90420111 Garin L Umanesimo Italiano
April 3, 2017 | Author: enumaelis | Category: N/A
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L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento di Eugenio Garin
Storia d’Italia Einaudi
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Edizione di riferimento: L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1986
Storia d’Italia Einaudi
II
.
Sommario Introduzione
1 1
1. Umanesimo e filosofia
4. Umanesimo e platonismo
6 9 12
5. Le origini dell’umanesimo
13
6. Umanesimo e antichità classica
17
2. Esigenze filologiche nuove 3. Umanesimo e storia
Le origini dell’umanesimo 1. Lettere umane e vita civile
21 21
2. L’analisi della vita interiore
25
3. La polemica contro le scienze della natura
28
4. Coluccio Salutati
32
5. Il primato della volontà in Coluccio Salutati
35
6. Le leggi e la medicina
40
La vita civile 1. La scuola del Salutati e Bernardino da Siena
46 46
2. Leonardo Bruni
51
3. Poggio Bracciolini e il valore dei beni terreni
54
4. Il mondo delle passioni e il valore del piacere
59
5. Il Valla e le scienze morali
63
Storia d’Italia Einaudi
III
6. Giannozzo Manetti e la prima impostazione del problema della dignità dell’uomo 7. Leon Battista Alberti
71
8. Matteo Palmieri e il trapasso al platonismo
83
9. La filologia e la retorica nel Poliziano e nel Barbaro 10. Il Galateo e il Pontano
87
11. Spunti pedagogici
94
Il platonismo e la dignità dell’uomo 1. La crisi della libertà e i dialoghi «De libertate» del Rinuccini 2. L’influenza dei dotti bizantini e le traduzioni di Platone 3. Il problema dei rapporti fra vita attiva e contemplativa in Cristoforo Landino 4. Marsilio Ficino e la concezione di una «docta religio» 5. La teologia platonica
77
92 99 99 103 106 112 120
6. Pico della Mirandola e la polemica antiretorica 7. L’uomo
126
8. La pace filosofica
133
9. La polemica antiastrologica
135
10. Spunti di un’apologetica platonica
138
Platonismo e filosofia dell’amore 1. Francesco Cattani da Diacceto e l’ortodossia ficiniana 2. La grazia 3. La metafisica d’amore
131
142 142 145 152
Storia d’Italia Einaudi
IV
4. La moda delle discussioni d’amore
156
5. La conciliazione fra Platone e Aristotele
159
6. Lo scetticismo di Gian Francesco Pico
164
L’aristotelismo e il problema dell’anima 1. Pietro Pomponazzi 2. La polemica sull’immortalità
168 168 174
3. Jacopo Zabarella
178
1. Problemi logici e metodologici
181 184 184
2. Zabarella e le polemiche padovane
187
3. Logica e retorica. Mario Nizolio
190
4. La retorica e la «civile conversazione»
194
5. La questione della lingua 6. La poetica
198 200 204
4. Il problema religioso nell’aristotelismo Logica, retorica e poetica
7. Il «Naugerius» di Girolamo Fracastoro Ricerche morali 1. Moralità e «modi civili»
208 208
2. La «institution» dell’uomo
211
3. Influenze aristoteliche e commenti alla «Nicomachea» 4. Vita attiva e contemplativa
215
5. Storia e vita politica
224
Indagini sulla natura
219
1. Leonardo da Vinci
229 229
2. Girolamo Cardano
231
3. Girolamo Fracastoro e G. B. Della Porta
233
Storia d’Italia Einaudi
V
4. Andrea Cesalpino
235
5. Bernardino Telesio
237
6. La metafisica della luce
242
Da Giordano Bruno a Tommaso Campanella 1. Rinascimento e Riforma
245 245
2. Religione e filosofia in Bruno
247
3. La concezione bruniana dell’universo
252
4. La «contemplazione»
258
5. La riforma morale
260
6. L’eroico furore
263
7. Problemi nuovi in Tommaso Campanella
266
8. «L’imparare e il conoscere sono pur qualche morte» Epilogo
270 273
Storia d’Italia Einaudi
VI
INTRODUZIONE
1. Umanesimo e filosofia Quasi un secolo fa Renan, nel suo Averroè, a un certo momento trasformò Padova e Firenze nei simboli di una antinomia capace di ben caratterizzare, a parer suo, l’orientamento così complesso della cultura del Rinascimento: da un lato Padova, roccaforte della tradizione aristotelico-averroistica, rigorosamente scientifica e logica, contrastante con l’umanesimo e con quanto esso implicava d’amore alle lettere, alle arti e agli studia humanitatis; dall’altro lato Firenze, la città di Ficino e del Poliziano, e di quanti altri, pensatori e poeti, trovavano «strani e fantastichi» i maestri padovani, secondo la curiosa espressione che incontriamo in una lettera a Lorenzo del 14911 . La contrapposizione del Renan si attenuava nel suo autore attraverso la consapevolezza, sempre presente anche se non chiara, del significato profondo dell’umanesimo, dell’incancellabile valore che una spregiudicata posizione critica aveva nei riguardi di una nuova formazione culturale. D’altra parte Renan si rendeva anche conto che la «filosofia» padovana era nel ’400 ormai stanca; che i perfezionati strumenti di cui si serviva erano logori, e le sue fonti inaridite; che il suo sottile raziocinare muoveva a vuoto, e apparteneva al passato. Domani Galileo conoscerà bene ogni sviluppo della fisica d’Aristotele; ma le forze e la prospettiva necessaria per la nuova sintesi gli verranno da una diversa atmosfera culturale. 1 A. POLIZIANO, Prose volgari inedite e poesie latine e greche edite e inedite, raccolte e illustrate da I. Del Lungo, Firenze 1867, p. 80.
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Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano
Purtroppo la seduzione di trasformare un’antitesi in una spiegazione, confondendo una negazione con una determinazione positiva, ha operato su troppi storici della cultura rinascimentale: e la lotta di Padova contro Firenze è diventata uno dei luoghi comuni volti a caratterizzare un atteggiamento inteso come rivolta delle lettere contro le scienze, della poesia contro la filosofia, delle leggi contro la medicina, della retorica mistica contro la dialettica eretica, dell’empietà averroistica contro la pietas umanistico-platonica2 . Ed in questa contrapposizione sono poi venuti a convergere tutti i temi della polemica intorno al Rinascimento, quali si sono venuti precisando da Burckhardt in poi; così quella «scienza» e quella «filosofia» sono divenute volta a volta i titoli della superiorità e modernità medievali, o i segni di un’insufficienza radicale e di un declino senza rimedio; e, viceversa, quella «retorica» e quella «grammatica» sono state presentate ora come una pausa nel progresso dello «spirito», e ora come l’espressione di una cultura veramente «moderna». Finché una gran parte della storiografia contemporanea, più ancora che per obbedire a una giusta esigenza di continuità per una dichiarata o larvata polemica contro i valori affermati dalla filosofia moderna, si è venuta mirabilmente accordando nel rifiutare ogni significato profondo alle posizioni speculative rinascimentali, dichiarate prive di originalità rispetto al Medioevo nelle loro istanze filosofiche, e per niente nuove o rinnovatrici anche nei loro aspetti letterari. Uno storico della scienza, il Sarton, in una postuma polemica contro quei «presuntuosi dilettanti» che furo2 Cfr. E. TROILO, Averroismo e Aristotelismo padovano, Padova, 1939 (e G. TOFFANIN, Per l’Averroismo padovano, Lettera a E. Troilo, «La Rinascita», 1939, 5; B. KIESZKOWSKI, Averroismo e Platonismo in Italia negli ultimi decenni del sec. XV, «Giornale Critico della Filos. Itatiana», 1933, 4).
