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October 10, 2017 | Author: Martín González | Category: Voltaire, Karl Marx, Rationalism, Marxism, Italy
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Utopia e riforma nell’Illuminismo di Franco Venturi

Storia d’Italia Einaudi

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Edizione di riferimento: Utopia e riforma nell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1970

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Sommario Introduzione Capitolo primo. Re e repubbliche tra Sei e Settecento Capitolo secondo. I repubblicani inglesi Capitolo terzo. Da Montesquieu alla Rivoluzione Capitolo quarto. Il diritto di punire Capitolo quinto. Cronologia e geografia dell’illuminismo

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Introduzione

Esser invitato a tenere le George Macaulay Trevelyan Lectures è un grosso impegno. Trascorrere tre settimane a Cambridge per rispondere a questo invito è un gran piacere, tra quelle biblioteche e le discussioni con gli amici e colleghi. Eccone ora il risultato. Il problema scelto è evidentemente ampio. Spero che i punti di vista prescelti per osservarlo consentano a queste pagine di non esser troppo dispersive e permettano anzi di toccare alcuni almeno dei nodi centrali della grande età dei lumi, cogliendola nel suo difficile e fecondo equilibrio d’utopia e di riforma. Avevo avuto la tentazione di intitolare queste lezioni Was ist Aufklärung? Ho poi resistito a questa tentazione, non perché temessi d’essere accusato d’aver voluto mettermi sullo stesso piano di Immanuel Kant, di Moses Mendelssohn e degli altri valentuomini che risposero nel 1784 al quesito così formulato dalla «Berlinische Monatschrift». Spero che tutti possano, almeno in questa materia, fare affidamento su una mia sufficiente capacità di autocritica. Se non sono risalito alla data iniziale del dibattito sull’illuminismo, è perché sono convinto che quella discussione, pur così interessante, rischiò allora e rischia ancor oggi di deviare la ricerca portandola su una strada sbagliata. Da Kant a Cassirer, e oltre, l’illuminismo europeo è stato dominato da questa interpretazione filosofica della Aufklärung tedesca. Almeno Cassirer era stato sincero e aveva intitolato il suo libro Die Philosophie der Aufklärung. Riapriamolo. Per limitarci alla Germania, dominano Baumgarten e Bodmer, Jerusalem e Lessing, Wolff e Kant. Schlötzer e Büsching, ad esempio, sono assenti. Eppure l’uno fu il più importante pubblicista del se-

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condo Settecento, scoprì agli occhi dei tedeschi un intero mondo storico quale la Russia e meglio d’ogni altro dimostrò la difficoltà, i contrasti d’un pensiero liberale nella Germania di quella età. Il secondo diede una dimensione nuova alla geografia, dominando con i suoi libri l’intero mercato europeo di quegli anni. Né in Cassirer troviamo un solo economista. Una Aufklärung che non tocchi lo stato, la terra, il commercio è evidentemente mutila almeno di una delle sue ali. Come diceva Diderot: «Imposez-moi silence sur la religion et le gouvernement, et je n’aurai plus rien à dire»1 . Certo di religione settecentesca molto si parla in Cassirer. Di governo – non di teorie giuridiche, ma di politica – poco o nulla. E questa tendenza non accenna a mutare tra gli storici dei lumi. È uscito l’anno scorso in Italia un libro importante, intitolato L’illuminismo tedesco. Età di Lessing di NicolaoMerker2 . È scritto da un marxista. Discute continuamente sul valore sociale delle idee filosofiche. Ma Schlötzer e Büsching sono praticamente assenti, i fisiocrati tedeschi come se mai non fossero esistiti. C’è tutto, dalla religione alla società. Quel che manca è «le gouvernement», come diceva Diderot, l’azione politica concreta. A ben guardare, l’interpretazione filosofica della Aufklärung, da Kant a Cassirer e ad oggi, rischia di essere variamente deformante perché è sempre. una storia che tende essenzialmente a risalire alle origini, ai principî primi delle idee che vede operare nella realtà del XVIII secolo. Guarda a Descartes, a Leibniz, a Locke, a Malebranche, in loro vede le fonti di quei pensieri che furon poi utilizzati e intorbidati dalla filosofia popolare, che furono consumati nel corso della lotta ideologica del seco1 La promenade du sceptique, in Œuvres complètes, a cura di J. Assézat e M. Tourneux, Paris 1875, vol. I, p. 184. 2 Bari 1968.

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lo dei lumi. Per rimettere ordine dopo la battaglia, l’unica cosa da fare, sembrano dire questi storici, è quella di vedere come fossero stati forgiati quei concetti i quali, contorti e guasti, stanno di fronte ai nostri occhi, come furono fabbricate quelle armi che dobbiamo ora riforbire sulla cote di un grande sistema filosofico, sulla pietra d’una delle grandi concezioni del mondo, razionalismo, naturalismo, sensismo, ecc. Peccato che questo metodo si scontri precisamente con quello che fu il carattere fondamentale del pensiero illuminista, la radicale volontà cioè di non costruire sistemi filosofici, la totale sfiducia nella loro validità. Condillac, Voltaire, Diderot, d’Alembert, a metà del secolo, lo hanno detto tanto chiaramente da non lasciarci più dubbio alcuno. Non alle origini delle idee dobbiamo risalire, evidentemente, ma alla loro funzione nella storia del Settecento. I filosofi hanno la tentazione di rinavigare verso la sorgente. Gli. storici debbono dirci come il fiume si aprì la sua strada, in mezzo a quali ostacoli e difficoltà. La tentazione invero di molti tedeschi, fin dal Settecento, fu quella di dare un valore mitico all’origine e di cercar là ogni luce e ogni bene. Ogni volta che sono anch’io attratto a far così a ritroso il cammino della storia per tentar di spiegare un’idea, un fatto, vado a rileggermi il passo di Herder che mi pare conservare sempre tutta l’efficacia d’una caricatura involontaria d’ogni germanica nostalgia dell’Ur: «Con quanta delizia mai noi leggiamo le narrazioni poetiche sull’origine, delle singole cose, sul primo navigatore, sul primo bacio, il primo giardino, il primo morto, il primo cammello...»3 . È una caricatura questa che gli storici dell’illuminismo non dovrebbero mai perdere di vista. Herder era semplicemente ingenuo quando 3 Versuch einer Geschichte der lyrischen Dichtkunst, in Sämmtliche Werke, a cura di Bernard Suphan, Berlin 1891, vol. 32, p. 86.

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scriveva queste righe nel suo frammento sulla storia della lirica, poco prima di riprendere ed approfondire questa visione nel suo pamphlet del 1774 Auch eine Philosophie der Geschichte. Poi, dopo Herder, questa fuga verso il passato per spiegare il presente è andata raffinandosi e complicandosi. È meno facile da cogliere, questa nostalgia dell’Ur, quando è rivestita dai più seducenti argomenti razionali, ma non è per questo meno pericolosa. Non si tratta più soltanto di cose così semplici come il primo giardino dell’umanità, del paradiso terrestre e dei suoi patriarcali abitanti, ma, poniamo, della agostiniana e teologica Civitas dei. The heavenly city of the eighteenth century philosophers è, com’è noto, il titolo d’un famoso libro di Carl Becker. Avvolto in un velo, l’autore volle presentarlo un giorno così ai suoi lettori: «This certainly isn’t history. I hope it is philosophy, because if it is not it is probably moonshine: – or would you say the distinction is over subtle?» Non ci stupiremo constatando che questa opera piacque ai crociani, in Italia, con questo suo tentativo di far coincidere filosofia e storia dell’illuminismo4 . Ma si tratta purtuttavia di una coincidenza illusoria, d’un tentativo di ritrovare nel pensiero di Diderot e di d’Holbach, di Voltaire e di Hume, non quello che essi avevano portato di nuovo, di storicamente efficace e fecondo, ma quello che coincideva sostanzialmente con le idee fondamentali del passato, la legge naturale, la morale, l’immortalità. Storia retroattiva raccontata con grande charme e molta dottrina, come avviene ai conservatori intelligenti, scettici su tutto, salvo sulla volontà di non cedere al nuovo, all’inatteso, a quello che resta fuori della loro heavenly city. Da quando questo libro fu pubblicato, nel 1932, ogni studio sul Settecento 4 Su Becker e Croce, cfr. B URLEIGH T AYLOR W ILKINS, Carl Becker. A biographical study in American intellectual history, Cambridge (Mass.) 1961, pp. 193 sgg.

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europeo, sulla sua funzione politica e sociale, non ha potuto, credo, che constatare come fuori dalle mura della civitas dei restasse in realtà non poco, in verità l’illuminismo stesso. Carl Becker è rimasto un episodio importante nello studio del conservatorismo e della civiltà americana. Ma la sua heavenly city è diventata ogni anno sempre più isolata e lontana, alle spalle di chi ha cercato di scendere lungo il corso del fiume storico settecentesco. Eppure la tentazione di volgere indietro lo sguardo evidentemente è forte, e non è facile resistervi. Uno dei critici più espliciti di Carl Becker è lo studioso che più ha fatto per darci una visione critica, realistica, non offuscata da schemi filosofici e ideologici della politica di Voltaire, Peter Gay, quando ha voluto dare un sottotitolo all’opera sua The Enlightenment: An interpretation, non ha trovato di meglio che The rise of modern paganism5 . Il primo volume di quest’opera, di cui non è necessario dire l’interesse (si tratta del maggior tentativo di sintesi finora compiuto di quel che si è detto e pensato sul Settecento in questi ultimi decenni) rivela, nella sua stessa costruzione, questa reiterata fuga verso le origini e il passato, Dopo una ouverture sull’Enlightenment in its world, su The little flock of philosophes, sui problemi cioè della diffusione europea dei lumi, sul rapporto tra il piccolo gruppo e le forze e strutture sociali di quell’epoca, quando ci si aspetterebbe una storia del formarsi del little flock e del suo effettivo operare in mezzo alle cose, ecco invece The appeal to antiquity, The useful and beloved past, ecco ebrei e greci, pagani e cristiani. E quando finalmente speriamo di essere alla fine, Beyond the holy circle, come s’intitola l’ultima parte di questo libro, ecco venirci incontro d’Holbach e Diderot, ma dietro a loro sta ancora la grande ombra di Lucrezio. Sulla Mission of Lucretius si chiude il primo volume di quest’opera, tan5

New York, 1967.

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to piena di cose interessanti e importanti, ma che costituisce una prova ancora di quanto sia difficile uscire dal cerchio magico della tradizione della Aufklärung tedesca, della visione, fra Sette e Ottocento, della germanica Humanität, dalla passione per la Grecia e per Roma che crebbe nelle università della docta Germania. Chiudendo questo libro pensavo a Delio Cantimori, che faceva finire l’età umanistica con la rivoluzione francese, chiudendo anch’egli in un solo mondo ideale gli scolastici, gli umanisti fino alla soglia dell’illuminismo, da Petrarca a Rousseau, come egli scrisse un giorno6 . Peter Gay ci dice egli stesso chiaramente, nel prezioso Bibliographical essay che chiude questo primo volume, quali siano i suoi punti di partenza e di riferimento: Cassirer innanzi tutto, il Warburg Institut, Fritz Saxl, Auerbach. Peter Gay porta a questa tradizione una sensibilità filosofica moderna, una coscienza ad esempio che Cassirer non ebbe mai del valore del materialismo settecentesco, così come una sensibilità politica che tradizionalmente mancò agli umanisti tedeschi. Ma sono rami nuovi e innesti su un antico e glorioso tronco. Effettivamente il libro di Peter Gay potrebbe essere intitolato – e non è piccolo complimento – Was ist Aufklärung? Ho provato io stesso a fare una piccola, ma ritengo significativa verifica del punto di vista umanistico nell’interpretazione del Settecento. Ho cercato cioè di capire che cosa significasse effettivamente la risposta che Kant stesso diede a quell’interrogativo, ed è, come è noto, che dobbiamo considerare come motto dell’illuminismo: Sapere aude. Son parole tratte da Orazio. Qual più bella prova della presenza del mondo classico, o addirittura dell’identificazione degli illuministi con l’antichità pa6 Valore dell’umanesimo, in Studi di storia, Torino 1959, p. 383. Cfr. pure Il problema rinascimentale a proposito di Armando Sapori, in ibid., pp. 366 sgg.

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gana, come sostiene Peter Gay? Tornano all’orecchio i versi di Voltaire, le parole di Diderot, i saggi di Galiani, e così potremmo continuare per tutta l’Europa. dei lumi, ritrovando ovunque il poeta latino. Ma che significa questa presenza? Il dubbio mi nacque molto tempo addietro, quando ero ragazzo, e di Orazio mi parlò un giorno con grande ammirazione, quasi con venerazione, un illuminista che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, Gaetano Salvemini. Ricordo il mio stupore e il mio dubbio, che naturalmente non osai esprimergli, di come potesse lui, Salvemini, l’uomo dal carattere così indipendente e schietto, dalle idee politiche così libere, dalla coscienza sociale così acuita e moderna, come potesse un illuminista par suo amare il poeta dell’età d’Augusto, l’uomo politicamente e socialmente tanto diverso, contrario anzi a lui; che era stato Orazio. Magia della poesia? La risposta non mi accontentò allora e non mi soddisfa neppure oggi, né per Salvemini, né per Diderot o Voltaire. Il dubbio crebbe in me il giorno lontano in cui sentii Francesco Saverio Nitti, che un illuminista non era, ma un economista illuminato sì, dichiararmi che se volevo far lo storico avrei sempre dovuto ricordare il profondo motto di Cicerone, secondo cui la storia è oratoria. Vivo ora in Italia, in un paese cioè in cui se un giovane vuol poter entrare in una università dove si studia la storia, poniamo, ad esempio, dell’intelligencija russa o del movimento operaio europeo, è tenuto a fare un liceo in cui leggerà obbligatoriamente, sul testo originale, le poesie non soltanto di Orazio, ma anche quelle di Anacreonte. E questo proprio nel paese, in Italia, in cui gli illuministi settecenteschi, grandi e piccoli, accanto alla critica della legge, della tradizione romana cominciarono a criticare anche l’insegnamento obbligato-

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rio del latino7 . Evidentemente, in Italia, il classicismo ha vinto, per delle ragioni che non è il caso di esaminar qui. Quel che è certo è che il rapporto fra la tradizione umanistica e le realtà politiche, sociali; è evidentemente molto più complesso di quel che può apparire a prima vista. La permanenza di miti umanistici, la sopravvivenza degli dei antichi può non essere affatto una presenza, una identificazione, come addirittura sostiene Peter Gay. È talvolta un ornamento, non una realtà, una superstizione, non una religione, La piccola verifica su Sapere aude mi pare lo confermi pienamente8 . Certo, il motto è oraziano, tratto dall’epistola II, libro I, Ad Lollium, v. 40: Dimidium facti, qui coepit, habet: sapere aude, incipe...

La traduzione di Dacier, del 1727, rende bene il senso: «Ayez le courage d’être vertueux», e in nota aggiunge: «Pour aspirer à la sagesse il faut du courage et ne pas se rebuter par les difficultés. C’est pourquoi Horace, dit aude, ose...». Ma il motto comincia a prendere un senso diverso quando viene contrapposto alla concezione cristiana e teologica, quando tende a porsi in contrasto con le parole di san Paolo: «Noli altum sapere, sed time». Ugo Grozio lo adopera ancora in senso puramente umanistico, come esortazione a studiare seriamente. Ma quando Pierre Gassendi lo fece suo, egli trasformò, come ha scritto Luigi Firpo, «il detto oraziano in consape. Le pagine più energiche sono quelle di L UCA M AGNANI Lettere italiane sopra la Corsica, Lausanna (in realtà Livorno) 1770, lettera XVII, riprodotte in Illuministi italiani, tomo VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan e F. Venturi, Milano-Napoli 1965, pp. 828 sgg. 8 F RANCO V ENTURI, Contributi ad un dizionario storico. Was ist Aufklärung? Sapere aude, in «Rivista storica italiana», 1959, I, pp. 119 sgg. 7

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vole appello alla libera ricerca, immettendo nelle parolette antiche tutta la tensione lucida dell’indagatore di liberi veri che gli era propria»9 . Eppure siamo ancora alla fase libertina, sia pure d’un libertinismo ancor racchiuso in un involucro cristiano. Per entrare nel mondo dei lumi il motto Sapere aude dovette passare per ben diverse strade. Non più il mondo dei dotti, ma le sale piene del fumo delle pipe della Società degli Aletofili, dove il pensiero di Wolff comincia a fermentare in questo tipico sodalizio di ecclesiastici, di funzionari, di legisti della Prussia di Federico Guglielmo I. A Berlino, «che da quell’anno rimase la capitale dei filosofi», come racconta J. David Kohler, cronista di questi avvenimenti, per disposizione di Ernst Christoph von Manteuffel, l’ispiratore degli Aletofili, uomo politico e avventuriero che gli intimi chiamavano più semplicemente «le diable», venne coniata nel 1736 una medaglia in cui si vedeva una Minerva armata, con un elmo su cui stavano, in mezzo alle piume, le teste dei due filosofi Leibniz e Wolff, mentre attorno si leggeva Sapere aude, «Erküne dich vernünfftig zu seyn», come tradusse un contemporaneo10 . Lo statuto degli Aletofili, l’Hexalogus Aletophilorum ci dice come questa società poggiasse su una esplicita volontà di diffondere la verità, di organizzare i suoi sostenitori, di costituire, attraverso la solidarietà e l’aiuto reciproco, una forza di pressione. Il fermento politico è evidente e già appare una embrionale tattica per far trionfare la verità. Perché giungesse fino a Kant il Sapere aude degli Aletofili dovette percorrere un lunga itinerario, di cui del resto non pretendo d’aver individuato e ritrovato tutte 9 L UIGI F IRPO, Contributi ad un dizionario storico. Ancora a proposito di «Sapere aude», in «Rivista storica italiana», 1960, I, p 117. 10 D AVID K OHLER, Historische Münz-Belustigung, Nürnberg, XII, fasc. 47, 23 novembre 1740, pp. 369 sgg.

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le tappe. Un’altra medaglia, voluta da Stanislao Augusto Poniatowski nel 1765 è particolarmente; indicativa della diffusione di questo motto, anche se ci riporta in ambiente più umanistico e tradizionale. Venne infatti coniata in onore di Stanislaw Konarski, il celebre piarista che tanto operò per gettare le basi di una nuova cultura e di una nuova scuola in Polonia. Il motto oraziano era stato per lui parafrasato e riadattato: Sapere auso. La medaglia era dedicata cioè all’uomo che era stato capace di adottare e seguire il motto Sapere aude11 . Nella forma originale ritroviamo invece queste parole nel libro di Konstantin Franz de Cauz, De cultibus magicis, pubblicato a Vienna nel 1767, in cui l’autore aveva ripresa e codificata la lotta di Tartarotti e di Maffei contro streghe e maghi e di Van Swieten contro i vampiri. I decreti di Maria Teresa contro gli uni e gli altri avevano segnato una svolta fondamentale nel rapporto tra gli stati settecenteschi e la superstizione popolare. Sapere aude diventava in quest’opera il vero motto del dispotismo illuminato12 . L’anno dopo, 1768, lo vediamo riapparire sul frontespizio della traduzione tedesca, dovuta a Christian August Wichmann delle Characteristiks di Shaftesbury, quasi a riallacciare l’Aufklärung al deismo inglese13 . Quando Kant pubblicò il suo articolo, nel 1784, il motto doveva ormai esser diventato corrente. Lo rivediamo, quattro anni dopo, nel 1788, sul frontespizio del libro apparso allora a Francoforte e Lipsia, Geschichte der päbstlichen Nun11 W LADISLAW K ONOPCZYNSKII, Stanislaw Konarski, Warszawa, 1926, p. 63 e J EAN F ABRE, Stanislas-Auguste Poniatowski et l’Europe des lumières, Paris 1952, p. 67. 12 F RANCO V ENTURI, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 385 sgg. 13 Characteristiks, oder Schilderungen von Menschen, Sitte, Meynungen und Zeiten, aus dem Englischen übersetz, Leipzig 1768.

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tien in Deutschland, una delle innumeri opere di Friedrich Karl von Moser. Si trattava di un’ampia e farraginosa polemica contro il cattolicesimo e d’una rivalutazione della riforma protestante in chiave di lotta contro l’oscurantismo, non senza evidenti accenni patriottici tedeschi. Era, in qualche modo, anche nelle frequenti polemiche contro tutto quanto veniva dall’Italia, un vero e proprio rovesciamento d’ogni mentalità umanistica, nel nome dell’illuminismo e del nascente orgoglio nazionale. Sotto le parole oraziane, come si vede, avevano circolato, in quasi due secoli, le merci più diverse e più varie, ed anche più contrastanti. Ma l’itinerario non era stato del tutto casuale. Sapere aude non era stato un puro e semplice geroglifico servito a stampigliare delle realtà che nulla avevano in comune e che solo per caso avevano finito col ritrovarsi insieme. In realtà, da Grozio a Gassendi, da Manteuffel a Konarski, da Shaftesbury a Kant e von Moser, una logica storica non era mancata. Era la logica che portava dal razionalismo e libertinismo del Seicento, dall’originario diffondersi della massoneria nell’Europa degli anni ’20 e ’30 all’opera dei dispotismi illuminati in Polonia e in Austria nella seconda parte del Settecento, dal ripensamento di filosofi come Kant al prorompere delle passioni politiche alla fine del secolo. Una logica storica che il motto Sapere aude aveva accompagnato, senza certo crearla, né profondamente modificarla. Come giustamente diceva Kant: «era questo il motto dell’illuminismo». Nulla di meno, ma neanche di più. La verifica non sarà stata così inutile. Abbiamo ritrovato, seguendone le sorti, alcuni dei momenti essenziali del moto dei lumi, e abbiamo pure misurato, direi, quale sia la distanza dal mondo classico, dall’epicureismo antico, dalla poesia di Orazio alla realtà del XVIII secolo. Divertito vagheggiamento di filosofi, consolazione per chi si sente sempre più preso dalla battaglia dei lumi, rimpianto d’un mondo perduto, maschera per difendere idee troppo ardite

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e pericolose, Orazio e il suo motto Sapere aude anche se non ci son serviti, in realtà, a farci capire la logica interna dell’illuminismo, ci hanno rivelato qua e là l’emergere e il mutare delle idee e degli stati d’animo. Di fronte a queste incertezze e difficoltà della storia delle parole e delle idee, non è affatto sorprendente che si sia cercata una via del tutto diversa o, per meglio dire, opposta e contraria. Parte, questa strada, dalla società e non dalle idee, dai gruppi e non dagli individui, dalle diffuse mentalità e non dalle creazioni singole. Adotta i mezzi della sociologia e della storia economica. Cerca così di capire l’illuminismo a partire dalle sue radici, costruendo schemi, tabelle e diagrammi fino a cercar di ritrovare così il vero suo ritmo e la sua autentica funzione nell’Europa del Settecento. Come tutti i tentativi storiografici, anche questo ha avuto e continua ad avere i suoi aspetti paradossali ed assurdi. Prendere una modesta e pacifica accademia provinciale francese del XVIII secolo e ridurla ad una costellazione di frecce che si dipartono verso le più varie direzioni dell’Europa, soltanto perché qualche membro di questo consesso risiedeva, a Firenze o altrove, disegnare un diagramma più simile a quello dello scontro degli eserciti della battaglia della Marna che non ad una struttura accademica settecentesca, è evidentemente adoperare un ciclotrone per schiacciare una noce. Alludo, per non restare nel vago, all’articolo di Daniel Roche, pubblicato nelle «Annales» e intitolato L’Académie de Châlons-sur-Marne14 . Ma lasciamo queste curiosità e osserviamo gli studi in cui maggiore è il rapporto tra mezzi e scopi. Naturalmente questa storia sociale dell’illuminismo si rifà al marxismo. Ma non cerca di capire quello che nel14 La diffusion des lumières. Un exemple: l’Académie de Châlons-sur-Marne, in «Annales», 1964, v, pp. 887 sgg.

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l’illuminismo, nella sua origine e sviluppo, può servire a spiegare anche il marxismo, o, in genere, il sorgere delle idee politiche, economiche, sociali degli ultimi due secoli, della nostra moderna età. Cerca invece di compiere l’operazione inversa, e cioè di intendere il moto dei lumi in base a quanto scrissero ed affermarono Marx, Engels e la loro scuola. Peccato davvero, che la storia del pensiero tedesco tra il 1830 e il 1870, di quello russo del medesimo periodo, o ancora, se vogliamo venire a tempi più prossimi, una parte almeno delle vicende ideologiche dagli anni ’30 ai ’60 del nostro secolo guadagnerebbe ad essere interpretata tenendo presente il ritmo interno di sviluppo dell’illuminismo europeo nel Settecento, confrontandone gli elementi di rivolta e di fede, di speranza e di delusione, fino a concludere che il moto dei lumi è certo un cerchio storico conchiuso in se stesso, ma che tende, in determinate circostanze, a riaprirsi e a riprendere il percorso del suo ciclo di problemi e di scoperte. La visione marxista non tende invece generalmente a questo confronto, ma ad includere l’illuminismo in se stessa, ad applicargli gli schemi propri. Certo Marx, Engels e i loro seguaci hanno scritto cose acute, interessanti su Diderot o la rivoluzione francese, su Lessing o Gianmaria Ortes, e c’è sempre da imparare perciò da questo raccostamento, a condizione, ben inteso, di non considerarlo esclusivo e mettendolo accanto a quello che altrettanto possiamo apprendere da Herzen e da Cattaneo, da Michelet e da Jaurès, da Salvemini o da Keynes. Ma non così l’intendono generalmente i marxisti. Alla base della loro interpretazione dell’illuminismo sta l’affermazione che esso è l’ideologia della borghesia in sviluppo. Sono personalmente convinto che questa definizione è uno degli ostacoli che più gravemente si frappongono oggi ad una comprensione più approfondita del XVIII secolo, e che è necessario rimuovere questa ipotesi di lavoro per procedere meglio, più spe-

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diti e più avanti. È certo che l’illuminismo, o certi aspetti di esso, diventarono ad un certo momento strumenti di difesa e di offesa nella lotta contro le sopravvivenze del mondo feudale, signoriale, medioevale in Francia, in Italia, in Spagna e altrove. È altrettanto vero che tale funzione non è sempre né ovunque quella dell’illuminismo, che è compito dello storico accertare quando e come ed entro quali limiti ciò avvenne, non mai di accettare quella identificazione prestabilita. Il rischio è grande, altrimenti, di non intender più, in Francia, ad esempio, l’opposizione a Luigi XIV, la polemica di Dubos e di Boulainvilliers, la formazione e il significato di Montesquieu, l’importanza, anche ideologica, della lotta dei Parlamenti, della cosiddetta ribellione nobiliare, ecc. In Italia, per fare un altro esempio, è facile non intendere più il significato dell’illuminismo di gruppi come quello del conte Verri, del marchese Beccaria, del marchese Longo, ecc., di quella milanese Accademia dei Pugni cioè, di cui uno solo, in realtà, non era nobile, ed era un ecclesiastico, il padre Frisi, secondo un modello sociale che certo rientra perfettamente in una società d’antico regime. Quanto all’Italia meridionale, l’esempio di Filangieri può essere di per se stesso sufficientemente indicativo. Ovunque, direi, il rapporto fra forze borghesi più o meno statiche o attive e il movimento illuminista deve rimanere un problema, non un dato di fatto e un presupposto storico. Sembra accorgersene anche l’enfant terribile dell’odierno marxismo francese, Lucien Goldmann, che ha tentato di dare un valore anche più assoluto e generale all’equiparazione illuminismo-borghesia, rischiando fortemente di portarla all’assurdo. «Il nesso tra borghesia e illuminismo presenta, a nostro parere, un carattere fondamentale, pur se nei periodi delle crisi del razionalismo borghese, come all’avvento dell’idealismo tedesco e negli anni tra il 1914 e il 1915, esso appare dissolto. Dobbiamo qui aggiungere che anche durante questi perio-

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di di crisi le concezioni razionalistiche non scompaiono del tutto, come si può riscontrare in Francia, ad esempio, nell’opera di Valéry, dove l’adesione al razionalismo s’accompagna alla coscienza di una sua crisi»15 . Si tratta dunque d’una categoria storica ad eclissi. Quanto all’idea di vedere Valéry come faro della borghesia razionalistica per il trentennio tra le due guerre mondiali, nell’età di Einstein, di Freud e di Croce, migliore caricatura di questo modo di ragionare mi par difficile di trovare. Sono questi ideologismi privi di ogni contenuto storico a farci capire perché in Francia ed anche altrove si è cercato, per contrasto, un’interpretazione sociale dell’illuminismo più o meno tacitamente ispirata da Marx, ma ben decisa a non portare all’assurdo le suggestioni che questi aveva fornito e fondandosi sulla effettiva realtà sociale, su precise ricerche storiche16 . Ottimo esempio di una simile storia è l’opera di Jacques Proust, Diderot et l’Encyclopédie17 . La borghesia francese della metà del Settecento viene scomposta in una serie di gruppi e di forze tutt’altro che omogenei: L’Enciclopedia non viene affatto studiata nella forma di una sorta di media aritmetica delle varie posizioni che essi espressero, mettendo a confronto un ipotetico spirito enciclopedistico con la realtà in mezzo alla quale esso operò, ma vien studiato con minuzia e con rigore critico il posto effettivo che ognuno degli enciclopedisti tenne nella società del suo tempo. Ecclesiastici, parlamentari, nobili, scrittori, artigiani i quali collaborarono al gran dizionario sono 15 L’illuminismo e la società moderna. Storia e funzione attuale dei valori di «libertà», «eguaglianza», «tolleranza». Torino 1967, pp. 98-99. 16 A LDO G AROSCI, Sul concetto di «borghesia». Verifica storica di un saggio crociano, in Miscellanea Walter Maturi, Torino 1966, pp. 457 sgg. 17 Paris, 1967.

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esaminati da vicino, cercando di saggiare concretamente, ad esempio, quali fossero gli effettivi rapporti di Diderot con gli ateliers, con la tecnica del suo tempo, con lavoratori e operai. Le conclusioni, pazientemente costruite anche su una base statistica, sono chiare. Gli enciclopedisti costituirono una piccola élite di dotti e di tecnici, legati alla vita economica come elementi di punta del progresso economico e strettamente connessi pure con l’apparato statale che essi si sforzarono di rendere migliore e più razionale. Diderot insomma è un riformatore, e i suoi collaboratori corrispondono in Francia a quelle élites che costituirono uno dei due elementi indispensabili di ogni dispotismo illuminato, che fornirono i lumi a Maria Teresa, a Pietro Leopoldo, a Federico II e a Caterina II. «Bourgeois, certes, les encyclopédistes le sont tous... Mais non de grands bourgeois... Ils n’appartiennent pas non plus à cette petite et moyenne bourgeoisie qui représentera si bien la sans-culotterie parisienne et d’où sortiront les pionniers de la Révolution industrielle. Juristes, médecins, professeurs, ingénieurs, hauts fonctionnaires civils et militaires, savants, techniciens spécialisés, ils se situent exactement à mi-chemin de la grande et de la moyenne bourgeoisie, assez proches des couches sociales les plus élevées, – et assez bons juges de leur incapacité, – pour aspirer à les suppléer dans leur rôle dirigeant traditionnel, mais non pas si loin du peuple travailleur qu’ils ne pussent avoir une vue précise des problèmes réels qui le posaient à la nation. Ils étaient enfin bien placés pour concevoir la solution technique de ces problèmes et pour la mettre quelquefois en œuvre sans attendre une révolution générale»18 . Una definizione riassume questa descrizione tanto preoccupata delle sfumature: «Les technocrates et tout genre qu’étaient les 18 J ACQUES P ROUST, Diderot et l’Encyclopédie, Paris 1967, p. 505.

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encyclopédistes»19 . Qui appare evidente, mi pare, il limite dell’analisi compiuto da Jacques Proust. In realtà egli è giunto a definire gli enciclopedisti non in termini di classe, ma a seconda della loro funzione, in termini non di storia sociale, ma di storia politica. Gli enciclopedisti non sono tali perché stanno tra grande e piccola borghesia, ma perché creano determinati strumenti tecnici di azione nella società francese alla metà del XVIII secolo. Torniamo al «gouvernement» di Diderot, all’azione politica concreta. Le definizioni dei contemporanei, che li chiamarono il partito dei filosofi, e talvolta una setta, un movimento, restano più aderenti e precisi che non gli schemi moderni. La sottile, dotta analisi sociale che cosa può aggiungervi? Jacques Proust dedica certo gran parte del suo libro allo studio delle idee politiche di Diderot e ai contrasti, alle lotte interne del gruppo enciclopedistico. Ma esse sono tuttavia, le une e le altre, rese meno vive, meno storicamente significanti perché vengono considerate come espressioni d’una mentalità, come riflessi d’una situazione sociale e non direttamente come difficili scelte e magari drammatiche che questi uomini si trovarono a compiere, come azioni ancora da fare, come elementi d’una narrazione storica e non come cifre e paradigmi d’uno spaccato sociale. Il termine di «technocrate» non potrebbe meglio dirci quel che c’è d’incerto, d’equivoco in una simile posizione a mezza strada fra sociologia e storia. I tecnocrati sono in realtà un partito che si maschera dietro la tecnica o dei tecnici che la situazione costringe ad assumere il compito dei politici? Non è forse meglio tornare ad interpretare gli enciclopedisti come dei philosophes e dei riformatori, della gente che viveva per le proprie idee e che trovò una strada per modificare la realtà che li circondava? La loro storia resta quella dei loro programmi e delle loro lotte. Il libro di Furio Diaz 19

Ibid., p. 509.

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su Filosofia e politica nel Settecento francese mi pare abbia seguito la via giusta20 . Raffinare e sfumare l’ispirazione marxista non basta. Come evitare ad esempio il problema del successo delle riforme in alcuni paesi dell’Europa settecentesca e del fallimento invece sempre ripetuto del dispotismo illuminato in Francia? È questo problema politico e storico, che nessun metodo sociologico potrà risolvere. Il rischio della storia sociale dell’illuminismo, quale la vediamo oggi soprattutto in Francia, è di studiare le idee quando son diventate ormai strutture mentali, senza coglier mai il momento creativo e attivo, di esaminare tutta la struttura geologica del passato, salvo precisamente l’humus sulla quale crescono le piante e i frutti. Il risultato storiografico è spesso di riconfermare con gran lusso di metodi nuovi quello che già si sapeva, quello che già era affiorato alla luce della coscienza attraverso le lotte dei contemporanei e le riflessioni degli storici. Temo che una parte almeno delle ricerche compiute, per esempio, sui libri e sulle riviste settecentesche dalla Sixième section de l’Ecole pratique des hautes études, sotto la direzione di Alphonse Dupront, rischi di cadere sotto questa categoria. Livre et société dans la France du XVIIIe siècle: titolo più attraente è difficile immaginare per uno storico dell’illuminismo21 . Questo sarà volentieri disposto a perdonare quel tanto di mistica pitagorica che si trova in queste pagine e che distrae continuamente il lettore dall’esame dei risultati concreti per indurlo a piegare il ginocchio di fronte alla religione, alla contemplazione del numero. Ma il dubbio rinasce quando vediamo François Furet dopo un’inchiesta sulla produzione Torino, 1963. G. B OLLÉME, J. E HRARD, F. F URET, D. R OCHE e J. R OGER, Livre et société dans la France du XVIIIe siècle, Postface d’A. Dupront, Paris-La Haye 1965. 20 21

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libraria in Francia, compiuta a mezzo di sondaggi e con gran lusso di ricerche, concludere sulla «permanence des livres de droit», sull’«importance des belles-lettres et le maintien des grands genres», sul «grand mouvement séculaire inverse des ouvrages de religion et de “Sciences et Arts”». «Il s’agit aussi bien de l’observation technique, de la réforme d’un “abus” que de la reconstruction de la cité; toute une montée sociale s’exprime à travers le double langage de l’expérience et du rêve»22 . Nelle conclusioni, come si vede, i numeri sono messi da parte per far tornare in primo piano delle verità che tutta la storia delle idee del Settecento francese ci aveva già indicato. Vediamo similmente Jean Ehrard e Jacques Roger contare i libri stranieri recensiti nel «Journal des savants» nel 1715-19 e nel 1750-54 e giungere alla sorprendente conclusione che mentre nel primo periodo le opere italiane sono in quantità quasi trascurabile, nel secondo di questi due periodi esse sono più numerose di quelle provenienti dal mondo di lingua tedesca, dalla Svizzera e persino dall’Inghilterra, e sono seconde soltanto rispetto ai libri usciti dalle stampe olandesi23 . In realtà il mistero non è di difficile soluzione. In quegli anni il «Journal des savants» recensì gli otto volumi degli Annali d’Italia di Ludovico Antonio Muratori. Simili cifre non servono a rendere trasparente la realtà, ma debbono essere a loro volta spiegate dai fatti più facilmente constatabili. Ma non vorremmo spingere troppo avanti queste critiche. Talvolta i numeri sembrano davvero capaci di rivelare e colmare qualche lacuna. Per un italiano, supernutrito di storia della storiografia, può parere ad esempio curioso che Alphonse Dupront si meravigli di vedere il numero dei libri di storia restare sensibilmente il medesimo durante tutto il corso del Settecento invece di cre22 23

B OLLÈME e altri, Livre et société cit., pp. 27 sgg. Ibid., cit., p. 38.

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scere, com’egli s’attendeva, dopo l’Essai sur les mœurs di Voltaire. «Littéraires à merci, nous pensions volontiers que la poussée de l’histoire etait fin de siècle, après Voltaire et plus proche des plongées préromantiques aux abîmes du temps passé»24 . Muratori, Maffei, Vico, sono della prima parte del secolo. Ma anche in Francia, come Augustin Thierry ci aveva insegnato, la moderna storiografia del terzo stato e della nobiltà comincia con Dubos e Boulainvilliers. Nulla o quasi resta d’una ispirazione marxista in una storia sociale della cultura come quella che abbiamo ora esaminato. Quasi nulla, salvo cioè la cosa più importante e più pericolosa, la pretesa d’una storia totale, d una visione della società come d’una struttura globale capace di rivelare la sua logica interna, la legge della propria esistenza se sottoposta ad uno strumento interpretativo adatto, sia esso la lotta di classe, la quantificazione o lo strutturalismo. Questa pretesa più o meno palese ed esplicita di ritrovare le mot de l’énigme di una civiltà rischia sempre di distorcere il giudizio storico, trasformandolo in filosofia della storia, quando non addirittura, come diceva Carl Becker, in «moonshine». Ben altrimenti utili sono perciò, per chi vuole capire l’illuminismo europeo, quegli studi di storia sociale che mettono, in settori delimitati e ben precisi, a concreto contatto le idee e i fatti, la diffusione di certe tecniche e scienze, vedendo come esse reagiscono nelle terre, nelle città, tra nobili e artigiani di questo o quel paese. Sono apparsi, in questi ultimi anni, dei veri e propri modelli di ricerche del genere. Basta pensare a Michael Confino, Domaines et seigneurs en Russie vers la fin du XVIIIe siècle. Etude de structures agraires et de mentalités économiques25 , e a Marc Raeff, Origins of the Russian 24 25

Ibid., p. 195. Paris 1963.

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intelligentsia. The eighteenth century nobility26 (e citiamo questi due autori anche perché sono di opinioni diverse e la loro polemica, sulle pagine delle «Annales» è di grande interesse per chiunque studi la storia del Settecento russo27 , o ancora i tre grossi volumi di André Bourde, Agronomie et agronomes en France au XVIIIe siècle28 , lavoro che proprio a causa della sua concretezza e ricchezza tante domande fa nascere sulla reale importanza delle nuove tecniche agricole nella trasformazione effettiva delle campagne francesi, o ancora, last but not least, il grande dibattito in corso in Inghilterra sulla rivoluzione industriale29 . Libri come quello di Charles Wilson sul Sei e Settecento non possono che suscitare il desiderio che altri segua questa strada in altre terre europee30 . Non sono che esempi presenti alla mente di tutti, e che bastano tuttavia a dimostrare come si vada rinnovando la storia sociale anche del XVIII secolo. Eppure, malgrado la mia ammirazione per questi e simili storici, e magari il senso d’invidia che provo di fronte a loro, malgrado il desiderio sempre rinnovato d’imparare dai loro libri, voglio rimaner fedele, in queste G. M. Trevelyan Lectures, all’ispirazione della mia gioventù, quando progettavo di scrivere una storia politica dell’Enciclopedia. Non oserò seguire le tracce di Alfred Cobban, né accettare il suo invito a discutere addirittura The role of Enlightenment in modern history, come egli scrisse nel sottotitolo del suo In search of humanity, libro New York 1966 M ICHAEL C ONFINO, Histoire et psychologie: A propos de la noblesse russe au XVIIIe siècle, in «Annales», 1967, VI, pp. 1163. 28 Paris 1967. 29 P ETER M ATHIAS, The first industrial nation. An economic history 1700-1914, London 1969. 30 England’s apprenticeship, 1603-1763, London 1965. 26 27

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che non possiamo riaprire senza commozione, dopo la sua tanto dolorosa recente scomparsa31 . Né pretenderò certo offrire una Geschichte der abendländischen Aufklärung, come ha fatto Fritz Valjavec32 . Vorrei porre il Settecento sotto le luci incrociate di alcuni problemi della storia delle idee, sperando di dimostrare come questo incrociarsi riveli almeno alcuni punti essenziali della storia dell’illuminismo. Al centro starà il problema del valore della tradizione repubblicana nella formazione e lo sviluppo dei lumi. Ciò ci condurrà al cuore stesso del rapporto tra utopia e riforma, che esamineremo da un solo punto di vista, che pur mi pare particolarmente significativo, quello del diritto di punire. Sarà in conclusione un tentativo di ripercorrere la distribuzione geografica e il ritmo differenziato di sviluppo dell’illuminismo nell’Europa settecentesca. Spero di poter indicare come questi problemi, pur apparentemente tanto diversi, trovino effettivamente nella storia politica dell’illuminismo un loro punto d’incontro. Cambridge, aprile 1969. 31 32

London 1960. Wien-München 1961.

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Capitolo primo Re e repubbliche tra Sei e Settecento

Quando si parla di tradizione repubblicana e dell’importanza che essa poté avere nel formare le idee politiche del secolo XVIII, il pensiero corre subito all’antichità, ai grandi esempi di Atene e di Roma. Non si tratta, evidentemente, di discutere l’esistenza di questa tradizione classica, troppo importante per essere posta in dubbio. Quel che vorrei tentare di far qui, piuttosto che cercare di misurarne l’intensità e l’importanza nel Settecento e di vedere attraverso quali canali essa giungesse al secolo dei lumi, sarà di vedere quanto del pensiero repubblicano derivi non da Pericle e da Tito Livio, ma dall’esperienza compiuta dalle città italiane, fiamminghe e tedesche, dall’Olanda e dalla Svizzera, dall’Inghilterra e dalla Polonia. L’eredità repubblicana che il Settecento raccoglie e fa fruttificare ha talvolta una coloritura classica, ma nasce più spesso da un’esperienza diretta e non lontana, da una radice medioevale e rinascimentale che riprende a vivere al di là dell’età dell’assolutismo e delle restaurazioni, del Cinque e Seicento. Non certo a caso la forma antica e classica del pensiero repubblicano fu particolarmente evidente in Francia, durante gli ultimi decenni del secolo, fino a diventare esplosiva durante la rivoluzione. I philosophes, i girondini e i giacobini si rifecero a Camillo e a Bruto proprio perché dietro le spalle dei francesi stava poco o nulla che potesse servir loro di modello e d’ispirazione repubblicana. Tentarono di ripensare al passato delle città medioevali e a Etienne Marcel, alla libertà dei loro antenati franchi, ma se vollero cercare non soltanto degli esempi di virtù, ma anche delle libere forme di organizzazione e di costituzione, dovettero fatalmente ricorrere ad Ate-

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ne e a Roma. Anche loro si nutrirono, per tutto il secolo XVIII, degli esempi inglesi e polacchi, italiani e olandesi; anche per loro, come vedremo, le radici del pensiero repubblicano affondarono, da Montesquieu a Rousseau, in un’esperienza europea non lontana e nient’affatto mitica. Ma si trattava di esempi meno direttamente loro, meno locali e meno propri. Soltanto il modello neoclassico poteva ai loro occhi assumere la grandiosità e il vigore di un mito. Fu così la Francia a ridare una forma antica alla tradizione repubblicana europea33 . Ben lo si vide in Italia, alla fine del Settecento. Basta confrontare il pensiero politico dell’età dei riformatori illuministi, poniamo tra il 1734 e il 1789, a quello dell’epoca rivoluzionaria, nell’ultimo decennio del secolo, per sentire immediatamente uno stacco, una forte differenza nel vocabolario, nel modo di sentire e di esprimersi. Il Settecento italiano era stato fondamentalmente antiromano, aveva contrapposto le province all’urbe, aveva ritrovato i popoli italiani anteriori alla conquista, aveva riscoperto ed esaltato etruschi, insubri e sanniti, aveva combattuto l’idolatria della legge romana, aveva profondamente criticato il sistema economico fondato sulla conquista e non sul commercio, era giunto a prender co33 Sulla visione storica dell’antichità, anche nel Settecento, in tutt’Europa, cfr, A RNALDO S OMIGLIANO, Contributo alla storia degli studi classici, vol. I, Roma 1955, vol. II, Roma 1960, vol. III (col titolo di Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico) Roma 1966, vol. IV, Roma 1969. Sulla visione religiosa, F RANK E. M ANUEL, The eighteenth century confronts the gods, Cambridge (Mass.) 1959. Sull’aspetto psicologico ed artistico, J EAN S EZNEC, Essai sur Diderot et l’antiquité, Paris 1957. Per ulteriori indicazioni bibliografiche, P ETER G AY, The Enlightenment: An interpretation, New York 1967, pp. 455 sgg. Sull’aspetto politico, il meno studiato, H. T. P ARKER, The cult of antiquity and the French revolutionaries, Chicago 1937.

