93933500 Furio Jesi Cultura Di Destra
April 3, 2017 | Author: restiticontraomnia | Category: N/A
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Cultura di destra di Furio Jesi
Storia d’Italia Einaudi
Edizione di riferimento: Cultura di destra, Aldo Garzanti Editore, Milano 1979
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Sommario Introduzione Cultura di destra e religione della morte Il passato, lo spirito e l’«ora del destino» Linguaggio delle cose; simbologia funeraria Intermezzo, di triviale simbologia profetica Mitologia fascista in Spagna e in Romania Il «messaggio segreto» del professor Eliade Cultura di destra e paura dell’ebreo Il Reich senza centro Il linguaggio delle idee senza parole Neofascismo sacro e profano Prestigio culturale di saggi. Julius Evola Documenti di lusso spirituale e di lusso materiale. Due commemorazioni del Carducci. Liala e affini Eroismo e castità. Gotta, Brocchi «Honnête homme», «homme de bien», «grand homme» La brutalità del gesto inutile. D’Annunzio, Pirandello Appendice I. Commemorazione di Giosuè Carducci tenuta nella sala della Società Filodrammatica Sportiva il 3 marzo 1907 in Porto Maurizio
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II. Commemorazione di Giosuè Carducci tenuta nella Loggia massonica di Porto Maurizio, marzo 1907
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INTRODUZIONE
Non si può dedicare un certo numero di anni allo studio dei miti o dei materiali mitologici senza imbattersi più volte nella cultura di destra e provare la necessità di fare i conti con essa. Qui tuttavia non ci proponiamo l’impresa di amplissime dimensioni in cui dovrebbe consistere un incontro globale e approfondito con tutta la cultura di destra. Questo studio deve semplicemente chiarire alcuni aspetti di quella cultura e integrare quanto già abbiamo scritto altrove1 intorno al concetto di mito e alle manipolazioni sia di tale concetto sia dei materiali mitologici nell’ambito della cosiddetta destra tradizionale. Qui non avremo spesso occasione di usare la parola mito, sebbene anche questo nostro discorso tratti sostanzialmente di manipolazioni di materiali mitologici. Quanto ci interessa è ora soprattutto la qualità ideologica di queste manipolazioni, e del carattere tradizionale e in genere del rapporto con il passato che dominano nella cultura in cui esse si compiono. Evidentemente, poiché si tratta di manipolazioni e tecnicizzazioni, dunque di operazioni con precisi fini (e con fini politici, nonostante tutte le dichiarazioni di apolitìa di alcuni dei loro esecutori), questo rapporto con il passato non solo è ben fondato nel presente – come ogni rapporto con il passato che non si voglia configurare in termini visionari o metafisici o in particolare religiosi –, ma prevede un preciso assetto del presente e del futuro. Uno dei primi spunti delle considerazioni raccolte in questo libro è stata una contraddizione che abbiamo notato sia nel comportamento dei se1 Cfr. F. Jesi, Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del Novecento, Silva, Milano 1967; Mito e linguaggio della collettività, in Letteratura e mito, Einaudi, Torino 1968, 19773 , pp. 33-44; Il mito, Isedi, Milano 1973.
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dicenti maestri della Tradizione (con la maiuscola: cioè del presunto retaggio di verità esoteriche), sia in quello di alcuni teorici meno esoterici della filosofia della storia e dell’antropologia che fiancheggiano i regimi di estrema destra. La maggior parte dei saggi dell’esoterismo moderno (escludendo evidentemente gli eventuali Superiori sconosciuti di cui non vediamo né potremmo vedere le tracce!) hanno passato la vita a dichiarare che il loro sapere era inaccessibile e incomunicabile a parole, e nello stesso tempo sono stati fecondissimi poligrafi. A che scopo? E se leggiamo il non esoterico (almeno in senso stretto) Oswald Spengler impariamo che La grande missione dello studioso di storia è quella di comprendere i fatti del suo tempo e da essi presentire, additare, designare i futuri eventi che, vogliamo o no, stanno per giungere2 .
Ma anche che L’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue; idee senza parole3 .
Anche qui c’è da chiedersi a che scopo lo studioso di storia ritenga necessario, per adempiere la sua «grande missione», scrivere opere di migliaia di pagine, quando è convinto che l’essenziale siano «idee senza parole». A questo punto, una volta «presentiti» i «futuri eventi», sembra che gli converrebbe «additarli» e «designarli» non con una pagina scritta, ma con un gesto, e possibilmente con un gesto rituale. Di fatto gesti del genere sono anche stati compiuti, e non si può escludere che un certo ritualismo di gesti miranti ad «additare», «desi2 O. Spengler, Anni decisivi. La Germania e lo sviluppo storico mondiale, trad. it. di V. Beonio-Brocchieri, Bompiani, Milano 1934, p. 4 3 Ivi, p. 8.
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gnare» il futuro (adeguarsi ai «futuri eventi che, vogliamo o no, stanno per giungere») si ritrovi sia nel comportamento dei gruppi di sterminio nazisti, sia in quello non di soldati ma di professionisti della cultura: i roghi di uomini, ma anche quelli di libri che lodava Alfred Baeumler4 , l’iscrizione di Pirandello al partito fascista all’indomani dell’uccisione di Matteotti, le ultime scelte (del resto già precedute da altre meno drammatiche) di Giovanni Gentile, e cose del genere. Ciò nonostante non si può negare che, se magari gli ufficiali delle SS ricorrevano poco alle parole, gli uomini di cultura parlarono, eccome, oltre che compiere gesti. Essi disponevano di un vero e proprio linguaggio letterario adatto a «idee senza parole», cioè fatto di parole tanto spiritualizzate, tanto lontane dal «materialismo», la loro bestia nera, che evidentemente potevano fungere da veicolo appropriato per le «idee senza parole». Questo linguaggio non l’avevano inventato loro. Era un linguaggio creatosi all’interno della cultura borghese, maturato durante la vicenda dei rapporti con il passato configurati da quella cultura, e pronto all’uso. Si aggiunga che, se fino adesso abbiamo adoperato i verbi al passato, questo non significa affatto che tutto il fenomeno di cui parliamo sia storia passata. In questo libro ci preoccuperemo anzi in modo particolare delle sue fasi di oggi e delle radici di esse nelle fasi di ieri. Il linguaggio delle idee senza parole è una dominante di quanto oggi si stampa e si dice, e le sue accezioni stampate e parlate, in cui ricorrono appunto parole spiritualizzate tanto da poter essere vei4 Un brano della prolusione di Baeumler quando assunse la cattedra di filosofia all’università di Berlino (10 maggio 1933): «Ora Loro escono per andare a bruciare i libri in cui uno spirito a noi straniero si è servito della parola tedesca, al fine di combatterci...», è riprodotto in italiano in: P. Wapnewski, L’università tedesca: elegia della virtù, «Comunità», n.172, maggio-agosto 1974, p. 169.
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colo di idee che esigono non-parole, si ritrovano anche nella cultura di chi non vuol essere di destra, dunque di chi dovrebbe ricorrere a parole così «materiali» da poter essere veicolo di idee che esigono parole. Questo deriva dal fatto che la maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra. Nei secoli scorsi la cultura custodita e insegnata è stata soprattutto la cultura di chi era più potente e più ricco, o più esattamente non è stata, se non in minima parte, la cultura di chi era più debole e più povero. È inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui, ma è anche necessario cercare di sapere da dove provengano. Una cultura non consiste certamente solo delle incrostazioni del linguaggio che in essa ricorre; ma la sopravvivenza indisturbata di queste incrostazioni è per lo meno sospetta, dal momento che una cultura e un linguaggio significano anche un’ideologia e un assetto ben definito di rapporti sociali. Per cui vi sono buone ragioni di allarmarsi – ed è perfino ovvio dirlo – quando in numerosi discorsi celebrativi proprio della Resistenza ricompare il linguaggio delle idee senza parole. Delle «idee senza parole» è spesso anche il sinistrese, compreso quello più dinamitardo – affine in ciò al parlare dei suoi avversari istituzionali. Qualcuno potrebbe avere l’impressione che, per esempio, il linguaggio della Benemerita sia, in opposizione simmetrica, il linguaggio delle parole senza idee: «In ottemperanza alla consegna ricevuta...». Errore: di là da queste parvenze morfologiche e sintattiche, non vi sono parole, ma idee. Si tratta di uno scheletro morfologico e sintattico di idee, che con le parole hanno relazioni precarie, temporanee e approssimative. Un linguaggio delle idee è innanzitutto un linguaggio esoterico, ed esoterismo non significa solo misteri eleusini o – all’opposto – riunioni della Società Teosofica: «Ognuno ha i propri misteri: i propri pensieri segreti» diceva Hölderlin. «I misteri del
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singolo individuo sono miti e riti esattamente come erano quelli dei popoli»5 . Non solo «del singolo individuo»: anche del singolo gruppo. Musei d’Arma e Musei del Risorgimento abbondano di bandiere, stendardi, drappelle, possibilmente laceri e forati dalle palle nemiche; gagliardetti d’ogni specie furono raccolti nella Mostra della Rivoluzione fascista; nel «covo» milanese delle Brigate Rosse i carabinieri hanno ritrovato, nell’ottobre 1978, una bandiera di seta rossa che porta impresse in giallo la stella a cinque punte e le iniziali B. R. Questa continuità non è di parole, ma di scelta di un linguaggio delle idee senza parole, che presume di poter dire veramente, dunque dire e al tempo stesso celare nella sfera segreta del simbolo, facendo a meno delle parole, o meglio trascurando di preoccuparsi troppo di simboli modesti come le parole che non siano parole d’ordine. Di qui la disinvoltura nell’uso di stereotipi, frasi fatte, locuzioni ricorrenti; non si tratta soltanto di povertà culturale, di vocabolario oggettivamente limitato per ragioni di ignoranza: il linguaggio usato è, innanzitutto, di idee senza parole e può accontentarsi di pochi vocaboli o sintagmi: ciò che conta è la circolazione chiusa del «segreto» miti e riti – che il parlante ha in comune con gli ascoltatori, che tutti i partecipanti all’assemblea o al collettivo hanno in comune: «L’Italia è il nostro paese, tu lo sai. Un grande paese abitato da gente come noi, semplice, sobria, laboriosa. Sono milioni e milioni di persone che si capiscono fra loro, perché parlano la stessa lingua, e dai tempi antichissimi ad oggi hanno avuto tutto in comune, specialmente le sventure»6 . 5 K. Kerényi, Prefazione alla 2ª ed. it. di La religione antica nelle sue linee fondamentali, trad. it. di D. Cantimori e A. Brelich, «Astrolabio», Roma 1951, p. 11. 6 E. Fabietti, I Fratelli Bandiera rievocati alla gioventù, Mondadori, Roma 1921, p. 12.
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Ci proponiamo qui di studiare fino a qual punto, nelle trasformazioni della società e della cultura, la parola «ideologia» coincida con il meccanismo linguistico delle idee senza parole, dunque si riferisca a meccanismi enigmatici ed elusivi come quelli della «macchina mitologica»7 . Lo faremo però in modo molto frammentario, eclettico ed empirico. Non vogliamo essere pan-linguisti o semiomani, e neppure adepti della dottrina di castità e profetismo, elaborata da Karl Kraus (o dal Kraus di Georg Trakl) intorno alla parola che «arde», come il logos, e appicca fuoco al rogo delle parole rese impure per tecnicizzazione. Nella decima Elegia di Duino Rilke, rappresenta il «giovane morto» nel Paese del Dolore: una Lamentazione lo guida e infine gli addita le costellazioni di quell’universo parallelo: il Cavaliere, il Bastone, la Corona di frutti, la Culla, la Via,...Il Libro Ardente. Dottissimi commentatori hanno tentato vanamente di spiegare il nome di quest’ultima costellazione in base al meccanismo segreto o palese dell’apparato simbolico rilkiano. Con un certo ragionevole empirismo, e molto banalmente, ci limitiamo a notare che «Das Brennende Buch» (II Libro Ardente) può anche essere solo un calembour: il biblico «roveto ardente» si dice in tedesco «das brennende Busch». Certo, il calembour – se davvero è tale – ha un suo significato segreto: ma assolutamente segreto: «ognuno ha i propri misteri, i propri pensieri segreti». Ci sia permesso di collocare tutto il nostro libro nello spazio che intercorre fra das brennende Busch e Das Brennende Buch: spazio di interazione, nella prospettiva del linguaggio delle idee senza parole, fra locuzioni oracolari e critiche da parte di chi, come noi, è solo capace di percepire somiglianze banali: in tedesco «die 7 Cfr. F. Jesi, La festa e la macchina mitologica, in: F. J., Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura della Mitteleuropea, Einaudi, Torino 1979.
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brennende Liebe» [l’amore ardente] vuole dire soltanto «geranio». F. J. dicembre 1978
I testi di cui si compone questo volume sono un’elaborazione di quelli già pubblicati in «Comunità», n. 175 (dicembre 1975) e n. 179 (aprile 1978).
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I. CULTURA DI DESTRA E RELIGIONE DELLA MORTE
Il passato, lo spirito e l’«ora del destino» Chi sfoglia le prime annate di una rivista come «Deutsche Kunst und Dekoration» (Arte e decorazione tedesca) che all’inizio del secolo godette di grande prestigio, ed ebbe un certo numero di abbonati anche in Italia (per un artista italiano, forse soprattutto per un architetto, possederne la collezione era prova di invidiabile aggiornamento culturale e prestarne i fascicoli agli amici significava esporsi a furto sicuro), può rimanere sorpreso dal carattere singolarmente ibrido della produzione che vi è esposta. In fotografie in bianco e nero che portano ancora in un angolo la sigla in negativo del fotografo o dello zincografo, e in belle tavole fuori testo a colori, sono riprodotti quadri, pannelli decorativi, statue, targhe a rilievo, vetrate, progetti di edifici e di interni, per nulla omogenei con l’impianto grafico Jugendstil della rivista; lo Jugendstil è ben rappresentato, ma soprattutto nei fregi, nelle cornici, nei disegni degli architetti, mentre il campionario di pittura e di scultura mescola gli allievi di Lenbach e quelli di Böcklin, più una lunga teoria di artisti che si volgono per così dire al passato: soffitti affrescati con fauni, maschere seleniche, prosperose ragazze vestite da ninfe, ma anche arazzi e vetrate con una profusione di araldica, di cavalieri all’antica e di austere fanciulle neogotiche8 . Lo Jugendstil determina, spesso alla 8 Deutsche Kunst und Dekoration. Illustrierte Monatshefte zur Förderung deutscher Kunst und Formensprache in neuzeitlich. Auffassung aus Deutschland,..., herausgegeben und redigirt von A. Koch, Darmstadt. Se, a titolo di campione, prendiamo
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lettera, le cornici di questi materiali, e la cosa più sconcertante è proprio la legittimazione di avanguardia che fornisce istituzionalmente, data la grafica della rivista, o per ammiccamenti (ci si chiede se non fossero involontari) di ornati e di caratteri tipografici, finalini e maiuscole iniziali, ad un precario rapporto di devozione verso l’antico, che procede direttamente dalle vignette Biedermeier delle riviste per le famiglie9 al neogotico e al neorinascimento delle silhouettes ascetiche, degli stemmi, delle scene di genere e delle armature, dei tripudi dionisiaci per il soffitto della sala da ballo o magari della grande birreria. Materiali molto eterogenei, dunque, ma che si compongono in quadro compatto di uso legittimo e lussuoso dei prodotti culturali, la cui consumazione può essere articolata come in un menu: a ciascuna portata corrisponde uno stile, una calata in una ben definita epoca del passato (tanto ben definita, da non essere probabilmente mai esistita), una profezia di futuro che risponderà veritiero alle sue evocazioni perché i valori del passa-
in esame l’annata ottobre 1899 – ottobre 1900 (corrispondente ai voll. V sgg.), vi troviamo materiali della Secessione viennese – K. Moser, G. Klimt, R. Jettmar, ecc. – (p. 254 sgg.), dipinti di genere come il Lübecker Interieur di K. Moll (p. 293), progetti edilizi di J. M. Olbrich (p. 366 sgg.), il bozzetto di un gigantesco affresco storico-mitologico di H. Christiansen per la sala delle feste del Rathaus di Amburgo (p. 385), documenti di una plastica accademica come quella delle medaglie di R. Bosselt (pp.393-394) e gioielli «egizi» di P. Behrens (p. 406). Nelle tavole a colori fuori testo compaiono tappezzerie che sembrano anticipare Kupka, ma anche vetrate «medievali» di puro gusto guglielmino. 9 Celebre fra tutte Die Gartenlaube [Il pergolato del giardino], che iniziò le pubblicazioni nel 1853 e durò fino alla seconda guerra mondiale.
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to su cui ci si basa per dar forza alla chiamata dei giorni a venire sono valori eterni, e metamorfici. Vi è però chi si lagna: nelle scienze sta prevalendo da tempo una specializzazione che è sterilità e morte perché significa progressiva incapacità di cogliere il senso della vita nella sua interezza, incapacità di percepire quella sorta di circolazione unitaria dell’esistente che appare nelle illuminazioni, dichiarate squisitamente tedesche, di Leibniz e di Goethe, nel chiaroscuro «basso-tedesco» di Rembrandt10 , e che diviene invisibile quando è sottoposta alle «lenti concave del finalismo»11 . La specializzazione razionalistica della conoscenza scientifica da un lato espone con troppo netta evidenza agli occhi dell’osservatore immagini del passato che fondano la loro verità in un chiaroscuro atemporale, d’altro lato crea barriere trasparenti ma insuperabili fra le forze vive del passato e gli uomini del presente. Il rischio è, anzi, che queste barriere trasparenti e insuperabili si collochino anche fra il presente e le forze creative del futuro: che gli stessi uomini del presente si ritrovino – per loro colpa, deformazione o debolezza entro nicchie ermeticamente chiuse o vetrine da museo, sottratti alla circolazione della vita universale, incapaci di coglierne i ritmi che la scandiscono, dunque anche incapaci di cogliere «l’ora del loro destino». Questa espressione è dell’etnologo Leo Frobenius, di cui abbiamo sintetizzato nelle righe precedenti il pensiero circa la crisi delle scienze europee (e in particolare delle scienze tedesche) per eccesso di specializzazione. l’«ora del 10 Sul libro di J. Langbehn, Rembrandt als Erzieher, 1890, vedi oltre p. 51 e n. 3. Il chiaroscuro di Rembrandt (acquisito alla tradizione «tedesca», o meglio «basso-tedesca») vi viene contrapposto agli stili e ai linguaggi figurativi dell’Ovest e del Sud, poco tedescamente caratterizzati dalla «ragione». 11 L. Frobenius, Storia della civiltà africana. Prolegomeni di una morfologia della storia, [1933], trad. it. di C. Bovero, Einaudi, Torino 1950, p. 27.
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destino» divenne locuzione corrente in Germania negli anni immediatamente precedenti la I guerra mondiale: il libro dell’americano Homer Lea The Day of the Saxon fu tradotto in tedesco nel 1913 dal conte E. Reventlow con il titolo Des Britischen Reiches Schicksalsstunde (L’ora del destino dell’impero britannico); questo titolo fu subito ripreso dal colonnello H. Frobenius (da non confondere con l’etnologo) che scrisse Des Deutschen Reiches Schicksalsstunde (L’ora del destino dell’impero tedesco), un celebre pamphlet del militarismo guglielmino: Basta passeggiare nelle vie di Berlino per vedere esposto nelle vetrine di tutte le librerie lo scritto di Frobenius, Des Deutschen Reiches Schicksalsstunde, con il telegramma di raccomandazione del gran signore (il Kronprinz). Frobenius nutre gli stessi sentimenti di Bernhardi (l’autore di Deutschland und der nächste Krieg): la sua opera dimostra che bisogna iniziare ad attaccare prima che sia troppo tardi; siccome gli altri vogliono attaccarci, dobbiamo precederli e attaccarli12
Leo Frobenius, l’etnologo, che già nel 1903 aveva condiviso e avallato con la sua autorità il principio dell’attacco preventivo13 , pubblicò poi, nel 1932, Schicksalskunde in Sinne des Kulturwerdens (Teoria del destino nel senso del divenire culturale), che riecheggia il titolo del pamphlet di H. Frobenius. Sarebbe errato identificare senz’altro l’atteggiamento di Leo Frobenius nei confronti delle «scienze tedesche» con quello che avrebbero as12 J’accuse! par un Allemand, Payot, Parigi 1915, p. 31 (di questo libro esiste un’edizione italiana coeva che non abbiamo potuto consultare: J’accuse! di un tedesco, trad. dall’ed. tedesca, con note e aggiunte a cura di R. Paresce, Treves, Milano).. 13 Nel libro Weltgeschichte des Krieges, von L. Frobenius, unter Mitwirkung von H. Frobenius und E. Kohlhauer, Thüringer Verlagsanstalt, W. – Jena 1903.
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sunto i nazisti. Il concetto di «scienze tedesche» divenne di uso corrente durante il III Reich, specialmente in contrapposizione a «scienze giudaiche» (le teorie di Einstein e di altri), e in questa direzione, estranea a Frobenius, mossero anche le accuse di uomini della destra italiana come Julius Evola: Ma qui vale attirare l’attenzione anche sull’opera distruttrice che l’Ebraismo, così come secondo le disposizioni dei Protocolli, ha effettuata nel campo propriamente culturale, protetto dai tabù della Scienza, dell’Arte, del Pensiero. È Ebreo Freud, la cui teoria s’intende a ridurre la vita interiore ad istinti e forze inconscie, o a convenzioni e repressioni; lo è Einstein, col quale è venuto in moda il «relativismo»; lo è Lombroso, che stabilì aberranti equazioni fra genio, delinquenza e pazzia; lo è Stirner, il padre dell’anarchismo integrale e lo sono Debussy (come mezzo-Ebreo), Schönberg e Mahler, principali esponenti di una musica della decadenza. Ebreo è Tzara, creatore del dadaismo, limite estremo della disgregazione della cosidetta arte d’avanguardia, e così sono Ebrei Reinach e molti esponenti della cosiddetta scuola sociologica, cui è propria una degradante interpretazione delle antiche religioni14
Un concetto di «scienze tedesche» era però già ampiamente maturato in età guglielmina, nell’ambito delle riflessioni sullo «stile tedesco» di ogni forma di Kultur, e aveva assunto un primo, esplicito aspetto politico quando scienziati come Roentgen, Haeckel, Wundt (e altri uomini di cultura, scrittori, artisti), avevano rivolto, il 3 ottobre 1914, l’ Aufruf an die Kulturwelt (Appello al mondo della cultura) per buttare sulla bilancia il 14 J. Evola, Introduzione a I «protocolli» dei «savi anziani» di Sion, versione italiana con appendice e introduzione, Ed. La Vita Italiana, Roma 19383 , pp. XXV-XXVI. – Può essere interessante notare che proprio J. Evola (sul quale vedi oltre, pp. 78-102), il quale accusa qui fra l’altro il dadaismo, era stato in gioventù un pittore dadaista.
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peso dei loro nomi e difendere la causa della Germania «aggredita». Alla fine della sua vita, nel 1933, un anno dopo Schicksalskunde, Leo Frobenius, volgendosi indietro, scrisse queste parole che dal suo punto di vista suonavano ottimistiche: In questo periodo, fra milioni di nozioni singole, abbiamo appreso che la trasformazione della vita organica è ininterrotta. Ora soltanto ci ridivenne chiaro che faune intere si avvicendarono [...], che la scomparsa è sempre collegata con lo stesso fenomeno, cioè con l’eccessiva specializzazione. [...] Troppo specializzata è anche la visione degli Europei del nostro tempo. Si atrofizza, come una volta i trilobiti morenti. E in noi albeggia un nuovo orientamento. L’immagine della metropoli con migliaia di edifici impallidisce. Un’altra comincia a mostrare i suoi lineamenti. Il pensiero troppo specializzato del finalismo muore; e muove le giovani membra l’impulso a comprendere il senso della vita.
Al disperdersi del molteplice sottentra il congiungersi nell’unità15 Questo fu scritto, come s’è detto, nel 1933, per l’esattezza nell’agosto di quell’anno; da sei mesi, quindi, Hitler era cancelliere del Reich. Tra Leo Frobenius (amico e devotissimo di Guglielmo II16 ) e i nazisti non corse mai L. Frobenius, Storia della civiltà africana, cit., p. 28. Guglielmo II finanziò le spedizioni di Frobenius in Africa, e lo studioso continuò a frequentare il Kaiser anche nel suo esilio olandese di Doorn: cfr. A. Magris, Carlo Kerényi e la ricerca fenomenologica della religione, Mursia, Milano 1975, pp. 15-29. Sull’opera di Frobenius (della quale ci siamo occupati in: F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi, Torino 1968, 19773 p. 138 sgg.; id. «Influssi» e «sopravvivenze» del pietismo tedesco, «Quaderni di lingue e letterature straniere» (Fac. di Magistero, Palermo), 1, 1976, pp. 87-96 sgg.) una bibliografia aggiornata fino al 1972 si trova in: Leo Frobenius 1873-1973. Une Antologie, avec une préface de L. S. Senghor, éditée par E. 15 16
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buon sangue: questo va precisato, prima di aggiungere un’ulteriore citazione dall’opera di Frobenius: [... ] la Germania usci dalla grande guerra completamente sconfitta in quell’orientamento occidentale, realistico, razionalistico e materialistico, a noi essenzialmente estraneo. La cultura tedesca rinunciò quindi a sostenere questa parte e da allora conobbe una commozione che risponde alla sua più intima essenza. Adesso nel tedesco il senso della vita è genuino. Gli altri ci hanno strappato di dosso il costume straniero. Ma ora noi possiamo recitar la parte che fu scritta proprio per noi17 .
Frobenius non si riconobbe nel nazismo, ed è probabile che siano da riferire tanto agli scritti dei nazisti quanto alla produzione delle avanguardie letterarie queste sue parole: Emergendo dal nebuloso regno dei fatti nella sfera della realtà, dapprima ci abbaglia la pienezza della luce. Quanto più aspro è il contrasto, tanto peggiori sono i primi effetti. Le cartiere tedesche possono a stento fornire il materiale sufficiente a riprodurre tutto questo gorgoglio, vaneggiamento e balbettio degli animi sconvolti. Riempie il mercato librario un’orribile mistura dei sedimenti spirituali di un’umanità che era schiava e si avventa avidamente a sfruttar la nuova libertà, ma non sa come riuscirvi18
Qui, d’altronde, nel rifiuto del nazismo da parte di esponenti della cultura tedesca del primo Novecento che furono poi indicati e messi alla gogna come i precursori del pensiero di Hitler e di Rosenberg, sta uno dei nodi più difficili da sciogliere. Esaminata oggi, l’opera di
Haberland, F. Steiner Verlag, Wiesbaden 1973 (edito anche in lingua inglese), p. 247. 17 L. Frobenius, Storia della civiltà africana, cit., p. 62 18 Ivi, p. 57.
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un Frobenius presenta caratteri di non conformismo così netti nei confronti di buona parte della cultura borghese del suo tempo (la valorizzazione dell’autonomia di ogni cultura «primitiva», e della sua dignità pari se non superiore a quella delle culture dei «civilizzati») che è difficile scorgervi il precedente del nazismo come ideologia squisitamente borghese. Ma vedremo che questa apertura ai «primitivi», questa ammirazione delle loro forme di cultura, se da una parte si direbbe un ottimo antidoto contro il razzismo, dall’altra si è accompagnata molto bene a ideologie esplicitamente fasciste e antisemite – è, per esempio, il caso di uno storico delle religioni come Mircea Eliade, sul quale torneremo più oltre. Così come l’ufficiale delle SS prediligeva i cani o i canarini, e per questo probabilmente vedeva qualcosa di scorretto nei cartelli che vietavano l’accesso «ai cani e agli ebrei», alcuni documenti testimoniano che non solo nel 1933 ma in pieno III Reich illustri etnologi e specialisti di storia o scienza delle religioni, legati a ideologie naziste o fasciste, conciliavano il razzismo antisemita con l’apprezzamento e la ammirazione per popoli «primitivi». L’apprezzamento dei «primitivi» palese in un Frobenius ha potuto portare a studi di indubbio pregio, profondità, efficacia innovatrice nell’ambito delle scienze umane: ma ha un fondo di razzismo pur esso, come è razzismo ogni dottrina secondo la quale gli uomini di un gruppo nascono portatori di una data cultura e soggetti a un dato destino. Dai discorsi di Humboldt sul genio delle lingue, a quelli di Frobenius sulla «parte che fu scritta proprio per noi», esiste una continuità di presupposti conciliabili con quelli del nazismo, anche se conciliabilità di presupposti non significa necessariamente complicità, o se, addirittura, dalla formulazione di quei presupposti si possono far proseguire linee che portano all’opposto del nazismo. Le radici del nazismo stanno forse nelle contraddizioni esistenti all’interno della società borghese, non solo in
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Germania, durante i primi decenni del Novecento. Ma qui noi ci occuperemo soltanto delle radici e delle vicende del linguaggio, dell’iconografia e della cultura mitologica della destra mitteleuropea, in rapporto con la sua resa dei conti nel dodicennio nero. Può anche darsi che l’apparato mitologico-religioso del nazismo sia da addebitare soprattutto, o addirittura esclusivamente, a un’élite capace di determinare le sorti della popolazione tedesca in base a disegni dalla parvenza profana, di fatto congegnati fra loro in un preciso meccanismo rituale. È molto probabile che questa visione corrisponda alle intenzioni di Hitler e di chi gli stava più vicino, ma di là da tali intenzioni resta il fatto che il presunto esoterismo nazista si presenta storicamente come una radicalizzazione di alcuni filoni della cultura di destra, i cui esponenti furono magari anche ostili al nazismo o per lo meno freddi nei confronti di una creatura così poco intellettuale come «l’imbianchino» divenuto cancelliere del Reich. Radicalizzazione in questo caso significa – secondo una espressione ampiamente entrata nell’uso – un salto di qualità. Se gli intellettuali che continuarono a operare nel Reich durante il dodicennio nero possono essere considerati complici di quanto accadeva, è più difficile parlare di complicità o di responsabilità a proposito di chi andava in quella direzione, ma è morto prima o si è ritratto al momento giusto. Tanto più che è molto difficile dire «andavano in quella direzione» quando quella direzione era non soltanto la destra, il conservatorismo, la reazione, il rifiuto del socialismo, ecc., ma anche Buchenwald e Mauthausen e Auschwitz. O, nel nostro secolo, destra significa comunque i Lager, oltre tutto il resto? Si possono organizzare forme di eliminazione di massa, anche senza alimentarsi alle fonti di dottrine esoteriche e senza comporre rituali di consapevole religione della morte. Hitler e la sua corte potevano vaneggiare e proporsi paradigmi magici di accelerazione del nuo-
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vo Reich; ma quando la società e la cultura della Germania e dell’Europa borghese hanno cominciato a sentirsi in pericolo, anni prima dell’avvento del fascismo, del nazismo, dell’internazionale nera, le proliferazioni intellettuali della situazione di crisi hanno raggiunto una finezza e una qualità stilistica che oggi ci appaiono insuperabili: chi ha scritto una prosa tedesca moderna più sopraffina – se si può dire così – di quella di Th. Mann? Sopraffina nell’autoironia e nel ritmo persuasivo del narrare, nello sfruttamento enigmatico (di purezza per eccesso di scorie) di calcolate lungaggini, rarefazioni, iperdensità, bamboleggiamenti e profezie. E cosa può avere in comune l’eloquio di Th. Mann con quello di Hitler, anche se si prescinde dal fatto che Th. Mann scelse al momento giusto di non seguire la strada della collaborazione fra conservatori e nazisti? Resta, in comune, l’area di manipolazione di ciò che in tedesco si è chiamato «der Geist», in italiano «lo spirito». Manipolazione può anche essere operazione in tutto e per tutto positiva, e non si può dubitare che la manipolazione eseguita da Th. Mann sia stata spessissimo (anche prima della sua conversione alla democrazia di Weimar) immissione di acidi anticonformistici in strutture di granitica sudditanza, da destra e da sinistra, al «questo vale». È molto raro che Th. Mann sacrifichi ai buoni sentimenti, e quando lo fa agisce in modo da aprire deliberatamente una fossa di Limbo, o almeno di Purgatorio, sotto i piedi di chi gli dia retta. Le stesse Considerazioni di un impolitico (Betrachtungen eines Unpolitischen, 1918) sono un pamphlet del quale non si sottolineeranno mai abbastanza le qualità di spettacoloso romanzo, pari forse a quelle di Aut-Aut(Enten-Eller) di Kierkegaard, e non meno cariche di trabocchetti, di fosse mascherate da rami e predisposte sotto i passi del seguace reazionario. La denuncia della crisi per specializzazione della ricerca scientifica, e specialmente di quella relati-
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va all’antropologia, raggiunge in questo libro (bersaglio: il letterato della Zivilisation) un livello e una incisività che si cercherebbero invano in Langbehn ( «La scienza muore un po’ alla volta stemperandosi in specialismo»19 ) e poi in Frobenius. Il romanzo «come forma di vita spirituale»20 raggiunge in questo non – romanzo21 un limite di avanguardia smarrito, sia pure per il conseguimento di altri valori, nella produzione successiva di Th. Mann: qui i personaggi, le grandi «storie», il gusto del narrare, la frammentazione e la ripresa di temi, immagini, crisi di stile, in un quadro di far grande parodiato dalla misura stessa, dilatata, del saggio, conservano una durezza formale che cercheremmo invano nello stile del Mann successivo, in cui la parodia e il pathos convivono per impercettibili compromessi ironici. Questa è la grande destra, e dopo: la grande siccità22 . Ciò che segue è la dichiarazione articolata in ritratti 19 J. Langbehn, Rembrandt als Erzieher, 1890: citiamo dall’ed. di Stoccarda, 1936, p. 45. 20 Parafrasando così il titolo del saggio di Th. Mann, «Lübeck als geistige Lebensform», in Die Forderung des Tages, Fischer, Berlino 1930, p. 26 sgg. 21 Le Considerazionisono il risultato di una deliberata interruzione dell’attività di romanziere durante gli anni della guerra: sulla genesi e sui caratteri ideologici dell’opera, vedi la «Presentazione» di M. Marianelli alla sua traduzione delle Considerazioni, De Donato, Bari 1967; nelle note si trovano gli indispensabili riferimenti bibliografici. Marianelli però non sottolinea le qualità stilistiche delle Considerazioni, e anzi afferma che «questa è una prosa dove i problemi come quelli ora indicati, di rado affiorano puliti dalla cenere della guerra polemica; e certe pagine sono solo cenere» (p. XXXVII); la prosa delle Considerazioni sarebbe prosa «di servizio» («servizio di guerra») rispetto alla prosa «padronale» di Th. Mann. 22 L’espressione, peculiare della tradizione mistica medievale tedesca, è quella usata da R. M. Rilke dopo il compimento delle Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge
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esemplari della «Nobiltà dello spirito»23 . Sarà poi, per Th. Mann, emigrazione esterna, mentre altri si sceglieranno nell’emigrazione interna, silenzio all’interno del nuovo Reich o delle procedure per accelerarne l’avvento, il modello di comportamento adeguato alla constatazione del fatto che «Non esistevano più in nessun luogo mani di fanciulli...»24 . Linguaggio delle cose; simbologia funeraria La cultura tedesca tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento deve a Bachofen la nozione di simbolo riposante in se stesso, e non a caso il primo centro della BachofenRenaissance fu il cenacolo georghiano, dal quale sarebbe partita anche la rivalutazione di Jean Paul. Proprio Jean Paul aveva parlato di una «mimica spirituale dell’universo»25 quando, nell’Avviamento allo studio dell’estetica (Vorschule der Aesthetik), la sua teoria della metafora era passata dalla concezione di una natura «animata» (beseelt) perché antropomorfizzata dall’uomo26 a quella di una vera e propria lingua della natura, in sé e per sé autonoma dall’intervento umano. Per Bachofen, 23 La raccolta di saggi di Th. Mann ( Adel des Geistes) che contiene Sedici saggi sul problema dell’umanità(Sechzehn Versuche zum Problem der Humanitä), per la maggior parte dedicati a singoli autori: Lessing, Chamisso, Kleist, Goethe, Wagner, ecc. 24 E. Wiechert, Missa sine nomine (1950), trad. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1954, p. 9. 25 Jean Paul, Sämtliche Werke(Historisch-kritische Ausgabe, 1927 sgg.), sezione I, vol. xt, p. 86. 26 Cfr. B. A. Sörensen, Symbol und Symbolismus in den ästbetischen Theorien des 18. Jahrbunderts und der deutschen Romantik, Munksgaard, Copenaghen 1963, p. 155 sgg.
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in particolare nel Saggio sul simbolismo funerario degli antichi (Versuch über die Gräbersymbolik der Alten)27 , la lingua dei simboli riposanti in se stessi, simboli che non rinviano altro che a se stessi, sui sarcofagi ellenistici e romani, si colloca nel punto di coincidenza tra la «mimica spirituale dell’universo» e le facoltà di eloquio degli uomini, essi pure elementi dell’universo ma tali da attribuirsi – per autocoscienza o per destino: Bachofen resta generalmente elusivo – una loro peculiare parte di quella «mimica» in corrispondenza con la loro capacità o sorte di metamorfosi storiche. La parte umana della «mimica dell’universo» è del resto destinata a far coincidere le sue contingenze con la verità della vera lingua della natura, solo là dove l’uomo e la sua lingua si reintegrano nel tutto, nell’universo, entro l’esperienza della morte: quando subiscono, dunque, come tutta la realtà fisica dell’organismo umano, la «dissoluzione» (Auflösung), concetto e parola peculiari di una tradizione culturale e anche tipicamente letteraria che, riferendo l’operazione poetica all’alchimia, va da Justinus Kerner a Rilke28 . Gli oggetti, le cose (Dinge), negli sviluppi della teoria della metafora di jean Paul passarono dalla condizione di entità inerti, in attesa di essere vivificate dalle energie antropomorfizzanti del linguaggio umano ( «Agli alberi, ai campanili, ai bricchi del latte noi conferiamo una remota immagine umana, e con essa lo spirito»29 ), alla condizione di entità che di per se stesse parlano, sono vive, hanno 27 Vol. IV dei Gesammelte Werke, in Verbindung mit H. Fuchs und K. Meuli herausgegeben von E. Howald, Benno Schwabe & Co., Basilea 1954. Per la bibliografia relativa vedi oltre, pp. 94-96, note. 28 Cfr. F. Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su R. M. Rilke, D’Anna, Messina-Firenze 1976, in particolare il cap. III. 29 Jean Paul, Sämtliche Verke, sezione I, vol. v. p. 193.
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«spirito» (Geist), e anzi attendono più o meno impassibili, spesso con fervore di convinti strumenti di rivelazione, altre volte con una certa malignità, che l’uomo acceda al loro linguaggio e si reintegri nel tutto di cui essi fanno parte senza rischi di separazione. Già in Jean Paul, almeno nelle opere della maturità, la reintegrazione dell’uomo passa per la «dissoluzione» e la morte. Nel Titano (Titan) la «Bildung» di Albano ha a riscontro quella di Schoppe, che si compie nella morte30 . I simboli riposanti in se stessi di Bachofen sono simboli portati il più vicino possibile ai miti, o almeno ai materiali mitologici, tanto da identificarsi con essi. Ma già in Jean Paul la coincidenza fra simbolo e mito è proposta anche nell’ambito della morte: la maturazione dell’autocoscienza di Albano per essere interamente vivo è accompagnata dalla maturazione dell’autocoscienza di Schoppe che, ironicamente, è orientata verso un essere interamente morto. Schoppe è il pedagogo, mentre Albano è il pupillo: la morte del pedagogo a riscontro simmetrico della pienezza di vita del pupillo (morte e pienezza di vita collocate al termine di due itinerari di «Bildung», perché anche il pedagogo subisce un’educazione, sollecitata dalla sorte) fa pensare a una tragica maieutica kierkegaardiana, ma so30 Non esiste traduzione italiana del romanzo di Jean Paul. Accenniamo qui brevemente agli aspetti della trama che ora ci interessano. Albano è un giovane principe di cui si compie, nel romanzo, una sorta di«educazione» al termine della quale egli scoprirà la sua vera identità. Schoppe è l’amico e in certa misura il pedagogo di Albano: sarà lui a scoprire infine l’identità di Albano, ma proprio in quel punto morirà (di terrore) vedendosi venire incontro una persona che gli parrà il proprio sosia. Il complicatissimo meccanismo della scoperta dell’identità di Albano (nel 139° «Ciclo» del romanzo) prevede, fra l’altro che Schoppe trovi in una nicchia un automa: l’automa gli consegna alcuni oggetti che porteranno alla rivelazione e poi si autodistrugge con «una sorta di suicidio meccanico»
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prattutto all’anima divisa del mitologo moderno che non voglia assumere definitivamente la maschera, o meglio lo scafandro salvifico, del saggio. La posizione di un Kerényi, il quale dichiara che «ancora molto [...]separa la bocca dall’orlo del calice. L’autentica mitologia ci è diventata talmente estranea che noi, prima di gustarla, vogliamo fermarci e riflettere»31 , è anche quella di chi apparentemente vela/disvela la distanza dei moderni dalla mitologia, identificandosi con «un greco [...] che ci racconti la mitologia dei suoi antenati»32 Qui Kerényi quasi si riconosce in E. Rohde, cioè nel suo solo vero predecessore nell’indagine del romanzo ellenistico, il quale scriveva: «Mi tuffavo completamente nella profondità dello stupendo mare del romanzo e gioivo di quella folle esistenza laggiù»33 . Don Chisciotte divorava romanzi, e questi «finirono col divorarlo»34 : il mitologo novecentesco della tradizione tedesca che trova in Bachofen il suo punto di riferimento, e che nello stesso tempo non vuole rinunciare a collocarsi fra i discendenti «degli umanisti tedeschi vissuti al tempo delle «Lettere degli oscurantisti», di un Reuchlin, di un Crotus von Dornheim, di un Mutianus e di un Eoban Hesse»35 , ha di fronte il destino di Schoppe. Umanista quale si dichiara, ha discepoli 31 K. Kerényi, Introduzione a C. G. Jung e K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad. it. di A. Brelich, Einaudi, Torino 1948 [Ediz. scientifiche Boringhieri, Torino 19723 ], pp. 13-14. 32 K. Kerényi, Prefazione a Gli dei e gli eroi della Grecia, I, Gli dei, trad. it. di V. Tedeschi, Garzanti, Milano 19782 , p. 13. 33 Cit. da K. Kerényi, Introduzione a P. Radin, C. G. Jung, K. Kerényi, Il briccone divino, trad. it. di N. Dalmasso e S. Daniele, Bompiani, Milano 1965, p. 13. 34 Ibidem. 35 Th. Mann, Doctor Faustus, trad. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1956, pp. 9-10.
