituiscono; sarà stata la mia allegra gentilezza e il mio rispettoso distacco, uniti all’invito a prendersi la marchetta senza, se possibile, fare niente da sbottonati, a parte magari chiacchierare per un po’ del più e del meno, senza alcuna morbosità, perché per loro è come andare in ufficio e tirare su lo sportello, cosa che di per sé suscitava la mia meraviglia e ammirazione, perché infine tanta era la tenerezza che mi ispiravano, proprio come l’impiegato che tutti i santi giorni fa dalle nove a mezzogiorno e dall’una alle cinque, che mi dimenticavo perché si trovavano in quella situazione lì con me che neppure li toccava e che volentieri gli avrebbe dato una carezza o un buffetto, se non fosse sembrata proprio la cosa più viscida da fare. Nessuno di loro poteva essere desiderabile per me, procurarmi un’eccitazione sessuale da un corpo attorno a una mente disadattata e infelice mi sembrava inoltre vergognoso, inopportuno e non all’altezza della dignità e coerenza tra il mio dire e il mio fare propugnate da sempre anche contro i miei istinti (dei quali ho sempre diffidato, non sembrandomi altro che il precipitato di ulteriori idee ricevute), io non mi adeguavo certo al giovanile morto di fame in cerca di sangue fresco (in verità, ero più fresco io: e lo sono restato, tiè) e loro, così socialmente e emotivamente denutriti, non avevano certo un boccone in più da porgere a me, non glielo avrei mai permesso, non me lo sarei mai permesso, fingessero pure fingendo come e quanto gli pareva, capivo. Fino a che non mi rendevo conto che il boccone ero io

– e tutto io, compreso certo il denaro ma non solo quello –, non cedevo, e se quel paio di volte ho ceduto, cercando di dissimulare il mio non dissimulabile imbarazzo, l’ho fatto per non ferire il loro residuo amor proprio di maschi improvvisamente sbalestrati da una variante non prevista, frustrati, disoccupati e in crisi. A ben pensarci, gli unici da cui mi sono sentito desiderato davvero sono stati alcuni cosiddetti ragazzi di vita, quelli senza vita propria come me e che non sapevano niente del mio stato sociale, anche se certo non occorreva molto per immaginarselo facendoti i conti in tasca già dalle scarpe o dall’igiene, perché poi saranno anche di vita questi qua, ma non imparano proprio niente se continuano, malgrado le brutte avventure che hanno con i ricchi sanguisuga, a assimilare un poco di concreta umanità e disinvolto disinteresse al borghese che sta bene di portafoglio, allorché potevo benissimo essere un pensionato con la minima e un po’ di cervello di scorta, perché un miracolato di tanto in tanto deve pure venire a galla dal sordido orrido dei cannibali andati a male. Mi viene in mente un certo D., dagli occhi di un celestino lucido, per me impressionante, che mi fece rabbrividire, il quale da bellissimo e smilzo e dal sorriso perlaceo ho visto con qualche dente in meno e imbolsire e ingrassare come un norcino ciociaro nel giro di un paio d’anni: dopo averci cincischiato alcuni palpamenti di rito il quarto di una volta, la prima e ultima, non si capacitava del perché continuassi a dargli venti o trenta euro “senza fare niente”, gli dicevo che si risparmiasse pure le energie per qualcun altro, non pretendevo nemmeno che stesse lì a farmi compagnia, glieli davo e smammavo per non disturbargli le tresche dietro i doppi

tendaggi di un ultimo teatro romano rimasto aperto, altrimenti gli dicevo se, quando aveva finito, voleva venire a mangiare con me lì al ristorante all’angolo, mi divertiva vederlo ordinare perché lui, che magari succhiava cinque cazzi di prima mattina e leccava quattro culi tra pausa pranzo e crepuscolo ingoiando tarzanelli a gogò senza batter ciglio e s’inchiappettava due ministeriali tra pennichella e timbratura d’uscita, era schifiltoso da farti saltare i nervi dalla ridarella repressa, si raccomandava che non ci fosse un filo di grasso nella bistecca o s’informava se la verdura era stata lavata col bicarbonato e evitava ogni pietanza cotta nel burro: come potevo rivelargli che i suoi occhi erano uguali, anche per la malinconia ormai affettata dall’abitudine e tanto più tragica, a quelli della badante di mia madre, anche lei di quel suo paese là? E anche D., come la badante di mia madre, mandava quasi tutti i soldi a casa e ogni mattina si ritrovava in bolletta ma contento come il giorno prima, anche se credo che anche loro abbiano finito per chiedersi a cosa potevano ormai attaccarsi per continuare una vita così sempre come se niente fosse. Uno pensa che si aggrappino al focolare domestico, o costruito o rimesso in piedi grazie al martirio in terre ingrate e crudeli, e sì, certo, alla nostalgia dei loro cari con i quali ricongiungersi per sempre un giorno, ma non è così, si aggrappano alla vanità dei loro sforzi, perché qualche volta in un decennio sono pur ritornati dove sono partiti e avranno visto che quei cari consanguinei hanno mangiato fuori tutte le loro rimesse fino all’ultimo centesimo, che i loro figli, abbandonati o ai vecchi o a se stessi, fanno vita di strada e di galera e che col bel caminetto di marmo nel

tinello e la parabolica sul tetto e l’ultimo modello di iPod non riempi né la pancia né l’istruzione né un mestiere, e che tutto, tutto è stato inutile, ma questa disfatta se la tengono per sé, se mai osano confidarsela, e l’unica fonte di calore rimastagli è perseguire questa inutilità senza tregua né riscatto fino alle estreme conseguenze, perfezionarne il gelo e assiderati morirci dentro, che facciano poi ritorno a casa o no. D. mi ispirava un po’ d’affetto in più perché era proprio sprovveduto e si buttava via di giorno in giorno, stava in una pensione per non più di una settimana, poi doveva sloggiare e cercarsi un altro alloggio di fortuna perché magari aveva fatto alla madre un vaglia troppo grosso; una volta un suo compagno di stanza e di sventura gli aveva rubato tutti i risparmi di un mese, non mi era difficile riconoscere nella sua vita brada e snervata la mia stessa gioventù, quindi non ero generoso che per riflesso egoistico. D., non avendo agganci con alti prelati o parlamentari manifesti, come un certo modello brasiliano che si era tolto subito dal cinemino di pensionati poveracci e stava tirando scemo un cardinale, non trafficava con la droga, e questa bizzarria me lo rendeva ancora più simpatico, e aveva un modo sornione di sorridermi quando vedeva che mi turbava, perché era come se chiedesse ogni volta il permesso di prendersi dall’agonia più vergognosa una simile libertà con uno spudoratamente in forma come me. Be’, l’ultima volta che l’ho intravisto, mi sorprese da dietro, ero seduto al tavolino fuori in un posto della galleria Esedra dove vendono gli arancini di riso, e non feci nemmeno in tempo a girarmi per vedere da chi mi era alitato quel fiato sull’orecchio dove sono sordo dalla nascita che lui mi bisbigliò, sibilando un poco