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Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano
no gli umanisti, non ha esitato a concludere per «un indiscutibile regresso così dal punto di vista filosofico che da quello scientifico. Di fronte allo scolasticismo medievale, ottuso ma onesto, la filosofia caratteristica di questa età, ossia il neoplatonismo fiorentino, fu un miscuglio superficiale di idee troppo vaghe per avere un valore reale». Più radicale ancora, uno storico della filosofia come Bruno Nardi ha affermato che, «se vogliamo risalire davvero alle origini della filosofia moderna, bisogna saltare a pie’ pari il periodo umanistico»; ed uno storico della letteratura, il Billanovich, ha parlato di un secolo di «silenzio, solo rotto dalle declinazioni sommesse dei grammatici», mentre «la professione di studi filosofici è... degradata a prove... di acutezza filosofica e retorica», in mezzo a «un disperso disordine intellettuale»3 . Verrebbe voglia di rispondere che quei grammatici e quei retori si chiamarono Lorenzo Valla e Leon Battista Alberti; che da quegli ambienti sterili e vuoti uscirono Niccolò Cusano e Paolo Toscanelli; che la scienza di Leonardo e Galileo si maturò proprio in quel secolo che converrebbe saltare a pie’ pari; che in esso è pur venuto su Niccolò Machiavelli, e tutto quel fermento di critiche che si è espresso, poi, 3 G. SARTON, Science in the Renaissance, in J. W. THOMPSON, G. ROWLEY, F. SCHEVILL and G. SARTON, The Civilization of Renaissance, Chicago, 1929, p. 79 (cfr. W. F. FERGUSON, The Renaissance in Historical Thought, Five Centuries of Interpretation, Cambridge Mass., 1948, p. 384; L. THORNDIKE, Renaissance or Prenaissance?, «Journal of the History of Ideas», IV (1943), pp. 65-74); B. NARDI, Il problema della verità. Soggetto e oggetto del conoscere nella filosofia antica e medievale, Roma, 1951, pp. 58-59 (e, nella seconda ed. del 1952, p. 61, n. 105, la ulteriore precisazione polemica); G. BILLANOVICH, Petrarca letterato. I. Lo scrittoio del Petrarca, Roma, 1947, pp. 415 e sgg. Una visione in tutto diversa, e una valutazione non dissimile da quella sostenuta in queste pagine, può invece trovarsi nel volume di MARIE BOAS, The Scientific Renaissance, 1450-1630, London, 1962.
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in un Telesio o in un Bacone; che un Erasmo da Rotterdam o un Montaigne sarebbero difficilmente concepibili senza la cultura quattrocentesca. Così, a proposito dell’antitesi Padova-Firenze, sarebbe anche troppo facile mostrarne, con i dati di fatto alla mano, tutta l’inconsistenza, nelle persone e nelle concezioni. Se infatti l’umanesimo quattrocentesco fu diverso nei vari centri culturali, ebbe pur tuttavia tratti comuni con cui penetrò dovunque, agendo dovunque in senso profondamente e radicalmente rinnovatore, espressione di un atteggiamento umano del tutto mutato. Ma, a dire il vero, la intima ragione di quella condanna del significato filosofico dell’umanesimo è un’altra; e del resto risulta ben chiara da quel continuo richiamarsi per contrasto alle sintesi metafisico-teologiche della «ottusa ma onesta scolastica»: si tratta cioè del sopravvivente amore per una immagine della filosofia che il pensiero del ’400 costantemente avversò. Perché ciò di cui si lamenta da tante parti la perdita è proprio quello che gli umanisti vollero distrutto, e cioè la costruzione delle grandi «cattedrali di idee», delle grandi sistemazioni logico-teologiche: della Filosofia che sussume ogni problema, ogni ricerca al problema teologico, che organizza e chiude ogni possibilità nella trama di un ordine logico prestabilito4 . A quella Filosofia, che viene ignorata nell’età dell’umanesimo come vana ed inutile, si sostituiscono indagini concrete, definite, precise, nelle due direzioni delle scienze morali (etica, politica, economica, estetica, logica, retorica) e delle scienze della natura che, coltivate iuxta propria principia, al di fuori di ogni vincolo e di ogni auctoritas, hanno in ogni piano quel rigoglio che l’«onesto», ma «ottuso» scolasticismo ignorò. 4 Cfr. B. CROCE, Lo storicismo e l’idea tradizionale della filosofia, «Quaderni della Critica», 13 marzo 1949, pp. 84-85.
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Aver permesso questo; aver visto che la logica delle umane ricerche non è necessariamente quella d’Aristotele: che la logica d’Aristotele non è parola di Dio, ma un prodotto storico; aver dato vita a indagini concrete; avere, soprattutto, abituato le nuove generazioni a cosiffatto modo di vedere e di pensare; avere «umanamente» educato, potrà sembrare poco ai vagheggiatori di ben architettate costruzioni teologiche, ma a chi intenda la filosofia come consapevole indagine di guise umane, e discussione di concetti, sembrerà impagabile conquista. La quale, va aggiunto, non fu per nulla empia ed eretica, ma anzi, molto spesso, rispettosissima della fede religiosa come forma di innegabile esperienza, di cui quelle particolari indagini nella loro singolare modestia non dovevano preoccuparsi, muovendosi esse in tutt’altra direzione. Modeste ricerche – s’è detto – «filologiche» e storiche, che rinunciando a quei gravi discorsi di Dio e dell’intelletto ricercavano invece le guise delle umane città, e dei costumi e dei riti degli uomini, o, sul terreno delle scienze, volevano precisare la natura delle malattie o la struttura dei viventi con «grammaticale» pedanteria; proprio perché – come insegna il grande Antonio Benivieni – alle scuole dei «grammatici» avevano imparato un metodo e un modo di affrontare la realtà. Che è precisamente quell’atteggiamento «filologico» che, come aveva ben visto una storiografia oggi troppo facilmente disprezzata, costituisce appunto la nuova «filosofia», ossia il nuovo metodo di prospettarsi i problemi, che non va considerato quindi, come taluno crede, accanto alla filosofia tradizionale, come un aspetto secondario della cultura rinascimentale, ma proprio effettivo filosofare5 . 5 Una prospettiva, appunto, «classificatoria», in P. O. KRISTELLER, Movimenti filosofici del Rinascimento, «Giornale critico d. Filos. it.», 1950, pp 275-88, da integrarsi con Humanism and Scholasticism in the Italian Renaissance, « Byzantion»,
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2. Esigenze filologiche nuove Può essere utile, a questo proposito, rileggere l’elogio che Niccoletto Vernia, l’insospettabile Niccoletto, fece di Ermolao Barbaro per la traduzione di Temistio; o, meglio ancora, la lettera-prefazione, sempre del Vernia, all’edizione di Aristotele con i commenti di Averroè. In quella lettera il meno «umanista» degli scrittori del ’400 insiste a lungo proprio sulle cure da lui poste nell’emendare il testo, sul suo andare interrogando i greci di sua conoscenza per ottenere chiarimenti di vocaboli tecnici e lumi per comprendere le versioni – perché senza la sicurezza del testo è inutile andar discutendo a vuoto, magari di questioni inconsistenti. Leggendo quell’epistola introduttiva – così notevole dal punto di vista metodico – come astenersi dal confrontare idealmente l’edizione aristotelica del professore padovano con un codice, già del convento fiorentino di San Marco che contiene la versione latina del commento d’Eustrazio alla Nicomachea? Il manoscritto appartenne a Coluccio Salutati, e sui margini, di pugno del grande Cancelliere, vi sono annotazioni sull’esattezza dei termini, e raffronti con le espressioni originali greche, di cui si andava accertando, prima che riuscisse a far venire allo studio Manuele Crisolora, presso i bizantini che, per ragioni di commercio e per necessità politiche, venivano a Firenze6 . Perché Sa-
XVII, 1944-45 pp. 346-74 (e in italiano in «Humanitas». V, 1950, pp. 988-1015). E cfr. ora gli studi, ricchi di preziosi contributi, ove il Kristeller precisa e conferma il suo punto di vista, riuniti nel vol. Studies in Renaissance Thought and Letters, Roma, 1956. 6 L’ed. del Vernia uscì a Venezia nel 1483 (cfr. «Rinascimento», II, 1951, pp. 57-66). Il codice d’Eustrazio è alla Naz. di Firenze, Conventi I, V, 21.