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o aspira ad averne (e ne soffre la mancanza36 ); per compiere l’atto rituale che svela loro la loro identità di uomini interamente vivi in quanto in rapporto con la «mitologia autentica», deve scegliere per se stesso la religio mortis37 . Alle parole del giovane Lukács sul saggio come pretesto, conviene aggiungere qualche considerazione sul saggio come luogo deputato della moderna scienza del mito o della mitologia cui ci riferiamo: sui rischi di vacuità, e sull’opportunità di affrontarli, che stettero di fronte ai mitologi protagonisti di quella saggistica. La lingua italiana permette il calembour: il saggio è l’autore di un saggio, maschere mitologiche che egli adotta e sorti cui è esposto, materiali mitologici che egli maneggia e sorti che dichiara di presagire, divengono al tempo stesso miti e sorti che avvolgono la sua opera. Corre il rischio, a forza di assumere quella maschera e di maneggiare quei materiali, di identificarsi con il suo conoscere per composizione tanto da piombare, prima del suo personale 5 maggio, in un «Comme quoi Napoléon n’a jamais esisté»38 . Crede però anche che gli si offra l’opportunità di logorare – con un procedimento affine all’ironia romantica o al marranismo ebraico – meccanismi e materiali da museo che egli si ripromette di ridur36 Cfr. la Nota introduttiva di V. Kerényi a: K. Kerényi, Th. Mann, Romanzo e mitologia. Un carteggio, trad. it. di E. Pocar, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 15: «Oggi gli allievi sono dispersi: in campi di prigionia e di lavoro, seppure sono ancora vivi. [...] Con la pubblicazione di questo carteggio il curatore cerca conforto nella sua solitudine». 37 Cfr. F. Jesy, K. Kerényi: i «pensieri segreti» del mitologo, «Comunità», n. 172, maggio-agosto 1974, p. 271 sgg. (in particolare pp. 294-298). 38 È il titolo del saggio di Baptiste Pérès (1817), in cui si dimostra parodisticamente che Napoleone fu soltanto un’immagine mitologica. Cfr. A. France, Le livre de mon ami, Calmann-Lévy, Parigi 1934, p. 202 sgg.
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re per loro consunzione, sotto lo stimolo della propria «Ergriffenheit»39 , a una trasparenza tale da controbilanciare lo spessore opaco, conferito da lui al proprio volto con l’assunzione delle sembianze del dotto. In Jean Paul, Albano e Schoppe; ma nel Titano la morte di Schoppe è preceduta dal suicidio dell’automa che reca la rivelazione e, con essa, il compimento essenziale della «Bildung» del pedagogo e di quella del pupillo. L’automa che nel Titano si autodistrugge dopo aver eseguito il suo compito è un’inquietante occasione di «mimica spirituale dell’universo», per un oggetto condizionato dalla forza antropomorfizzante dell’uomo anche nel quadro generale di una natura che in sé e per sé dispone di automiuomini. Fabbricare gli automi è acquistare coscienza di sé? Lo è, sempre che non ci si riconosca privilegiati al di sopra del volgare, anche soltanto caratterizzati da una disponibilità ad essere afferrati più di altri da forze extra-umane che ci fanno essere noi, se noi siamo capaci di risvegliarci nell’istante in cui qualcosa ci afferra: di cogliere la nostra «ora del destino». La fabbricazione degli automi, dal tempo dei miraggi illuministici dell’uomo-macchina (ma anche dei miraggi anti-illuministici del saggio sulle marionette di H. von 39 È la parola peculiare di L. Frobenius che significa l’«essere afferrati» da una forza, da una commozione, ecc. Nel pensiero di Frobenius, ogni produzione culturale deriva da questo «essere afferrati»; per una nozione di «Ergriffenheit» che non coincide con quella di Frobenius, e tanto meno con le manipolazioni eseguite dai discepoli o fiancheggiatori di Frobenius legati al nazismo, vedi: K. Kerényi, Ergriffenheit und Wissenschaft, in Apollon. Studien über antike Religion und Humanität, Pantheon Akademische Verlagsanstalt, Amsterdam 19422 , p. 64 sgg. (cfr. F. Jesi, K. Kerényi: l’esperienza dell’isola, «Nuova Corrente», n. 65, 1974, pp. 534-546).
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Kleist40 ), è entrata a far parte di una tradizione culturale tedesca tutt’altro che morta: portano la data di ieri gli articoli di giornali italiani41 in cui si legge, per esempio, che i giudici del tribunale amministrativo di Ansbach hanno dato ragione al governo bavarese, il quale ha cacciato dal suo posto un insegnante, Hans Haberlein, presidente di un’organizzazione pacifista. Costui dichiara di «ispirarsi soltanto a principii umanitari e di respingere qualsiasi differenza di razza, di religione e di opinione politica» Il tribunale replica: «manca una decisa posizione anticomunista dell’interessato», e ne conferma il licenziamento perché venendo a trovarsi in contrasto con i comunisti, potrebbe non riconoscere i loro obiettivi e pertanto trovarsi impreparato di fronte ad essi, nella situazione di uno che assiste impotente.
Intermezzo, di triviale simbologia profetica I simboli riposanti in se stessi sono, come s’è detto, suscettibili di infinite letture esegetiche. Il fatto di possedere un senso conchiuso nella propria pura presenza sembra quasi conferire loro una amabile disponibilità a lasciarsi usare: tanto, nulla li tocca nel loro vero. Pochi simboli sono tanto esclusivamente riposanti in se stessi come l’icona di Jack lo Squartatore: icona non solo britannico-vittoriana, ma anche genuinamente tedesca da quando Franck Wedekind la evocò nel finale de 40 H. von Kleist, Il teatro delle marionette, [1811], trad. it. di E. Pocar, Il Saggiatore, Milano 1960. Cfr. M. Kommerell, Die Sprache und das Unaussprechliche, Eine Betrachtung über H. von Kleist, in Geist und Buchstabe der Dichtung, Francoforte s. M. 1940. 41 Cfr. «La Stampa», 9 febbraio 1978, p. 18 (articolo di T. Sansa).
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La scatola di Pandora (Die Büchse von Pandora), rispettando il cerimoniale appropriato a un simbolo a circolo chiuso e interpretando sulla scena egli stesso, l’autore, il personaggio di Jack42 . Ma proprio il simbolo riposante in se stesso che è l’icona di Jack, poiché nulla lo tocca nel suo vero, è disponibilissimo a lasciarsi usare e presumibilmente sorride con il «sorriso degli dei»43 quando sente un gran mago come Aleister Crowley che lo usa dicendo: Nessuno riuscirà mai a indovinare, neanche se ci pensasse per un anno, che quel degnissimo personaggio vittoriano chiamato Jack lo Squartatore fosse nientemeno che Helena Petrovna Blavatskij44
Con ambizioni esoteriche infinitamente più piccole di quelle di Crowley, cercheremo in questo paragrafo di suscitare il sorriso di altre icone, presenti nella produzione di un collezionista di simboli riposanti in se stessi come E. Th. A. Hoffmann. La novella di Hoffmann intitolata Il vampiro (Der Vampir) racconta la storia del conte Ippolito che, stabilitosi nel suo feudo dopo un periodo giovanile di viaggi, intraprende con zelo illuministico la razionalizzazione di quelle terre e ne fa una sorta di tenuta modello (non troppo illuministicamente laica, dato che nel progetto rientrano una chiesa e un cimitero). Il conte è assorbito a tal punto dalla sua appassionata attività di agronomo, architetto e così via, da trascurare quello che sembra essere un suo dovere fondamentale verso se stes42 A. Kutscher, F. Wedekind. Sein Leben und Seine Werke, vol. II, Monaco 1931. 43 K. Kerényi, La religione antica nelle sue linee fondamentali, trad. it. di D. Cantimori e A. Brelich, Astrolabio, Roma 19512, cap. V, in particolare pp. 149-156. 44 J. Symonds, La grande bestia. Vita e magia di A. Crowley, trad. it. di R. Rambelli, Edizioni Mediterranee, Roma 1972, p. 40, nota 2.
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so e verso la società: non si preoccupa di cercarsi moglie. Ma un giorno arrivano nel castello due donne, una baronessa e sua figlia, che egli deve accogliere per dovere di ospitalità; mentre la madre, vecchia e brutta, gli ispira un’istintiva ripugnanza, aggravata dal fatto che essa è soggetta a periodiche crisi catalettiche e in quelle occasioni sembra un cadavere, la figlia giovane e bella provoca in lui un amore a prima vista, a quanto pare ricambiato. Si combinano le nozze, tutto è pronto, ma nell’imminenza del giorno stabilito per la cerimonia la vecchia baronessa viene ritrovata morta nel cimitero che frequentava con bizzarra assiduità. Ciò nonostante, a breve scadenza il matrimonio è celebrato. I due vivrebbero felici e contenti se la giovane moglie non fosse afflitta da una strana e apparentemente ingiustificata tristezza o angoscia. Probabilmente nasconde qualcosa; e di fatto qualcosa infine rivela al marito; è assillata dall’incubo dell’infanzia e dell’adolescenza vissute con la madre che ebbe forse un’oscura parte nella morte del padre, e che, baronessa ma priva di danaro, si fece poi mantenere da un avventuriero, sedicente aristocratico, in realtà figlio di un boia, e per di più marchiato a fuoco come delinquente. La madre non solo accettò questo rapporto degradante con l’infimo dei paria (figlio di un boia), ma quando la figlia divenne un’adolescente si adoperò – seppure invano – per passarla all’amante, in modo da fornirgli un ulteriore motivo di non essere avaro dei suoi quattrini. Questa rivelazione trova il conte Ippolito quanto mai comprensivo circa i patimenti subiti dalla moglie; nel comportamento della donna resta però qualcosa di inesplicato: a tavola essa mostra sempre vivissima ripugnanza per i cibi carnei e si rifiuta in modo assoluto di mangiarli. La sua tristezza assume a poco a poco i caratteri di una malattia grave; il medico non riesce a ottenere miglioramenti e infine se ne va con una scusa, quasi si trovasse di fronte una forza maligna contro la quale la sua
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scienza è impotente; il conte comincia a nutrire un sospetto. Prima di addormentarsi è solito bere una tisana che la moglie gli prepara con le sue mani; una sera, dubitando che la tisana contenga un sonnifero, fa solo finta di berla, simula il sonno, vede sua moglie che si alza dal letto, la segue, la vede avviarsi verso il cimitero. Là, nel cimitero, assiste non veduto a una scena di orrore: sua moglie, insieme con un gruppo di orribili donne, partecipa allo smembramento e alla degustazione di un cadavere. Il mattino successivo il conte, che è riuscito a ritornare a casa, a contenere il suo disgusto e a non rivelare subito alla moglie d’averla vista nel cimitero, perde infine il controllo quando la donna per l’ennesima volta respinge un piatto di carne. L’accusa allora delle sue nefandezze; la donna gli si rivolta contro, cerca di morderlo al petto, svelando senza più cautele la propria natura di stregavampiro-cannibale, e cade morta. Conclude Hoffmann senz’altro commento: «Il conte impazzì»». Ora, il nostro gioco di società, per trivializzazione di simbologia profetica. Così come le misure della piramide di Cheope sono state interpretate da esoteristi e fanta-archeologi che ne hanno ricavato le date profetiche dei principali avvenimenti della storia umana, proviamo a scrivere la seguente INTERPRETAZIONE STORICO-SOCIOLOGICA DELLA NOVELLA Der Vampir DI E. TH. A. HOFFMANN COME TESTO ALLEGORICO-PROFETICO: «Il conte Ippolito è il capitalismo dell’aristocrazia terriera e imprenditoriale della Germania guglielmina: vuole riappropriarsi del feudo razionalizzandone le modalità di usufrutto in base a moderni criteri ma restando almeno formalmente ligio a convenzioni religiose (la chiesa) e a un pio rapporto con la tradizione degli avi (il cimitero). Questo impegno lo disumanizza (egli trascura gli affari di cuore, non si cerca una moglie. La vecchia baronessa è la maschera di decoroso rispetto – verso quell’aristocrazia terriera
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e imprenditoriale – assunta da leaders avventurieri e criminali delle classi più avvilite come la piccola borghesia impoverita, il proletariato e il sottoproletariato reazionari (il figlio del boia): se il conte Ippolito è Hindenburg, von Papen o Krupp, la vecchia baronessa è la giacca del tight e l’inchino di Hitler, che si piega in due dinanzi al Feldmaresciallo presidente della repubblica. La figlia della baronessa, giovane, bella, pura, seducente, è l’ordine nuovo ma apparentemente garante dei valori tradizionali, partorito dagli infimi mascherati da persone dabbene e tale da suscitare un coup de foudre nelle classi sociali più elevate. Sembra che il coup de foudre sia reciproco e che anche l’ordine nuovo ami con tutto il cuore l’aristocrazia (del sangue, della spada, dell’industria); ma qualcosa non va. L’abito da cerimonia di Hitler viene un po’ impillaccherato e stropicciato da comportamenti disdicevoli dei suoi seguaci: la baronessa sembra ogni tanto un orripilante cadavere e frequenta un po’ troppo il cimitero. Anche questo ostacolo viene rimosso, la vecchia baronessa muore (gli aspetti più urtanti dell’ordine nuovo sono apparentemente eliminati con il massacro di Roumlhm e delle sue SA), ma qualcosa ancora non va. Nel comportamento dei nazisti c’è una componente bizzarra e insidiosa che l’élite aristocratica e capitalistica non riesce bene a capire, e sottovaluta. Il matrimonio s’è fatto, il conte Ippolito è convinto di aver fatto sua la giovane, von Papen dichiara agli intimi che Hitler, una volta «sposato», non darà motivo di timori. Ma il disagio persiste e il medico, che è Thomas Mann, preferisce andarsene perché si accorge che sono in gioco forze maligne; la repubblica di Weimar non può essere salvata. Mangiare carne animale è esercitare in modo tradizionale lo sfruttamento e il potere; l’ordine nuovo si rifiuta di farlo, vuole altro: non vuole mangiare carne animale (lo sfruttamento «democratico»), ma vuole dilaniare carne umana (gli orrori del nazismo). Tardi, a matri-
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monio avvenuto, viene scoperto e si stabilisce una situazione di conflitto (la seconda guerra mondiale); l’ordine nuovo non esita ad aggredire l’élite aristocratica e capitalistica, fuori dalla Germania e perfino in Germania. Non ci riesce bene, cade morto (fine della seconda guerra mondiale), ma il suo avversario (l’élite aristocratica e capitalistica) impazzisce» Mitologia fascista in Spagna e in Romania Questi giochi di società presentano un rischio. Purtroppo c’è sempre caso che qualcuno, rimasto fino alla fine zitto zitto in un angolo, poi si alzi e citi Joseph de Maistre: «Bisogna tenerci pronti ad un avvenimento immenso nell’ordine divino, verso il quale marciamo con una velocità accelerata che deve colpire tutti gli osservatori. Paurosi oracoli annunciano già che i tempi sono arrivati»45 I rituali delle varie forme novecentesche di religione della morte cominciano generalmente con questo tipo di enunciazioni caute, ma solennemente profetiche. In Italia, però, è cosa rara (o forse è stata soprattutto cosa rara al tempo del fascismo del ventennio: quel che è proliferato dopo, quanto a religione della morte, nell’ambito del neofascismo e della cultura di destra, suscita maggiori timori). Al tempo di Mussolini il fascismo si è mostrato generalmente tiepido nei confronti della mistica della morte, che pure sembra sottesa alla sua simbologia o al suo Kitsch. Ha senso parlare di vera e propria mistica della morte o di religione della morte quando ci si trova di fronte a una mitologia funeraria egemo45 Con queste parole, tratte dall’11° Entretien delle Soirées de Saint-Petersbourg, R. Guenon chiudeva nel 1927 il suo libro Le Roi du Monde (trad. it. di A. Reghini, Il Re del Mondo, Atanòr, Roma 19522 ).
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nica, totalizzante, posta come unico punto di riferimento vero delle norme che obbligano ad agire o a non agire, delle modalità di approccio a se stessi, agli altri uomini, al mondo, della visione della storia e della natura. Ma il teschio con il pugnale fra i denti che figurava sul petto della camicia nera degli Arditi divenuti squadristi non va dissociato dal motto «Me ne frego», tutt’altro che nihilistico: L’orgoglioso motto squadrista «Me ne frego», scritto sulle bende di una ferita, è un atto di filosofia non soltanto stoica, è il sunto di una dottrina non soltanto politica, è l’educazione al combattimento, l’accettazione dei rischi che esso comporta; è un nuovo stile di vita italiano. Così il fascista accetta, ama la vita...46
Qui non si tratta di religione della morte; è piuttosto un armamentario simbolico tale da mettere in circolazione o da formalizzare valori che, per dimostrare di possedere il desiderato peso specifico, devono anche gettare ombre cimiteriali. Per la stessa ragione il cuore, il nucleo pesante, della Mostra della rivoluzione fascista (1932-1935) era il «Sacrario dei Martiri» che recuperava al regime l’aura sepolcrale della retorica del Milite ignoto, ma che nello stesso tempo per una carenza di stile e, se così si può dire, di temperatura mitologica risultava molto più un baraccone allestito con destrezza di coreografi, che il santuario o la cripta di una religione della morte: Era una grandissima sala, tutta nera come un catafalco con una nera volta stellata a regolari intervalli, e ogni stella era un 46 Rapsodia eroica. «Dall’intervento all’impero», ideatore ed editore dell’opera G. Stefanelli, sintesi storica di Antonio Monti, commenti artistico-documentari di D. Cella, L’Italia guerriera – Editoriale patriottica, Milano 1937 [pp. non numerate], «Gli arditi e la rivoluzione».
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martire, un martire fascista. Non avevano nome [...]. Ora incielati, divenuti sacra anonima legione, eran lì in quella cupola di bitume, mentre al centro della sala un fonografo bardato di gramaglie, come i cavalli dei carri funebri nei trasporti di lusso, ripeteva all’infinito «Giovinezza, giovinezza» in sordina47
di una mistica o religione della morte che rimane sostanzialmente refrattaria alle semplificazioni da caserma e che semmai è essa stessa a imporre il suo marchio sugli uomini in divisa, bisogna fare attenzione al piccolo gruppo di legionari romeni, mandati in Spagna da Codreanu a rappresentare la Guardia di Ferro. Anche costoro – o più esattamente: soprattutto costoro – andavano a combattere con il preciso impegno di morire; del loro capo, Ion Mota, cognato e luogotenente di Codreanu, P. Guiraud ha scritto: «È in questa occasione che si manifesta in Mota l’estrema grandezza alla quale può arrivare il sacrificio legionario accettato volontariamente. Persuaso che la morte è creatrice e feconda, Mota parte per la Spagna con lo scopo ben fermo di morirvi»48 . Apparentemente i legionari romeni e quelli spagnoli dovevano incontrarsi molto bene, all’insegna della loro comune tanatofilia. Le canzoni degli uni e degli altri sembrano quasi intercambiabili. Il canto del Tercio, intitolato «Il fidanzato della morte», diceva: Sono un fidanzato della morte che va a unirsi con forte laccio 47 B. Allason, Memorie di una antifascista, 1919-1940, Edizioni Avanti!, Milano 1961, p. 148. 48 P. Guiraud, Codreanu e la Guardia di Ferro, in AA. VV., I fascismi sconosciuti, a cura di M. Bardèche, Milano 1969, p. 48. Per la maggior parte dei nostri riferimenti alla Guardia di Ferro, vedi: R. Scagno, Religiosità cosmica e cultura tradizionale nel pensiero di Mircea Elide, tesi dattiloscritta, Università di Torino, 1973.
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a questa leale compagna49 .
E una canzone della Guardia di Ferro: La morte, soltanto la morte, legionari, è un lieto sposalizio per noi. I legionari muoiono cantando i legionari cantano morendo50
Sia i legionari spagnoli sia quelli romeni sono uniti dalla frenesia canora: [ SPAGNA ] Il legionario canta sempre, in caserma, in libera uscita, in trincea. Dovete cantar sempre forte, s’insegna loro, molto forte, vincendo l’inclemenza del tempo con l’entusiasmo delle vostre canzoni. E se qualcuno che non vi conosce vi chiede che cosa stia succedendo, rispondetegli: non senti? È la Legione che canta51 [ROMANIA] Attraverso il canto l’uomo prende parte al rito cosmico, condivide i segreti del mondo, partecipa dell’ignoto [...] Attraverso il canto l’uomo raggiunge il nucleo della verità, l’essenza delle cose [...] Lo stile legionario è direttamente legato al canto52 .
Mentre il canto del Tercio non sembra andare oltre le smanie degli ufficiali canterini che si trovano probabilmente in qualsiasi esercito e che esortano energicamente le reclute ad infiammarsi il cuore alle componenti esalR. Segàla, La legge del Tercio, cit., p. 1091. Z. Barbu, Romania, in AA. VV., Il fascismo in Europa, a cura di S. J. Woolf, Bari 1968, pp. 182-183. 51 R. Segàla, La legge del Tercio, cit., p. 1095. 52 Parole di un compagno di Codreanu, citate in: E. Weber, Romania, in AA. VV., The European Right. A Historical Profile, a cura di H. Rogger e E. Weber, Berkeley e Los Angeles 1965, p. 522. 49 50
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tanti della vita militare, il canto della Guardia di Ferro almeno nelle parole del molto intellettuale legionario che abbiamo citato, ma anche nelle direttive ufficiali del Movimento53 – assume un accentuato carattere esoterico da confraternita iniziatica. Il canto della Guardia di Ferro si colloca difficilmente in una dimensione da caserma o da festa degli Alpini (per la quale è raro sentir parlare di «rito cosmico», «segreti del mondo», «nucleo della verità»), e anche il motivo della morte-sposalizio acquista in esso aspetti diversi da quelli del «Fidanzato della morte». Il Tercio è apologia di lotta contro qualsiasi forma di cultura, comprese quelle più conservatrici, che non si identifichi con il puro esercizio della violenza militare, integrato da un orgoglio di corpo («religión de hombres honorados») e dal rifiuto di alcune virtù «borghesi» come il risparmio, la ponderatezza, la sobrietà, ecc. Il 12 ottobre 1936 il generale Millán Astray gridò il suo slogan «Abajo la inteligencia! Viva la muerte!» nell’aula magna dell’università di Salamanca, rivolgendolo in particolare contro un uomo di cultura certamente non di sinistra, come Miguel de Unamuno54 . Ma alle spalle della Guardia di Ferro e fra gli stessi legionari romeni si trovano gli intellettuali del tradizionalismo, i profeti e i martiri volontari del ritorno a una cultura e a una religione, in cui il cristianesimo greco-ortodosso si mescola con l’esoterismo non cristiano del tardo ’800, e l’appello al presunto «orfismo» degli antichi Traci, il richiamo a rituali «cosmici» di approccio ai «segreti del mondo», si congiungono con l’apologia razzista del genuino uomo romeno, 53 I «Quaderni del Veltro », Bologna, pubblicano I canti della Guardia di Ferro; le Edizioni di Ar, Padova, pubblicano Diario dal carcere (1970), Guardia di Ferro (1972) e Il capo di cuib (1974) di C. Z. Codreanu. 54 H. Thomas, Storia della guerra civile spagnola, trad. it. di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino 1963, p. 376 sgg.
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plasmato dal paesaggio della sua terra, e con l’offensiva contro l’usura, contro gli ebrei, contro gli «Occidentali». Il legionario spagnolo ha come sola religione quella degli «hombres honorados» e della violenza, dell’eroismo e delle mutilazioni: religione della morte, che però manca di qualsiasi connotato cristiano e rifiuta ogni ascetismo diverso dalla volontà di morire: nei battaglioni del Tercio non mancano gruppi di prostitute, tollerate «per una tradizione che risale alle campagne del Marocco»55 ; nel Tercio si mangia benissimo: «minestra o antipasto, un piatto di pesce, uno di carne con contorno, formaggio, frutta e, due volte la settimana, anche dolce»56 Il legionario romeno è un asceta sia per necessità (mentre il Tercio fu un corpo militare dello stato, la Guardia di Ferro rimase sempre in difficili rapporti con il governo romeno, se non in condizioni di semi – clandestinità), sia per deliberata scelta: è l’esponente di un movimento tradizionalista che si dichiara cristianissimo, tutelato da un arcangelo, e la sua religione della morte è anche mistica della colpa necessaria: si deve uccidere l’avversario politico e l’ebreo che fu deicida nonché assassino o succhiasangue del popolo romeno, ma si deve anche accogliere la punizione per queste uccisioni (quando si è catturati) come un’occasione di giusta espiazione. Così come non crediamo al carattere «nibelungico» di quanto è accaduto nel 1977 nel carcere di Stammheim, non abbiamo alcuna fiducia in una ricerca che miri a risolvere con clichés mitologici o pseudomitologici di antica ispanità o di antica romenità i problemi posti dalle caratteristiche ideologiche e dal comportamento del Tercio e della Guardia di Ferro. Non possiamo trascurare, però, il lavoro di tecnicizzazione di elementi mitologici eseguito dagli ideologhi spagnoli o romeni. Se per il 55 56
R. Segàla, La legge del Tercio, cit., p. 1095. Ivi, p. 1093.
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Tercio l’analisi di questa tecnicizzazione è relativamente semplice e poco rivelatrice (sono in gioco elementi poco elusivi: l’immagine dell’eroe proposta da Millán Astray è quella del soldato che pregia le mutilazioni, sfida i pericoli perché vuole la morte, vive nobilmente alla giornata perché il suo valore è innanzitutto violenza qui e subito, immediato godimento del proprio potere di aggressione), per la Guardia di Ferro l’analisi della tecnicizzazione molto articolata del patrimonio mitologico è ardua e apre prospettive interessanti: da queste periferie, permette di giungere, seguendo i fili, al centro della cultura mitteleuropea dei primi decenni del secolo. Il motivo della morte-sposalizio ricorre sia nel canto del Tercio sia in quello della Guardia di Ferro. Ma non solo l’uso del canto è diverso nelle due «legioni», bensì, nell’ambito romeno, la tematica stessa della canzone si ricollega alla manipolazione di materiali mitologici locali (di tutta l’area balcanico-danubiana) che non trovano riscontro nella tradizione iberica. La morte-sposalizio e le nozze con la morte sono l’elemento centrale di una celebre ballata del folklore romeno, Mioritza, in cui il protagonista, un pastore, configura la propria morte imminente come un’unione con la natura.57 Questo erotismo funebre raggiunge la massima intensità in un’altra ballata, la Leggenda di Mastro Manole, le cui componenti sono documentate in un’ampia area dell’Europa orientale. È la storia del capomastro che, per riuscire a portare a termine un edificio, dovette murare viva in esso la propria moglie. Su questa leggenda, che E. Weber ha ricordato a proposito della mistica della morte, peculiare della Guardia di Ferro58 , e più propriamente sulla sua manipolazione in tempi recenti, sono assai istruttivi alcuni documenti: lo studio, con evidenti preoccupazioni di scien57 58
Z. Barbu, Romania, cit., pp. 182-183. E. Weber, Romania, cit., pp. 522-523
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tificità, che le ha dedicato Mircea Eliade, e altri testi autobiografici o scientifici del medesimo autore. Il «messaggio segreto» del professor Eliade Il professor Mircea Eliade, nato a Bucarest nel 1907, successore di Joachim Wach alla cattedra di storia delle religioni nell’università di Chicago e giustamente annoverato oggi tra i maggiori specialisti mondiali di sciamanesimo e di yoga, pubblicò il 17 dicembre 1937 sulla rivista «Buna Vestire» un articolo in cui si diceva tra l’altro: Può la stirpe romena porre fine alla vita sfinita dalla miseria e dalla sifilide, invasa da ebrei e indebolita da stranieri? [...] La rivoluzione legionaria deve giungere alla meta suprema: la redenzione della stirpe...59
Con molta coerenza Eliade si considerò in lutto quando Cornel Codreanu fu ucciso (30 ottobre 1938)60 , e con pari coerenza non vide nulla di obbrobrioso nel rappresentare all’estero, come addetto culturale, il governo romeno che nell’estate del 1942 firmava con il delegato di Eichmann, Gustav Richter, l’accordo per la deportazione di tutti gli ebrei romeni nei campi di sterminio61 . Questi e altri dati sono stati resi pubblici nel 1972 dall’Istituto «Dr. J. Niemirower» (Israele) per denunciare la gaffe di uno dei più prestigiosi docenti dell’università di Gerusalemme, Gershom Scholem, che ha ritenuto opportuno rendere omaggio a Eliade contribuendo a un 59 Cit. in Dosarul Mircea Elide, «Toladot. Buletinul Istitutului Dr. J. Niemirower»[Gerusalemme], n. 1, gennaio – marzo 1972, p. 24. 60 Ibidem. 61 Ivi, p. 26.
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volume in suo onore62 . Gli stessi dati sono stati utilmente messi in circolazione in Italia nel 197763 , quando la pubblicazione del diario di Eliade in edizione italiana64 ha suscitato recensioni nelle quali non si fa il minimo cenno al fascismo e all’antisemitismo dello studioso romeno e anzi si riportano con grandi elogi ( «passione veramente nobile per la letteratura»65 ) annotazioni di questo genere: Come si «salvarono» gli scrittori tedeschi emigrati negli Stati Uniti: lavorarono e proseguirono la creazione iniziata in Germania. Il caso di Thomas Mann è esemplare: anche prima di emigrare negli Stati Uniti, quando cambiava continuamente domicilio, in Svizzera, in Francia (poi a Princeton, a Los Angeles), poteva sopportare tutto perché scriveva la tetralogia di Giuseppe. Questo salvò la continuità e l’unità interiori minacciate in lui dall’esilio66
Poiché tutto il diario di Eliade è percorso da un lamento circa la minaccia contro «la [sua] continuità e [la sua] unità interiori» rappresentata dall’esilio, è qui evidente l’intenzione di prendere a specchio la condizione degli scrittori tedeschi emigrati, in particolare di Thomas Mann, e di esibirsi come l’intellettuale che, cacciato dalla brutalità, si «salva» nella dimensione interiore del 62 AA. VV., Myths and Symbols. Studies in Honor of Mircea Eliade, a cura di J. M. Kitagawa e C. H. Long, The University of Chicago Press, 1969. 63 A. M. di Nola, Mircea Eliade e l’antisemitismo, «La rassegna mensile di Israel», vol. XLIII, n. 1-2, gennaio-febbraio 1977, pp. 12-15. 64 M. Eliade, Giornale, trad. it. di L. Aurigemma, Boringhieri, Torino 1976. 65 E. Croce, Sogni e amici di Eliade il profeta, «La Stampa», 14 aprile 1977, p. 3. 66 M. Eliade, Giornale, cit., p. 426.
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proprio rapporto con il mito. Naturalmente Eliade trascura di citare le parole di Thomas Mann: nella tetralogia di Giuseppe «il mito venne tolto dalle mani al fascismo e «umanizzato» perfin nel più riposto cantuccio della lingua, e se i posteri troveranno qualcosa di notevole in quest’opera sarà appunto questo».67 Non ha alcun rilievo il fatto che Thomas Mann avesse scelto l’esilio contro il nazismo, mentre proprio l’esplicita simpatia per il nazismo impedì a Eliade il ritorno in patria alla fine della guerra. Il diario di Eliade, d’altronde, contiene solo rarissimi accenni alle sue scelte ideologiche dell’anteguerra (i ricordi di quel periodo non mancano, ma sono politicamente sterilizzati: il nome di Codreanu è del tutto assente), sebbene qualcosa si possa leggere tra le righe, e magari anche abbastanza in chiaro: Bisogna che dica da qualche parte che il fenomeno capitale del ventesimo secolo non è stata, e soprattutto non sarà, la rivoluzione proletaria, come predicevano i marxisti settanta od ottant’anni fa, bensì la scoperta dell’uomo non europeo e del suo universo spirituale. Dovrei sviluppare questa idea. in un articolo. Mostrare come la visione di Marx – il messianesimo del proletariato, la lotta finale fra il bene e il male, ecc. – affondi le sue radici e trovi la sua spiegazione nella teologia giudeo-cristiana; integrandosi pertanto nell’orizzonte storico mediterraneo. Sarebbe interessante vedere che cosa significassero per Marx le civiltà esotiche e tradizionali (primitive). Ora, noi cominciamo oggi a renderci conto della nobiltà e dell’autonomia spirituale di queste civiltà, il dialogo con le quali mi sembra, per l’avvenire della spiritualità europea, molto più importante del rinnovamento spirituale che potrebbe essere apportato dall’emancipazione radicale del proletariato. Si è già visto quali «valori» ci ha 67 Dal saggio di Th. Mann, Joseph und seine Brüder [Giuseppe e i suoi fratelli], trad. it. di B. Arzeni in appendice all’edizione italiana della tetralogia, Mondadori, Milano 1954, p. 2290.
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rivelato il proletariato: nulla che non fosse già noto allo spirito europeo68
Abbiamo ricordato questi elementi della cultura di Eliade, perché senza di essi è impossibile collocare nella giusta prospettiva la sua interpretazione della leggenda di Mastro Manole e collegarla sia con la mistica della morte, peculiare della Guardia di Ferro, sia con un più ampio intreccio della cultura della destra europea. A proposito della leggenda che evoca il sacrificio della moglie del capomastro, Eliade ha scritto: [...]per durare, una costruzione (casa, opera tecnica, ma anche opera spirituale) dev’essere animata, cioè ricevere insieme una vita e un’anima. Il transfert dell’anima non è possibile che attraverso un sacrificio; in altri termini, attraverso una morte violenta. Si può anche dire che la vittima prosegue la sua esistenza dopo la morte, non nel suo corpo fisico, ma nel nuovo corpo – la costruzione – che essa ha «animato» con la sua immolazione; si può parlare pure di «corpo architettonico» sostituito al corpo carnale. Il transfert rituale della vita per mezzo del sacrificio non si limita alle costruzioni (templi, città, ponti, case) e agli oggetti utilitari: si sacrificano patimenti delle vittime umane per assicurare il successo di un’operazione, o anche la durata storica di un’impresa spirituale69
La tematica del sacrificio umano «di fondazione» (quali che siano le sue spiegazioni da parte di studiosi moderni, non sempre concordi con l’ipotesi di Elide70 ) M. Eliade, Giornale, cit., pp. 134-135. M. Eliade, «Maítre Manole et le monastère d’Arges», in De Zalmoxis à Gengis-Khan. Études comparatives sur les religions et le folklore de la Dacie et de L’Europe Orientale, Payot, Parigi 1970, pp. 178-179. 70 Il testo più recente che fa il punto sulla questione è: A. Seppilli, Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti. Persistenza di simboli e dinamica culturale, Sellerio, Palermo 1977, p. 265 68
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sembra collegarsi direttamente alla mistica o religione della morte della Guardia di Ferro: i legionari dovevano morire per fondare ritualmente la «emancipazione della stirpe» – donde la loro prospettiva non di vincere o morire, ma di vincere morendo (fin qui, non diciamo nulla di nuovo; questa coincidenza è già stata più volte notata e illustrata). Nel diario di Eliade vi è però un’annotazione che apre uno spiraglio su altri «segreti» (come vedremo, la parola è di Eliade), facendo affiorare di là dalle parvenze esteriori della mistica della Guardia di Ferro una componente esoterica – intorno alla quale si nutriva solo qualche generico sospetto, tanto vago da non sollecitare alcuna verifica – che indicherebbe nella leggenda di Mastro Manole non solo un precedente tradizionale, ma un vero e proprio hieròs lógos di quella religione della morte. Alla data dell’8 novembre 1959 Eliade scrive nel diario: Sfoglio oggi il mio Trattato di storia delle religioni71 soffermandomi soprattutto sul lungo capitolo sugli dei del cielo; mi chiedo se il messaggio segreto del libro sia stato capito, «la teologia» implicata nella storia delle religioni così come viene da me
sgg. Può essere anche interessante confrontare il breve scritto giovanile di G. Lukàcs, in cui il motivo della leggenda compare in posizione centrale: Della povertà in ispirito. Un dialogo e una lettera, 1ª ed. ungherese 1911, 1ª ed. tedesca 1912, trad. it. di J. Szauder, in «De Homine», nn. 45-46, 1973, pp. 133-148; trad. it. di G. Sertoli e F. Jesi, in «Nuova Corrente», n. 71, 1976, pp. 209-224. Vedi pure il saggio di A Heller su questo scritto (1ª ed. ungherese 1972; trad. inglese, «Von der Armut am Geist»: A Dialogue by tbe Young Lukàcs, , «The Philosophical Forum», vol. III, nn. 3-4, 1972; trad. tedesca in Lebrstück Lukács, Suhrkamp, Francoforte, s. M. 1974). 71 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni trad. it. di V. Vacca, Edizioni Scientifiche Einaudi, Torino 1954; Edizioni Scientifiche Boringhieri, 19702 .
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decifrata e interpretata. Nondimeno il senso ne risulta abbastanza chiaro: i miti e le «religioni», in tutta la loro varietà, sono il risultato del vuoto lasciato nel mondo per essersi Dio ritirato, trasformato in deus otiosus e scomparso dall’attualità religiosa. Dio – più esattamente l’Essere supremo – non ha più alcun ruolo nell’«esperienza religiosa» dell’umanità primitiva. È stato soppiantato da altre forme divine: divinità attive, fecondatrici, drammatiche, ecc. Sono tornato su questo processo in altri studi. Ma si sarà capito che la «vera» religione inizia solo dopo che Dio si è ritirato dal mondo? Che la sua «trascendenza» si confonde e coincide col suo eclissarsi? Lo slancio dell’uomo religioso verso il «trascendente» mi fa, pensare a volte al gesto disperato dell’orfano rimasto solo al mondo72
Un lettore attento del Trattato di storia delle religioni si accorge che (nonostante dichiarazioni come «il senso ne risulta abbastanza chiaro») le domande poste da Eliade in questo brano del diario sono, di fatto, soprattutto interrogative retoriche. Cosi come si presenta, in sé e per sé, il Trattato rende quasi impossibile la comprensione del «messaggio segreto». Partendo dalla constatazione che «In realtà gli Esseri celesti supremi non rappresentano mai una parte di primo piano nella religiosità primitiva»73 , Eliade afferma che in tempi remotissimi, precedenti quelli documentati dalla etnografia, gli Esseri celesti supremi rappresentavano «il centro stesso della vita religiosa»74 : poi la loro presenza scomparve dall’«attualità religiosa», essi divennero appunto dèi otiosi, «fainéants» – diremmo noi – come gli ultimi re merovingi, e sostituiti nell’immediato esercizio del potere da «maires du palais» (sempre secondo il nostro M. Eliade, Giornale, cit., p. 230. M. Eliade, Trattato, cit., p. 56. 74 Ivi, p.61. 72
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esempio), forme religiose «dinamiche, fattive, facilmente accessibili»75 È evidente [scrive Eliade nel Trattato] che ciò non diminuisce per nulla l’autonomia, la grandezza e il primato degli Esseri celesti supremi; è piuttosto una prova che l’uomo «primitivo», come quello civile, li dimentica facilmente appena non ha più bisogno di loro; che le asprezze dell’esistenza lo obbligano a guardare più la terra che il cielo, e che l’importanza del Cielo viene riscoperta soltanto quando una minaccia di morte incombe di lassù76
Da questo, ad affermare esplicitamente che «i miti e le «religioni» [...] sono il risultato del vuoto lasciato nel mondo per essersi Dio ritirato», il passo è piuttosto lungo: non per nulla Eliade parla di «messaggio segreto». Ammesso dunque che il «messaggio» del libro sia «segreto», e che quindi il linguaggio e l’apparato di costruzione scientifica del Trattato siano elementi funzionali di un monumentale crittogramma, viene a cadere l’obiezione. di Károly Kerényi che giudicava Eliade «triviale»77 per l’inadeguatezza delle sue analisi (cosi come vengono enunciate in chiaro) alla problematica affrontata, ma affiora un elemento a prima vista sconcertante. L’antisemita Eliade ha costruito tutto il suo Trattato come un’architettura che cela ed esibisce al tempo stesso, al proprio centro, quale «messaggio» ma «messaggio segreto», una dottrina peculiarmente ebraica. È la dottrina con cui la Qabbalà, a partire in special modo da Jizchàq Luria (1534-1572), diede risposta al problema della creazione dal nulla. Dice Eliade: «i miti e le «religioni» [...] soIvi, p. 58 Ivi, p. 56. 77 Vedi F. Jesi, K. Kerényi: i «pensieri segreti» del mitologo, cit., pp. 291-292. 75
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no il risultato del vuoto lasciato nel mondo per essersi Dio ritirato»; la Qabbalà luriana afferma che Dio – per garantire la possibilità del mondo – dovette rendere vacante nel suo essere una zona, dalla quale Egli quindi si ritrasse...78
Dio, ritrattosi «da sé in se stesso», creò uno spazio primordiale nel quale per emanazione attuò la creazione. Nel Trattato Eliade presenta il ritirarsi di Dio in termini di storia e psicologia delle religioni, ma nell’annotazione del diario sottolinea che di là da questa formulazione va capito il «messaggio segreto»: non a caso parla di «teologia» risultante dal suo modo di «decifrare» e «interpretare» la storia delle religioni, e non a caso usa la parola «Dio» quando accenna al «ritirarsi», salvo correggersi un istante dopo: «Dio – più esattamente l’Essere supremo...». Cosa vuol dire tutto questo? Eliade, e sia pure «il triviale Eliade» secondo la definizione di Kerényi, non può essere considerato all’oscuro, per ignoranza, di questa dottrina della mistica ebraica; neppure si può dubitare che in un diario incentrato sulla nozione del proprio esilio egli abbia menzionato come «messaggio segreto» del suo Trattato il ritirarsi di Dio, senza sapere che, nell’ambito della cultura ebraica, si è tentati di interpretare questo ritirarsi di Dio nel suo proprio essere in termini di «esilio», di «bando» dalla sua totale onnipotenza nella più profonda solitudine. Considerata così, l’i78 G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, trad. it. di G. Russo, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 355.
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dea dello Zimzùm79 sarebbe il più profondo simbolo probabile dell’esilio...80
Resta da vedere se il «messaggio segreto» del Trattato e la sua coincidenza con il «messaggio segreto» della Qabbalà siano il risultato di una riflessione assolutamente nuova dell’Eliade esule dopo la guerra, o non piuttosto la prosecuzione di un impianto ideologico dell’Eliade fiancheggiatore della Guardia di Ferro, che prende il lutto per la morte di Codreanu. In questo secondo caso risulterebbe sconcertante – come abbiamo detto – la coincidenza fra l’apparato mitologico e teologico di un gruppo antisemita e una dottrina peculiare della tradizione mistica ebraica, «un pensiero che [...] ha dato prova di essere uno dei più fruttuosi e profondi per la riflessione dei mistici ebrei posteriori [a Luria]»81 La dottrina dell’esilio di Dio in se stesso, del «ritirarsi» di Dio, non è stata soltanto oggetto di discussione o di fede in ristretti circoli di mistici ebrei. Elaborata anche come risposta della cultura religiosa ebraica alla catastrofe dell’espulsione dalla Spagna che si configurava come accentuazione o ripetizione dell’esilio dalla Palestina, questa dottrina drammatizzava in termini cosmogonici la condizione degli ebrei esiliati e nello stesso tempo esprimeva «il sentimento della tensione tra i due poli dell’esilio e della redenzione» tanto da preludere al «passo decisivo verso il messianesimo».82 . Il passo fu compiuto nel XVII e nel XVIII secolo dai cosiddetti falsi mes79 Zimzùmsignifica precisamente «concentrazione»: qui nel senso di «concentrazione», «contrazione», «ritiro» di Dio in se stesso. 80 G. Scholem, Le grandi correnti, cit., p. 355 (cfr. tutto il brano dedicato allo Zimzùm: pp. 354-358). 81 Ibidem. 82 Ivi, p. 393.