per via del canino perso per strada, “Domani rientro al mio paese, volevo dirti che tu sei l’unica persona buona che ho incontrato in otto anni di Italia”, mi schioccò un bacetto sul lobo e sparì verso stazione Termini, a farsi gli ultimi straordinari. Ora, io non credo che esistano persone buone o cattive, dipende in che circostanze le conosci e dall’uso che fai balenare di te stesso presentandoti, da quali credenziali fornisci al fine di convogliare una certa informazione che possa incuriosire e aprire un ventaglio di trattativa in vista di quale tuo scopo, recondito o no, che volontariamente o involontariamente agiti sotto il naso del tuo prossimo occasionale o ricorrente che sia, e D. si era messo nella posizione di tirar fuori dalla gente la parte peggiore nascosta ai più, rivelata giocoforza a lui e a quelli come lui soltanto, il sesso avvilito di una virilità platealmente alla deriva, anzi, spalle al muro; credo che le persone cattive, buone almeno quanto me ma non in quei frangenti di esasperata meschinità in questua di un colpo di reni a pagamento o di uno strangolamento a tariffa fissa più spogliazione del morto, se le era andate a cercare e che a modo suo era stato fortunato, perché ne aveva trovate tante, anzi, le aveva trovate cattive tutte, ma era grazie a quelle del do ut des senza ghirigori ma costante, fra cui parecchi clienti assidui, non a quelle “buone” e asteniche e dalla saltuaria carità come me, che D. aveva tirato a campare non malaccio, tribù compresa, perché sono i buoni a darti tutta la loro saggezza non richiesta e a lasciarti morire di fame se non ce la fai più che alla svelta a diventare buono come loro; però devo dire a questo riguardo che a me le

circostanze e le professioni fanno un baffo, se non sono millantate una vale l’altra, un ingegnere non mi ispira maggiore fiducia e correttezza fiscale di un marchettaro, non negozio di volta in volta la mia morale in base a chi mi trovo davanti e al baratto o alla voglia o alla proiezione del momento di quanto ci posso ricavare, e ogni contesto diverso, per così dire, dal mio, pur non avendone io uno specifico in cui mi senta particolarmente a mio agio nella mia pelle e in un dato mio linguaggio elettivo, invece di modificarmi non fa che irrigidirmi ancora di più nelle mie regole di comportamento, sicché, se è possibile essere una cosa così strutturata da principi saldi come l’asse della Terra, io sono ostinatamente io soprattutto quando mi farebbe comodo scivolare verso un’identità più sfumata, plasticamente mondana, che meglio aderisse ai contorni dei miraggi del presente forniti in quel posto abitato lì che solo quelli può fornire e solo in base ai suoi abitanti perché lì altri non ce n’è, proprio come altri non ce ne sarebbero anche una volta altrove. Lì per lì, quella sua cara confessione all’orecchio mi sembrò un gran bel complimento, e così sincero, poi, senza tempo per una replica o una buonuscita, mi rincuorò di molti danni con beffa cui avevo prestato il fianco per sfida mille e una volta, ma a lungo andare ho contemplato l’ipotesi, anche se non era intenzione di D., di incamerarlo come un insulto, quanto meno un monito. Un distinguo lo si potrebbe però fare con gli psicopatici in agguato dietro la maschera della bontà e della gentilezza e delle buone maniere, che di sicuro buone persone non sono e che, da un certo punto della frequentazione in poi, si rivelano ben più che cattive, sono dei maniaci che vanno a caccia di una preda da

dissanguare immolandola alle loro frustrazioni e ai loro fantasmi e all’unica voluttà che sono in grado di provare, quella di perseguitarti, e non sai più se per liberartene è meno pericoloso affrontarli di petto e tentare di cacciarli senza soccombere alla loro truce furia, fuggire o per un po’ cadere nella loro trappola del tutto per ammansirli e al contempo banalizzare a tal punto la loro malignità che sono loro a piantarti lì e a andarsene sbuffando con tutto il disprezzo verso una preda non all’altezza. D. non aveva mai avuto a che fare con scampoli di simile depravazione umana, io sì, e avendo fatto ricorso più volte nella vita a una o all’altra delle elencate strategie di allontanamento del male più incattivito e senza spargimento di sangue né mio né altrui, posso considerare la mia bontà tanto sincera istintività quanto raffinatissima scaltrezza per non smenarci del tutto. E poi, se do, dormo meglio anche se mi sento ridicolo e talvolta vigliacco perché, a ben pensarci, ho ceduto a un ricatto, se non do mi sento fiero di me ma meschino e mi giro e rigiro nel letto senza requie, perché mi dico, che ti costava porgere una falange anche se era un finto bisognoso, un finto bisognoso è pur sempre vero come il più inguaribile ammalato è quello immaginario, cosa sei stato lì a spaccare il capello per qualche euro in più o in meno – e se portassi via non chiuderei occhio del tutto, quindi mi fa anche comodo essermi costruito questa griglia di contenimento chiamata “la mia bontà”, quello che a me importa non è di essere riconosciuto buono o no e neppure di esserlo o no: vivessi mille anni ancora, resterò agli antipodi di uno psicopatico perché non saprei mai che farmene di una preda, questo è il premio assoluto che mi sono dato volendomi