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scienza della distanza che stava tra la libertà degli antichi e quella dei moderni, Sopra questo fermento critico venne, con la rivoluzione e l’invasione francese, a sovrapporsi uno strato ben diverso, un tentativo di far rivivere i Bruti e i Camilli sul suolo italiano, dove erano in verità ben morti e sepolti. La propaganda giacobina, monotona ed esaltante insieme; portò in Italia un ideale repubblicano che mal s’accordava con un paese dove l’esperienza repubblicana era pur profondamente radicata. Le forme classiche divennero così un’arma per spezzare una tradizione. Nel nome dell’antichità Roma antica non risorse, mentre furono spazzate via o trasformate profondamente le repubbliche di Genova, Venezia, Lucca. Venne l’età della repubblica una e indivisibile, proprio in un paese dove le repubbliche erano state molte e in continuo movimento esterno ed interno. Al di là della stratificazione giacobina e neoclassica sarà dunque necessario scavare per ritrovare, in Italia come in Europa, la tradizione repubblicana che affondava la sua radice nel medioevo e nel rinascimento34 . Proprio l’esempio dell’Italia potrà forse essere particolarmente significativo. La penisola, quando comincia il Settecento, è una sorta di microcosmo dell’Europa tutta intera. Neanche in Germania era possibile trovare una tanto grande varietà di forme politiche e di costituzioni diverse, non foss’altro perché la teocrazia papale era una privativa italiana. Monarchie e viceregni, ducati e repubbliche, da Venezia a quel piccolo comune rustico che era San Marino. Un vero museo politico35 . In Italia il rap34 Si confrontino ad esempio i testi pubblicati sulla raccolta degli Illuministi italiani, tomi III, V VII, Milano-Napoli 1958, 1962, 1965 con quelli raccolti da Renzo De Felice in I giornali giacobini italiani, Milano 1962. 35 Il valore esemplare delle repubbliche italiane era stato energicamente affermato dalla storiografia illuminista e roman-

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porto tra gli stati assoluti e le repubbliche riproduceva quel che vediamo al di là delle Alpi. Venezia, Lucca, Ge-

tica – basti pensare a Sismondi. Poi lo studio delle realtà sociali ed economiche sembrò metterne in ombra le loro esperienze politiche e costituzionali, il cui interesse è stato invece sottolineato di nuovo recentemente, proprio da chi di storia economica e sociale è maestro, da F REDERIC C. L ANE, At the roots of republicanism, in «American historical review», 1966, n. 2, pp. 403 sgg. Son pagine di fondamentale importanza e che indicano o consolidano tutto un nuovo indirizzo di studi sulle repubbliche italiane. Su Venezia la discussione è stata ampia e fruttuosa negli ultimi anni (basterà ricordare il nome di Gaetano Cozzi) in Italia; è stata largamente ripresa anche fuori ed è stata ora criticamente riesaminata, con grande chiarezza e capacità, da W ILLIAM J. B OUWSMA, Venice and the defence of republican liberty. Renaissance values in the age of the counter reformation, Berkeley 1968, al quale rimandiamo anche per l’accurata bibliografia. Con molta finezza è colto il rapporto tra politica e società in M ARINO B ERENGO, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino 1965. La storia di Genova è invece ancora tutta da riprendere da un punto di vista che vada al di là della tradizione locale, sulla quale si veda V ITO V ITALE, Breviario della storia di Genova, Genova 1955. Esemplari restano naturalmente, per chi cerca di cogliere il rapporto tra i comuni italiani e la formazione dello stato moderno, Firenze e la Toscana, Basterà ricordare qui le opere di Federico Chabod, Hans Baron, Giorgio Spini, Nicolai Rubinstein, rimandando alla recente discussione e bibliografia di M ARVIN B. B ECKER, Florence in transition, Baltimore 1967 e 1968. Gran parte di questi scritti sulle repubbliche italiane – contrariamente a quel che aveva fatto Sismondi – si chiudono con la fine del Rinascimento, più o meno prolungato ai primi decenni del Seicento. E si ha spesso la tentazione di considerare come un «mito» il loro sopravvivere nell’età dell’assolutismo, nel Sei e Settecento. La loro presenza ha tuttavia un valore che va al di là del loro ricordo e mito. La formazione e l’affermarsi dello stato moderno può uscirne illuminata se la guardiamo non dal punto di vista delle monarchie vincitrici, ma delle repubbliche tenacemente sopravvissute.

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nova, San Marino erano sopravvissute ai margini degli stati moderni in formazione, in uno strano rapporto che poteva parere quasi parassitario, ma che era ormai solido, ineliminabile. Non che la Spagna non avesse fatto il possibile per abbattere Venezia, così come per riconquistare le Province Unite. Non che il ducato di Savoia non si fosse dato molto da fare per conquistare Genova. Non che il granducato toscano non fosse stato spesso tentato da Lucca. Non che il papato, ancora nel 1739, in un ultimo soprassalto non avesse tentato di por fine a San Marino36 . Ma in nessuno di questi casi, pur attraverso le vicende più diverse, pur nella maggior disparità di situazioni politiche, pur attraverso una vasta gamma di coloriture religiose diversissime, che andavano dal protestantesimo olandese al giurisdizionalismo veneto, fino a Genova barocca e bigotta, in nessuno di questi casi gli stati assoluti erano riusciti ad eliminare questi loro avversari e nemici. Le antiche repubbliche erano sopravvissute. Le repubbliche si comportarono così, durante il Cinque e il Seicento, come delle strutture esterne, dal contenuto aristocratico e patrizio, borghese e municipale, non dissimili da quelle che gli stati monarchici si andavano allora sforzando di dominare, di inglobare nell’assolutismo, senza distruggerle, piegandole ai propri voleri. Parlamenti, assemblee di stato, patriziati cittadini, organizzazioni militari e politiche di ugonotti in Francia e in Italia, innumeri autonomie cittadine e locali, privilegi di città dominanti: tutto il processo di formazione dello stato moderno torna di fronte ai nostri occhi in questi secolari contrasti e compromessi. Le repubbliche sono que36 Sul caso di San Marino, paradossalmente significativo, si veda il bel libro di A LDO G AROSCI, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Milano 1967, che è stato all’origine di molte delle considerazioni qui di seguito svolte sulla tradizione repubblicana nell’età moderna.

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ste medesime strutture, ma esterne. La loro esistenza può parere talvolta altrettanto umbratile e formale quanto quella delle forme politiche che stanno all’interno dello stato assoluto. Genova è in realtà inclusa nel mondo spagnolo. Le città patrizie della Svizzera sembrano a momenti non aver molta più indipendenza che la Franca Contea e le città alsaziane assorbite dall’avanzata francese. Eppure le strutture esterne sopravvivono, mantenendo in vita, nell’Europa continentale, la tradizione repubblicana. Furon loro a non piegarsi mai completamente di fronte all’assolutismo regio, a conservare un modello diverso, a non permettere il trionfo totale, sul piano ideologico e non soltanto su quello politico e militare, della monarchia universale37 . 37 Una delle più importanti discussioni storiografiche dell’ultimo ventennio – e davvero internazionale di ampiezza – è stata quella che ha riesaminato il rapporto tra la formazione dello stato moderno e le strutture sociali che esso andò variamente sottomettendo e inglobando. Basterà rimandare, anche per la bibliografia, ai rapporti di F RITZ H ARTUNG e R OLAND M OU SNIER , Quelques problèmes concernant la monarchie absolue, in X Congresso internazionale di scienze storiche, Relazioni, vol. IV, Storia moderna, Firenze 1955, pp. 3 sgg., di J. V ICENS V I VES , Estructura administrativa estatal en los siglos XVI y XVII, in XI Congrès international des sciences historiques, Rapports, vol. IV, Histoire moderne, Stockholm 1960, pp. 1 sgg. e di E RIK M OLNAR, Les fondaments économiques et sociaux de l’absolutisme, in XII Congrès international des sciences historiques, Rapports, vol. IV, Méthodologie et histoire contemporaine, Wien 1965, pp. 155 sgg., così come la raccolta di articoli in onore di B. B. Kafengauz, a cura di N. M. Družinin, Absoljutizm v Rossii (XVII - XVIII vv.), Moskva 1964. Particolarmente suggestivo è stato per me il libro di E RNST H EIRICH K OSSMANN, La Fronde, Leiden 1954, che vede lo stato assoluto, a metà del Seicento, come il «résultat d’une neutralisation, non pas d’une unité». «Il est une somme de mécontentements et de forces contradictoires qui se contrebalancent» (p. 260). Nota, citando Dubosc de Montandré, come non fosse assente allora in Francia il pe-

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Ben lo si vide quando, con Luigi XIV, fu la Francia a riprendere, con rinnovata energia, il duello che la Spagna era ormai incapace di condurre. La guerra d’Olanda del 1672 e il bombardamento di Genova del 1684, aprirono un nuovo capitolo di questo conflitto tra gli stati assoluti e le antiche repubbliche. Capitolo che durò fino al 1748, anno in cui la pace di Aquisgrana assicurò, dopo fortunose vicende, la sopravvivenza delle Province Unite, ancora una volta invase dalla Francia, così come quella di Genova, che soltanto una rivolta e una dura guerra poterono salvare allora dalle mani dell’Impero e del regno di Sardegna. Anche in questo lungo e decisivo periodo di passaggio tra il Sei e il Settecento, le repubbliche erano partite del tutto sfavorite. Il loro neutralismo, il loro conservatorismo, il loro tentativo di sottrarsi al mondo dei conflitti politici per rifugiarsi tutte in quello dei traffici commerciali e bancari, il loro rifiutare la spada per puntar tutto sul denaro, la loro volontà di mantenere delle costituzioni che parevano del tutto inadatte a sostenere l’urto delle monarchie, sembrava destinarle ad una sicura sconfitta. Eppure così non fu. L’urto suscitò dei rivolgimenti interni, riaprì in Olanda il conflitto tra i reggenti e gli Orange, tra provincia e provincia, giungendo proprio sull’orlo del disastro e dello sfasciamento. Poi

ricolo d’un «ésprit républicain et contagieux» (p. 108), ma come poi in realtà si estinguesse presto la debole scintilla repubblicana accesasi a Bordeaux con il movimento dell’Ormée, soffocata dalle contraddizioni politiche rivelatesi tra i grandi, la borghesia e il popolo, tra le varie forze sociali ed i loro alleati esterni. Kossmann ha il raro vantaggio di guardare a simili fatti tenendo gran conto dell’esistenza d’una alternativa repubblicana, quale quella dell’Olanda. Per il periodo posteriore, importante L IONEL R OTH KRUG , Opposition to Louis XIV. The political and social origins of the French Enlightenment, Princeton 1965.

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si salvarono non soltanto le Province Unite, ma sopravvisse l’essenziale della loro costituzione. Guglielmo III e Guglielmo IV furono molto vicini a diventare dei monarchi, ma in realtà restarono degli statóldi. Il pericolo, nel 1672 e nel 1747, li portò al potere, poggiando sulla nobiltà, l’esercito, la plebe riottosa. Ma l’intelaiatura costituzionale ereditata dal passato non crollò. Il patriziato dei reggenti continuò a mantenere nelle proprie mani le posizioni chiave nella società dei Paesi Bassi38 . La tolleranza religiosa non venne messa in dubbio e fu anzi la base dalla quale partirono Pierre Bayle e gli altri emigrati francesi per fare dell’Olanda l’emporio delle idee politiche, filosofiche e scientifiche del mondo intero, così come cinquant’anni più tardi di là partì Marc-Michel Rey per diventare l’editore dei philosophes. Le Province Unite erano rimaste una repubblica. Erano restate, politicamente, una forma di governo considerata abnorme, strana e sempre più difficilmente comprensibile da coloro che lo stato assoluto andava amalgamando e racchiudendo nelle sue strutture. La coscienza di questa diversità andò sempre più radicandosi in Olanda. Il libro uscito dalle mani di Pieter Cornelis de la Court e che corse un po’ ovunque in Europa sotto il titolo di Memorie di Jean de Witt ne è l’espressione più tipica. L’edizione tedesca del 1671 si apriva con i motti: «Pax optima rerum. Sola respublica veram pacem et felicitatem experitur...» per poi far allusione alla volontà economica del governo delle Province Unite: «Ita industria 38 D.J. R OORDA, The ruling classes in Holland in the seventeenth century, in Britain and the Netherlands, a cura di J.S. Bromley e E. H. Kossmann, Groningen 1964, pp. 109 sgg. «Even after 1672 the monarchical and aristocratic tendencies did not fuse. In many respects William III, however great his power, remained the prisoner of the oligarchy» (p. 132).

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et labore Batavorum respublica completatur»39 . La polemica contro le monarchie era esplicita ed energica in quelle pagine. Prendiamo ad esempio l’edizione inglese, del 1702, un anno in cui, come vedremo, anche nelle isole britanniche riaffiorò la polemica repubblicana. La volontà di benessere delle repubbliche è contrapposta alla volontà di potenza e di espansione delle monarchie, con la conseguenza che «the inhabitants of a republick are infinitely more happy than the subjects of a land governed by one supreme head»40 . Non si trattava affatto d’una «angelical or philosophical republick» simile a quella di Platone, d’Aristotele o alla «Eutopia Mori», ma d’una prosperità in atto, dovuta al rispetto d’un «common interest wonderfully linked together», alla tolleranza, alla libertà di residenza e di commercio, alla mancanza di monopoli, alla moderazione delle tasse e alla volontà di mantenersi in pace, anche a costo di notevoli sacrifici41 . La mentalità stessa della ragion di stato, «as the Italians», era ripudiata. Teorizzassero pure questi una politica mezzo leonina e mezzo volpina e ripetessero loro pure ininterrottamente: «Con arte e con inganno / si vive mezzo l’anno. / Con inganno e con arte / si vive l’altra parte». Non eran queste massime per i paesi più ricchi e popolati, come quelli repubblicani, somiglianti a gatti agili e prudenti piuttosto che a grossi e violenti leoni, pronti a difendersi con le unghie e con i den39 Anweisungen der heilsamen politischen Gründe und Maximen der Republicken Holland und West Friesland, Rotterdam 1671. Per i rapporti di p. C. de la Court con Spinoza, cfr. la prefazione ed il commento di Antonio Droetto al Trattato politico, Torino 1958. 40 The true interest and political maxims of the republick al Holland and West-Friedland. Written by John de Witt and other great men in Holland, London 1702, p. 6. 41 The true interest and political maxims of the republick of Holland and West-Friesland cit., pp. 15, 37 sgg.

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ti, ma soltanto se la loro esistenza era minacciata. «A cat indeed is outwardly a lion, yet she is, and will remain but a cat still, and so we who are naturally merchants, cannot be turned into souldiers»42 . Né la guerra poteva e doveva mutare la natura della repubblica: lo statóldo sarebbe rimasto un’arma di difesa nelle mani dei commercianti, non un principe, né un re. Nella sua politica estera, in mezzo ai leoni e le tigri che dominavano il mondo, questo animale eccezionale che era l’Olanda non poteva non sentire una naturale simpatia per i suoi rari consimili, che vivevano anch’essi per la pace e il commercio. Le altre repubbliche sarebbero state le sue naturali alleate. De la Court parla con simpatia ed ammirazione di Venezia, guarda con interesse alle altre repubbliche italiane e a quelle della Germania. Eppure è costretto a concludere che militarmente esse sono troppo deboli, mentre economicamente esse in realtà costituiscono piuttosto delle concorrenti che non delle alleate. Poco o nulla servono nella lotta per la sopravvivenza, contro l’«innate hatred which all monarcks bear to republicks»43 . Erano, comunque, dei buoni esempi degli errori costituzionali che è necessario ad ogni costo evitare. I magistrati della repubblica non debbono essere pagati. I loro proventi debbono provenire dal commercio, dalle manifatture, non dallo stato. Nessuna legge o privilegio come ad esempio i maggiorascati deve difenderli: «Thus it is still, or was lately in the republicks of Venice, Genova, Ragousa, Lucca, Milan, Florence...»44 . Non vi deve essere un capo permanente né al centro, né nelle amministrazioni cittadine e locali. La volontà di non mutar reggimento deve dominare su ogn’altra esigenza, pena la roIbid., pp. 244-45. Ibid., p. 287. 44 The true interest and political maxims of the republick of Holland and West-Friesland cit., p. 375. 42 43

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vina economica e politica. «Commerce, navigation and manufactures settled and continued in Italian republicks so long as they enjoyed their liberty. But we may easily perceive that Florence and Milan, though they became the courts of monarchs or stadtholders did much decrease in their commerce during the monarchical government. Pisa..., all the old great Italian citys since the loss of their free government... are fallen almost to nothing... Whereas those two ill situated towns, Venice and Genova, by their free government, not withstanding the loss and removal of Indian trade, have preserved their greatness and traffick as much as possible, and little Lucca keeps her trade still»45 . E non dissimile era stato il destino delle città della Hansa rimaste libere ed indipendenti. Tutto il pensiero politico olandese del Seicento tende a determinare le condizioni religiose, psicologiche, giuridiche di una simile sopravvivenza ed esso è continuamente attento alla sorte parallela delle altre minori repubbliche d’Europa46 . La moderna ricerca sulle vicende commerciali manifatturiere e finanziarie dell’Olanda tra Sei e Settecento, l’appassionante discussione che si è avuta in questi ultimi anni sul carattere e la portata della decadenza delIbid., p. 432. E.H. K OSSMANN, Politieke theorie in het zeventiendeeeuwse Nederland, Amsterdam 1960. La più elaborata teoria giuridica secentesca delle repubbliche aristocratiche è quella di U LRICH H UBER, De iure popularis, optimatium et regalis imperii sine vi et a sui iuris populo costituti, Franeker 1689, con frequenti paralleli tra Venezia, Firenze, e la «Batavorum respublica», «ubi summa potestas est penes ordines, hoc est equites et civitatum rectores, verissima aristocratia». (p. 50). Interessanti considerazioni si possono trovare in C HARLES I RÉNÉE C A STEL D E S AINT -P IERRE , Projet de traité pour rendre la paix perpétuelle entre les souverains chrétiens. Utrecht 1716 e ID., Annales politiques, Londres (Paris) 1756. 45 46

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le Province Unite nel secolo XVIII hanno posto sempre più chiaramente in luce il carattere peculiare, anche dal punto di vista economico, della repubblica delle Province Unite. Come in politica essa rifiuta la ragion di stato, così in economia essa non è mercantilista. La sua funzione di mercante e di banchiere dei grandi stati moderni, proprio nell’epoca del loro consolidarsi, la rende insieme fragile ed indispensabile, parassitaria e ineliminabile. Quel che appare come una decadenza è in realtà la tendenza alla stasi in un mondo in cui l’Inghilterra e gli stati del continente vanno crescendo e sviluppandosi. Con la seconda metà del Settecento sempre più evidente si fa la difficoltà in cui si viene a trovare l’Olanda ad adeguarsi ad un mondo che cambia. La sua economia è altrettanto irriformabile quanto la sua struttura politica. Nel 1751 le proposte dello statóldo sono lasciate cadere. Le crisi del 1763 e del 1773, malgrado la loro acutezza, non sono ancora tuttavia decisive. L’Olanda cadrà in realtà soltanto quando verrà presa anch’essa nel gran gorgo delle rivoluzioni moderne, a partire dagli anni ’80. Fin quando l’Antico regime tenne in piedi, anche la repubblica delle Province Unite sopravvisse47 . 47 C HARLES W ILSON, Anglo-Dutch commerce and finance in the eighteenth century, Cambridge 1941 (e ristampa del 1966); ID., Profit and power. A study of England and Dutch wars, London 1957; ID., The decline of the Netherlands, in Economic history and the historian. Collected essays, Cambridge 1969, pp. 22 sgg; I. S CHOFFER, Did Holland’s golden age co-incide with a period of crisis?, in Acta historiae nederlandica, I, Leiden 1966, pp. 82 sgg.; J. D E V RIES, De economische Achteruitgang der Republiek in de Achttiende Eeuw, Amsterdam 1959; J OHANNES H OVY, Het voorstel van 1751 tot instelling van een beparkt vrijhavenstehel in de Republiek, Groningen 1966 (dove si trovano anche interessanti paralleli con la contemporanea politica di porto franco ad Amburgo e a Genova).

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Genova e Venezia tra Sei e Settecento attendono ancora uno storico che compia per loro quello che gli studiosi olandesi ed inglesi, da Charles Wilson a Piet Geyl e a Kossmann hanno fatto per l’Olanda. Non certo che le repubbliche patrizie italiane nel loro declino possano paragonarsi davvero alle Province Unite quali esse uscirono dalle mani di De Witt e di Guglielmo III, di Rembrandt e di Spinoza. Ma i loro riflessi di conservazione e la loro permanenza in margine ai grandi stati assolutistici meritano di esser guardate più da vicino, contribuendo in qualche modo, indubbiamente, all’idea che delle repubbliche si fecero gli uomini del secolo dei lumi. A Genova, tanto il bombardamento francese del 1684 quanto l’occupazione austriaca del 1746 misero di nuovo in movimento la stratificazione sociale che era venuta sedimentandosi fin dal Cinquecento. Già i duchi di Savoia avevano cercato di far leva sulla miseria popolare per conquistare Genova, con accenti talvolta tanto apertamente demagogici da far appello addirittura alla rivolta contro il gramo, poco e misero pane nero che la plebe era costretta a mangiare, così come alla polemica contro i monopoli in materia economica ed annonaria della nobiltà dominante48 . Con gli anni ’80 del Seicento la Francia di Luigi XIV aveva reso ben più agile e articolata 48 Si vedano soprattutto gli opuscoli di Giovanni Ansaldi, agente di Carlo Emanuele I, pubblicati all’epoca della congiura di Vachero, Verità esaminata a favor del popolo, il quale con ingiustitia è tenuto fuori del governo di Genova contro alcuni tiranni dell’istesso popolo che già se ne credono impossessati con fraude, s. l. 1628 e soprattutto A tutto l’ordine fortissimo, fedelissimo, generosissimo che intende reprimer le insolenze e ripararsi dalle ingiustitie di quelli che male operano e male governano in Genova salute e aviso, s. l. 1628, in cui l’autore si rivolgeva a coloro che governavano la repubblica chiedendosi: «hanno eglino fondata Genova senza i nostri padri?» «Il governo della nostra città è sempre stato dalla parte che più ha potuto se bene in effetto doveva sempre essere di tutti» (p. 9). Con l’aiuto del du-

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una simile azione intesa a sfaldare la vecchia repubblica. La politica francese agì dall’alto e dal basso, facendo leva sulle più antiche famiglie feudali, sui Fieschi ad esempio, ed insieme sulla nobiltà di più recente formazione, così come sui borghesi, i mercanti non appartenenti alla nobiltà, su quel ceto civile cioè che all’ombra dei privilegi patrizi aveva continuato ad esistere e a svilupparsi dopo la cristallizzazione della costituzione di Genova nel 1576. Luigi XIV cercava insomma di poggiare sulle medesime forze che stavano alla base del suo potere in Francia, dalla nobiltà attratta a corte a tutti coloro che si dimostraca di Savoia, che non sarebbe stato il signore di Genova, ma il suo «protettore» tutti coloro che non appartenevano all’aristocrazia avrebbero potuto e dovuto ribellarsi: «dico ben che 150 mila nelle città e tutti i popoli delle riviere... doveranno esser habili almeno per difendersi da quei pochi che sin hora ci hanno oppresso» (p 12). Contro questa insurrezione non sarebbero bastate le truppe mercenarie, tedesche e corse: «non ci vogliono tante fattioni per far il fatto nostro, stiamo sol un giorno tutti d’accordo senza andar in Banchi [il centro commerciale della città], l’ordine de gli artegiani si contenti l’istesso giorno di far festa. Tutto il popolo minuto getti il pane putrido e puzzolente per la testa a chi glielo fa mangiar tale, ché quell’istesso giorno forse gli metteremo il cervello a partito senza metter mano all’armi. Incominciamo a dir che non vogliamo esser tanto ignoranti in tutti gli ordini nostri di voler pagar tasse, daciti, gabelle, angarie per sostener guerre ingiuste, per mantener guardie che ci offendano, per empir la città di sbirraglia che ci tormenti e che loro sopporti e che finalmente non intendemo di dar stipendi a chi ci governa tanto male...» (p. 13). Interessante pure il Secondo aviso, pubblicato dopo l’esecuzione di Vachero e dei suoi complici, in cui troviamo curiose indicazioni sulla vita religiosa e politica di Genova e che conclude: «Come si potrebbe mai soggettire maggiormente il popolo, etiandio sotto l’imperio dÈ turchi di quello che è? Come si può più impoverire di quello che l’han reso questi tiranni?... il povero è forzato a cibarsi d’immonditie, l’artigiano è tenuto in nome di schiavo» (pp. 13-14).

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vano capaci d’inserirsi nello stato assolutistico attraverso la vendita degli uffici e la politica mercantilistica di Colbert. Basta leggere le relazioni di Pidou de Saint Olon, inviato francese a Genova di quegli anni, relazioni che furono allora giustamente ammirate, per rendersi conto con quale maestria lo stato assolutistico di Luigi XIV giocasse sui contrasti interni dell’antica repubblica, e come tentasse quella medesima manovra d’inserimento che tante volte era riuscita all’interno della Francia, con forze sociali sostanzialmente non dissimili49 . Venne poi l’urto 49 V ITALE Breviario della storia di Genova cit., vol. I, pp. 308 sgg. Le discussioni sul come conquistare Genova approfittando dei conflitti interni di quella repubblica si intensificano in Francia fin dall’inizio degli anni ’80 del Seicento. Cfr., ad esempio, a Parigi, Archives des affaires étrangères, Gênes 16 (1681), pp. 401-13: «Quand on coupe la tête à une République le reste du corps est perdu, ce qui n’est pas dans un état monarchique». Era dunque necessario colpire innanzitutto l’aristocrazia dominante. Saint Olon, nel 1683 e 1684 (ibid., Gênes 19) esortava il governo di Luigi XIV a non far troppo assegnamento sulle lotte nel seno della nobiltà, tra «nobili antichi» e «nobili nuovi», ma di puntare soprattutto sui borghesi, sui mercanti più abbienti, che si vedevano esclusi dal governo anche quando non erano meno ricchi e potenti d’una parte almeno dell’aristocrazia. Nessun conto si doveva fare invece sulla plebe, sui lavoratori, legati alla politica spagnola, ai commerci con la penisola iberica e con la Sicilia e pienamente inseriti nella tradizionale libertà genovese, anche se poveri o riottosi. Si vedano inoltre, sempre a Parigi, le carte di Pidou de Saint Olon alla Bibliothèque de l’Arsénal, nn. 4760, 6546, 6613, 6546. Sull’odio che Colbert nutriva per «quella canaglia di Genova», sulla sua volontà di «rovinare il commercio della nazione e pregiudicare al decoro pubblico e per ultimo opprimere la libertà», si vedano i dispacci del rappresentante genovese a Parigi, De Marini, nell’Archivio di stato di Genova, Lettere ministri Francia, n 2202, dispaccio del 3 gennaio 1683. Nel dispaccio del 2 luglio dello stesso anno questi notava come andasse crescendo a Parigi l’animosità contro la nobiltà genovese. L’anno dopo, dalle carceri della Bastiglia, De Marini avvertiva il proprio go-

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violento: il bombardamento della città. I risultati furono altrettanto negativi quanto quelli della guerra d’Olanda. Genova rimase nella sfera d’influenza spagnola. L’atto d’omaggio e di scusa che il doge Gianfrancesco Imperiale Lercari fu obbligato a compiere a Versailles costituì certo una grave umiliazione. Ma non spezzò la continuità della repubblica50 . Che era poi precisamente quanto l’aristocrazia genovese voleva, al di là delle macerie e dei palazzi rovinati e distrutti dalle bombe che l’ammiraglio Abraham Duquesne, un ugonotto, aveva lanciato dal golfo, in nome di Luigi XIV, proprio alla vigilia della revoca dell’editto di Nantes. Durare, sopravvivere, era la volontà fondamentale di Genova. Proprio la forma repubblicana del suo governo le permetteva di realizzare questa volontà. La classe dirigente lo sapeva, sicura, come quella olandese, di poter sopravvivere alle guerre e alle rovine purché l’essenziale della costituzione patrizia e cittadina non fosse toccato. «Essere la repubblica eterna, mortali i prìncipi», come aveva scritto Giovanni Paolo Marana51 . L’importante era non cedere. «Je l’avoue – faceva dire a Genova lo stesso scrittore, in un suo dialogo con Algeri – je l’avoue, je découvre tous les jours que mon mal est plus grand que je ne pensois et que mon peuple est épuisé. Les charges sont excessives, le commerce est ruiné, les artisans ne font rien et toute la ville est ensevelie dans une profonde douleur. Il faut pourtant avoir bon courage, et ne faire aucune lâcheté. Je suis resolue de m’en-

verno come la Francia puntasse sulla «grandissima alienazione nel popolo dalla nobiltà e dal governo» (ibid., n. 2203, del 20 settembre 1684). 50 F ILIPPO C ASONI, Storia del bombardamento di Genova nell’anno 1684, a cura di Achille Neri, Genova 1877. 51 La congiura di Raffaello della Torre, con le mosse della Savoia contro la repubblica di Genova libri due, descritta da Giovanni Paolo Marana, Lione 1682, p. 71.

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sevelir sous mes ruines, comme Numance»52 . Anche a Genova, come diceva Marana, i pericoli avevano indotto alcuni a pensare che era necessario concentrare i poteri nelle mani di pochi, che era indispensabile spezzare l’antico equilibrio e permettere che una delle magistrature prendesse il sopravvento sulle altre. «J’ai pensé – è sempre Genova che parla – plusieurs fois, dans mes conseils, de donner une autorité absolue à la redoutable magistrature de mes inquisiteurs d’état, de faire assassiner et empoisonner qui qu’il leur plairoit, sans aucune forme de procès, pour faire perir tous ceux qui, par leurs actions ou leurs discours, font paroître quelque inclination pour la France»53 . Piani machiavellici e sogni tenebrosi d’una aristocrazia minacciata, attribuiti da Marana al doge Lercari, lo stesso che compì l’atto formale di omaggio a Luigi XIV. Ma evidentemente rimasero sempre vaneggiamenti e restarono pur sempre sogni entro i confini delle magistrature esistenti. L’ombra d’una dittatura che si trasforma in monarchia non era tuttavia del tutto assente. «Car enfin quel malheur plus grand peut arriver 52 Dialogue de Gênes et d’Algers, villes foudroyées par les armes invincibles de Louis le Grand l’année 1684, avec plusieurs particularitez historiques touchant le juste ressentiment de ce monarque et ses prétensions sur la villes de Gênes, avec le: réponces des Génois. Traduit de l’italien, Amsterdam 1685, p. 93. Si veda pure il testo italiano, Dialogo tra Genova et Algieri città fulminate dal Giove Gallico, Amsterdam 1685. 53 Dialogue de Gênes et d’Algers cit., p. 112. Anche a Genova troviamo le prove che, da tempo, si pensava alla necessità di concentrare il potere in poche mani. «L’architettura del governo della Repubblica non è propria per trattare negotii di stato e se non si farà gionta ristretta, che abbia facilità a maneggiare il politico tutto andrà a precipizio», si leggeva in un «biblietto di calice» del 14 luglio 1673. Archivio di stato di Genova, Politicorum, mazzo 14, n. 1660, f. 14. Sull’estensione dei poteri degli inquisitori di stato negli anni del bombardamento si veda Ibid., mazzo 16, n. 1662, pp. 45 sgg.

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à un état que d’estre gouverné par un homme qui s’imagine d’estre plus sage que tous les autres?... Pour ce qui est du peuple il feroit bien des choses s’il avoit un chef, mais il n’ose rien entreprendre parce que je veille dedans et dehors...»54 . La virtualità dello statóldo che diventa principe non manca, come in Olanda, ma la repubblica sa di poter e voler resistere. Marana, nemico dell’aristocrazia, favorevole a Luigi XIV, non vede che uno sbocco alla crisi, malgrado tanta superbia patrizia e repubblicana. Genova non avrebbe potuto vivere in pace accanto al suo grande vicino francese se non quando «les nobles, qui l’ont gouvernée avec tant d’insolence, d’ignorance et d’injustice soient bannis à perpetuité ... releguez dans l’île de Corsique qu’ils ont rendue déserte, et condannez à la cultiver et à estre les sujets du peuple, comme perturbateurs du repos public, ennemis des bons citoyens, infracteurs des loix divines et humaines et scandaleux à toute l’Italie»55 . Programma massimo, potremmo dire. Mentre quello minimo consisteva nell’atto di formale omaggio alla Francia. Non era forse stata questa la politica delle Province Unite, finiva coll’insinuare Marana, dopo la terribile guerra del 1672? «La république de Hollande, la plus puissante qu’il soit aujourd’huy au monde, c’est bien appliquée à appaiser la colère de Louis et s’est soumise au plus fort»56 . Giornalista e cronista tra i più noti e letti fra Sei e Settecento, Marana divulgò così, un po’ ovunque in Europa, i contrasti tra monarchia e repubblica, rivestendoli delle forme della ragion di stato e della sua palese compiacenDialogue de Gênes et d’Algers cit., p. 114. Ibid., p. 128. 56 Dialogue de Gênes et d’Algers cit., p. 134. 54 55

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za alla volontà di Luigi XIV57 . Nella Congiura di Raffaello della Torre, pubblicata nel 1682, esaminava acutamente la crisi di dieci anni prima. Nel Dialogue de Gênes et d’Alger apparso nel 1685, mostrava tutti i contrasti interni che a Genova erano stati suscitati dal bombardamento di Duquesne. Non molto tempo dopo cominciava ad uscire, volume dopo volume, il suo Espion turc, che egli aveva cominciato a scrivere in italiano per Luigi XIV, per poi continuarlo in francese, vedendolo ben presto tradotto e continuato un po’ ovunque in Europa58 . Era una storia epistolare del Seicento, inframmezzata d’osservazioni sugli usi, i costumi, le costituzioni del mondo, insensibilmente sempre più staccata da ogni ortodossia religiosa e politica. Il giuoco letterario della corrispondenza d’un turco dall’Europa gli prendeva la mano e quasi senza volerlo Marana passò da una smaccata adulazione rivolta a Luigi XIV, da una sua evidente volontà di far l’elogio d’uno stato grande, potente, non più legato a chiusi privilegi di casta, ad una visione politica in cui la diversità delle forme veniva non soltanto ammessa, ma considerata naturale e benefica. L’antico confronto fra la tradizione repubblicana e la volontà monarchica si andò stemperando nelle sue pagine in una visione sempre più scettica e tollerante. Dal confronto tra la nativa Genova e la Francia di Luigi XIV Marana era così riuscito a trarre qualcosa che poteva persino far appello alla mente del giovane Montesquieu. L’Espion turc sarà infatti, com’è noto, un invito, un incitamento, e non soltanto lette57 Numerosi e importanti i documenti che lo concernono all’Archivio di stato di Genova, Politicorum, 1659, n. 133, Lettere ministri Francia, 2201, 2201 bis, 2202, 2203, 2204. 58 J. E. T UCKER, The Turkish spy and its French background, in «Revue de littérature comparée», 1958, pp. 74 sgg.

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rario, alle Lettres persannes59 . Come si poteva leggere in una prefazione dell’opera di Marana, in un’edizione che uscì proprio l’anno 1700: «Il raisonne sur les causes des soulèvemens et des bouleversemens des états non en barbare, mais en habile politique et en sage philosophe»60 . 59 E RNEST J OVY, Le précurseur et l’inspirateur direct des Lettres persannes, estratto dal «Bulletin du bibliophile», Paris 1917 e M ONTESQUIEU, Lettres persannes, texte établi, avec introduction, bibliographie, notes e relevé de variantes par Paul Vernière, Paris 1960, pp. X-XI. 60 L’espion dans le cours des princes chrétiens, Cologne 1700, vol. I, Préface particulière, non paginata. Anche un altro e ben diverso ispiratore di Montesquieu, Paolo Mattia Doria, dovrebbe esser letto tenendo presente che egli era di origine genovese e che a lungo egli meditò sull’esperienza compiuta dalla sua repubblica tra Sei e Settecento. Cfr. soprattutto La vita civile, pubblicata una prima volta. nel 1710. Si veda, nell’edizione di Napoli del 1753, pp. 237-38: «... le repubbliche devono essere, come le oneste donzelle, parche e moderate, in mezzana ampiezza di paese, ma in sicuro sito collocate e alla rapacità dÈ potenti conquistatori nascoste e da’ tiranni fuggitive, ma nella difesa del lor’ onore e della loro libertà forti e potenti» Esempi d’una simile politica avevano saputo dare i veneziani, gli svizzeri, gli olandesi. Similmente «farebbero ancora i miei genovesi se, per miseria della repubblica, non avessero troppo ingegnosamente trovato l’arte di portare nelle asprissime montagne il lusso e la pompa dÈ superbi palagi e, quel ch’è peggio ancora, dÈ costumi». Non soltanto Genova, ma, in genere, le repubbliche italiane, incapaci ormai di rigorosa virtù, avevano finito col pensare soltanto alla «conservazione», «non solo senza soggiacere alle leggi della severa virtù, senza obbligarsi al mantenimento d’eserciti né di armi proprie», appoggiandosi invece «ora ad un principe, ora ad un altro, rendendoli gelosi della di lei conservazione per non fare colla sua rovina crescer di forza i loro nemici ed alcune volte lusingandoli con le speranze di nuovi acquisti, Sì fatte sono le repubbliche e i principi della nostra Italia, alcune delle quali veggiamo mercè di tai massime essersi lungamente conservate, quantunque noti senza danno e

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A Venezia la situazione era apparentemente alquanto diversa tra Sei e Settecento. Soltanto con la pace di Passarowitz la repubblica di San Marco sarà davvero tagliata fuori, dai grandi conflitti internazionali. Mai più si farà trascinare in una guerra, come accadde invece ancora una volta a Genova. La sua neutralità la preservò un po’ meglio, per tutti quei decenni, dal passaggio degli eserciti e dalle loro ruberie. Eppure, sostanzialmente, la situazione era pur sempre molto simile. L’Impero proseguì, durante tutto il secoloXVIII, una sistematica politica, tesa ad isolare, a togliere ogni forza commerciale a Venezia e a sostituirla, commercialmente, con le vie di comunicazione terrestri della Lombardia e con quelle marittime che facevano capo a Trieste. Come è noto, alla fin dei conti, Vienna riuscì nei suoi intenti quando, fra Sette e Ottocento, poté profittare dei rivolgimenti portati da Napoleone. Per lunghi anni Venezia reagì a questa lenta opera di assorbimento, con il tipico riflesso repubblicano dell’immobilità, del conservatorismo programmatico, con il tentativo di astrarsi dalle vicende quotidiane per contemplare se stessa nella propria perpetuità. All’immagine del Cinque e Seicento dello stato veneto perfettamente equilibrato, capolavoro della politica, si sovrappone sempre più quella d’uno stato basato sul diritto storico all’eterna esistenza. Eppure, fin dagli anni ’30 del XVIII secolo, si fece luce qua e là la convinzione di quanta e quale fosse in realtà la debolezza politica della repubblica. Scipione Maffei, il gran patrizio e dotto veronese, proprio confrontando la situazione della sua patria con quanto aveva potuto personalmente osservare in Olanda e in Francia, indicò come debolezza fondamentale il rapporto sbagliato che i

fatica (a mio credere) molto maggiore di quella che apporta la virtù vera».

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secoli eran venuti fissando tra Venezia dominante e le città di terraferma, oppresse e sfruttate. Il suo Consiglio politico, del 1737, è il primo segno d’una nascente coscienza della crisi veneziana61 . Andrea Tron, uno dei più intraprendenti senatori, dopo aver fatto anche lui un’esperienza europea, non può più chiudere gli occhi di fronte alla precarietà d’un governo dove le cariche non durano che pochi mesi, dove la rotazione delle responsabilità è stabilita non con lo scopo di ottenere un governo efficiente, ma per equilibrare fra loro le famiglie della classe dirigente e le ambizioni e carriere dei loro rampolli62 . Eppure anch’egli, pur così critico del sistema veneziano, si ritrae di fronte all’esempio olandese, alla «gran rivoluzione» del 1747 che gli parve aver ridotto «quella repubblica, ch’era in parte oligarchica, in parte democratica», ad una «specie di monarchia»63 . Così, quando tornava ai problemi del proprio paese, non sapeva indicare altro rimedio se non quello di privilegiare una delle magistrature tradizionali della repubblica, il Consiglio dei Dieci, per attribuirgli quel potere e quella forza politica di cui egli sentiva sempre più la necessità, quasi a riecheggiare quei sogni genovesi di poggiare la dittatura sugli inquisitori di stato. Gli pareva sempre più evidente che ciò che 61 A RNALDO S OMIGLIANO, Gli studi classici di Scipione Maffei, in «Giornale storico della letteratura Italiana», 1956, n. 403, p, 372. 62 G IOVANNI T ABACCO, Andrea Tron (1712-1785) e la crisi dell’aristocrazia a Venezia, Trieste 1957. 63 G. T ABACCO, Andrea Tron cit., p. 68. Cfr. quanto scriveva Andrea Tron nel 1743 e 1744 sull’Olanda, sempre più sfiduciato sul conto di quel paese. «La repubblica d’Olanda non fa più quella figura che faceva altre volte... Consolatevi, che questa repubblica è senza comparatione peggio governata che la nostra... Ella degenera a poco a poco in anarchia». Venetiaansche Berichten over de Vereenigde Nederlanden van 1600-1795, a cura di p. J. Blok, ’s-Gravenhage 1909, p. 384.