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sia, Shabbetàj Zevì e il suo successore Jakob Frank, protagonisti di un movimento mistico e millenaristico eterodosso (se di eterodossia si può parlare nell’ambito dell’ebraismo) che interferì come componente spesso sotterranea nel gioco di rapporti fra illuminati e illuministi entro la cultura europea del Settecento.83 Quanto ora importa sottolineare è l’atteggiamento degli «eretici» shabbatiani e frankisti nei confronti della legge: gli uni e gli altri, infatti, furono soprattutto assertori del valore rituale del comportamento antinomico, dunque della deliberata infrazione della legge.84 . Se l’antica legge, la Torà, la legge sacra e totalizzante tanto da escludere come blasfema l’esistenza di una legge profana, corrisponde a un mondo o a un «regno» prossimo alla sua fine, la missione del messia (e, sul suo esempio, dei seguaci) deve consistere nell’infrazione della legge che, come atto rituale, accelererà l’avvento della legge e del «regno» nuovi. Si infrange la vecchia legge così come Dio si ritrae in esilio «da sé in se stesso»: ma Dio si «ritira» affinché possa avere luogo la creazione, il messia infrange la legge affinché possa avvenire l’epifania della nuova legge. L’esecuzione della colpa (secondo la vecchia legge) è un rituale, una festa del singolo o di un intero gruppo, qualcosa di insolito che ha origine da uno stato di esaltazione e che ne è, al tempo stesso, la testimonianza85
Tanto più alta è la dignità messianica, tanto più grave dev’essere la colpa commessa: somma colpa, l’aposta83 Cfr. F. Jesi, Mitologie intorno all’illuminismo, Edizioni di Comunità, Milano 1972, p. 17 sgg. 84 G. Scholem, Le grandi correnti, cit., pp. 398-399. Su Shabbetàj Zevì e i suoi seguaci l’opera fondamentale è G. Scholem, Sabbatai Sevi, Tbe Mystical Messiah. 1626-1676, Princeton University Press («Bolligen Series», XCIII), 1973. 85 G. Scholem, Le grandi correnti, cit., p. 399.
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sia; il messia Shabbetàj Zevi si converti all’islamismo, e il messia Jakob Frank al cristianesimo. La figura di Frank è ancora molto oscura, sia per i problemi di documentazione che restano aperti, sia per l’aura di orrore che continua a circondarla e che ha in qualche misura trattenuto gli studi da parte di specialisti ebrei86 . Ma su Shabbetàj Zevì sono state compiute ricerche approfondite; ne risulta che questo «santo peccatore», giunto a presentarsi come «messia apostata», compiva «azioni malvage» ma quando l’illuminazione cessava «si comportava come un uomo affatto normale, e si rammaricava delle strane azioni che aveva compiute».87 In questo suo senso di colpa si manifestava la tragicità della sua condizione: la legge che egli infrangeva doveva essere infranta affinché si instaurasse la nuova legge del nuovo regno, ma era ancora la legge. Questi elementi, relativi a una delle espressioni della cultura ebraica che agirono più incisivamente nell’Europa del Seicento e del Settecento, e che lasciarono maggior memoria di loro soprattutto nell’Europa orientale, possono servirci non tanto per analizzare la genesi dell’ideologia di gruppi della destra e dell’antisemitismo novecenteschi, come la Guardia di Ferro, quanto per avvicinarci alle paradossali coincidenze fra gli autoritratti mistici dei persecutori e dei perseguitati. La Guardia di Ferro ebbe il suo primo istante di genesi rituale nella prigione di Vacaresti, quando vi si trovavano rinchiusi Codreanu e alcuni compagni, e assunse come patrono l’arcangelo Michele, la cui icona sovrastava la porta della chiesa della prigione. La celebrazione di quella nascita non ha nulla della tematica consueta all’agiografia dei fa86 87
Cfr. F. Jesi, Mitologie, cit., p. 19. G. Scholem, Sabbatai S¸ evi, cit., p. 136.
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scisti italiani, quando scrivevano del «Covo»88 ; la prima tonalità dominante è quella della colpa: Tra le mura della prigione di Vacaresti incominciò il terribile dramma di vedere a nudo i propri peccati. Nel dolore di questo duro esame si concepiranno i pensieri di nuova vita e redenzione.89
I legionari sono l’esercito dell’arcangelo Michele, «principio attivo del bene e della luce eterna in lotta con il male e le tenebre di fuori e dentro di noi»;90 ; sono uomini che devono essere peccatori, dichiarano «Prendiamo sopra di noi tutti i peccati di questa stirpe»91 e intendono il martirio, la «testimonianza» a prezzo del sangue, come la scelta di chi infrange la legge, esegue prestabiliti omicidi, ma non si sottrae alla punizione: In teoria, la violenza legionaria era giustificata solo quando era espiata, e molti legionari si consegnavano dopo un crimine, quando avrebbero potuto facilmente fuggire, alcuni perfino quando avevano cominciato a fuggire92
«I miti e le «religioni» [...] sono il risultato del vuoto lasciato nel mondo per essersi Dio ritirato»: la tradizione dell’angelologia greco-ortodossa o in generale cristiano-orientale consente di supporre che la scelta del88 Cioè la prima sede del «Popolo d’Italia» in Via Paolo da Cannobio a Milano: «Com’era il Covo nell’interno? Una camera modesta e serena...»: Rapsodia eroica, cit., «La fucina della nuova storia». 89 C. Papanace, La genesi ed il martirio del movimento legionario romeno, Roma 1959, p. 21. 90 Ibidem (il corsivo è nostro.) 91 Parole di Codreanu, citate in C. Papanace, La genesi, cit., p. 65. 92 E. Weber, Romania, cit., p. 21.
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l’arcangelo Michele come patrono della Guardia di Ferro sia precisamente da intendere come constatazione del ritirarsi di Dio «da sé in se stesso» e come formalizzazione della necessità di un martirio-peccato, tutelata non dall’icona divina, bensì da quella di chi, come l’arcangelo, resta epifanicamente accessibile anche quando Dio si è «ritirato». Là dove Dio è presente, non si sguaina la spada: alla presenza di Gesù, la spada sguainata di Pietro è segno di colpa non necessaria.93 . Là dove Dio è in esilio entro se stesso, dove restano accessibili unicamente forme sub-divine – l’arcangelo –, i giusti devono essere colpevoli e devono uccidere: il miles Christi, l’athleta Christi, il cavaliere crociato, il Templare, il legionario della Guardia di Ferro, devono scegliere d’essere martiri in quanto colpevoli: Forse, spinto da forze invisibili, il Capitano [Cornel Codreanu] riprendeva una vecchia tradizione cristiana, le cui vestigia si possono vedere ancora oggi nei monasteri della Bretagna, che portano sulla cima della torre il Santo Arcangelo [Michele] dove nei tempi passati i monaci erano nello stesso tempo anche cavalieri rivestiti di corazza94 .
Tutto questo quadro conferisce all’antisemitismo della Guardia di Ferro e di Mircea Eliade tonalità inconsuete. Di là dall’immagine dell’ebreo usuraio, capitalista, ed estraneo alla stirpe romena, si intravede quella dell’ebreo come vittima rituale designata. Poiché i martiri devono essere colpevoli, poiché la colpa per eccellenza (dunque la testimonianza più alta) dev’essere l’uccisione, e l’omicidio è un rituale di accelerazione del nuovo regno mediante la infrazione della legge, chi dev’essere ucciso è innanzitutto l’ebreo perché gli ebrei furono il popolo eletto, il gruppo umano sacralmente legato a quel Dio che è 93 94
Giovanni, 18: 10 sgg.; cfr. Matteo, 26: 52 sgg. C. Papanace, La genesi, cit., p. 21.
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il Dio, ma che ora si è ritirato dentro di sé: se il cristianesimo è l’avvento di un nuovo regno, dopo quello dell’Antico Testamento, l’accelerazione di questo avvento, il suo adempimento, consiste nel colpevole ma testimoniale uccidere come vittime sacrificali coloro che furono per eccellenza gli uomini dell’antico regno. «Per durare [dice Eliade], una costruzione [...] dev’essere animata, cioè ricevere insieme una vita e un’anima. Il transfert dell’anima non è possibile che attraverso un sacrificio; in altri termini, attraverso una morte violenta. [...] Si sacrificano parimenti delle vittime umane per assicurare il successo di un’operazione, o anche la durata storica di un’impresa spirituale». La rivoluzione legionaria è la impresa spirituale. Gli ebrei devono esserne le vittime «di fondazione», non vittime estranee ai sacrificatori, ma affini ai soldati dell’arcangelo come, appunto, gli ebrei sono affini ai cristiani (in una prospettiva cristiana). «I miti e le «religioni» [...] sono il risultato del vuoto lasciato nel mondo per essersi Dio ritirato»: atto religioso, dalle fondamenta o articolazioni mitologiche, è innanzitutto l’uccisione dell’ebreo. Ma l’uccisione è un atto colpevole, come ogni possibile atto di vero martirio, e il legionario uccisore vuole anche essere ucciso; la figura della moglie del capomastro, murata viva perché l’edificio sorga, è quella dell’ebreo ucciso, ma anche quella del legionario che, dopo avere ucciso, si farà uccidere: Quanto più alto e gravoso era il prezzo della loro violenza omicida, tanto più essi [gli uomini della Guardia di Ferro]la esercitavano. Quelli fin qui riportati non sono che pochi aspetti esemplificativi di questa stretta concatenazione di azioni che può essere formulata sia come «uccidi e fatti uccidere», che «uccidi per essere ucciso»95 . 95
Z. Barbu, Romania, cit., p. 183.
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Cultura di destra e paura dell’ebreo Procedendo da queste periferie verso il centro della destra europea della prima metà del Novecento – da Bucarest verso Berlino – si comincia a intravedere qualcosa circa le strutture di una religione della morte, fra le quali presumibilmente rientrerà il ritualismo dello sterminio degli ebrei come sacrificio «di fondazione» del nuovo regno o del nuovo Reich. Certamente non si può ridurre al solo antisemitismo, in forme più o meno sanguinarie, la complessa articolazione della cultura di destra nella Germania dei primi decenni del Novecento; ma l’antisemitismo tedesco presenta caratteri così peculiari rispetto a quelli di altre forme di antisemitismo europee, da offrirsi come elemento privilegiato di indagine, punto d’incontro di molti ed eterogenei filoni ideologici. Conviene prima di tutto notare che nella storia del razzismo in Germania i primi decenni del Novecento segnano un punto di svolta non solo politica e sociale, ma propriamente di apparato mitologico. Per i padri del razzismo tedesco ottocentesco, Ernst Moritz Arndt (1768-1860) e Friedrich Ludwig Jahn (1778-1852), la «razza» ebraica non sembra essere peggiore o migliore di altre: posto che la «razza» germanica è la più nobile di tutte, le altre presentano peculiarità di razze inferiori, ma anche eventuali pregi loro caratteristici; l’importante è garantire il primato della «razza» germanica custodendone la purezza da qualsiasi contaminazione (non in particolare dalla contaminazione ebraica, che non viene denunciata come il più grave pericolo).96 . Oltre a que96 Su Arndt: H. Meisner-R. Geerds, E. M. Arndt, ein Lebensbild in Briefen, Berlino 1898; M. Polag, Arndts Weg zum Deutschen, Lipsia 1936; E. M. Arndts Anschauung vom Wesen des Volkes, Berlino 1948. Su Jahn: P. Piechowski F. L. Jahn. Vom Turnvater zum Volkserzieher, Gotha 1928; E. Neuendorff, F. L.
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ste posizioni di razzismo, per così dire, obiettivo, senza specifici risvolti antisemiti, non sono mancate in quei decenni forme di antisemitismo selvaggio, hanno continuato a fiorire le accuse di omicidio rituale (d’antica tradizione medievale)97 , o in termini più banali l’ebreo ha continuato a essere presentato come sostenitore e diffusore di tutte le scostumatezze e sfrenatezze (così si replicò, per esempio, alla proposta di Paul Heyse di elevare un monumento a Heine)98 . Contemporaneamente, da parte degli stessi antisemiti, si è continuato spesso a dire che è possibile far amicizia con «veri ebrei», esponenti di un astratto ebraismo coincidente con i presunti caratteri positivi della «razza» ebraica, assorti nella religiosità, cultori dei buoni sentimenti della famiglia, e così via, mentre è impossibile avere rapporti non ostili con i «falsi ebrei», le incarnazioni di Shylock a Berlino. Cose del genere si leggono nel libro Rembrandt come educatore (Rembrandt als Erzieher), pubblicato anonimo da julius Langbehn («Un Tedesco») nel 1890: un’opera ca-
Jabn und Seine Zeit, Dresda 1931; B. Theune, Volk und Nation bei Jahn, Rotteck, Welcher und Dahlmann, Berlino 1937. Cfr. il testo nazista di H. Blome, Der Rassengedanke in der deutschen Romantik und Seine Grundlagen im 18. Jahrhundert, Berlino 1943; vedi pure, per un’analisi dei precedenti dell’antisemitismo nazista P. Viereck, Metapolitics. From the Romantics to Hitler, New York 1941; trad. it. di L. Astrologo e L. Pintor, Dai romantici a Hitler, Einaudi, Torino 1948; L. Poliakov, Histoire de l’antisémitisme. De Voltaire à Wagner, Calmann-Lévy, Parigi 1968, p. 393 sgg. 97 F. Jesi, L’accusa del sangue, «Comunità», n. 170, ottobre 1973, pp. 260-302. 98 Vedi a questo proposito le proteste antisemite di cui si fece portavoce la rivista «Der Kunstwart» (Dresda 1887 sgg.) diretta da F. Avenarius: cfr. F. Schonauer, Deutsche Literatur im Dritten Reich, Olten 1961; trad. it., La letteratura tedesca del Terzo Reich, Sugar, Milano 1962, p. 30 sgg.
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pitale nella teorizzazione del germanesimo come cultura della razza eletta, e dell’inconciliabile conflitto fra Kultur e Zivilisation99 ; nel 1936 Rembrandt come educatore aveva raggiunto la 90ª edizione. Tutto questo naturalmente non significa che la Germania del II Reich non conoscesse un energico antisemitismo. Ma la svolta di cui parlavamo, maturata negli anni ’10 – ’20 e divenuta assolutamente palese con l’affermarsi del nazismo, porta ad altro: non solo ai campi di sterminio, ma all’affiorare o riaffiorare di un’immagine mitologica inconsueta all’antisemitismo ottocentesco, quella dell’ebreo come potente pericoloso – non esclusivamente, o addirittura non tanto sul piano economico e politico – : l’immagine dell’ebreo come, paradossalmente in una prospettiva antisemita, creatura privilegiata, dotata di intrinseche e misteriose qualità, dunque da uccidere. L’apparato propagandistico dell’antisemitismo nazista, da Streicher a Goebbels, ha insistito clamorosamente su ben altri elementi, ormai noti a tutti: l’ebreo come creatura subumana, ma perfida, usuraio, ignobile, infido, mostruosamente licenzioso e corruttore, ecc. Di là da tutto questo, però, si avverte fra le righe dei documenti meno stereotipati della cultura nazista un timore nei confronti dell’ebreo che induce a sospettare, sullo sfondo, l’esistenza di un’immagine mitologica del «popolo eletto» della Bibbia come depositario di qualità e di conoscenze che possono risultare micidiali. Detto in termini un po’ sbrigativi: si ha la netta impressione che l’aspetto meno pubblicizzabile dell’antisemitismo nazista fosse quello di un’ostilità, dettata anche dalla paura, verso una «razza» di frequentatori di forze occulte, di maghi, di 99 F. Schonauer, La letteratura, cit., p. 22 sgg. (di Langbehn abbiamo riassunto il pensiero circa i «veri» e i «falsi» ebrei, dalle pp. 363 sgg. di Rembrandt als Erzieher, 90ª ed., Stoccarda 1936).
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inquietanti personaggi-tramite fra l’immediata, sensibile realtà del mondo e le sue presunte radici segrete. In questa prospettiva acquisterebbe un significato imprevisto e particolare il testamento politico dettato da Hitler il 29 aprile 1945, specialmente nei paragrafi in cui – con quella che altrimenti si direbbe estrema mistificazione o totale soggezione al delirio – il Führer poco prima di morire presenta la propria immagine di uomo ostile alla guerra: È falso che io, o qualcun altro, in Germania abbia voluto la guerra nel 1939. La guerra è stata voluta e provocata esclusivamente da uomini politici internazionali di origine ebraica o agenti al servizio degli interessi ebraici. [...] I secoli passeranno, ma dalle rovine delle nostre città e dei nostri monumenti risorgerà sempre l’odio verso i veri responsabili di questo conflitto. Sono essi coloro che dobbiamo ringraziare: gli esponenti del giudaismo internazionale e i loro sostenitori. [...] Soprattutto, ordino al governo e al popolo di mantenere in pieno vigore le leggi razziali e di combattere inesorabilmente l’avvelenatore di tutte le nazioni, l’ebraismo internazionale.100
A questo punto, però, ci troviamo di fronte a uno dei peggiori terreni paludosi della storiografia contemporanea. Dopo un libro come Il mattino dei maghi (Le matin des magiciens) di L. Pauwels e J. Bergier,101 , qualun100 Il testamento politico di Hitler (di cui riproduciamo qui alcuni passi nella trad. it. pubblicata in W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, trad. it. di G. Glaesser, Einaudi Torino 1963, p. 1217) si trova in: Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, Norimberga, s. d., Vol. XLI [carte Speer]. 101 L. Pauwels e J. Bergier, Il mattino dei maghi, trad. it. di P. Lazzaro, Mondadori, Milano 19713 . Questo libro non reca alcuna indicazione di fonti, dà spesso per certe informazioni che sanno di fantastoria, e quindi (sebbene possa anche risul-
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que persona sensata esita a parlare di esoterismo nazista – poiché di questo appunto si tratta – : nessuno gradisce finire nel calderone della fantastoria occultistica, che fra l’altro mostra precisi connotati conservatori, a cominciare dalle ipotesi ottocentesche di chi, ipnotizzato dalle immagini delle società segrete, vide in loro le forze che effettivamente avrebbero fatto la storia da alcuni secoli a questa parte, se non addirittura da sempre. Ciò nonostante, e poste tutte le necessarie riserve collegate alla scarsità di documenti attendibili e alla difficoltà di analizzare i pochi di cui disponiamo, non ci sentiamo di negare che un esoterismo nazista sia mai esistito, che esso abbia lasciato tracce decifrabili entro certi limiti, e che la cultura della destra europea (oltre che propriamente tedesca) del Novecento possa essere studiata seriamente solo se non si trascurano queste sue velleità di rapporti con determinati «segreti». La Guardia di Ferro romena era un gruppo che si dichiarava cristianissimo, mentre è noto che il nazismo in Germania ebbe connotati di deliberata ostilità contro il cristianesimo. Se per i legionari dell’arcangelo Michele gli ebrei erano eletti (secondo la vecchia legge) da uccidere, fratelli da uccidere, per i teorici del cosiddetto paganesimo nazista gli ebrei potevano anche essere vittime sacrificali designate, ma non certo fraterne. Negli ultimi
tare per alcuni aspetti suggestivo e stimolante) dev’essere usato con molta cautela. L’orientamento stesso del libro, inoltre, è piuttosto di destra: non che vi si lodi il nazismo, anzi; ma ogni pagina resta in un’atmosfera tra l’esoterismo e il puro effetto da feuilleton, vi si apprezzano valori come il grand’uomo (che diviene il «mutante»), si rifiuta a priori un’analisi storica, politica, economica, sociale, si resta ipnotizzati dalla tecnica (sia pure da una tecnica raffinatissima), si manipolano miti con una certa convinzione circa le forze oscure che interverrebbero nelle vicende degli uomini.
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decenni dell’Ottocento Paul de Lagarde (pseudonimo di Paul Boetticher, 1827-1891) scriveva: Allo stato attuale delle cose, è per grazia di Dio se la Germania come tale non ha nessuna religione, e se ha confini troppo ristretti: perché per tali tramiti le sono imposti i compiti, grazie ai quali può divenire. La lotta per una forma di pietà religiosa che le si convenga interiormente, in primo luogo, e in secondo luogo la conquista di colonie: ecco i mezzi destinati a far lievitare a essere tedesca l’ancor latente nazionalità dei tedeschi.102
La «lotta per una forma di pietà religiosa che le si convenga interiormente [alla Germania]» – così significativamente associata all’imperialismo – divenne quasi subito tecnicizzazione di presunti miti dei Germani, talvolta con ambigue coloriture di cristianesimo esoterico (come nel Parsifal di Wagner)103 , più spesso come diretto trapasso dalla protostoria degli avi (Gli avi [Die Ahnen, 1873 – 1881] è il titolo di un ciclo di racconti storici di Gustav Freytag che partono dalle vicende di un vandalo del secolo IV e arrivano fino a quelle dei suoi discendenti nella Germania dell’Ottocento)104 , al presente, nel quale riaffiorano intatte la virtù e la religiosità degli antichi. Ma il momento in cui l’antisemitismo venne esplicitamente a congiungersi con l’affermazione di una religione della morte quale «forma di pietà religiosa» che convenisse «interiormente» al germanesimo moderno, corrisponde al prevalere di una speciale accezione di quello che Th. Mann definì il «segreto orientali102 P. de Lagarde, Deutsche Schriften, Lipsia 1886, p. 197; cit. in F. Schonauer, La letteratura, cit., p. 29. 103 Cfr. F. Jesi, L’accusa del sangue, cit., pp. 299-301. 104 Cfr. P. Ulrich, Studien zum Roman G. Freytags, Berlino 1913; vedi anche, passim, E. Bramstedt, Aristocracy and Middleclasses in Germany, Chicago 1964.
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smo della Germania»105 . La fuga verso Oriente o addirittura il mistico pellegrinaggio in Oriente che hanno suscitato più o meno superficiali considerazioni di sociologia della cultura nei nostri anni ’60 di fronte a un improvviso intensificarsi dei viaggi di giovani e meno giovani esuli dall’Occidente verso l’India o il Nepal, avrebbero riscaldato il cuore di numerosi tedeschi di ieri e dell’altroieri. Non solo di Hermann Hesse, che del resto è tornato a essere proprio in questa occasione un autore attualissimo, ma di più antichi, sette-ottocenteschi combattenti mistici, impegnati nella «lotta per una forma di pietà religiosa» che convenisse «interiormente» al tedesco (e, spesso, al tedesco come prototipo dell’uomo europeo). Qui non ci riferiamo tanto all’orientalismo di Schopenhauer, che nella cultura religioso – filosofica indiana trovò specchio alle proprie riflessioni – e al quale, innanzitutto, pensava Th. Mann. Abbiamo in mente, piuttosto, l’orientalismo cristiano che dominò una parte consistente del pietismo tedesco settecentesco, ed entrò nell’eterogenea composizione dell’apparato mistico della Santa Alleanza.106 . Orientalismo, in questi casi, significava riconoscimento della matrice orientale, asiatica, del cristianesimo, fascino dell’Oriente (Vicino Oriente) come luogo di rivelazioni mistiche e di saggezza nel quale occorreva ritornare per ritrovare le genuinità dei «segreti» cristiani, fascino – infine – esercitato sia dal cristianesimo orientale greco-ortodosso, sia dallo stesso ebraismo, come tradizioni spirituali rimaste più vicine alla luce originaria. Si noti, tuttavia, che lo stesso Jung-Stilling forse il più radicale apologeta della necessità di un ritorno pie105 Lettera del 2 febbraio 1922 a E. Bertram (trad. it. in Th. Mann, Epistolario 1889-1936, a cura di E. Mann, trad. it. di I. A. Chiusano, Mondadori, Milano 1963, n. 264) 106 Cfr. F. Jesi, La cerca dell’Oriente cristiano, in Mitologie intorno all’illuminismo, cit., p. 46 sgg.
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tistico all’Oriente e di una rinnovata presenza degli ebrei nella Terra Promessa, di una ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, – lo stesso Jung-Stilling giudicava gli ebrei «completamente immorali e perversi»107 . Come numerosi occultisti e teosofi del suo tempo (fine del Settecento, età napoleonica), anche Jung – Stilling credeva di disporre di informazioni e insegnamenti provenienti da una fantomatica centrale ebraica segreta, che è l’esatta controparte, in positivo, della cosiddetta congiura ebraica «svelata» dai Protocolli dei Savi di Sion e che avrebbe inviato i suoi emissari in tutta l’Europa per illuminare i prescelti e, in generale, tirare i fili della storia. Léon Poliakov, nella sua Storia dell’antisemitismo (Histoire de l’antisémitisme), cita una lettera di jung – Stilling che è specialmente significativa dal nostro punto di vista: Egli [un misterioso personaggio, sedicente figlio di un emiro siriano] mi disse che suo padre apparteneva alla società che teneva le sue riunioni a Gerusalemme, sulla montagna del Tempio. Questa società non era che l’antico Sanhedrin108 , mai estintosi del tutto; la compongono ebrei apparenti, che però sono dei cristiani segreti e attendono solo il segno del Maestro per racco107 Jung-Stilling, Szenen aus dem Geisterreiche, scena XI, in Sämtliche Werke, Stoccarda 1841, vol. II, p. 169. Cfr. M. Geiger, Aufklärung und Erweckung. Beiträge zur Erforschung J. H. Jung-Stillings und des Erweckungstheologie, Zurigo 1963. 108 Questa parola ebraica (ma di origine greca, «sinedrio») indicava durante il periodo del II Tempio varie forme di «Consiglio» documentate in grandi e piccole comunità ebraiche. Secondo il Talmud il Sanhedrin per eccellenza («grande Sanhedrin») era quello di Gerusalemme: un organo dai poteri legislativi e giudiziari, che aveva sede nel Tempio. La medesima denominazione (Grande Sanhedrin) fu ripresa nel 1807 per l’assemblea dei rabbini convocata a Parigi da Napoleone in vista dell’accettazione da parte degli ebrei del Codice Napoleone.
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gliere Israele dai quattro punti cardinali e ricondurlo al Cristo e nella sua patria109
Si badi ad alcuni elementi: la società segreta che custodisce le antiche conoscenze ebraiche ed è in contatto con le forze extra-umane da cui dipende il corso della storia, si riunisce a Gerusalemme «sulla montagna del Tempio»: è noto che i Templari, legati fin nell’iconografia dei sigilli dei loro primi Gran Maestri all’immagine del Tempio di Gerusalemme, furono considerati prototipo degli «ordini» militari nazisti che, per il tramite dei Cavalieri Teutonici, si ritenevano loro eredi. E inoltre: i membri della società segreta di Gerusalemme sono «ebrei apparenti», ma «cristiani segreti»; è un esatto capovolgimento del marranismo (cristiani apparenti, ma ebrei in segreto), e il marranismo – che appunto implicava l’apostasia – fu collegato direttamente ai gruppi mistici ebraici eterodossi di Shabbetày e di J. Frank, i sostenitori del messianismo antinomico, la cui memoria è rimasta viva nella Germania del Settecento e dell’Ottocento: su J. Frank è presumibilmente modellato il personaggio di Moritz Spiegelberg ne I masnadieri (Die Ràuber) di Schiller110 . Insomma, nelle convinzioni di Jung-Stilling, che esprimevano un atteggiamento non solo suo personale, era in corso una benefica congiura cristiano-esoterica, mascherata di ebraismo, che avrebbe determinato l’avvento di una nuova legge e di un nuovo regno. Gli ebrei veri erano, come s’è detto, «completamente immorali e perversi», ma si poteva auspicare una loro prossima partecipa109 Lettera del 28 dicembre 1809 a Hess; cit. in L. Poliakov, Histoire, cit. 294. 110 Ph. F. Veit, The Strange of Moritz Spiegelberg, «Germanic Review», maggio 1969; versione tedesca ampliata in «Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft», Stoccarda 1973, pp. 273 sgg. Cfr. H. Mayer, I diversi, trad. it. di L. Bianchi, Garzanti, Milano 1977, pp. 326-330.
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zione a una redenzione millenaristica cristiano-ebraica, e soprattutto gli esoteristi cristiani dovevano mascherarsi da ebrei se volevano attingere a quelle conoscenze e a quelle forze d’Oriente; l’unico opportuno galateo di approccio al segreto era ebraico. Mettiamo ora da parte la componente cristianopietistica predominante nel pensiero di Jung-Stilling e dei suoi affini: ci ritroviamo di fronte, dapprima, all’antisemitismo esoterico di un Ludwig Derleth (1870-1948 ), il poeta parodiato da Th. Mann nella novella Dal profeta (Beim Propheten) e nel Doctor Faustus, che nella Germania del primo Novecento organizzava riti magici per far fronte all’offensiva, magica, dei Savi di Sion (considerati responsabili, fra l’altro, dell’uccisione «sacrificale» dell’imperatrice Elisabetta d’Austria)111 ; e poi a un’ipotesi interpretativa della ferocia, ma anche della paura, di Hitler e di Himmler verso la «congiura» ebraica internazionale. Il nazismo ha mille volte celebrato la mitologia germanica come fondamento e lievito della coscienza nazionale del popolo eletto. Ma l’impressione è che, almeno ai vertici del potere e dell’organizzazione propagandistica, si prendesse più seriamente in considerazione il negativo che il positivo: più la necessaria ostilità (e la paura) verso la «congiura» ebraica, che l’apologia di Sigfrido o dei teutoni. Himmler disse abbastanza chiaramente come stavano le cose quando prese posizione sulla dibattuta questione della Cronaca di Uralinda, un falso fabbricato dal prof. Wirth per illustrare le antichissime origini «razziali» e le virtù dei teutoni: 111 Vedi, anche a proposito dei legami fra la cerchia di Derleth e, più tardi, quella di C. G. Jung, la Introduzione di F. Jesi a O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, trad. di J. Evola, nuova ed. it. a cura di R. Calabrese, M. Cottone, F. Jesi, Longanesi, Milano 1978.
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In tutta questa faccenda seccante c’interessa soltanto una cosa: proiettare nel passato il quadro della nostra nazione quale noi la concepiamo per il futuro112 .
Il recupero della mitologia razzista di stampo wagneriano era, insomma, più un’operazione di progettazione (oltre che di propaganda), che un fare i conti con qualcosa di passato e di presente che si giudicava concretamente incombente nel bene o nel male. Concretamente incombente nel male poteva essere, invece, la segreta «congiura» ebraica: gli ebrei, pur «completamente immorali e perversi», nonché sprovvisti di ogni positiva qualità umana – subuomini sanguinari e corruttori –, erano depositari di capacità e di forze occulte negative e micidiali. Se questo è vero: e non osiamo andare oltre l’ipotesi, data l’estrema difficoltà di accedere oggi ai documenti dell’esoterismo nazista, ammesso che, come qualcuno suppone, ancora esistano. Ipotesi in questo senso sono state formulate specialmente da chi si occupa di ricercare i nazisti che riuscirono a scomparire al momento della caduta del III Reich. Si sa che i documenti dell’Ahnenerbe, istituto per lo studio e la conservazione dell’«eredità ancestrale»113 , avrebbero dovuto essere distrutti, ma che la loro distruzione non poté essere integralmente compiuta; scomparso è, d’altronde, il prof. August Hirt, direttore dell’istituto di anatomia dell’università di Strasburgo e coordinatore degli esperimenti medici dell’Ahnenerbe sui prigionieri dei Lager. Altri elementi possono trovarsi nell’archivio (attualmente inaccessibile – se non, forse, ai compagni di fede) di Fr. Hielscher, fondatore dell’Ahnenerbe, il quale comparve 112
H. Rauschning, Così parlò Hitler, trad. it., Roma 1944, p.
208. 113
Vedi oltre, pp. 71-72.
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a Norimberga solo come testimone, non come imputato. – Se questo è vero, le parole che abbiamo citato dal testamento politico di Hitler, le accuse rivolte ancora in extremis contro gli ebrei di avere voluto paletto di frassino nel cuore, ecc.; perché chi frequenta le forze segrete può essere sterminato soltanto con tecniche esoteriche). Questo sforzo di acquisire tecniche difensive andrebbe allora ricollegato alla specifica e documentata accezione del «segreto orientalismo della Germania» durante il III Reich: la ricerca di un Oriente ancora più Oriente di quello ebraico, la frenesia nazista di stabilire rapporti di conoscenza e di alleanza con il presunto cuore segreto dell’Estremo Oriente, il Tibet114 . forse quale contravveleno alla minaccia «orientale» dell’esoterismo ebraico. Il Reich senza centro Se si esamina il monumentale apparato iconico e mitologico del nazismo, ora, a quarant’anni di distanza, quando immagini e voci sono necessariamente percepibili solo per il tramite di una sorta di stilizzazione spettrale come quella della pagina scritta o della fotografia, della co114 Su questo particolare «orientalismo» della Germania nazista, la ricerca deve iniziare dalle opere dell’esploratore e geografo svedese S. Hedin e (per il Giappone) di K. Haushofer, professore di geopolitica a Monaco (quest’ultimo, del resto, fu collegato non solo a Hess e a Hitler [cfr. J. Fishman, The Seven Men of Spandau, New York 1954] ma anche a Sorge, che avrebbe poi svolto un’importante attività spionistica in Giappone per conto dell’Urss [cfr. Chalmers Johnson, An Instante of Treason. The Story of the Tokyo Spy Ring, New York 1961, p. 266 sgg.]). Inoltre, dai materiali relativi alle varie organizzazioni SS e dai verbali degli interrogatori di W. Sievers a Norimberga [vedi oltre, pp. 71-72] si ricavano elementi circa i piani di ricerca progettati e parzialmente attuati dal dott. Scheffer, dell’Ahnenerbe, nella zona himalayana
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lonna sonora di un film, si ha l’impressione che di là dall’esibizione di sicurezza e di forza (sicurezza e forza che spesso esistevano molto concretamente), sia avvertibile quella che un cultore di simboli definirebbe perdita del centro. I documenti delle parate di Norimberga, il film sulle Olimpiadi di Berlino, i progetti architettonici di A. Speer, le testimonianze di tutte le massicce e scenografiche esibizioni della compattezza, della violenza e della eternità del regime, presentano un carattere di rituali di «fondazione» difensivi. Dalle strutture architettoniche all’uso dei lunghi labari con la svastica, dai moduli di disciplinatissima ripartizione coreografica delle masse al periodare di uno scrittore nazista «colto» come E. G. Kolbenheyer, si impongono formule bidimensionali, da fondali di teatro, che mirano a creare ex novo una terza dimensione, uno spessore di veridicità sacrale, anziché a esibire uno spessore preesistente. Se per il fascismo italiano abbiamo parlato di «trovate», anche nell’ambito di una superficiale mistica della morte (smentita, del resto, da una sorta di interessato cinismo ottimistico e vitalistico), le «trovate» del nazismo si collocano in un quadro di paura – da parte dei potenti del regime – più concreta, oltre che, naturalmente, di violenza non meno concreta di quella fascista. Difficilmente, d’altronde, si troverebbero nell’Italia fascista, nella retorica dei gerarchi e nell’eloquio stesso del Duce, mimica e stilemi di angoscia pari a quelli consueti all’oratoria di Hitler e dell’ultimo Goebbels, nonché, di fianco all’apologia dei miti nazionali, ricerche sistematiche del diverso come quelle che, in Germania, fecero curiosamente da pendant alle persecuzioni del diverso-ebreo, del diverso-zingaro, ecc. Le indagini svolte subito dopo la guerra su un gruppo di alti ufficiali delle SS, 115 , il non molto che è affiorato dai 115 F. Bayle, Psychologie et éthique du nationalsocialisme. Étude anthropologique des dirigeants SS, Parigi 1953.
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documenti superstiti delle organizzazioni collegate alle SS116 e dai verbali del processo di Norimberga, permettono di cogliere nella mitologia nazista una polarità Occidente – Oriente entro la quale i responsabili carismatici del vero germanesimo sembrano ribaltare i temi della propaganda guglielmina nel ’14 (la Germania aggredita innocente, la congiura dell’Intesa contro una nazione, o meglio un popolo ancora all’inizio della conquista di una sua solida fisionomia «spirituale» e di uno spazio a essa adeguato) e della Germania ulteriormente pugnalata a Versailles, nel quadro di un popolo che incarna l’autenticità dell’uomo occidentale, indebolito tragicamente da una carenza «spirituale» di tutto l’Occidente, e tuttavia depositario di quei germi o di quelle virtù eroiche che lo inducono a lottare per la riconquista del «centro» metafisico e materiale della storia. I legami antichi che univano i tedeschi (e gli occidentali in genere) con le forze da cui dipende il possesso di quel centro sono stati interrotti o viziati profondamente, «avvelenati», da diversi che vengono da Oriente, gli ebrei, e che risultano più vicini all’Oriente mistico (centro o metafora del centro metafisico) perché i germani non sono più consapevoli d’essere indo – germani,117 dunque di fatto gli eredi per «sangue» degli emissari protostorici che il centro mandò da Oriente verso Occidente per affermare le sue leggi e per irradiare la sua forza dall’Himalaya e dal Caucaso in direzione dell’Atlantico. Ammesso che il «messaggio segreto» di Mircea Eliade sia in qualche modo cristiano (come era programmaticamente cristiana l’ideologia o la mitologia della Guardia 116 E. Kogon, Der SS – Staat und das System der deutschen Konzentrationslager, Monaco 1946; G. Reitlinger, The SS Alibi of a Nation, New York 1957. 117 In Germania, non a caso, la forma «indo-germani» è prevalsa su quella «indo-europei».
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di Ferro), leggiamolo ora in chiave non cristiana: «I miti e le «religioni» [...] sono il risultato del vuoto lasciato nel mondo per essersi Dio ritirato»: l’apparato mitologico e «religioso» del nazismo è il risultato del vuoto determinato dalla perdita del «centro», dall’essersi ritirate – in un Oriente geografico o metafisico? geografico e metafisico? – le forze da cui dipende la storia. La religione e la mitologia della morte sono la reazione difensiva e tragica, ma non priva di speranza, di chi, come i protagonisti del potere e del ritualismo nazista, si sente abbandonato, insidiato, «avvelenato» da avversari che a loro volta si proclamano eletti, e si sforza di ristabilire rapporti con la fonte della vera sacralità ritiratasi «da sé in se stessa»: [...) si sarà capito che la «vera» religione inizia solo dopo che Dio si è ritirato dal mondo? Che la sua «trascendenza» si confonde e coincide col suo eclissarsi? Lo slancio dell’uomo religioso verso il «trascendente» mi fa pensare a volte al gesto disperato dell’orfano rimasto solo al mondo118
Siamo rimasti fino a ora nell’ambito di una cultura di destra mitteleuropea che, nel nostro secolo, offre l’immagine di una mescolanza triviale di esoterismo rimasticato e di razzismo, all’insegna di pratiche sacrificali e di altri elementi d’un apparato di religione della morte. Non presumiamo, certo, di spiegare la genesi del nazismo con una più o meno suggestiva dottrina esoterica, con l’affiorare di una data costellazione mitologica manipolata ad hoc dagli interessati. Ci limitiamo soltanto a esaminare l’aspetto che la cultura della destra mitteleuropea offre ad alcuni sondaggi nell’ambito del suo linguaggio o, se vogliamo, delle formalizzazioni iconiche e rituali della sua paura e della sua violenza. Da questa analisi, la religione della morte elaborata e applicata durante il cosid118
M. Eliade, Giornale, cit., p. 230.
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detto dodicennio nero risulta sezionabile in riti, strutture organizzative, obiettivi ed escatologia, anche se i confini di ciascuna sezione si dimostrano fluttuanti rispetto ai territori del vivere comune, profano, che rispettivamente vi corrispondono. Un fondo rituale fu con ogni probabilità presente sia nella fondazione delle SS, sia nell’impianto dello sterminio di intere popolazioni: ma fino a che punto il carattere ascetico del codice di comportamento delle SS, in base al quale il sommo valore positivo consisteva nell’essere così estranei alla vita da infliggere o subire la morte con la stessa tranquilla partecipazione con cui gli uomini comuni mangiano o bevono, si identificava con un carattere religioso? o non, soltanto, con un ottundimento profano e disciplinato di «impiegati postali» che – secondo le parole dell’autodifesa di W. Sievers a Norimberga – smistavano, anziché pacchi, uomini ai campi di sterminio? Fino a che punto si trattò di rituali in qualche modo iniziatici, e non, soltanto, di una cosiddetta «religione» del dovere militare e della subordinazione gerarchica? Fino a che punto i materiali mitologici del III Reich offrono le testimonianze di un deliberato e organico sforzo di sistematizzazione religiosa, e non, soltanto, di sedimentazioni culturali che erano l’unico patrimonio ideologico di Hitler o di Rosenberg e che, mal digerite, venivano adoperate (tra buonafede e malafede) per abbellire come sovrastrutture elusive la progettazione e l’attuazione di disegni politici molto meno esoterici? Alcuni di questi interrogativi sono mal posti. Non vi è ragionevole dubbio circa il fatto che Hitler e la sua corte disponessero di una cultura raccogliticcia e mal digerita; ma, d’altra parte, non vi sono ragionevoli elementi per asserire con certezza che la manipolazione propagandistica di queste sedimentazioni fosse compiuta a freddo, come calcolata tecnicizzazione di elementi mitologici che possono servire, ma nei quali non si crede o, comunque,
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nei quali non si crede tanto da subordinare a essi i propri interessi meno metafisici. Questo discorso – della «malafede» dei Grandi del nazismo – può forse essere parzialmente vero a proposito della manipolazione della mitologia germanica o pseudo-germanica, mentre non sembra affatto vero a proposito delle immagini mitiche collegate alle paure di quei Grandi e alle loro ambizioni di entrare in contatto con forze diverse (diverse anche da loro). Qui non si tratta più di propaganda: l’immagine dell’ebreo pericoloso perché possessore – pur indegno – di forze e conoscenze efficienti, e l’immagine dei veri Potenti della Terra ritiratisi in un enigmatico Oriente, non furono mai messe in circolazione, et pour cause, nell’ambito della più esplicita propaganda nazista. Le attività dell’Ahnenerbe e l’apparato dottrinale peculiare delle alte gerarchie delle SS rimasero segreti o mascherati da coperture di banalità. Quando «un generale d’Oltre-Atlantico fa sfilare la popolazione di Weimar davanti ai crematori di quel campo di concentramento», coloro che vengono costretti a visitare Buchenwald sono «cittadini che hanno tenuto dietro apparentemente con onore ai loro affari e tentato di non saper nulla, benché il vento portasse alle loro nari il puzzo di carne umana bruciata»119 ; hanno tentato di non saper nulla, dunque sapevano: ma con ogni probabilità non sapevano tutto, cioè sapevano che nei forni si bruciavano uomini, non sapevano che non si trattava soltanto di uccisioni legittimate dal fatto d’essere organizzate dal potere e dallo stato, bensì anche di rituali sacrificali, difensivi e – forse – evocatori. Sul loro carattere difensivo crediamo che ci si possa esprimere con qualche certezza: sterminare in modo definitivo gli ebrei era un’operazione che portava a compimento i rituali notturni per nulla cruenti organizzati dall’antisemitismo esoterico dei primi decenni del secolo: abbiamo già citato il 119
Th. Mann, Doctor Faustus, cit., p. 528.