più buono che cattivo, punto. Eppoi: io ho compiuto gesti di assoluta dedizione e generosità per anni verso intere famiglie e singoli alla deriva, possibile che solo D., al quale ho dato le briciole delle briciole delle briciole, se ne sia potuto uscire con un simile riconoscimento di affetto intellettuale? E tutti gli altri che potrebbero ringraziarmi alla grande di persona o farsi vivi almeno con un biglietto dove sono finiti? Se io ho dato, costoro hanno poi ricevuto? Quello che ho spedito è arrivato? Be’, di preferenza non avevo intermediari, gliel’ho messo io stesso nelle loro stesse mani… E allora? Dare non è poi così difficile, è far arrivare a destinazione che è quasi impossibile, perché tu dai una certa cosa ma chi la riceve, cosa riceve, e che valutazione le dà? Perché scompaiono tutti? Perché la cosa, vista dall’altra parte, può essere solo questa: non hai mai dato niente a nessuno, sei tu che ti sei illuso che ci fosse qualcuno a ricevere qualcosa da te, e la tua certezza di aver dato è solo una delle tante folli sfumature del tuo impunito narcisismo. Sarà, ma io una volta a ventuno anni ricevetti una fettona inaspettata di torta da un’anziana coppia di coniugi di Hatch End, a ovest di Londra, e non sapevo più come ringraziarli, perché avevo proprio fame e forse loro se ne erano accorti, le parole mi sembravano troppo poco e allora presi forcone e badile e rastrello e carriola e gli ripulii il giardino da cima a fondo e, per rendere più ineludibile e trabocchevole questo mio atto di riconoscenza, cacciai giù l’acquolina in bocca, strinsi i denti e rifiutai la seconda fetta di torta e scomparii. Ogni tanto gli spedivo dall’estero qualche letterina piena di bugie e di belle cose che mi succedevano

perché non stessero in pena per me e, quando le cose hanno cominciato a girarmi per il verso giusto, ho cominciato a presentarmi pieno di regali, non costosi per non metterli in imbarazzo ma mai sciatti, anzi, abbastanza di pregio, scialli, sciarpe, borsette, di cui una fatta a uncinetto da mia madre con l’aggiunta di manici in mogano e avorio, piccoli monili etnici ma con dell’oro nella montatura, pipe di radica e, infine, due bastoni col pomello d’argento a forma di teschio Lui e di teschio Lei, entrambi più che oscenamente allusivi, perché gli anni loro erano oramai davvero tanti e bisognava imparare a riderne alla svelta. Be’, sì, è da un bel po’ che io sono io, e non ci voglio fare niente – e nemmeno posso farci niente se gli altri io non lo sono, a parte io con la vecchia coppia di Hatch End e D. con me, riconoscenti e già in fuga verso il nostro solito tran tran, perché aspettarsi riconoscenza dalla propria riconoscenza non diventi un tranello per le persone davvero buone cui si dice grazie o lo si dimostra, alzando poi subito i tacchi senza perdere un istante. D. aveva qualcosa in più, lui e io siamo stati un miracolo umano, perché per un istante siamo coincisi in una sola persona politica e in una sola civiltà, in una parità paradigmatica che dovrebbe essere la regola e non l’eccezione, che dovrebbe essere duratura e non passeggera, noi due siamo risaliti da ogni possibile scissione in un solo io felice una volta tanto di esserlo insieme e non ognuno per sé, perché un io che si rispetti è sempre composto dalla volontà di partire da due punti diversi e di incontrarsi nello stesso punto che annulla chi dà e chi riceve, chi raggiunge e chi è raggiunto, chi dei due è riconoscente all’altro, chi

è più forte e chi è più debole: un bisbiglio veloce, perché uno sguardo potrebbe essere troppo fuorviante, e poi ognuno per la propria strada. Comunque sia e comunque vada e a prescindere dalla persona con cui fai sesso – che non c’entra molto con l’amore, ci sia o no –, c’è sempre un obolo da versare, forse per entrambi, forse per uno subito e per l’altro in scadenza. O prima o durante o dopo, l’obolo si presenta e chiede gli interessi e cancella l’illusione della gratuità, a qualsiasi età – io, a tredici anni, stavo nel bar di mio padre e d’estate vendevo gelati e una volta uno sgrandiglione di quasi vent’anni mi disse, “Se mi dai un ghiacciolo, te lo faccio vedere”, e io gli risposi, “Solo se prima te lo tagli e lo metti lì sul bancone” –, e questa barbarica, ancestrale ombra di tornaconto di animalotteri con la pretesa di stivare qualche briciola a tuo danno per la propria temuta sopravvivenza fino a domani mi annienta sul nascere ogni velleità erotica, prima di fare la prima cosa devi prima fare due conti e intanto che li fai ti rendi conto che la prima in effetti è la seconda e che ti resta una manciata di calcoli per una merce che nel frattempo non è più quel che era e paghi tutto un fico per il picciolo che ti resta in mano, e poi a me tocca sempre la parte del dottore che sprizza salute e benessere da tutti i pori e agli altri, gli sfruttatori con me mancati, quella dell’ammalato incurabile, e gli ammalati non vedono l’ora di lamentarsi della loro malasorte e della tua sorte invece tutta rose e fiori, e non perdono occasione per romperti i coglioni con la scusa di svuotarteli. Inoltre, se ho l’incomprensibile fortuna di essere arrivato sano fin qui, la vecchiaia è già di per sé tanto laboriosa e tribolata che non ho voglia di affrontare

quotidianamente cicli di farmaci e di esami del sangue proprio adesso, innanzitutto perché dovrei uscire troppo spesso e non ho più voglia di rappresentarmi, cioè di fargli la manfrina che si aspettano. E dunque, a cosa mi aggrappo a fine luglio? Lei l’avrebbe saputo all’istante, le stava lì sulla punta della lingua da una vita, ma mia madre aveva qualcosa in più di me: aveva me, e io no.

a!

Domanda di lavoro a una Prima Donna

9.8.2009 Montichiari Aldo Busi all’attenzione di Carla Bruni Sarkozy, Palazzo dell’Eliseo, Parigi Rif.: domanda di assunzione

Gentile Signora, per apprezzare una prima Donna, bisogna capire la donna di prima fino a sentire nella sua femminilità in fermento la propria a bocce ferme, e io La sento, La porto in seno come se l’avessi allattata io, e ora, a mammelle e altre frattaglie vizze, vorrei ricongiungermi alla mia poppante migliore; magari il mio nome Le dice qualcosa, magari no, magari questa mia lunghetta letterina non Le arriva neppure, anche se so che, qualora Le arrivasse, Lei è troppo spiritosa per non rispondermi. Vengo al dunque: vorrei lavorare per Lei, il che significa che vorrei lavorare per il governo francese attraverso la sua première dame. La mia è una vera e propria fuga di cervello.