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mancava alle antiche repubbliche era proprio un nucleo di stato burocratico. Come stupirci che anch’egli cercasse di servirsi, per sostituirlo, d’uno di quegli organi che sempre più si erano affermati nelle repubbliche durante l’età delle signorie e nel Seicento, riflettendo, all’interno delle repubbliche, una evoluzione simile a quella che contemporaneamente si era andata affermando negli Stati monarchici?64 Ma, a Venezia come a Genova, questi rimasero sogni. La mente più pensosa e una delle più colte della metà del Settecento nella repubblica di San Marco, Marco Foscarini, andò allora ricercando in una sempre più sottile analisi politica e storica le vie e le possibilità d’una sopravvivenza di Venezia65 . Era stato educato nel culto della «più famosa repubblica che giammai fosse». Quando conobbe da vicino l’Impero, dove fu ambasciatore, si riconfermò nel suo convincimento e scrisse la sua Storia arcana, nel 1735, per «disvelare i mancamenti delle monarchie, esposte a perire sotto i vizi di pochi». La neutralità di Venezia finì per configurarsi ai suoi occhi come un comandamento morale. Non era certo la paura delle armi a trattenere la sua patria lontana dalle contese e dalle guerre, era esplicita volontà di non mescolarsi con le brutture del mondo, «in quella guisa che la perfezione morale non più consiste in far opere virtuose che nel64 La storia degli inquisitori di stato a Genova è tutta da scrivere. Furono istituiti ad imitazione di quelli veneziani. Cfr. V ITALE, Breviario della storia di Genova cit., vol. I, pp. 286-87. Per quel che riguarda Venezia, e sulla lunga lotta tra il Senato e il Consiglio dei Dieci si veda soprattutto l’ottimo libro di Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, Venezia-Roma 1958 e le considerazioni svolte dallo stesso nel corso da lui tenuto alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, Politica e diritto nella riforma del diritto penale veneto nel Settecento, Padova 1966-67, pp. 8 sgg. 65 V ENTURI, Settecento riformatore cit., pp. 277 sgg.

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l’astenersi dalle cattive, e che il ben usato silenzio vale alcuna volta al pari dell’eloquenza». Non restava a Venezia che ripiegarsi tutta sul suo passato, e là ricercare la propria ragione di vita. Esplicitamente e duramente Foscarini condannava le teorie politiche della ragion di stato, che erano state strumento dell’assolutismo, della monarchia, e insieme della decadenza dell’Italia e di Venezia. Al medioevo bisognava rifarsi. La storia e lo studio dell’«indole delle nazioni», questi erano «i due fonti principalissimi di questa civile abilità di regolare le repubbliche». Dall’etica e dalla storia muoveva così Foscarini, con un movimento che andava ormai oltre il ritorno ai principi di machiavelliana memoria, che sbocciava su una visione più libera della ricerca storica come elemento indispensabile per affermare il diritto delle nazioni alla propria esistenza. Marco Foscarini potrà ancora farsi attrarre, negli anni ’40, dall’efficienza piemontese, ammirando la capacità dei suoi duchi di trasformarlo da paese «avvilito piuttosto che stimolato dalla povertà», da «piccola terra priva di industria popolare» a paese d’«uomini industriosi e frugali». Ma ormai la via che egli intendeva indicare a Venezia era chiara di fronte ai suoi occhi: riprendere antiche leggi per riformare quelle esistenti, riesumare antichi ordinamenti per correggere gli errori e le brutture presenti. Ai suoi occhi il passato, la storia erano una intangibile forma entro cui dovevano essere colate le esigenze nuove, quasi ad assicurare il senso della legittimità, quasi a consacrare i provvedimenti dettati dal bisogno, dalla necessità, dall’urgere della vita di tutti i giorni. Nel 1752 pubblicava la sua grossa opera Della letteratura veneziana (si tratta di quella politica, storica, giuridica, scientifica soltanto). Non le leggi romane o la lingua di Cicerone avevano assicurato nei secoli l’esistenza dei veneziani, ma il «diritto lor proprio», la propria lingua e cultura, varia, complicata, tanto diversa da quella degli altri. Il suo ideale era Paolo Sarpi, non gli umani-

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sti, né tanto meno gli uomini della ragion di stato. Non il modello delle repubbliche antiche avrebbe fatto vivere Venezia, tanto differente nel suo carattere mercantile, ricco, patrizio, fin dai primordi, fin dai tempi della sua origine. Certo Foscarini, che finì coll’essere doge e che molto operò per una ripresa del pensiero e della politica ispirati a Paolo Sarpi fu, come disse un contemporaneo, «patriae libertatis defensor potius quam corrector». Ma i riformatori illuministi della seconda metà del secolo da questo suo rinnovato mito della repubblica veneziana prenderanno le mosse, quando addirittura non rimarranno prigionieri d’una tanto accorata difesa d’una libertà diventata ormai costume e «indole d’una nazione» più che volontà e possibilità politica. La situazione era meno appariscente, ma non meno significativa in Toscana. Era possibile, tra Sei e Settecento, un ritorno indietro, verso il medioevo, nelle forme politiche d’un paese in cui sempre meno efficiente era diventato lo stato granducale sorto e costruito nel Rinascimento e nell’età della Controriforma? Che cosa sarebbe accaduto dopo la scomparsa di Cosimo III e dei suoi figlioli? Avrebbero potuto risorgere le repubbliche di Firenze e di Siena quando lo stato mediceo fosse venuto meno alla sua funzione? Fu un sogno anche questo, negli anni ’20 e ’30 del Settecento, il quale lasciò tuttavia qualche traccia negli animi dei toscani di quella età. Quando Giangastone, l’ultimo dei Medici, morì nel 1737, gli occhi di molti erano volti verso il passato, magari verso le antichità etrusche – repubblicane e federali anch’esse – e soprattutto verso la grande età dell’umanesimo civico che cominciò proprio allora ad essere riscoperta e apprezzata dai dotti fiorentini, come Lami, Mehus ed altri. Le antiche magistrature repubblicane, mummificate e conservate, come in un museo, all’ombra del principato e del granducato si sarebbero in qualche modo riavute, riacquistando una vita perduta da secoli? I Medici

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avrebbero restituito alle città le libertà che avevano loro tolto? Parvero credere un momento a queste ombre del passato anche uomini come Muratori o come d’Argenson. Poi la Toscana venne destinata ai Lorena e Richecourt cominciò a gettare le prime basi di quelle riforme livellatrici e modernizzatrici che permetteranno al granducato di Pietro Leopoldo, a partire dal 1765, di diventare uno dei modelli più riusciti in Europa di assolutismo illuminato. Ma anche allora il passato repubblicano della Toscana continuò a far sentire il suo peso. Una parte importante degli intellettuali rimasero all’opposizione rispetto a Richecourt, opposizione che guardava al medioevo di Firenze, ma che andò cercando sempre più nella libertà inglese un proprio modello e ideale e che trovò in Montesquieu i termini d’una volontà costituzionale, mentre andò riscoprendo il Machiavelli repubblicano, variamente colorando così la sua ininterrotta polemica antidispotica. La Toscana di Pietro Leopoldo non sarà soltanto un esempio ammirato di stato riformatore, sarà anche la terra in cui nascerà il primo tentativo costituzionale italiano e quella in cui più ampiamente e variamente, da Antonio Niccolini a Giovanni Ristori e a Filippo Buonarroti, l’esperienza del passato repubblicano fu sprone alla ricerca d’una nuova libertà66 . V ENTURI, Settecento riformatore cit., pp. 299 sgg.; M A R OSA, Dispotismo e libertà nel Settecento. Interpretazioni «repubblicane» di Machiavelli, Bari 1964 (anche per quel che riguarda i rapporti del rappresentante inglese John Molesworth, il figlio di Robert, il noto commonwealthman, con gli ambienti toscani). Sulla discussione attorno a Machiavelli che è la parte più studiata della storia della tradizione repubblicana in Toscana ed altrove, cfr. F. R AAB, The English face of Machiavelli. A changing interpretation. 1500-1700, London-Toronto 1964 e G IULIANO P ROCACCI, Studi sulla fortuna di Machiavelli, Roma 1965. Sui problemi politici della Toscana, si veda F URIO D IAZ, Francesco Maria Gianni dalla burocrazia alla politica sot66

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L’ultima gran fiammata di questa tradizione comunale e repubblicana che covava sotto le ceneri della decadenza italiana, si sprigionò a Genova nel 1746. Minacciata da Carlo Emanuele III, il re di Sardegna, occupata e vessata dalle truppe di Maria Teresa, la città si ribellò cacciò gli austriaci, gettandosi poi in una lunga e decisa guerra sotto le sue mura e nelle montagne della Liguria. Sola dapprima, appoggiata poi dai francesi, Genova seppe così riacquistare la sua libertà e indipendenza, che venne riconfermata nel trattato di Aquisgrana nel 1748. Fatti ben noti che riprendono il loro significato storico soltanto se li guardiamo dal di dentro, all’interno dei palazzi e delle case genovesi. È l’ultima pagina della storia comunale italiana che sta dinanzi ai nostri occhi. La rivolta è di origine plebea e si nutre di disprezzo, di odio contro la classe nobiliare incapace di difendere la città. Il governo, che vien chiamato allora generalmente la repubblica, si trova tra due fuochi, gli austriaci e la rivolta popolare. Esita ed oscilla, chiuso nella propria volontà di conservare insieme i privilegi e la tradizione. L’unità della classe dirigente si sfalda. I nobili più poveri chiedono maggiore partecipazione al governo, la nobiltà: più antica lotta con la più recente, i gruppi familiari cercano ognuno una propria via di scampo. Vengono rimesse in discussione quelle leggi che nel 1528 e 1576 avevano assicurato l’equilibrio politico della repubblica. Fuori del Palazzo si viene organizzando un potere autonomo che è dapprima un Quartier generale del popolo insorto, e che prende poi la forma di un’Assemblea generale, con i rappresentanti delle squadre, dei quartieri, delle corporazioni, dei paesani delle valli vicine, con proprie commissio-

to Pietro Leopoldo dl Toscana, Milano-Napoli 1966. Cfr. pure A. S AITTA, Filippo Buonarroti, Roma 1950 e C ARLO C A PRA , Giovanni Ristori da illuminista a funzionario. 1755-1830, Firenze 1968.

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ni di governo, con cariche elette e con un gran cancelliere del popolo. L’Assemblea si impegna a rendere conto, a ritmo frequente, del proprio operato a tutto il popolo raccolto in piazza, alla totalità dei cittadini presenti. La struttura nobiliare sembra messa in pericolo. Anche nel campo popolare i conflitti non tardano a scoppiare, tra gli individui e i gruppi. Sotto la spinta delle esigenze militari, della pressione francese, il Palazzo, i nobili riprendono, sia pur lentamente, il controllo e il sopravvento. È come se Genova avesse ripercorso, nello spazio di non molti mesi, tutta la sua storia secolare e avesse rivissuto il processo che ne aveva fatto poco a poco la più tipica e chiusa delle repubbliche oligarchiche. La storia dimostrò che il processo non era reversibile. Eppure la scossa era stata forte e impressionò molti tra i contemporanei, riproponendo tutta la gamma dei problemi delle repubbliche antiche e moderne, il rapporto tra i patrizi e i plebei, il restringersi in una piccola oligarchia del potere stesso della classe nobiliare, così come i problemi d’una democrazia diretta e delle forme che dovevano rivestire le rappresentanze popolari, le modalità stesse della loro elezione, rimozione e costituzione. Last but not least riemerse allora il problema del rapporto fra Genova città dominante, e i territori da essa amministrati, sia che questi ultimi si trovassero sulle Riviere, sia, cosa anche più importante, fossero quelli della Corsica, l’isola dove la ribellione al governo della nobiltà genovese aveva preso ormai da più decenni le forme d’una rivendicazione di indipendenza nazionale67 . Problemi tutti che finirono con l’essere soffocati dalla puntigliosa, pavida restaurazione dello status quo ante operata dalla nobiltà genovese. Ma basta aprire i giornali, le cronache e le storie di quegli anni, in Italia e soprattutto fuori d’Italia, per accorgersi che tali questioni non mancarono di essere lar67

V ENTURI, Settecento riformatore cit., pp. 198 sgg.

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gamente e animatamente discusse, Colpì i contemporanei la mancanza d’un centro di potere nella rivolta genovese, così come l’incertezza di tutto il suo sviluppo, dovuta al disperdersi delle sue energie nelle numerose forze che emersero in quei mesi, il Palazzo, le parrocchie, i mestieri, le milizie: centri tenuti assieme soltanto dalla volontà di non essere assoggettati dall’Austria e dal Piemonte, dalla difesa dell’antica libertà, dall’identificazione intuitiva e tradizionale della libertà con l’indipendenza. Anche a Genova l’esistenza stessa della repubblica restò il problema essenziale, di fronte all’attacco degli stati assoluti, delle monarchie. Il gioco delle forze interne, la loro organizzazione e funzione politica finirono con l’essere subordinate alla primordiale esigenza di sopravvivere. Lo disse, forse meglio d’ogn’altro, un modesto, ma curioso cronista genovese di quegli anni, Francesco Maria Accinelli. Molte erano state nel medioevo, scriveva, le repubbliche italiane. Poi erano state dominate dai tiranni e dai principi o era loro «convenuto soccombere alla prepotenza di chi si è fatto grande con l’usurpazione degli altrui stati e territori». Soltanto Genova, «fra tutte le superstiti la più antica, siccome tra tutte le altre la più travagliata, insidiata e oppressa, può sola vantarsi di avere ogni cosa superata e di mantenersi la nativa libertà e decoro». Più fortunata cioè delle altre repubbliche, dell’Olanda, della Svizzera, di Venezia e di Lucca, Genova era assicurata ormai, a metà del Settecento, entro i suoi confini. La morsa che l’aveva stretta nei secoli precedenti sembrava allentarsi dopo il 1748. Accinelli concludeva, con una metafora che ci ricorda quella attribuita quasi cent’anni prima a De Witt e con un ottimismo tipico dell’età di pace che andava allora aprendosi in Italia, che Genova poteva guardare al futuro con qualche tranquillità, non avendo ormai più ai suoi confini «aquile da ra-

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pina né altri animali avidi d’impinguarsi dell’altrui; ma prìncipi miti e pacifici, contenti del suo»68 . Il problema delle repubbliche finì coll’essere al centro dei dibattiti che si andarono svolgendo, alla fine degli anni ’40 all’università di Pisa, in un gruppo di studenti ed emigrati genovesi raccolti attorno al filosofo Gualberto de Soria. Il risultato delle loro discussioni fu affidato ad un testo intitolato Notti Alfee oggi ’conservato alla Biblioteca Labronica di Livorno69 . L’arretratezza delle strutture genovesi risultava evidente. Mancava un centro di potere. Era assente una politica economica che andasse al di là degli interessi dei gruppi familiari che componevano il patriziato della Repubblica. La rivolta corsa non avrebbe potuto essere riassorbita se non mutando profondamente l’organizzazione dello stato. La mancanza d’una politica culturale era altrettanto evidente. Non c’era un’università e mancava ogni altro centro per discutere dei problemi politici ed economici dello stato e per formare una migliore classe dirigente. A Pisa questo dibattito sfociava così sulle riforme illuminate. Anche al di là delle Alpi la rivolta di Genova e gli avvenimenti olandesi furono pure largamente commentati e discussi. In Francia, in Inghilterra, in Germania e soprattutto in Olanda, la curiosità, l’interesse dimostrati furono vivissimi. Le vicende e le sorti della diplomazia e della guerra avevano portato le Province Unite e Genova alle due opposte sponde degli schieramenti internazionali: con l’Impero e contro la Francia, o viceversa. Ma i problemi dei due stati non erano in fondo dissimili. Innanzi 68 F RANCESCO M ARIA A CCINELLI, Le verità risvegliate, con tre dissertazioni della decadenza dell’Impero, della libertà di Genova, della soggezione di S. Remo alla Repubblica, ms. conservato a Genova nella Biblioteca Berio, ff. 1 e 5. 69 V ENTURI, Settecento riformatore cit., pp. 349 sgg.

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tutto: neutralità o belligeranza? La polemica fu vivace e molteplice, la conclusione univoca: le antiche repubbliche, a metà del Settecento, potevano vivere soltanto se si traevano fuori dai conflitti delle grandi potenze. Né alleanze né guerre. L’Olanda e Genova finivano col dar ragione a Venezia. Uno stato commerciale, a metà del Settecento, era uno stato neutrale, organicamente negato alla. conquista e all’espansione. L’esempio delle repubbliche classiche era loro esiziale, il peggiore che le moderne potessero seguire. Come diceva uno dei pamphlets di quell’epoca: «L’ambition est le fléau des républiques, la jalousie et les dissentions en sont la perte. Les anciennes républiques ont été détruites par ces passions. Les modernes doivent l’être nécessairement de même»70 Altro fondamentale problema: la politica degli stati assoluti, la loro volontà di conquista rendevano indispensabile un mutamento interno delle repubbliche? Era uno statóldo necessario anche a Genova? Il popolo era forse ricaduto là sotto il dominio dei nobili, perché non aveva trovato un capo e non si era così messo sulla via della dittatura? A queste e simili domande i contemporanei risposero generalmente in modo diverso a seconda del campo politico in cui si trovavano, lodando lo statóldo se filoaustriaci e i nobili genovesi se filofrancesi. Ma non tutto era puramente strumentale in questo dibattito. Vi intervenne ad esempio uno dei più curiosi avventurieri della penna del XVIII secolo, Ange Goudar, dimostrando d’esser capace di cogliere il significato del gioco delle classi nell’antica repubblica di Genova, così come il valore anche militare d’una guerra non professionale, voluta e condotta con larga partecipazione della 70 Le roi de Hollande ou la République détruite par ses Stadhoulders. Dernière partie de la fin des révolutions, s. 1, n. d., p. 22.

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popolazione71 . Ange Goudar si serviva dell’esempio repubblicano per saggiare, discutere e criticare la realtà politica e sociale della monarchia francese e degli altri stati europei. L’esperienza genovese, che egli conobbe direttamente, non gli fu certo inutile per scrivere il suo primo libro importante, Les intérêts de la France mal entendus, prima di lanciarsi sui sentieri della più spericolata pubblicistica internazionale72 . Nell’assieme, la conclusione era anche qui univoca. La Francia di Luigi XV si presentava ormai come la potenza che tendeva a conservare lo statu quo nella vita delle repubbliche dei Paesi Bassi e dell’Italia. All’interno appoggiava i reggenti e i notabili. In politica estera chiedeva soltanto la loro immobilità e neutralità. «Les nations frontières de la France» potevano rimanere tranquille. Non si era più ai tempi di Luigi XIV, quando il conflitto tra la monarchia e le repubbliche aveva assunto un indubbio valore ideologico. La Francia ora, «loin de vouloir troubler le repos des républiques, ni envahir leurs possessions, s’en déclare le ferme appuy»73 . Lo stato assoluto accettava la sopravvivenza delle repubbliche, e queste si riconoscevano immobili e neutrali. L’una e 71 A NGE G OUDAR, Histoire générale de la révolution de Gênes, contenant tout ce qui s’est passé dans cette République depuis la mort de Charles VI jusqu’à la levée du siège par les Allemans, ms. conservato al British Museum, Add. Mss. 17 395. 72 Su Ange Goudar, cfr. J OSEPH J. S PENGLER, Economie et population. Les doctrines françaises avant 1800. De Budé à Condorcet, Paris 1954, pp. 63 sgg.; L. S. G ORDON, Nekotorye ito-

gi izuˇcenija zaprešˇcennoj literatury epochi prosvešˇcenija (vtoraja polovina XVIII v.), in «Francuzskij ežegodnik», 1939, pp. 101 sgg. e F RANCIS L. M ARS, Ange Goudar, cet inconnu, estratto da «Casanova gleanings», n. 9, Nice 1966. 73 Suite de révolutions hollandoises ou le rétablissement des rois de Frize, s. 1. 1747, pp. 29-30.

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l’altra forma politica sembravano perdere di significato in quel momento di equilibrio che l’antico regime parve raggiungere alla metà del secolo, terminato ormai il ciclo di guerre e di conflitti inaugurato dal Re Sole. Equilibrio tutt’altro che facile e duraturo. Già i contemporanei (basta aprire il «Mercure historique et politique») si accorsero che la pace di Aquisgrana era stata preceduta, accompagnata e seguita da un’ondata di torbidi, ribellioni, congiure, certo dissimili di forma e d’importanza, ma che pur sembravano tutte dirette contro la politica fiscale e finanziaria degli stati d’allora, contro gli appaltatori delle imposte, contro i fermieri e i gabellieri, contro il debito pubblico. Da Palermo a Parigi, da Genova ad Amsterdam, non senza riflessi in Ispagna e a Berna, si allargò questa tipica crisi di dopo guerra, suscitata da problemi d’inflazione cosf come di ripartizione delle spese che il lungo conflitto aveva comportato. Gli stati, a metà del secolo, si dimostravano troppo deboli ed incerti per continuare e riprendere, dopo la guerra, il loro compito di riorganizzazione e di razionalizzazione. Enseñada in Spagna, Machault in Francia, Guglielmo IV nelle Province Unite sono l’espressione più tipica di questa situazione, e produssero tanto più scontento quanto più grave fu la loro incapacità di procedere spediti sulla via delle riforme. I governi assoluti finirono col rifugiarsi nell’immobilismo, raggiungendo così i patriziati delle antiche repubbliche, minacciati in Olanda come a Berna o a Genova, ma che erano riusciti, in varie forme, a restaurare e mantenere ancora una volta il loro potere. Ma l’immobilismo non faceva che rimandare i problemi. Ovunque le strutture privilegiate, i corpi costituiti, tutta l’intelaiatura dello stato d’Antico regime entrarono di nuovo in fase di assestamento e di movimento. In Francia ad esempio, dalla metà del secolo data la nuova ondata di rivendicazioni dei Parlamenti. Soltanto là dove lo stato assoluto riuscì ad imboccare la via delle trasforma-

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zioni, del dispotismo illuminato, come in Austria, questi movimenti vennero in qualche modo dominati. E a Parigi al conservatorismo del potere si andò rapidamente contrapponendo ormai, con l’Enciclopedia, una critica sempre più radicale e, un inizio d’interpretazione illuministica dell’irrequietezza dilagante e del sempre più diffuso scontento74 . Proprio in quegli anni, nel 1748, era apparso il gran libro di Montesquieu. Conteneva, anche sui problemi che ci hanno fin qui occupati, il bilancio d’una lunga esperienza. Con la sua superiore capacità di equilibrio Montesquieu offriva la formula della coesistenza ormai consacrata tra repubbliche e stati assoluti, mentre indicava lucidamente la direzione costituzionale verso la quale si sarebbe volta nel futuro la monarchia moderna, non senza dirci pure in che forma e con che contenuto sarebbe rinato il mito repubblicano. Non è certo questo il luogo e il momento per riaprire la discussione sul significato del pensiero di Montesquieu, tanto vivo ancor oggi da esser continuamente ripreso, studiato e reinterpretato da punti di vista e con metodi così diversi quanto quelli di Robert Shackleton e Louis Althusser75 . Vorrei solo far notare quanto la lettura dell’Esprit des lois alla luce dei contrasti e degli accordi tra monarchie e repubbliche dall’età di Luigi XIV al 1748 possa essere storicamente utile e illuminante. 74 P IETER G EYL, Revolutiedagen te Amsterdam (AugustusSeptember 1748). Prins Willem IV en de Doelistenbeweging, ’s-Gravenhage 1936; A NTONIO M ATILLA T ASCON, La ùnica contribuciòn y el catasto de La Enseñada, Madrid 1947; F URLO D IAZ, Filosofia e politica nel Settecento francese, Torino 1963; V ENTURI, Settecento riformatore cit., pp. 262 sgg. 75 R OBERT S HACKLETON, Montesquieu. A critical biography, Oxford 1961; L OUIS A LTHUSSER, Montesquieu. La politique et l’histoire, Paris 1959.

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Tutto, in quelle pagine, ci ripropone i problemi di quelle età. La dimensione territoriale delle repubbliche («il est de la nature d’une république qu’elle n’ait qu’un petit territoire»76 ), il problema delle repubbliche federate (e cioè dell’Olanda, della Svizzera e dell’Impero germanico, «qui sont regardées en Europe comme des républiques éternelles»77 ), lo spirito delle repubbliche che è la «paix et la modération», la loro rinuncia cioè all’espansione come prezzo pagato per il perpetuarsi della loro esistenza, i pericoli interni che minacciano sempre le città repubblicane isolate («si une république est petite, elle est détruite par une force étrangère. Si elle est grande, elle se détruit par un vice intérieur»78 ). Similmente Montesquieu osserva ed esamina la corruzione che sempre colpisce le repubbliche, come le città italiane mostrano tanto chiaramente agli occhi di tutti (on étoit libre avec les lois, on veut être libre contre elles... La république est une dépouille...»79 ), il pericolo continuo al quale sono sottoposte queste forme di governo di cadere nella più ristretta aristocrazia o, d’altra parte, di soggiacere ad una rivolta popolare, rischiando così di sottoporsi ad un capo. Quando si vien corrompendo il principio stesso della repubblica patrizia questa «ne subsiste qu’à l’égard des nobles et entr’eux seulement. Elle est dans le corps qui gouverne et l’état despotique est dans le corps qui est gouverné, ce qui fait les deux corps du monde les plus désunis»: che è rapido e fedele grafico, ad esempio, della Genova al momento della rivolta80 . E così potremmo continuare parlando del lusso, del commercio, delle leggi civili, ecc. Esprit des lois, libro VIII, cap. XVI. Ibid., libro IX, cap. I. 78 Ibid. 79 Esprit des lois, libro III, cap. III. 80 Ibid., libro VIII, cap. V. 76 77

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Eppure, malgrado una simile pessimistica diagnosi, Montesquieu afferma che il principio della repubblica è la virtù. Né vi ha dubbio per lui che questo principio è superiore e più alto di quello che regge e domina le monarchie. Al limite, la ragion d’essere delle repubbliche coincide anzi con la moralità stessa, con i «mœurs», con la capacità cioè di dettare a se stesso la propria legge e di eseguirla. Nell’Esprit des lois questo ideale repubblicano prende spesso i colori della Grecia e di Roma e in questa antica e fascinosa corazza affronta il mondo moderno, come una apparizione lontana e luminosa. Ma non dobbiamo lasciarci prendere dall’alone classico che circonda questa visione di Montesquieu. A ben guardare questa repubblica è in realtà del tutto moderna. Gli stati repubblicani del presente non sono degni di questo modello, lo hanno oscurato e reso irriconoscibile. Ma all’idea repubblicana essi hanno pur sempre il diritto di rifarsi. Anche nell’antichità le repubbliche non erano basate sulla democrazia universale e diretta, ma erano delle «républiques des notables», basate sulla capacità del popolo di scegliere e seguire i propri rappresentanti81 . Questo governo «a besoin, comme les monarques et même plus qu’eux, d’être conduit par un conseil ou sénat»82 . Sono insomma i corpi costituiti che contano, decidono e fanno sì che uno stato non ricada nel dispotismo, il quale minaccia tutte le forme di governo, tanto le monarchiche quanto le repubblicane. Anche nelle aristocrazie, dove cioè i governanti non sono più eletti come nella democrazia, quel che conta è l’organizzazione di questi corpi costituiti: «quand les familles régnantes observent les lois c’est une monarchie qui a plusieurs monarques et qui est très bonne par sa nature»83 . La vera corruzione e roA LTHUSSER, Montesquieu cit., p. 62. Esprit des lois, libro II, cap. II. 83 Esprit de lois, libro VIII, cap. V. 81 82

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vina ha inizio quando si intaccano le leggi costituzionali, quando ci si volge «à un état despotique qui a plusieurs despotes»84 . Che è precisamente quanto era accaduto nelle repubbliche italiane, dove il restringersi del potere ad un piccolissimo numero di famiglie e lo stabilirsi d’un diritto d’ereditarietà, così come il lusso, avevano spezzato la molla d’ogni repubblica, la virtù, facendo cadere il governo più o meno profondamente (più a Genova e meno a Venezia) nel baratro del dispotismo, nel regime cioè che spazza via i corpi costituiti e regna nel deserto d’ogni regola e legge. Ma la critica alle repubbliche, da parte di Montesquieu, è anche più grave e profonda. Ed è storica. L’equilibrio tra i consigli, i senati ed il popolo delle città antiche si era rotto da secoli. La democrazia classica era tramontata. Le repubbliche e le aristocrazie moderne, come l’Olanda e Venezia, avevano perso ogni loro significato perché le loro «monarchies» con «plusieurs monarques», costituivano in realtà un anacronismo Il tentativo di far vivere da soli i corpi costituiti, senza la direzione e protezione d’un monarca si era dimostrato sempre più difficile, rendendo questi stati vulnerabili alle offensive esterne così come al restringersi delle oligarchie e ai moti popolari. La virtù restava l’ideale politico per eccellenza. Ma il problema storico che le repubbliche moderne avevano posto era solubile soltanto all’interno delle monarchie, in quel compromesso sempre difficile ma pur fecondo, cioè tra le strutture nobiliari, cittadine, giudiziarie e il sovrano che caratterizzava gli stati moderni, sia che questo compromesso prendesse la forma francese o quella indubbiamente migliore che essa aveva assunto in Inghilterra. Nella prima i corpi costituiti diventavano corpi intermedi, nella seconda finivano coll’essere la base stessa della separazione e dell’equilibrio dei tre poteri. 84

Ibid.

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Una simile costituzione era viva e operante al di là della Manica, mentre era ormai impossibile a Venezia dove l’aristocrazia ereditaria aveva finito col soffocare ogni separazione e gioco tra le classi e i poteri. Il conflitto decisivo si era prodotto in Inghilterra un secolo per l’innanzi. «Ce fut un assez beau spectacle dans le siècle passé de voir les efforts impuissans des Anglois pour établir parmi eux la démocratie. Comme ceux qui avoient part aux affaires n’avaient point de vertu..., que l’esprit d’une faction n’étoit réprimé que par l’esprit d’une autre, le gouvernement changeoit sans cesse, le peuple étonné cherchoit la démocratie et ne la trouvoit nulle part. Enfin, après bien des mouvemens, des chocs et des secousses, il fallut se reposer dans le gouvernement même qu’on avoit proscrit»85 . A parte l’ironia, davvero illuministica, di voler attribuire il fallimento della rivoluzione puritana proprio alla mancanza di virtù, Montesquieu confermava così la sua convinzione che il dibattito tra repubblica e monarchia era stato in realtà deciso in Inghilterra, a metà del Seicento. Là dovremo anche noi rivolgere il nostro sguardo se vogliamo intendere il valore della tradizione repubblicana nell’età che andava preparando l’illuminismo. 85

Esprit de lois, libro III, cap. III.

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Capitolo secondo I repubblicani inglesi

A ripensarci meglio, il giudizio di Montesquieu che abbiamo ora citato sulla incapacità, l’impossibilità dell’Inghilterra a stabilire la democrazia, alla metà del XVII secolo, sulla inevitabile restaurazione del re «après bien des mouvemens, des chocs et des secousses» è meno negativo e sprezzante di quanto possa parere a prima vista. Certo la Gran Bretagna si era lasciata governare, anche allora, da uomini che «n’avoient point de vertu», così come alquanto ridicoli e scomposti erano stati i tentativi britannici per liberarsi della monarchia. Ma, trascorso un secolo dalla rivoluzione puritana; questo giudizio suonava ormai piuttosto come una fredda e staccata constatazione storica: l’Inghilterra era allora, già alla metà del XVII secolo, troppo moderna per rifarsi ai modelli dell’antichità, troppo vicina agli stati moderni per poter tornare alla repubblica. La conclusione di Montesquieu era quella di tutta la sua epoca, ed era ormai generalmente accettata da una parte e dall’altra della Manica un secolo dopo quegli avvenimenti86 . All’equilibrio conservatore che sul continente venne raggiunto a metà del Settecento tra le antiche repubbliche e gli stati monarchici corrispondeva, 86 Cfr. l’interessante lettera che l’abate Le Blanc scrisse a Montesquieu sui vantaggi delle monarchie rispetto alle repubbliche. J EAN -B ERNARD L E B LANC, Lettres d’un françois, La Haye 1745, vol II, pp 349 sgg. «Vous savez qu’on peut être libre sous un roi et esclave dans une république» (p. 352). «On conviendra du moins qu’il n’y a de pays où le peuple soit plus esclave que dans la république de Pologne» (p. 354). La repubblica era per lui un «fanatisme mal entendu» (p. 355).

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nelle isole britanniche, un compromesso, apparentemente più stabile ma non profondamente diverso, tra la monarchia, il parlamento, le città, le classi e i corpi costituiti. Posti a confronto con i grandi conflitti d’un secolo prima, i problemi che si agitavano a Londra e nelle province inglesi negli anni immediatamente successivi al 1748, sulla naturalizzazione degli ebrei, ad esempio, o sul debito pubblico, potevano davvero sembrare piccole increspature, su un gran mare tranquillo87 . Eppure questo compromesso, questa rinunzia, per dirla con Montesquieu, alla democrazia e alla virtù, non era stata né rapida né facile. L’idea repubblicana aveva continuato, anche in Gran Bretagna, a fermentare molto tempo dopo la restaurazione del 1660 e, ciò che più importa, aveva continuato a svilupparsi, a crescere e a modificarsi anche quando era stata posta ai margini della vita politica quotidiana. Quel tentativo che Montesquieu poteva giudicare addirittura ridicolo, aveva in realtà continuato a generare idee e speranze, a dar vita a gruppi ed organizzazioni, fino a diventare un elemento essenziale, fondamentale nella vita intellettuale e morale dell’Europa tutta intera, nel secolo nuovo. La ricerca storica di questi ultimi decenni è stata particolarmente sensibile al legame esistente tra la rivoluzione puritana e l’illuminismo: i libri di Zera S. Fink, di Caroline Robbins (con il commento che vi ha dedicato Christopher Hill), di Perez Zagorin, di J. G. A. Pocock, di Bernard Bailyn, di H. R. Trevor-Roper e di J. A. W. Gunn, per non citare che alcuni, ci hanno aperto largamente la strada88 . Il punto di arrivo d’una simi87 T HOMAS W. P ERRY, Public opinion, propaganda and politics in the eighteenth century England. A study of the jew bill of 1753, Cambridge (Mass.) 1967 e P . G. D ICKSON, The financial revolution in England, London 1967. 88 Z ERA S. F INK, The classical republicans. An essay in the recovery of a pattern of thought in seventeenth century England,

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le ricerca è stato ora indicato da uno dei libri da cui deve partire oggi chiunque discuta di simili problemi, dallo splendido piccolo libro cioè di J. H. Plumb, The origins of political stability. England 1675-172589 . Ogni pagina di questo saggio ci fa capire quanto sia stato inaspettato, difficile il raggiungimento della stabilità politica in Inghilterra al passaggio tra i due secoli e ci mette chiaramente di fronte alle forze che questo compromesso crearono così come a quelle che ad esso si opposero. Le considerazioni che seguono non voglion esser altro che una nota ideologica in calce alle considerazioni politiche e costituzionali di J. H. Plumb, un tentativo cioè di vedere, sul piano della storia delle idee, quel che si salvò della volontà di democrazia e di virtù attraverso ed oltre la raggiunta stabilità dell’Inghilterra di Walpole. Diciamo subito che quel che sopravvisse e rigermogliò della tradizione repubblicana è molto più importante e vitale, almeno dal punto di vista della storia dell’illuminismo, di quanto non si ammetta spesso in Inghilterra. Forse perché la storia della letteratura prevale talvolta su

Evanston 1945; C AROLINE R OBBINS, The eighteenth century commonwealthman. Studies in the transmission, development and circumstance of English liberal thought from the Restauation of Charles II until the war with the Thirteen Colonies, Cambridge (Mass.) 1959 (cfr. C HRISTOPHER H ILL, Republicanism after the Restauration, in «New left review», 1960, 3, pp. 46 sgg.); P EREZ Z AGORIN, A history of political thought in the English revolution, London 1954; J. G. A. P OCOCK, The ancient constitution and feudal law. English historical thought in the seventeenth century, Cambridge 1957; B ERNARD B AILYN, The ideological origins of the American revolution, Cambridge (Mass.) 1967; H. R. T REVOR -R OPER, Religion, the Rweformation and social ch’ange and other essays, London 1967 e J. A. W. G UNN, Politics and the public interest in the seventeenth century, London-Toronto 1969. 89 London 1967.

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quella delle idee, forse perché non è stato ancora rimosso completamente il glaciale monumento che Leslie Stephens eresse, quasi un secolo fa, al pensiero inglese del Settecento, forse per altre ragioni locali che mi sfuggono, certo si è che non è questo un campo verso il quale si diriga oggi un gran numero di dettagliate e minute ricerche. Vediamo uscire in Inghilterra, come e più che in altre terre d’America e d’Europa, una gran quantità di studi filologicamente ineccepibili sui più piccoli personaggi del mondo dell’Enciclopedia, sui più ignoti amici e collaboratori di Voltaire e di Diderot, su tutto il variopinto mondo delle lumières francesi (ed io sarò certo l’ultima persona a dispiacermene), mentre non esiste, a mia conoscenza, un saggio complessivo soddisfacente su quello straordinario personaggio che fu John Toland, né si possono leggere ricerche sufficientemente approfondite su Anthony Collins, su Matthew Tindal, ecc. Il deismo sembra interessare quando giunge a Bolingbroke, quando cioè cambia di significato politico90 . Probabilmente la migliore storia del deismo resta ancora quella di Gotthard Victor Lechler, uscita nel 184191 . Sembra davvero che la stabilità politica raggiunta dall’Inghilterra nel primo Settecento sia ancora così solida da mettere fuori giuoco a tutt’oggi coloro che la combatterono o vollero modificarla e che seppero trasmettere al nuovo secolo il messaggio della loro opposizione e della loro battaglia. Ma l’illuminismo europeo è inconcepibile senza quel messaggio. Malgrado tutti gli studi recenti che hanno tentato di ravvicinare la rivoluzione puritana ai contemporanei movimenti sul continente, in Catalogna, in Francia, a Napoli a metà del Seicento, e, malgrado i risultati 90 Si veda, ad esempio, J EFFRY H ART, Viscount Bolingbroke, tory humanist, London-Toronto 1965. 91 Geschichte des Englischen Deismus, Stuttgart-Tübingen 1841.

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positivi che questa più ampia visione ha indubbiamente portato, resta il fatto che la rivoluzione inglese non suscitò quell’ondata ideologica che accompagna altre e posteriori rivoluzioni europee92 . Le idee dei levellers furono certo conosciute, ma non suscitarono movimenti politici di qualche portata al di là della Manica. Le idee nate nell’Inghilterra della Commonwealth erano destinate a passare sul continente soltanto nella forma filosofica che diedero loro John Toland e Anthony Collins, quando si presentarono cioè come deismo, come panteismo, come libero pensiero, come esaltazione della libertà inglese, magari come frammassoneria. Soltanto così le idee dei levellers e dei repubblicani classici dell’Inghilterra seicentesca divennero cosmopolite e poterono attecchire in Francia, in Germania, in Italia, agendo come un fermento potente su tutta l’Europa del nascente illuminismo. «La religion» e «le gouvernement», come diceva Diderot. I due termini erano per lui inscindibili. La polemica filosofica e quella politica non potevano né dovevano essere divise. Tra l’uno e l’altro di questi due poli stette anche il pensiero deistico inglese, la prima ideologia che dalla Gran Bretagna uscisse per dominare il continente. Il problema della repubblica può essere un buon filo conduttore nel labirinto delle ribellioni, restaurazioni, rivoluzioni accadute nell’isola britannica prima di raggiungere il continente. Qual sia l’importanza dei modelli antichi, così come dell’Olanda e di Venezia per i repubblicani classici, per Harrington e Neville, per Milton e per Sidney, è cosa ben nota. Ma quel che più ci interessa qui è vedere come i loro eredi e continuatori reagissero 92 R OGER B IGELOW M ERRIMAN, Six contemporaneous revolutions, Oxford 1938 e K OSSMANN, La Fronde cit.; J. H. E LLIOT The revolt of the Catalans, Cambridge 1963; R OSA RIO V ILLARI , La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Bari 1967.

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quando la speranza in un ritorno della repubblica si fece sempre più incerta e difficile, quando il compromesso di Guglielmo III venne sempre più solidamente radicandosi sul suolo inglese. Il periodo decisivo sta tra l’ultima decade del XVII secolo e i primi anni del XVIII, se vogliamo tra il 1689 e il 1715. Poniamoci cronologicamente a mezza strada e guardiamo l’Inghilterra dal continente, che mi pare la posizione giusta per inquadrare questi problemi. Nell’autunno del 1700 l’elettrice di Hannover, Sofia, che aveva ottime ragioni per interessarsi a queste cose, si chiedeva fin dove giungessero le tendenze repubblicane di coloro che avrebbero potuto essere ben presto i sudditi suoi e della sua famiglia. Il diplomatico Gorge Stepney le spiegava da Londra, l’11/21 settembre di quell’anno, che «le malheur que les Anglois ont essuyés du temps des rois Charles I et Jacques II» poteva far pensare, «surtout aux étrangers», che vi fosse al di là della Manica «un dégoût général contre la monarchie même et que notre penchant naturel pour des nouvautez nous pourroit entrainer aisement à tenter encore s’il y a moyen de former une république, sur un fondement si solide que l’ambition d’un seul homme ne soit capable de la renverser, comme fit Cromwell». Stepney cercava di rassicurare l’elettrice dicendole che, malgrado ogni esperienza, «le génie des Anglois... n’est nullement porté aux principes républicains... Le souvenir de l’an 1648 nous fait encore horreur». La repubblica avrebbe significato la guerra civile e gli inglesi sapevano cosa questo comportasse, né intendevano ricominciare. La situazione sociale dell’Inghilterra s’opponeva d’altra parte a una simile «république imaginaire». «Les seigneurs ne souffriront pas que le peuple leur soit égal, comme en Hollande et les communs ne se soumettront jamais à la tyrannie despotique des seigneurs, selon le modèle de Venise. Un mélange de ces deux éstats avec un capitaine général pour l’image visible du gouvernement est un pro-

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jet assez joli sur le papier, mais on le trouvera impossible lorsqu’on le voudroit mettre en pratique chez nous». Il problema costituzionale inglese è qui efficacemente illuminato dal confronto della monarchia inglese con i vari modelli repubblicani, olandesi e veneziani, ben presenti e vivi, come si vede, alla mente di Stepney, così come a quella di tanti altri uomini di quegli anni. Ma era pur necessario metterli tutti da parte per tornare alla realtà. Gli squires erano troppo potenti per accettare il dominio dei mercanti, come in Olanda. Una oligarchia veneziana era impossibile a Londra. Tuttavia erano queste delle virtualità presenti nell’opinione pubblica di quegli anni e v’era in Inghilterra chi ne discuteva appassionatamente, ritornando continuamente sul confronto tra monarchia e repubblica. «... Les esprits inquiets, dont notre pays est très fertile, s’amusent plus que jamais a feuilleter des livres dangereux qui traitent cette matière, scilicet Sydney, On government, Harrington’s Oceana, dont le dernier est fameux pour avoir été écrit par un habile homme du temps de la rébellion, et pour être publié d’une belle impression depuis par un libertin nommé Tolan, comme si la conjoncture présente favorisoit des sentiments semblables...», come aggiungeva ancora George Stepney93 . L’agitazione degli «esprits inquiets» era stata effettivamente notevole negli anni immediatamente precedenti, e varrebbe la pena di seguirla minutamente. Allora il club cominciò a prendere sempre maggior importanza nella 93 Correspondence de Leibniz avec l’éléctrice Sophie de Brunswick-Lunebourg, a cura di Onno Klopp, Hannover s. d., vol. II, p. 209. Tolan citato in questa lettera è naturalmente John Toland, che questo apprezzamento ci ha lasciato dell’elettrice Sofia Carlotta: «L’idée qu’elle a du gouvernement en général est si équitable qu’on l’appelle, dans toute l’Allemagne, la reine républiquaine», J OHN T OLAND, Relation des cours de Prusse et de Hannover, La Haye 1706, p. 57.