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«profeta» Ludwig Derleth. Sul loro carattere evocatorio (sacrifici umani di massa, miranti a evocare forze e Potenti che amano il sangue e con i quali è necessario ricollegarsi), si possono avanzare solo ipotesi abbastanza generiche. Qualcosa, tuttavia, esce dalla genericità, ed è precisamente la mitologia dell’uccidere e dell’essere uccisi come procedura di accelerazione dell’avvento e della fondazione del nuovo regno, della nuova legge, del nuovo uomo. La guerra, voluta dagli ebrei che sono notoriamente assetati di sangue e che fin dai primordi praticarono ritualmente sacrifici umani e manipolazioni del sangue, viene sfruttata per un opposto disegno se i soldati e i civili tedeschi cominciano a morire a migliaia nel quadro di un’operazione sacrificale che li fa non vittime passive, ma – almeno nelle intenzioni di Hitler – vittime che non esitano a morire, che, nei casi estremi, vogliono morire: la resistenza fino alla morte, l’assoluto rifiuto della resa anche quando qualsiasi considerazione di logica militare profana la renderebbe opportuna o inevitabile, è l’atteggiamento che mira a salvaguardare questa connotazione rituale, l’unica per cui il tedesco che muore in guerra favorisce il futuro della Germania anziché gli interessi dei suoi nemici. Ma, simmetricamente, lo sterminio degli ebrei da un lato è la replica punitiva alla volontà ebraica di conferire, con la guerra, dimensioni gigantesche ai loro sacrifici umani, d’altro lato è un rituale cruento che – a parte la differenza qualitativa delle vittime – accelera l’avvento del nuovo regno. Così, uccidendo gli ebrei, tutti gli ebrei (perché è questo l’obiettivo preciso della «soluzione finale»), si elimina d’altronde un micidiale contingente di indegnamente privilegiati, che in massa o singolarmente sanno e possono più degli stessi tedeschi. Da questo punto di vista, l’atteggiamento dei Grandi del nazismo sembra spesso quello di chi si muove quasi alla cieca, qualcosa sa, ma non sa ancora tutto perché sapere «tutto» significa essere in rap-
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porti armonici con forze che invece si sono ritirate dall’Occidente e che, imperscrutabili, agiscono a loro assoluta discrezione, tanto da consentire che dei Robinson d’Oriente «completamente immorali e perversi» (come Jung-Stilling definiva gli ebrei) seducano e violentino gli ingenui Venerdi, eredi degli indo-germani.
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II. IL LINGUAGGIO DELLE IDEE SENZA PAROLE
Neofascismo sacro e profano Siamo abituati a parlare di neofascismo dalla faccia feneo ascismo in doppio petto, distinzione che, se la si riferisce a due stili di comportamento, risulta appropriata: lo stile di comportamento dei neofascisti è di volta in volta essenzialmente da faccia feroce o da doppio petto, oppure mostra una calcolata mescolanza dei due ingredienti in varie proporzioni. La medesima distinzione è meno appropriata quando si esamina la sfera ideologica piuttosto nebulosa che corrisponde a quel comportamento. In questo paragrafo cominceremo a vedere che, sebbene grossolanamente si possa anche parlare di ideologia neofascista da faccia feroce oppure da doppio petto, di fatto le due etichette non corrispondono bene agli ingredienti ideologici essenziali, si presentino essi allo stato puro o, come è più frequente, mescolati tra loro. Più appropriata, se la si riferisce agli ingredienti e agli atteggiamenti ideologici, è una distinzione tra neofascismo per così dire sacro e profano, o anche esoterico ed essoterico. I due termini di questa seconda distinzione non sono l’esatto corrispettivo (gli omologhi) di quelli della prima in un diverso ambito di riferimento: né il neofascismo sacro o esoterico né quello profano o essoterico sono l’esatto corrispettivo, nell’ambito dello stile ideologico, del neofascismo dalla faccia feroce o di quello in doppio petto, nell’ambito dello stile di comportamento. Questa mancanza di omologia fra l’alternativa di comportamento e l’alternativa ideologica lascia sospettare nel neofascismo, e forse in tutto il fascismo, vecchio e nuovo, una frattura tra prassi politica e ideologia che noi esamineremo qui
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soprattutto dal punto di vista della storia della cultura, ed a cui altri studiosi hanno già accennato, partendo da punti di vista diversi. Nel 1967 l’editore Giovanni Volpe ha pubblicato un libretto di Saint Loup (pseudonimo di Mare Augier), I volontari europei delle Waffen SS: traduzione e prefazione di Adriano Romualdi120 «Traducendo per la prima volta alcune sue pagine nella nostra lingua siamo lieti di segnalare in Italia uno scrittore così significativo e di render giustizia alla memoria delle Waffen SS» (p. 10). La cosa più interessante di questa prefazione è il suo tono. L’apologia delle Waffen SS è accompagnata da espressioni quasi salottiere di editoria un po’ passata di moda: «siamo lieti di segnalare in Italia uno scrittore così significativo»; da debolezze piccolo – borghesi, nei confronti del prestigio dell’aristocrazia: «[la] presenza nelle file delle SS di una élite di persone capaci e intelligenti tra cui molto numerosi gli aristocratici (anche alcuni membri di case regnanti [sic] tedesche)»(p. 6); dall’attribuzione non altro che di borghesissime virtù al capo delle SS: «la metodica laboriosità di Himmler» (ivi); e perfino dalla citazione, come testimone a favore, di un uomo di destra, sì, ma di triviale e opportunistica destra borghese, quale Konrad Adenauer, di cui sono riportate con compiacimento le parole: «le Waffen SS erano soldati come tutti gli altri»(p. 9, nota). Viene da obiettare che Himmler sarà stato certamente metodico e laborioso (lavorava a tavolino ogni giorno dalle 8 alle 20; contrassegnava metodicamente migliaia di pratiche con un gel [=gelesen, «letto»] seguito dalla 120 Giovanni Volpe (editore in Roma), figlio di uno dei principali storici ufficiali del fascismo, Gioacchino Volpe, ha pubblicato tra l’altro: P. Drieu La Rochelle, José Antonio Primo de Rivera, M. Bardèche, A. Bonnard, J. Evola. Sugli editori specializzati nella militanza di destra vedi oltre, pp. 98-99
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sua sigla, HH, sottolineata121 ), ma, a quanto risulta, si riteneva la reincarnazione dell’imperatore romano e re di Germania Enrico 1 l’Uccellatore, e dunque si sarà stimato degno di memoria per ben altre virtù, ben più singolari della «metodica laboriosità». Del pari, tanto Himmler quanto in generale gli altri ufficiali superiori che portavano sulle mostrine «le rune della vittoria» (p. 6) presumibilmente avrebbero poco gradito essere definiti «soldati come tutti gli altri». Himmler non solo riuniva intorno alla sua tavola, in privato, un numero fisso di dodici convitati nei quali si possono riconoscere a piacere i cavalieri della Tavola Rotonda, i dodici del Consiglio Circolare del Dalai Lama, i dodici membri del Circolo Interiore dell’Agarttha o altre dozzine essoteriche122 , ma aveva parlato chiaramente non di «soldati come tutti gli altri», bensi di «un Ordine di sangue puro [...] per servire la Germania»123 e a questo «Ordine» aveva conferito un abbondante apparato rituale e simbolico. Al processo di Norimberga le SS furono definite «associazione criminale», e questa è innanzitutto l’accusa che A. Romualdi vuole smentire nella sua introduzione. Nella nota in cui cita fra l’altro Adenauer, egli ritiene che sia sufficiente e credibile dichiarare: «Nonostante le Waffen SS non avessero avuto nessuna parte nella persecuzione degli Ebrei, il tribunale di Norimberga le bol121 R. Manvell, H. Fraenkel, Heinrich Himmler, Longanesi, Milano 1966. 122 Cfr. R. Guénon, Il re del mondo, trad. it. di A. Reghini, Atanòr, Roma 19522, pp. 35-36.
F. Bayle, Psychologie et éthique du nationalsocialisme. Étude anthropologique des dirigeants SS, Parigi 1953, p. 414; l’autore di questo libro (che raccoglie una quantità di documenti e di dichiarazioni dei capi delle SS) è uno psichiatra francese che immediatamente dopo la fine della guerra ebbe la possibilità di parlare a lungo con alti ufficiali delle SS in attesa d’essere processati. 123
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lò quale «associazione criminale»». È interessante notare che Romualdi nello stesso libro accenna alla «tragedia degli ebrei»; in una nota (a p. 36) egli scrive: «Le atrocità inimmaginabili commesse dall’Armata Rossa costrinsero alla fuga ben 15 milioni di Tedeschi [...] 3 milioni perirono, o per i disagi e i maltrattamenti, o sistematicamente sterminati dai Sovietici, o scomparsi in Siberia. Migliaia di essi si uccisero con le loro famiglie per non dover subire le sevizie dei Russi. È una tragedia che l’Occidente ignora, ma che non è per nulla inferiore a quella degli Ebrei» [il corsivo è nostro]. Dunque, perfino secondo Romualdi ci fu una «tragedia degli ebrei», e perfino secondo lui fu tale da poter essere citata come termine di paragone a proposito di quella che egli dichiara un’altra enorme e «per nulla inferiore» tragedia. Ma allora, secondo lui, chi fu responsabile della «tragedia degli ebrei»? Non le SS, egli dice. Quindi altri soldati tedeschi? Ma in tal caso non converrebbe presentare come testimonianza a favore la dichiarazione che le SS «erano soldati come tutti gli altri». Per quanto possa sembrare paradossale, l’impressione è proprio questa: che Romualdi ricorra solo per comodità di propaganda alla versione «soldati come tutti gli altri», e di fatto sia convinto della differenza radicale tra le SS e gli altri soldati tedeschi. È vero che a Norimberga gli ufficiali superiori delle SS che figuravano tra gli imputati si attennero generalmente alla linea di difesa «soldati come tutti gli altri». Alcuni di loro, però, come per esempio il generale SS Otto Ohlendorf, insistettero sui «valori puramente spirituali» che la loro generazione aveva trovato nelle SS dopo il vuoto causato dall’isterilirsi e dalla morte del cristianesimo. Ohlendorf era per così dire un uomo di cultura, laureato in giurisprudenza e in economia. Fu capo della Sezione III dell’Ufficio centrale di sicurezza di Himmler ed esperto per il commercio estero al Ministero dell’econo-
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mia del Reich; fra il giugno 1941 e il giugno 1942 comandò l’Einsatzgruppe De, per sua stessa ammissione a Norimberga, fece sterminare circa novantamila tra uomini, donne e bambini124 – A Norimberga la linea di condotta degli imputati SS aveva anche una ragione concreta: tentare di sfuggire alla condanna grazie al principio per cui i «soldati come tutti gli altri» non sarebbero punibili dei reati commessi nell’adempimento del dovere militare; ed è logico, quindi, che in quell’occasione gli ufficiali delle SS scegliessero di rinunciare temporaneamente all’orgoglio di dichiararsi soldati diversi da tutti gli altri, «un Ordine». Sembra, del resto, che il colonnello SS Wolfram Sievers, segretario dell’esecutivo dell’Ahnenerbe e responsabile della fornitura di materiale umano al professor August Hirt per i suoi «studi anatomici»125 , una volta condannato e sul punto d’essere giustiziato, abbia rinunciato alla maschera di «soldato come tutti gli altri» chiedendo di poter celebrare per l’ultima volta il suo «culto» con inconsuete «preghiere», insieme con il maestro spirituale suo e dell’Ahnenerbe, Friedrich Hielscher. L’interrogatorio di Sievers è riportato nei verbali di Norimberga, ma, a quanto ci risulta, non esistono testimo124 F. Bayle, Psychologie et éthique du nationalsocialisme, cit., p. 477. Una parte della deposizione di Ohlendorf (non però i riferimenti ai «valori puramente spirituali», che si trovano nel libro di. Bayle) è riprodotta in W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, trad. it. di G. Glaesser, Einaudi, Torino 1963, pp. 1035-1038. 125 Si tratta del prof. August Hirt, direttore dell’istituto di anatomia dell’università di Strasburgo: per un quadro delle sue attività v. W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, cit., pp. 1056-1060. Hirt alla fine della guerra è sfuggito all’arresto ed è scomparso, dopo aver adottato durante gli interrogatori la solita tattica – «Io non ho nulla a che fare con l’uccisione di quella gente. Ho semplicemente eseguito il compito di un impiegato della posta» –
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nianze che siano al tempo stesso minuziose e attendibili circa il suo comportamento nelle ultime ore126 , per cui bisogna prendere con molta cautela le ipotesi intorno a questo suo pur parziale disvelarsi in extremis. Qualche cosa di più si sa intorno all’Ahnenerbe (la parola significa «eredità ancestrale»), che Romualdi menziona nella sua prefazione tra la «quantità di competenze e di iniziative» che le SS raccolsero nelle loro mani: «... centri di studi come l’Ahnenerbe che si occupava della religione e delle origini indoeuropee» (p. 6). Cosa in realtà facesse l’Ahnenerbe è piuttosto chiaro. Fondato privatamente da Fr. Hielscher, «apolitico» saggio e maestro di esoterismo, amico di Sven Hedin e di Ernst Jünger, l’Ahnenerbe, poi assorbito dall’organizzazione delle SS, era un cospicuo apparato destinato a fornire i presupposti teorico-pratici per la formazione di una «razza della Tradizione» e per il recupero della cultura «tradizionale». Vi si commettevano atrocità come gli esperimenti medici del prof. Hirt e di altri. Quanto al valore scientifico delle indagini, che pure vi si svolgevano, sulle mitologie e religioni indoeuropee, si può semplicemente citare il giudizio del maggiore specialista moderno di studi indoeuropei: in Germania «la nozione di «ariano» ha poi assunto gli sviluppi a volte ingenui, a volte feroci, che sono noti [...] Né varrà la pena di insistere qui sui dan126 La testimonianza è in Trial of the Major War Criminals before the International Military Tribunal, Norimberga s. a., vol. xx, pp. 521-525. (una parte è riportata in W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, cit., pp. 1057-1059). Un resoconto delle ultime ore di Sievers si trova in L. Pauwels e J. Bergier, Il mattino dei maghi, trad. it. di P. Lazzaro, Mondadori, Milano 19713 , pp. 371-374: a proposito di questo libro veci in precedenza, p. 53, nota 2.
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ni provocati dal nazismo anche in questo ambito, danni che altrimenti sarebbe stato facile evitare»127 Ora, correndo l’anno 1967, per un apologeta delle SS come Adriano Romualdi la ragione di cautela che poteva valere per gli ufficiali processati a Norimberga non sussisteva più. Evidentemente ci saranno stati altri motivi: o Adriano Romualdi era effettivamente convinto che le SS fossero «soldati come tutti gli altri», sia pure un po’ più «leggendari» e selezionati degli altri128 , e riconosceva nel loro aver a modello «i grandi ordini monastico-guerrieri, in particolare l’Ordine Teutonico»(p. 5) solo una caratteristica culturale essoterica (di una cultura sui generis: come la vernice romana del fascismo italiano); oppure era convinto del carattere esoterico e delle prerogative occulte delle SS, ma per qualche ragione non giudicava opportuno parlarne ai destinatari del libro, presumibilmente fedeli camerati o prossimi adepti, ma estranei al novero ristretto dei veri cultori di quelle convinzioni – i quali veri cultori, fra l’altro, avrebbero dovuto poter leggere Saint Loup nell’originale, ammesso che interessasse loro un libro in cui si «narra, in maniera romanzata ma sulla scorta di documenti e testimonianze, la storia delle SS francesi» (p. 9; il corsivo è nostro). Un libro divulga127 G. Dumézil, «Religion et mythologie préhistoriques des Indo-européens», in Histoire générale des religions, sous la direction de M. Gorce et R. Mortier, Quillet, vol. I, Parigi 1948, p. 444. 128 «Dal 1933 esistevano anche alcuni reggimenti di SS, la SS Verfügungsgruppe, addestrata come truppa d’élite dai generali Hausser e Steiner, intesi a creare un nuovo tipo di soldato-atleta e a rivoluzionare tutte le concezioni della strategia. Anche i conservatori della Wehrmacht rimasero di stucco quando videro formazioni delle Waffen SS percorrere tre kilometri in venti minuti a piccoli salti. [...] Il loro leggendario eroismo, i successi spettacolari di questi «ultimi figli del dio della guerra»...(A. Romualdi, prefazione a I volontari europei, ecc., cit., p. 6).
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tivo, dunque. E prima di cercare di capire se divulgazione in questo caso, nelle intenzioni di Adriano Romualdi, fosse introduzione semplice e avvincente alla storia di alcuni comportamenti che l’autore della prefazione riteneva esemplari, ma pur sempre essoterici, oppure versione per i profani di avvenimenti e disegni essoterici, è indispensabile esaminare il contenuto del libro vero e proprio, le pagine di Saint Loup. Sono pagine molto rozze anche dal punto di vista letterario, indubbiamente destinate a lettori di bocca buona, in cui vengono narrati alcuni episodi dell’addestramento e dei combattimenti delle SS francesi. Il tono è questo: Un tenente dell’armata Rommel ha pregato Chabert, un giovane sottufficiale degli spahis sahariani, di spiegargli cosa cercasse nelle Waffen SS. Chabert gli ha risposto: «La croce di ferro. Ho bisogno d’onore». [p. 12]
Di «sacro», non nel senso del «sacro» onere militare che è essoterico, e simili, ma nel senso di dottrine o esperienze occulte, non c’è nulla. Compaiono, certo, gli esemplari cavalieri dell’Ordine Teutonico, modello dei neofiti nelle SS, ma in modo poco esoterico; anzi, alcune parole lasciano intendere che si tratta di un apparato didattico abbastanza profano o tutt’al più di «miti efficaci». Gli «Junkers delle WafFen SS francesi» arrivano nella loro caserma a Tölz: Posata su questo altopiano consunto da un’erosione apocrifa, serrata tra linee architettoniche inscritte in un piano orizzontale, si stendeva la Marienburg dei nuovi cavalieri teutonici...
Oltrepassarono un barbacane di sogno, un semplice tetto in equilibrio su due muri di granito che era lì solo per impressionare i nuovi venuti. Piegarono le spalle sotto una volta pregotica...[p. 19; il corsivo è nostro].
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L’unico accenno a misteri si trova nell’ultimo capitolo. Due ufficiali delle SS francesi sono accompagnati a Hildesheim dal loro capo, Le Fauconnier, un «intellettuale», «compagno di scuola di Robert Brasillach» (pag. 26), per formare una compagnia a destinazione speciale. Probabilmente si è nel 1945 («L’agonia della Germania hitleriana incominciava», p. 36). Il mistero consiste nel compito della compagnia a destinazione speciale: Dove stiamo andando, Hauptsturmführer? chiese il tenente Malhart. Alla «Haus Germania». È là che è dislocata la centrale per la propaganda delle Waffen SS straniere. Il nostro incarico ufficiale è la redazione di «Devenir», giornale della divisione Charlemagne. E quello ufficioso? Le Fauconnier rise, poi disse, con tono burlone: La compagnia a destinazione speciale è incaricata di annunciare al mondo l’Evangelo secondo Adolf Hitler! Malhart, cercate di non fare domande stupide. Presto saprete tutto quel che è necessario sapere. Niente di più, ma anche niente di meno! [p. 39]. Arrivano allo «Haus Germania» di Hildesheim, dopo aver percorso le strade antiche della cittadina ( «non era facile risalire dall’era teutonica all’era hitleriana», ivi); trovano «un insieme di edifici moderni costruiti su un antico monastero» (ivi), naturalmente di notte. Là, «nella realtà sfavillante di una galleria a volte romaniche, interamente modernizzata e oscillante nel chiarore di una luce indiretta» (ivi), sentono un «capo» che di lontano suona Bach all’organo, poi vedono passeggiare nel chiostro due ufficiali della «SS Nera», «come monaci di Solesmes o d’una Certosa» (p. 42). E qui finisce il libro; il lettore non sa quale fosse il compito misterioso della compagnia a destinazione speciale; viene solo a sapere che, come dice l’ultima frase, il «capo» che di lonta-
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no «suonava l’organo, anticipava l’ora della disfatta e già prendeva possesso della notte» (ivi). Se ci si chiede cosa possa gustare di questo libro il lettore non colto, e nemmeno adepto in senso esoterico, cui esso è destinato da evidente materiale di propaganda grossolana qual è, si può solo rispondere che il camerata o futuro camerata apprezzerà i discorsi sull’onore militare e sulla casta militare internazionale: Come soldato simpatizzo con tutti i soldati d’Europa. I volontari francesi [nelle Waffen SS] portano la croce di ferro accanto alla Legion d’Onore, anche quando se la sono guadagnata contro i tedeschi. Due splendide decorazioni di due nazioni diverse sullo stesso petto: ecco la nuova Europa129
e le lodi dello sport che tempra l’animo virile. La guerra è quasi quasi equiparata a una sportiva prova di valore dall’ufficiale delle SS che apprezza la presenza della Legion d’Onore di fianco alla Croce di Ferro. Lo sport è presentato come componente essenziale nella formazione delle SS, e nella prefazione si precisa che Saint Loup è «detentore del record di campeggio invernale sulla Jungfrau» (p. 9). La smania del campeggio sportivo, di cui si sono avute ancora prove recenti in Italia da parte degli amici di Adriano Romualdi, è cosa vecchia; nel presentare sulla rivista «Antieuropa» la tesi di laurea di un gio129 Queste parole sono riportate da Romualdi come dichiarazione dell’Obergruppenführer SS Gottlob Berger. H. R. TrevorRoper (in The Last Days of Hitler, New York 1947, pp. 124127) riferisce la testimonianza di Berger, il quale si recò a Berlino, nel Bunker della Cancelleria, durante gli ultimissimi giorni di Hitler: in base a questa testimonianza Shirer (Storia del Terzo Reich, cit., p. 1204) definisce Berger «uno di quegli ingenui tedeschi che credevano realmente nel nazionalsocialismo». Si direbbe piuttosto che Berger fosse sì un nazista convinto, ma soprattutto (e le due cose evidentemente non si escludono affatto) un militare convinto.
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vane fascista, Asvero Gravelli scriveva: «Cabalzar era al campo, allorché dovette discutere la sua laurea in scienze politiche: venne da me recando nel cuore la poesia dei monti d’Abruzzo. Scese a Genova, si meritò l’elogio e ritornò sui monti a comandare un campeggio di avanguardisti all’estero. Così i giovani fascisti: cosi quelli che si batterono e che operano». « – Sui monti: nella verità e nel perfetto spirito dell’Italia madre»130 . È probabile che il camerata lettore apprezzi anche i riferimenti al medioevo, ai Cavalieri Teutonici, a quel tanto di mistero che circonda il compito della compagnia a destinazione speciale (per non parlare della musica che «prendeva possesso della notte»). È però da escludere che egli afferri l’unico riferimento preciso, in tutto il libro, alle effettive presunzioni esoteriche delle SS: la collocazione proprio a Hildesheim del misterioso compito di quella compagnia. Si può essere certi che nessuno dei lettori cui è destinato il libro ha mai saputo che Hildesheim fu realmente nel medioevo un centro di dottrine esoteriche; che nel Tesoro di Hildesheim sono conservati i due candelabri ritrovati nella tomba del vescovo Bernvardo, il quale avrebbe tradizionalmente racchiuso nelle figurazioni che li ornano la summa del suo sapere alchemico131 ; che a Hildesheim esiste ancora oggi la cosiddetta Casa dei Templari. Non solo nessun lettore «grosso», cui è destinato il libro, ha mai saputo queste cose, ma l’autore stesso non ha fatto nulla per rivelargliele (pur scegliendo proprio Hildesheim come luogo di quel «mistero», e quindi riferendosi celatamente alla tra130 A. Gravelli, nota introduttiva a: F. G. Cabalzar, Paneuropa ed Antieuropa, in «Antieuropa», anno II, n. 8, 1° agosto 1930, p. 1297. – Su A. Gravelli vedi pure p. 82. 131 Una riproduzione dei candelabri, con relativo commento, in T. Burckhardt, L’alchimia, trad. it. di A. Staude, Boringhieri, Torino 1961, p. 60 e tav. 3.
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dizione della cittadina sassone, pregiata dall’Ahnenerbe) e non ha neppure menzionato la Casa dei Templari fra gli edifici che i suoi personaggi vedono durante la loro passeggiata notturna: Presto la forma delle case andò modificandosi. Erano entrati armai nella Hildesheim medievale. I tetti, dagli alti frontoni gotici, divenivano sempre più aguzzi, le strade sempre più strette. Le facciate delle case sporgevano ed incombevano a limitare prospettive aperte sul cielo inazzurrato dalla luna. La notte si specchiava sui dorsi curvi e lastricati delle vie. Intorno, un tremolio di lumi mascherati. Il vento spirante sulla piana di Westfalia faceva oscillare le insegne di ferro battuto. Il «Grasso Maiale» si mise a grugnire mentre il «Vecchio Tessitore» gemeva in cima alla sua asta rugginosa. [...]Andavano dalla «Scrofa tessitrice» al «Gatto pescatore», tra fontane asciutte e piazze deserte, sotto una danza di finestre a crociera chiuse su segrete felicità... In questa città, in cui non esisteva la minima soluzione di continuità fra passato e presente, non era facile risalire dall’era teutonica all’era hitleriana. [pp. 38-39]
Fra tanto dispiego di colore medievale e tanto parlare, qui e altrove, di Cavalieri Teutonici, ci si aspetterebbe almeno un accenno alla vera tradizione di studi esoterici in Hildesheim durante l’alto medioevo, e alla Casa dei Templari (gli esoteristi, compresi quelli nazisti, hanno sempre riconosciuto in quest’Ordine il depositario di compiti misteriosi, passati poi in eredità ai Cavalieri Teutonici dopo la distruzione del Tempio)132 . Invece, nulla. Ma in compenso la scelta di Hildesheim come luogo conclusivo del libro e sede dell’unico mistero che vi compare. 132 Cfr. per esempio R. Guénon, Il re del mondo, cit., pp. 16, 67, e passim;«I Custodi della Terra santa», in Simboli della scienza sacra, trad. it. di F. Zambon, Adelphi, Milano 1975, pp. 81-88.
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C’è da chiedersi se, a parte Saint Loup (il quale fece parte delle SS, e d’altronde avrebbe difficilmente scelto Hildesheim se fosse stato ignaro di tutto ciò), lo stesso Adriano Romualdi fosse davvero al corrente di queste implicazioni esoteriche, oppure le ignorasse così come certamente le hanno ignorate ed erano destinati a ignorarle i lettori del libro. Nel curriculum di Adriano Romualdi figlio del vicesegretario del MSI, e legato a Ordine Nuovo, amico di Freda e di Giannettini133 , c’è un elemento in base al quale si può sospettare che egli non fosse all’oscuro dell’esoterismo «di Hildesheim». Romualdi era infatti, se non amico, laudatore di Julius Evola, di cui tra l’altro scrisse una sorta di biografia culturale134 e non c’è dubbio che Evola, con tutto il suo gusto per l’alchimia135 , fosse benissimo a conoscenza del vescovo Bevardo e del suo prestigio. Resta però da vedere se Evola stesso, certamente al corrente dèll’esoterismo medievale a Hildesheim e altrove, attribuisse qualche credito al suo tentato recupero da parte dei nazisti, e se in ciò Romualdi lo seguisse. Evola si occupò di esoterismo, di Tradizione con la maiuscola, fin dalla giovinezza, e non se ne occupò solo da puro storico erudito, ma da persona che ci credeva. In generale, però, e in particolare da quan do in Italia si cominciò a parlare di esoterismo na133 Cfr. l’intervista di G. Giannettini con M. Scialoja, «L’Espresso», 24 marzo 1974: «Freda l’ho conosciuto a Padova nel ’67; deve avermelo presentato un amico comune, Adriano Romualdi...[...] Quanto ad Ordine Nuovo, sono amico di Romualdi e conosco Rauti, che stimo...». Adriano Romualdi morì in un incidente automobilistico nell’agosto del 1973. 134 A. Romualdi, Julius Evola: l’uomo e l’opera, Volpe, Roma 1968. 135 Una voluminosa opera di Evola è dedicata all’alchimia, cui si riferiscono anche vari passi di altri suoi scritti; la sua stessa autobiografia porta il titolo alchemico Il cammino del cinabro (Scheiwiller, Milano 1972).
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zista con più insistenza, negli anni ’60 (auspice anche Il mattino dei maghi di L. Pauwels e J. Bergier), Evola dichiarò più volte che erano tutte fandonie: che in linea di massima i gerarchi nazisti non avevano mai avuto preoccupazioni del genere, e che comunque, se mai qualcuno di loro si era davvero interessato di esoterismo, certo non era stato altro che un dilettante grossolano. In queste sue dichiarazioni si possono vedere due cose: o soltanto l’ostilità che Evola ebbe nei confronti del nazismo «rozzo» anche quando contrappose il suo razzismo «spiritualistico» al razzismo «biologico» nazista136 , e magari l’orgoglio del cultore della Tradizione che non tollera concorrenti, com’è frequente; oppure una speciale cautela a non parlare oggi di queste cose, anzi a negarne le più o meno fondate evidenze, per una qualche ragione che potrebbe essere la stessa per cui Adriano Romualdi maschera e per così dire borghesizza i presunti aspetti occulti delle Waffen SS. Gli atteggiamenti rispettivamente di Evola e di Romualdi dinanzi alla prassi da seguire oggi nella vita quotidiana allo stile di com portamento, sono solo apparentemente contrastanti. Nel suo libro conclusivo e autobiografico Evola dichiara in sostanza che la Tradizione e la civiltà altra si sono definitivamente ritratte da questa fase della storia del mondo, e che quindi non bisogna più sperare in una salvezza proveniente dal rapporto individuale con quella Tradizione: non si può più far altro che difendere la propria interiorità in perfetta apolitìa, bisogna applicarsi al problema puramente individuale consistente nel far sì che «ciò su cui io non posso far nulla, nulla non possa fare su di me».[...]Nel dominio politico e sociale non esiste più nulla che meriti veramente una piena dedizione e un profondo impegno. 136
Vedi oltre, pp. 83-84.
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Salvo, e c’era da spettarselo, nei confronti della lotta contro il comunismo perché se è vero che per «l’uomo della Tradizione» è insignificante «l’antitesi tra «Oriente» e «Occidente»», è pur vero che «una presa di posizione può essere suggerita da motivi crudamente pratici, in quanto l’Oriente comunista comporta 1a eliminazione perfino fisica di chiunque non si pieghi alla sua legge»137 . Adriano Romualdi esorta invece all’azione: bisogna che i veri rivoluzionari-conservatori, superando il nazionalismo delle singole patrie, creino il nazionalismo della Nazione Europa, sacro e severo, e così operosamente difendano «la civiltà europea». Se il nazismo e il fascismo, pur preveggenti sotto molti aspetti, erano legati al loro tempo, le SS furono veramente le grandi anticipatrici di questo nazionalismo europeo e a esse bisogna attivamente ispirarsi: Nel 1944, su 910.000 soldati delle Waffen SS, oltre la metà erano stranieri. Fu così che le Waffen SS divennero il punto d’incontro della gioventù guerriera d’Europa e un esperimento rivoluzionario che faceva saltare i quadri del vecchio nazionalismo. Con le Waffen SS il fascismo, che nei varii paesi era stato un movimento prevalentemente nazionalista, si fece europeo e lottò per una unità imperiale europea contro l’americanismo e il bolscevismo. La stessa idea «ariana» servì ad allargare la visuale del fascismo tedesco, e cioè del nazismo, prima su prospettive nordiche e pangermaniche, poi più decisamente europee.138
Di Tradizione con la maiuscola, neanche una parola. Anzi, nella biografia di Evola, Romualdi scrisse: Chi abbia vissuto a Roma negli ultimi quindici anni ha conosciuto ogni specie di «evoliani»: dai più bizzarri «tradizionaliJ. Evola, Il cammino del cinabro, cit., pp. 198-208. A. Romualdi, prefazione a I volontari europei, ecc., cit., pp. 7. 137 138
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sti» a maniaci dell’occulto fino ai buffoncelli alla moda che mescolano Evola al comunismo à la page dei vari Che Guevara139
E nel dir questo era perfettamente ligio al maestro, preoccupato negli ultimi anni di vita di dichiarare chiusa la sua «fase «tradizionale»», e di spingere «varie persone che [lo] avevano seguito» in quella fase verso «un diverso orientamento», non senza «qualche scontro polemico con ambienti che ancora nutrono delle illusioni sulle possibilità offerte dai «residui tradizionali» esistenti nel mondo d’oggi»140 . La apolitìa predicata dall’ultimo Evola non è così contrastante come parrebbe con l’attivismo «europeistico» di Romualdi. Vi è innanzitutto il denominatore comune ovvio della lotta contro il comunismo: secondo Evola l’antitesi fra Oriente e Occidente è insignificante per l’uomo della Tradizione, ma solo contro l’Oriente è prevista la legittimità di una presa di posizione (perché i comunisti, e solo i comunisti, ammazzano); secondo Romualdi i nazionalisti europei, súll’esempio delle SS, devono lottare «contro l’americanismo e il bolscevismo», ma resta evidente che «il più feroce nemico della civiltà europea [è] il comunismo russo»141 . C’è però un altro punto di coincidenza preciso fra questi due atteggiamenti, uno di apolitìa, l’altro di attivismo. Evola raccomanda, sì, l’apolitìa e la difesa null’altro che dell’interiorità individuale, ma si preoccupa di precisare: però non per ognuno, non pel primo venuto, bensì per un tipo particolare, per l’uomo della Tradizione, per chi interiormente non appartiene al mondo moderno, che come patria e come A. Romualdi, Julius Evola, cit., p. 7. Vedi in precedenza p. 79, nota 1. 141 A. Romualdi, prefazione a I volontari europei, ecc., cit., p. 139
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luogo spirituale ha l’altra civiltà e che per tal via presenta anche una particolare struttura interiore142
Gli altri, chi non è il puro «uomo della Tradizione» e forse non presenta «una particolare struttura interiore», possono però anch’essi finire inquadrati nell’insegnamento dell’ultimo Evola. Egli dice infatti che il suo libro conclusivo è anche dedicato a chi non può o non vuole staccarsi dal mondo attuale ed è pronto ad affrontarlo e a vivervi perfino nelle forme più parossistiche senza però cedere interiormente, mantenendovi la propria indifferenziata personalità143
In altre parole: ci sono uomini «differenziati» e «indifferenziati». I primi possono e vogliono staccarsi dal mondo attuale, e devono praticare l’apolitìa. I secondi, che non possono o non vogliono staccarsi dal mondo attuale, hanno il permesso di «vivervi perfino nelle forme più parossistiche», purché non cedano interiormente. È evidente che Evola collocava se stesso tra i primi; ma Romualdi poteva benissimo collocarsi fra i secondi, o almeno – nel caso che egli stesso si collocasse tra i primi – assumere la funzione di istruttore e animatore dei secondi (non per nulla, nel libretto delle SS europee, ha una parte di primissimo piano l’istruttore e animatore, dal rango e dalla personalità nettamente superiori a quelli dei discepoli). I saggi, i forti e puri «uomini della Tradizione», praticano l’apolitìa; quelli meno saggi, meno forti e puri, se sono capaci di non «cedere interiormente» all’illusione di poter «agire su processi che ormai, dopo gli ultimi crolli, hanno un irrefrenato corso»144 , possono legittimaJ. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 202. Ibidem 144 J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 198. 142
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mente dedicarsi all’attivismo «europeistico», che da parte di fascisti non è cosa molto nuova. Fin dall’inizio degli anni ’30 un’ideologia abbastanza simile a quella di A. Romualdi era stata proclamata dal gruppo di «Antieuropa» intorno ad Asvero Gravelli e Gabriele Gabrielli. Nel fascicolo-supplemento al primo numero della rivista «Antieuropa» (1929) era comparso un saggio di Gravelli dal titolo significativo: L’idea storica fascista: Difesa dall’Europa e funzione antieuropa. Noi siamo l’eresia della moderna Europa. Il tono, da chiamata a raccolta di tutti i gruppi fascisti europei (non a caso un esponente di «Antieuropa», F. G. Gabalzar, fu inviato in Romania dai Comitati di Azione per l’Universalità di Roma, per stabilire contatti fra il fascismo italiano e la Guardia di Ferro145 ), non è molto diverso da quello del testo che compare nell’ultima pagina di copertina della «Collezione Europa» dell’editore Volpe (in cui fu pubblicato il libro di Saint Loup, I volontari europei, ecc., cit.): EUROPA è la luce del mondo classico e il brivido dell’oscurità contemporanea, l’aurora boreale della preistoria e la luce del crepuscolo sospesa su Berlino in fiamme. EUROPA è una parola d’ordine per quelli che credono nella rinascita del nostro continente quale alternativa aristocratica e qualitativa contro il mondo della quantità e delle masse, contro il materialismo democratico americano e il materialismo comunista russo.
Resta da chiedersi, però, in cosa possa consistere – nel quadro tracciato da Romualdi – la legittimità dell’attivismo «europeistico», se tanto non serve a niente (processi che ormai, dopo gli ultimi crolli, hanno un irrefrenato corso). Per rispondere a questo interrogativo bisogna considerare innanzitutto una cosa: lo schema antropologi145 Cfr. Th. I. Armon, Fascismo italiano e Guardia di Ferro, in «Storia Contemporanea», III, 1972, 3, pp. 505-548.
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co proposto dall’ultimo Evola è ricalcato esattamente su quello consueto a numerose dottrine iniziatiche. Vi sono due classi di persone: quella di coloro che giungono al secondo e più alto grado dell’iniziazione, e quella di coloro che, non potendo o non volendo staccarsi dal mondo, restano a un primo grado. Il comportamento di questi ultimi non può essere forte e puro e privo di illusioni quanto basta; occorre quindi che gli iniziati di grado superiore, i saggi, orientino gli iniziati di grado inferiore verso il raggiungimento di obiettivi mondani (in questo caso, l’attivismo «europeistico») che di per sé sono vani, privi di qualsiasi utilità, ma che hanno una preziosa funzione didattica. A forza di perseguire per disciplina degli obiettivi vani, e di insistere al tempo stesso nella difesa della propria interiorità minacciata dal contatto col mondo, anche gli iniziati di grado inferiore, per ora troppo poco forti e puri, si faranno le ossa, diventeranno un giorno sufficientemente forti e puri da poter accedere al grado superiore. In questo caso, il processo di perfezionamento, promosso da un’appropriata didattica del compito inutile, può richiedere molto più della vita di un individuo: ma qui si punta sulla razza, come fu sempre consuetudine di Evola e anche del suo discepolo Romualdi, e la razza si perfeziona, si migliora, diviene più forte e più pura nel tempo di molte generazioni; a poco a poco la razza, non il singolo individuo, accederà al grado più elevato dell’iniziazione; i pochi «uomini della Tradizione», se riusciranno nel loro compito, avranno fatto si che dalla loro didattica dei compiti inutili nasca una «razza della Tradizione». Naturalmente si tratta di quella «razza dell’anima» (e del corpo), «razza nuova», derivata dalle vicende della «razza dello spirito», di cui Evola parlò specialmente nelle sue opere Il mito del sangue (Milano 1937) e Sintesi della dottrina della razza (ivi 1941). Al razzismo di Evola fu attribuita la qualifica di «spiritualistico» dai suoi op-
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positori, soprattutto dopo la pubblicazione del secondo libro146 . Parole come «spirito», «spiritualità», «idea spiritualmente rivoluzionaria», si ritrovano del resto nell’opera stessa di Evola. R. De Felice147 ha esaminato la copia della Sintesi della dottrina della razza che appartenne a Mussolini e reca le sue sottolineature; tra i brani sottolineati compaiono la «spiritualità» e l’«anima»: ... occorre mantener viva la tensione spirituale, il superiore fuoco, l’interna anima formatrice, che elevò originariamente quella materia fino a quella determinata forma, traducendo una razza dello spirito in una corrispondente razza dell’anima e del corpo. [p. 82] Una idea, dato che agisca con sufficiente intensità e continuità in un dato clima storico e in una data collettività, finisce col dar luogo a una razza dell’anima. e, col persistere dell’azione, fa apparire nelle generazioni che immediatamente seguono un tipo fisico comune nuovo, da considerarsi, da un certo punto di vista, come razza nuova. [p. 125]
La differenza tra «spirito» e «anima» è in Evola un’evidente rimasticatura del conflitto tra «spirito» (Geist) e «anima» (Seele) in Klages. E si capisce che di fronte a queste finezze metafisiche potesse risultare grossolano il comportamento di un razzista triviale come Himmler: «Ho visto io stesso tutte le fotografie dei candidati [alle SS], e mi sono sempre chiesto: si vedono in quest’uomo segni di sangue inferiore? ha egli gli zigomi troppo sviluppati, sintomo di origine mongola o slava?»148 . Ma se poi si tiene conto del fatto che lo stesso Evola parla 146 G. Landra, Razzismo biologico e scientismo. Per la scienza e contro i melanconici assertori di un nebuloso spiritualismo, in «La difesa della razza», 5 novembre 1942, pp. 9-11. 147 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 19723 , pp. 251-252. 148 F. Bayle, Psychologie et éthique du nationalsocialisme, cit., p. 394 sgg.
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di «razza dell’anima e del corpo», e che non disponiamo di documenti precisi circa le farneticazioni metafisiche di Himmler (che pure vi furono), si è propensi a supporre che lo Himmler «triviale» sia solo una faccia della reincarnazione di Enrico l’Uccellatore, e che «l’ultimo Ghibellino» (così chiamavano Evola alcuni suoi discepoli, e così fu definito nell’intervista che rilasciò alla rivista «per soli uomini» Io) non dovesse essere così ostile a quel Richsführer SS. L’uno agiva nel Reich, l’altro «in partibus Latinorum», ed è cosa nota che la didattica esoterica è sempre attenta ad adeguarsi alle circostanze, ai luoghi e ai tempi. Evola stesso, d’altronde, pur con tutte le sue riserve verso i rozzi nazisti, si era espresso in modo molto lusinghiero nei confronti di Hitler: Invero, assumere come base le idee-madri di questo scritto «apocrifo» [i Protocolli dei savi anziani di Sion] significa anche possedere un sicuro filo conduttore per scoprire il significato unitario più profondo di ogni più importante rivolgimento dei tempi ultimi. Ed è per questo che Adolfo Hitler ha riconosciuto, senza esitare, ad un tale scritto, il valore del più potente reattivo per il risveglio del popolo tedesco149 .
Farneticazioni, si dirà. Certo. E farneticazioni così poco esplicite da poter essere colte nella loro trama solo con gli strumenti dell’antropologia culturale e della storia delle religioni. Ma la nostra impressione è che queste farneticazioni abbiano una parte non trascurabile nelle attività terroristiche degli ultimi anni. Evidentemente le bombe e le stragi hanno avuto ben altra funzione nella vita politica del paese. Ma è tutt’altro che da escludere questo: che gente mirante a partecipare al mondo attuale «perfino nelle forme più parossistiche», avendo di149 J. Evola, Introduzione a I «protocolli» dei «savi anziani» di Sion, versione italiana con appendice e introduzione, Ed. La Vita Italiana, Roma 1938, III ed., p. XVIII.