Immagino che, se mi metto al Suo posto, mi piacerebbe assai avere qualcuno di cui fidarmi quasi ciecamente, un factotum dotato di astrazione intellettuale quanto di senso pratico: infine, Le metto a disposizione l’intelligenza più brillante e più civile prodotta dal Suo stesso Paese nell’ultimo secolo, cioè un miracolo antropologico, che mi sono prodotto tutto da solo in barba a tutto e a tutti, e di cui resto il solo testimone, quindi, per i più, un balordo come pochi. La cosa, l’assunzione sarebbe possibile perché non scrivo più libri dal 2002 – e non intendo assolutamente riprendere – e perché ho rotto anche il mio contrattino televisivo quasi decennale, ormai era diventata una stucchevole timbratura di cartellino tra sagome di cartone bidimensionali cui mi ero ficcato in testa di insufflare una qualche profondità e, siccome o diventavo di cartone anch’io o ci lasciavo le penne, finalmente ho gettato la spugna del salvatore a tutti i costi e però ho messo in salvo me, abbastanza invano, perché, ora, per uno di sessantun anni con una madre morta a novantaquattro aspettare solo la morte può diventare un tedio senza fine, ma non ho niente, proprio niente da fare in vista qui se non perfezionare la mia invisibilità e, voce politicamente sbiancata e imperfettibile eunuco sociale, niente desidero fare, a parte lanciarmi in questo impegnativo capriccio da aspirante maggiordomo cominciando con il capriccio di dare fiato e ventura a questa lettera. Anche se è privatissima, sa che non è neppure la prima missiva? Circa un anno fa, positivamente impressionato da un certo odore ricorrente nelle stradine dietro i grandi alberghi di Varsavia centro, postai un sms a un sito di diversamente etero

in cui Le prospettavo la creazione e il lancio di un profumo per donne di entrambi i sessi ispirato e dedicato a una First Lady naturale come Lei, e non avevo incertezze sul come chiamarlo affinché si rivelasse un trionfo di vendite interplanetario cominciando dal Testaccio, passando per Frascati su su fino a Abano Terme: Eau de Frègne n° 1. Le risparmio gli ingredienti base e il retrogusto, predominante forse una nuvoletta di troppo, ’sto retro. Non so se Le è mai capitato di imbattersi in un mio romanzo o in una mia apparizione televisiva, se ha potuto farsi una qualche larvata idea di me, per quanto clemente o inclemente; se questo non è avvenuto, malgrado abbia decenni di passerella anch’io alle spalle e ancheggiamenti altrettanto sublimi, devo pur fornirLe qualche dato sulla mia personalità e carattere almeno attraverso il come potrei esserLe utile: a Lei sembrerà quasi oltraggioso, ma potrei cominciare con l’aiutarLa nella scelta delle mises. La vorrei più audace, sì, Lei può permetterSelo in ogni senso per un altro mezzo secolo. Vorrei talvolta più scollature, anche sul didietro e meno algida eleganza, e più gambe scoperte sopra il ginocchio, temo che a lungo andare l’imposizione istituzionale Le falsifichi la bellezza da schianto, che Le ottunda la felinità fino al punto di deludere le aspettative dei francesi stessi, che non solo Le perdonerebbero più di uno strappo – e di una trasparenza – al protocollo, ma che se lo aspettano trepidanti, e segretamente lo reclamano. Lì hanno avuto la Rivoluzione per eccellenza e vivranno di rendita incruenta per secoli: lo charme dell’eletto sostituisce la ghigliottina nei cuori degli elettori! Noi qui invece siamo rimasti fermi alle

divergenze parallele convergenti verso un unico altarino della madonna, sui nostrani scranni elisi siedono ancora replicanti di don Abbondio e una processione di ex Santemariegoretti non ammazzate in tempo, hélas, e ormai piccole troie di regime irredimibili. Ma torniamo noi a Noi e io in me e diamo subito una svelta sbirciatina ai muscoli facciali e a come evitare che il logorio da esposizione mediatica continua trasformi in tic anche la più incantevole delle espressioni spontanee. Nessuno, per esempio, Le ha fatto notare che dovrebbe risparmiare i Suoi sorrisi, che al terzo consecutivo già rivelano uno sforzo e da quello in poi risultano tirati, a lama di coltello, lo stesso che sente girare Lei nelle pieghe di una disciplina esasperante? Meglio una lacrima di cipolla in più che un sorriso allo spirito di patata. Emotivamente parlando, vado sul sicuro con Lei, non mi costerebbe molto volerLe semplicemente bene e volere il Suo bene, senza fare troppo l’impiccione: mi piacciono le Sue dichiarazioni politiche, la Sua laicità (che spero sia almeno privatamente anticlericale e sanguinaria quanto la mia), mi piace la scioltezza con cui non rinnega niente e nessun amante del passato, mi piace la Sua educazione e, non ultimo, la Sua inappariscente determinazione che fa sì che oggi sia solo la moglie del Presidente e domani la Presidentessa di Suo marito. Perché mica vorrà fermarsi lì, no? E io ce la porterò, fosse pure scavalcando un lutto sinistro. Mi piacciono le donne che non si lasciano sconfiggere, e io, che sono stato

blandito da più di un intero partito di maschilisti affinché mi schierassi con laute prebende dalla parte dei coglioni di rispetto, posso sposare la causa di una donna di valore, mai quella di un uomo per quanto di valore, perché non si dà in natura un uomo che io possa sentire superiore e al quale permetterei di sentirsi superiore a me se non per bestialità. Non sono uomo da intrighi, non ho sogni nel cassetto, sono di una normalità psichica e comportamentale ormai insolita, sofisticamente paesano, mi fa solo difetto la diplomazia come virtù teologale poiché non la prendo tanto per le lunghe e non sono tanto propenso ai ni e ai so, quando c’è da dire, dico e morta lì, carneficina inclusa; dispongo di solidi mezzi economici (almeno tali da superare di molto i bisogni del mio stile di vita), non ho inclinazione servile ma sono troppo lungimirante per non essere leale, per non rendermi utile, per non guadagnarmi dieci volte quello che costo. Potrei rivedere con Lei i Suoi discorsi pubblici (compresi quelli di Suo marito, se lui crede, ma mea sponte non mi azzarderei per nessuna ragione a dargli un consiglio non richiesto, mentre con Lei non dovrei fare altro), potrei seguire Suo figlio negli studi e nello sport (un omosessuale dichiarato e, malgrado l’età, gerontofilo ancorché in curiosa, concitata astinenza, resta ancora l’unica garanzia di una moralità pedagogica da maratoneta), accompagnarLa nei Suoi viaggi da sola, farLe il servo di scena nei concerti e vagliare l’assetto editoriale (copertine, lettering, royalties) delle Sue incisioni (anche in caso di ascessi ovunque siano), organizzarLe gli appuntamenti e le visite e le veglie funebri di Stato (unica eccezione, i funerali: non ci vado neanche