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lutati, buon scolaro di Petrarca, batteva sempre su questo: sulla necessità di smetterla, innanzi ai testi dei filosofi, con le lunghe discussioni impiantate a vuoto e senza preoccuparsi di cominciare con l’intenderli nel loro valore originario esatto. In una pagina del De fato, proprio a proposito dell’interpretazione di Seneca morale, egli ricorda come, di fronte alle difficoltà nate in lui per la corruzione dei manoscritti, fosse andato raccogliendo multos codices... non modernis solum, sed antiquis scriptos litteris. Si era così reso conto della trascuratezza dei copisti, delle glosse marginali e di quelle interlineari andate a finire nel testo, della presuntuosa ignoranza dei lettori pronti a correggere dove non capivano (praesumptuosas manus iniciunt... ium detrahentes aliquid, tum addentes). Per non dir poi – soggiunge – di quello che accade quando entrano in giuoco interessi, come nel caso dei testi sacri e delle opere dei Padri, in cui preoccupazioni di vario genere hanno determinato volute alterazioni: così i vari barbari nullum omnino textum philosophorum moralium, historicorum, vel etiam poetarum non corruptissimum reliquerunt. Di qui l’esigenza di raccolte di tutti gli esemplari di un’opera, affidate quindi a «peritissimi» della lingua e della storia, per restituire ad ognuna il suo volto7 . Quello che Salutati cerca di fare per Seneca o per Agostino, Vernia tenterà per Aristotele, Nifo per la Destructio destructionis di Averroè. Ma l’incontro ideale di Coluccio e Niccoletto ha un senso tutto suo, perché uno dei pochi scritti che ci sono rimasti del Vernia è proprio un postumo attacco al Salutati, e alla sua tesi della su7 SALUTATI, De fato, fortuna et casu, II, 6, Laur. 53, 18, fol. 11 v-12r, ove lamenta anche che «usque adeo pauci sunt, qui studiis humanitatis indulgeant, licet illa commendentur ab omnibus, placeant multis et aliqui delectentur in ipsis» (cfr. Vat. lat. 2928, fol. 5 r.)
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premazia delle leggi: attacco di un tono singolarmente antiumanistico. Eppure anche quell’avversario della supremazia degli studia humanitatis, aveva, quasi senz’accorgersene, fatto tesoro della maggior conquista dell’umanesimo: la preoccupazione storico-critica di cogliere gli autori nelle loro dimensioni. La spregiudicatezza del commento aristotelico non si esaurisce più nell’insinuare un’interpretazione più o meno eretica in un testo più o meno ripugnante: già s’avvia ad essere collocazione di Aristotele nella storia, e quindi suo effettivo superamento e superamento di quante altre posizioni considerino l’aristotelismo una verità acquisita per sempre. Per questo anche Ermolao Barbaro consentiva con certi temi del Vernia8 ; per questo, a un certo momento, la lezione dei «filologi» si fa decisiva per i «filosofi», presso i quali si fa sempre più vivo il bisogno di fonti originali, di testi corretti, di precisione storica, mentre Aristotele cessa di essere un’auctoritas per diventare un pensatore come tutti gli altri, definito in un suo proprio tempo. Quando troviamo l’aperta confessione che Aristotele non basta più, perché non ha visto certi problemi, sentiamo il distacco da un antico modo di pensare: non c’è più un testo – dato per sempre – da chiosare; non c’è più – lì innanzi – la Verità da illustrare: c’è il rischio di un’avventura dove tutto è, sì, oscuro, ma tutto, ancora, è possibile. Chi ha abbattuto le colonne d’Ercole, non è l’eroe che ne ha violato il divieto, eppur vi crede, e il suo eroismo è tale proprio perché esse vi sono. Le abbatte davvero chi le spiega nel loro nascimento, e così le comprende, e poi le lascia dov’erano, elegante e curiosa «anticaglia», secondo l’espressione del buon Vespasiano da Bisticci; senza ridere né piangere, senza sdegno, ma con intendimento 8 Cfr. l’edizione della Destructio di Averroè pubblicata dal Nifo a Venezia nel 1497; di E. BARBARO le Epistole a cura di V. Branca, Firenze, 1943, I, p. 45 sgg.