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nanzi agli occhi il modello delle SS e il miraggio di una razzadella Tradizione da ottenere mediante l’imposizione di compiti inutili, sia stata armata e adoperata da altri per fini molto meno metafisici (di fronte all’espressione «compiti inutili» viene spontaneo pensare al gesto inutile di certi personaggi gidiani, al delitto gratuito di Lafcadio nelle Caves du Vatican che però non è imposto da nessuno e proprio in questo ha il suo significato). Evidentemente non c’è da aspettarsi di trovare traccia di un’espressione come «compiti inutili» nelle pagine dell’ultimo Evola, di Romualdi o di altri. Non bisogna dire al neofita che il compito che gli si impone è di per sé inutile e ha solo una funzione didattica, serve unicamente a migliorare lui stesso, ad addestrarlo a conservarsi interiormente forte e puro «perfino nelle forme più parossistiche» della vita di questo periodo storico. Questo non si deve dire al neofita, perché altrimenti si correrebbe il rischio di vederlo non eseguire il suo compito. Anche perché – ed è una cosa che i maestri di didattica esoterica sanno da sempre – il neofita, per quanto di buona volontà e dotato (anzi: quanto più è dotato), è continuamente esposto alla tentazione di credersi già arrivato a un grado superiore, già maturo, e quindi di rifiutare compiti inutili puramente propedeutici e di chiedere in cambio compiti già di per sé utili. È continuamente esposto al rischio di venir meno alla disciplina, per sopravvalutazione di sé, e di non percorrere fino in fondo l’itinerario formativo che gli è indispensabile. I neofiti con cui avevano a che fare Evola e Romualdi erano indubbiamente imperfetti (come lo sono quelli con cui hanno a che fare i maestri sopravvissuti) e lontani dalla rigorosa autodisciplina dell’ufficiale SS che eseguiva «il compito di un impiegato della posta» inviando materiale umano agli «esperimenti anatomici» del professor Hirt. Non erano ancora sotto il «silenzio cosmico [che] pesava sulle duemilasettecento stanze della Burg popo-
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lata da quasi diecimila uomini. Diecimila fantasmi!»150 . Era quindi indispensabile far credere loro che quei compiti fossero già di per sé utili, per scuotere le coscienze del paese, per rompere la mollezza di una popolazione disavvezza al rigore e infrollita nel benessere. Per preparare, insomma, l’avvento di quella Nazione Europa che nelle parole di Romualdi rivolte ai neofiti è un preciso e relativamente vicino obiettivo politico anche profano, ma che presumibilmente nel pensiero di Evola e nel pensiero privato dello stesso Romualdi era una sacrale razza della Tradizione che non avrebbe mutato il corso degli avvenimenti profani in questa fase del mondo destinata alla fine, al Kali-Yuga151 , ma avrebbe compiuto il dovere metafisico dell’uomo affrontando la fine del ciclo cosmico come la sentinella di Pompei celebrata da Spengler: interiormente forte, pura, imperturbata, immobile sotto l’eruzione tanto da conservare nel calco l’atteggiamento di un cadavere «all’erta». Ripetiamo: è tutt’altro che da escludere questo: che almeno una parte degli atti terroristici degli ultimi anni siano stati progettati come compiti inutili dagli istruttori, dai didatti della Tradizione, e Saint Loup, I volontari europei, ecc., cit., p. 20. Questa espressione sanscrita (usata da Evola) designa nel Tantrismo l’ultimo dei cicli cosmici, la «presente fase cosmico – storica in cui lo Spirito si trova nascosto e «decaduto» in una condizione carnale», in cui «la verità viene sepolta nelle tenebre dell’ignoranza. Per questo compaiono in continuazione nuovi Maestri e riadattano la dottrina atemporale alle fragili possibilità di una umanità decaduta». Citiamo da M. Eliade, Lo Yoga. Immortalità e libertà, ed. italiana a cura di F. Jesi, trad. di G. Pagliaro, Rizzoli, Milano 1973, pp. 246-247, 277. Ricaviamo le definizioni del Kali-Yuga proprio da questo libro (che del resto è un’opera scientificamente rigorosa e seria), perché Evola ebbe rapporti diretti con Eliade e con la sua cerchia (o meglio con la cerchia del suo maestro Nae Ionescu e di Codreanu) di fascisti rumeni (vedi in precedenza p. 34 sgg.). Ne parla anche lo stesso Romualdi in Julius Evola, cit., p. 43. 150 151
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fatti credere compiti di per sé utili ai neofiti. Il fatto che progettazione ed esecuzione siano state presumibilmente favorite e strumentalizzate da altri per altri fini (mentre i didatti della Tradizione saranno stati persuasi d’essere loro a strumentalizzare quegli aiuti per i loro fini)avrà contribuito a suscitare quegli atti terroristici al momento giusto. Ma se la nostra ipotesi ha una qualche veridicità, può anche servire a spiegare alcuni atti terroristici nei confronti dei quali è arduo applicare il cui prodest (a meno che non si presupponga l’idiozia degli esecutori, che è sempre possibile). Nella grande maggioranza dei casi bombe e stragi sono servite chiaramente a qualcuno; ma in qualche raro caso viene da chiedersi chi, se non un idiota (che naturalmente può esserci), abbia ritenuto di ricavarne vantaggio. E non è detto che casi del genere non possano ripetersi. Se davvero, alle spalle del terrorismo, vi sono dei progettatori di compiti inutili, non si può escludere, tra l’altro, che talvolta essi sfuggano al controllo di chi ha interesse di strumentalizzarli e di far scoppiare la bomba al momento giusto. Neofascismo «sacro», «esoterico», è quello dei didatti della Tradizione. Neofascismo «profano», «essoterico», è quello di chi strumentalizza costoro. Sono due stili ideologici diversi. I due stili di comportamento, da faccia feroce e da doppio petto, si ritrovano sia negli atteggiamenti degli uomini della Tradizione che «non possono o non vogliono staccarsi dal mondo attuale», sia in quelli dei neofascisti profani. Il profano ed essoterico Almirante li alterna a suo piacimento; ma già li alternava il sacro ed esoterico Adriano Romualdi (sacro ed esoterico con molte cautele e maschere, per ragione didattica), il quale era sì dispostissimo a imborghesire le Waffen SS nella prefazione al libro che abbiamo esaminato, ma in una nota del medesimo libro, là dove l’istruttore «intellettuale» nonché «snello e poderoso» delle SS incaricato di tenere «il corso di Weltanschauung» dichia-
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ra: «Da molto tempo ormai anch’io, quando mi si parla di cultura, tiro fuori la pistola», commentava: «Quando sento parlare di cultura tolgo la sicura alla mia pistola». Questa celebre frase è stata di volta in volta attribuita a Hans Johst e al maresciallo Goering. Oggi, 1967, coi tipi di «intellettuali» che girano a piede libero in Italia e in Europa, sarebbe il caso di rimetterla in onore152
Non è vero, dunque, che lo stile di comportamento da faccia feroce sia solo prerogativa dei neofascisti «sacri» per orientamento ideologico, né che lo stile da doppio petto sia solo prerogativa dei neofascisti «profani». Gli uni e gli altri usano sia l’uno sia l’altro stile di comportamento. Per i neofascisti «sacri» ciò dipende dal fatto che l’uso di entrambi gli stili di comportamento è legato alla pratica del mondo – ed essi ricorrono a entrambi gli stili solo quando «non possono o non vogliono staccarsi dal mondo attuale» (Evola, l’uomo della apolitìa, non usò né lo stile da faccia feroce né quello da doppio petto, bensì solo quello del saggio). Per i neofascisti profani e sempre immersi nel mondo, la cosa è ovvia. L’alter152 Saint Loup, I volontari europei ecc., cit., p. 27 e nota (di A. Romualdi). Hanns [non Hans] Johst, dal 1935 al 1945 presidente della Camera degli scrittori del Reich e della Accademia tedesca della poesia, non era propriamente un «commediografo fallito» come dice Shirer (Storia del Terzo Reich, cit., p. 266) e come di fatto era Goebbels. Fu un autore di drammi espressionistici come Der Einsame. Ein Menschenuntergang (1917) che fecero la loro figura nel panorama dell’epoca (Baal di Brecht è una sorta di parodia di Der Einsame). L’opera esplicitamente nazista di Johst è Schlageter (1933), in memoria di A. L. Schlageter, fucilato nel 1923 dai francesi come sabotatore e presentato da Johst come «ultimo soldato della guerra mondiale, ma primo soldato del Terzo Reich» (cfr. P. Chiarini, Bertolt Brecht, Laterza, Bari 1959, pp. 66, 68, 71; L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dal realismo alla sperimentazione, vol. II, Einaudi, Torino 1971, p. 1274).
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nativa: stile di comportamento da faccia feroce oppure da doppio petto, brutalità squadristica o unzione dabbene, è peculiare della profanità e della sua prassi, politica. Il neofascismo ideologicamente sacro la accetta nei limiti in cui accetta di interferire con la profanità. Si tratta ora di studiare la genesi storica dei due filoni ideologici e i loro rapporti reciproci, tenendo presente che nello stile di comportamento degli esponenti di ciascuno dei due possiamo ritrovare sia la grinta del teppista, sia la «faccia d’uom giusto», e che per di più dal comportamento dei neofascisti ideologicamente «sacri» possono anche affiorare le sembianze del saggio. Prestigio culturale di saggi. Julius Evola La borghesia italiana moderna, in particolare la piccola e la media borghesia, non ha mai avuto una spiccata propensione per l’esoterismo e i Cavalieri del Graal. Un po’ di occultismo – ma in dosi molto scarse e indubbiamente inferiori a quelle assorbite, per esempio, dalla borghesia tedesca o francese –; un po’ di massoneria (e non per la piccola borghesia), ma spesso anche questa laicizzata, molto più anticlericale, liberale, risorgimentale, che rivolta ai «centri segreti». Questo vale certamente per la maggioranza, non per i singoli adepti o per le singole, piccole confraternite, miranti innanzitutto alla metafisica e all’occulto, che pure ci furono. Da un lato, deve essere probabilmente contato molto, quale freno nei confronti dell’esoterismo cosmopolita del primo ’900, il peso della tradizione cattolica con tutte le sue censure e, per converso, con tutto il suo apparato di miracoli ed esperienze sovrannaturali, capaci di soddisfare molti affamati di occulto, senza lasciarli cadere nell’eterodossia. Si ricordi che specialmente in Italia (anche se non solo qui) la chiesa cattolica tra l’ultimo ’800 e il primo ’900 si è sforzata di
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presentare la propria dottrina come una conciliazione serena di tesori soprannaturali e di tranquilla esistenza nel mondo. D’altro lato, la mancanza di un ampio retroterra culturale (ampio nel senso dell’entità numerica di chi ne fosse partecipe) ha limitato la presa di organizzazioni come la Società Teosofica; avevano pi,: seguaci Mantegazza e Lombroso. E, come s’è detto, la stessa massoneria appariva a molti dei suoi adepti più come l’associazione di liberi spiriti destinata a svolgere la funzione di un partito per chi nutrisse diffidenza verso i «politicanti», che come una vera e propria società segreta dalle radici e dagli scopi occulti. L’ideologia del neofascismo «sacro» non proviene direttamente dalla cultura della maggior parte della piccola e media borghesia dei primi decenni del secolo. E salvo rari casi non si ricollega direttamente neppure alla cultura della grande borghesia (che del resto non ebbe in Italia le radici e le occasioni di espansione culturale proprie alla grande borghesia d’altre nazioni europee). In fondo, tra la fine dell’800 e i primi del ’900, la grande borghesia fu in Italia una classe numericamente limitatissima, per lo più non così forte e ricca, date le vicende economiche del paese, da riuscire a contrapporre il suo potere, solo recente, e una sua fisionomia culturale autonoma al prestigio dell’ultima aristocrazia. La quale del resto, se si eccettuano singole e rare personalità, aveva sì ancora prestigio, ma non possedeva e in alcune regioni non aveva mai o quasi mai posseduto in tempi moderni una vera e propria fisionomia culturale che andasse molto al di là della buona educazione. Neppur essa, quindi, ha rappresentato, come classe dotata di una cultura sua, la vera matrice diretta dell’ideologia del neofascismo sacro. Il Duca d’Aosta poteva tutt’al più coltivare ambizioni di affermazione dinastica, un po’ verniciate di araldica e finto antico, entro un circolo riservato che aveva per emblema il giglio di Francia e che fu poi pieno di simpa-
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tia per il fascismo; ma la sua mistica guerresca non andava molto oltre il mito del comandante della «gloriosa III armata», assai più essoterico di quello di colui che «dal guardo dei profani de’ fuggir». E la sua consorte, pur viaggiando «Vers le soleil qui se leve»153 , non parve andare incontro a un Oriente molto misterioso, né trovarlo anche solo per caso. Borghesia, aristocrazia, in Italia hanno trovato tranquille soddisfazioni nella cultura fascista che era essenzialmente essoterica e profana. L’ideologia fascista e poi neofascista essoterica e sacra è soprattutto arrivata dall’estero, e nei casi in cui è riuscita a conquistarsi una certa aureola culturale prestigiosa ha approfittato di una situazione estremamente provinciale. È tipico l’esempio di Evola, che continua a essere trattato con un certo rispetto, sia pure solo «culturale», anche da studiosi non fascisti. Julius Evola è un personaggio con cui ancora nessuno ha fatto bene i conti. Non basta, infatti, dichiararlo un razzista così sporco che ripugna toccarlo con le dita (il che è vero) e così insulso che non vale la pena di dedicargli alcuna attenzione (il che non è vero). Questa è la posizione assunta nei suoi confronti da vari studiosi che in tal modo si sono privati dell’occasione di esaminare un materiale significativo. Ma nello stesso tempo non si può ammettere che abbiano fatto veramente i conti con Evola quegli altri studiosi che sono rimasti in qualche modo rispettosi della sua aureola culturale: esaminarlo co153 È il titolo del volume che raccolse i suoi ricordi di viaggio in Oriente: S. A. R. la Princesse Hélène de France, Duchesse d’Aoste, Vers le soleil qui se lève, Viassone, Ivrea 1916. Lo stile è questo: «On se tait saisi par l’harmonie et la douceur ambiante. On se tait en face du panorama qui se déroule aux yeux émerveillés. On se tait et on se croirait transporté dans un lieu enchanté...» (p. 5).
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me una personalità culturale significativa non deve affatto voler dire attribuirgli meriti e statura culturali rilevanti. Nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo R. De Felice riconosce in Evola un esponente di quello che egli definisce genericamente il «razzismo italiano, spiritualistico», e «da un certo punto di vista» finisce per dichiararlo «più degno di rispetto», per attribuirgli una qualche «dignità» e «serietà», ponendolo a confronto con gli esponenti del razzismo «biologico»: E davanti ad un simile quadro, ci si vede costretti anche per gli uomini di cultura a constatare, così come abbiamo dovuto fare per i politici, che, da un certo punto di vista, i più degni di rispetto furono tra essi i razzisti convinti. Non già, sia ben chiaro, i Landra e i Cogni, le pallide e pedisseque vestali del razzismo nazista, ma gli Evola e gli Acerbo, coloro che, imboccata ognuno una propria strada, la seppero percorrere, in confronto a tanti che scelsero quella della menzogna, dell’insulto, del completo obnubilamento di ogni valore culturale e morale, con dignità e persino con serietà. [...] L’Evola [...] respinse anche più recisamente ogni teorizzazione del razzismo in chiave esclusivamente biologica, tanto da tirarsi addosso gli attacchi e il sarcasmo dei vari Landra. Con ciò non vogliamo dire che la teoria «spiritualistica» della razza fosse accettabile, essa aveva però almeno il pregio di non disconoscere del tutto certi valori, di respingere le aberrazioni tedesche e alla tedesca e di cercare di mantenere il razzismo (che, indubbiamente, da Boulainvilliers a De Gobineau e Renan, da Herder e Kant a Nietzsche, da Fichte a Vacher de Lapouge ha avuto un suo valore culturale ed etico, oltre che politico) sul terreno di una problematica culturale degna di questo nome154 .
Già Delio Cantimori nella prefazione all’opera di De Felice aveva accennato, sia pure con molta cortesia o con molta cautela, una critica di queste parole: 154
R. De Felice, Storia degli ebrei, ecc., cit., pp. 385-386.
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... non mi sento di condividere il giudizio che «da Boulainvilliers [...] a Vacher de Lapouge [il razzismo] ha avuto un suo valore culturale ed etico...» [il corsivo è di Cantimori]. Peso e importanza, è un fatto. Valore, se nel termine è implicito un qualsiasi giudizio in senso positivo, proprio non mi pare. Pur se sono di grandi uomini, o di grandi «popoli», le degenerazioni non hanno valore, – anche se possono avere gran peso e gravi conseguenze, – né culturale, né etico155
E poco prima aveva parlato del pericolo «di incorrere nel tranello (inerente al carattere stesso del razzismo e dell’antisemitismo) di accettare, sia pure per inciso, la sua pretesa di avere un «valore» culturale»156 . A queste parole che mi sembrano sagge, vorrei aggiungere che la stessa espressione di De Felice «una problematica culturale degna di questo nome» apre uno spiraglio sul fatto che si tratti di un «tranello» non solo «inerente al carattere stesso del razzismo e dell’antisemitismo», ma inerente a una cultura (magari non intrinsecamente razzista) per la quale ogni atteggiamento caratterizzato da un sufficiente decoro intellettuale formale e quindi anche da una sufficiente coerenza con i suoi presupposti, possiede un qualche «valore», quale che sia il «giudizio in senso positivo» implicito senza dubbio nel termine «valore». Dal punto di vista di questa cultura, certo: Evola resta «sul terreno di una problematica culturale degna di questo nome». Con la citazione di un altro autore facciamo ancora un passo indietro, cioè vediamo attribuita a Evola una maggiore e più specifica dignità culturale. Giorgio Galli, in La crisi italiana e la Destra internazionale, dopo aver definito Evola «uno dei più qualificati rappresentanti [della cultura di destra] in questo secolo» e non solo in Italia, e dopo aver ricordato che Giorgio Almirante 155 156
Ivi, p. XVI. Ibidem
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ebbe a lodare Evola come «il nostro Marcuse, ma più bravo»157 , scrive la seguente nota: Le analogie tra Evola e la scuola di Francoforte (Marcusse, Horkheimer, Adorno) sono indubbie, specificamente per quanto riguarda la critica della società di massa e della sua democrazia manipolata. Evola può vantarne la priorità cronologica. Tali analogie possono essere fatte risalire all’influenza di Bachofen e della sua teoria del matriarcato sia su Evola, sia sui sociologi di Francoforte158 .
E questo discorso ci sembra veramente sconcertante, tanto più se andiamo a guardare da vicino la sua radice. Bachofen? Adottando l’espressione cosi urbana usata da Cantimori ad altro proposito, diremo anche noi qui: «proprio non mi pare». È vero che Bachofen è citato nella Dialettica dell’illuminismo (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di L. Vinci, Einaudi, Torino 1966, p. 62, nota 2 (di p. 61). ) , è anche
vero che qualche francofortese si occupò di Bachofen, e che soprattutto se ne occupò Walter Benjamin, vicino ai francofortesi, e parlò della sua opera come di una «profezia scientifica»159 ; ma di qui a riconoscere nella presunta influenza di Bachofen la matrice di «indubbie» analogie tra Evola e la scuola di Francoforte il passo è mol157 G. Galli, La crisi italiana e la Destra internazionale, Mondadori, Milano 1974, p. 20. 158 Ivi, p. 199, nota 9. 159 Cfr. E. Fromm, Die sozialpsychologische Bedeutung des Mutterrechts, «Zeitschrift fr Sozialforschung», 1934, ristampato in Analytische Sozialpsychologie und Gesellschaftstheorie, Francoforte s. M. 1970, p. 91 sgg.; W. Benjamin, Johann Jakob Bachofen [1934-35], lª ed. dall’originale francese, in «Les Lettres Nouvelles», n. 11, gennaio 1954, pp. 28-42; la lª ed. in trad. tedesca, in «Text + Kritik», Heft 31-32, ottobre 1971, pp. 28-40. Cfr. Materialien zu Bachofens «Das Mutterrecht», hgb. von H. J. Heinrichs, Suhrkamp, Francoforte s. M. 1975.
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to lungo (per non parlare della «priorità cronologica» di Evola). E sia l’opera di G. Galli che abbiamo citato, sia un suo libro precedente in cui egli già accennava a simili temi160 , danno l’impressione che questo passo cosi lungo sia stato reso da Galli assai più corto in un modo semplice ma quanto meno azzardato: evitando, cioè, di passare attraverso il punto centrale, rappresentato nella fattispecie dai dieci monumentali volumi delle opere di Bachofen, circa seimila fitte pagine in lingua tedesca, mai tradotti in alcuna altra lingua, se non per brevi frammenti. Non crediamo di assumere una posizione solo da eruditi pedanti, se diciamo che per affermare. l’esistenza di quelle famose analogie bachofeniane tra Evola e i francofortesi bisognerebbe innanzitutto aver letto Bachofen. E aver letto Bachofen non può significare aver letto soltanto, delle circa seimila pagine che egli scrisse, le 250 dell’antologia bachofeniana in inglese161 o le 250 scelte e tradotte in italiano proprio da Evola162 , il quale fra l’altro in questa occasione è stato un pessimo traduttore163 . 160 G. Galli, La tigre di carta e il drago scarlatto – il pensiero di Mao Tsetung e l’Occidente, Il Mulino, Bologna 1970. 161 Myth, Religion and Mother Right, Selected Writings of J. J. Bachofen, trad. inglese di R. Manheim, Princeton Univ. Press, 1967. 162 J. J. Bachofen, Le madri e la virilità olimpica. Studi sulla storia segreta dell’antico mondo mediterraneo, con una introduzione di J. Evola, Bocca, Milano 1949. Titolo e sottotitolo sono evidentemente di Evola. Esiste inoltre un’antologia francese ancora più esigua: J. J. Bachofen, Du règne de la mère au patriarcat, pages choisies par A. Turel, Alcan, Parigi 1938, pp. 164. In italiano è stato anche tradotto il breve saggio di Bachofen, Il popolo Licio, trad. it. di E. Giovannetti, La Meridiana (Sansoni), Firenze 1944, e di recente è uscita un’altra raccolta antologica, J. J. Bachofen, Il potere femminile, a cura di E. Cantarella, Il Saggiatore, Milano 1977. 163 Inutile qui raccogliere un florilegio delle sviste, che sono numerosissime e vanno da vere e proprie deformazioni del
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Nelle opere di G. Galli non vi è traccia del Bachofen non tradotto (cioè quasi tutto),164 e non vi è neppure traccia di un’informazione accurata circa la cultura tedesca dei primi decenni del ’900: in particolare, circa la Bachofen-Renaissance che ebbe luogo entro circoli della destra165 . Questa informazione, unita alla vera lettura
senso del discorso, a equivoci buffi, ma in fondo secondari, come Clearco che diviene «il Klearch» (p. 60) o «le navi di Taue» anziché «le gomene delle navi» (p. 68). È anche piuttosto grave il fatto che Evola tagli qua e là, ma non indichi mai i tagli (vi sono dei vuoti per es. a p. 38 riga 19; p. 43 riga 9; p. 44 riga 10; p. 64 riga penultima; ecc.). 164 Per chi volesse verificare i punti su cui divergiamo dalle interpretazioni di G. Galli, rimandiamo per ora a: F. Jesi, Il mito, cit., passim (e, in futuro, alla nostra edizione del Mutterrecht in preparazione presso Einaudi). In generale comunque, nelle pagine di Galli, Bachofen non è molto più che l’autore di alcuni brani dell’Introduzione al Mutterrecht. 165 La bibliografia in proposito è vastissima. In F. Jesi, Il mito, cit., un capitolo è dedicato alla Bachofen-Renaissance e alla posizione di W. Benjamin in contrasto con la lettura di Bachofen consueta alla destra. Per Klages, Bachofen fu «la più grande esperienza letteraria della sua vita»; v. in particolare di L. Klages, Von kosmogonischen Eros, Monaco 1922; l’introduzione alla Gräbersymbolik, Basilea 1925; Bachofen als Erneuerer des symbolischen Denkens, in Corolla L. Curtius, Stoccarda 1937, p. 177 sgg. Cfr. AA. VV., Hestia. Beiträge zur Würdigung und Weitergabe d. Werkes von L. Klages, Bouvier, Bonn 1960; H. Kasdorff, L. Klages. Werk und Wirkunk. Einfürung und kommentierte Bibliographie, Bouvier, Bonn 1969. Klages, insieme con A. Schuler e K. Wolfskehl fece parte del gruppo dei «Münchner Kosmiker» che fiancheggiava St. George e che aveva riconosciuto in Bachofen il precursore e il profeta: F. Wolters, St. George und die Blätter für die Kunst. Deutsche Geistesgeschichte seit 1890, Berlino 1930, p. 230 sgg.; L. Thormaehlen, Erinnerungen an St. George, aus dem Nachlass, hgb. von W. Greischel, Hauswedell, Amburgo 1962; G. P. Landmann, St. George und sein Kreis, Kiepenheuer & Witsch Colonia 1966
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di Bachofen, avrebbe reso abbastanza chiaro che i circoli della Bachofen-Renaissance furono, sì, molto critici nei confronti «della società di massa e della sua democrazia manipolata» e, anzi, di ogni democrazia (la «priorità cronologica» spetterebbe dunque, semmai, non a Evola ma a George o a Klages!); ma che quando i francofortesi si occuparono di Bachofen (e questo vale soprattutto per Benjamin, dal momento che né Adorno, né Horkheimer, né Marcuse se ne occuparono poi molto) lo fecero proprio per dimostrare il contrario di ciò che sostenevano quei circoli di destra; che, infine, quella Bachof en – Renaissance ebbe i suoi prosecutori e radicalizzatori (che accusavano di mollezze e di esitazioni i maestri) in alcuni teorici del nazismo come Alfred Baeumler, e che da tutto questo complesso di destra più radicale, meno radicale, più «tradizionale» e lontana dalla politica militante, o più profana e impegnata nella lotta politica, Evola ricavò lo spunto e spesso la materia delle sue elucubrazioni. Si capisce che queste elucubrazioni, portate in un’Italia
(e se si vuole la testimonianza di un nazista: K. Hildebrandt, Erinnerungen an St. George, Bouvier, Bonn 1965). Vedi inoltre le pubblicazioni della «St. George Stiftung» (Edizioni Küpper, Düsseldorf) e della Castrum Peregrini Presse (Amsterdam): fra queste ultime, in particolare, il saggio di E. Gundolf, St. George und der Nationalsozialismus, pubblicato insieme con un altro scritto della stessa autrice, Meine Begegnungen mit R. M. Rilke und St. George, e con una prefazione di L. Helbing, 1965. Di A. Schuler vedi Fragmente und Vortr6aumlge aus dem Nachlass, hgb. von L. Klages, Monaco 1940 (Klages diresse poi con C. A. Bernoulli la BachofenGemeinde). Quanto al vero e proprio nazista A. Baeumler, i suoi scritti bachofeniani (1926 sgg.) sono stati recentemente ristampati in Das mythische Weltalter. Bachofens romantische Deutung des Altertums, Beck, Monaco 1965. Indicazioni generali sulla Bachofen-Renaissance si trovano anche in E. K. Winter, in «Zeitschrift fr d. ges. Staatwissenschaft», 1928, p. 316 sgg.
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provinciale in cui già il fatto stesso della scarsa conoscenza della lingua tedesca pone una barriera verso le fonti (e sovente, oltre agli equivoci, un’aureola intorno a ciò che è la piatta ripetizione di quelle fonti), potessero e possano ancora trovare qualcuno disposto a considerarle originali o comunque collocate «sul terreno di una problematica culturale degna di questo nome». Del resto Evola ha sempre avuto l’accortezza di non alienarsi il rispetto (sia pure «da un certo punto di vista») di studiosi che si professano antifascisti. Non diciamo che l’abbia fatto apposta, perché può darsi benissimo che dall’alto della sua saggezza «tradizionale» nutrisse un fiero disprezzo verso coloro; ma certo si è verificata una coincidenza significativa. A differenza da Baeumler, egli non si è mai dichiarato paladino dei roghi di libri, anche se bisogna precisare che implicitamente, da intellettuale, s’intende, ha dato una mano ai forni crematori non per libri ma per uomini. E, come abbiamo detto, si è generalmente mostrato abbastanza ostile al nazismo in senso stretto, che per lui era triviale. Proprio in questo si coglie il suo atteggiamento. Per i fascisti vecchi o nuovi che amano la metafisica, o meglio la Tradizione, Evola non era affatto «il nostro Marcuse, ma più bravo». Queste cose È quindi una lettura «rivoluzionaria» dell’opera di Evola quella che il Baillet ci propone: una lettura radicalmente diversa da quella proposta da quanti, attribuendo un indebito risalto a orientamenti marginali di tipo «ancien régime» – marginali perché legati a propensioni soggettive –, hanno utilizzato Evola («il nostro Marcuse», secondo la definizione che essi ne hanno dato) come un alibi per il loro mestiere di mercenari (mal pagati) al servizio degl’interessi imperialistici e mercantili.
Questa apologia di Evola, che però esprime «l’esigenza di andare al di là di Evola stesso, deducendo coerentemente, dalle indicazioni da lui fornite sul piano della dottrina metapolitica, una pratica radicale e spregiudica-
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ta, la quale soddisfi la necessità di innestare i valori della Tradizione sul veicolo della lotta di popolo»166 , viene da un francese, Baillet, e suscita varie considerazioni, non ultima una domanda circa la consistenza e la natura della variegata destra francese, dall’Ordre Nouveau di J. – F. Galvaire, alla traduzione francese della Disintegrazione del sistema di G. Freda (ricambiata con la traduzione italiana de L’aggressione sionista di Bardèche, Duprat e Rassinier, pubblicata dalle edizioni di Ar), a forme di evolismo in doppio petto. Le Edizioni di Ar (e il «Gruppo di Ar») si collegano all’attività di F. Freda e G. Ventura; hanno sede a Padova, e il loro nome deriva dalla radice «indogermanica» ar che, agli occhi dei promotori, si ritroverebbe non a caso nelle parole «ariane» esemplari: arethé, Ares, aristokratía, vir, Herr. Pubblicano i Discorsi sull’arte nazionalsocialista di Hitler, La conquista di Berlino di Goebbels, le opere di Codreanu e di I. Mota, ma anche vari saggi di Evola e testi nettamente essoterici come La faccia verde di G. Meyrink, La guerra occulta di E. Malynski, Sugli dèi e il mondo di Sallustio (Flavio?) o di Secondo Saturnino Sallustio. Oltre alle Edizioni di Ar è opportuno citare qui le Edizioni all’insegna del Veltro (Parma) – i loro libri sono presentati nel catalogo delle Edizioni di Ar –, maggiormente specializzate in questioni di alchimia, e le Edizioni Arthos [Oggero Editore], con sede a Carmagnola (Torino), che pubblicano anch’esse Evola e ristampano «in vinilpelle con fregi in oro» Il mondo magico de gli heroi di Cesare della Riviera. Problemi di residenza obbligata hanno probabilmente fatto sì che, mentre qualche anno fa i libri delle Edizioni di Ar venivano stampati da tipografie della zona di Padova, i volumi più recenti delle Edizioni di Ar e delle Edizioni all’insegna 166 Le citazioni relative al libro di Ph. Baillet sono tratte dal Catalogo aprile 1978 delle Edizioni di Ar, Padova, p. 6.
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del Veltro siano stati stampati a Catanzaro e a Vibo Valentia; a Manduria, invece, è stato stampato nel febbraio 1977 per conto delle Edizioni all’insegna del cavallo alato (che dichiarano la loro sede a Bolzano), un libretto Magia della fiaba. Le radici metastoriche dei racconti magiari di fate di C. Mutti, attivissimo nelle parmigiane Edizioni all’insegna del Veltro e curatore, per le Edizioni di Ar, di Gheddafi, templare di Allah (1975). Per la destra «esoterica» italiana, che esiste e sembra dunque specializzata in neonazismo, Evola era tutt’altro che il profano Marcuse: era un man of knowledge (per usare l’espressione di Carlos Castaneda)167 , uno «stregone»; non «il nostro Marcuse», ma semmai « il nostro Guénon» – col fatto che Marcuse può rientrare oggi fra gli ingredienti di uno slogan pubblicitario (e a questo mirava Almirante), mentre è un po’ difficile vendere un Guénon dalle nostre parti, se non a pochi raffinati. Ma la fragilità culturale dell’estrema destra italiana, sia quella di Almirante, sia quella dei suoi apparenti censori, può essere illustrata, fra l’altro, dal fatto che Evola non era neppure un René Guénon. Non si prendano queste parole per un’apologia di Guénon; ma anche chi sia consapevole degli arbitrii etimologici e in genere della afilologia (del resto dichiarata)di Guénon, non può negargli una notevole priorità su Evola quanto alla conoscenza diretta delle fonti e all’originalità, a volte stimolante, del pensiero. Con tutte le debite distinzioni, è possibile riconoscere in Guénon un continuatore degli esoteristi del tardo ’700 e dell’800 francese, dunque un esponente di quel «conoscere per composizione» che non mette in crisi il razionalismo scientifico (perché, a differenza per esempio da O. Spengler, non si colloca in alcun modo all’intemo del suo ambito, per scardinarlo: unicamen167 C. Castaneda, L’isola del Tonal, trad. it. e introduzione di F. Jesi, Rizzoli, Milano 1975, passim.
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te parla con voce di oracolo), ma dà spesso il senso della fluidità, della trasparenza elusiva e dell’inafferrabilità di meccanismi mitologico-esoterici. Insomma: qualche volta Guénon può essere adoperato per finalità scientifiche (che egli avrebbe rifiutato), ma è rarissimo il caso di poter adoperare per quelle finalità Evola (se non, forse,. la sua opera sull’alchimia che presenta un apparato erudito abbondante, anche se – a nostro parere – non sempre di prima mano, e carente proprio là dove una documentazione storica e filologica sarebbe maggiormente possibile: per esempio, uno degli alchimisti sul quale esiste una delle più ricche documentazioni è John Dee, ma a lui Evola accenna appena). Qui d’altronde non si tratta (né poi ci interessa molto), di tracciare una graduatoria fra «stregoni» più o meno originali e sapienti. Si tratta soltanto di chiarire che, anche per gli estimatori della cultura purché sia cultura, Evola non dovrebbe possedere molta aureola. Ebbe, sì, il gusto delle curiosità culturali estravaganti, frequentò circoli culturali europei in cui gli oggetti di quelle curiosità erano pregiati e manipolati, ed ebbe anche una buona conoscenza del tedesco (la pessima traduzione della piccola antologia bachofeniana dev’essere considerata un incidente, forse dovuto alla necessità di lavorare troppo in fretta per guadagnare, perché la sua traduzione del Tramonto dell’Occidente di Spengler è «decisamente ben fatta, anche se non priva qua e là di sviste abbastanza spiegabili in un’opera così voluminosa»)168 Ma fu un rimasticatore, e un commesso viaggiatore che molto presto scelse, non stupido, di separarsi dalla casa madre e di mettersi in proprio in una provincia come l’Italia, lontana dalle centrali soprattutto tedesche e anzi barricata contro quella direzione: si pensi soltanto al saggio 168 C. Cases, La croce di Hegel e le perle di Plebe, «Belfagor», 30 novembre 1972, p. 724, nota 24 (di p. 723).
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spregiativo e superficiale di Croce su «Bachofen e la storiografia afilologica»169 . Anche qui va ricordato che fece tutto questo non per guadagnare denaro (ne ebbe sempre poco) e neppure per godere di largo prestigio o di comodità culturali, bensi per riuscire ad assumere una posizione di primissimo piano entro circoli abbastanza ristretti. E non c’è dubbio che fosse, per così dire, in buona fede: cioè che fosse convinto di essere un saggio della Tradizione, e che, separandosi dalla casa madre tedesca e impiantandosi in proprio in Italia, seguisse abbastanza involontariamente un impulso di autoaffermazione nel terreno più appropriato. Ci siamo occupati della sua fortuna in Italia, d’altronde, soprattutto per illustrare un episodio di reazione «da un certo punto di vista» favorevole e tardiva, da parte della cultura italiana sia provinciale, sia (che non è necessariamente la stessa cosa) innamorata di sé in quanto cultura, a un personaggio la cui ideologia non è né è stata negli scorsi decenni la più gustata nel nostro paese. Né lo stile ideologico e culturale di un Evola, né quello di altri che, sempre nell’ambito suo del fascismo, erano i suoi antagonisti, come per esempio Roberto Farinacei, sono stati molto gustati nell’Italia del regime dalla media cultura borghese. Evola era troppo metafisico e inconsueto; la provincia poteva rimanerne impressionata, ma con lui e con le sue stranezze non poteva trovarsi a proprio agio. E Farinacei, a sua volta, metteva un poco a disagio perché era troppo scopertamente brutale, troppo teppista. Va sottolineato, però, che la brutalità anche ostentata era, in fondo, molto più familiare dell’esoterismo «spiritualistico» alla media cultura borghese dell’Italia fascista. Il fascismo più esplicitamente bru169 B. Croce, Il Bachofen e la storiografia afelologica, «Atti della R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», 1928, I.
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tale e quello più dabbene potevano entrambi incontrarsi nella cultura medio-borghese, che invece rimaneva abbastanza refrattaria al prestigio dei «saggi» tradizionalisti alla Evola. Sarà poi invece il neofascismo, nel dopoguerra, a ricorrere a Evola come al «nostro Marcuse, ma più bravo». Il neofascismo ha bisogno di un Evola, e soprattutto per nutrire i più giovani camerati, poco sensibili ormai all’apparato mitologico nazionalista tradizionale, al Risorgimento, alle glorie patrie. Ma tutto quell’apparato era ben efficiente nella cultura della destra e in generale nella cultura medio-borghese del primo ’900 e degli anni del regime. Lasceremo quindi da parte per un momento i saggi e i didatti dell’esoterismo, ed esamineremo alcuni documenti della genesi della ideologia del neofascismo profano. Da essi saranno illustrate alcune forme di rapporto culturale con il passato che a poco a poco si rivelarono insufficienti, fino a lasciare quello spazio vuoto che fu appunto colmato nel dopoguerra dall’ideologia del neofascismo sacro. Si assisterà, d’altronde, anche a un passaggio da forme ideologiche di destra sacra ma non esoterica a quelle, già accennate, di destra sacra ed esoterica. La stessa ideologia della destra profana nei primi decenni del ’900 aveva, infatti, anche componenti «sacre» che però non erano affatto esoteriche: presentava un rapporto con il passato (nazionale) che era anche «sacro», ma che implicava l’attribuzione al passato di connotati troppo storici perché quel passato potesse confluire nel Grande Tempo dei tradizionalisti, nei cicli cosmici, nei destini occulti dell’universo. Senza questo Grande Tempo non si ha vero esoterismo: la storia è la sua maggiore nemica; quando accetta una percezione del tempo come storia, sia pure sui generis, sia pure pericolosamente confinante con il tempo storico-oleografico delle rievocazioni risorgimentali, la destra «sacra» non riesce a diventare propriamente esoterica.
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Documenti di lusso spirituale e di lusso materiale. Due commemorazioni del Carducci. Liala e affini Abbiamo di fronte due documenti inediti: i testi manoscritti di due commemorazioni di Giosue Carducci in occasione della sua morte, tenute nel marzo del 1907 da una medesima persona. Con la differenza che la prima commemorazione fu pubblica, nella sede di un circolo culturale, mentre la seconda venne tenuta in una Loggia massonica. E già questa rara occasione di poter confrontare ciò che un massone diceva nella cerchia dei suoi «Fratelli» con le sue dichiarazioni pubbliche sul medesimo argomento, è interessante poiché permette di cogliere le due diverse tonalità, il diverso modo di affrontare temi ideologici e culturali, così che dai due documenti posti a confronto risulta un quadro abbastanza completo di elementi profani e di elementi soggetti a due diverse connotazioni sacre (quella generale, di dominio pubblico, e quella riservata a una cerchia di adepti, per quanto laicizzati fossero la massoneria di quegli anni e soprattutto il gruppo massonico cui si rivolgeva e cui apparteneva il nostro oratore). L’autore di entrambe le commemorazioni (di cui riproduciamo i testi in Appendice: citeremo il primo come A I e il secondo come A II, facendo seguire alle sigle il numero di pagina del manoscritto, indicato fra parentesi nella nostra trascrizione) era un professore di lettere nella scuola secondaria, nato nel 1880, che non fu tra i primi fascisti ma che poi si comportò da fedele funzionario del regime. Esaminiamo questi testi innanzitutto per cogliervi il tipo peculiare di rapporto con il passato che vi è documentato. In A I il passato è per prima cosa, alle spalle del Carducci, la tradizione culturale dei classici della letteratura italiana; non tutti, del resto: ma specialmente il Parini come poeta morale, l’Alfieri, e con lui come «grandi
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cantori della libertà italiana» (A I, 8) sia «Pier della Caravana che circa alla metà del tredicesimo secolo incoraggiava i Lombardi alla resistenza contro Federico II», sia i poeti del Risorgimento, Mameli, Berchet. È abbastanza strano che non vi sia nominato Dante; ma l’assenza del suo nome, e secondariamente di quelli di altri che pure furono tra i numi del Carducci, è una spia di ciò che quel passato rappresentava per l’oratore (non si dimentichi: un professore di lettere, dal quale ci sarebbe da aspettarsi grande abbondanza di Petrarca, e Machiavelli, e Ariosto, e Tasso). Quel passato era «patrie glorie» (A I, 8), roba di valore entro la quale, in fondo, non contava troppo distinguere nomi e figure storiche. L’insistenza «foscoliana» sui «grandi sepolti» di Santa Croce (A I, 8) vuol dire poi soprattutto questo: le tombe di Santa Croce raccolgono e uniformano nella dimensione delle «patrie glorie» quella roba di valore. Si avverte la necessità ideologica di appiattire le differenze che la storia pone nel passato, e di disporre di un valore compatto, uniforme, sostanzialmente indifferenziato. E si avverte la convinzione di entrare in rapporto con quel valore ricorrendo a locuzioni e stilemi che non a caso saranno poi quelli della retorica fascista: «un maschio viso», «viril fierezza», «momenti storici fatidici»... e quasi una decantazione delle forme carducciane, che spesso furono tutt’altro che banali, per ricavarne la quintessenza della banalità: «l’indomita energia del grande», «lo spirito suo alato vola», «la schiera dei grandi che alto han levato il nome d’Italia», «ardente fiamma nel giovine popolo italiano», «mille e mille cozzanti spade»... E questo viene dichiarato il vero e legittimo modo di collegarsi al passato, in contrasto con il «poetico vaniloquio degli arcadi novelli» (A I, 3), con la mitologia «di arcadici fronzoli adornata» (A I 4). Vi è insomma la convinzione che parlare a questo modo sia tutt’altro che convenzionalmente retorico (cosa da Arcadi) o accademico («e mostriamo che gli
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italiani non sono poi tanto accademici, e che non sempre le commemorazioni nostre sono delle cianciate perpetrate oggi per esser poste nel dimenticatoio domani, A I, 1). Queste banalità sono credute un parlar giusto, grande e incisivo, proprio perché dietro di esse si colloca non la storia della lingua e della letteratura italiana, ma roba di valore, in mucchio, indifferenziata com’è essenzialmente prerogativa del sacro. Ma qui il sacro non è affatto esoterico: tutto il pubblico del circolo di cultura in cui è stata pronunciata la commemorazione conosce quel modo di parlare e lo apprezza come il quasi ovvio ed estremamente generalizzato parlar giusto, grande e incisivo. A parte i vari gradi di talento oratorio di ciascuno, ogni ascoltatore potrebbe alzarsi, prendere la parola e proseguire sullo stesso tono. Non vi è esoterismo in questa sacralità, se non in un senso molto lato che però non va trascurato: partecipi del rapporto con la roba di valore che è il passato delle «patrie glorie» sono gli italiani, non gli stranieri, «i barbari» (A I, 9); e di fatto, sebbene non in teoria, non tutti gli italiani, ma solo tutti quelli dalla cultura sufficiente per ritrovarsi a proprio agio nelle forme di eloquio convenzionale dell’oratore. Agli altri, agli ignoranti, bisognerà appunto insegnare le locuzioni ricorrenti di quell’eloquio: bisognerà insegnare fin dalle elementari ai bambini che il parlar giusto è quello. Così si estenderà il più possibile il numero degli italiani che avranno come cultura il rapporto con quel mucchio indifferenziato e sacrale di roba di valore, che è il passato della patria. Essi stessi diverranno sempre più culturalmente indifferenziati, massa, e un sacramento tipico di questa comunione con il valore indifferenziato sarà poi tutto il rituale di culto del Milite Ignoto, significativo anche per il fatto preciso di porre implicitamente la coincidenza tra quell’anonimato e la morte. Vale la pena di leggere, a tale proposito, testi ufficiali degli anni ’20 e celebrazio-
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ni successive170 . Da tutte queste pagine risulta evidente il motivo del valore (non solo nel senso di «valore» militare, ma in quello di «roba che vale») indifferenziato nella morte, così come patrimonio di valore indifferenziato nella morte erano considerate le tombe di Santa Croce. Tutto l’apparato per la designazione del cadavere che sarebbe stato tumulato nell’«Altare della Patria» è un esempio di ritualismo essoterico che spiega molto bene il passaggio senza troppi scrupoli dal «lusso spirituale» nazionalistico e militaristico a quello propriamente fascista. È esemplare a questo proposito la sistematicità dei riferimenti simbolici e delle gerarchie, posta in atto con la minuzia di un vero e proprio ragioniere di fureria e di simboli. Fu costituita una commissione per la designazione, composta di due ufficiali superiori (un generale e un colonnello), di un ufficiale inferiore (un tenente) e di un sottufficiale (un sorgente), tutti decorati di medaglia d’oro, più un caporal maggiore e un soldato semplice (costoro, data la loro appartenenza alla bassa forza, erano solo decorati di medaglia d’argento). Questi signori scelsero un cadavere per ciascuna delle 11 zone di guerra; nelle scelte dei cadaveri si ricorse al metodo dei foglietti, mescolati in un bossolo di proiettile d’artiglieria. Poi quattro ufficiali (decorati di medaglia d’oro) accompagnarono lungo la navata della basilica di Aquileia una madre di caduto che scelse fra le undici bare quella destinata all’«Altare della Patria». Al momento della tumulazione, una medaglia d’oro, baciata da Vittorio Emanuele III, fu inchiodata alla bara con un martello d’oro. 170 Vedi O. Cavara, Il Milite Ignoto, Alpes, Milano 1923; AA. VV., Il Milite Ignoto, Zucchi, Milano 1937; nonché, fra gli scritti posteriori alla caduta del regime, l’articolo di G. Bedeschi, Mio figlio, il Milite Ignoto, «Storia Illustrata», luglio 1969, pp. 32-41.