morto, mai starò dietro a un prete; stessa cosa dicasi per ogni funzione religiosa, niente matrimoni o battesimi o cresime o messe sataniche, e per coerenza niente presenza ai conseguenti banchetti e conferimento di medagliette e gagliardetti), potrei fare sopralluoghi per assicurarmi della Sua quiete, specialmente se decidesse di avere un flirt con un emiro dell’Arabia Saudita senza farlo sapere alla stampa (ma non sarebbe da Lei: avrebbe un flirt solo e esclusivamente perché si sappia, almeno il numero di pozzi petroliferi in enfiteusi), attendere alla Sua alimentazione e dieta e salute (spero che come me adori fare colazione al mattino con cavolo lesso scondito e centocinquanta grammi di salsiccia calabrese di quella bella piccantina che dà tutta una serie di strette così tonificanti per l’interno coscia), tenere in riga le guardie del corpo e a bada il loro spesso pericoloso zelo, organizzarLe i ricevimenti, farLe da capo del personale e da maestro di cerimonie (non sono uno studioso dell’etichetta di corte, sono semplicemente e esemplarmente elegante io, ho un tale carisma in questo senso che potrei mangiare con le dita dei piedi e farlo diventare un must anche per la buona Elisabetta), potrei, insomma, farLe da filtro per le cento incombenze della Sua giornata. POTREI PORTARE A SPASSO SUA MADRE A ORE FISSE! Che ci vuole? Paletta e scopino, guanto e sacchettino, e via per il Trocadero! Potrei, ecco, prospettarLe un punto di vista diverso e impensato ogni volta e darLe una possibilità di scelta che dribbli ogni incertezza o che almeno incrementi la consapevolezza del rischio da correre o no. È chiaro che a me non si danno ordini, con me si discute e si giunge a un accordo, al minimo atto di soperchieria

o di insubordinazione una volta concertata una strategia levo i tacchi. Potrei farLe da avvocato del diavolo, il che di tutte le mansioni è la più privilegiata da ottenere, se credibile e fine a se stessa, da un essere umano, peccato non lo sia mai, e potrei, perché no, procurarLe dei servizi antichi di Sèvres da scagliare contro il muro in caso di collera da sbollire e, giusto perché è Lei, mi chinerei a raccoglierLe io i cocci. La schiena è volenterosa e la memoria mi assisterà. Al momento, le mie lingue straniere parlate sono un po’ fuori gioco per scarso uso e esercizio, ma in poco tempo sono in grado di renderle decenti, anzi, ficcanti, e comunque con Lei intendo servirmi dell’italiano e, soprattutto, a occhiate. SO TUTTO DI NAPOLEONE e della sindrome del Piccoletto, primo perché sono stato all’isola di Sant’Elena e secondo perché me la ritrovo sulle patrie pedane dalla mattina alla sera da quindici anni. Siccome anche a me, quando ancora mi esercitavo a verificare con mano la legge di compensazione, piacevano i tracagnottelli, se mi fossi abbassato a loro con dei trucchi nelle scarpe (tipo portare le ballerine, allorché fossi stato pazzo per il tacco tredici incitando al contempo i miei spasimanti a mettersi loro delle zeppe interne per assurgere a me), mi sarebbero via via piaciuti sempre di meno: per amore o per carriera non si rinuncia a niente, meglio l’ostentazione della differenza che la resa ai parametri livellatori del più forte/più debole più vanesio. Altrimenti non crede che, se aspira a una parità di visuale andando a braccetto con un gran Gallo di marito, farebbe prima a riesumare le spoglie di Carletto de Gaulle? Svetti più che può Lei, lui si adeguerà, tanto più che ormai è opinione comune che l’affare l’ha fatto lui, quindi

il Suo vero affare sarà prendere me. Ovviamente, posso farLe all’occasione da portavoce, da autista, da cuoco, da estetista (manicure, pedicure, ceretta, strappo di peli) da infermiere (iniezioni, impacchi, clisteri, cure del sonno, crampi, cervicale, massaggi per sollecitare l’intestino, palla medica per lo scollamento delle vertebre, sostegno dialettico nella menopausa, malattie dermatologiche, punture di meduse, parassiti del pube, ginnastica da riscaldamento preventivo, stipsi e, soprattutto, cura della malinconia improvvisa: la si lascia stare così com’è finché non passa da sola), ho uno spiccato senso dell’organizzazione di una casa come di una caserma (e quindi di uno Stato) e dell’ordine delle cose e della loro gerarchia spazio-temporale; sono aristocratico e popolano a un tempo, e l’unico sentimento che provoco, deferenza e terrore e sufficienza a parte, è l’invidia ammanicata col sospetto, perché nessuno può concepire che uno bravo e diretto come me non possa avere un secondo fine (già mi è così faticoso averne uno semplice che spesso me lo dimentico strada facendo); so tenere un segreto ma so innanzitutto insegnare come non doverne avere o come sbarazzarsi di quelli ormai più superflui che ingombranti. In questo momento di grave clericalismo degli uomini di Sinistra, la cui unica vocazione veracemente antiBerlusconi è fargli da escort e sistemarsi almeno fino alla fine del secondo Ventennio in un secolo, sarei disposto a prendere anche la cittadinanza bulgara, si figuri quella francese, tanto non accadrà me vivente, malgrado le petizioni a migliaia su Facebook, che il papa venga spedito baracca e burattini in Groenlandia per non far mancare agli Inuit

quella voce di Dio che a noi ha rotto, sì, i timpani e i coglioni, ma soprattutto le tasche. Siamo troppo poveri per permetterci ancora dei fini superiori. E SO DISPORRE TRIONFI DI FIORI!