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vita del paese, accanto al salotto e alla taverna94 . Allora la discussione sui principi primi del governo e della religione di nuovo si diffuse largamente anche al di fuori di Londra. Ecco, per fare un esempio, quel che Humphrey Prideaux, il ben noto erudito, scriveva a John Ellis da Norwich, l’11 dicembre 1693: «I find the Republicarians in these parts openly sedulous to promote atheisme, to which end they spread themselves in coffy houses and talk violently for it»95 . Nel 1697 un. Senior Fellow del Trinity College di Dublino diceva che queste «persons of miscellaneous education... are secretly forming themselves into clubs and caballs, and have their emissaires into all parts, which are supported by contributions, and I make little doubt but that their design is at lenghth to show us that all dominion as well as religion is founded on reason»96 . Nel decennio che precedette il nuovo secolo, furono pubblicati o scritti molti dei testi fondamentali che tendevano a far confluire la tradizione repubblicana in un pensiero religioso radicale. Nel 1694 apparve An account of Denmark di Robert Molesworth. Nel 1696 Christianity not mysterious di Toland. Allora Walter Moyle gettò le basi del suo Essay upon the constitution of the Roman government. Allora vediamo farsi avanti Shaftesbury e John Trenchard, Mattew Tindal e Anthony Collins. È un gruppo di uomini in continuo movimento, attivissimi nelle lotte politiche di quei giorni, dal problema dell’esercito stanziale alla successione protestante, che in queste lotte portano una forte carica 94 R OBERT J. A LLEN, The clubs of Augustan London, Cambridge 1933, p. 33. 95 Letters of Humphrey Prideaux sometime dean of Norwich to John Ellis sometime under-secretary of State. 1674-1722, a cura di Edward Maunde Thompson, London 1875, p. 162. 96 P ETER B ROWNE, A letter in answer to a book entitled Christianity not mysterious, Dublin 1697, p. 209.

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di pensiero e di passione, continuamente rifacendosi ai problemi generali, alla religione e alla libertà. Sarà certo interessante un giorno poter seguire le loro mosse, i loro rapporti, le loro polemiche più da vicino di quanto ancora non ci sia stato narrato fino ad oggi. Ma quel che importa di constatare fin d’ora è che essi si presentano come filosofi e non soltanto come uomini della politica e della diplomazia. Uniscono, mescolano, magari in forma violenta e improvvisata, i problemi che hanno ereditato da Spinoza, da Locke e da Newton con quelli che si vanno dibattendo allora nel parlamento e nella politica estera dell’Inghilterra e dell’Europa. Proprio per questo sono difficili da definire: «high» e «low whigs», «old» «new whigs», «real whigs», «republican fringe of the whigs», «deists», «free thinkers», tutti termini che dicono solo una parte della storia. Meglio forse vederli, magari rischiando di forzare un po’ le tinte, come un primo gruppo di intellettuali e filosofi illuministi alle prese con i problemi politici della loro età97 . Osservato da questo punto di vista, John Toland è certo il più significativo e il più caratteristico fra di loro, capace come fu di intuizioni geniali sulla storia delle religioni ed insieme il più attivo dei riassertori della tradizione repubblicana inglese, l’uomo che ebbe maggiori e 97 Oltre alle opere, fondamentali, già citate in nota, cfr. soprattutto F. H. H EINEMANN, John Toland and the age of Enlightenment, in «Review of English studies»,1944, n. 78; ID., Toland and Leibniz, in «The philosophical review», 1945; H O WARD W ILLLIAM T ROYER , Ned Ward of Grubstreet. A study of sub-literary London in the eighteenth century, Cambridge (Mass.) 1946; P AOLO C ASINI, L’universo macchina. Origini della filosofia newtoniana, Bari 1969 e Two English republican tracts. Plato redivivus or a dialogue concerning government, by Henry Neville. An essay upon the constitution of the Roman government, by Walter Moyle, a cura di Caroline Robbins, Cambridge 1969.

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più fruttiferi rapporti con il continente e che insieme non rinunciò mai a prendere parte attiva alla diplomazia e alla politica dei primi anni del Settecento in Inghilterra. Di qualche importanza è la sua partecipazione alle lotte attorno alla successione protestante; nel medesimo tempo egli elaborò una forma di spinozismo materialistico che non a caso doveva un giorno interessare Diderot, d’Holbach e Naigeon. Quanto al pensiero politico di questo gruppo, sarebbe errato cercar di dividerlo in più o meno democratico, in più o meno aristocratico. In realtà le loro riflessioni e le loro lotte sono interessanti perché ci mostrano tutta intera la tradizione repubblicana, inglese e continentale, messa a confronto con nuovi problemi e che a poco a poco si trasforma in una nuova visione della libertà politica. In Molesworth ritroviamo la tradizione gotica e celtica, l’opposizione nobiliare, la convinzione che la libertà è antica e il dispotismo nuovo in tutta Europa. Sarà lui a ripubblicare la Franco-Gallia di Francis Hotman, ad affermare che «all Europe was in a manner a free country till very lately» e a studiare, con grande energia e intelligenza, le circostanze che avevano portato i danesi a perdere, attorno al 1660, la loro libertà cadendo nel peggiore dispotismo98 . Quanto all’Italia, anch’egli è colpito dalla sopravvivenza delle forme arcaiche repubblicane. Non guarda più, come Harrington, ad esse come ad un modello, come ad una speranza, ma non dispera tuttavia che un nuovo soffio di libertà e la lotta contro la tradizione romana possano un giorno rendere la vita anche a quelle forme politiche. «Italy from seve98 An account of Denmark as it was in the year 1692, London 1694, Prefazione non paginata. Cfr. P AUL R IES, Robert Molesworth’s «Account of Denmark». A study in the art of political publishing and bookselling in England and the continent before 1700, in «Scandinavica», vol. 7, novembre 1968, n. 2.

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ral small commonwealths was at length swallowed up by the emperors, popes, kings of Spain, dukes of Florence and other lesser tyrants. Yet it is to be remark’d that the ancient state of Europe is best preserved in Italy even to this day, notwithstanding the encroachments which have been made on the peoplÈs liberties, of which one reason may be that the republicks, which are more in number and quality in that spot of ground than in all Europe besides, keep their ecclesiasticks within their due bounds and make use of that natural wit which Providence and a happy climate has given them, to curb those who, if they had power, would curb all the world»99 . Ma, al di là di queste lontane speranze, Molesworth si occupa soprattutto delle opposizioni interne, da parte dei corpi costituiti, contro lo stato accentrato e monarchico. Sembra l’eco inglese delle lotte che, proprio in quegli anni, si andarono sviluppando in Francia contro il Re Sole attorno a uomini come Boulainvilliers, Vauban, Boisguilbert. Ma un simile confronto ci permette di misurare la differenza della situazione al di qua e al di là della Manica. A Londra la tradizione repubblicana e l’incipiente deismo modificano notevolmente questa opposizione nobiliare: l’odio contro il despotismo ha in Molesworth una violenza, il suo amore per la libertà una energia che non ritroviamo al di qua della Manica. Già egli intravede la via d’uscita dalle contraddizioni politiche della sua età nella filosofia, nell’educazione, nella lotta contro i privilegi, colorando. così d’un nascente atteggiamento illuminista le sue polemiche politiche. Parlando della sorte della libertà in Europa, Molesworth conclude: «Had these countries, whilst they were free, committed the government of their youth to philosophers instead of priests, they had in all probability preserv’d themsel99

An account of Denmark cit., Prefazione.

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ves from the yoke of bondage»100 . Anche agli occhi dei suoi contemporanei la polemica di Molesworth si colora di tinte repubblicane, cosa che, ben inteso, non accadeva affatto in Francia. Secondo uno dei suoi contraddittori, nel 1694, egli non era soltanto un esempio impressionante della «depravation of human nature», né aveva soltanto aperta «a school of atheism», esaltando «the venerable name of philosopher above that of priest». Il suo era un «anti-monarchical project» che ricordava, per l’estremismo, per la passione con cui egli combatteva «tyranny and arbitrary power... the logick of the saints... to uplift the good cause in the days of regeneration». Molesworth, concludeva questo suo avversario, altro non era che un «republican brother», come dimostrava pure la sua volontà «to amuse the moltitude with much talk about a contract between king and people and drawing wild inferences from it»101 . Walter Moyle e John Toland furono coloro che più fecero per ridare forza e vigore ad un’interpretazione repubblicana dell’antichità, rifacendos all’umanesimo civico dell’Italia rinascimentale e a Machiavelli, cercando di mettere dalla parte propria il maggior numero possibile di scrittori latini, sforzandosi soprattutto di salvare Livio dall’accusa di superstizione e di compiacenza per Augusto. Ripresero e trasmisero al secolo XVIII una lunga tradizione che, nel Seicento, era culminata in Harrington. Ripresentarono così una antichità di colori repubblicani di fronte al pubblico inglese d’una età che ancor oggi noi chiamiamo Augustea – a riprova della sconfitta storica che uomini come Moyle o Toland dovettero alloAn account of Denmark cit., Prefazione. The common-wealth-man unmasqu’d, or a just rebuke to the author of the Account of Denmark, London 1694, pp. 2-3, 19-12, 75, 100. 100

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ra subire, e che sembra ancora pesantemente gravare su di loro102 . Eppure quel che essi scrissero allora appassionò notevolmente i loro contemporanei. Perché il «popular government» dell’antica Roma era caduto? Non si era avuto l’energia, diceva Moyle, di ritornare alle formule originarie del governo, «by restoring the ancient virtue and discipline», secondo le formule e le idee di Cicerone e di Machiavelli103 . Una «mistaken liberty» aveva permesso delle eccezioni alla costituzione. Meglio sarebbe stata una aperta e franca dittatura, piuttosto che simili compromessi. «Nothing can be more certain than that no constitution can subsist where the whole frame of the laws may be shaken or suspended by the sudden temporary counsels of a multitude and where the laws are governed by the people, instead of the people being governed by the laws». Né un condominio tra il popolo e il senato avrebbe potuto risolvere il problema, «the power being equally pernicious in whatever hands it was placed»104 . Il vigore della legge era stato così pericolosamente diminuito. Una simile involuzione era stata resa possibile da alcuni difetti della costituzione romana, dalla cattiva organizzazione del tribunato e della censura, così come di quelle istituzioni che pure furono «of admirable use in maintaining the morals and the virtue of the people»105 . Quando il processo di decadenza era ormai in atto, anche i grandi uomini, invece di difendere, come avevano fatto all’origine, «the great fences of their liberties», si erano gettati contro di esse, e, in ultima analisi, aveva102 Two English republican tracts cit. e J OHN T OLAND, Adeisidaemon, sive Titus Livius a superstitione vindicatus, Hagae Comitis 1709. 103 Two English republican tracts cit., p. 253. 104 Ibid., p. 255. 105 Ibid. p. 258.

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no «destroyed the commonwealth»106 . Problemi tutti familiari, come si sarà visto, ai dibattiti sulla sorte delle repubbliche tra Sei e Settecento, dai rapporti tra Senato, nobili e popolo alla necessità di rafforzare una magistratura capace di regolare e di tenere assieme tutte le altre. Anche le riflessioni sul mondo antico di Moyle si coloravano così delle preoccupazioni politiche vive in quegli anni al di là e al di qua della Manica. Come diceva ancor molti anni più tardi Bertrand Barère, traduttore francese di questo saggio di Moyle, pubblicato a Parigi nell’anno X (1801), anche per questo Essai sur le gouvernement de Rome si poteva dire quel che d’Alembert aveva scritto delle Considérations sur les causes et de la grandeur des Romains et de leur décadence di Montesquieu «qu’on pouvait l’appeler l’histoire romaine à l’usage des philosophes et des hommes d’état». Aggiungeva, sarà forse curioso notarlo, che «c’est une chose digne de remarque que les Anglais, cette nation dont les Romains exterminèrent les ancêtres, sònt les premiers qui aient écrit des réflexions philosophiques et donné à l’Europe des notions profondes sur l’empire romain. C’est ainsi que les vaincus sont devenus les juges des vainqueurs». Moyle era stato tra i primi, seguito presto, diceva, da Gibbon, Ferguson, Edward Wortley Montagu, Hooke107 . Quanto a John Toland, fra tutti gli uomini di questa corrente, egli è quello che più si avvicina al tipo del filosofo già illuminista, di cultura enciclopedica, dalla vita libera, attiva e scanzonata, apparentemente dispersa e 106 Two English republican tracts cit., p. 259. Nell’edizione originale: The works of Walter Moyle Esq., none of which were ever before publish’d, London 1726, le pagine ora citate si trovano nel vol. I, pp. 133, 135, 137, 145, 147 e 148. 107 Essai sur le gouvernement de Rome. Par Walter Moyle, traduit de l’Anglais. Ouvrage utile pour les hommes d’état et aux philosophes, Paris an X-1801.

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contraddittoria, ma coerente in fondo con la propria vocazione, che è quella di vivere in mezzo alla gente per portarvi le proprie idee. In John Toland la tradizione repubblicana diventa modo di vita, indipendenza personale, entusiasmo filosofico. Egli è il più povero di tutti. Vive facendo lo scrittore e magari distribuendo manoscritti eterodossi, organizzando biblioteche e corrispondenze letterarie108 . È anche il più cosmopolita e il. più deciso a non farsi rinchiudere mai nel mondo dei puri eruditi, creature, diceva, che «I judge as useless and contemptible as the worms that help ’em to consume their papers». È sempre pronto a riaffermare che la sua è una ispirazione di filosofo e di politico, che i suoi studi sono tutti indirizzati «to render me fit for business and society, especially the service of god and my country». Così, scriveva nel 1696, presentando la sua traduzione dall’italiano del discorso sulla moneta di Bernardo Davanzati, da lui posto accanto al suo maestro Locke109 . In questo stesso anno Toland dimostrò cosa intendeva per servizio di dio e del suo paese pubblicando il suo Christianity not mysterious110 . Il titolo sembrava fatto apposta per trarre in inganno il lettore. Cristianesimo vi significava ciò che ben presto venne conosciuto sotto il nome di deismo. La religione originaria e primitiva era senza misteri. Tali non erano tuttavia il paganesimo e l’ebraismo. Quanto al cristianesimo, storicamente inteso, il problema che veBritish Museum, Add. Mss. 4295, soprattutto ff. 40 sgg. A discourse upon coins, by signor Bernardo Davanzati, a gentleman of Florence, being publickly spoken in the Academy there anno 1588, translated out of the Italian by John Toland, London 1696, The translator to his friend, March the Ist, 1695/6, p. v. 110 Christianity not mysterious, or a Treatise shewing that there is nothing in the Gospel contrary to reason nor above it and that no christian doctrine can be properly call’d a mystery, London 1696. 108 109

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ramente interessava Toland era capire come e perché «it became mysterious» attraverso quale processo cioè esso finisse coll’assimilarsi a tutte le altre religioni della terra, cedendo alle paure e all’inganno di chi aveva interesse a nascondere la verità e a trasformarla in mistero111 . Solo la ragione non ammetteva mistero di sorta. «The knowledge of finite creatures is gradually progressive»112 . Le forme ignote che circondavano l’uomo erano semplicemente dominio d’una conoscenza non ancora raggiunta. Ogni timore ed ossequio di fronte a ciò che gli uomini ignoravano ancora era puna e semplice superstizione e pregiudizio. Come si vede, il germe illuministico delle idee di Toland era vigoroso. Permetteva di capire la storia delle religioni dall’interno, non più soltanto come costruzione di un potere ecclesiastico, ma come sviluppo di misteri e di dogmi. Non a caso Toland aprì nuove strade nella comprensione storica delle origini cristiane, a proposito degli esseni ad esempio, o del rapporto fra le religioni antiche, mussulmana e cristiana113 . Il suo libro, che avrebbe in realtà potuto esser chiamato: «how Christianity became mysterious», conteneva pure una energica affermazione politica, che portava sul piano filosofico e religioso la volontà democratica apparsa nella rivoluzione puritana. Parlando dei misteri finiva col concludere: «What can seem more strange and wonderful than that Ibid., p. 168. Ibid., p. 75. 113 Sui problemi generali, L UIGI S ALVATORELLI, From Locke lo Reitzenstein. The historical investigation of the origins of Christianity, in «The Harvard theological review», 1929, pp. 263 sgg. ed il commento di F AUSTO P ARENTE, Il contributo di Luigi Salvatorelli alla storia d’Israele e del cristianesimo antico, in «Rivista storica italiana», 1956, III, pp. 479 sgg. Sull’eco settecentesca delle idee di Toland sulle origini del cristianesimo, cfr. F. V ENTURI, Saggi sull’Europa illuminista. I. Alberto Radicati di Passerano, Torino 1934, pp. 236 sgg. 111 112

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the common people will sooner believe what is unintelligible, incomprehensible and, above their reasons than what is easy, plain and suited to their capacities? But the vulgar are more oblig’d to Christ, who had a better opinion of them than these men, for he preach’d his Gospel to them in a special manner and they, on the other hand, heard him gladly, because, no doubt, they understood his instructions better than the mysterious lectures of their priests and scribes»114 . Come già notarono i contemporanei, tutto ciò poteva sembrare una ripresa delle correnti eretiche del passato, del socinianesimo ad esempio. Ma, in realtà, si trattava tuttavia di qualche cosa di nuovo, d’una razionale volontà di non ammetter nulla che fosse «contrary to reason or above it», d’un invito a guardare al «common people», d’una volontà di giungere, anche politicamente, ad una società razionalmente costituita. Il nuovo deismo vivrà in Inghilterra in mezzo alla gran folla delle sette e delle correnti religiose, cercando e trovando appoggio e conforto in alcune di esse, ma non si confonderà mai completamente con loro. Non avrà delle sette religiose la forma organizzativa, cercandone anzi delle nuove, come il Pantheisticon di Toland ci dimostra. Né si chiuderà in una corrente specifica, restando fermamente razionalistico ed illuministico in mezzo alle più diverse correnti religiose ereditate dal passato115 . Come Toland scriveva nel suo Clito. A poem on the force of eloCbristianity not mysterious cit., p. 147. Si veda, ad esempio, J. H AY C OLLIGAN, The arian mouvement in England, Manchester 1913 (p. 92, rapporti col deismo); E ARL M ORSE W ILBUR, A history of unitarianism. Socinianism and its antecedents, Cambridge (Mass.) 1947 p. 575, rapporti di Crellius con Matthiew Tindal; G. R. C RAGG, From puritanism to the age of reason. A study of changes in religious thought within the church of England. 1660 to 1700, Cambridge 1950 (pp. 136 sgg., John Toland and the rise of deism). 114

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quence, che tanto scandalo suscitò tra i contemporanei, la volontà del deismo era di Dispel those clouds that darken human sight And bless the world with everlasting light116

Poi, quasi d’un fiato, Toland passava alla politica: I’ill sing the triumph of the good old cause Restore the nation its perfect health The pow’r usurp’d destroy, and form a commonwealth117

Tra i tanto numerosi scritti suoi, intesi a questo duplice ed unico scopo, le più fortunate ed efficaci furono probabilmente le vite e riedizioni di Milton e di Harrington, che egli pubblicò nel 1698 e 1700. Parlando nel primo ne metteva particolarmente in luce la vita politica e sottolineava il fatto che in vecchiaia il poeta non faceva ormai più parte di nessuna delle organizzazioni religiose esistenti118 . Quanto alla sua edizione delle opere di Harrington, basta aprirla per trovarvi una perfetta rappresentazione grafica del suo pensiero119 . «Tolandus libertati sacravit. MDCC, commerciis, opificiis», e accanto a questa scritta si vedevano i ritratti di Bruto e di Guglielmo III, di Mosè e di Solone, di Confucio, di Licurgo e di Numa, unendo l’antichità classica ed il nuovo interesse per la storia delle religioni, il gesto libertario di Bruto, 116

Clito. A poem on the force of eloquence, London 1700, p.

6. Ibid., p. 11. The early lives of Milton. Edited with introduction and notes of Helen Darbishire, London 1934, pp. XXVIII sgg. 119 The Oceana of James Harrington and his other works, some whereof are now first publish’d from his own manuscripts. The whole collected methodiz’d and review’d, with the exact account of life prefix’d, by John Toland, London 1700. 117 118

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l’egualitarismo di Licurgo con il cosmopolitismo di Confucio, e, last but not least, la prosperità e la libertà britanniche del regno di Guglielmo III. Il libro era dedicato al Lord Mayor di Londra, «the largest, fairest, richer and most populous city in the world», la città nel cuore della quale stava quella Banca d’Inghilterra, costruita sul modello di organizzazione che Harrington aveva suggerito, la città che poteva essere chiamata la «new Rome in the west»120 . Attraverso Londra, Toland si rivolgeva al mondo intero col suo appello alla libertà. Ormai i repubblicani non erano più gli uomini di una setta o d’un complotto, ma predicavano apertamente, largamente a tutti le loro idee. «Who can be so notoriously stupid as to wonder that in a free government, and under a king that is both the restaurer and supporter of the liberty of Europe, I should do iustice to an author who far outdoes all that went before him in his exquisite knowledge of the politics?»121 . Con la libera propaganda, alla luce del sole, egli intendeva persuadere tutti che «Harrington Oceana is... the most perfect form of popular government that ever was»122 . Durante e dopo la guerra di successione spagnola la situazione dell’Europa divenne finalmente favorevole alla diffusione di queste idee anche al di fuori dell’Inghilterra. A ciò Toland si dedicò con notevole efficacia e successo. Sempre più stretti si fecero i suoi rapporti con l’Olanda. Al cuore dell’Austria, attrasse l’attenzione del principe Eugenio e quella dello strano diplomatico e uomo politico libero pensatore Giorgio Guglielmo barone di Hohendorf123 . I manoscritti, che Toland inviò loro The Oceana of James Harrington cit., p. 1. Ibid., p. VIII. 122 Ibid., p. IX. La dedica è datata del 3 novembre 1699. 123 M AX B RAUBACH, Geschichte und Abenteuer. Gestalten um den Prinzen Eugen, München 1950, pp. 126 sgg. e G IU 120

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sulle religioni giudaica e maomettana, su l’Origine et la force des préjugés, sul Christianisme judaique et mahométan, sono stati recentemente ritrovati ed esaminati da un giovane studioso italiano, Giuseppe Ricuperati, nella biblioteca nazionale di Vienna, assieme alle lettere che Toland stesso vi aggiunse, mandandoli ai suoi potenti lettori e patroni. Si tratta spesso di versioni particolarmente franche ed esplicite del suo pensiero filosofico e religioso. Contemporaneamente egli tentò di stabilire un rapporto non dissimile con la Germania, con l’elettrice Sofia e con Leibniz. Toland fu insomma uno degli scrittori che più si adoperò per dare un significato ideologico all’alleanza delle potenze marittime con l’Impero e con alcuni principi tedeschi contro la Francia di Luigi XIV. I primi risultati si possono constatare nei carteggi dei contemporanei in Germania. Leibniz avrebbe certo preferito che Toland si comportasse con «un peu plus de modération», ad esempio quando scriveva la sua vita di Milton. «Il a beaucoup d’esprit et même il ne manque pas d’érudition, mais ses sentiments vont trop loin»124 . L’elettrice Sofia continuava a guardare con simpatia mista a commiserazione a quest uomo, «qui hazarde tout et qui ne se soucie point du qu’en dira-t-on». Ma era pur costretta a constatare che la fama acquistatasi da Toland era tutt’altro che favorevole, tanto da rendere forse addirittura poco sicuro un suo ritorno in Inghilterra. «Celuy qui brusla le tempe d’Ephèse n’a pas eu tant de réputation»125 .

SEPPE R ICUPERATI , Libertinismo e deismo a Vienna: Spinoza, Toland e il «Triregno», in «Rivista storica italiana», 1967, III, pp. 623 sgg. 124 Correspondence de Leibniz avec l’éléctrice Sophie cit., vol. II, p. 333. 125 Ibid., p. 377.

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Leibniz trasse per conto suo delle conclusioni politiche scrivendo a Brunet, il 27 febbraio 1702: «Il me semble qu’à présent les Anglois qui s’imaginent d’y pouvoir établir une république sont estravagans. Tant que le pouvoir de la France, ou plustôt de la maison de Bourbon subsiste dans un estat si transcendent, c’est beaucoup si l’Angleterre se peut sauver d’un gouvernement despotique»126 . La guerra di successione spagnola rendeva infatti possibile la diffusione delle idee dei deisti inglesi, ma rendeva d’altra parte improbabile un ritorno alle idee repubblicane. Troppo grande era il pericolo della politica espansionistica di Luigi XIV. Indispensabile era uno stato monarchico anche in Inghilterra. Quello che si poteva chiedere era al massimo di conservare i risultati della rivoluzione del 16189. Ben dovette rendersene conto Toland quando tornò in Inghilterra e fu costretto a fronteggiare una violenta tempesta di critiche, di accuse, di minacce, da parte della chiesa e dello stato. L’accusadi essere «a great commonwealth-man» risuonava sempre più insistentemente ai suoi orecchi. Veniva contemporaneamente tacciato di eretico, ma ormai era proprio l’aspetto politico della controversia a prevalere, e ciò non era fatto davvero per dispiacergli. Pubblicando allora, nel 1702, uno dei vigorosi suoi pamphlets, intitolato Vindicius Liberius: or M. Toland’s defence of himself against the late Lower House of Convocation, and others, citava, nel frontispizio, una frase di Tillotson, quasi a lasciarsi ormai alle spalle le dispute religiose e a concentrare tutte le sue forze sulla sua difficile ma non infruttuosa lotta politica: «Being (I hope) releas’d from that irksome and unpleasant work of controversy and wrangling about religion, I shall now turn my toughts to something more agreable to my temper». Non nascondeva affatto le sue simpatie per la tradizione repubblicana. 126

Ibid., p. 333.

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Ma riprendendo formule e linguaggio miltoniano, finiva con l’ammettere che in Inghilterra non c’era altra soluzione se non quella che era risultata dalla rivoluzione del 1689, e che la monarchia di Guglielmo III corrispondeva effettivamente ad alcuni dei postulati fondamentali per cui sempre avevano combattuto gli uomini della repubblica. «I have always been, now am, and ever shall be persuaded that all sorts of magistrates are made for and by the people, and not the people for or by the magistrates; that the power of all governors is originally conferr’d by the society and limited to their safety, wealth and glory, which makes those governors accountable for their trust and consequently that it is lawfull to resist and punish tyrants of all kinds, be it a single person or greater nomber of men»127 . Ciò non significava che Toland fosse per la democrazia, la quale sempre rischiava di trasformarsi in anarchia. Il peso delle vicende della rivoluzione puritana era ancora gravoso sulle spalle sue e di coloro che all’inizio del secolo intendevano riprendere il cammino là dove essa si era arrestata. Disordini e dittatura, democrazia e Cromwell continuavano ad essere considerati elementi negativi. Toland dichiarava di non essers imai pronunziato per la democrazia, «wich I think to be the worst form of a commonwealth»128 . Eppure egli intendeva rifarsi a tutta l’eredità e tradizione repubblicana. Certo questa era divisa internamente in una tendenza democratica e in un’altra aristocratica. Certo aveva preso forme anarchiche ed oligarchiche. Ma secondari egli finiva col considerare i contrasti interni della tradizione repubblicana. Ciò che contava innanzi tutto era di contrapporla intera all’assolutismo, al dispotismo. La demo127 Vindiciu Liberius: or m. Toland’s defence of himself against the late Lower House of Convocation, and others, 1702, p. 126. 128 Vindicius Liberius cit., p. 128.

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crazia poteva ben essere «the worst form of a commonwealth», era pur sempre «a thousand times better than any sort of tyranny»129 . La repubblica, staccandosi così dalle forme che storiche che essa aveva preso nel passato, veniva trasformandosi sempre più in un ideale capace di vivere in una monarchia come quella inglese, del primo Settecento, così come di diffondersi sul continente, in un incitamento alla libertà oltre le contingenze storiche in cui si era incarnata al di qua e al di là della Manica, in un germe d’utopia illuminista. E potremmo aggiungere che, in qualche modo, il problema politico era parallelo a quello religioso. Meglio l’ateismo della superstizione, diceva Pierre Bayle. Quel che contava non era la distinzione tra deismo e ateismo, ma la lotta contro i pregiudizi, contro la superstizione. Politicamente, il problema più difficile era quello appunto del compromesso a cui questo ideale era costretto a scendere con la monarchia di Guglielmo III e poi della regina Aanna e di Giorgio I. Rappresentavano davvero questi sovrani la migliore delle repubbliche? Molti finirono col pensarlo, in Inghilterra e sul continente. Era destino dei commonwealthmen di diventare l’ala estrema d’una propaganda che tendeva a glorificare la libertà inglese, la forma mista – democratica, aristocratica e monarchica insieme – del governo britannico? Lo stesso Toland si spinse su questa strada, il più lontano possibile. Già un contemporaneo, Thomas Wentworth, un tory, scrivendo al fratello, il 18 agosto 1710, diceva che nel pamphlet The art of governing by parties, l’autore aveva avuto l’«impudence» di «calling this kingdom a commonwealth», ma che, a ben pensarci, la cosa era meno paradossale di quanto non paresse. «King, Lords and Commons, each a check upon the other, which is to be calcu129

Ibid.

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lated for the good of the whole, that may more properly be called a common wealth than a monarchy»130 . Le vicende della guerra di successione spagnola sembrarono dapprima favorire la confluenza della tradizione monarchica e di quella repubblicana – quasi che Guglielmo III avesse fornito quella formula che invano stavano cercando l’Olanda, Venezia e Genova. Ma le delusioni cominciarono presto. Bruto e Guglielmo III potevano restare assieme soltanto per qualche tempo. Difficilmente sarebbero rimasti uniti per sempre. I dissensi interni del gruppo dei commonwealthmen divennero sempre più profondi ed evidenti. Nel 1707 Molesworth scriveva a Shaftesbury per dirgli tutta la sua diffidenza per gli adepti «of the Kitcat and Junto», incapaci di una posizione coerente nelle loro idee politiche e che. avevano «changed their principles so often» da far pensare che ben poco «a free nation ought to rely upon them». Un sempre maggiore distacco dalle vicende quotidiane, una sempre maggiore indipendenza intellettuale erano necessari, indispensabili. «If a scheme could be made of layng the foundation of our future happiness on a set who have not yet bowed their knees to the Baals of either extreme ’t would be the best thing that could happen to Great Britain»131 . Shaftesbury poté ascoltare con attenzione questo appello di Molesworth, ma anch’egli era sempre più portato ad allontanarsi dalle vicende politiche, a ritrarsi in se stesso, nel mondo delle idee e della virtù. «Be it weakness or defect in me, it is my temper. My greatest desire is privacy and retirement», come aveva scritto il 130 The Wentworth papers. 1705-1739. Seleted from the private and family correspondence of Thomas Wentworth, Lord Raby, created in 171 earl of Strafford, with a memoir and notes by James J. Cartwright, London 18183, p. 136. 131 Public record Office, 30/24/20/137, lettera del 18 dicembre 1707.

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21 luglio 1701 a Toland, quando questi si trovava a Rotterdam. Shaftesbury sentiva acutamente tutto il pericolo della tumultuosa attività di Toland, intuiva che questo suo congiungere le idee e gli intrighi politici rischiava di rovinare le une e gli altri. Lo vedeva, sul continente, mescolato con «the men of greatest worth and whom the interest of Europe depends». Tanto maggiore era la sua responsabilità. Gli ricordava che «the fame and reputation in the protestant world and among the free people where you are known does in a great manner depend on your behaviour». Anche per ragioni politiche Toland e Shaftesbury finiranno per dividersi e per marciare su strade diverse negli anni immediatamente seguenti132 . Eppure proprio l’ambiente internazionale che Toland trovò in Olanda all’inizio del secolo poteva persuadere questi ed i suoi amici di quale fosse l’importanza di immettere le loro idee repubblicane nella cultura e soprattutto nella vita politica del loro tempo. In Olanda trovava l’eredità di Pierre Bayle, il quale per una ventina d’anni si era battuto per una prospettiva in qualche modo parallela alla sua. Anche il grande esiliato francese aveva rifiutato di tornare alle forme di resistenza e di rivolta, alle guerre di religione in Francia. Aveva polemizzato contro Jurieu e contro ogni fanatismo religioso-politico di. ispirazione calvinistica ed ugonotta. Aveva persino accettato di essere accusato di tradimento dai suoi confratelli esiliati pur di non sconfessare la sua fiducia in uno stato più moderno, quale era quello francese, superiore ai suoi occhi alle forme cittadine, corporative e repubblicane tradizionali. Il suo genio era stato speso nel tentativo di introdurre alla base stessa della politica e della cultura della Francia e del continente l’idea di tolleranza, volgendo le spalle ormai ad ogni revival religioso protestante. Po132 H EINEMANN, John Toland and the age of Enlightenment cit., p. 132.

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sizione difficile, che forse non è stata ancor sufficientemente intesa neppur oggi, pur in mezzo a tanto rinnovato interesse per la personalità di Bayle. Troppo si è cercato di strappargli dal cuore il segreto delle sue più intime convinzioni religiose – cosa sempre difficile da fare, e particolarmente ardua per un uomo della abilità e lucidità insieme d’un Bayle. Non si è visto, forse abbastanza invece che cosa significassero le idee che egli si faceva di Luigi XIV, dell’Inghilterra, di Ginevra, dell’Olanda. Apparirebbe sempre più chiaro allora come egli fosse convinto ormai che le guerre della fine del Seicento e del principio del Settecento non avrebbero riaperto il ciclo dei conflitti di religione. E la storia dovette dargli ragione: la revoca dell’editto di Nantes sarebbe rimasta. La monarchia di Luigi XIV non avrebbe riammesso i fuorusciti. L’Olanda e Ginevra, pur sopravvivendo, non avrebbero più guidato un revival religioso e politico. Sarebbe invece bastata la morte di Luigi XIV perché le idee di tolleranza e dell’illuminismo nascente trovassero, proprio in Francia, il loro centro e focolare133 . La partecipazione di Toland e di Shaftesbury a questo processo, ormai europeo dopo il 1715, è fondamentale. Combattevano contro il fanatismo religioso, tanto dei cattolici quanto dei montanari delle Cevenne, tanto dei teologi papisti quanto di quelli protestanti. Lo facevano con altrettanto vigore, se non sempre con altrettanta lucidità di quanto aveva fatto Bayle. L’arma dell’ironia e della passione politica divenne sempre più efficace nelle loro mani. Ma soprattutto essi potevano presentare un modello di società libera e potente insieme, di stato non tirannico eppur efficiente. Certo era molto difficile se non impossibile addirittura, esportare una monarchia Per le indicazioni bibliografiche, si veda G IUSEPPE R I Studi recenti su Bayle, in «Rivista storica italiana», 1968, II, pp. 365 sgg. 133

CUPERATI ,

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equiparata ad una repubblica, come avrebbe voluto fare Toland. Certo Bruto e Guglielmo III, anche sul continente, non avrebbero convissuto per molto tempo insieme. Ma quando questo paradosso dei commonwealthmen si venne sciogliendo, quel che rimase fu una volontà di libertà che traeva il suo alimento dalla tradizione repubblicana inglese, così come dalla constatata impossibilità, in tutta Europa, di disfare ormai l’opera delle monarchie. Largo fu l’interesse suscitato, un po’ ovunque, dalle idee che si erano maturate così in Gran Bretagna all’epoca della guerra di successione spagnola. Ed esse penetraono soprattutto attraverso il deismo, il panteismo, e magari la frammassoneria. Abbiam visto Toland a contatto con il principe Eugenio e con il barone Irlohendorf. A quest’ultimo Toland, nel 1712, non mandava più soltanto le sue ultime trouvailles riguardanti la storia del cristianesimo, ma la «formula sive liturgia philosophica», una prima versione cioè del suo Pantheisticon134 . Attraverso Vienna il pensiero di Toland ebbe parte di primo piano nel pensiero di Pietro Giannone, là emigrato dopo il 1723. Nel Triregno, e poi ancora in carcere a Torino, questi continuò a pensare al Nazarenus e a quel che Toland gli aveva suggerito su Tito Livio, la storia romana e sui rapporti tra la politica e la religione135 . Attraverso Giannone e gli altri giurisdizionalisti italiani, così come per altre vie indipendenti, il deismo e la cultura anglo-olandese del primo Settecento penetrarono profondamente nell’Italia meridionale all’epoca di Antonio Genovesi, di Raimondo di Sangro, alla metà del seco134 British Museum, Add. Mss. 4295, f. 19, copia di lettera di Toland a Hohendorf, del 7 marzo 1711/12, in latino. 135 S ERGIO B ERTELLI, Giannoniana. Autografi, manoscritti e documenti della fortuna di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1968.

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lo. E anche allora il nome di Toland fu tutt’altro che dimenticato136 . Per quel che riguarda la Germania, basta aprire i due grossi repertori di Trinius e di Urban Gottlob Thorschmid, il Freidenker-Lexikon e la Engelländische Freydenker Bibliotek per vedere che cosa abbiano significato i deisti inglesi per la cultura tedesca, dalle nuove scuole di cultura religiosa di Gottinga alla diffusione della Pantheisterey, più o meno colorata di spinozismo, dalla grande influenza di Shaftesbury al successo della nascente massoneria137 . Certo, come in tutta l’Aufklärung tedesca, la tentazione morale ed estetica rese meno attivo in quelle terre l’appello alla libertà politica che veniva dall’isola britannica. Ma anche questa, in tutti i suoi contrasti, è ancora una storia da scrivere. Evidente è comunque l’importanza che i commonwealthmen assunsero anche nella Germania del primo settecento. Quanto all’Olanda, fra traduzioni, riviste; passaggi e soggiorni di personaggi che giungevano dall’Inghilterra o dall’interno del continente, le Province Unite divennero, com’è noto, il centro stesso, l’emporio per la battaglia a favore della tolleranza, il luogo da cui si venne diffondendo la nuova ironia nemica del fanatismo, il centro della cultura filosofica scientifica postlockiana e postnewtoniana. In Francia troppo numerosi sono gli esempi della infiltrazione deistica e libero pensatrice dopo la morte del Re Sole perché si possa qui farne un quadro generale. Prendiamo un esempio solo. Nel 1722 il maresciallo d’Estrées, «grand d’Espagne, président du conseil de la marine», si dimostrava particolarmente curioso del Pantheisticon di Toland, e quando finalmente l’ebbe V ENTURI, Settecento riformatore cit., pp. 523 sgg. J OHANN A NTON T RINIUS, Freydenker-Lexicon, Leipzig-Bernburg 1759 (edizione fotostatica Torino 1960, all’indice) e U RBAN G OTTLOB T HORSCHMID, Vollständische Freydenker Bibliotek, Kassel 1766, vol. III, pp. I sgg. 136

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tra mano, ringraziò Desmaiseaux, tramite il suo bibliotecario Camusat, «d’un si beau présent», e volle sapere di più sulla vita e le opere di Toland138 . «M. le maréchal d’Estrée aime beaucoup à connoître les gens de lettres et surtout ceux qui ont pensé aussi singulièrement que le déiste anglois. Nous souhaitterions avoir un recueil de tous ses ouvrages...»139 . Ed aggiungeva qualche tempo dopo: «Les idées de M. Toland sont si extraordinaires que je crois qu’on ne sçauroit ramasser avec trop de soin tout ce qui est sorti de sa plume...»140 . Si tratta solo d’un esempio, pur vivace e curioso, della forza di penetrazione che le idee inglesi andavano dimostrando ben oltre la Manica. Gli esempi maggiori sono ben noti a tutti, da Voltaire a Montesquieu. E forse, per chiudere questo troppo rapido panorama dell’Europa che sta entrando nell’età dei lumi, mi sarà permesso ricordare il nobiluomo piemontese Alberto Radicati di Passerano, che del deismo inglese assorbì gli elementi più polemici e violenti, che sognò un mondo senza proprietà e autorità e che, nel medesimo tempo, si mostrò entusiasta del governo misto dell’isola britannica, da lui conosciuto de visu durante il suo difficile e agitato esilio a Londra. I più diversi elementi della tradizione dei commonwealthmen ritrovano in lui una curiosa e originale ristrutturazione, tanto più interessante da notare in quanto egli proveniva dal più assolutistico degli stati italiani, e da quello che più strettamente era legato, nella sua politica estera, all’Inghilterra. Né bisogna dimenticare che il figlio di Robert Molesworth fu rappresentante britannico alla corte di Torino, proprio negli anni in cui Radicati si preparava alla sua ribellione religiosa e politica e al suo esilio. 138

British Museum, Add. Mss. 4282, lettera del 17 marzo

1722. 139 140

Ibid., lettera del 12 giugno 1722. Ibid., lettera del 21 agosto 1722.

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Esempio dunque particolarmente significativo, in tutti i suoi aspetti, ideologici e politici, della penetrazione, al di là della Manica, delle idee che si erano andate formando tra Sei e Settecento in Inghilterra141 . Ma prima di volgerci del tutto verso il continente, riprendendo a seguirvi le fila delle idee repubblicane e settecentesche, un ultimo sguardo dobbiamo gettare ancora sulla scena londinese, proprio al momento decisivo, alla morte della regina Anna e all’inizio della nuova dinastia. Ci faremo guidare dalla curiosa prefazione apposta alla versione francese delle Remarks upon a late discourse on freethinking del celebre critico, archeologo e storico, Richard Bentley142 . Il traduttore francese, nel 1738, può ormai guardare a questi avvenimenti con un certo distacco, osservando con occhio storico l’atto di nascita del libero pensiero, la pubblicazione cioè del libro di Anthony Collins nel 1713. «Le parlement étoit assemblé. La capitale regorgeoit de monde. Les esprits étoient dans une fermentation terrible. Les whigs craignoient tout pour les libertés et pour la religion du royaume. Les tories ne négligeoient pas la moindre occasion de mettre le pied sur la gorge de leurs adversaires... Les Discours sur la liberté de penser venoit de paroitre dans cette conjoncture critique»143 . Lo scritto venne attribuito a Toland. «Le bruit en courut fort loin et dura longtemps dans les pays étrangers», come è testimoniato anche dagli Acta eruditorum di Lipsia144 . Anthony Collins venne poi riconosciuV ENTURI, Saggi sull’Europa illuminista cit. La friponnerie laique des prétendus esprits-forts d’Angleterre, ou remarques de Phileleuthère de Leipsick [e cioè Richard Bentley] sur le Discours de la liberté de penser, traduites de l’Anglois sur la septième editino par Mr. N.N.. [e cioè A. Boisbeleau de la Chapelle], Amsterdam 1738. 143 Ibid., Prefazione, pp. V-VI. 144 La friponnerie laique cit., Prefazione, p. VII. 141

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to come il vero autore. Una vera tempesta politica si scatenò contro di lui, tra la forzata prudenza dei whigs e le intenzioni provocatorie dei tories. Ne seguì tutta un’ampia polemica, che mise in movimento gli uomini politici così come i dotti, gli inglesi come gli olandesi ed i tedeschi. Alla fin fine Trinius poté contare almeno una sessantina di scritti diretti contro di lui e intesi a discutere le sue idee145 . Collins dovette in un primo momento abbandonare l’Inghilterra e passare all’Aia, sempre più legandosi con gli editori e scrittori là raccolti attorno a Leclerc, l’erede dell’opera e delle idee di Pierre Bayle e là collaborando alla traduzione francese dell’opera sua, Discours sur la liberté de penser. «Ce fut principalement par le moyen de cette traduction que la connoisance d’un ouvrage si pernicieux s’étendit jusqu’aux étrangers»146 . Come si vede tutti gli elementi del dramma erano ancora presenti all’ultimo atto: la stretta connessione fra la lotta politica e la nascita del libero pensiero, il nuovo legame che si venne stabilendo tra l’Inghilterra e il continente in questo passaggio dalla tradizione repubblicana alla nascita dell’illuminismo. Poi in Inghilterra si aprì l’epoca sella stabilità politica. Tradizionalmente essa porta ancora un nome che rivela le sue lontane origini. Anche il professor Plumb ha chiamato l’ultimo capitolo del suo libro The triumph of the Venetian oligarchy147 . Titolo rivelatore, ma che non può non lasciarci dubbiosi. Certo di Venezia si continuò a parlare in Inghilterra anche dopo il 1714, soprattutto in 145 T RINIUS, Freydenker-Lexikon cit., p. 479 sgg. (pp. 120 sgg. della ristampa), p. 592 (p. 148 della ristampa) e p. 775 (pp. 196 della ristampa). 146 La friponnerie laique cit., Prefazione, p. XXIX. 147 J. H. P LUMB, The origins of political stability cit., pp. 158 sgg.