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Nella seconda commemorazione, entro la Loggia massonica, il tono immediatamente cambia. Anche qui c’è un valore di base indifferenziato, che però non è «patrie glorie» ma «libertà dello spirito» (A II, 3), «ragione», «libero pensiero» (A II, 8). È un valore egualmente rigido, uniforme, sacrale, e la parola «libertà» che ricorre continuamente in A II non ha significato più concreto di «libertà» in A I [a proposito dell’Alfieri: A I, 5]. Anche qui la «libertà» è roba di valore, patrimonio sacrale da difendere alla luce di un rapporto con il passato: i tiranni, il «servaggio». In apparenza, tuttavia, e nel tono dell’orazione, la cosa è diversa. Le masse (compreso il pubblico profano della prima commemorazione) possono attenersi al patrimonio stabile delle «patrie glorie», e importa soltanto che quelle masse divengano sempre più grandi: che tutti imparino fin da bambini a scrivere «lo spirito suo alato vola», «l’indomita energia di quel grande», con la convinzione che il parlar giusto sia questo. Ma «qui nel seno della famiglia che suona ad onor nostro l’aver avuto comune con lui [Carducci]» (A II, 1), non si tratta solo di fermarsi a possedere tale patrimonio e a subirne la forza di appiattimento. Qui importa agire, o almeno proporre come azione la condotta propria e dei «Fratelli» massoni. Il linguaggio anticlericale, di notevole violenza, corrisponde a questo aspetto dinamico del rapporto con la roba di valore. Evocando l’ombra del Carducci in battaglie contro i preti, l’oratore dice a tutte lettere: «noi perpetueremo la tua guerra», «noi... li annienteremo» (A II, 9). Se anticlericalismo volesse dire automaticamente «sinistra», dovremmo attribuire posizioni di una sinistra molto radicale al nostro oratore che parla del papa come della «nera cornacchia che da Roma gracidava», della chiesa come di «questo tempio d’ignavia, questo covo di frodi, questo nido d’infamie» (A II, 2), «Cattolica Apostolica Romana bottega» (A II, 4), dei preti come della «sozza genia» (A II, 5), «funesta genia»,
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«mala erba» (A II, 8). E confermerebbe questo suo presunto atteggiamento di sinistra il fatto che egli, non nella Loggia massonica ma pubblicamente, nella commemorazione per tutti, celebri «i germi di civile progresso che la rivoluzione francese aveva recati»(A I, 6). La commemorazione riservata ai «Fratelli» presenta come unica tonalità politica esplicita un anticlericalismo moderatamente risorgimental-patriottico. Vi si dice, è vero, che «i voti d’ogni italiano sono volti al Campidoglio» (A II, 2) e cose del genere; ma l’accento pare soprattutto sul Carducci «poeta di tutta l’umanità, la cui meta fu la luce, la cui nemica l’oscurità» (A II, 1), e sulla chiesa come nemica dell’umanità in generale. I casi italiani commuovono, sì, l’oratore, ma vengono presentati come esempi di una vicenda che coinvolge tutta l’umanità: quasi egli fosse animato da una sorta di illuminismo internazionalistico, adeguato del resto all’ideologia massonica. Ed egli spiega da principio ai «Fratelli» che nella precedente commemorazione, quella pubblica (a cui, fra l’altro, avrà anche già assistito qualche «Fratello»: la città è piccola), si era ritenuto in dovere di presentare le cose diversamente, di porre l’accento su altri aspetti del Carducci, «come opportunità voleva» (A II, 1). Là, in pubblico, «il poeta dell’Italia sorgente e risorta», qui, in ristretta cerchia, il «poeta di tutta l’umanità». Si deve dedurre che quel «come opportunità voleva» copra davvero una finzione? Che il nostro oratore creda soprattutto ai valori per così dire internazionalistici, e solo per convenienza, per non svelarsi troppo, abbia tanto alzato la voce in pubblico sulla tematica patriottica? Con ogni probabilità, no. Già nelle prime fasi della commemorazione massonica, là dove accenna alla precedente commemorazione pubblica, egli lascia capire d’aver affrontato il discorso per tutti come un’esposizione di cose in cui crede: «ho cercato allora, non so se le mie forze mi sian convenute, ho cercato dico, di presentare il poeta battagliero, il poeta dell’Italia
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sorgente e risorta»(A II, 1). La protesta della debolezza delle proprie forze è una formula di modestia quasi obbligatoria per galateo, ma nella Loggia massonica l’oratore non l’avrebbe certo usata a proposito della sua precedente commemorazione, se quella non fosse stata considerata un discorso serio e sincero sia da lui, sia dai suoi «Fratelli». «Come opportunità voleva» va dunque inteso alla lettera, non come la copertura di una riserva profonda. Tanto l’oratore quanto – è presumibile – i «Fratelli» che l’ascoltavano, dovevano credere nei valori celebrati sia nella commemorazione pubblica, sia in quella privata. Entrambe le commemorazioni erano a loro parere serie, sincere, diverse solo perché il pubblico e le circostanze erano diversi, ma tali, insomma, da integrarsi a vicenda anziché da contraddirsi. La possibilità di conciliare due ideologie apparentemente contrastanti come quelle che informano le due commemorazioni, e di conciliare anche due linguaggi diversi (perché alla prima lettura risulta chiaro che nella commemorazione massonica l’oratore ha lasciato da parte la maggioranza delle sue banalità per ricorrere a uno stile che sarà pur esso retorico, ma che risulta più incisivo, se non altro per la violenza anticlericale che lo rende cattivo), – questa possibilità risiede probabilmente nel fatto che i presunti valori e le formule appropriate per celebrarli sono, nell’uno e nell’altro caso, apparato culturale tecnicizzato più o meno deliberatamente in vista di uno stesso scopo. Sotto un primo aspetto, il più superficiale, lo scopo è di comportarsi bene, di rispettare le regole di galateo di quella convivenza tra persone dabbene che prescrivono innanzitutto di dire al prossimo solo ciò che vuole sentirsi dire171 . Il pubblico di un circolo 171 T. Mann, I Buddenbrook, parte III, cap. 2°: Tony Buddenbrook accusa il suo futuro marito (e imbroglione) Grünlich: «A te, mamma, e a te, papà, ha detto soltanto quel che vi
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culturale gradisce sentirsi dire certe cose, altre sono gradite in una Loggia massonica. E l’oratore che parla in entrambi i luoghi, se è fino in fondo una persona dabbene, non solo finge di credere di volta in volta in ciò che dice, ma ci crede davvero, partecipa veramente di volta in volta con tutto se stesso ai gusti e agli umori del gruppo che lo ascolta, e così ottiene in entrambi i luoghi applausi e prestigio, fa bella figura (l’interesse di far bella figura e il desiderio di inserirsi senza contrasti nel gruppo sono perfettamente intrecciati). Vi è però anche un altro aspetto, che in certa misura condiziona il primo. Tutto l’apparato culturale posto in atto (indipendentemente dalle sue contraddizioni interne o quanto meno dai suoi stili diversi) è tecnicizzato affinché si possa dire di avere una cultura cioè è trasformato in un feticcio cultura, sacrale ed essoterico. Gli elementi culturali sono per così dire omogeneizzati: in questa pappa, dichiarata preziosa, ma anche ben digeribile da tutta la classe mediamente istruita, non ci sono più veri contrasti, vere punte, spigoli e durezze. Il suo veicolo linguistico è composto di luoghi comuni, ma non di luoghi comuni del parlare profano quotidiano, bensì di luoghi comuni decantati dal parlare letterario. Questo linguaggio per luoghi comuni di provenienza aulica è dichiarato modello di chiarezza, si dice che tutti lo capiscono, e di fatto (sebbene si debba molto esitare qui sull’uso della parola capire) non provoca sconcerto, tutti vi sono abituati. Non ha rapporto con la ragione, né con la storia: nasce da roba di valore che viene chiamata il passato, ma che è così storicamente indifferenziata da poter circolare nel presente. È sfruttabi-
fa piacere sentire, per entrare nelle vostre simpatie!». «Questo non è un rimprovero, Tony!», disse secco il console. «Uno si trova in società, fra gente che non conosce, si mostra dal suo lato migliore, sceglie le parole, e cerca d’essere gradito – si capisce...».
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le, ed è generalmente sfruttato, come veicolo dell’ideologia della classe dominante; ma serve a difendere quell’ideologia anche quando non mostra apparenti contenuti ideologici. È già di per sé, per quanto vuoti restino in certi casi i suoi topoi ricorrenti, strumento efficiente di quell’ideologia. È l’elemento più caratteristico e dífFuso della cultura di destra: possiede tutta la sua oscurità che è dichiarata chiarezza, tutta la sua ripugnanza per la storia che è camuffata da venerazione del passato glorioso, tutto il suo immobilismo veramente cadaverico che si finge forza viva perenne. In un’intervista del 1974 con Liala il giornalista osserva, forse di suo, forse parafrasando parole della scrittrice, che ella usa un «linguaggio che capiscono tutti»172 . C’è da chiedersi fino a che punto sia vero. Una considerazione successiva del medesimo giornalista, che dovrebbe servire di conferma, mette invece in sospetto: quel linguaggio che capiscono tutti, tutti «lo assimilano al punto che – quando scrivono a Liala – usano il medesimo vocabolario imparato così pagina dopo pagina, magari compitata o seguita col dito». Questo sarà certamente vero, e non è difficile immaginare il tenore di quelle lettere: «Sono parole come acqua sorgiva che lava tutto...»173 . Ma l’imitazione del linguaggio dello scrittore da parte dei lettori è in generale la prova dell’esatto contrario di quanto 172 M. Mascardi, Il ritorno di Liala, «Grazia», 27 ottobre 1974, pp. 42-47. L’occasione dell’articolo è il rilancio della scrittrice, che stava per pubblicare un ennesimo romanzo e con un mutamento profondo rispetto ai precedenti: «Fino a ieri Liala poteva impiegare sei pagine per descrivere la camera da letto e tutte le civetterie e la biancheria e i cento colori dai quali una dama era circondata in attesa del signore di tutti i suoi pensieri. Poi questo signore arrivava e, a questo punto, Liala discreta si ritirava. Ecco, il mutamento è qui: arriva il signore, e Liala resta. A prendere appunti» (p. 42). 173 Ivi, p. 45. Così una lettrice scrisse a Liala.
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si vuol dimostrare per Liala. Il lettore adotta vocabolario e stile dello scrittore prediletto poiché vi trova qualcosa che non possedeva ancora, che in fondo non capisce e che crede di capire proprio perché quel qualcosa di non comprensibile è, in quanto tale, efficace: agisce, serve, suscita infallibilmente stimoli sentimentali, «crea un’atmosfera», soddisfa, cioè elimina difficoltà che vanno dalle conseguenze del cattivo umore o della frustrazione a quelle della fatica di pensare. Capire un linguaggio diviene così apprezzare (fino ad adottarlo) un linguaggio che si dimostra efficace in quanto non è oggetto di comprensione. Se davvero fosse comprensibile, non avrebbe efficacia magica, farebbe pensare, dunque faticare, e costringerebbe ad allenarsi a conoscere ciò che accade. Il linguaggio di Liala non è capito da tutti i suoi lettori; è invece per tutti i suoi lettori un feticcio che serve a dare piacere, e specialmente il piacere che deriva dalla riduzione della fatica di pensare, godendo di esso come di una liberazione da ciò che si è costretti a «capire» dalle situazioni della vita quotidiana. Per i compratori dei romanzi di Liala, o almeno per la maggior parte di essi che certamente hanno poca o nulla dimestichezza con altra letteratura, l’alternativa non si pone fra il linguaggio di Liala e quello, per esempio, di Giovanni Verga, ma fra il linguaggio di Liala e quello che si parla intorno a loro, e quello, inoltre, della burocrazia che li circonda di parole da ascoltare per forza, siano esse pronunciate dagli impiegati o stampate sui documenti. Poiché la grande maggioranza dei lettori di Liala appartengono al proletariato o alla piccola borghesia, vivono male, sono continuamente esposti a urtare contro il prossimo e contro le cose e a esserne urtati, per loro lo stesso linguaggio quotidiano delle persone cui sono più vicini è qualcosa che può trasformarsi ogni momento (come di fatto accade) in aggressione e coercizione, spine, ostacoli e pesi. È un linguaggio che magari non esige sempre d’essere «capi-
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to» (nel modo più razionale), ma che costringe sempre ad ascoltarlo; e sono piuttosto rare le circostanze in cui questa coercizione risulta piacevole o comunque dà palesemente qualcosa di prezioso: le scarse occasioni in cui diviene l’obbligo di ascoltare il linguaggio degli affetti, e in cui questo linguaggio, per reciproca disponibilità degli interlocutori, «lava tutto». Il linguaggio burocratico è per lo meno altrettanto aggressivo e faticoso: non solo esige d’essere ascoltato, ma esige d’essere «capito» (non importa qui sviscerare fino a qual punto la sua presunta razionalità sia, come non pare essere, autentica). Bisogna quindi rettificare le parole del giornalista. Il pregio del linguaggio di Liala per i suoi lettori consiste non nel fatto che lo «capiscono tutti», ma nel fatto che lo si può non ascoltare e che soprattutto non si è costretti a «capirlo». Non si possono far ammutolire di colpo le persone che ci circondano, non le si possono far parlare a comando per nostra libera scelta: ma con un libro questo è sempre possibile; basta avere i soldi per comperarlo: poi lo si può aprire e chiudere a piacimento. Non si possono, senza gravi danni, non «capire» i linguaggi che esigono d’essere «capiti»: ma il linguaggio di Liala non vuole essere «capito», per goderlo basta rimanere nel meno faticoso degli stati di torpore della ragione. Qui del resto abbiamo forse insistito un po’ troppo sulla faticosa qualità razionale del «capire». Ma il «capire» può essere faticoso e tormentoso non solo come attività razionale. Nel «capire» pensiamo che vi sia anche uno sforzo di simpatia, di partecipazione affettiva che può non essere soltanto razionale e che costa, fino a divenire angoscioso. Anche questo sforzo non è richiesto a chi voglia godere del linguaggio di Liala. È un linguaggio che non chiede d’essere «capito» in alcun modo, se «capire» significa un qualunque sforzo della ragione o della partecipazione affettiva irrazionale. È il linguaggio della vacanza organizzata, da chi ha il potere per
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chi non lo ha, in modo che quella vacanza sia cessazione di ogni sforzo ma anche povertà di piaceri tali da contribuire a rendere l’uomo uomo. Quest’ultima espressione sembrerà retorica e forse lo è davvero, tanto il linguaggio che abbiamo a disposizione tende a trasformare in occasioni di quella vacanza, dunque in formule che non c’è bisogno di «capire», le parole più importanti. «Sono parole come acqua sorgiva che lava tutto...» – «Chi si spande come una sorgente è conosciuto dalla conoscenza». La prima frase è una citazione da una lettera indirizzata a Liala, la seconda è la traduzione di un verso dei Sonetti ad Orfeo di Rilke174 La lettrice che è persuasa di capire il linguaggio di Liala (e che lo adotta) subisce l’azione di quel feticcio: per lei conoscere è «essere conosciuti dalla conoscenza», subire l’azione di un feticcio che si presenta come «conoscenza» della vita e che, per essere efficace, esige nel devoto la passività e l’abbandono delle difese razionali. Solo così, cioè solo se la lettrice si lascia «conoscere» da quelle parole, se le accetta senza capirle, esse possono, per lei, «lavare tutto». La «conoscenza» non è in lei, ma altrove, in quel linguaggio; e se lei «si spande come una sorgente», dunque fa tacere la propria capacità e necessità di capire, la «conoscenza» finalmente la raggiunge, come la Grazia. Abbiamo citato un verso di Rilke non solo perché, separato dal suo contesto, può servire a descrivere questa situazione, ma anche perché proprio Rilke è stato uno degli scrittori cui più spesso i lettori e i devoti si sono rivolti, scrivendogli, con il suo medesimo linguaggio «imparato così pagina dopo pagina» (sebbene certamente quelle pagine non saranno state «compitate o seguite col dito»). Questo non significa che ci venga in mente di collocare la produzione di Rilke, in sé e per sé, di fian174 R. M. Rilke, Sonette an Orpheus [1922], II, 12, v. 9: «Wer sich als Quelle ergiesst, den erkennt die Erkennung».
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co a quella di Liala. Significa però che Rilke svolse in molti casi per un pubblico di condizione sociale e di formazione culturale «medio-alte» la stessa funzione di Liala per il suo pubblico di condizione sociale e di formazione culturale «medio-basse». E significa anche che lo schema ideologico ricavabile dal verso citato dei Sonetti ad Orfeo corrisponde a quello del linguaggio di Liala che «capiscono tutti», con la differenza che Rilke solo fingeva (e non sempre) di credere d’essere capito, mentre Liala ne è sempre certa. Questo indica sia una differenza di levatura intellettuale, sia anche una differenza di simpatia e di scrupoli nei confronti della società che produce i feticci «linguaggio di Rilke» e «linguaggio di Liala». Nel caso di Liala quella «conoscenza» da cui i suoi lettori sono «conosciuti» quando si «spandono» – cioè il suo linguaggio che «come acqua sorgiva... lava tutto» – è il prodotto, accettato dalla scrittrice con grande simpatia e senza il minimo scrupolo, della società industriale che ha fabbriche di carta stampata oltre che fabbriche di automobili, e che inoltre essa stessa è o almeno cerca con risultati concreti di essere una fabbrica di devoti a feticci. Quella «conoscenza», linguaggio che tutti capiscono tanto da esserne conosciuti, ha alimentato le fabbriche di carta stampata con 70 romanzi dal 1931 a oggi e ha fatto si che ci fosse «in Italia uno scrittore [Liala] cosi letto da consigliare a un avveduto editore addirittura il lancio di un giornale, soltanto per consentirgli di avere un colloquio, raccogliere le confidenze (e di qui il titolo «Confidenze») delle migliaia di lettori»175 Nello stesso tempo quella «conoscenza» è stata preziosa per la fabbrica di devoti a feticci: «Per una vita – dice Liala – ho fatto vedere alla gente quello che di solito riesce a sbirciare soltanto dietro i cancelli». Aggiunge l’intervistatore: «Perché la grande trovata di questa scrittrice è questa: tran175
M. Mascardi, Il ritorno di Liala, cit., p. 42.
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ne che in pochi casi, ha sempre descritto ambienti, persone, situazioni, delicatezze della sua vita di tutti i giorni. Nata ricca e nobile, sposata a un ricco e nobile signore, amica di ricchi e nobili o – nel più disperato dei casi – di benestanti, si è limitata a trasferire nelle sue storie (ma senza compiacimento, e questa era la trappola che ha saputo evitare) il proprio mondo. Aggiungendo, al fasto, l’amore».176 Il vero feticcio, quello che ha contribuito maggiormente a creare con la sua efficienza i devoti, non e pero il bric-à-brac degli arredi e delle situazioni, ma il linguaggio che ne scaturisce, la maschera veramente orribile oltre che ipnotizzante, grazie alla quale chi «compita o segue col dito» le parole della pagina di Liala è persuaso di capire tutto. È persuaso, cioè, che essere conosciuto da quella conoscenza significhi capire una pagina scritta o un discorso, e che subire passivamente quell’ipnosi piacevole sia quanto deve fare il cervello di una persona sensibile e onesta ( «Qui – dice Liala – c’è una lettera di pochi giorni fa, una ragazza mi ringrazia in pieno 1974 perché le ho dato la forza di resistere fino al matrimonio...»177 ). Dinanzi a questo tipo di fabbricazione industriale di un linguaggio feticcio e ai suoi vantaggi per la società che la promuove, Rilke figura come un povero untorello, spesso, per di più, tormentato o addirittura involontario. Anche il «linguaggio di Rilke» è stato un feticcio, ed è stato prodotto da quella stessa società industriale; ma sovente la resa degli investimenti di quella società è inversamente proporzionale alla levatura intellettuale dei suoi uomini di fiducia. È vero che numerosi giovani ufficiali durante la prima guerra mondiale andarono al fronte con l’Alfiere nello zaino (e non appartenevano soltanto agli eserciti di lingua tedesca: si veda il motto di Le scarpe al sole di P. Monelli). Ma Rilke 176 177
Ivi, pp. 42, 47. Ivi, p.45.
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era troppo poco fiducioso nella possibilità d’essere capito, e credeva troppo poco nelle virtù della società che gli metteva in bocca il suo linguaggio, perché quel linguaggio riuscisse – anche indipendentemente dalla volontà di lui – a svolgere una funzione amplissima di feticcio efficiente. Era un linguaggio tarato fin da principio, troppo difficile e – quando si fosse riusciti a scendere oltre la sua superficie – troppo inquietante e spiacevole, perché servisse a fabbricare in numero adeguato dei devoti del tipo desiderato: dei devoti al non capire che è soddisfatto credere di capire, come quello dei fans di Liala. Il linguaggio di Rilke tendeva piuttosto a fabbricare dei devoti al non capire tout court; dei devoti compiaciuti dell’incomprensibilità e dell’ineffabilità del feticcio; ma di devoti del genere non potevano essercene molti: solo un gruppo aristocratico, ristretto. Indubbiamente la cultura di destra ha posseduto e possiede anche un settore dell’ineffabile, che però resta il meno frequentato, soprattutto in Italia, cosi come, e già lo dicevamo, le febbri occultistiche hanno sempre contagiato scarsamente la borghesia italiana (e tra ineffabile e occulto vi sono stretti rapporti di parentela). Il linguaggio di Liala è invece il corrispettivo diretto di quello della prima commemorazione del Carducci che abbiamo esaminato: in entrambi il valore dominante, che consacra i feticci, è il lusso, ma nel linguaggio della commemorazione si tratta di un lusso d’apparato eroico, patriottico, artistico e virtuoso, mentre nel linguaggio di Liala si tratta di un lusso di vestaglie, coperte di pelliccia, automobili, aviatori, ville – di un lusso che vuol dire propriamente denaro e stile da ricchi. Lusso spirituale e lusso materiale. E finché si resta nell’ambito della destra profana, essoterica, senza «compiti inutili» ma con moltissimi compiti utili, socialmente, economicamente, politicamente efficienti, ogni apparente vaniloquio ha una prevista funzione concreta – non fosse altro che far vendere carta (e del resto non è cosa
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da poco) –, che però è continuamente superata da una funzione concreta meno prevista dai vaniloquenti: conservare valore al lusso spirituale, dunque a un efficiente apparato ideologico. Il quale ha i suoi momenti di crisi, rischia d’essere troppo scipito per nuovi tempi e nuove generazioni, ma anche così svolge la sua funzione: richiama, nel suo vuoto che improvvisamente si fa, la brutalità che già era in esso e che è divenuta passée. Può essere il vuoto puro, quello che offre posto soltanto a congiunzioni tra cultura e consumo, forme sterilizzate di lusso spirituale e materiale. Il linguaggio della pubblicità ne fornisce innumerevoli esempi. Qui citeremo soltanto un lungo articolo pubblicitario, preparato da una ditta di Londra, produttrice di vino di Porto, e pubblicato su varie riviste italiane nel 1974. Il testo italiano è sicuramente una traduzione dall’inglese (il filologo lo scopre subito) e proprio per questo è doppiamente interessante. Rivela molte cose che riguardano sia chi l’ha scritto, sia chi l’ha tradotto (qualcuno che lavora per la pubblicità, che non è un ottimo traduttore, ma che, proprio per aver dovuto adattare con qualche fatica al testo inglese il linguaggio pubblicitario italiano, ha reso quest’ultimo quasi trasparente). L’articolo si intitola: «Parla uno dei maggiori esperti di Porto: un vino leggendario»178 . Sembra di essere al cinema, dinanzi a un documentario. Le parole in corsivo (nel testo) sono il vero titolo del documentario, e, appena si comincia a leggere, lo stile dell’autore evoca irresistibilmente il suono della voce baritonale che commenta le immagini di paesaggi sullo schermo: ... È qui, dunque, nella incredibile, cangiante e tormentata vicenda della valle del Douro, che attecchiscono e maturano i vitigni del famoso e ricercatissimo Porto; è qui, in condizioni 178
Citiamo da «Grazia», 22 dicembre 1974, pp. 108-110.
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ambientali estremamente singolari, che prende il suo certificato anagrafico il Porto, autentica gloria portoghese...
Se discutiamo lo stile al modo usato nella scuola del marchese Puoti, procedendo dalle forme più riprovate ai peccati veniali, dobbiamo osservare innanzitutto che quell’«incredibile» è davvero troppo forzato. Perché «incredibile»? La spiegazione apparente è questa: la valle del Douro è gelida d’inverno e caldissima d’estate – cosa tutt’altro che incredibile. La spiegazione vera è un’altra: per dire che d’inverno fa molto freddo, l’autore parla del «gelo agghiacciante» (autore o traduttore non ebbero la fantasia necessaria per «glacialità raggelante»), e per precisare ciò che fa «il sole ardente dell’estate» egli avverte che «infuoca la roccia e rinsecchisce la terra». Gelo e sole non potrebbero essere evocati altrimenti, dal momento che non sempre la fantasia è andata oltre la realtà. Questo perché, per molti aspetti, il fenomeno Porto resta ancora uno di quei misteri inviolabili di cui è unica depositaria la natura.
Il «fenomeno Porto» e i «misteri inviolabili» sono le componenti di uno stile ibrido, del quale ricorrono innumerevoli esempi nel nostro testo: il Porto ha «carattere intimo, «confidenziale»», ma è anche un «favoloso, mitico vino nato sulle impervie gole»; vi sono brani da bozzetto agreste: In un settembre caldo e assolato, dunque, la valle del Douro si scuote. [...] In un clima di sana e fresca allegria, i portatori, le spalle curve sotto il peso delle gerle stracolme, trattenute da una speciale correggia che fascia la fronte, procedono in fila indiana sui sentieri che portano alle cantine. La fila è ingrossata da donne, vecchi e bambini che alimentano il clima festoso della vendemmia.
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Ma vi è anche il «personaggio R.» [presidente della ditta], che dichiara: «Fedeli a questa filosofia aziendale, il nostro messaggio ovunque è stato e continua a essere fondato sui vini di classe elevata»; e vi è il ritratto di quel personaggio «adesso che è al vertice della piramide», ritratto in cui si fondono l’antico e il nuovo, così come il bozzetto agreste e la «filosofia aziendale», il «messaggio» della ditta: «il modo aperto e affabile, il tratto signorile e la duttilità e la forza dialettica del manager moderno » che «non ha rinunciato a credere nella bellezza delle cose semplici e genuine». Questi si fa ritrarre, infatti, sia «al tavolo di lavoro», sia ritto in piedi sulla riproduzione di un’antica imbarcazione «che servì in passato a trasportare le botti», di fianco a un vecchio vestito da visigoto: sulla vela della barca sta scritto il nome della ditta, «Est. 1678». Con il «personaggio» R. ci si avvia, del resto, a riempire un vuoto di ormai poco credibile e passélusso spirituale con adeguate figure di grand’uomini (nella cui adeguatezza interviene, non a caso, il lusso materiale: ricchezza, carriera, aristocrazia di nascita). È esemplare «Luca, marchesino dei bolidi», di cui un articolo del 1975 dipinge la vicenda179 Il personaggio in questione è direttore sportivo della fabbrica di automobili X. Ma non è lui che ci interessa. Si badi piuttosto allo stile del giornalista, perché l’incontro redentore fra lusso spirituale passé e lusso materiale attualissimo implica ammiccamenti stilistici e semantici, se si può dir cosi, che devono spiegare al lettore come l’eloquio delle commemorazioni del Carducci passi e sappia di muffa, mentre l’essenza del lusso spirituale si conserva intatta ed è sempre suscettibile di ipostasi concrete grazie al lusso materiale che circonda il grand’uomo profano ed essoterico. «È una bella storia 179 M. Mascardi, Luca, marchesino dei bolidi, «Grazia», 28 settembre 1975, pp. 4-5.
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da raccontare dal principio», dice il giornalista. Infanzia: il futuro «marchesino dei bolidi» è educato «si potrebbe dire, all’antica: in famiglia la media dell’otto è considerata normale» e «non procura motociclette o spassi dispendiosi». Ma il Nostro si compera di nascosto una 500 da competizione, arriva quarto in una certa gara, e, dice il giornalista (si badi allo stile), «In una gara come quella lì, o si è molto bravi o non si arriva quarti». Poi il campione studia, si laurea in legge, «si prepara anche all’esame di procuratore legale, ma si annoia». Perché? Ecco: Le sue evasioni sportive sono da spettatore, ma lo interessa tutto: calcio, atletica, basket, e naturalmente l’automobilismo. Non lo interessa l’ippica. In realtà s’accorge che la pratica legale non lo soddisfa.
Ma, aggiunge il giornalista (e di nuovo si badi allo stile), nel 1969, quando il Nostro era arrivato quarto nella gara, « era successa una cosina»: lo avevano invitato al 3131 per «spiegare come si diventa piloti da rally». Il proprietario della fabbrica X. aveva udito. E questo signore, che convoca il Nostro per un colloquio, è un personaggio ecccezionale: Un colloquio con X. è imprevedibile: l’ingegnere sa parlare per ore delle cose più diverse con una competenza e una sicurezza che gli consentono, persino, di non essere talvolta modesto. Affascinante.
Ma non meno affascinante è il Nostro: «ha l’aria così seria, composta, un tatto naturale, la sicurezza del gentiluomo di razza». Nel discorso, che è «il volo d’un falco», la cultura e la virtù eroica hanno il debito posto: X. ricorda che fu un Y. [il cognome del Nostro] a portare per primo l’uso della stampa a Mondovì, vent’anni prima che
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Colombo scoprisse l’America. Poi aggiunge, fra sé: «C’è un Y. anche alle Fosse Ardeatine».
E così il Nostro, giovane com’è, diviene direttore sportivo della ditta: Y. dice a X.: «Sento e le riferisco; poi lei deciderà e io dirò quello che lei vorrà». X. sorride: «Lei non telefona a nessuno: lei sente, lei decide. Quello che fa, è fatto bene». È la grande investitura. A suo tempo, è così che si diventava Cavalieri del Re.
Eroismo e castità. Gotta, Brocchi Lusso «spirituale» di apparato eroico e virtuoso, diremmo quasi «lusso di grandezza nella povertà», e lusso di ricchezza materiale, sono congiunti in modo esemplare in una delle pagine più pregnanti della letteratura ispirata dal fascismo, un brano per cui verrebbe naturale parlare di Kitsch se il concetto di Kitsch, per quanto impreciso, non implicasse pur sempre un qualche sospetto di valori recuperabili che qui proprio non ci sono. È un brano finale del romanzo Ombra la moglie bella (1926) di Salvator Gotta. La trama, per ciò che ci interessa, è presto riassunta. Un grande industriale è afflitto da gelosia morbosissima e sostanzialmente ingiustificata nei confronti della moglie, e tanto la tormenta che questa finisce per spararsi più o meno volontariamente un colpo di pistola. La donna non muore, però; e mentre lei sta fra la vita e la morte, il marito, pur esulcerato, ritiene di non potersi sottrarre a un’udienza che Mussolini gli ha fissato per quella stessa notte a palazzo Venezia. Parlerà al duce dei suoi progetti industriali. La pagina su cui vogliamo soffermarci è appunto quella dell’udienza; e va detto subito che con ogni evidenza Gotta l’ha scritta prenden-
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do a modello il brano de Il santo in cui Fogazzaro narra il colloquio notturno fra il «santo» e il papa in Vaticano. Il lusso «di grandezza nella povertà», quello che dominava la commemorazione del Carducci non perché in essa si parlasse delle magre finanze del poeta, ma perché l’oratore concedeva a sé e al pubblico una scorribanda fra lussi spirituali di grandezza, eroismo, poesia e virtù del tutto estranei a ogni dimensione concreta della storia, e attingeva per questo alla cultura omogeneizzata, ai topoi del passato reso inesistente, senza alcun riferimento a lussi materiali, – il lusso «di grandezza nella povertà», il lusso spirituale, compare nelle prime righe di Gotta materializzato in immagini di povertà concreta, cui conferisce grandezza lo spirito del grande che vi aleggia su, e anche la notte che funge da elemento straniante: di giorno tutto sarebbe diverso. Poiché l’udienza è particolare e, come s’è detto, notturna, il nostro industriale non entra a palazzo Venezia dal portone, ma da «una delle porticine», e subito non incontra alcun fasto, anzi: «una scala stretta e scarsamente illuminata... una piccola sala disadorna dove non è che una modesta scrivania ed uno scafale polveroso»180 . Poi la notte compie la sutura fra il lusso spirituale e quello materiale; egli attende su una loggia nel buio: «la notte è mite e serena, il silenzio, tra le ombre delle arcate e la tenebra delle palme giù in basso, è solenne. Il, mio cuore sosta in una calma di purità». In questa notte «s’apre a un tratto una porta» che conduce al lusso ben concreto, come quello di Liala: nel rettangolo di luce appare un giovane che mi si inchina, pronunzia sottovoce il mio nome e quindi m’invita a seguirlo attraverso alcuni saloni sontuosissimi, dai soffitti a travature dipinte, dalle pareti adorne di antichi arazzi immensi. 180 S. Gotta, Ombra la moglie bella, Baldini & Castoldi, Milano 1926. Questa citazione e quelle che seguono senz’altra indicazione sono tratte dalle pp. 327-337.
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Presso una porta dorata mi fa cenno d’attendere mentr’egli socchiude quella, porta e scompare col suo passo lieve ammorbidito dai tappeti.
E da qui, dall’istante in cui i due lussi spirituale e materiale si sono congiunti, il nostro industriale dà prova di un autentico raptus erotico nei confronti di Mussolini: Ora io non posso più pensare ad altro che all’incontro imminente: l’emozione mi dà un’impazienza che vede le mie dita mobilissime, quasi folli nell’annaspare sulla spalliera di un divano lì curvata, in penombra. [...] Egli mi scruta coi suoi grandi occhi neri nel volto pallido. [...] Siede posando le sue belle mani fini e bianche sulla tavola. [...] L’ampia fronte marmorea, gli occhi grandi, neri e come accesi d’una fiamma interiore, le tumide labbra, le forti mandibole beethoveniane eccitano in me una specie di panico amoroso, un fermento d’entusiasmo fattivo, un bisogno prepotente di sembrargli degno, di essergli utile, un senso di devozione che potrebbe portarmi fino al sacrificio della vita: per Lui, per la sua persona mortale. – Eccellenza: – dico subito preso nel vortice della passione...
Pagine del genere avranno certo suscitato tutto il rabbioso godimento del Gadda di Eros e Priapo; per non dire delle soddisfazioni che si offrirebbero a una lettura psicoanalitica della simbologia fallica del finale: La sua mano [di Mussolini] si posa lieve sopra un tagliacarte aguzzo e schietto come un pugnale. [...] Le sue frasi sono schiette e acute come la lama d’acciaio: s’incidono nel mio cuore ad una ad una [...] L’attimo del congedo ridesta d’improvviso il mio orgasmo.
Sembra di sentir parlare Lady Chatterley. Anche in Liala, del resto, il lusso è quasi ovvio complice di erotismo. Ma qui, in Salvator Gotta, il raptus erotico è provocato non solo dal lusso materiale, bensì dalla sua congiunzione con il lusso spirituale, e anzi si ha l’impressio-
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ne che il secondo prevalga sul primo. O meglio: in Liala il lusso è generalmente il complice del maschio che irretisce la fanciulla, mentre qui il lusso materiale virile dell’uomo che deve sedurre gli uomini si accompagna al suo lusso spirituale e a una condanna delle immoralità eterosessuali. Basti pensare che il nostro industriale scriveva alla moglie una lettera, patetica, che finiva così: Lo spettacolo dell’umanità peccaminosa, mi angoscia. Creature intelligenti, colte, educate, sorrette da principî sani, pubblicamente oneste e virtuose, cedono in segreto, giorno per giorno, all’allettamento dei sensi, sciupano la loro volontà in vane torture d’alcova, si degradano moralmente di fronte a sé stessi, fiaccandosi fra le braccia di donne impure. Non saremo un popolo di vincitori se non quando avremo affrontato e risolto il nostro problema morale. E bisogna che l’epurazione cominci fra le classi colte, le maggiormente responsabili. Ti bacio con tutta l’anima Tuo Dario.181
È quasi inutile sottolineare che il «problema morale» è esclusivamente il «problema» sessuale, e più semplicemente i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio. Lo è per Liala che ricorda appunto la lettera scrittale «in pieno 1974» dalla ragazza cui i suoi romanzi diedero «la forza di resistere fino al matrimonio». Lo è, come abbiamo visto, per Gotta. Ma lo è anche per un romanziere che, se si guardano le sue prese di posizione politiche, non si può definire fascista: Virgilio Brocchi. Di Brocchi ricorderemo soltanto un romanzo, Secondo il cuor mio (1917-1918182 ): proprio questo romanzo, perché dovrebbe essere documento di cultura non di destra, avendo Ivi, p. 64. Pubblicato dapprima con il titolo Casa di pazzi casa di santi, dal settembre 1917 al febbraio 1918, nelle appendici del «Mondo», e poi raccolto in volume con il titolo che riprende la citazione in epigrafe dagli Atti degli Apostoli, Secondo il cuor 181 182
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provocato all’autore, allora assessore per l’istruzione superiore nella giunta Caldara (socialista) di Milano, addirittura una citazione del giudice istruttore con l’imputazione di disfattismo ed eccitamento esplicito dei soldati italiani all’intesa col nemico183 . In realtà il romanzo è abbastanza antimilitarista, seppure pieno di buoni sentimenti patriottici: il personaggio principale, una sorta di «santo» o magari di idiota dostoevskiano, rifiuta di usare le armi e partecipa alla guerra unicamente come portaferiti. Anche per questo personaggio, tuttavia, il «problema morale» dominante è poi il fatto di avere per amante una donna sposata. L’acme di questo problema si raggiunge in un salotto con pelle d’orso stesa a terra: Gigi rabbrividì, mormorò: – Mi sentivo inghiottire dalla vertigine: avevo paura del male che ti facevo, paura della luce... [...] Egli abbandonò la mano languida, e la sentì affondare tra il pelo dell’orso steso sul pavimento; una fitta gli attraversò il cuore: ecco, ecco, la passione dei sensi li immedesimava insieme con la belva, e li inchiodava bruti al terreno...184
Si noti che nel romanzo di Brocchi il lusso materiale è generalmente abbastanza peccaminoso, mentre il lusso spirituale imperversa trionfante dalla prima all’ultima pagina. Questa dominante di nesso spirituale, contrapposta qui alla «passione dei sensi» che inchioda «bruti al terreno», là, in Gotta, all’«allettamento dei sensi» e alle «vane torture d’alcova», si compone nell’uno e nell’altro romanzo in visioni sociali tutt’altro che contrastanmio, presso le edizioni Mondadori, Milano. Le nostre citazioni sono tratte dall’edizione del 1930. 183 Vedi V. Brocchi, La storia del mio processo, pubblicata in appendice a Secondo il cuor mio, cit., pp. I – XL. 184 V. Brocchi, Secondo il cuor mio, cit., pp. 129-130.