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pieno. Onde sono davvero poveri untorelli tutti gli eretici, e gli averroisti più empi e gli aristotelici più arditi, innanzi a quei filologi che, pur rispettosissimi di forme tradizionali, affrontano ogni documento, ogni carta, ogni libro, considerando che, così come si presenta, esso è un fatto umano, una traccia e una risonanza umana, e come tale soggetta a esame e a discussione critica. 3. Umanesimo e storia Il primo febbraio 1392 Coluccio Salutati scriveva a don Juan Fernandez de Heredia un’epistola che è un insigne monumento di pensiero. Tesse, il pio Cancelliere, le doti della storia, educatrice dell’umanità, fonte di conoscenze concrete più alte di ogni sottigliezza teologica e filosofica, essa sola formatrice dell’uomo, perché umanità è memoria di umane azioni nel mondo, ed è «filantropia», ossia incontro e colloquio con gli uomini tutti. Nelle dimensioni della storia si attua la civiltà e si definisce la politica: «tolle de Sacris Litteris quod hystoricum est: erunt profecto reliquie res sanctissime, res mirande; sed... taliter insuaves, quod non longe poterunt te iuvare». Non stupisce che il primo storico in senso moderno sia stato il più grande allievo ed amico di Coluccio, Leonardo Bruni, cui la larga esperienza politica acquistata nelle cancellerie insegnò a veder bene addentro nelle cause dei fatti che sono sempre, per lui, libere decisioni di uomini buoni o malvagi, dagli uomini comprensibili9 . 9 B. L. ULLMAN, Leonardo Bruni and the Humanistic Historiography, «Medievalia et Humanistica», 1946, pp. 45-61 (cfr. H. BARON, Das Erwachen des historischen Denkens im Humanismus des Quattrocento, «Hist. Zeitschrift», 1933). Su humanitas, studia humanitatis e φ´ ιλανθρωπ´ ια cfr. del Guarino il commento alla Retorica (Naz. di Firenze, II, I, 67,
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Per questa via, proprio e solo l’umanesimo, concludendo del resto una lunga crisi, collocò nei suoi quadri storici e oltrepassò per sempre quell’antica visione del reale statico, a strutture rigide, astorico oggetto di contemplazione, che la logica platonico-aristotelica aveva presupposto, e dove un moto ritornante in eterno su posizioni identiche si dissolve in una parvenza di moto, mentre l’uomo e la sua vita e la sua attività si perdono in una radicale insignificanza. E quello che certi critici non afferrano è che senza la cosiddetta «retorica» dei Guarino, dei Valla, dei Poliziano, e di altri cosiffatti «pedanti», le «autorità» non sarebbero mai state rovesciate dai loro piedestalli, né la logica d’Aristotele sarebbe stata vista per quello che è: un mirabile strumento del pensiero umano, inserito e valido entro certe dimensioni culturali; logica, appunto, di Aristotele di Stagira, e magari di Euclide e di altri non pochi sottili indagatori – ma non, assolutamente, la logica. Come insegnò con tutta chiarezza Lorenzo Valla il giorno in cui non pretese più di discutere dentro l’aristotelismo, ma ruppe in blocco contro di esso. Proprio nella premessa alla Dialettica il Valla definisce la sua posizione: la logica aristotelica non è l’unica logica. Ond’egli non accetterà più l’obbligo della scuola: di giurare, cioè, che Aristotele nei fondamenti non può mai sbagliare; ché anzi egli desidera proprio di spiantare Aristotele e l’aristotelismo fin nelle radici. Fu allora, per opera di quei pedantissimi ricercatori di antiche storie, che si conquistò un uguale distacco dalla fisica d’Aristotele e dal cosmo di Tolomeo, e ci si liberò d’un tratto della loro opprimente chiusura. Perché è vero che fisici e logici di Oxford e di Parigi aveva-
fol. 113v.). Cfr. anche H. BARON, Aulus Gellius in the Renaissance and a Manuscript from the School of Guarino, «Studies in Philology», 48, 1951, pp. 107-25.
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no da tempo cominciato a rodere dentro quelle strutture, che scricchiolavano parecchio dopo il terribile crollo dato da Occam10 . Ma solo la conquista del senso dell’antico come senso della storia – propria dell’umanesimo filologico – permise di valutare quelle teorie per ciò che esse erano davvero: pensamenti d’uomini, prodotti di una certa cultura, resultati di parziali e particolari esperienze: non oracoli della natura o di Dio, rivelati da Aristotele o Averroè, ma immagini ed escogitazioni umane. Conviene rileggere il libro dodicesimo delle discussioni astrologiche del Pico, e quel suo preciso determinare la genesi storico-psicologica del nascere e del diffondersi dell’astrologia. Storicizzando a quel modo l’errore egli veniva in pari tempo, e con non minore acume, storicizzando il sapere umano. E senza volerlo, e quasi senz’accorgersene, suo nipote Gian Francesco nella spietata demolizione che venne facendo di tutte le teorie filosofiche dell’antichità, mostrandone i limiti e i rapporti, riuscì per opposta via e con opposte intenzioni a ribadire la concezione dello zio11 . O che si sottolineasse l’infinito cercare in quello che ha di perennemente insoddisfatto, o che si appuntasse lo sguardo sulla positività di una continua conquista, fino a convertire un’esigenza in una certezza, si veniva comunque acquistando il senso della storia umana. 10 Cfr. in proposito gli studi di A. MAIER, An der Grenze von Scholastik und Naturwissenschaft, Roma, 19522 ; Die Vorläufer Galileis im 14. Jahrhundert. Studien sur Naturphilosophie der Spätscholastik, Roma, 1949: Zwei Grundprobleme der scholastichen Naturphilosophie, Roma, 19512 ; Metapysische Hintergründe der spätscholastischen Naturphilosophie, Roma, 1955; Zwischen Philosophie und Mechanik, Roma, 1958. 11 Nell’Examen vanitatis doctrinae gentium.
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4. Umanesimo e platonismo Al qual proposito conviene osservare che la stessa preferenza per Platone, così costante nelle posizioni umanistiche, significò, certo, anche un moto polemico di rivolta, e fu, spesso, un’insegna di partito. Ma in profondità indicò una direzione verso un mondo aperto, discontinuo e contraddittorio, dai volti innumerevoli e cangianti, ribelle ad ogni sistemazione, a cui ci si deve avvicinare in una ricerca perenne, che non ha paura delle incoerenze apparenti, ma che è mobile sottile e varia fino a poter rispecchiare l’infinita varietà delle cose; che rifiuta le articolazioni rigide di una logica statica inette a cogliere la plastica mobilità dell’essere, eppur le fa sue, quando convenga, per sottolineare la pigrizia di ogni stasi. Platone conciliante, pacificatore con la sua possibilità di interpretazioni divergenti, non indicò una debolezza speculativa, ma la consapevolezza che i termini di ogni alternativa si escludono nella misura stessa in cui si invocano. Le parventi contraddizioni dei dialoghi svelavano quanto l’occhio acuto di Platone «divino» avesse afferrato le contraddizioni della realtà. Proprio perché filosofia di tutte le aperture e di tutte le convergenze, meditazione morale di una vita percorsa dalla speranza, eppur guardinga sui confini del mito, piuttosto umano dialogo che non trattato, esasperazione problematica erosiva di ogni sistema, anche se comprensiva delle sistemazioni; per tutto questo la filosofia di Platone fu al centro di una cultura che rifiutava le antiche sicurezze, che respingeva un mondo chiuso ordinato fisso; che si trovava in una crisi storica ove le venerande unità andavano in frantumi, il mondo e i rapporti umani cambiavano. I dialoghi pieni dell’enigmatica figura di Socrate, del suo così sottile cercare, ov’è ugualmente presente la certezza più salda e l’urgere del problema; i dialoghi così umani, così mondani e sociali, eppur divinissimi,
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Eugenio Garin - L’Umanesimo italiano