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occasione della legge sulla Camera dei lords del 1719148 . Ma in realtà delle antiche repubbliche si discusse sempre meno, e il. mito di-Venezia andò tramontando col Settecento anche in Inghilterra. Che la classe dirigente dell’età di Walpole avesse davvero qualcosa in comune con l’oligarchia veneziana non poteva certo crederlo più nessuno. Il compromesso inglese era straordinariamente più aperto e libero, sia dal punto di vista della varietà e mobilità delle forze sociali che della libertà politica. Perché allora «Venetian oligarchy»? Il termine pare cominciasse ad essere impiegato da Disraeli, non senza un elemento di rimpianto e magari di snobismo149 . Era Harrington diventato ormai conservatore. Era un’ombra del passato che ancora s’allungava sull’Inghilterra del Settecento, rischiando tuttavia di oscurarne gli elementi più vigorosi e nuovi. Dal punto di vista della tradizione repubblicana, non è verso la fissità oligarchica di Venezia che dobbiamo volgere lo sguardo, ma verso l’acre fermento che i commonwealthmen, i deisti ed i liberi pensatori andavano ormai diffondendo in Olanda come in Germania, in Francia come in Italia. Non l’elemento aristocratico, ma quello libertario, lo si sarebbe visto ben presto, erano il seme più vivo dell’eredità repubblicana. 148 J OHN F. N AYLOR, The British aristocracy and the Peerage Bill of 1719, Oxford 1968. 149 F INK, The classical republicans cit., p. 183: «Disraeli, he who saw the Whigs as having created in the eighteenth century a ’Venetian oligarchy’, was himself strangely attracted by Venice. He liked to cherish the idea that he was descendent from Venetian ancestors, he wrote a novel, Contarini Fleming, with a hero supposed to be descended from one of the first Venetian houses, and it was in Venice, as one of his biographers has said, that he ‘received the vision of a maritim and trading empire bathed in romantic splendor’. It seems Iikely also that his ideas on the position of the queen were not uninfluenced by the example of the Venetian doge».

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Capitolo terzo Da Montesquieu alla Rivoluzione

A metà del Settecento le antiche repubbliche erano ormai non soltanto messe definitivamente al margine degli stati assolutistici, ma della storia stessa. Contavano sempre meno politicamente e, anche sul piano economico, quelli che erano stati i centri d’una vita fiorente di commerci e di manifatture erano entrati in una fase di irrimediabile decadenza, pur diversa di ritmo e di gravità a seconda che si trattasse dell’Olanda, di Genova, di Venezia, di Lucca. Sopravvivevano le arcaiche repubbliche, ma ritraendosi sempre più dai gangli vitali dell’organismo europeo, lontane dai punti d’incontro e di scontro delle forze militari e produttive. Vivevano talvolta, come Venezia, in un limbo di ricordi e di tradizioni, persuase della propria continuità e perpetuità, agendo sempre meno e sempre più abbandonandosi al senso della propria esistenza, al di fuori e al di là delle dure contingenze che portavano gli altri stati europei alla lotta e alle trasformazioni interne. Anche sul piano ideologico le idee repubblicane non sembravano più avere mordente politico, non costituendo più una alternativa alle idee e alla prassi d’un assolutismo che stava allora cominciando a prendere i colori del nascente dispotismo illuminato150 . Eppure anche le idee repubblicane sopravvivevano. Anche quando sembrarono inerti sul piano politico, tali non erano su quel150 «La république d’Angleterre se cache derrière le trone, la Hollande a besoin d’un statolder. Quoique le doge à Venise ne gouverne pas l’état on lui a donné le nom de prince», diceva Auge Goudar nel suo opuscolo Naples, ce qu’il faut faire pour rendre ce royaume fiorissant, Amsterdam 1771, p. II.

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lo del costume e della morale. Fuori della storia attiva ed immediata, fuori dei conflitti e delle battaglie, le idee repubblicane erano pur capaci ancora di suscitare una volontà di indipendenza e di virtù che gli stati monarchici, come autorevolmente spiegava Montesquieu nel 1748, non erano in grado di soddisfare. A metà del secolo la parola repubblica aveva ancora un’eco profonda nell’animo di molti, come forma di vita, anche se non come forza politica. Ci sarebbe tutta una inchiesta da fare sul significato della parola repubblica, attorno al 1750, tra libri e giornali, tra rievocazioni del passato e germi di rinascenti utopie. Ammirazione e caricatura si alternano nelle immagini del repubblicano solerte e fiero, solenne e libero. Certo la morale repubblicana esisteva quando le forme statali che l’avevano accompagnata sembravano ormai antiche e cadenti rovine. Sussiste un’amicizia repubblicana, un senso repubblicano del dovere, una fierezza repubblicana anche in un mondo ormai mutato, magari al cuore stesso d’uno stato monarchico, a corte, nel più profondo dell’animo di uomini che potevano sembrare completamente integrati nel mondo dell’assolutismo. Ed è proprio sotto l’aspetto etico che questa tradizione repubblicana fa appello agli scrittori dell’illuminismo, a Voltaire, a Diderot, a d’Alembert e, naturalmente, a Rousseau. Sul piano morale, non su quello politico, avviene la sua confluenza con la nuova visione della vita che stava formandosi a Parigi, a metà del Settecento, tra gli uomini che andavan creando l’Enciclopedia. La linfa proviene dalla Gran Bretagna. Lo scrittore che contribuì più d’ogni altro a trasmettere l’etica dei commonwealthmen è probabilmente Shaftesbury. Era stato uno dei primi a ritrarsi dalla lotta politica, a mettersi da parte e a trasporre insieme sul piano filosofico quegli ideali che facevano muovere i suoi amici Toland, Trenchard, Molesworth, ecc. Le sue Characteristicks avevano proprio questo valore. La sua polemica deistica contro

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ogni forma di religione rivelata, polemica meno acre certo, ma non meno energica di quella dei suoi amici, l’aveva portato ad osservare con curiosità, mista a disgusto, le forme tradizionali dell’entusiasmo religioso, del fanatismo A questo egli andò contrapponendo un entusiasmo nuovo e diverso, che chiamò sociale e che costituiva la spinta etica d’una società tutta mondana, tutta indirizzata a realizzare tra gli uomini la felicità. La sua amicizia è ben diversa da quella tradizionale, e vuol inserire nel contesto della società un rapporto naturale. Né la forma classica – in questo caso come in molti altri – né il ricordo di Cassio e di Bruto, di Epaminonda e di Pelopida, può nasconderci il contenuto diverso e nuovo di questa amicizia che sta al di là delle leggi e della religione, che affonda le sue radici in una realtà che gli stati, le ricchezze, le cerimonie non giungono a toccare. Altrettanto caratteristico è il patriottismo di Shaftesbury, anch’esso del tutto facoltativo e in qualche modo estraneo al cristiano, esplicitamente diverso dalla carità e che si contrappone pure al senso istintivo d’amore e di attaccamento per la propria terra, passione questa delle «narrow minds», «that of a mere fungus or common excrescence to its parent-mould, or nursing dunghill»151 . Cosmopolita, il nuovo patriottismo è inscindibilmente legato alla libertà, è inconcepibile o assurdo fuori di essa, e non può essere provato se non da coloro «who have really a country and are of the number of those who may be call’d a people, as enjoying the happiness of a real constitution and polity, by which they are free and independent». Ogni potere assoluto distruggeva e negava la base stessa del vero amore per la patria. «Absolute power an151 Miscellaneous reflections, Miscellany III, cap. I, §13. Ci siam serviti dell’edizione delle Characteristicks, s. l. 1745, vol. III, p. 131. Poco dopo, § 20, p. 135, polemizza contro i «patriots of the soil».

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nuls the publick, and where there is no publick, or constitution, there is in reality no mother country or nation... A multitude held together by force, tho under one and the same head, is not properly united, nor does such a body make a people. ’T is the social ligue, confederacy and mutual consent, founded in some common good or interest, which joins the members of a community and makes a people one»152 . Come si vede, la parola stessa di patriottismo traduce in termine di passione, di entusiasmo, di etica esattamente il senso di eguaglianza e di libertà di coloro che si consideravano il popolo, la nazione nelle antiche repubbliche. Non si tratta più qui di discutere in termini politici e costituzionali dove esattamente stava e fin dove si estendeva la sovranità, e neppure come essa doveva essere costituita, ma di sentire e di rivivere quel senso di indipendenza, di libertà e di eguaglianza che le repubbliche avevano creato. Il nuovo patriottismo è carico d’una secolare tradizione, ma si traduce ormai in termini che tutti gli uomini possono e debbono capire ed intendere, è universalmente umano, cosmopolita. A conclusioni simili ci porterebbe l’esame dell’idea che Shaftesbury si fa dell’eroismo, dell’identificazione completa ed immediata cioè dell’individuo con la comunità. Sempre più eroismo e filantropia tendono a coincidere. Nel pericolo, nella guerra, l’amicizia diventa sacrificio. Eppure basta poco, subito Shaftesbury soggiunge, per trasformare questo amico dell’umanità in un bigotto. Il liberatore può diventare di colpo l’oppressore e il distruttore. Il nuovo entusiasmo riconvertirsi nell’antico. Anche questo aveva insegnato la rivoluzione puritana agli uomini che s’affacciavano ormai al nuovo secolo153 . Shaftesbury diffondeva perciò le sue idee sul patriotIbid., §12, p. 129. Si veda soprattutto An essay of the freedom of wit and humour, in Characteristicks cit., vol. I, pp. 101 sgg. 152 153

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tismo, sull’amicizia, sull’eroismo accompagnandole con un elemento di ironia, di critica, di ragione. Sono altrettanti aspetti d’una visione che tende verso l’illuminismo nascente. Lo scrittore inglese stesso finisce col riassumere queste diverse forme in un unico entusiasmo per la virtù, le cui forme classiche e platoniche, anche in questo caso, non debbono nasconderci il moderno contenuto morale e politico. Quando, nel 1745, Diderot pubblicò i suoi Principes de la philosophie morale ou Essai de M. S.xxx [Shaftesbury] sur le mérite et la vertu egli riscoprì così il deista inglese semidimenticato sul continente, dopo la sua rapida fama all’inizio del secolo, e stabilì uno dei ponti più solidi e duraturi tra il libero pensiero britannico e l’enciclopedismo francese. Lo si vide già l’anno dopo, nel 1746, quando apparvero le sue Pensées philosophiques, per così dire scritte in margine alle pagine dell’autore britannico, vigoroso appello alle passioni per liberare l’uomo da tutto ciò che l’opprime. Aveva così inizio quell’eruzione di scritti suoi e dei suoi amici che doveva trovare, neppure un decennio più tardi, la sua conclusione nel Discours sur l’inégalité di Jean-Jacques Rousseau. Che un fermento repubblicano percorresse la Francia in quegli anni, fra il 1745 e il 1754, ce lo ha lasciato scritto nei suoi diari uno dei testimoni più lucidi e indipendenti di quella età, il marchese d’Argenson. Quell’inquietudine che serpeggiò ovunque nell’Europa alla fine della guerra di successione austriaca, e di cui già abbiamo parlato a proposito dell’insurrezione di Genova, non risparmiò davvero la Francia. Né produsse soltanto un riaprirsi e riacutizzarsi dei conflitti tra la monarchia e i corpi costituiti, in occasione, come è ben noto, dei tentativi di riforma fiscale di Machault d’Arnouville, ma prese pure la forma più vaga e penetrante insieme d’una rivolta, d’una ribellione che il marchese d’Argenson, quando tentò di descriverla e definirla, non poté far altro che chiamare

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repubblicana. Già nel dicembre del 1747 egli si chiedeva «que deviendra... la France pauvre et déserte?... Considérons que nos peuples sont aujourd’hui peu attachés à leurs princes...». Così una possibilità, una virtualità nuova sembrava schiudersi di fronte agli sguardi attoniti di chi osservava da vicino la società francese. «Quelqu’un osera-t-il proposer d’avancer quelques pas vers le gouvernernent républicain?» Rispondeva tuttavia ancora di no. «Je n’y vois aucune attitude dans les peuples: la noblesse, les seigneurs, les tribunaux accoutumés à la servitude n’y ont jamais tourné leurs pensées, et leur esprit en est fort éloigné; cependant ces idées viennent, et l’habitude chemine promptement chez les Français»154 . Cinque anni più tardi, nel giugno 1752, notava già quanto simili opinioni stessero evolvendo, «par le voisinage de l’Angleterre». «Le despotisme augmentera-t-il en France?» Rispondeva di no e si diceva ormai convinto che si stava andando verso la libertà, «et même le républicanisme». «J’ai vu de mes jours diminuer le respect et l’amour. du peuple pour la royauté». Luigi XV non aveva saputo essere né tiranno, né «bon chef de république». «Quant on ne prend ni l’un ni l’autre rôle, malheur à l’autorité royale!»155 . E nel settembre di quello stesso anno si diceva ormai persuaso, dopo il fallimento del tentativo riformatore di quel periodo, che «la mauvaise issue de notre gouvernement monarchique absolu achève de persuader en France, et par toute l’Europe, que c’est la plus mauvaise de toutes les espèces de gouvernement. Je n’entendes que philosophes dire, comme persuadés, que l’anarchie même lui est préférable...»156 . 154 Journal et mémoires du marquis d’Argenson, Paris 1868, vol. V, p. 142. 155 Ibid., vol. VII, p. 118. 156 Ibid., p. 294.

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D’Argenson conosceva bene il suo paese e l’Europa. Aveva tra l’altro tracciato un largo quadro dei diversi governi dell’intero continente nelle Considérations sur le gouvernement ancien et présent de la France, rimaste anch’esse, come i suoi diari, manoscritte, documento segreto d’un ripensamento che stava sempre più approfondendosi nella classe dirigente157 . D’Argenson nutriva una grande ammirazione per lo spirito pubblico che le repubbliche avevano saputo creare e mantenere, aveva constatato la loro superiorità nell’iniziativa economica, tanto dei privati che dello stato, stimava che le situazioni di auto-governo che facevano la loro fortuna avrebbero potuto e dovuto essere trapiantate anche sul suolo degli stati assolutisti, fino a creare in Francia una forma di democrazia monarchica. Il re avrebbe dovuto assumere il titolo che Cromwell aveva usurpato, quello di protettore del paese, trasformando lo stato in una sorta di repubblica protetta dal re. Come d’Argenson dirà nel discorso che inviò all’Accademia di Digione per concorrere a quel medesimo premio che Rousseau vinse col suo famoso discorso sull’eguaglianza, «les pays d’état et les corps municipaux sont dans la monarchie des espèces de républiques protégées...» I loro rapporti con il monarca avrebbero dovuto essere quelli sui quali si fondava ogni società ben costituita e cioè «la liberté et l’égalité». La libertà intellettuale era indispensabile ed anche più importante politicamente era l’eguaglianza. «Que les législateurs adoptent donc le principe de l’égalité et la terre changera de face»158 . Anche nel seno della monarchia francese s’andava così aprendo la discussione sulla necessaria trasformazione dei corpi intermedi in modo da renderli adatti ai nuovi compiti e a farli sempre più orCi siamo serviti dell’edizione di Yverdon, 1764. R OGER T ISSERAND, Les concurrents de J. J. Rousseau à l’Académie de Dijon pour le prix de 1754, Paris 1936, p. 133. 157 158

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ganicamente connessi con le strutture d’un grande stato. Ai progetti di d’Argenson facevano eco allora quelli di Victor Riqueti de Mirabeau e di parecchi altri. Il lontano ma seducente modello repubblicano cominciava ad orientare e modificare queste esigenze e idee. Ma quali erano le forze, a metà del secolo, che avrebbero potuto guidare il paese su una simile strada? Chi avrebbe capeggiato l’opinione pubblica che stava risvegliandosi? Se lo chiedeva anche d’Argenson. E due egli ne indicava: i Parlamenti e i filosofi. Gli uni e gli altri saranno infatti alla testa di tutti i movimenti nei prossimi decenni. I corpi costituiti e le nuove forze dell’intelligencija si disputeranno la guida dell’opposizione, dall’interno stesso della struttura monarchica i primi, opponendosi gli altri sempre più apertamente dal di fuori. Ancora una volta, i primi faranno appello all’antica costituzione del regno, ad una più o meno mitica costituzione legale, mentre gli altri cercheranno sempre più intensamente le loro giustificazioni nelle idee che l’illuminismo andrà contrapponendo al passato. Nel 1751 il primo volume dell’Enciclopedia conteneva già il manifesto di queste nuove idee politiche. L’articolo di Diderot: Autorité politique, non certo a caso, venne letto e sfruttato tanto dall’opposizione dei Parlamenti quanto dalla nuova opinione pubblica illuminata, che cominciava allora ad affacciarsi e ad affermarsi. Diderot vi faceva grandi concessioni alle formule della monarchia, ma finiva coll’affermare, seguendo evidentemente i modelli d’oltremanica, che «la couronne, le gouvernement, l’autorité publique sont des biens dont le corps de la nation est propriétaire, et dont les princes sont les usufruitiers, les ministres et les dépositaires... Partout la nation est en droit de maintenir, envers et contre tous le contrat qu’elle a fait; aucune puissance ne peut le changer et, quand il n’a plus

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lieu, elle rentre dans le droit et dans la pleine liberté d’en passer un nouveau avec qui et comme il lui plaît»159 . Pochi anni dopo, nel 1754, pubblicando il suo Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, Jean-Jacques Rousseau poneva un nuovo rapporto tra le nuove idee e la tradizione repubblicana. Sembrava aver ritrovato la patria perduta. Si volgeva verso quella Ginevra di cui era il figliol prodigo, riallacciandosi pubblicamente, ostentatamente alla sua lontana perfezione, subito prima di esporre le radicali conclusioni alle quali era giunto ormai il suo pensiero politico. Il suo «enthousiasme républicain» lo portava ad accettare non questo o quell’aspetto del passato della sua città ma tutta intera l’eredità, compresa quella aristocrazia patrizia, quei «magnifiques, très honorés et souverains seigneurs» che la governavano. Jean-Jacques si vuole «citoyen de Genève», ed anzi, aggiunge subito, «citoyen vertueux». Si dichiarava così della classe che non ha poteri politici, ma che non è per questo meno attaccata alla patria. Questa Ginevra non è il luogo in cui egli è nato, è una patria d’elezione, quasi fosse da lui prescelta: «Si j’avois eu à choisir le lieu de ma naissance...». Ciò che lo muove non è l’amore per la sua terra, ma l’entusiasmo per un «état où tous les particuliers se connoisent entre eux». «Cette douce habitude de se voir et de se connoître fait de l’amour de la patrie l’amour des citoyen plutôt que celui de la terre». Quel che egli cercava era un paese in cui società civile e governo si confondono e in cui governanti e governati facciano tutt’uno, in cui «le peuple et le souverain ne soient qu’une même personne». «Un gouvernernent démocratique, sagement tempéré» dunque, in cui domina la legge e non la volontà politica dei singoli 159 Encyclopédie, vol. I, 1751, p. 899. Cfr. F RANCO V ENTURI, Le origini dell’Enciclopedia, Torino 1963, pp. 136 sgg.

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governanti, in cui la tradizione è tutto e nulla l’arbitrio. In realtà repubblicani si nasceva, si era, non si diventava. «J’aurois donc cherché pour ma patrie une heureuse et tranquille république dont l’ancienneté se perdit en quelque sorte dans la nuit dés temps». Soltanto così una repubblica avrebbe potuto allontanare da sé ogni tentazione di espansione, di conquista, di modificazione all’esterno e di squilibrio all’interno fra il popolo e i magistrati, ogni contrasto tra «la vertu des magistrats» e «la sagesse du peuple»160 . Così, per pagine e pagine, continua quella che un contemporaneo ginevrino chiamò «l’inestimable épître» di Rousseau, e che era in realtà uno dei più curiosi e paradossali documenti della volontà d’inserire la tradizione repubblicana al cuore stesso del pensiero politico illuminista. Certo, era un incontro difficile. «L’ancien prémier syndic» Jean Du Pan gli fece subito, ufficialmente, notare: «Je crains que l’on ne trouve que vous nous flattez trop; vous nous représentez tels que nous devrions être et non pas tels que nous sommes»161 . Jean-Jacques finirà per considerare che cortese ma fredda era stata l’accoglienza a Ginevra di questo suo elogio, né mai più egli rivedrà una patria che aveva così voluto riscoprire all’apice del suo entusiasmo repubblicano. Come dirà un altro contemporaneo, J.-L.-S. Formey, Jean-Jacques 160 Discours sur l’origine et les fondamens de l’inégalité parmi les hommes, in Œuvres complètes publiées par Bernard Gagnebin e: Marcel Raymond, III, Du contrat social. Ecrits politiques, Paris 1964, pp. 111 sgg. 161 La definizione, di Jacques François De Luc, del 20 gennaio 1755, è citata nel commento di Jean Starobinski, Discours sur l’origine et les fondamens de l’inégalité parmi les hommes cit., p. 1286. La frase di Du Pan è ricordata a p. 1287.

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aveva rivolto lo sguardo a Ginevra guardando in realtà all’utopia162 Eppure, proprio in questo contrasto, in questa paradossale volontà di vedere la repubblica ideale dove stava in realtà la sopravvivenza, la permanenza, quasi fuori del tempo, dall’arcaica costituzione ginevrina, si trovava una delle sorgenti più vive del pensiero politico di Rousseau, come poi si vide nel Contrat social così come nelle Considérations sur le gouvernement de Pologne. Come egli aveva detto, era tutt’altro che facile, o forse addirittura impossibile, far ritorno a forme e sentimenti repubblicani in un paese che fosse stato piegato dall’assolutismo. In Francia ogni tentativo in questo senso non poteva che apparirgli disperato, anche se era proprio quello che stavano tentando di fare uomini come Diderot, alla metà del secolo. Era cioè possibile ad un popolo corrotto tornare alla virtù? Jean-Jacques rispondeva di no, e intanto presentava un modello e un ideale che faceva sperare di sì, mostrando un fossile ritrovato sotto lo strato degli assolutismi e che sembrava conservare ancora le impronte d’una società più giusta e più libera. Teoricamente, riacquistare la virtù era altrettanto impossibile quanto tornare allo stato di natura. In realtà, un esempio vicino, familiare, proprio ai margini della Francia, poteva convincere che l’ideale repubblicano non era scomparso, che la volontà politica dei monarchi e dei conquistatori non dominava sola la scena, che esisteva pur sempre un’alternativa, una diversa possibilità «Puisse durer toujours, pour le bonheur de ses citoyens et l’exemple des peuples, une république si sagement et si heureusement constituée!... Que l’équité, la modération, la plus respectueuse fermeté continuent de régler toutes vos démarches et de mon162

Ibid., p. 1288.

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trer en vous à tout l’univers l’exemple d’un peuple fier et modeste, aussi jaloux de sa gloire que de sa liberté»163 . Se vogliamo intendere il significato di questo appello e augurio di Jean-Jacques dobbiamo di nuovo rivolgere lo sguardo all’interno del gruppo dei philosophes, di quel manipolo di uomini liberi e uguali che d’Alembert andava con tanta meticolosità difendendo dalle minacce esterne dei grandi, dei mecenati, dei poteri sociali e politici, che Diderot andava animando dall’interno e che stava vivendo, attraverso la crisi del 1752 e la ripresa del gran dizionario, i giorni della sua più turbinosa e feconda primavera. Per penetrare in questo mondo seguiremo le tracce d’un giovane provinciale che giungeva a Parigi dalla natia Garonna con una raccomandazione del suo grande conterraneo Montesquieu, lasciandosi alle spalle una crisi religiosa che l’aveva portato dalla più intensa devozione ad una altrettanto appassionata volontà di aprirsi al pensiero dei lumi164 . Alexandre Deleyre arrivava così, ventiduenne, «dans cette ville composée à la fois de la lie et de l’élite de toutes les autres... où la foule même repousse l’inconnu dans une effrayante solitude... Le dégoût, l’ennui, la mélancolie attendent à Paris le provincial sans fortune»165 . La ripugnanza della metropoli, il timore e lo sdegno di fronte alla corruzione che lo circondava, gli fecero guardare al gruppo dei philosophes come alla città ideale, come all’unico mondo in cui era possibile vivere e respirare. Là egli incontrò Rousseau, «lorsqu’il travaillait à son discours sur l’o163 Discours sur l’origine et les fondamens de l’inégalité parmi les hommes cit., pp. 116-17. 164 F RANCO V ENTURI, Un enciclopediste: Alexandre Deleyre, in «Rivista storica italiana», 1965, IV, pp. 791 sgg. 165 A LEXANDRE D ELEYRE, Eloge de M. Roux, docteurrégent et professeur de chymie à la Faculté de Paris, Amsterdam 1777, pp. 12 sgg.

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rigine de l’inégalité parmi les hommes», là egli lo vide, «plongé dans la plus profonde tristesse, se détourner un moment vers son épinette, y préluder ou tâtonner quelques airs pathétiques, couvrir son instrument de larmes et le quitter, soulagé de l’abattement de son âme»166 . Fu Rousseau a fargli conoscere Diderot, e questi gli pubblicò sull’Enciclopedia due articoli che più caratteristici non potrebbero essere: Epingle, che fornì probabilmente a Adam Smith l’esempio più famoso della sua descrizione della divisione del lavoro, e Fanatisme, appassionato appello ai sentimenti contro la religione, ripresa dell’entusiasmo di Shaftesbury e Diderot contro ogni istituzionalizzazione della morale. «Toi qui veux le bien de tous les hommes... repands l’esprit de l’humanité sur la terre...» Al fanatismo religioso Deleyre contrapponeva «le fanatisme du patriote», alla virtù chiesastica quella civica. «On ne peut rien produire de grand sans ce zèle outré qui grossissant les objects, enfle aussi les espérances et met au jour des prodiges incroyables de valeur et de constance»167 . NeI 1755 usciva la sua interpretazione illuministica di Bacone, l’Analyse de la philosophie du chancelier Bacon. L’anno dopo, in un libro polemico, la Revue des feuilles de M. Fréron, difendeva intelligentemente le idee di Diderot e di Rousseau e proseguiva il loro dialogo sulla virtù e la società. Deleyre era così diventato rapidamente un elemento attivo e convinto del gruppo enciclopedista. Che cosa significasse questo per lui lo si vide quando il dialogo tra Diderot e Rousseau si tramutò in lotta e finì in una rottura. Come vivere ancora quando tutto sembrava crollare intorno a lui? Veniva a cadere quel 166 C ONVENTION N ATIONALE, Idées sur l’éducation nationale, par Alexandre Deleyre, député du département de la Gironde, p. 9. 167 Encyclopédie, vol. VI, p. 401.

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punto di contatto tra rivolta e progresso, tra violenza e persuasione che l’Enciclopedia gli aveva fornito. «Le sublime de l’amitié» si trasformava sotto i suoi occhi nell’aspra violenza delle accuse reciproche. Deleyre era così costretto a vivere un altra crisi religiosa, dopo quella della sua gioventù. Il 28 ottobre 1758 spiegava a JeanJacques come la loro comune rivolta contro il mondo che li circondava trovasse ormai alimento soprattutto nella delusione che ambedue avevano provato di fronte al gruppo dei philosophes, incapace ai loro occhi di impersonare l’ideale d’una società di liberi e di uguali; «Pourquoi déclamer encore contre les philosophes? Par la raison que j’ai déclamé quelques fois contre les dévots et les théologiens, n’est-ce-pas? C’est que vous avez été trompé comme moi. Voilà ce qui me tue, cher citoyen. Si vous ne trouvez pas des âmes droites et justes, qui peut se flatter d’en rencontrer?»168 . Non gli restava che l’esilio. Il suo pessimismo divenne sempre più profondo. Girovagò per l’Europa cercando, per una decina d’anni, una nuova strada. Riuscì ad esprimere questa sua ricerca non soltanto criticando il mondo con cui entrò in contatto, fosse esso l’Austria o l’Italia, non soltanto ammirando i modelli di rivolta che apparivano all’orizzonte, come quel Pasquale Paoli di cui parlò a Parma con Boswell, o partecipando anch’egli dell’angosciosa crisi che afferrò tutti gli intellettuali francesi negli ultimi anni del regno di Luigi XV, ma riuscendo ad esprimere questi suoi sentimenti e pensieri in una forma più efficacemente politica di molti suoi contemporanei169 . Già nel 1756 gli era parso che Diderot 168 J EAN -J ACQUES R OUSSEAU, Correspondance générale, a cura di T. Dufour, Paris 1925, vol. III, p. 294. 169 Per Pasquale Paoli, si veda Boswell on the Grand Tour, Jtaly, Corsica and France. 1763-1766, a cura di p. Brady e F. A. Pottle, London 1955, p. 48.

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aveva fatto troppe concessioni nel suo articolo sull’Autorité politique. «La fin de cet article – diceva – ne répond pas au commencement: il ne faut pas toucher à ce qu’on ne peut pas manier à son gré». Non poteva perdonare più a Diderot d’aver scritto «qu’on n’a, contre les rois ambitieux, injustes et violens que le parti de la soumission et de la prière», «Pour peu qu’une âme forte montre de faiblesse – concludeva – elle détruit son propre ouvrage»170 . Il che ci permette di misurare il rapido processo di radicalizzazione politica che stava producendosi tra alcuni almeno degli enciclopedisti. L’omaggio alla tradizione assolutistica che sembrava normale nel 1751 suscitava già scandalo nel 1756. Due anni dopo, nell’ottobre del 1758, Deleyre, ormai in esilio volontario, pubblicava nel «Journal encyclopédique» delle Pensées d’un républicain sur les mœurs de ce siècle, un vero manifesto in cui si riflettevano le conclusioni alle quali egli era ormai giunto171 . La sua protesta sociale era strettamente legata a quella morale. «Vous me montrez des palais, des statues, des arts analysés, des sciences perfectionnées, mais j’entends pousser des soupirs. Cent mille infortunés rejettent leur infortune sur cette vaine apparence de félicité: qu’est-ce donc que notre philosophie?». Aveva visto ormai il rovescio della medaglia. Sempre più il lusso gli ripugnava, non soltanto come un’ingiustizia, ma come una sempre più grave minaccia alla libertà. I ricchi avrebbero finito con lo schiacciare i poveri. «L’esclavage civil mène bientôt au politique». La rivolta contro i tiranni antichi e nuovi era più che legittima. I ricordi classici si affollavano alla sua memoria, da Porsenna a Bruto. Erano i re a portare i popoli alle guerre e ai disastri, Perché non avrebbero dovuto rispondere personalmen170 R OUSSEAU, Correspondance générale cit., vol, II, 1924, p. 287, lettera del 3 luglio 1756. 171 Ibid., pp. 86 sgg.

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te delle conseguenze? «Si jamais ma patrie étoit affligée, je ne dis point que j’eusse absolument le courage d’imiter le brave Mucius. Mais je trouverois bien grand qui l’oseroit faire». Sarà destino di Deleyre di colpire egli stesso, con le proprie mani, il monarca francese, né egli ebbe allora esitazione di sorta. Tra i voti della Convenzione che condannarono a morte Luigi XVI c’era anche il suo172 . «Les rois sont des être insociables et hors de la nature... Ecoutez les eux mêmes, il tiennent leur autorité de Dieu... Puisque les rois se croient d’une autre espèce, ne le regardez pas comme de la vôtre», dirà quel giorno. La lotta tra i re e i popoli non aveva nulla di giuridico né di formale. Essa restava per lui, come Diderot e Rousseau gli avevano insegnato, l’urto della natura onnipotente contro i meschini artifici degli uomini. «Quoi? Celui qui mésure les mondes et pèse les astres, qui dompte les vents et franchit les mers, qui règne en quelque sorte sur tous les éléments s’abaisse jusqu’à ramper aux pieds d’un être souvent le plus vil de son espèce!» Tutta la sua vita riaffiorava in questo discorso e in questa condanna. Persino le sue esperienze di giovane provinciale riapparivano: «Paris, ville d’or et de sang, quand seras-tu de briques?». Tra il 1758 e il 1793, tra le Pensées républicaines e la ghigliottina erano passati trentacinque anni. Varrebbe la pena di seguire passo passo Dèleyre lungo la sua strada solitaria. Sarebbe vedere come andassero accumulandosi i pensieri che trasformarono un philosophe in un giacobino. Ogni sua ritrosia e ribellione, ogni sua melanconia o rinunzia ci condurrebbe in un angolo riposto del mondo degli enciclopedisti e ci metterebbe a contatto con quei contrasti e quelle contraddizioni che ribollivano tra 172 C ONVENTION N ATIONALE, Opinion d’Alexandre Deleyre, deputé du département de la Gironde, sur la question du jugement de Louis XVI.

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Diderot e Rousseau, tra la Francia del Contrat social e l’Italia di Beccaria, e che finirono con lo sboccare nella rivoluzione. Deleyre, con la sua esasperata sensibilità e la sua cultura cosmopolita, è uno dei migliori testimoni di una trasformazione che pochi altri vissero altrettanto intensamente. Restò sempre profondamente convinto – e lo scrisse nel 1774 – che «la liberté naitra du sein de l’oppression»173 . La tirannia avrebbe finito col colpire e ferire non le idee soltanto degli intellettuali, ma qualcosa di più profondo e diffuso, i sentimenti cioè più elementari della gente. Quel giorno avrebbe segnato la sua condanna. Quando la virtù fosse stata toccata, quando l’assolutismo si fosse trovato di fronte ai risentimenti di coloro che si consideravano offesi, quando fosse nata la rivolta dei cuori, allora nulla avrebbe potuto salvare il despotismo, «car la vertu s’aigrit et s’indigne jusqu’à l’atrocité. Caton et Brutus étoient vertueux, ils n’eurent qu’à choisir qu’entre deux grand attentats, le suicide ou la mort de César»174 . Come si vede, Deleyre descriveva ottimamente il meccanismo psicologico che portò da Rousseau ai sanculotti175 . Tanto più che egli si rese perfettamente conto che l’idea stessa di virtù stava allora cambiando, sotto la spinta della vita economica. Non era più tempo dell’antica moderazione repubblicana, ma d’una nuova morale, nata dall’aspro desiderio di nuovi guadagni. «La frugalité que les républicains observent par vertu, les manufacturiers doivent la garder par avarice»176 . 173 Tableau de l’Europe pour servir de supplément à l’Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des européens dans les deux Indes, Maestricht 1774, p. 55. 174 Ibid., p. 40. 175 Cfr. l’opera fondamentale di A LBERT S OBOUL, Les sansculotte: parisiens en l’an II. Mouvement populaire et gouvernement révolutionnaire. 2 juin 1793-9 thérmidor an II, Paris 1958. 176 Tableau de l’Europe cit., p. 103.

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Proprio questa mescolanza di antica e di nuova morale, di costumi tradizionali e moderni andava producendo reazioni sempre più profonde e violente nell’animo di un numero sempre maggiore di persone. Quando la rivoluzione giunse, egli fu uno di coloro che con maggior pathos sentì quel che c’era di comune fra le idee dei filosofi e ciò che stava accadendo ormai attorno a lui. «La liberté vient de frapper aux portes des tombeaux... Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Diderot paroîssent... Les voilà ces jours de la régénération que vous aviez prédite et préparée, lumières de la France et du monde... Voyez ces milliers d’hommes, armés tous à la fois, comme dans un seul jour, pour défendre cette liberté qu’ils ont conquise par vous, sans même vous connoître... Soyez bénis de ce miracle unique dans l’histoire du monde...»177 . L’innesto della virtù repubblicana nella Francia assolutista era riuscito. Malgrado i dubbi iniziali, malgrado le negazioni di Rousseau. Come diceva la «Décade philosophique», quand’egli morì, nel 1797, Deleyre era stato effettivamente «républicain par sentiment et par principes», svolgendo e dando poco a poco una forma sempre più appassionata e politica a quelle idee che aveva sentito sulle labbra dei suoi maestri enciclopedisti178 . L’esempio di Deleyre. ci ha portato lontano, fino allo sbocco rivoluzionario di quei sentimenti, di quegli atteggiamenti che fermentavano a Parigi alla metà del secolo. Ma i rapporti tra i lumi e la tradizione repubblicana possono beninteso e debbono anzi esser considerati su un piano diverso, che non è quello della virtù perduta, offesa e riconquistata, ma quello delle forme costituzionali, del contatto e contrasto tra le idee dell’illuminismo 177 A LEXANDRE D ELEYRE, Essai sur la vie de M. Thomas, Paris 1791, pp. 289-90. 178 «Décade philosophique», 10 germinale anno v (30 marzo 1797), pagina 44.

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e le istituzioni repubblicane esistenti ancora nel secondo Settecento. Dobbiamo cioè tornare a Jean-Jacques Rousseau e al suo riavvicinamento dell’eguaglianza e della patrizia repubblica ginevrina, al suo intervento nelle lotte politiche tra i négatifs e i représentants, all’inizio degli anni ’60. È una storia ben nota, ed è stata recentemente riesaminata con grande competenza da Jean-Daniel Candaux, nella sua presentazione delle Lettres écrites de la montagne179 . Sul piano ideologico, il paradosso rousseauiano cominciò allora a portare i suoi frutti. Le idee di contratto, di eguaglianza, di democrazia trovarono nella tradizione repubblicana, nella realtà ginevrina, messe in movimento dai contrasti fra i patrizi e la borghesia, un primo elemento concreto, una prima sostanza politica. È utile leggere il Contrat social in chiave ginevrina, non, evidentemente, per identificare la visione politica di Rousseau con la realtà della città di Calvino, ma per vedere appunto come si venga stabilendo un rapporto sempre più stretto fra gli ideali e i fatti, tra le speranze e il movimento reale. Anche più interessante è, naturalmente, la lettura delle Lettre écrites de la montagne per osservare quale interpretazione e soluzione Jean-Jacques tentasse di dare alla lotta che si andava svolgendo all’interno di Ginevra. Questo conflitto seguiva sostanzialmente il modello che ben conosciamo e che è quello di tutte le repubbliche nel periodo che ora stiamo esaminando. Fin dal 1707, e nel 1734 e poi ancora all’inizio degli anni ’60, il monopolio politico dei patrizi viene rimesso in questione nel tentativo di ridare potere e vigore all’assieme dei cittadini, a coloro che hanno la bourgeoisie. L’urto tende a perpetuarsi, a prolungarsi senza soluzione e senza sbocco e provoca, all’esterno, l’intervento dei grandi sta179 R OUSSEAU, Œuvres complètes cit., pp. CLIX sgg. e pp. 1575 sgg.

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ti confinanti, e, all’interno, l’emergere delle rivendicazioni politiche del popolo, di coloro che non sono né patrizi né borghesi, degli habitants, dei natifs, come li si chiamava a Ginevra. I due estremi, i patrizi e il popolo, tendono a convergere contro la borghesia, ma è alleanza precaria, e non permette neppur essa di ritrovare un equilibrio, mentre tutti finiscono con l’aspirare ad un intervento dal di fuori. Il conflitto si allarga così, un’ondata dopo l’altra, all’interno della piccola repubblica, e non trova il suo limite, del resto non lontano, se non nella situazione internazionale in cui esso si inserisce. La storia di Ginevra di quegli anni è esemplare e rappresenta, per così dire, una delle esperienze più pure e perfette di questo fenomeno repubblicano del tardo Settecento. In primo luogo, l’intervento estero rimane, in tutte le fasi di questa lunga «guerre civile de Genève», come la chiamava Voltaire, particolarmente riguardoso e discreto – ben diverso da quello prussiano, francese o anche inglese in Olanda, e tanto più da quello russo, austriaco e prussiano in Polonia o, per finire, da quello napoleonico a Venezia, Genova, Lucca o Ragusa. Manca poi a Ginevra, quasi completamente, la tentazione di imboccare la via monarchica per risolvere i conflitti interni, di accettare cioè un dittatore, uno statoldo come in Olanda, o un arbitro regale come in Polonia. Né dobbiamo dimenticare, in terzo luogo, che nella città di Calvino viene rapidamente concentrandosi l’attenzione di tutti i pensatori più importanti di quell’età: basta ricordare, oltre a Rousseau, d’Alembert e Voltaire, i quali contribuiscono non poco a dare un senso universale a queste piccole e minute lotte. Esemplare soprattutto è Ginevra in un ulteriore e più amaro senso. Le antiche repubbliche, nel secondo Settecento, non sono riformabili. Nessuna riesce a ritrovare il meccanismo politico che impedisca il ripetersi e che istituzionalizzi in qualche modo i conflitti tra il patriziato, la borghesia e il popolo, conflitti che diventano

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cronici e che finiscono sempre col mettere in grave pericolo l’esistenza stessa della repubblica. Il compromesso raggiunto a Ginevra nel 1768, che parve dare ragione alla borghesia, la quale fece qualche concessione ai natifs, senza tuttavia scalzare il potere dei patrizi, fu seguito dalla reazione del 1782, da un sempre più intenso intervento delle monarchie confinanti e da una serie di conflitti che, com’è noto, finirono col coinvolgere anche Ginevra nel gran gorgo della rivoluzione francese. Era adombrare il destino dei Paesi Bassi e degli stati repubblicani italiani. Ciascuno a modo suo, ognuno d’essi si dimostrerà a turno incapace di risolvere i propri problemi interni, fino al giorno in cui anche loro si ritroveranno di fronte una repubblica di ben altre forme e di ben diverso aspetto, e da essa saranno travolti. Non pochi tra i cittadini delle antiche repubbliche si diedero allora, alla fine del secolo, a tradurre, a leggere e rileggere le opere di Jean-Jacques Rousseau, cercandovi una spiegazione degli avvenimenti che li avevano trascinati e sopraffatti. Né avevano torto. In quelle pagine stava un primo tentativo d’interpretare i contrasti interni di Ginevra, l’intera sua storia costituzionale, in una nuova e più ampia luce. Aveva detto, nelle sue Lettres, d’aver preso «Genève pour modèle des institutions politiques afin de la proposer en exemple à l’Europe»180 . In realtà, egli compiva soprattutto l’operazione inversa: dare un senso europeo a quello che stava accadendo nella sua città natale. Vedeva ciò innanzi tutto come un ritorno ai principî. Anche Ginevra doveva rifarsi alla sua vera costituzione, al periodo delle origini della repubblica e magari ai tempi che precedettero la Riforma protestante. Là essa avrebbe ritrovato quella giusta ripartizione del potere politico che era poi andata perduta nel 180

Lettres écrites de la montagne, in Œuvres complètes cit., p.

809.

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Cinquecento, con il prevalere di poche famiglie patrizie. Rousseau scoprì, in questo ritorno ai principî, la radice stessa dell’idea repubblicana e stabilì un effettivo punto di contatto tra le idee democratiche che andavano allora riemergendo e il passato comunale. Da questa tradizione egli sembrò anzi un momento non riuscire più a liberarsi; come appunto accadeva nell’interno delle repubbliche, da Genova a Ginevra e ad Amsterdam. Il passato medioevale sembrava inghiottire le più moderne idee di uguaglianza e di libertà. Pur dopo aver negato recisamente nel Contrat social ogni idea di divisione e di bilancia dei poteri, Rousseau finiva col dichiarare, nelle Lettres, che «le meilleur gouvernement est celui dont toutes les parties se balancent dans un parfait équilibre», avallando così con la sua autorità il meccanismo stesso dell’immobilismo delle antiche repubbliche, la ragion stessa della loro impossibilità di uscire dalle lotte di famiglie, di gruppi, di casta e di classe per sboccare in una lotta politica di tipo più moderno181 . Ma non fu che un cedimento momentaneo. In realtà l’idea di sovranità quale Rousseau la concepiva dava una base ed un valore nuovo e diverso all’idea repubblicana. L’intervento di Jean-Jacques fu insomma di grande importanza, anche se a lunga scadenza, mentre non poté essere in alcun modo decisivo negli anni ’60. Diede un significato generale ai conflitti, ma non contribuì a risolverli. Jean-Jacques se ne rese conto egli stesso e si ritirò ben presto dall’agone. Di questo suo ideale ritorno in patria non salvò che una consolazione personale. Quando dovette rinunziare alla cittadinanza, nel 1763, disse che «ma patrie en me devenant étrangère ne peut me devenir indifférente»182 . L’imma181

Lettres écrites de la montagne, in Œuvres complètes cit., p.

844. 182 R OUSSEAU, Correspondance générale cit., vo. IX, p. 284, lettera del 12 maggio 1763.