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ti, nonostante il diverso orientamento politico pubblico dei due autori, tanto da far sospettare che vi sia un preciso rapporto fra la tendenza a considerare unico o sommo «problema morale» l’adulterio o affini, e le lussureggianti fantasie spirituali intorno a forme di vita ostili alla società industriale. Nel romanzo di Brocchi, che comincia con quadri cupissimi delle lotte operaie nel primo decennio del ’900 (c’è perfino un prete, cattivo, che viene bruciato dal sindacalista dentro un forno per il vetro), l’immagine di redenzione della società è la seguente: la sorella del «santo», Letizia, una famosa cantante, ma anche pacifista, femminista e anarchica, compera vaste terre in Australia e vi trasferisce la famiglia: ... hanno fatto di là dell’Oceano una colonia meravigliosa di agricoltori, d’allevatori, in mezzo a pianure ondulate di frumento ampie come laghi, tra mari di foraggio che scendendo dalle foreste degli eucaliptus, sotto il ciglio delle Alpi azzurre, declinano ai laghi, popolati di armenti, in gran silenzio. [...] la grande famiglia dei Leoni aveva fondato la Colonia Letizia, con un reggimento quasi comunistico. L’aveva ispirata l’ardente utopia di Letizia; cento volte l’aveva tratta in pericolo la confusa aspirazione sindacalista di Mauro [quello che in Italia aveva bruciato il prete] e di Polimando; ma aveva finito di salvarla e di governarla la calma saggezza di Melchì e dei suoi figli [il vecchio zio e la sua famiglia contadina d’antico stampo]185
Questo abbandono della società industriale, con il ritorno a forme di vita agricola e pastorale e, nonostante il «reggimento quasi comunistico», l’evidente recupero della vecchia «calma saggezza» contadina, che difficilmente sarà stata «comunistica», non contrastano affatto con il nucleo ideologico dei progetti dell’industriale di Gotta. Il quale, nella fatidica notte, tiene a Mussolini un discorso così: 185
Ivi, pp. 87, 156
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Ho costruito la mia più bella impresa industriale senza credere più nella utilità sociale del capitalismo. Sono un eretico della mia fede di ieri. Credo che il regime capitalistico, storicamente giustificabile in una società dominata da principi materialistici, abbia cominciato ad abdicare il giorno in cui Voi avete attuato in Italia le Corporazioni Sindacali; gli darete il colpo di grazia il giorno in cui avrete valorizzato le Corporazioni d’Arti e Mestieri. [...] Dobbiamo ridonare all’Italia le falangi dei lavoratori a mano: dell’oro del ferro, del legno, del cuoio, della creta186
E già aveva detto, durante un colloquio con un amico: Tutte le macchine sono, per gli operai italiani, strumenti di tortura. [...] il secolo scorso ha provveduto a tutte le utilità del corpo, noi ritorniamo alla gioia dello spirito187
Aggiungiamo che in entrambi i casi, per Brocchi e per Gotta, la fuga dalla società industriale o i, progetti di superamento di essa (in direzione di forme di vita rurale o artigianale, incontaminata dalla macchina) rappresentano esplicitamente non solo una redenzione della vita sociale, ma, per i protagonisti dei due romanzi, l’unica possibile soluzione del «problema morale», cioè dei loro guai amorosi. Rifugiandosi in Australia nella colonia agricola il «santo» di Brocchi sfugge all’amore adultero; esponendo a Mussolini il suo progetto di «gioia dello spirito» per gli operai italiani trasformati in «lavoratori a mano», l’industriale di Gotta si redime dalla «materialità dei doveri e dei piaceri normali»188 , e proprio al termine del colloquio con il duce recupera la moglie, sia perché apprende che è salva dopo il tentato suicidio, sia perché si ritrova l’anima liberata dalla gelosia (e ritrova S. Gotta, Ombra la moglie bella, cit., pp. 331-332. Ivi, pp. 48-49. 188 Ivi, p. 328 186
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la moglie stessa libera dai suoi flirts più o meno casuali). La vittoria del lusso spirituale è al tempo stesso rinuncia alla macchina e liberazione dalla responsabilità, o comunque dalla partecipazione gelosa, nelle «vane torture d’alcova». E qui abbiamo l’impressione che si possa cogliere in atto quel procedimento della cultura di destra di cui dicevamo: la genesi e fuso del lusso spirituale e del linguaggio che vi corrisponde. Lusso spirituale è precisamente, in questi casi, e già nella commemorazione del Carducci che abbiamo citato, rifiuto del «materialismo», omogeneizzazione della tradizione culturale e delle caratteristiche storiche e contraddizioni del passato, e poi composizione, con quella pappa, di feticci positivi e negativi. Il materiale con cui i feticci sono modellati è talmente indifferenziato da permettere le conciliazioni ideologiche apparentemente più contrastanti: l’oratore che commemorò il Carducci poteva tranquillamente conciliare repubblica e monarchia, patriottismo, nazionalismo e «internazionalismo» massonico, e in seguito non avrebbe incontrato grandi difficoltà per conciliare i «germi di civile progressoche la rivoluzione francese aveva recati» e il fascismo189 Il fascista Gotta e il so189 Così come avrebbe poi in qualche modo conciliato il suo anticlericalismo massonico con il Concordato. Cfr. G. A. Fanelli, Mussolini di fronte al Cattolicesimo, «Antieuropa», 1° agosto 1930, pp. 1274-1279. Nel medesimo fascicolo di «Antieuropa» si trova (pp. 1329-1334) un articolo di G. Lo Duca, Una sintesi spirituale americana, che termina così: «Non è inutile chiudere questa mia prima indagine spirituale, facendo rilevare un effetto della civiltà senza ordine morale: oltre la grande cifra degli atei, l’America alberga circa un milione di delinquenti in grande stile». Non sarà inutile ricordare che le dispense di M. Marconi, Guida alla storia delle religioni, Opera universitaria dell’Univ. degli Studi di Milano, 1975, iniziano con queste parole (p. 3): «Premetto che l’ateismo è esperienza individuale, non del gruppo, cioè della società, piccola o grande che sia. (Se mai una imposizione di ateismo può venire da
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cialista Brocchi finivano per ritrovarsi su posizioni non troppo diverse quando affrontavano i problemi essenziali. Le fisionomie dei singoli feticci erano indubbiamente determinate da situazioni contingenti in cui si trovavano i loro diversi modellatori; ma tutti quei feticci hanno una certa aria di famiglia, come se ci trovassimo dinanzi a una di quelle mostre del pane in cui compaiono bambole, trecce, galletti e rose che sono poi tutti pane. La materia su cui opera il lusso spirituale è sempre la stessa: un passato che non c’è. Tutto quello che il passato è stato, è divenuto una pasta che si può modellare e cuocere come si vuole: la materia per eccellenza dei miti tecnicizzati, l’autentico «eterno presente» di cui Mircea Elude ha scritto l’apologia, dichiarandolo ciò che ha salvato gli uomini dal suicidio o dalla sterilità «spirituale» per troppo soffrire190 . E indubbiamente, come in ogni manipolazione di materiali mitologici, ha avuto un notevole peso la componente religiosa: innanzitutto la rivalsa del cattolicesimo, che ha riaffermato quasi trionfalmente il suo vincolo con la società borghese da cui escono un Gotta o un Brocchi, proponendo come «problema morale» per eccellenza il peccato della carne, le «vane torture d’alcova». Il feticcio negativo dell’adulterio o comunque di quel qualcosa cui Liala ha insegnato alla sua lettrice a «resistere», è fatto della medesima pasta del feticcio «società industriale»: nell’uno e nell’altro caso si tratta di feticci efficienti, di miti tecnicizzati che servono a distogliere dalle vere responsabilità, l’uno nell’ambito sociale, pubblico, l’altro nell’ambito privato, famiparte di singoli.)» Nel medesimo testo si legge, d’altronde, a proposito della religione romana definita da alcuni ritualistica e povera di miti, «Resta qui il problema aperto: se ciò sia dovuto alla razza cioè alla stoffa-uomo, se ciò sia dovuto all’apporto greco, ecc.» (ivi) [il corsivo è nostro]. 190 Vedi in precedenza, p. 38 e sgg.
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liare. La gelosia morbosa del protagonista del romanzo di Gotta, riconducendo esplicitamente i due feticci al tema unico della proprietà, è già di per sé rivelatrice. L’adulterio è il «problema morale» perché nell’ambito della vita privata è un emblematico problema di proprietà lesa. Ma anche le fughe o i propositi di rinnovamento della società industriale, la stessa dichiarazione molto fascista dell’industriale di Gotta, «Ho costruito la mia più bella impresa industriale senza credere più nell’utilità sociale del capitalismo», sono un atto di devozione al feticcio (e qui anche alla realtà concreta) della proprietà, che risulta tanto venerabile da poter essere solo spiritualizzata, senza venire affatto intaccata. «Spiritualizzata» vuol dire soltanto: trasfigurata in feticcio modellato con la pappa del passato, e quindi resa conciliabile con altri feticci come la colonia a «reggimento quasi comunistico» che vive grazie alla vecchia «calma saggezza» contadina, o come la società di artigiani senza macchine. Le vite dei protagonisti dei romanzi di Gotta e di Brocchi sono vite di santi, tentati come tutti i santi, e giunti nel porto del lusso spirituale, per il quale il passato è un presente eterno e sacro, ma certamente essoterico. Per Gotta l’essoterismo di questo passato diviene privilegio razziale: – Ed allora, Claudio, se così pensi anche tu, se anche tu credi nella immutabilità di certe leggi eterne all’anima umana, se credi nel mistero che ha favorito la nostra terra di sole e di bellezza, la nostra razza di genialità e di poesia, perché non rievochi il tempo che ha trovato le istituzioni più consone all’anima della nostra razza?191 191
S. Gotta, Ombra la moglie bella, cit., pp. 46-47.
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Gotta è un cattolico non solo epigono di Fogazzaro192 , ma fascista cattolico: Noi ci ricolleghiamo alla concezione cattolica, che conferisce alle società, come frazioni della specie, scopi e vita oltrepassanti gli scopi e la vita degli individui e comprendenti invece quelli della serie indefinita delle generazioni proiettate nel tempo193
«Razza», «specie»: dichiarerà poi Farinacci: «Noi cattolici fascisti [...]diciamo a conforto dell’anima nostra che se, come cattolici siamo diventati antisemiti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli»194 . Quanto a pappa di passato e a lusso spirituale, non saranno da meno gli ebrei fascisti cui si aprirono gli occhi solo all’ultimissimo giorno, come Ettore Ovazza nel Diario per mio figlio (1928): Ogni tanto, nel volgere turbinoso dei secoli, nasce un uomo che può proclamarsi pastore di popoli, e quest’uomo viene adorato e divinizzato. Così nasce Mosè, che dona al mondo in concet192 Oltre all’imitazione de Il santo, in Ombra la moglie bella (il colloquio notturno che abbiamo citato, e in cui la notte ha, non a caso, la funzione «wagneriana», «tristanica», della notte nel libro di Saint Loup, I volontari europei, ecc. [v. in precedenza p. 76]), si vedano le dichiarazioni di S. Gotta circa il suo debito verso Fogazzaro in Tre maestri (Fogazzaro, Giacosa, Gozzano), Mondadori, Milano 1975. In questo libro della vecchiaia, S. Gotta dice con involontaria franchezza d’aver studiato le pagine di Fogazzaro «come avrei scrutato, se mi fosse stato possibile, il grembo di mia madre», per scoprire come si facesse a fabbricare «gli effetti più personali e più efficaci a vincere l’incostanza dei lettori», e precisa che per lui trovare il modo di «vincere l’incostanza dei lettori», cioè di vendere migliaia di copie dei suoi romanzi, significava «sprofonda[rsi] nella misteriosa coscienza dell’arte». 193 S. Gotta, Ombra la moglie bella, cit., p. 49. 194 R. Farinacci, La chiesa e gli ebrei, Editrice Cremona Nuova, Cremona 1938, p. 7.
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to del Dio unico e le tavole fondamentali della vita civile, così nasce Gesù di Nazareth, che di fronte alle interessate deviazioni della dottrina, e alle iniquità dei tempi lancia il grido di liberazione e di riscossa per tutti i perseguitati e inizia la più grande Rivoluzione della storia. Così nascono Maometto e Gothamo Budda. [...] Oltre a queste grandi figure che appartengono a tutti i popoli e alla storia del genere umano vi sono grandi figure nella storia delle varie nazioni. [...] Ai profeti e agli autori del nostro Risorgimento la guerra mondiale ha aggiunto una schiera di fingenti eroi, ed ha soprattutto esaltato due grandi spiriti: Gabriele D’Annunzio e Benito Mussolini195 .
E con Ovazza torniamo sia all’oratore che commemorava il Carducci196 : l’evocazione di Gesù di Nazareth come portatore di valori non dissimili da quelli dei «grandi spiriti» del Risorgimento (molto probabilmente anche Ovazza era massone, almeno da principio), sia a Liala: il lusso spirituale, nelle sue pagine, non esclude il lusso materiale. Sono pagine di diario di un banchiere, e quindi è quasi ovvio trovarvi lieti ricordi di salotti e ville; ma la coincidenza con Liala è precisa (escluse, s’intende, in un diario per il figlio le allusioni a seduzioni) nelle lodi dello stile di vita dei ricchi e dei nobili. Qui c’è un lusso spirituale opportunamente moderato dal lusso materiale, che del resto è nobilitato dall’aura della storia, cioè dal passato divenuto pappa. La visita dell’industriale di Gotta a Mussolini è creazione di fantasia, ed è immaginazione di un piccolo borghese che traduce le sue ambizioni nell’incontro del lusso spirituale con il lusso materiale. Qui, in Ovazza, c’è l’alta borghesia, e piemontese, che per conciliare il lusso materiale con quello spiri195 E. Ovazza, Diario per mio foglio, STEN, Torino 1928, pp. 105-106. Ovazza, uno dei principali promotori della corrente ebraica fascista e del gruppo intorno alla rivista «La nostra bandiera», mori ucciso con la famiglia dai tedeschi. 196 La cui famiglia fu, di fatto, amica della famiglia Ovazza.
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tuale deve, almeno, come noblesse oblige, farne un lusso materiale storico-dinastico. Il 23 marzo 1926 il principe ereditario riceve Ovazza in udienza privata: Il Comandante Sestini e il capitano di Santarosa della Casa Militare di S. A. R. mi ricevono in una meravigliosa sala d’ingresso che precede quella dove il Principe riceve. Il fine gusto artistico di S. A. si nota nella disposizione dei vari preziosi mobili dorati e intarsiati e nei grandi arazzi che ornano la vasta sala. [...] Ecco la sala delle udienze. Il Re Galantuomo riceveva i visitatori in piedi accanto alla prima finestra. Si può dire che le vetuste mura di questo palazzo fremono di storia. [...] I valletti di Casa Savoia in livrea rossa sembrano riunire idealmente il passato coi nostri tempi portando insieme ai loro ricordi una vivace nota di colore197 .
«Honnête homme», «homme de bien», «grand homme» La omogeneizzazione del passato da cui muove il lusso spirituale che abbiamo visto all’opera e sul quale ritorneremo va seguita, se non dalle sue origini, per lo meno dal suo punto di partenza più prossimo a noi, cioè dall’istante in cui la cultura borghese del secondo ’700 si è avviata sulla strada di un rapporto con l’antico che qui esamineremo riferendoci soprattutto ai non specialisti dello studio dell’antichità: le personnes de qualité che pregiavano i classici nella cerchia della Pompadour, gli amatori della sobrietà greco-romana delle consoles alla corte di Luigi XVI, gli honnêtes hommesborghesi che leggevano Orazio in latino al tempo della rivoluzione di luglio. E infine i grands patrons dei nostri giorni: un’inchiesta della rivista «Connaissance des arts» (n. 180) sull’arredamento degli uffici privati dei presidenti-direttori generali del197
E. Ovazza, Diario per mio figlio, cit., pp. 157-158.
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le grandi aziende francesi, anno 1967, ci rivela che «Alla Société Générale gli uffici dei tre «grandi» sono stati or ora rinnovati: uno è Luigi XVI con boiseries d’epoca, il secondo è Luigi XV, il terzo in stile ottocentesco «notaio di provincia». Come Margherita, lo studioso può accorgersi anche solo al fiuto ( «Che afa qui dentro, che tanfo!»198 ) che Faust ha messo piede a sera nella «linda cameretta», e che Mefistofele vi ha deposto i gioielli. Basterà visitare con attenzione di archeologi ed epigrafisti i quartieri antichi dei cimiteri e le chiese che conservano lapidi funerarie del secolo scorso, e si scoprirà dove si rifugiava, sotto le sembianze di un notevole lusso spirituale, quella lindura perduta. Nella «linda cameretta» dell’interno borghese le cose cambiavano. La seggiola impagliata è stata sostituita con la poltrona di marocchino, la tavola con la scrivania preziosa, l’asse per i libri con l’armadio intarsiato, due gessi moderni con una Venere: «l’argilla moderna, spezzata dall’antico bronzo»199 . Per ricambiare un favore, Mme Geoffrin ha rinnovato l’arredamento dello studio di Diderot. Lui se ne lagna: la cameretta edificante del filosofo si è trasformata nel gabinetto scandaloso del pubblicano. «Così io insulto la miseria nazionale». Per evocare l’immagine dell’honnête homme basta comporre l’effigie del suo dio: il suo intérieur, la sua stanza, il cuore della sua casa. Chi è l’honnête homme? Non l’«onest’uomo», come verrebbe facile tradurre, e neppure l’«uomo d’onore» né l’«uomo dabbene», se ci si attiene alle definizioni del Tommaseo per questa triade. L’honnête homme non è nemmeno sinonimo di personne de qualité, che vuol dire propriamente «nobile», gentilhomme. I vecchi viaggi in Grecia e in Oriente, i loro preliminari, i loro resoconti, Goethe, Faust, I, v. 2753. Questa citazione e quelle che seguono sono tratte dai Regrets sur ma vieille robe de chambre di Diderot [1772]. 198
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sono da questo punto di vista preziosi, perché l’honnête homme è, piuttosto, il tipo d’uomo menzionato da Chateaubriand nella lettera del 1803 a Guéneau de Mussy: quando avesse visitato Atene, il Monte Athos, Costantinopoli, – scriveva Chateaubriand, tre anni prima di partire per l’Oriente – , egli avrebbe potuto dire d’aver visto «pressappoco tutto ciò che un honnête homme può desiderare di vedere»200 È difficile dire fino a qual punto questa espressione, honnête homme, suoni ironicamente autoriduttiva in bocca a chi era convinto d’essere assai più grand homme che honnête homme. Ma le due qualifiche non si escludono del tutto: hanno un luogo d’incontro, pur precario, che è la cultura. Riconoscendosi nell’honnête homme il borghese saliva di un gradino, senza giungere a fastigi principeschi, e l’aristocratico très grand seigneur discendeva di uno, senza che il proprio prestigio ne fosse troppo turbato. L’honnête homme era un convitato senza problemi alla tavola apparecchiata della cultura. C’è la tavola di aristocratici alla quale Rousseau, seduto in fondo in fondo, acquista d’improvviso prestigio perché è l’unico che riesca filologicamente a spiegare il motto dello stemma del padrone di casa. C’è la tavola dell’arricchito honnête homme che invita i parenti di provincia, e quelli hanno tutti le gambette corte e fanno cadere in continuazione il tovagliolo. Al tempo di Chamfort, honnête homme era qualità che accomunava il borghese o il militare pieni di virtù e l’aristocratico; era qualità in cui si congiungevano le virtù morali e il savoir-vivre; ma non bastava, da sola, per con200 Cit. in M. Descotes, L’itinéraire grec de Chateaubriand, «Epistimoniki Epetiris tis philosophikis scholis tu Panepistimiu Athinon» [Annuario scientifico della Facoltà di filosofia dell’Università di Atene], serie II, vol. VII, 1957-1958, p. 279; tutto l’articolo (pp. 289-306) è interessante per il nostro argomento.
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sentire di avere un posto di ospite in una carrozza stemmata, e non aveva a che fare con la cultura201 . L’avanzata della borghesia modificò il significato di quell’espressione. Honnête hommedivenne innanzitutto una fisionomia culturale: il borghese, l’aristocratico, che la sceglievano per sé, si conferivano virtù che erano giudicate provenire da una sfera alta, diversa, tra 1e sfere alte, da quella del puro potere consacrato di chi non aveva fatto altro che la fatica di nascere, e anche da quella della pura e «religiosa» onestà negli affari. L’honnête homme, di estrazione borghese oppure aristocratica, era un dilettante della cultura: era il borghese che vi dedicava le ore libere dal lavoro e gli spazi vuoti della sua mente, ma che non avrebbe ritenuto né saggio né virtuoso dedicarvi ogni ora, ogni sospiro, ogni spazio; o era l’aristocratico che, con tutto il suo gusto per la cultura, avrebbe ritenuto pur sempre degradante divenirne un professionista. E l’honnête homme, fosse di estrazione borghese o aristocratica, pur compiacendosi di una cultura che voleva dire soprattutto classicismo, Grecia, Roma, Grecia travestita da Roma, non era certo disposto a rendere il suo apprezzamento della classicità così radicale e così strumentale ai fini della modifica del presente, come fu quello di Rousseau e poi di Robespierre, l’uno professionista della cultura, l’altro professionista di quel rinnovamento pratico della società in cui, con la Rivoluzione, si traduceva l’esercizio professionale della cultura. L’honnéte homme 201 Vedi in Caractères et Anecdotes di Chamfort la storia del duca di A. che, senza farsi riconoscere, chiede un passaggio sulla carrozza dell’arcivescovo di Reims e infine rivela la sua vera identità; al che l’arcivescovo si scusa: «Ce maraud de laquais qui ne me dit pas... Je suis bien heureux encore d’avoir cru, sur votre parole, que vous étiez gentilhomme...»; il duca risponde: «Remettez-vous, monseigneur. Pardonnez à votre laquais, qui s’est contenté de vous dire que j’étais un honnête homme...»
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era lieto che «l’argilla moderna» fosse «spezzata dall’antico bronzo», come si lagnò Diderot; ma «l’antico bronzo» non rappresentava per lui, che era honnête, né l’erudizione troppo impegnativa, né l’imitazione – essa pure troppo impegnativa – degli stoici o delle antiche repubbliche, sostituita all’Imitazione di Cristo. Nella biblioteca dell’honnête homme c’era forse meno polvere su Fénelon che su Montesquieu, nessuna polvere sul Voyage de Polyclète del barone di Théis, il quale tornava a Fontenelle ( «Secondo me non ci sono verità che non debbano essere rese piacevoli»)202 quando dichiarava nella Prefazione i principi della sua volgarizzazione del mondo classico, con ambizioni o scrupoli per così dire fenomenologici: La conoscenza delle istituzioni, de’ costumi, ed anche degli usi d’un popolo, è indispensabilmente necessaria a chiunque voglia seguirlo nel vario corso della sua fortuna, e giudicarlo con equità. Ma le memorie, che vi si riferiscono, e di cui il lettore è sempre avidissimo, sono sparse nell’opere degli storici, ove tengono d’ordinario un luogo assai picciolo. [...] Però alcuni pazienti eruditi si sono studiati di supplire al difetto degli storici. [...] Ma non si può negare per altro che tante dissertazioni isolate e spesso aridissime, che tanti articoli indipendenti gli uni dagli altri, non formino piuttosto una specie d’archivio da consultarsi al bisogno, che opere interessanti, le quali si possano leggere seguitamente. Per dare un’idea giusta di una macchina vasta e complicata, non credo che basti spiegarne, pezzo a pezzo, tutte le parti; ma penso che sia pur uopo metterla in movimento, il che appunto io ho tentato di fare. Quindi mi sono finto una scena, semplice in sé medesima, ma tale nondimeno da cattivarsi qualche attenzione.203 202 Nell’esordio del «premier soir» de La pluralité des mondes [1686]. 203 Viaggio di Policleto o Lettere romane del Barone di Théis, trad. it. anonima, P. E. Giusti Fonditore Tipografo, Milano 1824, vol. I, p. 7.
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L’honnête homme non era, dunque, l’homme universel di La Bruyère o il décisionnaire di Montesquieu, quello che «ha letto tutto, ha visto tutto [...], preferisce mentire piuttosto che tacere o far la figura di ignorare qualcosa»204 ; si metteva veramente sotto i denti una certa quantità di pane della cultura classica (anche se condito di un qualche agrément), e non si dichiarava erudito onnisciente, anche perché quell’onniscienza avrebbe puzzato troppo di professione erudita; tutt’al più, nei momenti propizi, sulla poltrona di marocchino, dinanzi alla bella scrivania, alla libreria intarsiata, alla Venere bronzea, faceva come il celebre pappagallo Vert-Vert che parlait comme un livre toujours d’un ton confit en savoir-vivre205 .
Le virtù dell’honnête homme erano quelle di chi cercava nella cultura una legittimazione per la propria autorità, ricchezza, potere, sicurezza sociale, che, se borghese, vedeva salire ma bisognose di nobilitazione ideologica, e, se aristocratico, prevedeva o vedeva minacciate come di fatto erano, quindi non meno bisognose di una rinobilitazione ideologica – all’insegna della cultura. E si capisce, d’altronde, che potessero essere anche le virtù di chi, nell’una e nell’altra classe, cercava compensazione non triviale per i peggiori scacchi subiti nella vita d’ogni giorno. La cultura classica dell’honnête homme offriva nobiltà, legittimazione, compensazione, proprio perché non era il repertorio di dure virtù che Rousseau vedeva nelle repubbliche antiche, ma una collezione di prospettive esclusivamente rivolte verso honnête hom204 Lettres persanes, 72 (con evidente riferimento all’Arrias di La Bruyère, nel cap. v, «De la Société et de la Conversation», dei Caractères). 205 J. – B. – L. Gresset, Vert – Vert[1734], I, 2, vv. 44-45.
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meil passato come presupposto delle virtù conservatrici del presente: una finestra non solo nel gabinetto «scandaloso» di un ricchissimo fermier général, ma anche nello studio del facoltoso borghese, dell’aristocratico preoccupato sia della propria coscienza sia del proprio patrimonio, magari in declino, e anche del borghese in difficoltà, del nobile spiantato: finestra, per tutti coloro, sull’oro già alchemico, adesso storico-antico, di quei marmi e di quei gesti esemplari. L’espressione è francese, ma certo gli honnêtes hommes di questo tipo non si trovavano solo in Francia tra la fine del ’700 e i primi decenni dell’800. L’honnêtes hommeshonnéte homme è, entro certi limiti, europeo. Alla Francia del ’700 è debitore della lingua (latino e francese, deve conoscerli; non, di solito, il greco)206 ; e la società e la cultura francese dall’illuminismo alla Rivoluzione sono, se non la sua culla, per lo meno le sembianze più vistose delle fate che si chinarono sulla sua culla. Dell’illuminismo l’honnête homme è partecipe nella misura in cui vive nel riflesso del privilegio dell’intellettuale. La volontà di crescita sociale degli intellettuali illuministi non ebbe, anche nel caso del trovatello D’Alembert o di Diderot figlio del coltellinaio, l’obiettivo di un rango elevato 206 M. Descotes (in L’itinéraire grec de Chateaubriand, cit., p. 301) ricorda che in Francia, ancora verso il 1820, vi era l’abitudine di tradurre i testi greci in latino per avvicinarli al pubblico. Il padre di Sainte-Beuve, che postillava Omero sul testo originale, faceva evidentemente eccezione; Sainte-Beuve stesso studiò con specialissima passione il greco antico e quello moderno – ma Lamartine, per esempio, «ignorava il greco; e gli autori greci che lesse sul serio, in traduzione, si possono contare sulle dita di una mano» (M: F. Guyard, Le rêve grec de Lamartine, «Epistimoniki Epetiris tis philosophikis scholis tu Panepistimiu Athinon», serie II, vol. VII, 1956-57, p. 309; nel medesimo volume dell’«Epetiris», pp. 323-340, vedi il saggio di F. Pruner, Le philhellénisme de Sainte-Beuve: in particolare sullo studio della lingua greca v. pp. 327-328, 336).
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entro la società presente. Miravano piuttosto a ottenere un rango elevato «al di fuori» della società, dal quale potessero non soltanto mantenere le distanza verso lo «scandaloso» gabinetto del fermier général, ma anche intervenire con le armi intellettuali di cui erano i professionisti, come da un pianeta estraneo e vicino, sulle vicende dei potenti e dei popoli del pianeta terra. La stessa Encyclopédie si può definire un lavoro di furto e di proiezione delle attività umane dalla terra al pianeta degli intellettuali, dal quale le norme di tutto ciò sarebbero state scagliate come armi contro il pianeta terra, e le nozioni di tutto ciò, puríficate nell’aria rarefatta di lassù, sarebbero poi scese di nuovo sulla terra quando quelle armi l’avessero finalmente conquistata. La letteratura del secondo ’700 è ricca di falsi viaggi presso inesistenti selvaggi. Di fatto l’Encyclopédie sottraeva ai «selvaggi» civili d’Europa (tutti gli abitanti d’Europa che non fossero intellettuali e propriamente filosofi) le loro buone, e mal usate, nozioni, affinché fossero decantate sul pianeta degli intellettuali, fornissero leggi e modi di pensiero capaci di civilizzare quei selvaggi, e poi venissero restituite loro, una volta civilizzati. L’accettò di tutto questo l’aspetto che, isolato dal suo contesto e scelto da mani honnêtes, si rivelò più conservatore e reazionario, divenendo spesso caricaturale: la separazione fra la terra e il pianeta degli intellettuali, sul quale egli amò ritirarsi nelle ore in cui saliva o discendeva di un gradino (a seconda che fosse borghese o aristocratico) rispetto alla sua condizione sulla terra. Della Rivoluzione, l’honnête homme accettò, da questo punto di vista, ben poco: insieme con i vantaggi concreti che gli venivano dalla rottura della società feudale, l’honnête homme di estrazione borghese accettò della cultura maturata al tempo della Rivoluzione la possibilità di conservare i suoi Greci e i suoi Romani, che la Rivoluzione aveva recuperato come modelli morali – altrimen-
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ti sarebbero morti estenuati nel classicismo Louis Seize, à la Chénier207 Basta leggere il ritratto di Robespierre che Thiers disegna nella Storia della rivoluzione francese208 , per cogliere il passaggio dall’honnête homme all’homme de bien che corrisponde alla sopravvivenza abile e adeguata ai tempi dell’honnête homme settecentesco borghese, camuffato, nel XIX secolo. Un honnête homme se mai ce ne furono, come Thiers, accusa Robespierre dei vizi peculiari dell’honnête homme settecentesco. Prima di tutto lo colpisce nella sua condizione borghese professionale, extraculturale in senso stretto: «mediocre avvocato di Arras»; poi s’attacca a un difetto che è professionale (per un avvocato), ma che è già legato direttamente alle ambizioni culturali: «la povertà della sua eloquenza»; infine denuncia «la pedanteria», «l’ampollosità» di Robespierre, «mediocre» e «zelante» nel chiamare in causa la sua erudizione da honnête homme homme amante dei Greci e dei Romani virtuosi, per inchiodare gli avversari. Dalle pagine di Thiers, Robespierre appare non con la maschera del mostro puro e semplice che gli attribuiva la restaurazione borbonica negli anni stessi in cui fu pubblicata la Storia della rivoluzione (un libro apparso allora per così dire «di sinistra»), ma con la maschera dell’honnête homme, dalla «ragione stretta e comune», «pieno di riserbo e di cure per se stesso», «ritirato in un gabinetto elegante, [...] in cui si dedicava a un lavoro ostinato», amante della sua pedantesca cultura classica, petit homme abbagliato dagli eroi in toga. Tut207 È noto che un luogo comune della storia della letteratura francese, di cui è responsabile per primo Sainte-Beuve, sottolinea invece l’autenticità e la vitalità dell’ellenismo di André Chénier che «torna [agli antichi] come un getto d’acqua alla sua fonte». 208 A. Thiers, Histoire de la Révolution française, Furne et Cie., Parigi 184713, Vol. II, pp. 194-96.
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te le caratteristiche dell’honnête homme, certo, – a parte il fatto che, qui, è un honnête homme, Thiers, a rinfacciarle ad un Robespierre per il quale la cultura doveva essere azione di metamorfosi della società, senza residuo, dunque l’esatto opposto del tesoro culturale privato dell’honnête homme. L’honnête homme, nella persona di Thiers, rifiuta dopo la Rivoluzione la propria fisionomia e si sceglie quella dell’homme de bien: un’espressione che, questa volta, si può tradurre abbastanza correttamente con il suo corrispettivo italiano più immediato, «uomo dabbene». Anche in questo caso, tuttavia, non ci servono le definizioni per cosi dire ottimali, e moralistiche, del Tommaseo: «Uomo dabbene, colui che adempie tutti i proprii doveri. [...] L’uomo dabbene fa del bene a tutti, vuole il bene di tutti [...] L’uomo dabbene opera anche sopra il dovere»209 . L’uomo dabbene che corrisponde all’homme de bien è, come dice il Petrocchi, un «uomo onesto», cioè un uomo «che mantiene i suoi impegni e non manca alla parola»210 , ma anche qualcosa di più: l’homme de bien è l’esatto equivalente borghese dell’homme de qualité (aristocratico), dunque l’uomo dabbene è il borghese possibilmente colto e comunque non rozzo, benestante, dai titoli di merito economico, intellettuale e morale ben riconosciuti dalla società. L’espressione homme de bien ricorre più volte nel Discorso d’ingresso dello stesso Thiers all’Académie Françlaise,211 , riferita naturalmente dall’oratore non a se stesso, ma all’accademico defunto di cui, secondo la re209 N. Tommaseo, Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Rejna, Milano 18543, p. 614 (§ 2915). 210 P. Petrocchi, Nòvo diziònario universale della lingua italiana, Treves, Milano 1909, s. v. Dabbène e Galantòmo (vol. I, pp. 671, 1005). 211 Discours prononcé à l’Académie Françlaise par M. Thiers le jour de sa réception, 13 Décembre 1834, riprodotto al principio
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gola, Thiers pronunciò l’elogio. Si trattava, nella fattispecie, di Françlois-Guillaume Andrieux, un commediografo ormai dimenticato, che ebbe anche una certa notorietà come uomo politico. Disse Thiers nel suo discorso che non solo Andrieux era stato un homme de bien, ma era morto contento di lasciare le sue due figlie a due hommes de bien. Nell’uno e nell’altro caso, a proposito sia di Andrieux sia dei suoi generi, Thiers non disse soltanto homme de bien, ma homme d’esprit et de bien: evidentemente homme de bien non era qualifica tale da implicare, da sola, anche l’esprit. Il risultato della metamorfosi dell’honnête homme in homme de bien aveva bisogno di puntelli (la menzione esplicita dell’esprit) per godere appieno di prestigio intellettuale. Tutto il discorso di Thiers mostra, del resto, che intorno al 1834 l’honnête homme settecentesco di cui parlavamo era stato sepolto dagli ultimi esponenti borghesi di quella stessa specie: l’avanzata della borghesia le aveva reso meno necessarie quelle nobilitazioni culturali private, e nello stesso tempo il rischio di radicalizzazioni sovversive della cultura classica era divenuto, con la Rivoluzione, così concreto da richiedere un’altra forma di impegno culturale. L’homme de bien poteva benissimo coltivare, come l’honnête homme, il «suo» latino, ma era opportuno che il margine di libertà fantastica implicito nella separazione fra il pianeta degli intellettuali e la terra (nel senso degli honnête homme per così dire illuministi) fosse corretto da una più diretta partecipazione della cultura degli honnête homme alle convenzioni e alle domesticazioni dell’ideologia politica corrente (Thiers pronunciò il suo discorso dopo la rivoluzione di luglio). Se l’honnête homme borghese settecentesco era stato conservatore, l’homme de bien del
della Histoire de la Révolution françlaise, cit., vol. I; le nostre citazioni provengono dalle pp. IV e XVI.
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1834 doveva essere (o essere stato, poiché, da parte di Thiers, l’applicazione della qualifica è retroattiva!) conservatore cieco, cioè assolutamente ignaro delle libertà di pensiero da coltivare in privato, «in un gabinetto elegante». Doveva, insomma, essere un virtuoso consapevole e partecipe anche nella sua cultura di una politica conservatrice, anziché suscettibile di avventure di libertà apolitica, di evasioni fantastiche, nelle pause della sua attività quotidiana. Queste avventure di libertà sui generis sono esclusivamente riservate da Thiers nel suo discorso ai Quaranta dell’Académie Francçlaise, rare e preziose e ammissibili accezioni umane di esercizio professionale della cultura, che è ormai esercizio professionale e aristocratico, estraneo all’ambiente degli honnête homme, tutt’al più loro faro. Vi è così un recupero diretto del grand homme, che può permettersi d’essere anche un intellettuale; e la catena dei grandi uomini che si sono succeduti attraverso i secoli diviene la garanzia per eccellenza del rapporto con il passato. L’omogeneizzazione del passato raggiunge la fase più caratteristica, quella appunto della moderna cultura di destra, del fascismo e del neofascismo. Le fisionomie dei grandi uomini si raggruppano in categorie che divengono i vari volti del passato, ma di un passato atemporale, di un «eterno presente». E per conoscere quelle categorie non c’è bisogno di ricorrere a Nietzsche, anzi è inopportuno dar troppo retta a Nietzsche, perché in Nietzsche si tratta di volti nettamente diversi l’uno dall’altro e capaci di esercitare una critica violenta nei confronti del presente. Meglio ricorrere al brano che abbiamo già citato, del banchiere scrittore dilettante, il quale li elenca tutti e li raccoglie come protettori del presente nel suo carosello storico, volti tutti somiglianti, figure caratterizzate soltanto dal costume che indossano: i santi, gli eroi, i poeti. Le prerogative, del resto, sono scambievoli: il «santo» del romanzo di Brocchi è anche un artista e un
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eroe; eroe, poeta, e perfin quasi santo (in nome del Cristo tradito dalla Chiesa) è il Carducci nelle commemorazioni che citavamo; per non parlare dei due «grandi spiriti» che la guerra mondiale ha «esaltato»: «il conquistatore di Fiume e il fondatore del Fascismo»212 . Questi due ultimi furono evidentemente persone reali oltre che feticci, e interessano il nostro studio non solo per l’immagine che di essi ebbero gli altri, bensì anche per il loro diretto contributo alla cultura di destra. Quanto a Mussolini, però, non c’è molto da dire. A parte un certo cinismo di fondo e una tendenza al disprezzo di chi gli si stendeva davanti (cui corrispondeva l’odio per chi non lo faceva), non sembra che Mussolini nutrisse sostanziali riserve nei confronti del feticcio che lo raffigurava. Vi si riconosceva benissimo. La sua cultura era precisamente quella di cui abbiamo parlato finora, senza che lui personalmente vi mostrasse qualche speciale originalità. Il lusso spirituale era la sua atmosfera naturale, e la sua mitologia romano-imperiale era fatta dello stesso passato omogeneizzato con cui altri avevano modellato i feticci delle commemorazioni del Risorgimento. Il discorso invece cambia notevolmente per D’Annunzio: se è evidente che i «mussoliniani furono per lo più interpreti e apologeti ortodossi di ciò che passava per la testa al loro grande uomo, si resta molto esitanti a parlar di altrettanta ortodossia per i dannunziani nei confronti del poeta, il quale fra gli innumeri talenti che si attribuì e che gli furono attribuiti possedeva senza dubbio in modo brillantissimo quella della mistificazione. 212
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La brutalità del gesto inutile. D’Annunzio, Pirandello Dopo tutto il nostro discorso sui rapporti tra rifiuto della macchina e della società industriale, ed elezione dei rapporti sessuali extra-matrimoniali a «problema morale» per eccellenza, nel lusso spirituale della cultura rappresentata da un Brocchi o da un Gotta, ora che abbiamo nominato D’Annunzio potremmo chiederci se un fenomeno dell’ampiezza del dannunzianesimo non rappresenti un versante completamente diverso della cultura di destra. In questo presumibilmente concordi, sia D’Annunzio sia i dannunziani mostrarono di provare tutt’altro che ripugnanza e senso di peccato verso la macchina213 e D’Annunzio stesso (qui dubitiamo di poter aggiungere i dannunziani) è abbastanza improbabile che giudicasse «problema morale» per eccellenza i rapporti sessuali extra-matrimoniali. Non che vogliamo accettare senza discussioni l’effigie del poeta amorale, diffusa fra i suoi seguaci e fra i suoi detrattori, con l’evidente sua personale complicità. Abbiamo l’impressione, anzi, che D’Annunzio si ponesse una quantità di problemi morali: ma non intorno alle vicende amorose sue o altrui, bensì intorno a domande sulla funzione, la natura, diremmo quasi il valore ontologico dell’arte e dell’artista – domande cui, in fondo, non riuscì mai a rispondere, adottando proprio per questo una tecnica di costante mistificazione verso di sé e verso gli altri, e nutrendo continuamen213 Cfr. R. Tessari, Il mito della macchina. Letteratura e industria nel primo Novecento italiano, Mursia, Milano 1973, in particolare il cap. III. Nel medesimo libro (cap. IV) vedi inoltre le considerazioni sull’apologia della macchina e sul rifiuto delle «vane torture d’alcova» nei Futuristi. Cfr. a questo proposito anche R. Tessari, Le futurisme et la machine: un mythe d’amour tristanique, «Europe», n. 551 («Les futurismes»), 1975, pp. 48-53.