ove la speranza si alterna al rimpianto di ciò che dovrebbe essere e forse non sarà mai; ove non sai se la «terra lontana» si perda nel ricordo del bene tradito o s’annunci nell’aspettazione di una salvezza; ove la filosofia è innamoramento e passione e vista acuta di mirabili forme disegnate oltre gli aspetti sensibili, ma insieme logica sottilissima, e discussione dei molti sistemi logici possibili: tutti questi furono i chiari motivi per cui temperamenti diversissimi come un Valla e un Ficino, un Poliziano e un Pico, un Bruno e un Patrizi venerarono il «divino» Platone e lo contrapposero a quella «bestia» di Aristotele. Essi sapevano benissimo, e lo dichiararono con estrema chiarezza, che Aristotele molto spesso non aveva fatto che cristallizzare ed esasperare con rigorosa coerenza temi platonici. Ma la loro lotta era proprio contro questa cristallizzazione. La quale, per citare solo un esempio, nell’astronomia aveva trasformato una elegantissima costruzione geometrica nella teoria fisica delle sfere celesti. Così, a un certo momento, dire Platone significò soprattutto spazzare l’oppressivo mondo aristotelico, chiuso, gerarchico, finito, e conquistare contro tutte le sistemazioni uno spirito nuovo di ricerca, spregiudicato e veramente libero, mentre il tema ubi spiritus, ibi libertas, si incontrava con il nuovo programma iuvat vivere. 5. Le origini dell’umanesimo Il tema del «ritorno a Platone» richiama qui un vecchio e sempre nuovo equivoco, e cioè l’idea che l’umanesimo sia stato determinato e caratterizzato dalla conoscenza di nuovi testi classici prima ignorati; la lettura di Cicerone, di Lucrezio e di Seneca, di Platone e di Plotino avrebbe rinnovato la cultura; un aumento quantitativo di letture classiche si sarebbe trasformato in un salto qualitativo. Che è appunto il presupposto di quei dotti storici che
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vanno spulciando testi e traduzioni medievali, e centoni e florilegi e citazioni, e via via scoprono che il primo secolo dell’umanesimo è, non già fra il ’300 e il ’400 in Italia, ma il ’200, o, anzi, il secolo XII, e l’età di Alcuino e la corte carolingia12 . Ora, mentre era necessario, e proprio per intendere la peculiarità del Rinascimento, dissipare il mito dei secoli barbari, e mostrare le radici polemiche del tema della barbarie medievale, non per questo era legittimo dimenticare che la questione non riguardava i contenuti, ma le forme di una cultura. 12 È inutile ripetere qui quanto espone lungamente il Ferguson nell’opera sopra citata. Ma cfr. anche di F. SIMONE, La coscienza della Rinascita negli umanisti francesi, Roma, 1949 e La «reductio artium ad Sacram Scripturam» quale espressione dell’umanesimo medievale fino al secolo XII, «Convivium», 1949, pp. 887-927. Sul XII sec. cfr. W. A. NITZE, The so called Twelfth Century Renaissance, «Speculum», XXIII, 1948 pp. 464-71; e sono da leggersi le conclusioni di HANSLIEBESCHÜTZ, Mediaeval Humanism in the Life and writings of John of Salisbury, London, 1950, p. 94: «his thought... was determined on the whole by traditional forms of ecclesiastical literature... His humanistic outlook, for which antiquity was a kind of picture book: illustrating the types of twelfth-century life seems... to have been intimately connected with the archaic stage of European systematic thougth». Ugualmente negativi sono, in fondo, i dotti e accurati studi di R. WEISS, The Dawn of Humanism in Italy, London, 1947 e Il primo secolo dell’umamesimo, Roma, 1949, che mostrano con assoluta evidenza come «quel primitivo umanesimo, non resultante né da una reazione a una forma di speculazione filosofica, né da un consapevole desiderio di una renovatio studiorum o da una speranza di un’età d’oro», non fosse in sostanza niente affatto parente dell’umanesimo rinascimentale, ma «spontaneo e naturale sviluppo degli studi classici così come erano coltivati durante il tardo Medioevo». L’onesta conclusione del Weiss, che non toglie nulla all’utilità di cosiffatte preziose ricerche, ricolloca nella sua giusta luce lo stacco netto della nuova forma di cultura, che è davvero una nuova visione della vita.
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Bisognava senza dubbio ricordare che il Medioevo leggeva i classici, li traduceva; sapeva il greco, almeno in certi tempi e luoghi; aveva interessi naturalistici, e così via. Bisognava rendersi conto che, sì, il Medioevo, niente affatto tenebroso e barbaro, ma pieno di luci di luci di civiltà e di grandezza di pensiero, si cibò dell’antichità e la fece propria. Solo che il problema più grave è altrove, e cioé nella determinazione positiva di modi e toni e forme diverse di vita e di cultura. Meglio si conosce il Medioevo, e più si vede quanto nella sua cultura si prolungasse la cultura antica. Modi d’insegnamento, vedute e dottrine sopravvivono variamente. Se il mondo classico ha esaurito la sua linfa vitale, rimangono i suoi echi consegnati a compilazioni e a manuali, fissati in moduli scolastici. Il cristianesimo non sostituì affatto – come voleva Tertulliano – il Portico di Atene con i templi di Gerusalemme. Atene e Roma vivono nelle scuole; non nelle dottrine di Platone o di Aristotele o di Lucrezio, ormai così lontane, e troppo alte e solenni, ma nelle espressioni di una sapienza stanca, consegnata a modesti compendi. Non i dialoghi platonici, o la metafisica aristotelica, ma Porfirio o compilazioni da Porfirio. Così i vecchi libri di scuola trasmettono le cristallizzazioni estreme della cultura antica all’insegnamento medievale; e sono questi i libri innanzi a cui un reverente atteggiamento limita l’opera del maestro alla chiosa, all’ossessivo e torturante commento, il quale deve solo svelare la verità chiusa nella pagina investita dal carattere sacro proprio della parola scritta. Si insinuerà magari una glossa nel testo, si correggerà ad arbitrio il testo; quel che importa non è sapere ciò che storicamente è vero, ma l’unica Verità in qualche modo esistente alla radice dello scritto. Proprio perché il testo scritto da chi ha autorità si pone esso stesso come oggetto unico di conoscenza, dispensando dalla ricerca diretta, ogni sforzo di approfondimento si appunta a scavare la verità nello
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scritto, che non è più un documento umano, ma un oracolo a cui va strappato il senso segreto. Un autore del secolo X ci spiega come si risolve una difficoltà diagnostica: si va a Chartres e si leggono gli Aforismi di Ippocrate; e se non bastano, si leggono i commenti di Galeno, e poi i commenti di Sorano, e così via via i commenti dei commenti13 . La stessa teoria della «doppia verità» si ricollega in parte a un atteggiamento mentale del genere: il libro d’Aristotele è la rivelazione della verità naturale; il filosofare prescinde dal riferimento diretto al reale, e si limita a intendere la pagina dell’Autore. Mentre, a sua volta, la verità è così staccata dalla personalità storica di un filosofo, che importa pochissimo il veicolo terreno attraverso il quale si è manifestata. Non importa l’uomo, quell’uomo: importa un pensiero, a cui il mutar nome è meramente accidentale. Di qui le strane attribuzioni, e gli anonimi, scomparendo il singolo nell’opera sua o nel frutto di una collettività. Ov’è la grandezza e il limite di tutta una cultura: ma dov’è un carattere che va tenuto ben presente per capire la vibrazione con cui Valla dinanzi alla parola, al verbum, richiama al fatto che ci troviamo innanzi a un puro mezzo di comunicazione, cosa certo grandissima, ma umana. Onde la logica, la dialettica, va ricondotta dai cieli della teologia ai piani della retorica e della grammatica, sul più umile terreno dei rapporti mondani. Né diversamente Guarino, all’inizio del suo corso di retorica, ricordava come retorica e dialettica fossero scienze mondane. Ed Ermolao Barbaro nella prolusione al suo corso su Aristotele, che teneva in Padova al sorger del sole, sentiva il bisogno di dire esser suo scopo far entrare Aristotele come viva persona in un colloquio 13 RICHER, Histoire de France (888-995), éd. R. Latouche, Paris, 1930-37, II, pp. 224-31.