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gine d’una città in cui la virtù si radicasse in una lunga tradizione non l’abbandonò mai più, e, a sua imitazione, animò i cuori d’un numero sempre maggiore di suoi contemporanei. L’intervento di Voltaire in questi conflitti, che Peter Gay ha tanto lucidamente studiato, è notevole soprattutto per l’agilità e capacità di adattamento dimostrata dal vecchio filosofo183 . Seguì le onde che si andavano allargando, dai patrizi passò ai borghesi e poi al popolo, non identificando se stesso con nessuno di loro, ma non perdendo mai completamente il contatto. È, come sempre, straordinariamente intelligente, ma neanche lui riesce a trovare uno sbocco e un equilibrio. Anch’egli è costretto, alla fin fine, a rifugiarsi nei principi generali nelle sue Pensées républicaines e nel suo dialogo, L’A.B.C., sforzandosi, senza mai riuscirvi completamente, di passare dalla politica ginevrina alle idee di libertà, di tolleranza, perfino di eguaglianza. Ne nascono alcune delle pagine più belle di Voltaire politico, ma la natura dei conflitti ginevrini, quelle antiche, arcaiche rivendicazioni di ordini storici, di ceti e caste dell’antica repubblica, continuano a resistere ad ogni tentativo d’interpretazione e di assimilazione. Ginevra resta uno stimolo, un pretesto alle riflessioni di Voltaire. Il suo sguardo continua ad esser fissato su Parigi, sulle lotte contro i Parlamenti, sulla crisi degli ultimi anni del regno di Luigi XV, sul tentativo di organizzare l’opinione pubblica attorno a un gruppo sempre più compatto di philosophes. Voltaire sa che là è il campo su cui i lumi avrebbero dato la loro battaglia decisiva, all’interno della grande monarchia francese, alle fondamenta stesse dell’assolutismo. Eppure il peso della tradizione e dei problemi repubbli183 N ICOLA M ATTEUCCI, Jacques Mallet – Du Pan, Napoli 1957 e P ETER G AY, Voltaire politics. The poet as realist, Princeton 1959.

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cani non è piccolo, neppure per lui, e lo costringe a riesaminare dalla base le sue concezioni politiche, soprattutto in quel dialogo – L’A.B.C. – che è, fondamentalmente, una riflessione sulle questioni che siamo venuti fin qui esaminando184 . A prima vista è soprattutto un elogio dell’Inghilterra, della sua libertà, della tradizione whig, illustrata e sostenuta dall’interlocutore che è designato con la lettera A. Voltaire vuole insieme colpire la concezione aristocratica tradizionale, che egli impersona nel terzo interlocutore di questo dialogo, che porta la lettera C.: «Pour moi, je n’aime que l’aristocratie... Je ne saurais souffrir que mon perruquier soit mon législateur. J’aimerais mieux ne porter jamais de perruque... Le gouvernement de Venise est le meilleur; cette aristocratie est le plus ancien état de l’Europe. Je mets après lui le gouvernement d’Allemagne. Faites-moi noble Vénitien ou comte de l’Empire; je vous déclare que je ne peux vivre joyeusement que dans l’une ou dans l’autre de ces deux conditions». Il terzo interlocutore, B., è tutto teso a uscire da questo dilemma: o la monarchia inglese o le repubbliche del passato. Proprio i lumi permettono di superare questo contrasto. Son loro a dare all’uomo una fede nella propria epoca, a fargliela considerare migliore dell’antichità, del passato. Son loro a dare un senso nuovo all’idea di natura umana, a combattere contro la superstizione, ad aprire l’animo all’accettazione di una società in cui anche i parrucchieri, come tutti coloro che lavorano e producono, possano essere liberi e politicamente attivi. La libertà inglese rimane un modello, ma è lontana e sempre precaria. Certo bisognava lottare per conservarla, anche dalle minacce di guerra civile che cominciavano ad apparire al di là dell’Oceano 184 L’A.B.C., dialogue curieux traduit de l’Anglais de monsieur Huet. Sixième entretien. Des trois gouvernements et de mille erreurs anciennes.

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(«Arrangez-vous avec vos colonies et que la mère et les filles ne se battent pas»185 ). Ma, soprattutto, si trattava ora di affermare questo nuovo senso democratico che il mondo moderno sembrava ormai contenere in se stesso come un frutto maturo. «Allons au fait. Je vous avouerai que je m’accomoderais assez d’un gouvernement démocratique... J’aime à voir des hommes libres faire eux même les loix sous lesquelles ils vivent, comme ils ont fait leurs habitations... Aucun laboureur, aucun artisan dans une démocratie n’a la vexation et le mépris à redouter... Etre libre, n’avoir que des égaux, est la vraie vie, la vie naturelle de l’homme...»186 . Queste le conclusioni dell’esperienza ginevrina di Voltaire. Aveva proseguito la corsa più avanti di Rousseau, era arrivato a difendere i natifs, anche contro la borghesia. Ma ciò aveva potuto fare perché era più estraneo a Ginevra di Jean-Jacques. Questi, fin che aveva potuto, aveva difeso la sua città, la tradizione repubblicana. Voltaire era invece uno straniero e come tale agiva, non senza qualche connessione con l’azione della diplomazia francese e ponendosi sempre, solo o appoggiato, nella posizione d’una potenza estera trascinata dalle cose stesse ad interferire nelle faccende della città. Perciò il suo intervento fu insieme più democratico e meno repubblicano. Voltaire trovò a Ginevra una riconferma dell’illuminismo, mentre Rousseau vi aveva trovato un incitamento a ricercare la virtù. Non era ancora finita la disputa ginevrina, che i due uomini si ritrovarono alle prese su un altro esempio del vario incrociarsi in Europa, in quegli anni, della tradizione repubblicana e del rinnovato ideale di virtù. Il caso della Corsica era particolarmente curioso. Molti se ne 185 L’A.B.C. cit. Quatorzième entretien. législation. 186 Ibid. Seizième entretien.

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occuparono e tra gli altri, come abbiamo visto, Alexandre Deleyre. L’intervento di Rousseau è famoso187 . Come poteva non interessare lui ed i suoi contemporanei questa rivolta contro l’aristocrazia genovese, questo caso d’una ribellione anticoloniale che prendeva l’aspetto di un conflitto dei puri contro i corrotti, dei poveri contro i ricchi, degli uomini della terra contro i cittadini, d’una nazionalità conculcata contro chi pretendeva governarla da lontano? Era in qualche modo, al di là del tratto di mare che divide Genova dall’isola, la prosecuzione della lotta tra il patriziato e il popolo riemersa bruscamente alla luce durante la rivolta del 1746. Si era allora tentato di gettare le basi di una riconciliazione tra corsi e genovesi, ma ogni novità era stata alla fine soffocata. Ora, negli anni ’60, soltanto Pasquale Paoli ed i suoi seguaci proseguivano il combattimento188 . Questa volta l’intervento straniero, francese, che era stato favorevole all’aristocrazia genovese alla metà del secolo, tendeva a profittare della situazione per imporre il proprio potere, in concorrenza con l’Inghilterra, e per annettere l’isola, come infatti avvenne, esattamente due secoli fa, nel 1769. Si trattava insomma di un caso abnorme e impressionante del cronico conflitto interno delle arcaiche repubbliche dell’Europa settecentesca, e come tale non poteva non appassionare gli uomini dei lumi. Il punto di partenza di Rousseau era ancora una volta – malgrado le sollecitazioni in senso contrario di Buttafuoco, che voleva per la 187 Projet de constitution pour la Corse, in Œuvres complètes cit., tomo III, pp. 899 sgg. e commenti di Sven StellingMichaud, ibid., pp. CXCIX sgg. E pp. 1726 sgg. 188 C HAUNCY B REWSTER T INKER, A new nation in Nature simple plan. A phase of radical thought in mid-eighteenth century, Princeton 1922; G EORGE P OMEROY A NDENSON, Pascal Paoli, an inspiration to the Sons of liberty, in Massachusetts historical society, Proceedings, vol. XXVI e Illuministi italiani cit., tomo VII, pp. 719 sgg.

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Corsica una «repubblica mista», nobiliare cioè e protetta dalla Francia – era una costituzione senza nobiltà ereditaria, senza caste aristocratiche. «La loi fondamentale de votre institution doit être l’égalité»189 . Il che non significava che non vi fossero delle distinzioni interne. «Nous verrons comment on peut graduer chez un peuple différens ordres sans que la naissance et la noblesse y entrent pour rien»190 . Alle suddivisioni tradizionali intendeva sostituire una società egualitaria e capace insieme di dar vita nel suo seno a una differenziazione tra coloro che assolvevano compiti e funzioni politicamente diverse. Si sarebbe divisa la nazione corsa «en trois classes, dont l’inégalité toujours personnelle pouvoit être heureusement substituée à l’inégalité de race ou d’habitation qui resulte du système féodal municipal que nous abolissons»191 . Aspiranti, patrioti e cittadini sarebbero stati le tre fasi e i tre gradi d’una partecipazione politica determinata dall’età, dalla proprietà e dalla funzione sociale, non da diritti ereditari di qualsiasi tipo. Una società rurale chiusa e autosufficiente ne sarebbe derivata, capace di dissolvere i ranghi e gli ordini antichi. Basta gettare uno sguardo sulla Corsica una generazione più tardi per cogliere tutta l’importanza di simili conseguenze egualitarie della lotta dei ribelli corsi contro il patriziato e il dominio genovese. All’epoca della rivoluzione francese, malgrado il tentativo della Costituente di riconciliarsi con Pasquale Paoli, questi divenne sempre più il dittatore dell’isola, il mediatore indispensabile della lotta tra le fazioni, i gruppi e le famiglie, mentre all’opposizione si venne approfondendo una volontà sempre più egualitaria, in gruppi piccoli ma attivi di giacobini. Filippo Buonarroti, l’amico di Babeuf, si formerà in Projet de constitution pour la Corse cit., p. 909. Ibid., p. 910. 191 Ibid., p. 919. 189

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Corsica, là egli troverà una delle prime radici delle sue idee sull’«égalité de fait»192 . Se da Ginevra e dalla Corsica volessimo passare alla Polonia, alle colonie americane, all’Olanda, alla Svizzera e magari ai rapporti delle repubbliche italiane con la Francia dell’epoca del Direttorio, saremmo ormai portati a rifare la storia di tutti gli ultimi trent’anni del Settecento, a ripercorrere le tappe di quell’«age of democratic revolution» che R. R. Palmer ha evocato recentemente, in modo così efficace, nei suoi due grossi e ricchi volumi che portano appunto questo titolo193 . Ciò non può davvero essere il nostro compito oggi. Dobbiamo fermarci alla soglia della nuova epoca, quando ancora gli elementi precorritori delle rivoluzioni della fine del secolo restavano pochi, piccoli e sparsi. Eppure spero di non ingannarmi dicendo che quello che abbiamo esaminato fin qui, dalla rivoluzione puritana, dagli anni ’40 e ’50 del Seicento in poi, potrà essere stato utile e importante anche per capire «the age of democratic revolution», e forse per mutare la prospettiva stessa in cui R. R. Palmer lo ha studiato e narrato. «Democratico» è parola certo abbastanza larga per comprendere i disordini ginevrini e la presa della Bastiglia, la rivolta del Belgio contro Giuseppe II o le rivoluzioni polacche e la formazione degli Stati Uniti d’America. Ma, come questa stessa elencazione basterebbe a dimostrare, è anche parola troppo vasta, che rischia di comprendere fenomeni troppo diversi e disparati. Si tratta di una categoria generale del pensiero politico, non d’una forza storicamente operante, radicata nel passato, che si apre a una realtà nuova, mostrando tutte 192 A LESSANDRO G ALANTE G ARRONE, Buonarroti e Babeuf, Torino 1948, pp. 52 sgg. 193 R. R. P ALMER, The age of democratic revolution. A political history of Europe and America 1760-1800, vol. I, The Challenge, vol. II, The struggle, Princeton 1959 e 1964.

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le sue interne contraddizioni, tutta l’energia di una tradizione amata e contrastata, attiva ed efficace nel mutare delle persone e delle cose. Sono convinto che l’inserirsi della tradizione repubblicana, il suo modificarsi e disperdersi nella realtà degli ultimi anni del Settecento sia un filone politico che vale la pena di seguire, ancor più dell’emergere, in quegli stessi anni, dell’idea di democrazia, la quale rimase, fino alla rivoluzione francese, un concetto più che una forza, una forma più che un contenuto politico. L’esempio della Polonia è particolarmente importante, da questo punto di vista. Per intenderne tutto il significato, basterà seguire l’ammirevole lavoro compiuto in questi ultimi anni, fuori e dentro i confini della Polonia, per meglio capire e conoscere i tentativi di riforma, le rivolte e le guerre, l’intervento straniero e l’influenza delle idee dell’illuminismo su quella terra, nel Settecento. Da Jean Fabre a Boguslaw Le´snodorski, a Emanuel Rostworowski, per non fare che qualche nome, siamo di fronte ad una delle pagine più vivaci ed importanti della moderna storiografia europea, che ha risuscitato di fronte ai nostri occhi fatti e problemi troppo a lungo seppelliti sotto l’antica e radicata convinzione che si trattasse di movimenti scomposti di un organismo morente, di confuse manifestazioni di una incurabile anarchia194 . Se leggiamo 194 F ABRE, Stanislas-Auguste Poniatowski et l’Europe des ´ lumières cit.; B OGUSLAW L E SNODORSKI , Polscy jakobini, Warszawa 1960 (in francese: Les jacobins polonais, Paris 1965); E MANUEL R OSTWOROWSKI, Républicanisme sarmate et les lumières, in «Studies on Voltaire and the eighteenth century», voll. XXIV-XXVII, 1963, pp. 1417 sgg.; ID., La Suisse et la Pologne au XVIIIe siècle, in Echanges entre la Pologne et la Suisse du XIVe au XIXe siècle, Genève 1964; ID., Voltaire et la Pologne, in «Studies on Voltaire and the eighteenth century», vol. LXII, 1968, pp. 101 sgg.; ID., The commonwealth of the gentry, in History of Poland, a cura di A. Gieysztor, S. Kieniewicz,

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le pagine di questi storici balza agli occhi quanto la prolungata tragedia della Polonia settecentesca abbia in comune con la sorte delle repubbliche in Europa, nell’età dei lumi. La costituzione dell’epoca sarmatica è dominata dalla profonda convinzione che essa non è modificabile, riformabile. La Polonia diventa pacifica e immobile in mezzo alle tempeste delle guerre del nord e perde sempre più il controllo della propria politica. Sopravvive l’aurea libertà («elementum meum libertas», come di´ 195 ), fondata sui magnati, i quali ceva Stanislas Leszcynski hanno nelle loro mani il vero potere e sulla nobiltà che fa sempre più sentire il suo peso e la sua volontà d’impedire ogni movimento, ogni trasformazione. Le vie possibili per uscire da questo immobilismo portano verso una costituzione all’inglese oppure verso una «libertà illuminata», ispirata dall’aprirsi della Polonia verso l’Europa settecentesca, o ancora verso l’accettazione di un «dispotismo illuminato» che venga dal di fuori, soprattutto dal´ la Russia di Caterina II. Stanislas Leszcynski cerca di indicare, dal suo esilio a Nancy, anche un’altra e diversa via, l’alleanza cioè di tutte le repubbliche di Europa contro gli assolutismi, sperando nella benevolenza e la comprensione della Francia196 . Ma era un’utopia. La real-

E. Rostworowski, J. Tazbir, H. Wereszycki, Warszawa 1968, pp. 272 sgg. Di notevole interesse pure R YSZARD W. W O ´ LOSZY NSKI , Polska w opiniach francuzòw XVIII w., Warszawa 1964 e ID., La Pologne vue par l’Europe au XVIIIe siècle, in «Acta Poloniae Historica», 1965, XI, pp. 22 sgg. 195 Frontespizio dell’opera sua La voix libre du citoyen, ou observations sur le gouvernement de la Pologne, s. 1. 1749 196 E MANUEL R OSTWOROWSKI, Stanislas Leszcynski ´ et l’idée de la paix générale, in La Lorraine dans l’Europe des lumières. Actes du colloque organisé par la Faculté des lettres et des sciences humaines de l’Université de Nancy (24-27 ottobre 1966), Nancy 1968, pp. 31 sgg. (saggio particolarmente im-

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tà era data dal dispotismo russo, o ancora dall’immobilismo sarmatico o dalla trasformazione interna operata da quei nobili che stavano diventando degli intellettuali, che non mancavano spesso di servirsi delle idee di Rousseau, di Mably, di Beccaria, di Filangieri, per difendere i loro privilegi, ma che finirono col creare una loro cultura, un loro mondo morale e intellettuale, quello dei «giacobini polacchi». Questi nobili illuminati cominciarono coll’indicare nella creazione di una nuova magistratura, che coordinasse e sottomettesse tutte le altre, abolendo l’anarchia del liberum vetum, una soluzione dei problemi della Polonia, seguendo così una linea che già si era in vario modo sviluppata, come abbiamo visto, a Venezia, a Genova e nelle Province Unite. Ma finiscono col giungere rapidamente, anche sotto l’influsso francese, a dei progetti e a delle idee di tipo ormai tipicamente «costituzionale». L’intervento straniero restò tuttavia un elemento dominante e finì, come è noto, col sopravanzare e schiacciare quello che rimane, non pertanto, il più origi-

portante per l’idea di repubblica nel Settecento). Cfr. a p. 65, ´ quanto scriveva Stanislas Leszcynski attorno al 1763: «L’Europe n’est-elle pas partagée en deux sortes de gouvernement? Un est monarchique, comme la France, l’Espagne, Portugal, Naples, Sardaigne, Danemark, la Prusse et la Russie, sans compter les petits états d’Italie et de l’Allemagne qui composent le Corps germanique. Les gouvernements républicains sont: l’Angleterre, la Hollande, la Suède, la Pologne, Venise, les Cantons suisses et Gênes. En entrant dans les véritables interêts de ces républiques, on conviendra que l’esprit de conquête ne les agite pas, qu’elles ne sont jalouses et attentives qu’à conserver ce qu’elles possèdent, et conserver la forme de gouvernement et surtout une pleine jouissance de leur liberté. Et surtout, comme ces états républicains n’ont jamais aucune prétention les uns sur les autres, serait-il difficile de les porter à une éternelle alliance pour le maintien de la paix et la conservation de leurs privilèges?...»

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nale, il più energico e intelligente tentativo compiuto nell’Europa settecentesca di riformare una antica repubblica, di trovare uno sbocco alla strozzatura costituzionale che aveva finito con immobilizzarle tutte. Basterebbe se´ guire la propaganda di Stanislas Leszcynski – che impensierì perfino suo genero Luigi XV per il suo carattere repubblicano, proprio al momento della crisi della Francia alla metà del secolo – o ripercorrere gli scritti dell’abate Coyer – il quale riuscì a ridare nuovo vigore alle idee repubblicane, esaltando da una parte il passato della Polonia e indicando ad essa la via delle riforme – o naturalmente, ripensare alla formazione e all’opera degli illuministi e dei giacobini polacchi, ad esempio di Hugo Kołłataj ˛ , in cui le idee tradizionali e quelle che derivano dal più avanzato illuminismo dell’occidente trovavano un equilibrio precario e suggestivo, – per capire tutto il valore, anche intellettuale, di questo disperato tentativo della Polonia di sopravvivere e di dare insieme un esempio d’una profonda e reale trasformazione interna. In ultima analisi tuttavia la Polonia cadde, sotto l’urto violento delle potenze confinanti, e minata insieme dalle insormontabili contraddizioni dei suoi magnati e della sua nobiltà, dei suoi re elettivi e della sua struttura sociale. Anche la Polonia, malgrado uno sforzo eroico, non riuscì a superare la crisi ultima delle arcaiche repubbliche europee. Negativo pure, e di minori proporzioni, è il tentativo olandese di andare oltre le contraddizioni tra il potere dello statoldo e quello della tradizione patrizia. Fino all’ultimo, anche nelle Province Unite; i reggenti, i borghesi, il popolo sembrano reagire secondo i modelli politici che rimontano alla metà del Seicento, e che non sono là modificati in profondità dalla diffusione delle idee illuministe. Anche l’intervento straniero non meraviglierà davvero. La Francia appoggia i «patrioti», mentre gli stati della Germania intervengono a favore dello statol-

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do. L’intervento straniero fu, come è noto, così duro e violento da soverchiare ogni svolgimento autonomo delle forze politiche. È certo difficile giudicare una rivoluzione schiacciata in boccio. Anche questi avvenimenti sembrano tuttavia potersi meglio intendere se li si guarda non soltanto, come è pur giusto, proiettandoli verso il futuro, come precorrimento e preparazione della rivoluzione francese, ma anche vedendoli rivolti all’indietro, risalendo cioè alle radici storiche delle arcaiche repubbliche europee nel periodo degli assolutismi197 . L’unica rivoluzione riuscita di quegli anni, prima della presa della Bastiglia, evidentemente, è quella dei coloni inglesi d’oltre oceano. La costituzione degli Stati Uniti d’America apre una nuova epoca nella storia delle repubbliche e, con la rivoluzione francese, chiude il ciclo dei problemi che qui abbiamo cercato di esaminare. Eppure basta conoscere la discussione che ancor oggi prosegue tra gli storici sugli avvenimenti del Massachusetts e delle altre colonie per renderci conto che, al punto di partenza, i problemi non sono davvero molto distanti e diversi da quelli che abbiamo finora esaminato. Rivoluzione conservatrice? Difesa di privilegi tradizionali? Spirito puritano o idee illuministe? Anche qui la storia politica delle idee ha la sua parola da dire. Basta rifarsi all’ammirevole libro di Bernard Bailyn, The ideological origins of the American revolution, per sentire che ci troviamo sulla strada giusta198 . Il legame con i commonwealthmen, soprattutto con Trenchard e Gordon, è dimostrato. L’importanza dell’illuminismo europeo è provata contro ogni troppo rapido diniego. Il movimento stesso tende, alme197 A LFRED C OBBAN, Ambassadors and secret agents. The diplomacy of the first earl of Malmesbury at the Hague, London 1954; P ALMER, The age of democratic revolution cit., vol. I, pp. 320 sgg. 198 Cambridge (Mass.) 1967.

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no all’inizio, a prender la forma d’un ritorno ai principî «The leaders of the revolutionary movement were radicals – but they were eighteenth-century radicals, concerned, like the eighteenth-century English radicals, not with the need to recast the social order, nor with the problems of economic inequality and the injustices of stratified societies but with the need to purify a corrupt constitution and fight off the apparent growth of prerogative power»199 . Come poi da questo punto di partenza si giungesse alla costituzione degli Stati Uniti d’America, come, pur urtando ancora contro ostacoli non dissimili da quelli che avevano conosciuto i ginevrini e i polacchi, gli olandesi e gli svizzeri, il nuovo continente trovasse uno sbocco e una soluzione diversa e nuova, appartiene evidentemente ad un altro ciclo storico. L’eredità del passato era ormai dissolta nella ricchezza del presente. 199

The ideological origins of the American revolution cit., p.

283.

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Capitolo quarto Il diritto di punire

Nell’autunno del 1756 un signore abruzzese, Romualdo Sterlich, tipico rappresentante, malgrado il suo nome tedesco, della miglior nobiltà di quelle terre del regno di Napoli, scriveva ad un suo amico riminese, Giovanni Bianchi, dal nome così comune da indurlo ad usare generalmente la più distinta trascrizione latina di Janus Plancus, medico e scienziato tra i più colti di quell’angolo dello Stato pontificio. Gli diceva di aver avuto tra le mani un libricino francese intitolato Code de la nature ou le véritable esprit des loix e di averlo letto con gran curiosità. «Bramerebbe.. che si togliesse la proprietà dÈ beni e che tutto si rimettesse in comunanza»200 . Si trattava del libro, oggi celebre, di Morelly, la prima espressione del comunismo settecentesco francese e destinato ad avere, sotto il nome di Diderot, non piccola eco durante tutto il secolo, fino alla congiura di Babeuf201 . Né dobbiamo troppo stupirci di vederlo, neppure un anno dopo la sua pubblicazione, nelle mani di un signore di Chieti, negli Abruzzi. Ritroviamo il Code de la nature, a Napoli, in quello stesso periodo, o poco dopo, nelle mani di Antonio Genovesi, di Francescantonio Grimaldi, e, a Gallipoli, di Filippo Briganti, così come tra i libri che Gio200 Biblioteca Gambalunga, Rimini, Fondo Gambetti, Lettere autografe al dottor Giovanni Bianchi. Cfr. V ENTURI, Settecento riformatore cit., pagina 588. 201 Cfr. l’edizione del Code de la nature, a cura di Gilbert Chinard, Parigi 1950, la traduzione russa a cura di V. p. Volgin, Mosca 1956 e soprattutto R ICHARD N. C OE, Morelly. Ein Rationalist auf dem Wege zum Sozialismum, Berlin 1961, con ampia bibliografia.

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vambattista Almici citava e discuteva nella sua edizione espurgata e resa cattolicamente ortodossa dell’opera di Pufendorf sul diritto della natura e delle genti, pubblicata a Venezia tra il 1757 e il 1759202 . Morelly, in Italia pure, penetrò, come si vede, anche nei centri minori e venne discusso anche là dove meno ce lo aspetteremmo. Romualdo Sterlich, che a mia conoscenza è il primo a parlarne, è anche il primo che lo confuti. «Chi pretende l’impossibile non ha voglia di ottener nulla. Per essere utile all’uomo bisogna contentarsi di raddrizzare certe cose che ne sono capaci»203 . Il dialogo tra utopia e riforma nasceva spontaneo e continuò senza sosta, in ogni angolo d’Europa, per tutta la seconda metà del Settecento. L’entusiasmo sociale, come lo aveva chiamato Shaftesbury, contribuì a portare nuova linfa all’utopia, facendola rifiorire insieme alle prime discussioni politiche nel gruppo che stava costruendo l’Enciclopedia. Basta guardare, accanto all’articolo Autorité politique di Diderot, nel primo volume, gli articoli Abiens, popolo scita, che riempì Diderot di ammirazione «par je ne sais quelle élévation de caractère et je ne sais quel degré de justice e d’équité dont ils se piquoient», o Bacchionites, i quali «après avoir banni d’entre eux les distinctions funestes du tien et du mien... il leur restoit peu de choses à faire pour n’avoir plus aucun sujet de querelles et se rendre aussi heureux qu’il est permis à l’homme de l’être», o ancora Bédouins, i quali «n’ayant ni médecins ni jurisconsultes» non avevano «d’autres lois que celles de l’équité naturelle et guère d’autre maladie que la vieillesse»204 I germogli di utopia erano numerosi, come si vede, negli 202

Cfr. Illuministi italiani cit., vol. V, pp. 25, 180, 516, 542,

1094. 203 204

V ENTURI, Settecento riformatore cit., p. 588. I D ., Le origini dell’Enciclopedia cit.

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anni in cui stavano nascendo i primi due volumi del gran dizionario e in cui Jean-Jacques stava meditando sui due discorsi, sulle scienze, le arti e sull’ineguaglianza. Nel 1755 usciva il Code de la nature di Morelly, che partiva da Montesquieu per giungere alla formulazione più matura del comunismo alla metà del secolo. La nuova spinta illuminista avrebbe poi continuato ad agire negli anni seguenti. Ormai, in ogni gruppo di philosophes è difficile non scorgerne almeno uno che non abbia una segreta simpatia per un mondo in cui non sia mai esistita o in cui sia stata abolita la fatale distinzione del tuo e del mio. I nomi di coloro che si rifanno in qualche modo all’idea della comunità dei beni si moltiplicano: Robinet, Carra, Restif de la Bretonne e magari, in Italia, Rufino Massa o Francesco Longano205 . Nell’animo stesso di alcuni dei filosofi maggiori questa visione di un mondo senza tuo e mio non scompare più. Basta pensare a Diderot, che scrisse il suo Supplement au voyage de Bougainville non appena venne alleggerendosi il peso dell’immensa sua opera enciclopedica. L’idea comunista, che era apparsa nel passato ad eclissi, isolata e solitaria, dà origine, nella seconda parte del Settecento, per la prima volta, a una corrente di pensiero. Appare nei più diversi ambienti dell’illuminismo europeo e diventa una delle forme, ormai ineliminabili, che prende la volontà di «trouver une situation dans la quelle il soit presqu’impossibile que l’homme soit dépravé ou méchant», come diceva Morelly, dove fosse abolita l’idea stessa di bene e di male206 . Al di là dell’«horreur et la folie de notre état po205 A. L ICHTENBERGER, Le socialisme au XVIIIe siècle. Etude sur les idées socialistes dans les écrivains français du XVIIIe siècle avant la Révolution, Paris 1895; H. G IRSBERGER, Der utopische Sozialismus des XVIII. Jahrbunderts In Frankreicb und seine philosophischen und materiellen Grundlagen, Leipzig 1924 e Illuministi italiani cit., vol. VII. 206 M ORELLY, Code de la nature cit., p. 160.

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licé», attraverso la «révolte du coeur et de l’esprit», si sarebbe giunti a trasferire «notre paradis dans le seul endroit où nous pouvons le faire, je veux dire dans ce monde». «Il suffit d’établir l’égalité morale et la communauté des biens sur l’inégalité morale et la propriété pour effacer de l’humanité tous les vices moraux qui y règnent», concludeva dom Deschamps207 . Varrebbe certo la pena di seguire dettagliatamente questa cristallizzazione dell’ideale comunista nel Settecento. L’utopia tradizionale viene allora allargandosi e trasformandosi sotto la spinta di questa volontà illuministica di realizzare il paradiso in terra, di creare una società tutta umana, egualitaria e libera, di allargare al di fuori dei piccoli gruppi di eletti, di santi e di monaci, una regola comunitaria che valesse per tutti, di risolvere finalmente, nelle cose e non soltanto nel pensiero «l’énigme métaphysique et morale», come diceva ancora dom Deschamps. La storia del passaggio dall’utopia all’ideale, dal sogno individuale al movimento politico comunista è certo piena d’interesse. L’età dei lumi tutta intera non è comprensibile senza questo elemento, che sembra talvolta marginale ma che in realtà è uno dei risultati più irreversibili, più immobili e duraturi che il secolo XVIII trasmise al XIX, una di quelle forme mentali che, una volta fissate e formate, non andranno dissolvendosi più se non dopo lunghe e difficili prove e tentativi, se non a contatto con l’effettuale realtà d’un lungo e complesso processo storico. Dopo la metà del Settecento l’idea che l’abolizione della proprietà potesse cambiare le basi stesse della convivenza umana, abolire ogni morale tradizionale, ogni politica del passato non scomparirà più dagli ani207 D OM D ESCHAMPS, Le vrai système, ou le mot de l’énigme métaphysique et morale, a cura di Jean Thomas e Franco Venturi, Genève 1939 (ristampa nel 1963), pp. 135, 140, 166.

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mi dei contemporanei208 . Appassionante è perciò cercare le origini di questa idea e vederla nascere, ad esempio, nelle pagine di Morelly e di dom Deschamps. Gli studi di Richard N. Coe sul primo e soprattutto di Bronisław Baczko sul secondo, hanno riaperto il problema, cercando di risolvere una questione apparentemente semplice e molto complessa in verità: come è nata l’idea comunista moderna?209 . Non par dubbio che il pensiero di dom Deschamps è l’esempio cruciale. Ricordo ancora la sorpresa, negli anni ’30, quando leggevo il manoscritto di questo benedettino e ritrovavo in ogni pagina, allo stato nascente, proprio alla fonte, quell’idea che aveva ormai invaso il mondo, che lo stava trasformando, modificandosi essa stessa profondamente al contatto con la realtà delle cose210 . Jean Wahl e Bronislaw Baczko ci hanno dato ora 208 Particolarmente interessante, per la fine del Settecento, la discussione che in proposito si svolse a Parigi all’epoca del Direttorio. Cfr. ad esempio l’articolo intitolato De la propriété, de quelques philosophes qui l’ont attaquée et des hommes qui accusent de ces attaques tous le: philosophes et la philosophie, in «Journal d’économie publique, de morale et de politique», n. XXI, 30 ventoso, anno V (20 marzo 1797). 209 R ICHARD N. C OE, Morelly cit., e B RONISŁAW B ACZ KO, Wstep, in D OM L ÉGER -M ARIE D ESCHAMPS , Prawdziwy system czyli rozwiqzanie zagadki metafizyki i moralno´sci, a cura di B. Baczko, Warszawa 1967, pp. 23 sgg. (questa introduzione, tradotta in francese, è pubblicata in «Cahiers Vilfredo Pareto», 1968, fasc 15, pp. 5-49, Le mot de l’énigme métaphysique ou Dom Deschamps). 210 F RANCO V ENTURI, Przedmowa do polskiego wydania Prawdziwego systemu dom Deschampsa, in D OM L EGER M ARIE D ESCHAMPS, Prawdziwy system cit., pp. 2 sgg. (testo italiano, La fortuna di dom Deschamps, in «Cahiers Vilfredo Pareto», 1967, fasc. II, pp. 47 sgg.).

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l’interpretazione della sua filosofia e del suo pensiero211 . Non ci resta che attendere quanto lo studioso polacco ci promette, una indagine cioè sul problema dell’ordine fisico e morale e le sue relazioni con l’utopia e il male nel pensiero dell’illuminismo. Ma una storia politica e non ideologica soltanto di alcuni aspetti dell’illuminismo avevo promesso, e a questa desidero restar fedele. Non nego affatto l’importanza di capire come si sia giunti, a metà del secolo XVIII, a formulare l’idea comunista con un’ampiezza, una sicurezza, una astrazione che prima essa non aveva mai avuto. Semmai sono sempre, personalmente, stupito dell’ingegno che si va spendendo ai nostri giorni per intendere le «structures mentales» dei popoli più lontani e difficili da interpretare, per capire l’evoluzione delle mentalità più primitive e magari per ricostruire i meccanismi psicologici che accompagnarono il formarsi stesso della civiltà, tra incesti e linee di parentela, tra il cotto e il crudo, tra il miele e la cenere, mentre tanto minore energia viene adoperata per capire come sono nate delle idee che non possono non importarci molto di più, come appunto quella del comunismo. Assistiamo oggi ad un romantico ritorno a quella filosofia del primitivo, dell’Ur, la quale ha se non altro un difetto, quello di chiudere spesso gli occhi di fronte a delle «structures mentales» più vicine a noi, che urge conoscere meglio e più dappresso. Non è certo a caso che i migliori studi in materia, come quelli di Bronislaw Baczko, ci vengano dalla Polonia o magari quelli di L. S. Gordon, I. I. Zil’berfarb, V. M. Dalin o A. R. Ioannisjan sulle idee socialiste alla vigilia della rivoluzione francese, o su Babeuf o su Fourier, ci vengano dalla Russia, Il problema della nascita e della trasformazio211 J EAN W AHL, Cours sur l’athéisme éclairé de Dom Deschamps, in «Studies on Voltaire and the eighteenth century», vol. LII, pp. II sgg.

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ne dell’utopia nel Settecento non può non esser vivo nell’uno e nell’altro paese, anche se là pure la discussione sembra fortemente affievolirsi in questi ultimi anni212 . Ma non questo sarà qui il nostro tema, bensì un problema di storia politica delle idee, il rapporto tra le forze dell’entusiasmo sociale, per dirla con Shaftesbury, delle germinanti utopie d’una umana società capace di risolvere «le mot de l’énigme métaphysique et morale» e la concreta volontà di modificare questo o quell’aspetto delle società ereditate dal passato, di operare delle concrete trasformazioni. Per dirla più in breve, tra utopia e riforma. Prenderemo un problema che tocca l’uno e l’altro polo del pensiero illuminista, quello del diritto di punire, che non può evidentemente non implicare la questione stessa del rapporto tra l’individuo e la società, e che pure è strettamente connesso con una casistica di metodi e di esempi, di strumenti, di pratiche e di minute realizzazioni. Comporta insieme cioè una discussione di principio e una disamina sui problemi concreti. Proprio per questo suo doppio aspetto esso può essere particolarmente importante per capire l’illuminismo. Un esempio forse ci basterà per vederne i principali elementi. Seguiremo l’eco dell’opera di Beccaria, Dei delitti e delle pene, pubblicata nel 1764, attraverso l’Europa, dove ovunque andò riproponendo a tutti il problema stesso dell’esistenza del delitto e dei modi insieme per reprimerlo. Anche nel piccolo gruppo di giovani che si andò formando a Milano agli inizi degli anni ’60, noto col no212 Si veda, a titolo esemplificativo, la raccolta di articoli pubblicati dall’Istituto di Storia dell’Accademia delle scienze dell’Urss sotto il titolo Istorija socialistiˇceskich uˇcenij, Moskva 1962, dove I. I. Zil’berfarb discute dei recenti lavori su Fourier e dove numerosi sono gli studi sugli utopisti tra Sette e Ottocento. Tra le opere principali: V. M. D ALIN, Grakch, Babef nakanune i vo vremja Velikoj francuzskoj revoljucii, Moskva 1963.

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me, mezzo serio mezzo scherzoso, di Accademia dei Pugni andarono presto ricreandosi quelle tensioni interne che ritroviamo in ogni movimento illuminista e che avevano trovato a Parigi, una decina d’anni per l’innanzi, l’esempio più noto nella discorde amicizia di Jean-Jacques Rousseau e di Diderot. La lettura del Contrat social e la continua polemica con l’ambiente familiare, sociale, politico di questi giovani alimentarono quel dialogo interno, dal quale nacquero alcune delle opere più importanti dell’illuminismo italiano, le Meditazioni sulla felicità e le Considerazioni sul commercio di Milano di Pietro Verri, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, così come l’opera collettiva da loro pubblicata con altri appartenenti a questo gruppo, «Il Caffè», un periodico durato due anni. Pur scambiandosi le parti, come avviene in ogni autentico dialogo, Beccaria finì spesso col rappresentare il polo rousseauiano e Pietro Verri quello volterriano. Anche a Milano, pur sfumate dall’ambiente benevolo e temperato, utopia e riforma si divisero gli animi e le menti, negli anni ’60213 . Il nodo che da millenni si era formato unendo con mille fili peccato e delitto, crimine e colpa, veniva tagliato da Beccaria d’un colpo netto. Che la chiesa, se voleva, si occupasse pure dei peccati. Allo stato spettava soltanto il compito di valutare e di risarcire il danno che l’infrazione della legge aveva portato all’individuo e alla società, Il grado di utilità e disutilità misurava tutte le azioni umane. La pena non era una espiazione. I giudici non avevano altro compito che ristabilire un equilibrio turbato. Il diritto penale veniva completamente desacralizzato. L’illuminismo radicale di Beccaria negava implicitamente, ma non meno definitivamente, ogni concezione religiosa del male, ogni peccato originale, ogni sanzione pubblica della morale. L’utilitarismo suo – e Bentham sem213

V ENTURI, Settecento riformatore cit., p. 645 sgg.

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pre riconobbe che nel libro di Beccaria egli aveva incontrato la più stimolante delle formulazioni di un pensiero che egli farà poi suo e svilupperà – nasceva dalla volontà di creare una società fondata sulla ragione e sul calcolo, abbattendo ogni ostacolo e pregiudizio ereditato dal passato. Ma quale era mai il diritto di punire e addirittura di condannare a morte qualcuno, in una simile società? Beccaria, con un appello tutto rousseauiano, metteva sulla bocca di un delinquente le ragioni della ribellione, della rivolta contro ogni legge e oppressione. «Quali sono queste leggi ch’io debbo rispettare, che lasciano un così grande intervallo tra me e il ricco?... Chi ha fatto queste leggi? Uomini ricchi e potenti... Rompiamo questi legami fatali... attacchiamo l’ingiustizia alla sua sorgente»214 . In fondo al ragionamento di Beccaria, alla sua origine, stava il dubbio sul «terribile, e forse non necessario» diritto di proprietà, come egli si espresse, stava la visione d’una società in cui l’uguaglianza usciva dalle astrazioni giuridiche per entrare nei fatti economici215 . L’esitazione di Beccaria di fronte al diritto di punire è profonda. Non solo egli prova orrore di fronte alla violenza, alla crudeltà, ma rifiuta dal più profondo dell’animo suo ogni teorizzazione, ogni giustificazione di esse, ripugnandogli sempre ogni utilizzazione loro da parte degli stati, delle società, del diritto. Le sue pagine sulla pena di morte e sulla tortura nascono da questa doppia ritrosia, sociale e personale, ad accettare il diritto stesso di punire e le conseguenze che esso fatalmente comporta. Legislatori, e giuristi, diceva «tremando dovrebbono reggere le vite e le fortune degli uomini»216 . Era davvero 214 C ESARE B ECCARIA, Dei delitti e delle pene, § XXVIII, Della pena di morte, Livorno 1764. 215 Ibid., § XXII (XXX nell’ordinamento di A. Morellet), Furti. 216 Dei delitti e delle pene. A chi legge.

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convinto che ogni sua conclusione avrebbe direttamente pesato sulla sorte dei suoi simili, avrebbe inciso sulla pelle del prossimo. Beccaria è così proprio sulla soglia dell’utopia settecentesca, ne sente tutto il fascino, si sente trascinato dalla sua logica e dal suo modo di sentire verso una soluzione che prometta di risolvere alle radici, alla sorgente – com’egli dice – il problema del bene e del male. Eppure Beccaria su quella soglia si ferma. Vuole che la ragione, il calcolo, vengano a dominare l’impeto egualitario e libertario, pur così forte in lui. Chiedersi dove poggiasse il diritto di punire non doveva portare alla dissoluzione della società, alla negazione del diritto. Il pensiero di Helvétius veniva ad incontrarsi in lui con quello di Jean-Jacques Rousseau. Non l’utopia, ma una società di liberi e di eguali, sarebbe stata la risposta al problema che egli si era posto. Soltanto una concezione strettamente utilitaristica della società poteva interpretare praticamente la volontà di eguaglianza. Se, di fronte al delitto, si trattava di riparare un danno, tutti avevano il diritto e il dovere di compiere questa riparazione. Ogni privilegio di casta e di gruppo era soltanto un ostacolo sulla via della giustizia. Similmente, anche di fronte ai beni della società, il calcolo utilitario era l’unica via per giungere all’eguaglianza. Con una formula che egli deriva probabilmente dagli scozzesi, e che anche Pietro Verri adoperò in quegli anni, tutta la società doveva tendere «alla massima felicità divisa nel maggior numero»217 . Era la formula d’un programma di riforme, razionalmente contrapposto alla rivolta utopistica. Il libro di Beccaria era appena apparso, nell’estate 1764, a Livorno, senza nome dell’autore, attorniato dalla preoccupazione di chi lo aveva scritto e dalla trepida attesa degli amici milanesi che avevano contribuito a farlo 217

Dei delitti e delle pene. A chi legge.

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pubblicare, quando parve, per un momento, che la carica rousseauiana là racchiusa fosse tanto forte ed energica da rendere impossibile ogni sua lenta e graduale penetrazione. Anche a Parigi la più bella rivista di quell’epoca, la «Gazette littéraire de la France», diceva che Dei delitti e delle pene altro non era «qu’un recueil des principales maximes du Contrat social...»218 . In Italia non si trattò di stupore, ma d’una violenta denunzia, uscita a Venezia dalle mani di uno strano frate, Ferdinando Facchinei219 . Questi, leggendo l’opera di Beccaria, si era persuaso che l’idea stessa d’una società di uomini liberi ed eguali costituiva non solo un’utopia, ma un’utopia pericolosa. Era non soltanto un errore, ma una colpa lasciarsi prendere da un simile sogno. Come considerare che uno schiaffo dato ad un generale potesse esser punito allo stesso modo d’uno schiaffo dato ad un facchino? E come lasciare gli uomini liberi di giudicare secondo un criterio di pura e semplice utilità di delitti che sconvolgevano l’ordine stesso, la ragione morale e religiosa d’ogni umana convivenza? Nelle pagine di Facchinei si esprimeva non soltanto il timore di mutare il ritmo arcaico della vita ma, soprattutto, di trovarsi soli, abbandonati, nudi, senza protezione religiosa di fronte alle realtà più orribili e crudeli della società, senza le antiche consolazioni che la chiesa e la tradizione avevano continuato a somministrare nei secoli. Leggendo le pesanti e faticose pagine del padre Facchinei contro Beccaria ci si può rendere conto di quanto 218 «Gazette littéraire de l’Europe», 13 febbraio 1765, pp. 301 sgg., riprodotta in C ESARE B ECCARLA, Dei delitti e delle pene. Con una raccolta di lettere e documenti relativi alla nascita dell’opera e alla sua fortuna nell’Europa del Settecento, a cura di F. Venturi, Torino 1965, p. 311. 219 Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene, s. l. (ma Venezia) 1765. Cfr. G IANFRANCO T OR CELLAN , Cesare Beccaria a Venezia, in «Rivista storica italiana», 1965, III, pp. 720 sgg.