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te di lusso materiale un lusso spirituale che non riusciva a fondare. L’impressione è, insomma, che D’Annunzio fosse molto meno disposto dei suoi seguaci (e degli altri partecipi della cultura di destra che non erano suoi seguaci) a nutrirsi fiduciosamente e con viva soddisfazione di quel passato indifferenziato, omogeneizzato, con cui gli altri si fabbricavano i loro feticci di eterno presente. È presumibile che non provasse molto maggior rispetto di loro verso la concretezza della storia, ma era molto più sensibile di loro alle differenze stilistiche nelle culture del passato e, pur senza storicizzarle, attribuiva a esse un valore ontologico con cui non poteva rinunciare a fare i conti. Con la sua tendenza costante a ipostatizzare, era uno che probabilmente credeva nei miti, e per quanto passasse l’esistenza a tecnicizzare materiali mitologici, si ha l’impressione che fosse convinto di una permanenza autonoma dei nuclei mitici di quei materiali: nuclei che gli parevano sfuggire alle sue manipolazioni. O forse non era troppo certo che quei nuclei mitici fossero ancora vivi, dubitava che fossero qualcosa di simile a stelle morte di cui egli continuava a catturare la luce senza potersi di fatto impadronire della fonte di quella luce, inciampo sulla sua strada perché sottrattasi con la morte al possesso. Di là dal passato indifferenziato che manipolava continuamente, incontrava un passato composto di ipostasi nettamente differenziate, e perduto. Il suo lusso spirituale era sempre minacciato dalla nozione della perdita irrecuperabile di un passato certo mitico, non storico, da cui provenivano culture e stilemi che sentiva non omogeneizzabilí fino in fondo. L’aria funeraria del Vittoriale deriva forse anche dal sospetto, nel visitatore, che tutto il mostruoso bric – à – brac sia stato messo insieme senza molta convinzione in quella casa così come sulla pagina scritta: una montagna di roba che sarebbe dovuta servire, ma che alla prova s’è rivelata inutilizzabile: inservibili gli oggetti e le immagini, effetti e stilemi e les-
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sico prezioso, tutto il lusso materiale, per nutrire il lusso spirituale. Il quale lusso spirituale si nutre solo di pappa, mentre qui tutti gli oggetti del lusso materiale, e tutto il passato che si presenta in essi, conservano fisionomia e durezza, non si lasciano omogeneizzare e manipolare fino in fondo. La prima a essere colpita da questa resistenza del passato a lasciarsi integralmente manipolare è la fisionomia stessa del grand’uomo, la quale corre il rischio di assumere implicitamente una funzione critica nei confronti della società che la coltiva, dunque proprio la funzione che a priori le è negata. D’Annunzio ha messo in atto una macchinosissima mistificazione, si può dire per tutta la sua vita, in modo da rimanere ben al riparo da quel rischio. Da qui possiamo partire per verificare se il suo atteggiamento pubblico di protagonista e produttore di cultura, e quello dei suoi seguaci, siano sostanzialmente diversi dall’ideologia e dalle prove di lusso spirituale di un Brocchi o di un Gotta. Abbiamo detto che D’Annunzio e i dannunziani non provarono affatto ripugnanza verso la macchina: dalle opere del poeta non è difficile ricavare un florilegio di mitologizzazioni della macchina, elogiative, ammiranti. Ma a ben guardare non ci sono in D’Annunzio sostanziosi elogi della società industriale, e c’è invece, notorio, l’elogio delle attività artigianali che abbiamo trovato in Gotta; e c’è pure, anche nelle prese di posizione più propriamente politiche di D’Annunzio, nella Costituzione della Reggenza Italiana del Carnaro, l’ipotesi di un «reggimento quasi comunistico» sul genere di quello della «Colonia Letizia» nel romanzo di Brocchi. Quanto, poi, al «problema morale», se è vero che l’autentico problema morale per D’Annunzio non fu quello delle «vane torture d’alcova», e che anche semplicemente nelle trame dei romanzi e delle opere teatrali le questioni d’amore «illecito» più vistose – per esempio ne La Gioconda – non sono il punto centrale in cui si fa mag-
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giore la tensione drammatica, bisogna ricordare però che i motivi ideologici da noi riconosciuti nel lusso spirituale Gotta-Brocchi alle spalle dei due temi salienti, fuga dalla società industriale, redenzione dagli amori adulterini, compaiono in tutta l’opera dannunziana, ma raccolti in un’unica tonalità, generatori di un gruppo omogeneo di immagini e di un omogeneo uso della parola, che nelle «vane torture d’alcova» hanno solo una delle tante loro accezioni. Per questa tonalità, che ci sembra la vera dominante della mistificazione dannunziana, non abbiamo definizione migliore che: brutalità gratuita. Con questo ci avviciniamo molto a ciò che nel primo paragrafo abbiamo definito «compiti inutili» (imposti dai didatti dell’esoterismo neofascista ai loro seguaci). Di fatto, tutto il lusso spirituale della cultura di destra corrisponde a una brutalità di comportamento pubblico e privato, sociale e familiare, che non appare affatto ideologicamente gratuita ai suoi apologeti finché questi si accontentano del passato indifferenziato con cui fabbricano feticci di virilità, forza eroica, sacrificio fino alla morte, disciplina, gerarchia, patria e famiglia da difendere come granitico possesso, e finché questi credono che la pappa da loro manipolata sia veramente l’eterno presente di vita (il vero passato atemporale, dunque il vero presente). La brutalità che a livello di cultura si presenta come lusso spirituale, in questi casi non appare gratuita ai suoi apologeti – e non appare gratuita ai seguaci del neofascismo profano – perché è lo stile di comportamento garantito dal passato, indispensabile per adeguarsi al presente; alla «vita», e utile per fabbricare il futuro. La maggior parte dei dannunziani può essere certamente compresa nella schiera di questi convinti della brutalità utile. Ma D’Annunzio tende a rimanerne al di fuori, data la sua incertezza circa la possibilità di manipolare fino in fondo i nuclei del passato, di recuperare il passato perduto, e dato il quadro funereo che in realtà egli traccia del futuro: un fu-
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turo di morte (di cui la decrepitezza personale è solo un riflesso), che non è possibile mutare, cui è possibile solo adeguarsi con atti di religione della morte: «Così l’Antico m’insegnò la commemorazione della morte...»214 . Ora, è noto che, sebbene la morte sia quasi una costante negli incitamenti «eroici» di D’Annunzio («... e la morte a paro a paro»), il senso apparente di quegli incitamenti è la guerra vittoriosa, la conquista, l’imperialismo. Ma se confrontiamo la posizione di D’Annunzio verso il passato con quella degli ideologi più sacri dell’esoterismo neofascista verso la Tradizione, ci accorgiamo che nell’uno e nell’altro caso il vate o il saggio sono convinti di avere alle spalle un patrimonio perduto e dinanzi a sé un futuro di decadenza e di morte che non è più arrestabile, qualsiasi cosa si faccia. Ne La città morta vi è una singolare proiezione del futuro nel passato, e una coincidenza fra la perdita del passato svanito «nel silenzio» e la morte in cui svanirà il futuro. È la pagina in cui Alessandro rievoca l’apertura delle «Tombe degli Atridi» a Micene, e lo svanire dei cadaveri a contatto con l’aria: L’oro, l’oro... i cadaveri... Una immensità di oro... I cadaveri tutti coperti d’oro... [...] Per un attimo l’anima ha varcato i secoli e i millenni, ha respirato nella leggenda spaventosa, ha palpitato nell’orrore dell’antica strage. [...] Per un attimo l’anima ha vissuto d’una vita antichissima e violenta. Essi erano là, gli uccisi. [...] Come un vapore che si esala, come una schiuma che si strugge, come una polvere che si disperde, come non so che indicibilmente labile e fugace, tutti si sono dileguati nel loro silenzio. M’è parso che sieno stati inghiottiti dallo stesso silenzio fatale ch’era intorno alla loro immobilità raggiante. Non so dire quel che è 214 G. D’Annunzio, Le vergini delle rocce, in Prose di romanzi, Mondadori, Milano 1964, vol. II, p. 409.
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avvenuto. È rimasto là un ammasso di cose preziose, un tesoro senza pari...215
Questo «ammasso di cose preziose» puntualmente descritto poco dopo con l’esibizionismo erudito del dilettante di archeologia ( «Vasi meravigliosi, a quattro anse, ornate di piccole colombe, simili alla coppa di Nestore in Omero; grandi teste di bue, tutte d’argento massiccio, con le corna tutte d’oro...» e così via per venti righe filate), fa pensare non solo al bric – à – brac del Vittoriale, ma alla sostanza degli innumerevoli scritti di un Guénon o di un Evola sui simboli della Tradizione: Graal, fiori simbolici, zodiaco, svastica, caverna, labirinto, arcobaleno, ecc. Tutti materiali di una Tradizione che Evola, verso la fine della sua vita, dichiarerà perduta per questa fase del mondo, qualunque sforzo si faccia per tornare ad accedervi. Ma tanto il vate che i saggi incitano i discepoli ad agire, in vista di risultati più che futuri, cioè da raggiungersi in un’epoca di nuovo ciclo cosmico. Confrontiamo con le esortazioni di Evola agli «uomini della Tradizione» certe parole di D’Annunzio: [L’Antico]... m’insegnò a riconoscere con sicuro intuito quelle anime su cui esercitare il beneficio e il predominio e da cui ottenere una qualche straordinaria rivelazione216
E ci accorgiamo che non è del tutto azzardato supporre questo: come il neofascismo sacro ed esoterico sembra proporre ai suoi neofiti una via di perfezionamento segnata da compiti inutili e brutali, così l’eroismo e le imprese imperialistiche che D’Annunzio proponeva alle «anime» dei suoi seguaci erano probabilmente compi215 G. D’Annunzio, La città morta, Treves, Milano 1919, pp. 64-69 (atto prima, scena quinta). 216 G. D’Annunzio, Le vergini delle rocce, cit., p. 410.
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ti inutili nella mente del vate. Inutili in sé e per sé, utili come strumenti didattici per la fabbricazione là di una razza «della Tradizione», qui di una razza «sovrumana». È quasi ovvio aggiungere che, così come i compiti inutili ideati dai saggi del neofascismo esoterico vengono di fatto utilizzati da altri per ragioni molto meno metafisiche, e diventano autentico terrorismo per obiettivi molto concreti allo stesso modo D’Annunzio e il dannunzianesimo sono stati concretamente adoperati, nei limiti del possibile, dal fascismo profano (e non è da escludere che, tra le molte ragioni di freddezza tra D’Annunzio e Mussolini, vi sia anche stato il disprezzo del vate per chi era così triviale da non comprendere, e anzi da contaminare, il ritualismo oggi di per sé inutile, domani promotore di «qualche straordinaria rivelazione»). Se questo è vero, si può comprendere facilmente che D’Annunzio non privilegiasse in particolare nessun aspetto del programma «inutilmente» eroico, e quindi non ponesse in primo piano neppure la tematica dei rapporti sessuali, che era un suo topos ricorrente. Se un Gotta imponeva castità e censura per risolvere il «problema morale», D’Annunzio non aveva bisogno d’altro che di purificare i rapporti sessuali facendone un’occasione, ma non la sola ( «Ogni cartuccia italiana valga oggi un uomo ucciso»)217 , di brutalità inutile ed eroica: Sentì il noto sapore dolciastro nella sua bocca, e non d’una sola stilla; e poi sentì l’altra bocca schiacciarla, più pesante del pugno, e i colpi cessare, e le mani passare a un’altra violenza, e la carne penetrare la carne come il ferro che sventra. E nella lividezza del crepuscolo, in fondo a quella stanza d’amore, tra le quattro pareti ch’erano quattro testimonii di silenzio e d’ombra, fu la mischia feroce di due nemici legati per il mezzo del corpo, fu l’ànsito crescente nel collo gonfio di arterie da recidere, fu 217 G. D’Annunzio, Adua. A Benito Mussolini, in Teneo te Africa, Il Vittoriale degli italiani 1939, p. 173.
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lo squasso rabbioso di chi si sforza strappare dall’infimo le più rosse radici della vita e scagliarle di là dal limite imposto allo spasimo degli uomini218 .
E nel D’Annunzio senile il semi-vaneggiamento degli ultimi «messaggi» risolve l’uniforme tematica eroica in una faticosa allucinazione, in vaghe associazioni di immagini, colori, numeri, che si professano abissalmente profonde e «fatidiche» e che ricordano da vicino il pensiero analogico e le etimologie «sacre» di Guénon o di Evola. Cose di questo genere: Sono quarantacinque i bresciani caduti fra i combattenti d’Oltremare. E subitamente mi rimemoro come Dante, nel Convivio. affermi che la gioventù si compie nel quarantacinquesimo anno! [...] Sono anche essi alati. Per essi le colonne di Brescia sono ali avviluppate che siano per aprirsi. Ai latini l’ala è aëria come la colonna, elata è l’una come l’altra219
La scarsissima simpatia reciproca fra D’Annunzio e Pirandello (il Pirandello che all’indomani dell’uccisione di Matteotti chiedeva la tessera del partito fascista a Mussolini con la celebre lettera: «Eccellenza, sento che per me questo è il momento più propizio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l’E. V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera»)220 proba218 G. D’Annunzio, Forse che sì forse che no, Treves, Milano 1910, pp. 438-439. 219 G. D’Annunzio, Alla podestà di Fausto Lechi in Brescia per i bresciani morti nella conquista d’Africa e per i legionari della seconda divisione «28 ottobre» reduci, in Teneo te Africa, cit., p. 199. 220 Fu pubblicata su «L’Impero», 19 settembre 1924. È riprodotta in G. Giudice, Luigi Pirandello, Utet, Torino 1963, p. 425.
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bilmente derivava anche dal fatto che l’uno e l’altro coltivavano l’ideologia del «compito inutile» al centro del loro pensiero, ma ciascuno in modo diverso e concorrenziale. Non che a Pirandello mancasse il gusto della brutalità; basterebbe citare la sua lettera a Telesio Interlandi dopo l’intervista che costui aveva pubblicato su L’Impero il 23 settembre 1924: Caro Interlandi, a chiarimento del mio pensiero, mi permetto di farle osservare che io non dissi così recisamente e crudamente come appare dalla sua intervista, che avrei voluto «la soppressione della stampa avversaria». Dissi che, applicato il decreto sulla stampa, come misura eccezionale per impedire una macabra e oscena propaganda d’odio partigiano, s’era represso ben poco [...] s’è visto sempre che un po’ di bene s’è avuto sol quando, senza gridare e senza neppure alzar le mani, semplicemente ma risolutamente, s’è andato incontro a queste parole, che subito allora sono scappate via, sperdendosi di qua e di là, con la coda bassa e illividita dalla paura221 .
E neppure gli mancò, allo scoppio della I guerra mondiale, il gusto della morte inutile e bella, tanto da celebrare e quasi posti a modello la morte del vecchio garibaldino Lavezzari, volontario nonostante l’età222 : il personaggio di cui Giulio Barni avrebbe scritto la «Canzone», il portabandiera di Garibaldi a Bezzecca, che va all’assalto del Monte Sabotino togliendosi la giubba grigioverde e mostrando la camicia rossa che portava sotto: E il 19 luglio arrivò sulla trincera, Cit. da G. Giudice, Luigi Pirandello, cit., p. 430. In Frammento di cronaca di Marco Leccio e della sua guerra sulla carta (cui sarebbe da confrontare, del resto, il suicidio «inutile» in un senso ben diverso, che chiama in causa l’inutilità della vita, nella novella Mentre il cuore soffriva, in Novelle per un anno, vol. XIII, novella 13) 221 222
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si levò la giubba verde, mostrò la sua bandiera. E disse ai volontari romagnoli e triestini: «Avanti alla baionetta, e fate i garibaldini!»223
(«Canzone» che Umberto Saba dichiarò «una delle meraviglie» dell’opera di Barni: «Dovrebbe essere citata, come esempio di quella che si chiama [propriamente o no] poesia popolare, nei libri di scuola. [Ai ragazzi piacerebbe moltissimo]»)224 . Ma il «compito inutile» di Pirandello è lontanissimo dal ritualismo esoterico del «compito inutile» di D’Annunzio: mentre il «compito inutile» di D’Annunzio è mistificazione didattica, e sia pure di una didattica tragica, ma giocata sulla speranza di una più che futura (d’altro ciclo cosmico) «straordinaria rivelazione», quella di Pirandello è brutalità inutile senza mistificazione, poiché resa inutile, nihilistica ed essoterica fino in fondo dalla perdita di ogni passato collettivo, e perciò anche di ogni futuro e più che futuro. S’intenda: la speranza di D’Annunzio in una più che futura «straordinaria rivelazione» si proiettava unicamente su destini che a occhi profani sarebbero apparsi (se il vate li avesse manifestati chiaramente, come qualche volta fece) destini di morte, Evola avrebbe detto di Kali – Yuga; e quella speranza era fondata unicamente – come quella dei neofascisti sacri – sull’efficienza di atti rituali di religione della morte. Qui, appunto, il fascismo di Pirandello protestava: il passato, certo, era morte; la morte avrebbe chiuso il futuro; ma la morte era vera morte:«Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la 223 G. Barni (pseudonimo di G. Camber), La canzone di Lavezzari, ne La Buffa, Mondadori, Milano 1950, p. 171. 224 U. Saba, Di questo libro e di un altro mondo, stampato al principio di G. Barni, La Buffa, cit., p. 51.
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cenere vorrei avanzasse di me»225 . E in questo il fascismo di Pirandello non poteva conciliarsi con il compito inutile ed esoterico di D’Annunzio, ma neppure con il compito utile del fascismo profano di Mussolini («un uomo volgare» egli dirà di Mussolini, e forse almeno in ciò sarà stato d’accordo con D’Annunzio, sia pure per diverse ragioni). Il lusso spirituale di Mussolini e di tutto il fascismo profano era, oltre che mosso da concrete intenzioni politiche, nutrito della pappa del passato indifferenziato e sempre disponibile – come il lusso spirituale del neofascismo profano – : viveva del cibo dell’homme de bien. Il lusso spirituale di Pirandello era scarso, brutalità ed eroismo non avevano in lui di che nutrirsi (sebbene continuassero a vivere, affamati). Il passato era interamente perduto, «l’Antico» era inaccessibile; tutt’al più, per disperazione, ci si poteva lasciare avvolgere, da morti, dal suo guscio vuoto: ... niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui226 .
Non questo avrebbe desiderato l’homme de bien che ornava di colonne doriche e di frontoni neoclassici la propria tomba. Il quadro preciso, del resto, di ciò che era accaduto al passato, all’«Antico», Pirandello l’aveva già tracciato in una novella giovanile, Il turno. La scena è a Girgenti, alla fine del secolo scorso: c’è un vecchio ricco, che ha sposato una giovanissima e che si circonda di giovani amici; vecchio, nobile, ai suoi tempi «cavaliere compitissimo, spadaccino, ballerino. Né i suoi meriti 225 Dal § IV del testamento di Pirandello ( «Mie ultime volontà da rispettare»), riprodotto da G. Giudice, Luigi Pirandello, cit., p. 546. 226 Ibidem.
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si restringevano solo qui, nel campo, com’egli diceva, di Venere e Marte: don Diego parlava il latino speditamente, sapeva a memoria Catullo e la maggior parte delle odi di Orazio...»227 . Il vecchio homme de bien e la compagnia di giovani che lo circondano decidono un giorno di fare una gita ai templi agrigentini (il tempo si metterà al brutto, e l’homme de bien, vittima dell’acquazzone, si troverà poi in punto di morte). Arrivano dinanzi al tempio della Concordia: Fifo Garofalo, intinto d’archeologia, con la tovaglia da tavola su le spalle e un cappello a cencio assettato sossopra sul capo: – Venite, o profani! – tuonò, saltando su un pietrone nel mezzo del tempio. – Turba irriverente, vieni! No, aspettate... – (scese dal pietrone). – La signora Stellina faccia da nume; alzi le braccia... così. Adorate, o profani, la Dea Concordia! Io, sacerdote celebrante, dico ad alta voce: – Facciamo libazioni e preghiamo... Ma no, aspettate! aspettate! Tutti, tranne Stellina, atteggiata da nume, s’eran precipitati su la cesta delle vivande portata dalla serva. – Tu, Pepè, – ag giunse Fifo, gridando. – Tu, mastro subalterno, chiedi prima a gli astanti: – Chi son coloro che compongono questa assemblea? – Affamati! – risposero tutti a coro, compreso il nume, Stellina. – No, no! Bisogna rispondere ad altissima voce: Uomini dabbene!228
227 L. Pirandello Il turno, in Il turno. – Lontano, Novelle, Treves, Milano 1915, p. 10. 228 Ivi, pp. 85-86. Il corsivo è nell’originale.
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APPENDICE
Riproduciamo qui i testi inediti di due commemorazioni di Giosuè Carducci, il cui autore fu un allievo di A. Graf e di R. Renier, Percy Chirone (1880-1953). L’interesse di questi documenti non risiede evidentemente nella loro qualità letteraria, ma nel fatto che essi offrono una delle rare occasioni di confrontare due discorsi di un medesimo autore e su un medesimo argomento, ma l’uno in pubblico, l’altro in una Loggia massonica. Le due commemorazioni sono, inoltre, testi esemplari per il nostro studio, proprio perché documentano una situazione generale, anziché le prese di posizione di una personalità particolarmente originale. I manoscritti originali autografi delle due commemorazioni si trovano presso l’autore del presente studio; constano il primo di 14 foglietti numerati, scritti solo al recto; il secondo di 10 foglietti (numerati solo i primi 8), scritti solo al recto. Tra parentesi quadre indichiamo nella trascrizione la paginazione dell’autografo. Nella trascrizione abbiamo citato solo il primo verso di ciascuno dei numerosi brani di poesie del Carducci menzionati dall’oratore; talvolta sul manoscritto questi brani sono unicamente indicati dal riferimento al numero di pagina di una raccolta delle opere carducciane, che si è rivelata essere: Poesie di G. Carducci (MDCCCL-MCM), Zanichelli, Bologna 19022. A proposito dell’autore delle commemorazioni ricorderemo, in relazione con il violento anticlericalismo del suo discorso nella Loggia, che egli scrisse anche un Saggio di ricerche sulla satira contro il clero nei «Fableaux», Presso l’autore, Porto Maurizio 1906, e una monografia. La letteratura goliardica. Studio di letteratura latina medievale rimasta in manoscritto.
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I. Commemorazione di Giosuè Carducci tenuta nella sala della Società Filodrammatica Sportiva il 3 marzo 1907 in Porto Maurizio Fu con vera gioia ch’io, non appena mi fu proposto, accettai l’incarico di commemorare il nostro grande morto; ma quando mi trovai dinanzi al bianco foglio su cui volevo raccogliere i miei pensieri, allora sentii lo sgomento di chi s’accinge ad un’opera senz’aver misurato il peso alle proprie forze. E solo confidando che, la benevolenza degli ascoltatori e l’indulgenza loro e le parole del nostro poeta cui dovrò spesso ricorrere, mi avrebbero sostenuto, mi trassi qui. E non solo per dire poche parole sull’opera sua, ma più per proporre loro e mi sia lecito, non di commemorarlo oggi solamente, ma di rievocarne spesso la memoria con la lettura. delle sue odi che più opportunamente si possono chiosare. Ricorriamo perciò a chi meglio di me potrà illustrare i versi del maestro e mostriamo che gli italiani non sono poi tanto accademici, e che non sempre le commemorazioni nostre sono delle cianciate perpetrate oggi per esser poste nel dimenticatoio domani. Un maschio viso, un’alta fronte ed aperta, [2] coronata di folti capelli, occhi arditi ed acuti, e nell’insieme una testa ergentesi con viril fierezza: ecco il poeta repubblicano del ’57. Allo stesso viso un’ispida cornice di pel brizzolato, men fiero sguardo, ma più penetrante e dall’insieme un che di pungente disdegno, una testa men sciolta insomma, ma pur sempre libera e fiera: ecco il poeta che le rudi battaglie han reso più mansueto, ma non spossato. Cinquant’anni di vita e qual vita di lavoro, non han fiaccata l’indomita energia del grande che non come bimbi piangiamo, ma la cui dipartita ci ha percossi.
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Rapido corse l’annunzio della morte e dall’aule ove si reggono i destini d’Italia all’umile stanza dell’artigiano, dalla chiesa alla taverna, risuonò il rimpianto. E Santa Croce per un meschino voler di concittadini non aggiunge alle sue una nuova gloria., ma che importa: lo spirito suo alato vola sopra tutta Ita[3]lia. A quanti furono chiamati a dir di lui certo è corso per le mani il mirabil volume in cui è raccolto il frutto di cinquant’anni della sua poetica attività. Ed è ivi racchiusa tutta una fioritura di perfetti movimenti lirici, un’accolta di versi sdegnosi e sferzanti, di nitide visioni del presente e del passato. Anch’egli tocco dall’amore, piena la mente ed il cuore dei padri delle nostre lettere, n’è poeta, e con quella polita forma che sa il suo sonetto, ci apre l’animo suo e ci dice le speranze e gli sconforti, le gioie ed i dolori suoi. E rivive per le sue rime in tutta la purezza, della lingua, in tutta l’ingenuità e castigatezza dei concetti il nostro aureo trecento. Troppo poco noti questi sonetti che, oh come!, fra il dilagar del poetico vaniloquio degli arcadi novelli dovettero ristorare l’animo ed accarezzar l’orecchio di quelli che primi udirono ed apprezzarono questi bocci della poesia carducciana: Ecco risorta la donna gentile...
[4] Ma il Carducci è per poco e raramente poeta di sé. Poche volte solamente la sua personalità è fatta oggetto di poesia; e con che scherno lancia i suoi versi contro i poeti: ... gente finita Dal pathosideale...
Udite, aleggia intorno la musa del Parini:
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S’alza il poeta a mezzodì, sbadiglia...
Stretto ai classici latini e greci, occupata la mente della loro civiltà e coltura, canta egli pure i loro iddii e a quella mitologia che a molti dei suoi contemporanei, di arcadici fronzoli adornata, era oggetto per se stessa, ricorre a trar nuove immagini e più efficaci per i suoi versi. Ed ecco il canto a Febo Apolline ed ecco quello a Diana Trivia. Ma senza abbandonarla totalmente [5] egli lascia in disparte la mitologia e ad altri ideali, a patrii dei torna vate moderno: Lunge canti d’amore: altro richiede...
E rileggendo le opere dell’Alfieri ecco i suoi pensieri volti a quella che ne fu in cima: alla libertà: e Te giova il grido che le turbe assorda...
E ancora: Torna e ti splenda in man l’acciar tremendo...
Poi con rapida evocazione ecco sfilare innanzi agli occhi nostri le figure del Parini, dell’Alfieri, del Metastasio, del Monti. E ritorneranno e aumenterà la schiera dei grandi che alto han levato il nome d’Italia. Breve ora, ho detto, il Carducci è poeta d’amore: troppo grande è la missione [6] che alla poesia compete in certi momenti storici. Al suo orecchio suonavano i canti patriottici che pullulavano sul fertile di poesia suolo italiano. Egli nacque quando, dopo gl’infelici tentativi del 1820-21 e le feroci repressioni che seguirono, gli italiani si erano in parte rassegnati alla servitù, e solo pochi generosi con forte e costante animo si preparavano a nuo-
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ve sollevazioni affinché i germi di civile progresso che la rivoluzione francese aveva recati non andassero interamente perduti. Ma il 26 maggio 1831, il corpo di Ciro Menotti pendeva dalla forca e gli animi sbigottiti si ritrassero paurosi. Il 1° febbraio 1834 Giuseppe Mazzini tentava un colpo di mano sulla Savoia piangendo in cuor suo il Tamburelli ed Efisio Tola ed il Vochieri e Jacopo Ruffini che avean pagato colla vita il delitto di aver cercata la libertà. Fallì il tentativo, come fallì la congiura genovese per cui Giuseppe Garibaldi era costretto a riparare a Marsiglia. E il popolo italiano reso dubbioso per gli insuccessi, atterrito dalle condanne, frenò in cuore i nobili impulsi. Ma la giovine Italia non s’impauriva e maturava nuove eroiche vittime alla tedesca rabbia e il nome dei Bandiera [7] risuonò dolorosamente per l’Italia. Il Carducci nasceva appunto nel cuore di questi avvenimenti e quando la poesia italiana accanto al vuoto arcadismo librava a volo il noto inno di guerra del Berchet: Su fratelli d’Italia, su in armi, coraggio...
e l’inno glorioso di Goffredo Mameli. Nasceva allora da padre ascritto alla Carboneria ed alla Giovine Italia. Tutto attorno a lui, nella casa e nella vita gli parlava di libertà e d’indipendenza. Ed il suo cuore non fu restio. Ma quando ancor giovinetto ei non sognava che repubbliche, quando pareva che il sole della libertà d’Italia giungesse al suo meriggio, quando dopo le 5 eroiche giornate di Milano, Carlo Alberto, che aspettava il suo astro, la ruppe coll’Austria, dopo che il primo suon de l’Italica vittoria lo percosse e sui nomi gloriosi di Pastrengo e di Peschiera la brumal Novara stese la sua nera ombra, sull’Italia, e Venezia che, scosso
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il giogo austriaco, aveva restaurata all’ombra del leone la repubblica dovette capitolare, e l’impresa di Garibaldi in difesa della repubblica romana che aveva cacciato Pio IX e si trovava alle prese con l’Oudinot fallì malgrado [8] il successo di Velletri contro Ferdinando II ed i sacrifizi di Luciano Manara e di Goffredo Mameli, il poeta che aveva suscitati tanti entusiasmi popolari, tutta Italia piegava nuovamente sotto il dominio degli antichi tiranni; allora, in faccia all’ignavia italiana, scaglia il suo verso e grida da Santa Croce donde i grandi sepolti gli parlavano ispirando la sua musa a versi eroici: In questi avelli or vive...
Ma ben altro poté che disprezzare! Evocatore delle patrie glorie, incitatore dei più nobili ardimenti, impaziente ne’ desideri come nella parola, seppe gridando alto il nome d’Italia ed i dolori e le speranze suscitare, Tirteo novello, ardente fiamma nel giovine popolo italiano che non si spense se non quando l’ideale sì lungamente accarezzato fu realtà. Ultimo nella schiera dei grandi cantori della libertà italiana che s’inizia con Pier della Caravana che circa alla metà del tredicesimo secolo incoraggiava i Lombardi alla resistenza contro Federico II, egli sorge quando deve sorgere il poeta. Disse: [9] Itala gente da le molte vite...
ed egli sorge proprio quando e dove albeggia dopo la notte per l’Itala gente. Pietà de la gran donna o cavaliere O rege, o figlio!
grida a Vittorio Emanuele, e gli richiama alla mente il vecchio leon di S. Marco che freme cruccioso ancora
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sotto la signoria straniera e lo incita a sciorre l’augusto voto sul busto di Giulio e di Traiano, a dar all’Italia la sua natural capitale. Oh! Non dispregiavi più allora e non imprecavi a le mal vive genti. Sulle piaghe italiche stendevasi il balsamo delle nuove vittorie. Ma la sua ardente parola non concede tregua al dolore, anzi lo inacerba affinché col cessare del duolo non cessi il desiderio del compimento dell’opera. E come nei sonetti ai grandi nostri poeti e uomini d’arme abbiamo degli eloquenti ritratti cui non manca che la forma così come ai grandi ritratti dei nostri illustri pittori non manca che la parola, cosi in altri sonetti rivivono i momenti storici fatidici del risorgimento italiano. Ed ecco ai barbari la parola irata e schernitrice in «Montebello», ed ecco il canto [10] incoratore e suasivo in «Palestro» ed il grido di vittoria in «Magenta» e la disfida allo straniero, la parola di fede e sicurezza ai nidi famosi di martiri e di eroi Modena e Bologna. E come alto poggia la vittoria del latin sangue gentile quando S. Martino lo sente clamare: ... o chi mi noma...
E lo spirito suo volando sull’insanguinata Perugia scaglia l’anatema: Fulmina Dio la micidial masnada...
O uomini piccini che ad un sì grande fate accusa di ateismo, intendete a qual Dio egli crede? Pei credenti in un Dio dei malvagi, sitibondo di sangue, protettore di stragi, fischia la sua sferza; non per chi crede e sparge il sangue avendo in cuore e sulle labbra il Dio d’Italia, il Dio del buon diritto, il protettor degli oppressi, quello che dice agli uomini: unitevi ed amatevi!
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Alla Croce di Savoia, testimone e aiutatrice dei prodigi di un popolo, s’alza il verso [11] alato: Ma la luce che a te intorno...
O uomini piccini che gli rimproverate un rivolgersi a nuovi ideali politici, eccolo il poeta monarchico! E che importa se l’Italia sarà retta a repubblica da un re? In cima ai suoi pensieri sono i destini d’Italia e prima e sopra tutto la libertà d’Italia! Questi i canti che di poveri fior ghirlanda sono E Enotrio a le dee appese in dono.
È questo il decennio vittorioso che sollevò il popolo italiano dal letargico sonno da cui la voce di alcuni poeti e di mille e mille cozzanti spade l’avean destato. Quando l’Italia è quasi redenta par che posi la foga del giovanil verso e che disdegni ornai anche il suo canto. [12] La spedizione di Garibaldi aveva sortito esito felice e la rivoluzione siciliana aveva abbattuta la dinastia borbonica; Vittorio Emanuele era stato salutato re d’Italia, ma Venezia era ancor dolente né Roma raccoglieva ancora lo scettro dell’Itala gente. E perché quindi a tanto si cessa? Perdesi l’inno mio nel vuoto quale... Canta accorato il nostro poeta. Ma no! Ma no: dovunque suona...
E allora, poiché chi ha versato il suo sangue per la patria è castigato; è in ceppi Garibaldi; poiché Sempre schiavi gemere...
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il suo canto s’arma d’odio e prepara la ribellione. Quella ribellione che scoppiò, folgore umana, nell’inno a Satana. Ed eccone la lenta preparazione. Il poeta forte che mai piegò l’animo né abbassò l’occhio sdegnoso, mira le miserie umane. Quali strane parole in bocca al poeta delle audacie e delle ire: Deh quanta pietà! E pure...
Mai prima d’ora il poeta aveva narrata miseria umana con tali accenti. E [13] «donde» li trae? Al disopra della pietà umana sta per lui la pietà nazionale, la carità di cittadino. È la condizione d’Italia misera e negletta che piange in questi versi. E nei figli affamati e invan cercanti su l’esausta poppa di che saziarsi vede gl’italiani esuli dalla gran madre morente. Solo per poco è lo sdegno attenuato nel canto per la proclamazione del regno d’Italia. Ma anche qui il verso informatore è quello che incita al coronamento dell’opera: Italia ascendi il Campidoglio.
E poiché il moto è tardo all’entusiasmo succede la ribellione contro quei sensi che non concedono che a Roma si giunga; la ribellione assurge dal movente politico al movente universale e il verso sibila contro il sentimento chiesastico che si oppone al completamento dei desideri italici. Ed ecco Satana: Un bello ed orribile mostro ... La forza vindice della ragione.
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Il pensiero alato sogna la caduta degli altari e delle bende sacerdotali. Come il poeta ribelle dovette crollar la chioma leonina, egli che sapeva l’infuriar della tempesta e come gioire al notar la guerra che le audaci parole suscitarono. [14] Ora giace; ma non senza conforto, ché alla sua potenza tutti s’inchinarono. E poiché dice egli stesso nelle note ai Giambi ed Epodi; «su un giornaletto clericale di quelli che ragionevolmente e canonicamente mi facevano e fanno bu bu dietro per amore dell’inno a Satana, lessi la novella ch’io era morto», ecco il prologo all’opera del suo meriggio: No, non son morto. Dietro me cadavere...
Né fu secondo alla sua promessa e la poesia che aveva narrato le epiche gesta degli eroi italici prenderà la sferza con cui frustar gli italiani indegni dell’opera compiuta. Poi poserà la sua foga; col crescer degli anni, l’uomo canuto assurgerà ai problemi filosofici della storia e stringerà nei suoi versi meravigliose sintesi dei maggiori avvenimenti. In attesa che alcuno vi dica di questi e meglio ch’io non abbia saputo porre innanzi ai vostri occhi il poeta battagliero, il poeta dell’Italia sorgente e risorta, permettetemi che io vi dica quel mirabile canto dell’amore fino alla potente esclamazione che è il coronamento filosofico di tutta l’opera sua229 . 229 A questo punto, evidentemente, l’oratore avrà recitato Il canto dell’amore; ma non tutto, bensì «fino alla potente esclamazione che è il coronamento filosofico di tutta l’opera sua», che sarà stata probabilmente: «Ell’è un’altra madonna, ell’è un’idea / fulgente di giustizia e di pietà: / io benedico chi per lei cadea, / io benedico chi per lei vivrà». Certo, tutto lascia sospettare che in questa commemorazione egli non abbia recitato le ultime tre strofe e il celebre «Cittadino Mastai, bevi
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II. Commemorazione di Giosuè Carducci tenuta nella Loggia massonica di Porto Maurizio, marzo 1907 Fratelli, m’addolora che la breve ora concessami non m’abbia consentito di preparare pel nostro grande fratello una memorazione quale gli si conveniva. Valgami questo di scusa se le mie parole saranno impari alle intenzioni. L’amore del resto che lega gli animi nostri alla sua memoria sarà la migliore commemorazione e quella certa che gli sarebbe più gradita. In altro luogo e con altri intenti230 ho discorso del nostro fratello che pur senza la benedizion del prete avrà l’immortalità. Ma come opportunità voleva, ho cercato allora, non so se le mie forze mi sian convenute, ho cercato, dico, di presentare il poeta battagliero, il poeta dell’Italia sorgente e risorta. Qui nel seno della famiglia che suona ad onor nostro l’aver avuto comune con lui vi dirò ancora del poeta pugnace, ma non più di quello che mirava alla libertà, alla indipendenza d’Italia, del poeta italiano insomma; vi dirò del poeta civile, del poeta di tutta l’umanità, la cui meta fu la luce, la cui nemica l’oscurità. È una terribile arma fra le mani del poeta, la parola; sopra tutto quando questa parola s’informa allo scherno; ma più [2]che terribile è quando veste il vituperio. Il nostro fratello ebbe lo scherno ed il vituperio fra i suoi mezzi e questi adoperò in. parte a sferzare l’ignavia degli uomini timidi ed impauriti, in parte a marchiare d’ignominia la nera corbacchia che da Roma gracidava e
un bicchier!», su cui invece si soffermò nella commemorazione successiva. 230 Cioè nella commemorazione I, che abbiamo riprodotto nelle pagine precedenti.
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tanto sangue italiano fece spargere prima. che gli Italiani potessero giungere a Roma. Come italiano specialmente contro la Roma temporale egli si scaglia, perché i voti d’ogni italiano sono volti al Campidoglio e perché di là un sacerdote, il maggiore dei sacerdoti, lo spiritual signore del mondo, ansa e s’affanna a proteggere l’ultimo lembo di terra che gli permetta d’esser non solo papa ma anche re. Come uomo si scaglia contro Roma perché nutre nel suo seno la Chiesa, questo tempio d’ignavia, questo covo di frodi, questo rido d’infamie. Oh come lungi è per il nostro poeta e come svanisce la visione della Roma repubblicana madre di leggi e di libertà! Ora da Roma mille e mille sgherri partono e continuano a porre il bavaglio alle boc[3]che, a tarpar le ali all’umano pensiero. Contro la prima si volge specialmente nel momento fatidico del Risorgimento italiano; contro la seconda si scaglia per tutta la sua vita: egli, l’ultimo vindice della libertà umana; egli, il maggior cantore della libertà dello spirito. Un giorno trovossi a sentir recitare in un’accademia una diceria non si potrebbe dir quanto dotta ed assennata e cristiana sopra l’educazione dei figliuoli. E come a lui piacque sempre la costumanza di quei sapientissimi Greci, che i comandamenti della religione e le leggi civili ed i precetti della moral filosofia mettevano in versi, e gli cantavano per le cene o gli scolpivano in capo alle vie affinché per tal maniera restassero meglio impressi nelle menti dei lor paesani, così volle far egli per quanto poteva di quella diceria, ch’ei tiene per santissima cosa riboccante tutta da capo a fondo di religione e di civiltà e di morale. E recolla in versi: Udite, udite il molto reverendo...
Il buon Parini tanto acuto e fine nella sua satira nulla troverebbe a ridire a questa. Del resto il grande amore che
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il nostro fratello gli portava non dovette influire per poco nella sua ispirazione. [4] Ma questo non è che leggero scherno contro i meravigliosi metodi preteschi di educazione e contro i sani principii e liberi di ragionevolezza che con questi metodi s’infondono ai discenti. Ciò interesserà se mai gli insegnanti che ne sapran far tesoro e seguire gli utili ammaestramenti. Ad una satira più pungente, più acre, più generale, si volge quando inneggia al Beato Giovanni della Pace, che la Cattolica Apostolica Romana bottega aveva messo in circolazione. Anche un certo altro scrittoruccio italiano, certo Ser Giovanni Boccaccio, aveva già scherzato sui santi e relative reliquie. Ma madre chiesa condannò il libraccio orrendo all’indice. È vero che gli abatini e le pinzocchere lo divorarono e lo divorano in segreto; ma che volete? Bisogna pur conoscere il peccato per schivarlo, e poi è un sì indiavolato narratore, quel ser Giovanni, e tratta d’argomenti così piccanti! È questo il primo che senza intenzion di riforme satireggi il clero, che lo schernisca nei suoi [5] vizi, che ne metta a nudo le piaghe. Il fratel nostro chiude per ora la schiera, e perpetuò la nobile missione affidata alla penna e raccolse l’eredità di quel critico spirito latino che si diceva padrone della satira. Ma sono scherzi questi ed i tempi del nostro fratello non consentono il riso. Sono tempi di lacrime e di lacrime di sangue. La sozza genia non s’accontenta d’impinguar sé e la propria borsa col denaro carpito ai ladri ed agli assassini in cerca di un pubblico perdono, oh profondo mister della confessione! alle penitenti in cerca di un benigno portier delle porte del paradiso, ai poveri di spirito in cerca di pace, di quiete per le turbate anime dei loro morti che sognano in preda alle pene del purgatorio. Non s’accontenta. E neppure la spiritual signora, l’adultera Roma e il suo peccatore non pasce più solamente di frodi la codar-
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da rabbia, ma sfrena i cattolici lupi sui popoli e intinge la sabbia di lascivia e di macello. O Perugia, disgraziata Perugia!
E allora per quel Cristo che fece riporre la [6] spada a Pietro, per quel Cristo che non uccide, ma perdona, pel Cristo insegnator di libertà, ecco l’anatema in viso alla nefanda: Fulmina Dio la micidial masnada...
Giovenale, un poeta cui i versi servivan di staffile, diceva: «Facit indignatio versus», e par che lo dica pel nostro poeta. E questo è lo sdegno amaro dell’uomo impotente dinanzi alle mostruose doppiezze e ferocie di una chiesa e dei suoi gregari. Ma a che servon le parole? Roma fa nemici i fratelli ai fratelli e i padri ai figli e chiede guerra e sente fra le dormite orgie crepitar le tede fra vive membra e già vede spade rosseggianti di sangue e Cristo rapito da rabbiosi artigli consacrar delitti fra stupri e oltraggi e sangue e prede, e già il maggior prete in bianche stole alza la mano e la parola benedicente fra la sua turba imbestiata e scempia. [7] Nefandi! oh! venga dì che sangue v’empia...
Non è più scherno questo; è l’anima angosciata del poeta che traspira in questi versi e l’ira in tutta la foga umana, il grido di quanto di più vivo, di più tenace alla natura dell’uomo viene in lui ferito. È il suo cuore straziato che in parole roventi gli viene alle labbra. Né l’uomo solo è ferito. Prima l’uomo, poi l’italiano, perché l’interprete di Dio stette nel tempio, scuola di viltà e di inganni, negando Dio stesso e la patria ed i fratelli, stette coi tiranni e
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si lodò esempio dei dolori italici al cielo, e benedì la spada degli oppressori e consacrò alla morte quelli che levandosi scuotevano dal capo i danni del servaggio. Ahi! giorno sovra gli altri infame e tristo...
Papa Mastai, è un amaro calice quello che al tuo labbro spergiuro apprestò il fra [8] tel nostro. Magnanimamente poi t’offrirà il braccio, o prigionier di te stesso, ripensando a te e vedendoti schiavo di una sì vil ciurmaglia, ma ora come intesse le tue lodi! A terra l’infule Via l’aspersorio, prete, e il tuo metro.
Son queste le grida che osannano per tutta l’opera sua poetica, di lui che combatte sempre assorto nella mirabil visione e speranza di veder un giorno sul mondo libero volar sola e padrona la ragione, il libero pensiero. Povero morto! Ancor oggi è un pio desiderio questo; il grido che tante volte hai lanciato, la distruzione che tante volte hai sognato non si compirà tanto presto. Ma il seme di libertà che tu hai gettato fiorirà e darà frutti. La sorella latina ha già cacciato omai dal suo suolo la funesta genia ed il cuor tuo deve aver gioito; ma accanto alla gioia per questa prima grande vittoria, qual dolore avrà assillato il tuo cuore vedendo la mala erba ripiantar [9] si proprio sul nostro suolo italico, in questa antica patria di libertà. Ma confortati: s’abbarbicano in un ben arido suolo; e ai dissueti orecchi ed ai cor cessanti canteremo noi le tue parole; noi perpetueremo la tua guerra. Oh! come il cuore di ognuno dei tuoi fratelli ti segue quando indíchi la via e ne dici: Ma io per man tôrrommi questa madre...
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Tu li scomunichi, tu sacerdote de l’augusto vero, vate de l’avvenire; noi tuoi discepoli, tuoi figli più che fratelli se non è orgoglio il nostro, li annienteremo. Scorato tu gridi: Non più perfusi del tuo fiume sacro...
E noi faremo rifiorire il libero spirito latino, toglieremo le bende alla ragione, squarceremo il velame, e fra poco le tue parole di scoramento suoneranno strane e si rifugeranno fra i ricordi storici, e solo il tuo saluto all’anima umana ed alla nostra Italia s’alzerà dal cuor dell’uomo circonfuso della luce [10] dell’Oriente, o troppo presto morto! il canto della vittoria ti verrà a svegliar dal sonno eterno.
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