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umano: ut cum ipso vivo et praesente loqui videamur. Un uomo vivo e presente, amato nei suoi limiti. 6. Umanesimo e antichità classica Proprio l’atteggiamento assunto di fronte alla cultura del passato, al passato, definisce chiaramente l’essenza dell’umanesimo. E la peculiarità di tale atteggiamento non va collocata in un singolare moto d’ammirazione o d’affetto, né in una conoscenza più larga, ma in una ben definita coscienza storica. I «barbari» non furono tali per avere ignorato i classici, ma per non averli compresi nella verità della loro situazione storica. Gli umanisti scoprono i classici perché li distaccano da sé, tentando di definirli senza confondere col proprio il loro latino. Perciò l’umanesimo ha veramente scoperto gli antichi, siano essi Virgilio o Aristotele pur notissimi nel Medioevo: perché ha restituito Virgilio al suo tempo e al suo mondo, e ha cercato di spiegare Aristotele nell’ambito dei problemi e delle conoscenze dell’Atene del quarto secolo avanti Cristo. Onde non può né deve distinguersi, nell’umanesimo, la scoperta del mondo antico e la scoperta dell’uomo, perché furon tutt’uno; perché scoprir l’antico come tale fu commisurare sé ad esso, e staccarsene, e porsi in rapporto con esso. Significò tempo e memoria, e senso della creazione umana e dell’opera terrena e della responsabilità. Ché non a caso i maggiori umanisti furono in gran numero uomini di Stato, uomini attivi, usi al libero operare nella vita pubblica del tempo loro. Ma il punto in cui si concretò quella presa di coscienza fu l’accendersi di una discussione critica innanzi ai documenti del passato che, indipendentemente da ogni resultato specifico, permise di stabilire una nostra distanza rispetto a quel passato: quei settecento anni di tenebre – tanti ne contava Leonardo Bruni – in cui ottenebrato era
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lo spirito di critica, in cui sembrava affievolita la consapevolezza della storia come farsi umano. Quel punto di crisi si concretò e prese dimensioni precise appunto nella «filologia» umanistica, che è consapevolezza del passato come tale, e visione mondana della realtà e umana spiegazione della storia degli uomini. Quando apriamo le «miscellanee» del Poliziano, subito, nel primo capitolo, ci viene innanzi «Endelechia», l’anima: ma non si tratta della Dea cantata nel secolo XII da Bernardo Silvestre, o variamente entificata nei commentarî dei platonici; e neppure si discute dell’unità dell’intelletto possibile, e dei suoi rapporti con l’individuo. La questione è di vocaboli: entelecheia o endelecheia? movimento perenne o atto perfetto? Poliziano con estrema lucidezza, con le testimonianze classiche alla mano, illustra due concezioni dell’anima, Platone in rapporto ad Aristotele, ciò che importano le diverse premesse, il pensiero che si è definito in quei vocaboli. Noi vediamo il generarsi di due teorie, il loro rapporto storico: noi afferriamo il senso di un momento della storia della filosofia. Apriamo, di Valla, il famoso capitolo trentottesimo del sesto libro delle Eleganze: si discute del termine persona, e in una discussione grammaticale, ridotta persona a qualità, si taglia con rasoio occamistico una grave questione teologica. Né a caso il Valla rimanda alla sua «dialettica», che è riduzione rigorosa della filosofia da teologia ad analisi delle strutture del pensiero quali si rivelano nel discorso. Apriamo le Annotazioni a Nuovo Testamento e leggiamo: «non esistono parole di Cristo, il quale parlò in ebraico e non scrisse nulla». E riferendosi all’osservazione di san Girolamo sulla corruzione dei codici biblici: «se dopo soli quattrocento anni il fiume si era così intorbidato, che meraviglia se dopo mille anni, quanti ne cor-
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rono da san Girolamo a noi, questo fiume, mai purgato, trascina fango e detriti?». Mentre i testi più venerabili sono affrontati nella loro realtà storica, mentre le carte degli antichi privilegi sono sottoposte al vaglio di una critica demolitrice, delle concezioni del cosmo che sembravano ugualmente intangibili si vanno rintracciando le basi in vecchie superstizioni e in lontani errori. Poliziano sorride perfino del codice delle Pandette mostrato in cappella a Palazzo Vecchio a lume di candela: quelle pergamene sono per lui un problema storico: sono sacre solo nella misura in cui è sacra ogni opera umana valida, destinata non a chiudere per sempre, ma ad aprire le vie degli uomini. Questo è il senso della «filologia» umanistica: e ben si capisce che questi uomini fossero pedantissimi, sensibili come erano alla fecondità di un metodo. Perché v’è tanto commovente amore in quel desiderio esasperato di recuperare quanti più ricordi è possibile dell’umana fatica. Poliziano innanzi a un verso di Teocrito o di Stazio vuol ritrovare ogni sapore, ogni allusione14 . Poiché la verità aperta agli uomini è tutta in quest’opera, in questo poieîn infaticabile, in questo nostro mondo: ed afferrarne il senso è conquistare il senso di noi, dei nostri limiti, come delle nostre possibilità. Innanzi alle sue «miscellanee» Poliziano ha scritto pagine che non costituiscono solo una grande lezione di umanità: esse definiscono un metodo valido in ogni campo di indagine. Si capisce, leggendole, perché il Rinascimento non fu solo tempo d’artisti, ma anche di scienziati, di Toscanelli e di Galileo; si capisce perché gli sterili, anche se sottilissimi dibattiti dei fisici e dei logici medievali si fecero fecondissimi solo dopo la nuova lezione, che pur sembrava così lonta14 Cfr. Laur, XXXII, 46 (Teocrito), Magliab. VII, 973 (commento a Stazio).
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na nel suo significato15 . Si capiscono i medici nuovi usciti dalle scuole di filologia; e innanzi a quella rigorosissima, e vorrei dir spietata istanza critica, si capisce il dubbio di Cartesio. E si capisce anche perché, per circa due secoli, la cultura italiana dominasse l’intera Europa, e l’Italia potesse sembrare terra feracissima di innumerevoli ingegni filosofici16 . 15 Cfr. E. CALLOT, La Renaissance des Sciences de la vie au XVI.me siècle, Paris, 1951, p. 14 sgg. Il Callot deve constatare, senza capirne la ragione, questa funzione positiva dell’umanesimo; ma la ragione è chiara a chi abbia mente a comprendere, e va ricercata in una «educazione» e nella conquista di un metodo, di una logica. 16 Cfr. il curioso e importante testo del Naudé pubblicato dal Croce nei «Quaderni della Critica», 10 marzo 1948, pp. 116-17. (A proposito delle questioni generali sopra discusse sono ora da vedere: B. L. ULLMAN, Studies in the Italian Renaissance, Roma, 1955; G. SARTON, The Appreciaton of Ancient and Medieval Science during the Renaissance, 1450-1600, Philadelphia, 1955; C. DIONISOTTI, Discorso sull’umanesimo italiano, Verona, 1956. Sul problema della periodizzazione fondamentale è la relazione di D. CANTIMORI, La periodizzazione dell’età del Rinascimento nella storia d’Italia e in quella d’Europa, X Congresso Int. di Scienze Storiche, 1955, Relazioni, vol. IV, Firenze, 1955, pp. 307-334. Una messa a punto di alcuni aspetti della discussione si trova nei due scritti di W. K. FERGUSON, Italian Humanism: Hans Baron’s Contribution, e di H. BARON, Moot Problems: Answer to Ferguson, usciti nel «Journal of the History of Ideas», 19, 1958, pp. 14-34).