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le riforme avanzate da Dei delitti e delle pene incidessero in realtà nel profondo della psicologia e della politica di quell’età. Tempeste e rovine egli prevedeva nel futuro se gli antichi pilastri della società fossero stati rimossi; la tortura, l’inquisizione, la pena di morte, l’autorità indiscussa delle antiche leggi, il rispetto per i giudici e i tribunali. «Questo libro di così piccola mole è pieno nondimeno di lunghe invettive contro i legislatori e contro i principi, tanto ecclesiastici che secolari e specialmente contro il Sacro Tribunale dell’Inquisizione, e contiene tutti gli errori più enormi e più sediziosi bestemmiati sin qui contro la sovranità e contro la religione cristiana da tutti i più empii eretici e da tutti gli irreligionari antichi e moderni...»220 . Per esprimere questa sua accusa contro Beccaria, che dalla critica religiosa era passato a quella sociale, che dalla polemica contro l’Inquisizione era giunto a chiedersi quale fosse il diritto stesso di punire, Ferdinando Facchinei finì per trovare due termini: Beccaria fu per lui «il Rousseau degli italiani» e un «socialista», La prima qualifica, dopo tutto quello che abbiam detto finora, è tutt’altro che inattesa. La seconda continua ancora a stupire i lettori, che hanno dovuto ammettere come questa fosse probabilmente la prima volta in cui una lingua moderna adoprasse il termine di «socialista»221 . Hans Müller ci ha detto che la parola «socialista», dapprima nella sua forma latina e poi, rapidamente, in quella italiana, è nata e si è diffusa a mezzo il secolo XVIII ed èstata adoperata, a quanto pare, per la prima 220 Riprodotto in B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., pp. 174-75. 221 H ANS M ÜLLER, Ursprung und Geschichte des Wortes Sozialismus und seiner Verwandten, Hannover 1967. Per la parola italiana, aggiungere: F RANCO V ENTURI, «Socialista» e «socialismo» nell’Italia del Settecento, in «Rivista storica italiana», 1963, I, pp. 129 sgg.

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volta, dal benedettino tedesco Anselm Desing a designare la corrente del diritto naturale che faceva capo a Pufendorf e a Cumberland e che poneva la «socialitas», l’istinto sociale dell’uomo, alla base stessa d’ogni diritto di natura. Così facendo questi pensatori, questi «socialisti» finivano, secondo il polemista cattolico, col far astrazione da ogni elemento religioso nella loro visione della società, col guardare ad ogni atto umano unicamente dal punto di vista della società, lasciando cadere la rivelazione, la religione, la chiesa. In questo i «socialisti» sempre secondo lui, finivano col confondersi con gli altri «naturalisti», perfino con gli hobbesiani, che pur negavano la «socialitas», ma che concordavano con loro nella volontà di guardare unicamente ai beni terrestri, ai «commoda huius vitae»222 . Desing nulla sapeva di Shaftesbury e del 222 A NSELM D ESING, Juris naturae larva detracta compluribus libris sub titulo juris naturae prodeuntibus, ut puffendorfianis, heineccianis, wolffianis, etc., Monaco 1753, in tre volumi. Si veda la sua critica al concetto di «socialitas» vol. I, p. 25, I «naturales socialistae» e cioè Pufendorf e Cumberland ammettono essi stessi che la religione cristiana «donat socialitatem veram». Perché non la pongono dunque al centro delle loro dottrine? (Ibid., p. 69). In realtà: «Socialitas Puffendorfii caret capite, id est Deo» (p. 75). E altrettanto si può dire per tutti i «naturalistae» (p. 77). «Socialistae» e «naturalistae», invano tentano di distinguere tra il diritto naturale e la rivelazione. «Socialistae etiam religionem veram ac revelatam subjciunt ac subordinant fini societatis» (ibid., p. 87). Adopera spesso la parola «sociales» praticamente nello stesso senso di «socialistae» (ibid., p. 87 sgg.), concludendo che «sententia socialium non est apta ad refraenandos homines ab injustitia» (ibid., p. 97), che anzi «doctrina socialium potius ad evertendam societatem nata est» (ibid., p. 100). Essi hanno in comune con Hobbes l’idea che la legge naturale deve servire unicamente alla conservazione dei beni di questo mondo (ibid., p. 101). Cfr. I LDEFONS S TEG MANN , Anselm Desing Abt von Ensdorf, 1699-1772. Ein Beitrag zur Geschichte der Aufklärung in Bayern, München 1929. Sul problema della «socialitas» si veda J. N. H ERITUS, De so-

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suo entusiasmo sociale, Ma la sua parola «socialista» designava proprio quella corrente di pensiero che, laicizzata, moralizzata, aveva trovato la propria espressione nel filosofo e deista inglese. E la stessa parola, nel giro di pochi anni, era destinata a passare dal latino all’italiano, e ad essere usata, per la prima volta in volgare nel 1765, a proposito di Beccaria. Non designava ormai più soltanto chi poneva la socialità come un elemento costitutivo e primordiale dell’uomo, ma finiva fatalmente per indicare uno scrittore che voleva una società di liberi e di eguali e che si era ispirato a Rousseau. «Quasi tutto quello che avanza il nostro autore.., non è appoggiato che su i due falsi ed assurdi principî che tutti gli uomini nascano liberi e sianonaturalmente uguali»223 . Poveri e ricchi, docili e ribelli, forti e deboli, gli uomini erano tutt’altro che liberi e uguali, e proprio per questo avevano bisogno di una autorità che li guidasse, li punisse. A sua. volta questa autorità aveva necessità della tortura e della pena di morte per agire, così come aveva bisogno, a sua unica possibile giustificazione, di una suprema sanzione religiosa. Senza autorità, costrizione, subordinazione e religione ogni umana società era impensabile. Bastava fare il confronto con lo stato di natura per persuadersene. Anche nello stato di «primitiva, naturale libertà» era giusto uccidere per difendere la propria vita. Su questo, diceva Facchinei, anche «tutti i socialisti» erano d’accordo. Come immaginare che, con la creazione delle leggi, questo originario diritto venisse a cadere? Non era certo

cialitate primo naturalis juris principio dissertatio, in J. N. Hertii Commentariorum atque opuscolorum de selectis et rarionibus ex jurisprudentia universali, publica, feudali et romana, nec non historia germanica argumentis tomi tres, Frankfurt 1700, vol. I, pp. 88 sgg. 223 Riprodotto in B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., p. 173.

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possibile, «atteso il presente stato e condizione dell’umana natura, formare una società in cui non si trovi nessuno tanto iniquo che sia capace di ammazzare per qualunque motivo qualcuno de’ suoi consocii. Non credo ch’un socialista voglia essere tanto poco compiacente che non mi voglia accordare essere ciò impossibile»224 . L’istinto sociale non avrebbe mai prevalso abbastanza da rendere inutile la necessità di reprimere i delitti. Anche i socialisti sarebbero stati costretti ad accettare una simile constatazione. L’utopia era impossibile. Ma perché la pena di morte? Anche Beccaria si era rifiutato di fare sboccare l’istinto sociale, la «socialitas» nell’utopia. Ma, giunto di fronte alla forca, aveva indicato una diversa soluzione del problema. Nel disegno da lui schizzato ed inviato all’editore perché lo facesse incidere per la terza edizione dell’opera sua, nel 1765, si vedeva una giustizia che aveva le fattezze di una Minerva, fondendo in sé la legge ela sapienza, che allontanava da sé, con gesto orripilato, le teste mozze che le porgeva il boia, mentre volgeva invece i suoi occhi benevoli e sorridenti verso gli strumenti del lavoro, i badili, le seghe ecc225 . Alla pena di morte bisognava sostituire il lavoro forzato. Soltanto così la società avrebbe evitato di compiere un delitto giuridico e il delinquente avrebbe potuto pagare il suo debito allo stato. Questa sarebbe stata l’unica riparazione socialmente razionale e utile. Le implicazioni sociali di una simile soluzione si rivelarono a poco a poco, durante il dibattito che venne allarIbid., p. 168. F RANCO V ENTURI, L’immagine della giustizia, in «Rivista storica italiana», 1964, III, pp. 705 sgg con le aggiunte e correzioni di L UIGI F IRPO, Contributo alla bibliografia del Beccaria (Le edizioni italiane settecentesche del «Dei delitti e delle pene»), in Atti del convegno internazionale su Cesare Beccaria promosso dall’Accademia delle scienze di Torino (4-6 ottobre 1964), Torino 1966, pp. 329 sgg. 224 225

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gandosi, un po’ in tutta Europa, attorno all’opera di Beccaria. Chiedersi se il lavoro forzato era una risposta adeguata ai delitti non era soltanto domandarsi se esso poteva spaventare abbastanza i potenziali delinquenti, se esso era praticamente applicabile, se cioè esso rispondeva alle esigenze fondamentali di ogni repressione della criminalità. Non sul piano tecnico, penalistico si ebbero le risposte più significative a Dei delitti e delle pene. Si vide ben presto che Beccaria aveva voluto in realtà rispondere non soltanto alle esigenze di una umanizzazione e di un perfezionamento del diritto, ma che il suo pensiero mirava al centro stesso dell’umana società. Dalle riforme da lui proposte non fu difficile risalire di nuovo a quell’utopia potenziale dalla quale egli era partito. Già il padre Facchinei s’accorse che il lavoro forzato aveva un significato soltanto se esso fosse ben diverso dal lavoro libero, se la condizione del condannato risultasse sostanzialmente mutata rispetto a quella di chi doveva lavorare per guadagnarsi da vivere. Eppure, bastava guardarsi attorno per accorgersi, diceva, che questa distanza e differenza non esisteva e che tale era la miseria di chi lavorava da non rendere la sua situazione molto diversa da quella che Beccaria proponeva fosse assegnata ai forzati. «Dalla vita che menava l’immaginario assassino.., a quella dei schiavi non vi corre ch’un passo solo... Noi abbiamo davanti agli occhi l’esempio di moltissimi che menano spontaneamente una vita più dura della più dura schiavitù»226 . Tra la condizione dei forzati e quella dei poveri tendeva a scomparire ogni differenza. Era la società stessa, non il giudice, a condannare i miserabili alla condizione in cui essi si trovavano. La discussione prese ben altra ampiezza quando, nel 1766, il libro di Beccaria venne pubblicato nella versione francese di Morellet e quando l’autore, nell’autunno 226

B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., pp. 172-73.

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dello stesso anno, si recò a Parigi a ricevere gli elogi dei philosophes. Anche qui, lasceremo da parte la discussione tecnica suscitata in Francia, pur così vivace e varia. In fondo non era questo il compito di uomini come Morellet o Diderot, Voltaire o d’Holbach. Quel che più importa è la loro reazione di fronte al dilemma utopia o riforma che essi in vario modo sentirono presente nelle pagine di Beccaria. D’Alembert fu impressionato dall’intrecciarsi, in quel libro, di logica, di precisione «et, en même temps, de sentiments e d’humanité»227 . Ragione e sentimento, polarità che colpiva ognuno, che era l’aspetto più visibile di tutto l’atteggiamento di Beccaria di fronte alla società, del suo «socialismo» e del suo utilitarismo. Melchior Grimm non fu sordo all’appello riformatore che pagina dopo pagina lo scrittore milanese sembrava rendere più intenso e più pressante. Dopo quest’opera, diceva, era indispensabile «remédier à la barbarie froide et juridique de nos tribunaux»228 . Morellet si sforzò di trasformare Dei delitti e delle pene, traducendolo, in un vero e proprio Traité, in un sistema giuridico capace di essere la base di un nuovo codice. Beccaria aveva avuto certo il merito, con il suo «amour de l’humanité» e la sua «sensibilité tendre» d’aver portato «l’émotion dans l’âme de ses lecteurs». «Malheur aux hommes froids qui pourroient parler sans enthousiasme des interéts de l’humanité: pourvu que cet enthousiasme ne nuise point à la solidité des raisons et qu’en se livrant aux mouvemens d’une éloquence séduisante on ne s’écarte pas du che227

Ibid., p. 312, lettere di d’Alembert a Frisi, del 9 luglio

1765. 228 Ibid., p. 320, tratto da un articolo della Correspondance littéraire dove si trova, alla data del I agosto 1765, nel vol. VI dell’edizione di Maurice Tourneaux, Paris 1878, pp. 329 sgg.

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min de la vérité»229 . In realtà, secondo Morellet, Beccania era precisamente caduto in un simile errore. Bisognava riordinare quel libro secondo una disposizione più logica, più classica, più sistematica. E così egli fece, attirandosi una vera maledizione da parte di Diderot, che l’accusò di aver ucciso quel libro, d’aver distrutto il ritmo stesso che ne era la vita, con l’introdurre «le protocole de la méthode dans un morceau où les idées philosophiques, colorées, bouillantes, tumultueuses, exagerées conduisent à chaque instant l’auteur à l’enthousiasme». Perché non rispettare, nella traduzione, quelle «dissonances morales» che facevano passare l’autore «de la fureur au calme», per poi tornare dalla ragione all’entusiasmo?230 . La discussione, anche sul terreno stilistico, fu ampia in quegli anni, al di qua e al di là delle Alpi. Né par dubbio che rivelasse, anche in questo modo, la realtà più profonda del pensiero e della personalità di Beccaria. Rousseau ed Helvétius, sentimento e calcolo riaffioravano, come i contemporanei non poterono non vedere, nel modo stesso, nelle parole e nelle frasi con cui egli aveva espresso il suo pensiero231 . Voltaire era troppo impegnato nella sua battaglia contro le ingiustizie e le crudeltà dei Parlamenti per risalire all’origine del libretto che egli tanto ammirava. Né queste fonti sarebbero state di suo gradimento, se si fosse soffermato ad esaminarle. La tentazione e la tensione 229 B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., p. 330. La versione di Morellet, sotto il titolo di Traité des délits et de: peines, traduit de l’Italien d’après la troisième édition, revue, corrigée et augmentée par l’auteur, avec des additions de l’auteur qui n’ont pas encore paru en Italien, apparve a Parigi, con l’indicazione di Lausanne, nel 1766. 230 Ibid., p. 405, tratto dalle Œuvres complètes cit. di Diderot, vol. IV, pp. 60 sgg. 231 Ibid., pp. 205 sgg.

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dell’utopia non era fatta per lui. Accettò Beccaria per ciò che questi affermava contro il disordine e l’orrore della giurisprudenza. Incaricò un avvocato suo conoscente di Besançon, Christin de St. Claude, di esaminare e sviluppare la parte più propriamente tecnica, adattandola alla situazione francese. V’aggiunse numerose pagine di vigorosa polemica e pubblicò il tutto, nel 1766, in gran fretta, sotto il nome di Commentaire. Opera destinata a diventare famosa, a diffondersi dappertutto (tra l’altro, è la prima opera di Voltaire stampata al di là dell’oceano, nelle colonie inglesi)232 . Rileggerlo dopo aver terminato Dei delitti e delle pene, in una delle tante edizioni che accomunarono questi due scritti nel loro destino, è un’esperienza utile per capire quel che avevano in comune e quello in cui differivano gli uomini dei lumi a metà degli anni ’60. Particolarmente caratteristico è il paragrafo sulla pena di morte. Voltaire non s’impegna a fondo nel chiedere la sua abolizione. Per lui è più una questione d’umanità e d’opportunità che di principio. «Il est évident que vingt voleurs vigoureux, condamnés à travailler aux ouvrages publics toute leur vie servent l’état par leur supplice et que leur mort ne fait du bien qu’au bourreau que l’on paie pour tuer les hommes en public». Le implicazioni sociali del problema sono evitate e sostituite da una generica fiducia nel valore morale del lavoro. «Forcez les hommes au travail, vous les rendrez honnê232 M ARCELLO T. M AESTRO, Voltaire and Beccaria as reformers of criminaal law, New York 11942; I RA O. W ADE, The search for a new Voltaire. Studies in Voltaire based upon material deposited at the American Philosophical Society, in «Transaction of the American Philosophical Society», nuova serie, vol. XLVIII, parte IV, luglio 1958, pp. 86 sgg.; P AUL M. S PURLIN, Beccaria’s essay on crimes and punishments in eighteenth century America, in «Studies on Voltaire and the eighteenth century», vol. XVII, pp. 1489 sgg.

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tes gens»233 . In Voltaire la lotta contro il male, la crudeltà, l’ingiustizia è sempre puntuale, tutta concentrata in questo o quell’aspetto concreto. Non porta a generalizzazioni di principio. Anche la corrispondenza che egli ebbe con Beccaria ne è una riprova. Voltaire tende sempre a trascinarlo nelle sue battaglie, a farne un suo alleato contro i giudici che hanno condannato Calas o La Barre. «De quelque côté qu’on jette les yeux, on trouve la contrariété, la dureté, l’incertitude, l’arbitraire». In mezzo a questo caos legislativo egli si muoveva meglio di ogni altro e sapeva combattere con armi taglienti, precise, aggiustate. Quando poi rifletteva al significato generale della sua battaglia, come ad esempio nelle righe conclusive di questo Commentaire, egli vedeva di fronte a sé un perfezionamento della giurisprudenza piuttosto che un’opera di trasformazione stessa della società da compiere attraverso un nuovo codice di leggi. «Nous cherchons dans ce siècle à tout perfectionner, cherchons donc à perfectionner les loix dont nos vies et nos fortunes dépendent»234 . E quando, in mezzo alla sua lotta quotidiana, egli alzava gli occhi a guardare più lontano, l’obiettivo della sua polemica diventava la religione. «Quelle abominable jurisprudence que celle de ne soutenir la religion que par des bourreaux – scriveva a Beccaria il 30 maggio 1768 – Voilà donc ce qu’on appelle une religion de douceur et de charité!»235 . Più difficile è cogliere la posizione di Diderot. I documenti stessi sui quali dobbiamo fondarci per interpreta233 B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., p. 374, tratto dal Commentaire sur le traité Des délits et des peines, § X, De la peine de mort. 234 B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., p. 379, § XXIII, Idée de quelque reforme. 235 Ibid., p. 451, tratta dalla Correspondance, a cura di T. Besterman, vol. LXIX, pp. 1599 sgg., n. 14 090.

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re il suo pensiero a questo proposito sono incerti e alcune almeno delle postille all’opera di Beccaria che gli sono tradizionalmente attribuite non possono non suscitare parecchi dubbi sulla loro autenticità236 . A casa del barone d’Holbach, nella Correspondence littéraire del suo amico Grimm e con il pittore Allan Ramsay egli discusse animatamente di questi problemi. Quando quest’ultimo gli mandò una lettera di confutazione delle basi stesse del libro di Beccaria, Diderot si affrettò a tradurla e a farla circolare237 . La confutazione dell’artista scozzese era radicale. Non la natura dell’umana società bisognava indagare per stabilire una giusta legge penale. Alle forme politiche concrete d’ogni paese era necessario rifarsi e da esse trarre anche le armi per la lotta contro i criminali. La sua visione voleva essere realistica, per così dire machiavellica, fondata tutta sul riconoscimento della forza, della necessità, del caso come fondamento d’ogni governo. Gli sembrava di riconoscere nell’opera di Beccaria i caratteri tipici dell’utopia: «tout ouvrage spéculatif, tel que celui Dei delitti e delle pene, rentre dans la catégorie des utopies, des républiques de Platon et autres politiques idéales, qui montrent bien l’ésprit, l’humanité et la bonté d’âme des auteurs, mais qui n’ont jamais et n’auront jamais aucune influence actuelle et présente sur les affaires...». Radicale era la sua sfiducia nella capacità riformatrice della filosofia. A nulla serviva gridare la propria indignazione. A meno ancora criticare. I fatti, il destino dominavano il mutamento delle umane cose. «Les cris des sages et des philosophes sont les cris de Ibid., pp. 397 sgg. Ibid., pp. 543 sgg., tratto da D. D IDEROT, Correspondance, a cura di George Roth, vol. V, Paris 1959, pp. 244 sgg. Si veda una non molto diversa versione in D IDEROT, Œuvres complètes cit., vol, IV, pp. 52 sgg. Cfr. A LASTAIR S MART, The life and art of Allan Ramsay, London 1952. 236 237

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l’innocent sur la roue, où’ ils ne l’ont jamais empêché et jamais ne l’empêcheront d’expirer, les yeux tournés vers le ciel... Ce n’est jamais la harangue du sage qui désarme le fort: c’est une autre chose, que la combinaison des évènements fortuits amène»238 . Né il grido, né il ragionamento servivano a nulla. Utopia e riforma cadevano insieme di fronte a questo disperato scetticismo, a questa implacabile freddezza. È difficile dire fin dove Diderot, che pure al pensiero di Hobbes guardò spesso con grande interesse, potesse essere influenzato da questa lettera di Allan Ramsay. Possiamo al massimo ammettere che il crudo realismo di quest’ultimo lo aiutò a compiere un passo di più verso il tentativo di liberarsi dal senso di colpa che la tortura, la pena di morte, la crudeltà della società avevano ispirato a Beccaria, sospingendolo in qualche modo verso un più distaccato e freddo giudizio sull’origine e la natura del diritto di punire, sull’incidenza stessa che poteva avere una buona o cattiva legge penale. La società era dominata dalla volontà di mantenersi al potere di chi governava. Le pene non erano mai state inflitte in proporzione del danno portato dal delitto, «mais en raison de la sécurité des maîtres»239 . In questa lotta perpetua, quale era la parte dei mali derivante dall’apparato giudiziario rispetto a quelli che traevano origine dal caso, dall’incuria, dalla pura e semplice disorganizzazione? «Il y a environ dix-huit millions d’hommes en France, on ne punit pas de peine capitale trois cents hommes par an dans tout le royaume; c’est-à-dire que la justice criminelle ne dispose par an de la vie d’un seul homme sur soixante mille; c’est-à-dire qu’elle est moins funeste qu’une tuile, un grand vent, les voitures, une catin malsaine, la plus frivole des passions, un rhume, un mauvais, B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., p. 545. Ibid., p. 407, tratto dalle Œuvres complètes cit. di Diderot, vol. IV, pp. 60 sgg. 238

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même un bon medecin...»240 . Simili pensieri Diderot ripeté pochi anni dopo anche a Caterina, nelle sue Observations sur le Nakaz: «Je ne prétends point à ôter au Traité des délits et des peines le caractère d’humanité qui lui a mérité un si gran succès. Je fais autant de cas que personne de la vie des innocents et mes opinions particulières ne peuvent que m’inspirer la plus grande commisération pour les coupables. Cependant je ne puis m’empêcher de calculer»241 . Diderot non intendeva evidentemente, e lo dice egli stesso, giustificare in alcun modo la crudeltà della giustizia tradizionale. Intendeva invece attirare l’attenzione sulla «multitude d’inconvénients qui sont bien autrement graves et auxquels on ne donne aucune attention»242 . Potremmo dire che la coscienza sociale, che si concentrava in Beccaria attorno alle carceri e alle forche, tendeva in Diderot a disperdersi su tutti gli aspetti dell’umana convivenza. E, data la sua volontà di maggiore distacco, il «socialismo» tendeva a diventare «sociologia», se vogliamo adoperare termini che sono appena troppo moderni e recenti, essendo l’uno già in uso, come abbiamo visto, e cominciando ad affermarsi la nuova scienza sociologica proprio in quegli anni, tra la Scozia e il continente. Ma non rischiava Diderot di sminuire e smorzare così ogni volontà riformatrice? Se lo chiedeva anche lui. Tornava sui propri pensieri, in dubbio, per poi giustificarli finalmente con l’affermazione che una verità era sempre bene dirla apertamente. Ma anche questo non sembrava risolver la questione. In realtà in Francia, malgrado Voltaire, malgrado l’influenza di Beccaria, malgrado la buona volontà dei filosofi, la riforma del diritto penale proIbid.. D IDEROT, Œuvres politiques, a cura di Paul Vernière, Paris 1963, p. 395, Observations sur le Nakaz, § LXII. 242 Ibid., p. 398. 240 241

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cedette lenta ed incerta nel quarto di secolo che seguì la pubblicazione di Dei delitti e delle pene. La Francia tardò ad abolire la tortura, non seguì l’esempio toscano nel ricusare completamente la pena di morte, non procedette ad una nuova codificazione, mantenne un regime carcerario crudele. Le ragioni sono molte e vanno cercate nel potere dei Parlamenti, nell’importanza politica, come forza autonoma e di opposizione, che essi andarono prendendo in quegli anni, casi come, evidentemente, nel crescere della pericolosità sociale degli elementi plebei e contadini, mendicanti e briganti nella Francia della fine dell’antico regime. Gli storici moderni, da George Lefebvre a G. Rudé, hanno posto l’accento su questa spiegazione sociale e politica, descrivendoci e facendoci conoscere sempre più dettagliatamente la situazione delle classi e dei gruppi nelle campagne e nelle città. Partendo da una concezione sociologica questi storici sono giunti a scoprire una realtà che Diderot aveva intuito, a portare il calcolo là dove egli aveva chiesto venisse utilizzato243 . Ma ora che conosciamo così bene tutte quelle cifre, dobbiam pure riporci il problema se quel ritardo nella trasformazione della Francia non derivasse pure, almeno in non piccola parte, proprio da quella sfiducia nelle riforme parziali, da quella svalutazione dei problemi del codice penale, da quella convinzione. che finì col prevalere tra i philosophes secondo la quale soltanto una trasformazione completa, integrale della società avrebbe reso possibili quei miglioramenti che Beccaria invocava scrivendo il suo libro. L’utopia d’una transmutazione totale 243 Di Georges Lefebvre basterà ricordare Les paysans du Nord pendant la Révolution française (1924), La grande peur, 1789 (1932), così come i numerosi ulteriori lavori suoi e della sua scuola, che hanno rinnovato la nostra conoscenza della società francese al tramonto dell’Antico regime. Di Georges Rudé si veda soprattutto The crowd in history, 1730-1848, New York-London 1964.

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della società riappariva in altra veste, in forma di calcolo sociologico, di delusione di fronte all’incapacità del governo francese, di rivolta e di speranza, ancora una volta congiunte e unite. Già Diderot era parso cedere su un punto decisivo. L’uomo ucciso da una delle tante cause sociali, dalla prostituzione o dalle carrozze, egli aveva scritto, «peut être un fripon ou un homme de bien, au lieu que celui qui tombe sous le glaive de la justice est au moins un homme suspect, presque toujours un homme convaincu et dont le retour à la probité est desespéré»244 . Diderot finiva così col disperare della possibilità di salvare chi era sulla via del delitto. Secondo Beccaria invece, non le categorie sociali dovevano guidare la giustizia e neppure quelle morali, quali che fossero, ma la pura e semplice volontà di non uccidere, di non proseguire così la lotta dello stato di natura, di non spezzare in tal modo le basi stesse d’una convivenza sociale quale egli la concepiva. L’abbandono di questa concezione beccariana sembra aver suscitato nei philosophes parigini una sorta di eruzione di paradossi, d’aver sbrigliato la loro fantasia sociale. È tradizionalmente attribuita a Morellet, ad esempio, l’idea, che forse sarebbe più ovvio attribuire a Diderot, di fare dei forzati dei veri e propri schiavi i quali, come tali, sarebbero stati «employés à la propagation du genre humain». I loro figli sarebbero stati «élévés avec soin dans les lieux destinés à celà». Ciò avrebbe avuto, oltre il vantaggio economico di moltiplicare la mano d’opera, quello scientifico di dimostrare la falsità del «préjugé de la transmissibilité des vices». Il filosofo scatenato che così ragionava non mancava neppure di pensare che si sarebbero dovuti punire questi forzati nella loro stessa funzione di riproduttori, riuscendo ad «attacher plus ou 244 B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., p. 407, tratto dalle Œuvres complètes cit. di Diderot, vol. IV, pp. 60 sgg.

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moins à l’acte même du plaisir, à la douceur de devenir pères, l’humiliation et l’amertume»245 . È questo uno degli aspetti più paradossali e strani di tutta la casistica settecentesca sulle diverse forme che avrebbe dovuto assumere la repressione dei delitti, una volta scartata la tortura e la pena di. morte. Si sarebbe quasi tentati di affermare che l’immaginazione punitiva, la quale per secoli si era spiegata nell’inventare sempre nuovi tormenti, nuove ruote e tenaglie, più complesse e spettacolari forme per squartare e fare a pezzi i delinquenti, si riversasse ora nei canali che il nuovo utilitarismo, il nuovo calcolo sociale, la nuova concezione dei rapporti tra l’individuo e la società sembrava imperiosamente indicare. Già Maupertuis aveva proposto di servirsi dei condannati per eseguire su di loro delle esperienze mediche e l’idea venne riproposta, in Italia, allo stesso Beccaria, dal maggiore economista del Settecento piemontese, Giambattista Vasco246 . Le modalità del lavoro forzato, onde renderlo sempre più efficace ed esemplare, furono il campo preferito di simili speculazioni. Nella stessa legge toscana del 1786, il primo codice che abolisse completamente la pena di morte, è non poco curioso leggere gli articoli che riguardano i lavori forzati247 . Nei più diversi angoli d’Europa si fece a gara per organizzare i condannati in modo da dar ragione a Beccaria, per renderli più utili alla società e a se stessi. Tutta la discussione sui lazzaretti e le carceri, da Howard a Bentham, fu, negli ultimi anni del Settecento, un altro tipico punto di incontro d’una auIbid., p. 390. P IERRE -L OUIS M OREAU D E M AUPERTUIS, Lettre sur le progrès des sciences (1752), in Œuvres, Lyon 1756, tomo II, pp. 375 sgg., § II, Utilités du supplice des criminels, e B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., p. 211 sgg., lettera di Giambattista Vasco a Beccaria, del 31 gennaio 1768. 247 Ibid., pp. 258 sgg. 245 246

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tentica, profonda filantropia illuministica e d’un nuovo calcolo economico con qualcosa di più inquietante, con una antica crudeltà che veniva a rivestire forme nuove e più razionali. Né mancarono, in Francia, coloro che ripresero e svilupparono gli argomenti ai quali già Facchinei aveva cominciato ad accennare contro le pene che avrebbero dovuto sostituire quella capitale, contro la proposta beccariana del lavoro forzato. Il «Journal œconomique» e il «Mercure de France» del 1770 pubblicavano un Fragment d’une lettre de M. Linguet à l’auteur du Traité des délits et des peines. Gli pareva vederseli di fronte agli occhi, quei forzati. «Il faut des gardes à vos prisonniers, il faut des alimens; nourissez-les mal, en les accablant de fatigues, ils périront bientôt; il n’y aura de changé que le nom et l’appareil de la peine, car ce sera toujours vous qui les aurez tués». Il lavoro forzato appariva come un’ipocrisia soltanto, di chi si rifiutava di guardare in faccia la pena di morte. Questa, e questa soltanto era la extrema ratio. Soltanto le forche avrebbero fermato i ricchi e nobili dall’esercitare il loro «droit de commettre des crimes sans inquiétude... Votre douceur seroit l’appas du crime. Il ne resteroit à la chaine que les criminels les plus indigens, les plus dépourvus de ressources et par conséquent les plus excusables suivant vos principes»248 . Il vero problema non stava nelle forche, e nei lavori forzati ma in una società divisa in miseri e opulenti, in oppressi e oppressori. Fin quando questa fosse esistita, l’umanitarismo prematuro, l’indulgenza fuori stagione facevano soltanto il gioco dei ricchi e dei potenti. I poveri, gli oppressi avevano ancora bisogno di protezione, e questa non poteva venire, come Linguet spiegò poi in numero248 B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., p 454, tratto dal «Journal œconomique», aprile 1770, pp. 171 sgg. e dal «Mercure de France», luglio 1770, pp. 139 sgg.

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se sue altre opere di quegli anni, che da un forte e magari dispotico potere centrale. La discussione sul lavoro forzato andò poi allargandosi in tutta Europa e rivestendo spesso le forme d’un calcolo sempre più duro e spietato sull’utilizzazione della mano d’opera dei condannati o richiamando invece i legislatori, come fece Šˇcerbatov in Russia, al dovere di non mascherare sotto il nome di lavori forzati o della pena dello knut una esecuzione capitale peggiore di quella che si era voluta formalmente abolire249 . Il dibattito mise tutti di fronte ai fatti e ai problemi che non potevano non nascere il giorno in cui si fosse effettivamente cercato di far passare nelle cose Dei delitti e delle pene. Giuseppe Gorani tentò di rispondere a Linguet rifacendosi a Montesquieu e fondandosi sull’idea che la tolleranza e la giusta proporzione delle pene avrebbero finito col diminuire il numero e la crudeltà dei delitti. La dolcezza delle pene era la migliore prevenzione. Una giustizia meno armata avrebbe visto un sempre minor numero di delinquenti. In ultima analisi, le riforme avrebbero migliorato la società250 . Ma l’idea che la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale rendessero vane queste speranze finì sempre più col dominare, col soverchiare questo dibattito. Nessuno lo disse più energicamente di Mably nella sua opera De la légi249 Si veda soprattutto L EON R ADZINOWICZ, A history of criminal law and its administration from 1750, vol. I, The mouvement for reform, London 1948; J AMES H EATH, Eighteenth century penal theory, Oxford 1963; G USTAV R ADRUCH, Elegantiae juris criminalis. Vierzeln Studien zur Geschichte des Straˇ frechts, Basel 1950; M. M. Š CERBATOV , Soˇcinija, a cura di I. p. Chrušˇcëv, Pietroburgo 1898, vol. I, pp. 427 sgg. 250 B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., pp. 458 sgg., tratto da G IUSEPPE G ORANI, Il vero dispotismo, Londra (ma Ginevra) 1770, vol, II. p. 227.

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slation ou principes des loix, pubblicata nel 1776, l’anno della caduta di Turgot, l’anno decisivo per le sorti delle riforme illuministiche in Francia251 . Al centro di questo libro stava un dialogo tra «deux hommes d’un mérite rare, l’un suédois et l’autre anglois», distintisi ambedue «dans les assemblées de leurs pays». L’inglese rappresentava il patriottismo e la filantropia britannica, lo svedese sosteneva i principî dell’uguaglianza e la più austera e rigida morale politica. Ambedue partivano dal presupposto che «la nature invitoit les hommes à la communauté des biens», ma che gravissimi erano gli ostacoli che si frapponevano al «rétablissement de l’égalité». Come pensare di poter abbandonare la pena di morte, come sognare di rendere meno gravosi i lavori forzati, le carceri? Quando la società, fatta per esser comunista, non riusciva ad esserlo, tutto costringeva l’uomo alla triste, tragica necessità di stabilire delle dure leggi penali, d’infliggere al proprio simile le più terribili punizioni. «Voilà ce que c’est que d’avoir établi cette propriété qui a fait naître tant de vices dans le monde et qui force presque le législateur à être barbare. Il est vraisemblable que si les hommes avoient vécu dans cette heureuse communauté de biens que je regretterai éternellement, leurs passions sages, prudentes et tranquilles sans effort, n’auroient pas eu besoin d’être reprimées par cette sévérité terrible dont la justice est aujourd’hui obligée de s’armer». Ma ormai non c’era più nulla da fare: l’utopia era tramontata. Restava il duro realismo, l’accettazione delle leggi d’una società ingiusta. Ogni speranza di riforma era un’illusio251 B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., pp. 469 sgg., tratto da G ABRIEL B ONNOT D E M ABLY, De la législation ou principes des loix, Amsterdam 1776, vol. II, pp. 92 sgg., libro III cap IV Que le législateur doit faire aimer ses loix. Les châtimens doivent être doux. Du pouvoir des bonnes mœurs pour attacher les citoyens au gouvernement.

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ne. Ogni indulgenza ai «beaux sentimens d’humanité», ogni rifiuto della pena di morte, ogni tentativo di sostituirla con altre diverse pene somigliava in realtà «à cette cruauté sublime de Tibère que ne faisoit mourir ses ennemis que quand il avoit épuisé tous les moyens de les tourmenter». Perché torturare la gente nei lavori forzati, costringendo i guardiani a diventare dei mostri, sperando che i condannati si sarebbero umiliati a servir d’esempio al prossimo, mentre essi ritrovavano la loro dignità soltanto in una ribalda fierezza? «Il n’y a pas quinze jours que je rencontrai une bande de malheureux qu’on envoyoit aux galères... Ils chantoient de toute leur force...» Meglio era accettare la necessità ineliminabile del diritto di punire, quando l’uomo non era in grado di ristabilire la comunità dei beni. Meglio non chiudere gli occhi di fronte al patibolo. Così gli uomini degli anni ’70 e ’80 in Francia si andarono preparando alla rivoluzione. Le vie erano molte, e varrebbe la pena di seguire quella, ad esempio, di Brissot de Warville, anch’egli in appassionata discussione con le idee di Beccaria in quegli anni252 . Basta aprire l’Encyclopédie méthodique nel volume sull’Economie politique pubblicato nel 1788, là dove si discuteva De la peine de mort, per cogliere questa suprema stanchezza di fronte alle riforme, questo scetticismo ormai e realismo trionfante, subito prima che avesse inizio la rivoluzione. Momento di bonaccia prima della tempesta, equilibrio apparente prima che si riaprisse in Francia e in Europa un nuovo ciclo nei contrasti e nei rapporti dell’utopia e della riforma. 252 B ECCARIA, Dei delitti e delle pene cit., p. 500 sgg., si vedano soprattutto, di Brissot di Warville, le Recherches philosophiques sur le droit de propriété et sur le vol, considérés dans la nature et dans la société (1780) e la Théorie des loix criminelles (1781).

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Capitolo quinto Cronologia e geografia dell’illuminismo

Un problema politico, la tradizione repubblicana, e un problema giuridico e morale, il diritto dl punire ci hanno condotti là donde mille strade sembrano dipartirsi, invitandoci a conoscere l’illuminismo in tutti i suoi più diversi aspetti. Ma l’invito deve rimanere aperto, né mancano fortunatamente oggi molti che per questa ricerca sono pronti a rimettersi in cammino. Noi dovremo invece, concludendo, guardare all’Europa dei lumi nel suo assieme, cercando di coglierne il ritmo e di fissarne i confini. Ho tentato una decina d’anni fa di far qualcosa di simile in un rapporto al Congresso degli storici che si tenne a Stoccolma nel 1960253 . Forse potrà esser utile dir qui a voce alta i dubbi e i ripensamenti, le aggiunte e le correzioni che mi hanno suggerito i molti studi apparsi nell’ultimo decennio ed anche le ricerche che ho potuto compiere io stesso, soprattutto sull’Italia del Settecento. I molti saggi di storia economica del XVIII secolo forniscono ancora un quadro molto disuguale a seconda delle varie zone e dei diversi paesi dell’Europa di quell’età. Possiamo conoscere molto bene certi aspetti di quella realtà, mentre numerosi altri restano nell’ombra. Ma, anche se gli strumenti che abbiamo a disposizione sono gravemente disuguali e talvolta mancano addirittura, non è più possibile, a mio parere, evitare la domanda che ogni studioso del XVIII secolo deve ormai porsi, fin dove cioè il trend generale dell’economia francese descrit253 F RANCO V ENTURI, L’illuminismo nel settecento europeo, in XI Congrès international des sciences historiques, Rapports, vol. IV, Histoire moderne, Göteborg-Stockholm-Uppsala 1960, pp. 106 sgg.

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toci da Labrousse sia valido, pur con tutte le variazioni locali, anche per il resto del continente254 . A un periodo di espansione che corrisponde al primo quarto del secolo, fanno seguito la depressione degli anni ’30, la ripresa degli anni ’40 e un periodo d’espansione che dura fino al 1770 circa, per poi essere sostituito da un periodo di alti e bassi che sfocia sugli anni della rivoluzione. Verificare un simile trend fuori della Francia è spesso difficile. Là dove lo spezzettamento politico è grande, come in Italia o in Germania, la piccolezza dei mercati locali tende ad offuscare le linee generali dell’andamento economico. In altri paesi, come in quelli dell’oriente europeo, la permanenza della servitù contadina dà a tutta l’economia una forma diversa come anche i recenti studi di Witold Kula hanno confermato255 . In Inghilterra l’inizio della rivoluzione industriale muta anch’esso profondamente la situazione256 . E così potremmo continuare parlando delle terre più diverse. Eppure, malgrado tutto, par difficile non riconoscere un ritmo comune, al di là delle differenze locali. Ogni volta che si riguarda la curva che Labrousse ha tracciato del prezzo del grano in Francia, ogni volta che si constata l’aumento della popolazione europea nel Settecento, è impossibile non dirci che è tutta la società e non soltanto il movimento delle idee e della politica ad essere in espansione all’inizio del secolo, ovunque in crisi negli anni ’30, trovare il suo apice negli anni ’50 e ’60, per poi entrare in un periodo di profondo 254 C. E. L ABROUSSE, Esquisse du mouvement des prix et des revenus en France au XVIIIe siècle, Paris 1932 e G. L EFEBVRE, Le mouvement des prix et les origines de la Révolution française, in «Annales d’histoire économique et sociale», vol. IX, 1937, pp. 139 sgg. 255 W ITOLD K ULA, Teoria economica del sistema feudale. Proposta di un modello, Torino 1970. 256 M ATHIAS, The first industrial nation cit.

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turbamento, nell’ultimo venticinquennio del secolo. È la curva del Settecento, ed è quella dell’illuminismo. Ma se questo è vero, non meno vero è che le situazioni locali differenziano questo ritmo, creando punte e ritardi, immobilismi e brusche avanzate. Prendiamo il momento dell’inversione del trend, gli anni ’30 e ’40, e guardiamo quel che avviene nei diversi paesi. Nella penisola iberica gli economisti tornano a riproporre i programmi e le idee che si erano elaborati durante la guerra di successione spagnola o nel periodo immediatamente successivo, quando le condizioni fatte al paese col trattato di Utrecht avevano suscitato non soltanto un tentativo di rivincita, ma un movimento di riforma interna, L’opera di Uztàriz, pubblicata una prima volta nel 1724, viene ristampata e ben più largamente diffusa nel 1742257 . Come soggiunge Richard Herr nel suo The eighteenth-century revolution in Spain, «two other writers, Bernardo de Ulloa and the minister of finance José del Campillo y Cossio joined Uztàriz about 1740 urging the need to increase Spain’s manufactures, commerce and population»258 . Accanto al razionalismo di Feijòo e al giurisdizionalismo di Macanaz rinasceva così la volontà di una riforma economica259 . In Italia gli anni ’30 sembrano il punto più basso della crisi politica, economica ed intellettuale un po’ ovunque nel paese. Giannone è in carcere. Radi257 G ERÒNIMO D E U ZTÀRIZ, Theòrica y practica de comercio y de marina, Madrid 1724, 1742, 1757. Cfr. J. H AMILTON, The mercantilism of Gerònimo de Uztàriz: A reexamination, in Economics, sociology and the modern world. Essays in honour of T. N. Carver, a cura di Norman E. Himes, Cambridge (Mass,) 1935, pp. 111 sgg. 258 R ICHARD H ERR, The eighteenth century revolution in Spain, Princeton 1958, p. 48. 259 J EAN S ARRAILH, L’Espagne clairée de la seconde moitié du XVIIIe siècle, Paris 1954 e J. V ICENS V IVES, Manual de historia economica de España, Barcelona 1959.