Con la più angelica delle spudoratezze acconcio calle e rami d’edera e rose e tuberose come se disponessi il piano di una battaglia su un plastico, niente fa paura alla mia sapiente e spiccia virilità in costante divenire (è quella ferma e stagnante degli altri maschi che mi inquieta e mi spinge tanto a emarginarmi quanto a emarginarli) e tutto ciò che è considerato effeminato e autodenigratorio, come la gelatina di pollo invece della vaselina per vincere la resistenza dell’orlo e il ricamo a tamburello preferibile alle ragadi per ridargli la perduta tiratura, eccita il mio testosterone. Ha presente un esercito di professionisti, compreso un antianalista buontempone per fare quattro chiacchiere alla buona e escludendo un lecchino e, forse, un ruffiano? Lo comprima in una sola persona e avrà me. Con il vantaggio che io non presento sorprese, non sono un traditore né durante né, soprattutto, dopo, e mi sento troppo interessante da me per ricorrere a mezzucci o a personalità pubbliche per covare o scrivere trame alle spalle. Per male che le vada, Le andrebbe da Dea. Anche se bisognerà mettere dei paletti, la mia disponibilità è pressoché incondizionata: non ho amici, non ho amanti, non ho impellenze di alcun tipo, non ho comportamenti devianti, non bevo, non faccio alcun uso di droghe o barbiturici o di pastiglie dell’amore, non gioco d’azzardo, non vado a puttani né li convoco, non ho debiti (nemmeno morali), non ho fantasmi né ambizioni frustrate, sono completamente staccato dalla mia opera di Scrittore, proprio come un qualsiasi

italiano medio che la legga o no, non rilascio interviste da dieci anni, perseguo solo la solitudine, pertanto non temo né le folle né le cene a tre né i mezzi pubblici, mere varianti della cella di una monaca di clausura però paziente. Unica pecca forse imperdonabile: ho la fedina penale immacolata, malgrado abbiano tentato di farmene di ogni, compresa l’offerta di un seggio al parlamento di Strasburgo. Be’, ben difficilmente potrei essere oggetto di uno scandalo, a parte uno concepito a tavolino da un maligno, quindi anche da me stesso (ma in questo senso mi sono tolto ogni possibile sfizio in passato, peggio che vada La coinvolgerei in opere di bene, solo le più trendy). Mi sono molto divertito a indirizzarLe questa lettera: mi auguro che Lei, mia ambita Signora, si sia altrettanto divertita a leggerla. Mi prenda in parola, se mi sento appena appena desiderato metto le ali, è molto dura per me continuare a far finta di essere il brutto anatroccolo d’Italia allorché tutto della mia natura e del mio spirito grida il mio essere cigno regale, sia Lei la mia umana chimera, qui sui due piedi non trovo nessuno altrettanto degno di avvalersi dei miei servigi o così folle da avvalersene, Le costerei più o meno quanto il mio passato fatturato annuo medio, quel mezzo milione di euro circa che non intendo raggiungere mai e poi mai più solo sulla carta, ecco perché, se proprio deve essere, lo vorrei al netto delle tasse e delle spese più un’abitazione adeguata, nessuna penale per nessuno, possiamo prenderci e lasciarci in ogni istante. Mi deve solo promettere che non scriverà mai una biografia non autorizzata su di me. Le invio un caro saluto, a Lei e ai Suoi cari, e la mia più disarmata simpatia.

Ps: per esempio, ha mai riflettuto sulla tristezza segreta che dilania le persone che sono sempre allegre, che sanno far ridere gli altri a colpo sicuro, che improvvisano copioni di botta e risposta conditi del pepe più esilarante come se niente fosse? Perché nessuno riesce mai a vedere che solitudine comporta questa capacità di stare poi in compagnia calcolando di ogni discorso il controtempo comico più inaspettato e elegante? Di questi acrobati della parola – e delle espressioni facciali e corporali più vibranti e colte – nessuno si preoccupa mai di sapere in che limbo di esistenza devono essersi abbozzolati per sparare così a fagiolo un fuoco d’artificio nella psiche altrui facendola deflagrare in una risata, magari per anni; di loro diciamo, “Che bel carattere! Che tipo spassoso!”, ma che ne sappiamo noi, e mai ci lasciamo disturbare dal pensiero di essere noi a procurar loro un po’ di compagnia, di allegria, di spessore spirituale, li si crede forti d’animo una volta per tutte e con la risposta adatta in ogni situazione della vita e mai ci passerebbe per la testa di chiederci, “Che posso fare io per rallegrare te?”. Vede, io sono del parere che nella società non c’è alcuna considerazione per gente come Lei e come me, tutti ci credono invulnerabili e forti e indipendenti, e nessuno si arrende all’ipotesi che avremmo bisogno talvolta di un po’ di sostegno e tutto ciò solo perché non ci piangiamo addosso né chiediamo niente più che il dovuto grazie al nostro lavoro e alla nostra fierezza; sapesse come sono stufo di vedere che la società si sente sollecitata a donare

comprensione solo a quelli che hanno cose da farsi perdonare, agli assassini e ai ladri, agli sfruttatori, ai drogati e ai pusher e agli alcolizzati, alle mamme abbandonate (magari incinte per la quarta volta), ai tanti che di mestiere fanno i deboli a carico dello Stato, agli ex carcerati e agli invalidi, meglio se tarocchi, ai minimamente “diversamente abili” purché rompiballe, alle vittime dell’usura (anche per andare in ferie), ai pentiti di ogni genere, mentre a noi, che certo con il nostro atteggiamento antiquestuante non invochiamo una spalla su cui piangere, viene tolto in solidarietà e comprensione molto, sempre troppo, a nessuno viene mai in mente quanto sacrificio costi essere dei bravi ragazzi e delle brave ragazze, degli studenti lavoratori, della gente che si dà da fare senza aspettarsi alcun sussidio, dei cittadini retti, dei responsabili indefessi, dei contribuenti virtuosi, e tutti a salvare le donne che si sono perdute e nessuno mai che pensi di fare un buffetto di solidarietà a una donna che si è salvata da sé. Se Lei un giorno, anche se è tanto più giovane di me, si sentisse vacillare per la troppa stanchezza di dover essere sempre all’altezza della bassezza altrui almeno per avere ancora l’energia per respingerla o improvvisamente Le crollasse addosso lo stesso senso di vanità del tutto come è successo a me – la vanità di ogni fatica e di ogni impegno civile e di ogni difesa della dignità umana attraverso la difesa della nostra integrità, per non parlare della vanità di tutto lo jogging e di ogni dieta che abbiamo fatto e di tutti i souvenir da viaggio che riempiono di polvere le nostre stanze –, vorrei darli a Lei il mio sostegno e la mia abilità nel fare e disfare le valigie, non a altri, vorrei sposare le Sue mete e i Suoi