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LE ORIGINI DELL’UMANESIMO
DA FRANCESCO PETRARCA A COLUCCIO SALUTATI
1. Lettere umane e vita civile «Francesco Petrarca fu il primo il quale ebbe tanta grazia d’ingegno, che riconobbe e rivocò in luce l’antica leggiadria dello stilo perduto e spento». Così Leonardo Bruni nella sua vita del Petrarca, che è del 1436, consacrando quello che fu, tra gli umanisti, diffuso giudizio: essere stata l’opera di Messer Francesco l’aurora del nuovo giorno spuntato dalla barbarie e dalla tenebra medievale17 . Coluccio Salutati menzionerà spesso anche Albertino Mussato, cui fu caro il pensiero classico, e che 17 LEONARDO BRUNI, Vita di Messer Francesco Petrarca, ap. PHILIPPI VILLANI Liber de civitatis Florentinae famosis civibus... cura et studio G. C. Galletti, Florentiae, 1847, p. 53; JULII CAESARIS SCALIGERI Poetices libri VII, VI, I (Apud Petrum Santandreanum, 1594, p. 765): «de integro rediviva novam sub Petrarcha pueritiam inchoasse... visa est»; G. J. VOSSII De historicis latinis, Lugd. Batav. 1651, p. 524. Il che non esclude, in molti, l’idea che le «tenebre» fossero durate meno, e cioè solo tre secoli, fino alla venuta di Carlo Magno. Domenico Silvestri, amico del Salutati, autore di un De insulis et earum proprietatibus (ed. C. Pecoraro, Palermo, 1955, «Atti d. Acc. Science, Lettere e Arti», s. IV, vol. 14, 1953-54; sul S. cfr. P. G. RICCI, Per una monografia su D. S., «Annali Scuola Normale Sup. Pisa», 1950, pp. 13-24; R. WEISS, Note per una monografia su D. S., ivi, pp. 198-201), in un’epistola a Giuliano Zonarini (ms. Naz. Firenze, II, IV, 109, f. 79 v) «cum Florentia tribus seculis latuisset». Non diversamente Donato Acciaiuoli nella vita di Carlo Magno (ms. Naz. Firenze, II, II, 10). Filippo Villani riporta a Dante il merito di aver tratto le lette-
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discusse sul tema diffuso della fortuna18 . Ma il padre verace della nuova devozione per la humanitas classica fu, agli occhi di tutti, il Petrarca. Il quale si avvicinò alle lettere, agli studia humanitatis, con la consapevolezza del loro significato, del valore che per l’umanità intera aveva una educazione dello spirito condotta nel colloquio assiduo con i grandi maestri del mondo antico. Essi soli, infatti, hanno inteso a pieno che cosa significhi la cultura dell’anima raggiunta attraverso lo studio dei prodotti più alti dello spirito umano. In una delle sue lettere familiari Petrarca viene mostrando in che modo eloquenza, ossia disciplina letteraria, e filosofia, ossia cura dell’anima, si congiungano strettamente. È il discorso, il sermo, che, esprimendosi, dà la misura propria e dell’animo da cui deriva. «Non
re ex abysso tenebrarum. In realtà si viene presto distinguendo fra rinascita politica e della cultura teologica, e risveglio degli studia humanitatis, come fisserà ormai nettamente Raffaele da Volterra nei Commentarii urbani dedicati a Giulio II. La «coscienza della rinascita», divenuta nel ’400 italiano un luogo comune retorico, passò poi in Francia (cfr. F. SIMONE, La coscienza della Rinascita negli umanisti francesi, Roma, 1949, e le osservazioni di chi scrive in «Rinascimento». 1950, pp. 91-97). 18 Sul De lite naturae et fortunae (ms. nella Bibl. Colombina di Siviglia, 5, I, 5; ms. B. P. 2531 della Bibl. Civica di Padova) cfr. le Giunte e correzioni dello ZIPPEL alla versione italiana del VOIGT, Il risorgimento dell’antichità classica, Firenze, 1888-1897; A. MOSCHETTI, Il «de lite inter naturam et fortunam» e il «contra casus fortuitos» di A. M., «Miscellanea di studi critici... in onore di V. Crescini», Cividale del Friuli, 1927, pp. 567-90; G. BILLANOVICH-G. TRAVIGLIA, Per l’edizione del «de lite inter naturam et fortunam» e del «contra casus fortuitos» di A. M., «Boll. Museo Civico di Padova», XXXI, XLIII, 1942-54. Al Mussato il Salutati univa Geri d’Arezzo; su questi «preumanisti» cfr. R. WEISS, The Dawn of Humanism in Italy, London, 1947, e Il primo secolo dell’umanesimo, Roma, 1949.
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piccolo indice dell’animo è il discorso», che, venendo alla luce, sottoponendosi al controllo altrui, accetta una disciplina e rivela un atteggiamento. «Né il discorso può aver dignità, se l’animo non la possiede», mentre, d’altra parte, l’uscire con la parola tra gli uomini dà all’interiorità misura e senso concreto. «Se, infatti, le nostre passioni prima non si armonizzino, è necessario che contrastino anche costume interiore e parole. Ma un’anima ben disposta, quasi fosse su un’altura serena, rimane sempre calma e tranquilla... E se anche non è esperta nei lenocinî dell’arte oratoria, esprime parole magnifiche e chiare, consone a sé». Interno ed esterno, mente e discorso, si connettono indissolubilmente. Né vale esaltare un intimo solitario parlare dell’uomo con sé. Noi dobbiamo, se vogliamo essere uomini, comunicare con gli uomini. «Noi dobbiamo adoprarci per giovare a coloro con cui viviamo; e nessuno può dubitare che alle anime loro possiamo sommamente giovare con le nostre parole». E non tanto per il contenuto moralistico di un sermone, quanto per la potenza elevatrice del colloquio umano. Il quale ci conglunge oltre il tempo e lo spazio, oltre i deserti e i millenni, e plasma e placa le nostre menti19 . Né ci turbi il pensiero dell’oblio in cui cadrà l’opera nostra, o della vanità sua, o del fatale trascorrere di tutte le cose. «Scorrano gli anni a mille a mille; si aggiungano i secoli ai secoli; mai si loderà la virtù a sufficienza, o si esalterà abbastanza l’amore di Dio, o si combatterà il vizio. Mai l’acume della mente troverà preclusa la strada a nuove indagini. Stiamo perciò di buon animo; la nostra fatica non sarà vana. Né faticheranno invano coloro che, fra lungo volgere d’anni, si apriranno alla vita nel crepuscolo del mondo». Ceterorum ominum charitas, la carità del prossimo – ecco, per Petrarca, lo stimolo 19 PETRARCA, Familiar. rer., I, 9 (ed. ROSSI-BOSCO, vol. I, Firenze, 1933, p. 45 sgg.).