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cati muore in esilio. La volontà riformatrice di Vittorio Amedeo II andava riducendosi, immiserendosi a Torino. Il viceregno austriaco era sempre più debole a Napoli. La politica papale non sembrava essere mai stata altrettanto fragile. Tuttavia, malgrado la guerra di successione austriaca, tra il 1740 e il 1748, i sintomi di ripresa sono evidenti. I grandi anziani, Muratori e Maffei, si volgono sempre più ai problemi della società, discutono delle usure, del ritmo del lavoro, della pubblica felicità. Sallustio Bandini apre la via ai liberisti toscani. Carlantonio Broggia, nel 1743, scrive il principale trattato di materia economica che fosse pubblicato in Italia prima del Della moneta di Galiani, che è del 1751260 . In Austria e in Prussia, la data del 1740 segna l’inizio di un’epoca nuova, con l’avvento di Maria Teresa e di Federico II261 . In Francia, con gli anni ’40, è tutto un fermento intellettuale nuovo che appare. I manoscritti antireligiosi si moltiplicano, ed alcuni trovano perfino la via delle stampe. Attraverso le opere di Bacone, di Shaftesbury, di Barkeley, è il pensiero inglese che si riversa sulla Francia. Si viene formando rapidamente quel gruppo di giovani che creeranno l’Enciclopedia e che daranno il tono a tutto l’illuminismo francese, Diderot e Rousseau, La Mettrie e d’Holbach, d’Alembert e Raynal, Mably e Condillac. Le Pensées philosophiques di Diderot sono del 1746 e del 1748 V ENTURI, Settecento riformatore cit. E DUARD W INTER, Der Josefinismus und seine Geschichte. Beiträge zur Geistesgeschichte Osterreichs. 1740-1848, Brünn-München-Wien 1943 e M ANFRED S CHLENKE, England und das friderizianische Preussen 1740-1763. Ein Beitrag zum Verhältnis von politik und öffentlicher Meinung im England des 18 Jahrhunderts, München 1963. Cfr. W ERNER K RAUSS, Studien zur deutschen und französischen Aufklärung, Berlin 1963. 260

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è l’Esprit des loix, che chiude tutta una età, per aprirne un’altra262 . La tendenza generale pare evidente. Ma abbiamo il diritto di accostare fatti tanto diversi e tanto disparati? Le diversità locali non sono più importanti degli elementi comuni? Se avviciniamo gli occhi alla pittura, se esaminiamo più da vicino e più in dettaglio la situazione in Spagna, in Italia, a Vienna a Berlino e a Parigi, dovremo tuttavia concludere che i fili che collegano questi e tanti altri simili elementi sono più numerosi e più solidi di quanto non appaia in un primo momento, che la circolazione delle idee è più intensa di quello che avremmo potuto sospettare, che le speranze e le aspettative si volgono verso una medesima direzione, che effettivamente assistiamo all’emergere dell’Europa dei lumi. Non siamo più di fronte alla crisi della coscienza europea dell’inizio del secolo. Né d’una continuazione delle dispute fra deisti e antideisti, fra giansenisti e molinisti, tra lassisti e rigoristi, tra regalisti e curialisti, tra le diverse scuole nate dal razionalismo cartesiano o dalle diverse correnti del diritto di natura. Qualcosa di nuovo stava nascendo. Dalla Frühaufklärung stiamo passando all’Aufklärung263 . 262 I RA O. W ADE, The clandestine organization and diffusion of philosophic ideas in France from 1700 to 1750, Princeton 1938; F RANCO V ENTURI, Jeunesse de Diderot, Paris 1939; P AUL V ERNIÈRE, Spinoza et la pensée française avant la révolution, Paris 1954; V ENTURI, Le origini dell’Enciclopedia cit.; J. T. D E B OOY, Histoire d’un manuscrit de Diderot: «La promenade du sceptique», Frankfurt am Main 1964; J OHN L OUGH, Essays on the ’EncyclopédiÈ of Diderot and d’Alembert, Oxford 1968; A critical bibliography of French literature, vol. IV, The eighteenth century, Supplement, a cura di Richard A. Brooks, Syracuse 1968. 263 E DUARD W INTER, Frühaufklärung. Der Kampf gegen den Konfessionalismus in Mittel-und Osteuropa und die deutschslawische Begegnung, Berlin 1966.

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Dai problemi religiosi e morali stiamo volgendoci a quelli politici e sociali. Da quelli legali a quelli economici. Dal sistema filosofico alla sperimentazione. Dal pirronismo ad una nuova fede nella natura. Al centro del quadro sta Parigi negli anni in cui si va preparando l’Enciclopedia. Èun ambiente già cosmopolita, anche se composto di oscuri professori tedeschi come Sellius e di altrettanto ignoti scrittori inglesi come John Mills. Del resto, anche Diderot e Rousseau sono del tutto ignoti all’inizio degli anni ’40. È una nuova generazione, ed è anche un ambiente sociale del tutto diverso da quello di un Fontenelle, di un Montesquieu, d’un Voltaire, per non nominare che gli uomini che dominano allora l’orizzonte intellettuale della Francia. È un mondo straordinariamente vivace di bohèmes, di traduttori, di gente che vive della propria penna e per le proprie idee. Negli anni in cui Voltaire cerca d’avvicinarsi alla corte e all’accademia e in cui riesce in modo sorprendente a stabilire un modus vivendi perfino col papa Benedetto XIV, quando Montesquieu tratta e discute quasi come una potenza con il governo francese e con la chiesa della politica del suo tempo – irrigidendosi e concedendo a seconda dei casi, vero giudice e gran signore, staccato e geniale –, questo gruppo di giovani è sorvegliato da vicino dalla polizia, rischia di finire nel castello di Vincennes come Diderot nel 1748, al momento d’una generale repressione degli elementi eterodossi. Quando il paese sta uscendo finalmente dalla guerra, questi giovani sono in continua guerra con la censura, con le regole corporative della librairie, magari con la propria famiglia, e con l’ambiente da cui essi derivano. È un gruppo straordinariamente libero, all’interno e all’esterno. Diderot, che ne è l’anima, d’Alembert, che lo segue riluttando, Rousseau, che interpreta a modo suo le idee e gli entusiasmi del gruppo, ricusano per l’Enciclopedia nascente ogni protezione, co-

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sì come ogni rigida organizzazione interna. Né stato né accademia, ma un gruppo di liberi filosofi. Un po’ ovunque in Europa quel che dicono e fanno gli enciclopedisti a Parigi tra la fine degli anni ’40 e il principio degli anni ’50, tra la preparazione e la prima crisi dell’Enciclopedia, nel 1752, è seguito con una curiosità e un interesse che crescono rapidamente. In Toscana, il «Giornale dei letterati pubblicato in Firenze» comincia ad avere, fin dal 1747, un eccellente servizio d’informazioni sull’Enciclopedia, e là si possono ritrovare notizie ancor oggi trascurate dagli studiosi di questo movimento. In Germania ci si accorge presto del fermento irreligioso che ribolle a Parigi e le discussioni, le confutazioni si moltiplicano. I rapporti con l’Inghilterra, fra coloro che là stanno apprestando supplementi alla Cyclopedia di Ephraim Chambers e coloro che quest’opera stanno traducendo ed ampliando a Parigi, diventano sempre più intensi. Le lettere di John Mills a Thomas Birch, conservate al British Museum, sono particolarmente curiose in proposito, sottolineando tra l’altro tutta la differenza che passava tra la Francia di Luigi XV e l’Inghilterra di quegli anni. Di fronte alla volontà del cancelliere, diceva John Mills il 21 giugno 1745, «in this country, far different in that respect from England, one is forced to obey»264 . Ma, malgrado tutto questo interesse, anche fuori dei confini della Francia, per quel che si sta pensando e dicendo a Parigi (e gli esempi potrebbero essere facilmente moltiplicati), è pur evidente che quella libertà, quella spregiudicatezza che regna nel gruppo dei giovani philosophes è troppo grande, troppo intensa per essere accolta dall’Europa nella metà del Settecento. Le confutazioni delle opere sono molte, le edizioni e le traduzioni relativamente poche. Non solo delle Pensées philoso264

V ENTURI, Le origini dell’Enciclopedia cit., p. 28.

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phiques o della Lettre sur les aveugles di Diderot, ma anche dell’ammirevole scritto di d’Alembert, del suo Essai sur la société des gens de lettres et des grands, sur la réputation, sur les mécènes et sur les récompenses littéraires, pubblicato nel 1753, vero codice e galateo del libero scrittore, modello al quale bisogna raccostare i comportamenti degli intellettuali europei di quell’età per misurare le distanze che esistevano allora tra Parigi e gli altri centri della cultura europea quanto ad indipendenza, dignità, efficacia della nascente intelligencija dei lumi265 . Il gruppo francese è isolato, unico in Europa. Eppure, proprio l’Enciclopedia getta i ponti e permette il passaggio tra il pensiero del gruppo parigino e il resto d’Europa. Il fatto stesso che si tratti d’un dizionario delle scienze e delle arti crea la possibilità della diffusione delle nuove idee, anche là dove certo non avrebbero potuto giungere direttamente. La cultura tecnica viene collegata alle concezioni che Diderot era venuto facendosi del lavoro, delle macchine, del rapporto stesso tra la philosophie e l’utile, tra le idee e la società. La scienza non viene soltanto esposta ma, dal Discours préliminaire agli articoli di metodologia di d’Alembert, vien vista nella prospettiva storica della formazione e del trionfo della moderna civiltà. La politica, il diritto vengono continuamente rimessi in questione dai problemi più vasti, filosofici e morali, che Diderot e i suoi collaboratori non cessano di porre e riporre ai loro lettori. Che importa allora se la prudenza e la censura obbligano gli enciclopedisti a grande cautela nel campo religioso? La vecchia obiezione che in realtà il gran dizionario non fu una macchina di guerra, la constatazione fatta ad esempio da Daniel Mornet che l’Enciclopedia, vista da vicino, è molto più anodina e magari ortodossa di quanto la leggenda pretende265

R. G RIMSLEY, Jean D’Alembert.

1717-1783, Oxford

1963.

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va che fosse, finisce col non colpire nel segno. Si trattava di cambiare modo di pensare della gente, come Diderot diceva, e per far questo, a metà del secolo, era più efficace una esposizione nuova del rapporto tra arti e lettere, tra scienza e società, ordinata magari alfabeticamente, che un pamphlet in più di diretta polemica religiosa o politica. O, per in meglio dire, era necessaria l’una e l’altra cosa, come Diderot sapeva benissimo quando pubblicava insieme le sue Pensées sur l’interprétation de la nature e i grossi tomi dell’Encyclopédie che cominciavano ad uscire di nuovo, dopo la crisi del 1752. Il confronto tra la situazione in Francia ed il resto d’Europa ce lo conferma. L’opuscolo di Diderot era il nocciolo francese d’un frutto enciclopedico che fu presto avidamente gustato e consumato in Italia come in Ispagna, in Inghilterra come in Germania266 . Il primo traduttore italiano del Discours préliminaire fu il doge di Genova, Agostino Lomellini267 . Le stampe svizzere e quelle inglesi moltiplicheranno i dizionari delle scienze e delle arti. Per un decennio i lumi e l’Enciclopedia tenderanno a coincidere. È questa una storia che siamo venuti a conoscere sempre meglio in questi anni, in cui si sono moltiplicati i lavori sul rayonnement dell’opera di Diderot e di d’Alembert. Su un aspetto varrà ancora la pena di soffermarsi un momento anche perché, contrariamente al resto, non mi pare sia stato studiato con sufficiente attenzione. In che misura l’Enciclopedia promosse e aiutò quel passaggio 266 L’Encyclopédie et son rayonnement à l’étranger, Association internationale des études françaises, Cahiers, vol. II, 1952; R OLAND M ORTIER, Diderot en Allemagne, 1750-1850, Paris 1954 (trad. tedesca rivista e aumentata di prossima pubblicazione). 267 S ALVATORE R OTTA, Documenti per la storia dell’illuminismo a Genova. Lettere di Agostino Lomellini a Paolo Frisi, in Miscellanea di storia ligure, vol. I, Genova 1958, pp. 189 sgg.

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dalla politica e il diritto all’economia, che è una delle tendenze generali e fondamentali tra gli anni ’40 e ’50 in Inghilterra come in Spagna, in Italia come in Austria? Non par dubbio che bisogna rispondere: più di quanto non si pensi abitualmente, e fin dall’inizio. La figura chiave, nei primi anni, è quella di François Veron de Forbonnois, gli articoli di economia politica dell’Enciclopedia, raccolti poi da lui sotto il nome di Elemens du commerce, nel 1754268 . Nulla di meglio di queste pagine per venire a conoscere il modificarsi della mentalità economica dopo la metà del secolo, proprio quando sta nascendo l’esigenza sempre più imperiosa di una scienza dell’economia. Accanto a Forbonnois sta tutto un gruppo di persone, amiche sue e addirittura a lui apparentate, come Herbert, Butel-Dumond, Plumard de Dangeuil che, sospinte e aiutate da Vincent de Gournay, pubblicano, negli anni ’50, un impressionante numero di libri originali e di traduzioni, facendo della Francia il centro più vivo di discussione che allora esistesse in Europa su questa materia269 . Essi compiono, in un campo particolarmente importante, la stessa funzione degli enciclopedisti. Non sono più degli isolati come lo furono ancora Melon e Dutot negli anni ’30 e ’40. Sono già un gruppo, una corrente. Sono, anche da questo punto di vista, il ponte di passaggio tra gli economisti della prima metà del Settecento e i fisiocrati che, negli anni ’60, costituiranno un movimento così compatto da essere chiamati dai contemporanei addirittura una setta. Quanto all’importanza politica del loro pensiero basta, per accorgersene, aprire le Remarques sur les avantages et les desavantages de la France 268 Cfr. l’articolo del resto insufficiente, di C HRISTIAN M ORRISON, La place de Forbonnais dans la pensée économique, in C HRISTIAN M ORRISON e R OBERT G OFFIN, Questions financières aux XVIIIe et XIXe siècle, Paris 1967. 269 D IAZ, Filosofia e politica nel Settecento francese cit.

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et de la Grande Bretagne che Plumard de Dangeuil pubblicò con lo pseudonimo di John Nickolls, nel 1754. Il confronto con la Gran Bretagna non è più di carattere costituzionale, religioso, politico, culturale. Il paragone è tutto economico e sociale. La libertà di cui si parla è libertà del commercio, l’eguaglianza riguarda la proprietà e le tasse, la giustizia consiste in un migliore investimento dei capitali e della mano d’opera. È un’opera sorprendente di freschezza ed efficacia. Il confronto, naturalmente, è tutto a vantaggio dell’Inghilterra. Ora, un simile parallelo e paragone questi economisti – che sarebbe meglio conoscere più da vicino piuttosto che continuare ad etichettare sotto il nome di tardi mercantilisti – non lo compiono soltanto con l’Inghilterra. Certo questa resta il loro grande modello e son loro a far conoscere sul continente gli scritti di Davenant, Joshua Cee, di Charles King, di John Cary. Ma essi si aprono pure, con altrettanto interesse, verso la Spagna, riprendendo la discussione sulle cause della sua decadenza, suggerendo, come Forbonnois, una nuova politica finanziaria per questo paese, abitandovi a lungo come Vincent de Gournay, traducendo in francese e commentando Uztàriz e Ulloa. Qualcosa di simile, anche se in misura minore, i francesi compiono pure per l’Italia, e sarà sempre Forbonnois a scrivere il più interessante commento al nuovo catasto compiuto negli anni ’50 da Pompeo Neri nella Lombardia austriaca, mentre Plumard de Dangeuil renderà visita ad Antonio Genovesi a Napoli e con lui discuterà dei problemi fondamentali dell’economia del Mezzogiorno. La Spagna e l’Italia renderanno volentieri la pariglia a questo gruppo di economisti francesi. Le loro opere saranno tradotte, e largamente tradotte al di là dei Pirenei e delle Alpi. Sui loro testi si andranno formando Antonio Genovesi e Pietro Verri270 . Diffusione così lar270

V ENTURI, Settecento riformatore cit.

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ga che richiede una spiegazione che vada al di là dei contatti personali e delle mode intellettuali. Sembra evidente che proprio questo tardo mercantilismo, se così vogliamo chiamarlo, era quel che più si adattava ai problemi dei paesi che non erano né la Francia né l’Inghilterra, alle esigenze cioè delle nazioni arretrate che prendevano coscienza della propria situazione attraverso il confronto dei paesi più ricchi e più attivi, che cercavano nella cultura dell’Enciclopedia gli strumenti per rovesciare quella decadenza di cui sempre più acutamente si rendevano conto. Tanto è vero che quando Quesnay cominciò a scrivere nell’Enciclopedia e a gettarvi le prime basi della fisiocrazia, con gli articoli Fermiers e Grains apparsi nei volumi VI e VII, del 1756 e 1757, la penetrazione delle nuove idee fu più lenta e difficile, non, soltanto in Francia ma, soprattutto, al di là delle frontiere di questo paese. Il passaggio da Cantillon a Quesnay compiuto allora dal marchese Victor Riqueti de Mirabeau ebbe certo un’eco notevole in tutt’Europa, dove si andarono diffondendo le opere sue l’Ami des hommes e la Théorie de l’impôt. Ma, se si guardano le cose più dappresso, si ha spesso l’impressione che questi volumi fossero accolti più per quel che avevano di vecchio che di nuovo, per la loro polemica antiassolutistica piuttosto che per le idee fisiocratiche. La penetrazione del Tableau e, in genere, delle idee di Quesnay, è lenta e difficile in Germania come in Italia, in Polonia come in Spagna, e avviene soltanto alla fine degli anni ’60 e soprattutto negli anni ’70. Questo è vero nel Baden come in Lombardia. Perfino nei casi come la Toscana, dove pure sembra di vederne, fin dal 1766, una diretta influenza sulla politica doganale di Pietro Leopoldo, si tratta spesso d’una ripresa d’un liberismo locale, che si mescola alla polemica liberistica francese degli anni ’50, piuttosto che d’una vera e propria adozione di modelli fisiocratici, come bene ha dimostrato nella sua monografia su Francesco Gian-

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ni Furio Diaz, lo studioso italiano che più si è occupato di queste cose271 . Ma questo del passaggio dal tardo mercantilismo alla fisiocrazia è proprio uno dei temi che è stato finora studiato paese per paese, in Polonia, in Italia, in Germania, senza tentare di cogliere un ritmo generale europeo, studiando le diverse situazioni locali ma non vedendo abbastanza una linea generale, certo non priva di significato. La diffusione delle idee economiche che venivano da Parigi non è che un esempio d’un ritmo differenziato che possiamo cogliere fin dai primi echi che andarono rispondendo all’Enciclopedia negli anni ’50. Malgrado l’interesse presto dimostrato, malgrado gli stimoli apportati dai volumi che uscirono tra la prima e la seconda crisi del gran dizionario, tra il 1752 e il 1759, abbiamo spesso l’impressione che Parigi si trovi una decina d’anni in anticipo sull’ora degli altri paesi. La Spagna sta traversando una crisi che non è dinastica soltanto, in attesa che, nel 1759, giunga da Napoli Carlo III. L’Italia sembra ripiegare su se stessa dopo lo sforzo del dopoguerra. In un solo paese, la Lombardia, si apre davvero la via delle riforme, mentre ovunque altrove gli sforzi e i tentativi si fanno sempre più lenti e difficili. A Vienna l’Impero ha compiuto un primo passo avanti con le trasformazioni realizzate da Haugwitz, ma la vita intellettuale 271 C ARL F RIEDRICH V ON B ADEN, Brieflicher Verkehr mit Mirabeau und Du Pont, a cura di Carl Knies, Heidelberg 1892; A MBROISE J OBERT, Magnats polonais et physiocrates français ´ (1767-1774), Paris 1941; E DWARD L IPI NSKI , De Copernic à Stanislas Leszczynski. ´ La pensée économique et démographique en Pologne, Paris-Varsovie 1961; I NSTITUT N ATIONAL D ’ETUDES D ÉMOGRAPHIQUE , François Quesnay et la physiocratie, Paris 1958; F RANÇOIS Q UESNAY, Scritti economici, Introduzione di Renato Zangheri, Bologna 1966; F URIO D IAZ, Francesco Maria Gianni. Dalla burocrazia alla politica sotto Pietro Leopoldo di Toscana, Milano-Napoli 1966.

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ristagna negli anni ’50 e l’orizzonte è ben presto dominato dalla guerra che ricomincia. La situazione in Germania è straordinariamente diversa da paese a paese; ma un po’ ovunque, già in quel periodo, impulsi paralleli a quelli che si raccolgono a Parigi attorno all’Enciclopedia restano racchiusi nell’arte e nella morale, nella riflessione e nell’espressione artistica, più che cercare di uscirne per incidere sulla realtà politica, economica e sociale. Basta pensare al destino di Lessing per intendere, questo fenomeno. In Prussia i lumi scendono dall’alto, assolutismo e riforme strettamente uniti lasciano un piccolo spazio non soltanto a gruppi e movimenti ma anche a singoli individui, a filosofi indipendenti, come Voltaire dovette personalmente esperimentare. In Inghilterra gli anni ’50 vedono i Saggi di Hume, una sempre vivace vita intellettuale e una intensa attività politica, ma non un moto illuminista che, come a Parigi, abbia un’organizzazione e un ritmo di sviluppo proprio, che operi come una forza politica nuova ed autonoma, tendendo a rimettere in questione o a sostituire le organizzazioni ereditate dal passato. All’oriente d’Europa, in Polonia, le riforme dei piaristi si affermano con Konarski e l’università di Cracovia migliora sotto Andrzej Stanislaw Załuski. Ma si tratta della diffusione dei lumi, non ancora d’un movimento capace d’intaccare in un punto qualsiasi l’immobilità sarmatica. Soltanto con l’inizio degli anni ’60 la situazione, comincerà a mutare. In Russia potremo notare qualcosa di simile, con una penetrazione sempre più larga della massoneria, col nascere di periodici e di riviste e con il sorgere di discussioni scientifiche, letterarie e morali nel regno di Elisabetta. Ma l’atmosfera culturale resta dominata dalla volontà scientifica d’un Lomonosov, dall’organizzazione accademica dei dotti tedeschi. L’eredità di Pietro regna ancora in Russia. Il colpo di stato di Caterina, nel 1762, darà inizio a una nuova epoca, in Russia come in Polonia.

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L’appuntamento a cui si ritrovarono coloro che erano in anticipo e quelli che tardavano, chi aveva aperto la strada e chi vanamente si era sforzato di seguire, era fissato negli anni ’60, quando gli orologi degli uomini dei lumi sembrarono battere insieme le ore, ore decisive per l’Europa tutta intera. È il tempo in cui, scendendo la Volga in battello con i suoi amici e ministri, Caterina traduce e fa tradurre delle opere degli enciclopedisti francesi, il Belisario di Marmontel, invitando poi a conoscere e tradurre un numero sempre maggiore d’altri libri che giungevano dall’occidente, collaborando lei stessa ai giornali che vanno sorgendo, favorendo il diffondersi della massoneria, contribuendo in ogni modo ad animare con le nuove idee la gran macchina statale che Pietro aveva cominciato a costruire. Come dirà il poeta Cheraskov, Pietro aveva dato alla Russia un corpo, Caterina le dava un’anima. In certo senso era vero: i lumi diventarono allora l’anima della Russia settecentesca272 Dall’altro capo d’Europa, in Spagna, Carlo III iniziava un processo di modernizzazione che incontrava dei grossi ostacoli già nella tradizione popolare e religiosa, ma che, almeno parzialmente, riusciva a superarli o ad aggirarli aprendo finalmente un processo continuo di riforma nella penisola iberica, lento e accidentato, ma che trova ormai una sua logica e un suo rapporto interno di volontà politica 272 H ORST J ABLONOWSKI, Die geistige Bewegung in Russland in der zweiten Hälfte des 18. Jahrbunderts, in Le mouvement des idées dans les pays slaves pendent la seconde moitié du XVIIIe siècle. Atti del colloquio slavistico tenutosi ad Uppsala il 19-21 agosto 1960, Roma 1962. pp. 7 sgg..; F RANCO V EN TURI , Quelque notes sur le rapport de Horst Jablonowski, ibid., pp. 26 sgg.; Svodnyj katalog russkoi knigi XVIII veka, Moskva 1964-1966, in tre volumi; P AUL B OURYCHKINE, Bibliographie sur la franc-maçonnerie en Russie, completata e rivista da Tatiana Bakounine, Paris-Le Havre, 1967.

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e di illuminazione culturale273 . In Italia, è l’età dell’Accademia dei Pugni a Milano e delle Lezioni di commercio a Napoli, dell’abbrivio delle riforme in Toscana e del diffondersi della volontà di mutamento anche negli angoli più lontani della penisola, dalle società agrarie della provincia veneta al rinnovamento dell’università di Cagliari, dai tentativi di Dalmazzo Francesco Vasco per porsi a contatto con Jean Jacques Rousseau e per collaborare con lui alla ribellione della Corsica, alla pubblicazione, a Coira nei Grigioni, dell’opera di Carlantonio Pilati, Di una riforma d’Italia274 . In Austria, malgrado la censura, la «Deutsche Gesellschaft» e i primi fogli di Sonnenfels come il suo Der man ohne Vorhurtheil, pongono in modo nuovo il rapporto tra lumi e riforma275 . In Gran Bretagna, dove si sta preparando in Scozia lo sbocciare di un grande movimento intellettuale, sentiamo a Londra risuonare il grido di «Wilkes and liberty»276 . Ovunque, dopo lunga preparazione, sembra esser l’ora della primavera dei lumi. In movimento non sono soltanto gli intellettuali, ma, nelle forme più diverse, anche quei contadini che si riversano a Napoli per tentar di sfuggire alla fame nella spaventosa carestia del 1764, la plebe madrilena che provoca il «motìn de Esquilace», così come la gente che segue Wilkes a Londra. Quanto alle classi politiche, esse sono tutte in movimento in Europa, mentre si sta uscendo dalla guerra dei sette anni. Si vanno al273 Oltre ai libri già citati cfr. R OBERT J ONES S HAFER, The economic societies in the Spanish world (1765-1821), Syracuse 1958 e M ARCELIN D EFOURNEAUX, Pablo Olavide ou l’afrancesado, Paris 1959. 274 Illuministi italiani cit., voll. III, V, VII. 275 R OBERT A. K ANN, A study in Austrian intellectual history. From late baroque to Romanticism, New York 1960. 276 G EORGE R UDE, Wilkes and Liberty. A social study of 1763 to 1774, Oxford 1962.

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largando in cerchi concentrici le spinte e le controspinte delle idee e delle riforme, fino ad estendersi alle colonie inglesi in America e ai reggimenti della guardia a Pietroburgo. Pur tanto diversi, i problemi delle varie parti d’Europa trovano un linguaggio e un centro comune nella Francia degli anni ’60 e nella straordinaria vita intellettuale che si svolge sulle rive della Senna. Proprio quello che la filosofia ha di astratto – e precisamente in quegli anni si comincia a rimproverarglielo – permette una penetrazione e diffusione che va al di là delle frontiere nazionali e delle differenze di struttura sociale. Certo è curioso vedere il Contrat social servire in Polonia di scudo ai conservatori, a coloro che rifiutano ogni riforma dell’aurea libertà sarmatica e Dei delitti e delle pene diventar là strumento in mani dei nobili che trovano nel rifiuto della pena di morte e nella dolcezza delle pene un pretesto di più per i loro arbitri277 . Ma anche questo è il prezzo che deve essere pagato perché un pensiero politico e giuridico nuovo possa essere ascoltato da una parte all’altra d’Europa. A Parigi, la tensione tra utopia e riforme è così forte da polarizzare tutti i conflitti e le contraddizioni dei più diversi paesi attorno ai termini che vanno dettando Rousseau e Boulanger, Voltaire e d’Holbach, Quesnay e Galiani. A guardar più da vicino il troupeau des philosophes, si vede, malgrado i continui appelli all’unione che giungono da Ferney, che esso è profondamente diviso. Ma la sua lotta interna è feconda, multiforme la ricerca delle più diverse vie per giungere ad una società comple277 Sull’accusa di astrazione e il suo significato, cfr. F RANCO V ENTURI, Galiani tra enciclopedisti e fisiocrati, in «Rivista storica italiana», 1960, I, pp. 45 sgg. Sulla Polonia, alle opere citate nel cap. III, nota, aggiungere soprattutto J ERZY M ICHAL SKI , Problem ius agratiandi i kary s´ mierci w Polsce w latach siedemdziesqtych XVIII w., In «Czasopsismo prawo-historyczne», tomo X, 1958, fasc. II, pp. 175 sgg.

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tamente liberata dalla religione, tutta comprensibile nei suoi meccanismi politici ed economici, trasparente e controllata dalla ragione. Se si pensa che era passato poco più di mezzo secolo da quando Pierre Bayle aveva sostenuto l’ipotesi che era possibile una società di atei, si vede quanto cammino avesse percorso il Settecento. Ormai questa società esisteva ed era ben viva. Economicamente essa avrebbe dovuto funzionare secondo leggi evidenti, con il sangue che circolava secondo un circuito che il dottor Quesnay aveva chiaramente disegnato e di cui era ormai possibile prevedere le tappe di sviluppo, come i fisiocrati stavano insistentemente mostrando. Politicamente, il divario tra quel che la società avrebbe dovuto essere e quel che era la Francia degli ultimi anni del regno di Luigi XV si faceva ogni anno più drammatico. Che davvero fosse necessario seguir l’esempio di Medea, come diceva Diderot, la quale «rendit la jeunesse à son père en le dépeçant e le faisant bouillir»? Non era più possibile accettare insieme l’immobilismo e le restrizioni della libertà che l’antico regime imponeva278 . Un gran modello di società democratica era apparso nel 1762, con il Contrat social. Una razionalizzazione di tutti i rapporti sociali era richiesta ovunque, in mille polemiche, contro il feudalesimo come contro la legislazione tradizionale. Le opere di Nicolas-Antoine Boulanger offrivano una visione particolarmente efficace dello sviluppo dell’uma278 D IDEROT, Refutation suivie de l’ouvrage d’Helvetius intitulé L’homme, in Œuvres complètes cit, vol. II, p. 276. Cfr. Diderot, Mémoires pour Cathérine II, a cura di p. Vernière, Paris 1966, pp. 20 sgg. e quanto aveva scritto Helvétius nell’opera sua postuma, apparsa nel 1775, De l’homme, de ses facultés intellectuelles, et de son éducation. Sulla reazione delle autorità francesi, J ACQUES D ONVEZ, Diderot, Aiguillon et Vergennes, in «Revue des sciences humaines», nuova serie, fasc. 87, luglo-settembre 1957, pp. 287 sgg. Sui problemi generali di quegli anni, Diaz, Filosofia e politica sul Settecento francese cit.

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nità dal mondo della religione a quello della ragione. La Lettre che apriva l’edizione postuma delle sue Recherches sur l’origine du despotisme oriental (e penso avesse ragione Voltaire ad attribuire questa Lettre alla penna di Diderot) proclamava ormai apertamente la candidatura dei lumi a reggere il mondo279 . «L’esprit général qui se monte de plus en plus sur le ton de la raison et de l’humanité... le progrès des connoissances, ce fleuve immense qui grossit tous les jours... la soif pour l’instruction» dimostravano ormai a tutti che la società non aveva più bisogno d’esser governata «par ces ressorts surnaturels qu’on appelle religion et révélation». Bastavano «les lois naturelles, sociales et civiles». «La raison et la loi fondée sur la raison doivent être les uniques reines des mortels... Lors qu’une religion établie commence à pâlir et à s’éteindre devant les lumières d’un siècle éclairé, ce n’est plus qu’à cette raison qu’il faut immédiatement recourir pour maintenir la société et pour la sauver des malheurs de l’anarchie... A qui donner une telle commission si ce n’est à la philosophie? Elle ne doit pas même attendre qu’on la lui donne; elle a fait du passé l’objet de ses études, elle doit faire du futur un plan de philosophie politique..: On a dit l’Europe sauvage, l’Europe payenne, on a dit l’Europe chrétienne, peut-être dira-t-on encore pis, mais il faut qu’on dise enfin l’Europe raisonnable»280 . A questo appello avrebbero risposto presto le innumeri pubblicazioni del gruppo di d’Holbach. L’ateismo conclamato veniva a confermare questa «philosophie poli279 F RANCO V ENTURI, Postille inedite di Voltaire ad alcune opere di Nicolas-Antoine Boulanger e del barone D’Holbach, in «Studi francesi», 1958, fasc. 2, pp. 231 sgg. 280 Lettre de l’auteur à M.(Helvétius), premessa alle Recherches sur l’origjne du despotisme oriental. Ouvrage posthume de Mr. B.I.D.p. E.C. (Boulanger ingenieur des ponts et chaussées), s. l. (ma Ginevra) 1761, pp. 111 sgg.

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tique». Come il barone stesso spiegava, ormai non c’era più bisogno di preti, perché i giudici sapevano fare il mestier loro281 . La compagine sociale era capace di vivere e di controllarsi senza Dio. I filosofi chiedevano ormai energicamente di guidarla. Ovunque nell’Europa dei lumi ritroviamo questa pretesa e questa volontà di porsi alla testa e alla direzione della società. A seconda delle diverse situazioni questa spinta prende le più diverse forme. In Francia essa è certo più estrema, più integrale, più utopica e più rivoluzionaria. Ma anche là sbocca dapprima in una volontà riformatrice, nel tentativo di Turgot del 1774. Già nell’agosto del 1772 Diderot, che pur non lo amava, soprattutto per l’atteggiamento che questi aveva tenuto nella crisi dell’Enciclopedia nel 1759, gli scriveva tuttavia: «Quand je suis seul et que je rêve qu’il y a pourtant encore parmi nous des hommes capables de reparer nos désastres, vous êtes un des premiers qui se présentent à ma pensée»282 . Turgot stesso, che i suoi amici fisiocrati accusavano d’esser nemico d’ogni despotismo, anche «legale», d’esser più repubblicano che monarchico, non finì forse col compiere l’unico grande tentativo di quel che chiamiamo dispotismo illuminato, di cui fosse capace la Francia negli ultimi decenni dell’Antico regime?283 . Non ci stupiremo dunque di vedere a Milano i membri del281 Le christianisme dévoilé, ou examen des principes et des effets de la religion chrétienne, (Nancy?) 1761, Lettre de l’auteur à Monsieur. Non è vero, come diceva Voltaire, che era necessaria una religione per il popolo. «C’est la loi qui contient les gens du peuple et quand un insensé leur diroit de voler ou d’assassiner, le gibet les avertiroit de n’en rien faire». 282 G EORGE D ULAC, Une lettre de Diderot a Turgot, in «Studi francesi», n. 36 settembre-dicembre 1968, pp. 454 sgg., lettera del 9 agosto 1772. 283 D OUGLAS D AKIN, Turgot and the ’ancien regimÈ in France, London 1939.

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l’Accademia dei Pugni diventare rapidamente degli alti funzionari della Lombardia austriaca e operarvi delle riforme fondamentali, né Aranda, Campomanes, Olavide, Jovellanos trasformarsi nella classe dirigente della Spagna di Carlo III, né i magnati polacchi mutarsi in riformatori e il governo di Caterina II fare appello alla Commissione legislativa, o ancora l’Università di Lipsia, all’epoca di Hommel, farsi centro di attive riforme, o altre terre tedesche, come il Baden, vivere all’ora della fisiocrazia. A Genova, per due anni, il doge è Agostino Lomellini, il traduttore ed amico di d’Alembert. Il potere e i filosofi si cercano, convergono o divergono a seconda dei momenti e delle circostanze. Le loro lotte e i loro accordi dominano l’Europa repubblicana così come quella monarchica, quella mediterranea così come quella centrale ed orientale. Un solo paese è assente in questo spiegamento dei lumi tra gli anni ’60 e ’70, ed è l’Inghilterra. Che proprio il paese che si va preparando alla rivoluzione industriale sia poi quello in cui non esiste un movimento illuminista è cosa che basterebbe da sola a far dubitare della troppo spesso ripetuta interpretazione marxista dei lumi come ideologia della borghesia. Né vale dire che la rivoluzione borghese l’isola britannica l’aveva già compiuta un secolo per l’innanzi, ché gli storici dell’economia son lì per spiegarci che le trasformazioni interne dell’Inghilterra durante il Settecento sono fondamentali, essenziali. Resta il fatto che a Londra non si forma un «parti des philosophes», il quale chieda di dirigere la società, che le lotte allora esistenti – basta pensare a «Wilkes and liberty» – non son quelle di una intelligencija nascente Anche il gigante inglese dei lumi, Gibbon, non solo è strettamente legato alla cultura del continente ma rimane un grande isolato, una torre solitaria nel suo paese. Né la ripresa della tradizione dei commonwealthmen e uomini come Thomas Hollis bastano a colmare questa lacuna,

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per interessanti che siano. Curiosi e significativi proprio perché sembrano sostituire qualcosa che manca. Il radicalismo inglese nasce anch’esso attorno al 1764, ma ha caratteri ben diversi dalla filosofia del continente. Bisognerà aspettare gli anni ’80 e ’90 per trovare i Bentham, i Price, i Paine e i Godwin. Il ritmo, in Inghilterra, è diverso. Suppongo che per capire questa situazione la cosa più utile sia di guardare all’altro capo dell’isola britannica, e volgere lo sguardo alla Scozia. Là troviamo invece tutti gli elementi essenziali d’un moto illuminista. Anzi, proprio negli anni ’70, essa diventa una delle punte più avanzate nell’economia e nella storiografia di tutto il movimento europeo. Basterebbe pensare all’importanza che acquista ben presto la cultura scozzese, a Parigi come a Napoli, a Könisberg come a Mosca, per rendersene conto. Naturalmente per concludere in materia, attendiamo uno studio complessivo sulla Scozia illuminista – che è una delle ricerche più attese e più necessarie nel campo della storiografia del Settecento in tutt’Europa284 Ma è pur tentante osservare come i lumi nascano e si organizzino là dove il contatto tra il mondo arretrato e quello moderno è cronologicamente più brusco, geograficamente più vicino. È il dislivello tra la Scozia tradizionale e la Glasgow e l’Edimburgo settecentesche che esigono e fanno sorgere dei gruppi e delle società simili a quelle patriottiche del continente, che concentrano l’attenzione 284 Cfr., tra le cose più recenti e più stimolanti, D UNCAN F ORBES, Scientific Whiggism. Adam Smith and John Millar, in «Cambridge Journal», vol. III, 1954, pp. 643 sgg.; W IL LIAM C. L EHMANN , John Millar of Glasgow. 1735-1801. His life and his contributions to sociological analysis, Cambridge 1960; A DAM F ERGUSON, An essay on the history of civil society. 1767, a cura di Duncan Forbes, Edinburgh 1966; A. J. Y OUNGSON, The making of classical Edinburgh, Edinburgh 1968.

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sull’economia e sulla società, che ripongono tutti i problemi del rapporto fra la filosofia utilitaristica e una nuova politica. È il contrasto con la classe dirigente tradizionale a far sorgere una intelligencija cosciente della propria funzione e della propria forza. Guardata da Milano o da Parigi, la Scozia degli anni ’60 e ’70 sembra un terreno noto, familiare, pur con tutta la sua originalità e la sua straordinaria vitalità intellettuale. Ferguson e Millar sono dello stesso mondo di Filangieri e di Condorcet. Il dottor Johnson è un dio indigeno inglese. La struttura della politica inglese ha certo un gran peso nel determinare queste e simili differenze e distanze. Il fatto stesso che si sia pensato di studiarla facendo completamente astrazione dalle ideologie, dai nomi stessi di whig e di tory, da ogni riferimento intellettuale è pur molto significativa. Sir Lewis Namier, anche guardato dal punto di vista del continente settecentesco, ha ancora molto da insegnarci, non foss’altro per la straordinaria energia con cui ha tenuto fede al suo metodo. Ma si ammetterà che sarebbe pur molto difficile scrivere una storia degli anni ’60 e ’70 in Francia facendo completamente astrazione dai legami con i fisiocrati e con gli antifisiocrati di Turgot e di Necker, una storia di Milano senza parlare dei contatti di Beccaria o di Verri con il mondo degli enciclopedisti parigini. Anche un libro che ha tentato di ricostruire la struttura della banca protestante, come quello di Lüthy, termina con una interpretazione, del resto molto intelligente e suggestiva, delle idee fisiocratiche285 . E anche là dove i lumi possono talvolta parere, anche se a torto, soltanto come una moda, un ornamento, una propaganda, come in Polonia o in Russia, essi si dimostrano ben presto ineliminabili, come ha di285 H. L ÜTHY, La banque protestante en France, Paris 195961, in due volumi.

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mostrato il libro di Jean Fabre286 . Se si supera artificialmente questo ostacolo, tutta la prospettiva ne esce falsata, come è accaduto a Lortholary287 . Qualche volta, leggendo e rileggendo gli scritti di sir Lewis Namier, mi è venuto fatto dl pensare che il suo metodo, sul continente, è adatto soprattutto per penetrare nel mondo compatto, apparentemente uniforme e pur così pieno di contrasti, dei patriziati delle antiche repubbliche italiane, o, in genere, dei corpi nobiliari degli stati aristocratici. Non che anche a Venezia, per fare un esempio, non penetrino i lumi, che anzi essi sono molto diffusi, come i recenti studi di Berengo, di Torcellan hanno dimostrato288 Ma non riescono a diventare un movimento che incida profondamente sulla realtà. Restano spesso piuttosto una cultura che una forza politica. Come in Inghilterra, dove la situazione è naturalmente ben diversa, e dove pure gli ultimi decenni del Settecento trascorrono l’uno dopo l’altro senza che il meccanismo delle riforme politiche riesca a mettersi in moto. L’Inghilterra, nell’età dei lumi, è davvero una eccezione e la struttura della sua politica conta non poco nello spiegarci un simile fatto. Eccezione significativa tuttavia se la si mette in rapporto con quel che contemporaneamente sta accadendo sul continente. Evidentemente non possiamo accontentarci dell’originalità britannica come spiegazione. Il caso suo, direi, guadagna ad essere inserito nella storia di tutto il Settecento. E il raffronto è tanto più importan286 F ABRE, Stanislas-Auguste Poniatowski et l’Europe des lumières cit. 287 A LBERT L ORTHOLARY, Le mirage russe en France au XVIII’ siècle, Paris 1951. 288 M ARINO B ERENGO, La società veneta alla fine del ’700, Firenze 1956; G IANFRANCO T ORCELLAN, Una figura della Venezia settecentesca. Andrea Memmo, Venezia-Roma 1963 e Id., Settecento veneto e altri scritti storici, Torino 1969.

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te in quanto negli anni ’70 stiamo entrando, in tutta Europa, nell’età delle grandi riforme e delle reazioni contro di esse. L’età di Turgot e di Giuseppe II è anche l’epoca in cui l’espansione economica di tre decenni viene sostituendosi con un periodo di incertezza, di bruschi salti. Del resto le riforme costano e sotto questo peso anche i piccoli capolavori dell’illuminismo riformatore, come la Toscana di Pietro Leopoldo, finiscono col trovarsi in difficoltà, dopo venticinque anni di lavoro. Il ventennio che precede la rivoluzione francese vede dapprima lontane, ai margini, le insurrezioni e le rivolte dei corsi, di Pugacëv, delle colonie americane, tanto lontane che non paiono quasi neppure in Europa. Ma la ripresa dell’opera degli assolutismi, la lotta contro i corpi locali, la rapida crescita, attraverso le nuove giunte e commissioni, e lo svilupparsi sempre maggiore dell’amministrazione centrale, creano urti sempre più gravi con i Parlamenti in Francia, con le autonomie tradizionali nella Fiandra austriaca, con la nobiltà in Ungheria, e finalmente anche con quella classe dirigente che era salita al potere alla fine degli anni ’60 a Milano, così come le autonomie locali della Catalogna ed anche con l’inquisizione in Spagna. All’opera dello stato centralizzato si vengono contrapponendo le forze più diverse. E già l’ideale d’una libertà costituzionale, così come il nuovo spirito d’indipendenza che trova il suo modello lontano in America cominciano ad albeggiare. La tensione tra utopia e riforme cresce ovunque. Nella Napoli di Filangieri e di Pagano e nella Russia, dove si sta formando il primo uomo della nascente intelligencija, Aleksandr Radišˇcev. Nella Spagna di Jovellanos e di Goya e nella Francia, dove sta sorgendo, con Raynal, Brissot de Warville, Mably, con Diderot ancora, il linguaggio della rivoluzione, dove l’ansia d’un mondo nuovo prende forme aberranti e patologiche (come quel mesmerismo tanto lucidamente rie-

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vocato recentemente da Robert Darnton289 ) e dove basta alla fine una brusca crisi economica, come pur tante ne aveva conosciute l’Antico regime, per far precipitare la situazione. Con la partecipazione alla guerra americana, con la rivolta delle Province Unite, il cerchio della rivoluzione era andato restringendosi attorno alla Francia. Con il 1789 essa raggiunse il focolare dei lumi.

289 R OBERT D ARNTON, Mesmerism and the end of the Enlightenment in France, Cambridge (Mass.) 1968.

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