spostamenti e inventerei ogni possibile stato di necessità nel perseguire indomiti ogni nonnulla e grillo per la testa, curiosi come bambini fino a che morte non ci separi, e nel frattempo ci divertiremmo da matti, e ce lo saremmo meritato. Ho già pensato a tutto, anche alla faccenda degli specchi. Quando, come la contessa di Castiglione ancora splendida e desiderata più che mai “vulva d’oro del Risorgimento”, Lei si rannicchierà in una vita claustrale e, crudele, non vorrà mai più far vedere il proprio volto né a sé né a altri, glieli coprirò io uno per uno, velerò consolles, specchiere, pettiniere, finestre, il soffitto del boudoir particulier con la mise en abîme per gli attachés tiratardi aspermatici più esigenti, nasconderò gli specchietti da cipria e per le allodole, e la posateria sarà tutta in ebano e avorio, che neppure una lama d’acciaio troppo brillante rifletta la tournure secondo Lei appesantita di uno zigomo! Ma ogni tanto denuderò uno di quegli specchi ingiustamente ottenebrati perché Lei, cogliendosi alla sprovvista visitata da una sconosciuta, abbia un sussulto, uno spavento, una meraviglia e resti invidiosa di tanta incontaminata bellezza e si chieda chi può mai essere quella donna e come è entrata in casa Sua e scopra Suo malgrado quanto si stia sbagliando nel giudicare il Suo passato e presente immutato splendore. Lei mi sgriderà per quello scherzo da prete e anch’io La sgriderò per farmi fare quella vita da carcerato a causa delle Sue fisime assurde, poi La convincerò a gettare alle ortiche il saio delle rinunce, La adagerò in un bagno di latte e miele a 37°, La vestirò e truccherò come dico io, cioè come se dovesse fare un paio di euro extra sui marciapiedi di Pigalle, e insieme andremo al Marais

a farci una scorpacciata di coniglio e cozze, magari con i Suoi nipotini, e tra un peocio e l’altro butteremo giù il piano per i nuovi sposalizi e le ulteriori annessioni di territorio. Immagino che per allora l’immenso privilegio toccherà all’Imperatore della Cina o al Maharajah di Tutte le Indie. Le piace il programmino? Previdente, n’est-ce pas? Guardi che potrebbe spingersi sino all’epitaffio funebre! Perché non L’abbandonerei sola al mondo e non scadrei mai nel cattivo gusto di precederLa nella fossa, dei funerali di stato non è cazzeggio d’amateur! Certo, ben prima dovremmo escogitare qualcosina per darLe un posto immarcescibile nella Storia non inferiore a quello della Sua progenitrice elettiva e nostra ispiratrice, l’unica prima di Lei assurta a pari rango, l’italianissima Caterina de’ Medici, la quale, se tanto mi dà tanto, doveva come Lei avere un tocco di carioca nelle vene data la salsa che metteva ritmando imboscate e massacri. Come Lei sa, la Caterina ha fatto un po’ po’ di botto con la strage degli Ugonotti ordita nella notte di San Bartolomeo del 1572, notte che cade il 23 agosto, ma siccome a agosto soffro parecchio l’afa e la puzza di visceri ne è esaltata come neanche alle Halles che Lei è troppo giovane per aver battuto come me, ho pensato che il 10 gennaio cadrebbe a bomba, Lei diventerebbe famosa e benemerita grazie alla notte di Sant’Aldo e a un repulisti che ora Le racconto a braccio: con la scusa di rassicurarli che mai e poi mai la civilissima e garantista Francia concederà il nullaosta all’estradizione di simili eroi liberatori fulgido esempio universale di abnegazione alla causa e che anzi attribuirà loro degli appannaggi a vita su pergamena col calco di Cotanto Pube bagnato, invitiamo a una grande festa a

Palazzo tutti i confederati fuoriusciti italiani di destra e di sinistra che si sono insigniti di assassinio nei cosiddetti anni di piombo (non c’era ancora il digitale, esistevano ancora le rotative) e che una volta al riparo lì si sono messi a scrivere libri, persino di memorie, quindi tutti nessuno escluso, e uno per uno, dopo il brindisi di benvenuto, senza nemmeno aspettare i vol-au-vent, li impaliamo e li esponiamo ancora vivi e brancicanti tutt’intorno la bomboniera di vetro del Louvre fino al secondo spiazzo delle Tuileries, più o meno dove c’è la statua della Giovanna, perché pochi non sono e la scenografia deve dare poi agio alle carcasse di dondolare sulle aste senza prendersi a gomitate. Come ha detto, sospirando dalla letizia inaspettata, “Aaa!”? Sì, sì, ho già pronto anche il titolo a Sua maggiore e imperitura gloria nei libri di Storia, La strage dei Negri, anche se La strage dei little Toni non è malaccio. Contenta? “Come una Pasqua più la sua isola!”, ha cinguettato? L’avrei giurato. Già, dimenticavo: Lei è sposata! Chissà se Suo marito è sufficientemente illuminato da non sentirsi oscurato da un simile Richelieu da passeggio! Le complicherei la vita, invece di semplificarGliela… no, non se ne fa niente. Mi do una notte per rifletterci su. (l’indomani, a busta chiusa e intestata “Palais de l’Élisée, 55 rue du Faubourg Saint-Honoré, 75008 Paris F”: mica gliela spedisco, e se mi prende davvero in parola? Adesso che qualcuno dovrebbe lavorare per me, mi metto a sgobbare daccapo per conto terze? Ma non vedi che ti viene il fiatone solo a fare dieci

gradini di scale? Quella ti fa una piramide d’Egitto su e giù senza darlo a vedere e tu che fai, vecchia canfora, le vai dietro con la bombola d’ossigeno a reggerle il beauty o la spirale delle eterne e vezzose?) Però è ingiusto che Madame non possa leggere questa letterina prima che venga trovata tra le mie scartoffie, un tempistico pensiero d’affetto imprevisto male non fa a nessuno, e da chi si tiene poi a debita distanza ancor di più; però, sì, che peccato. E pensare che avevo già previsto i due antidoti più di classe per ogni vera Prima Donna allorché a nulla più sarebbe valsa la chirurgia plastica nemmeno per impalmare un ferratore di oche della Pomerania: la cicuta o un aspide – in seno!

Il casto, sua moglie e l’Innominabile, già apparso nella nuova edizione di Sentire le donne, Bompiani, nel 2008, ha qui una variante nel nome del fotografo che fa scattare il ricordo della voce narrante: là era “Trombetta”, qui è “Giacomelli” (Senigallia 1925 – ivi 2000) come lo era nell’originale e come è giusto che sia, visto che Mario Giacomelli del testo è l’ispiratore, anche se solo per i pochi istanti spesi a guardare una sua foto con pretino. Arduo da spiegare il perché non lo adottai subito. Per farla breve: c’era di mezzo una specie di commissione per un evento commemorativo – di poche pagine e mai arrivata a un contratto controfirmato – che poi ho lasciato perdere per dare alla memoria del Casto, e alle sue segrete schermaglie con l’Innominabile, tutta la foliazione necessaria fino a esaurimento della sua e mia voce psichica, nella completezza che richiedeva la sfida psichiatrica di inventare un alterego (che il Casto scriverebbe “alter ego”) a un ego già alterego per vocazione al suo stesso ego senza farlo apparire ciò che è: uno schizofrenico protetto dalla sua carica, un dissociato di potere, un povero cristodiavolo senza patta propria nella stanza dei bottoni, più altrui che suoi; già che c’ero, ho rivisto il testo, ma i cambiamenti non

sono rilevanti, a parte l’elucubrazione su Aldo Moro, prima messa, poi tolta e qui ripristinata. Tenendo conto che dal 2002 al 2007 ho mantenuto il patto tra me e me, e quindi doppiamente con il mondo, di non scrivere più, quanto è qui raccolto è anche quanto ho scritto dal 2002 al 2009 di memorabile almeno per me, organizzando non solo la costruzione lessicale interna al parlante (e non autoriale!), ma anche una struttura narrativa con i suoi tempi improrogabili e mai casuali. Di parola, no? Scrivere solo qualcosa e pubblicarlo è per uno Scrittore infinitamente meno che non scrivere e non pubblicare niente del tutto, è la testimonianza certificata che il patto non è stato inficiato in alcun modo e che può perpetuarsi sulla stessa scia spedito e leale come si deve.

*** Quando sei in una fase della vita non riesci a immaginare quella che la scalzerà, così come nella passione non contempli il sopraggiungere dell’indifferenza, ma senza la fase successiva non si apprezza fino in fondo quella precedente, anche nella vita comune, senza poi letterario, ma in verità questa, più che una fase successiva vera e propria, è il corollario o conseguenza della stessa, iniziale, eterna fase che si ripete ottusamente senza interruzione e si rigenera tale e quale dalla nascita alla morte per tutti; scrivere equivale a descrivere nature morte, e non esiste passione viva scritta che non sia passione

esistenziale spenta. Scrivere significa vivere dalla fine in poi facendo finta che si sia sempre e ancora tra inizio e apice delle cose. Per uno Scrittore, poi, ogni fase o è successiva o non è neppure iniziata. Se nel 2002 ho smesso di scrivere è – anche – perché prima di morire contavo di vivere qualche bruta fase iniziale e basta come tutti, senza quel senno del poi “durante”, ma non è successo: non basta smettere di scrivere per smettere di essere Scrittore, purtroppo, e se tale si è, lo si è sempre, e ogni istante è quello successivo e nessun umano ha mai tenuto il passo con me, getto la spugna. Tanto varrebbe riprendere a scrivere, nessuno mi sarà mai sincronico come un foglio di carta bianco davanti. A.B.

BIBLIOGRAFIA DI ALDO BUSI

Aldo Busi è nato a Montichiari (Brescia) nel 1948. Opere Seminario sulla gioventù, 1984. Vita standard di un venditore provvisorio di collant, 1985. La Delfinna Bizantina, 1986. Sodomie in corpo 11, 1988. Altri abusi, 1989. Pâté d’homme (testo teatrale), 1999. Pazza (nove canzoni cantate da Aldo Busi, volume con audiocassetta), 1990. L’amore è una budella gentile, 1991. Sentire le donne, 1991. Le persone normali (La dieta di Uscio), 1992. Manuale del perfetto Gentilomo, 1992.

Vendita galline km 2, 1993. Manuale della perfetta Gentildonna, 1994. Cazzi e canguri (pochissimi i canguri), 1994. Madre Asdrubala (all’asilo si sta bene e s’imparan tante cose), 1995. Grazie del pensiero, 1995. La vergine Alatiel (che con otto uomini forse diecimila volte giaciuta era), 1996. Nudo di madre (Manuale del perfetto Scrittore), 1997. L’amore trasparente (canzoniere), 1997. Aloha!!!!! (Gli uomini, le donne e le Hawaii), 1998. Per un’Apocalisse più svelta, 1999. Casanova di se stessi, 2000. Manuale della perfetta Mamma (con qualche contrazione anche per il Papà), 2000. Manuale del perfetto Papà (beati gli orfani!), 2001. Un cuore di troppo, Mondadori 2001. Manuale del perfetto Single (e della Piùccheperfetta fetta per fetta), 2002. La signorina Gentilin dell’omonima cartoleria, 2002. La camicia di Hanta, 2003. Guancia di Tulipano, 2003. Seminario sulla gioventù con Seminario sulla vecchiaia, 2003. E io, che ho le rose fiorite anche d’inverno?, 2004. Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo, 2006.

I dialoghi del Ruzante, 2007. Sentire le donne (ultima edizione in brossura) 2008.

Traduzioni principali J.R. Ackerley, Mio padre e io, 1981. J. Ashbery, Autoritratto in uno specchio convesso, 1983. J. H. von Doderer,L’occasione di uccidere, 1983. J.W. Goethe, I dolori del giovane Werther, 1983. M. Wolitzer, Sonnambulismo, 1984. C. Stead, Sette poveracci di Sydney, 1988. L. Carroll, Alice nel paese delle Meraviglie, 1988. P. Bailey, Uno sbaglio immacolato, 1990. G. Boccaccio - A. Busi, Decamerone da un italiano all’altro, 1990-1991. Anonimo, Il Novellino (con Carmen Covito), 1992. B. Castiglione, Il Cortigiano (con Carmen Covito), 1993. E. Schiller, Intrigo e amore, 1994. Fratelli Grimm, La vecchia nel bosco, 1996. A. Spiegelman, Aprimi… sono un cane, io!, 1997. Zsa Zsa Gabor, Come accalappiare un uomo, come tenerselo stretto e come scaricarlo, 2005.

INDICE

A a a! Nota dell’autore Bibliografia di Aldo Busi

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