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e il fine degli studia humanitatis, ed il prossimo è con noi, idealmente, anche nel ritiro della nostra solitudine, quando le parole più solenni degli antichi saggi suonano familiari e amiche, non solo nel cuore, ma sulle labbra, a svegliare l’animo dormiente (voces familiares ac nolae, non modo corde conceptae, sed etiam ore prolatae, quibus dormitantem animum excitare soleo). Due dei più caratteristici motivi dell’umanesimo sono qui evidenti: il valore delle lettere umane e il carattere sociale di una verace umanità. Altrove, scrivendo a un amico che aveva manifestato il proposito di darsi alla vita monastica, noi vediamo Petrarca svolgere largamente il tema del valore della vita attiva20 . E lo vediamo citare uno dei testi ciceroniani che saranno più cari alla letteratura moralistica del ’400: «niente v’è in terra di più gradito a quel Dio che governa tutto questo mondo, degli uomini riuniti nel vincolo sociale... Per tutti coloro che abbiano conservato, accresciuto, aiutato la patria, è pronto in cielo il luogo ove beati godranno in eterno». Né questo, come potrebbe sembrare, è in contrasto con le lodi della solitudine. È necessario, innanzitutto, ritrovare se stessi, riscoprire in sé la propria umanità per ritrovarsi insieme uomini tra uomini. La carità di patria e l’amor del prossimo non contrastano, anzi si connettono strettamente, con questa educazione interiore, che è la premessa di ogni feconda attività terrena. Perciò il viaggio, che in Petrarca durò tutta una vita, alla scoperta dell’anima propria, fu insieme la conquista di un più solido legame con gli altri uomini. In nome del quale egli vibrò d’entusiasmo patriottico all’appello lanciato in Roma da Cola di Rienzo, per una renovatio della «sacra Italia». Anche se egli era alienissimo dai sogni gioachimiti e dalle mistiche speranze nel prossimo avvento della terza età di cui invece andava inebbriandosi il tribuno. Differenza, 20
PETRARCA, Familiar. rer., III, 12 (vol. I, pp. 128-131).
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questa, essenziale, di cui va tenuto conto nel paragonare l’opera di Cola con la posizione di Petrarca, vagheggiante, non più i sogni profetici dell’Evangelo eterno, ma l’umanità completa degli Scipioni e dei Cesari21 . 2. L’analisi della vita interiore Ritirarsi in solitudine significava per Petrarca ritrovare tutta la ricchezza della propria interiorità, ritrovare il contatto con Dio, aprirsi la strada a un valido contatto col prossimo. La solitudine non era monastico ritiro in barbaro isolamento, ma iniziazione a una società più vera, a una charitas effettiva. L’appello all’interiorità che Petrarca rinnova in termini agostiniani non suona isolamento, ma esaltazione del mondo umano, del mondo dei valori e dell’azione, del linguaggio e della società che congiunge oltre il tempo e lo spazio, oltre ogni limite. La celebre epistola a frate Dionigi da Borgo San Sepolcro, ove descrive l’ascesa sul monte Ventoso, è la presentazione vivissima di questa conversione dalla natura allo spirito, necessaria premessa per una nuova valutazione del regno dello spirito. «E come Antonio, udite queste parole, più non cercò; come Agostino, dopo tale lettura, non andò più oltre; così io in queste brevi frasi silenziosamente riflettendo compresi tutta la stoltezza dell’uomo che, trascurato ciò che possiede di più nobile, si 21 I testi in K. BURDACH, Rienzo und die geistige Wandlung seiner Zeit, Berlin, 1913-28. Per la Vita Caesaris e l’ideale dell’uomo completo è da vedere R. DE MATTEI, Il sentimento politico del Petrarca, Firenze, 1944, p. 103 e sgg. Sulla composizione dello scritto cfr. anche G. MARTELLOTTI, Petrarca e Cesare, «Annali Scuola Normale Sup. di Pisa», 1947, pp. 149-158 (su alcuni aspetti dell’opera di Cola v. JOSEF MACEK, Racines sociales de l’insurrection de Cola di Rienzo, «Historica», VI, Praha, 1963, pp. 45-107).
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disperde nelle molte cose esterne, e quasi svanisce nelle parvenze del mondo esteriore, cercando fuori quello che dentro di sé già possedeva». Il monte che prima s’innalzava altissimo sembra ben misera cosa; «ne guardai la cima – esclama il poeta – e più non raggiungeva un cubito confrontata all’abissale profondità della contemplazione umana»22 . La ricchezza di Petrarca è forse tutta qui, nell’insistenza su queste esperienze fondamentali con cui l’uomo, stracciato il velo dell’interiore illusione che lo chiude a se stesso, si ritrova nella propria miseria e nella propria nobiltà. Ed eccolo indugiare particolarmente sul pensiero della morte, esortando gli uomini a riconoscere se stessi nella seria meditazione della propria morte. «Nessuno crede alla propria morte» – esclama in una lettera; e altrove descrive il suo andar raffigurando l’agonia, e lo sfacelo del corpo, e il dolore, e lo spengersi atroce di ogni vigore. «Te a te medesimo restituisci;... straccia i veli, e dischiuse le tenebre ficca in quella gli occhi, e guarda che non passi alcun dì, né alcuna notte, la quale non ti porga la memoria dell’estremo tempo». Che è, non tanto ascetica rinuncia, quanto restituzione di sé a se stesso. Poco prima Petrarca aveva esaltato la gloria. Solo che l’uomo, per vivere in sincera umanità, deve cogliere se medesimo nella sua verità, ricordandosi sempre della sua condizione23 . Comunque il problema di Petrarca è questo; la sua filosofia, profondamente avversa alle vuote dispute delle 22 PETRARCA, Familiar. rer., IV, I (vol. I, p. 153 e sgg.). Su Dionigi e la celebre lettera (del 26 aprile 1336) v. U. MARIANI, Il Petrarca e gli agostiniani, Roma, 1946, p. 31 sgg., p. 41 (Dionigi aveva anche commentato Valerio Massimo) 23 PETRARCA, Familiar. rer., VIII, 4 (vol. II, p. 164): «nemo est qui se moriturus credat». L’Autobiografia, il Secreto e Dell’ignoranza sua e d’altrui, a cura di Angelo Solerti, Firenze, 1904, p. 170.
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scuole, è indagine sulla vita degli uomini. L’amico suo Bonsembiante Badoer, muovendosi per entro gli schemi dell’ultima scolastica, aveva riconosciuto il fallimento cui andava incontro lo sforzo di un millennio. Non sappiamo se nei «lunghi colloqui», cui accenna il poeta, comunicasse all’amico i resultati della propria ricerca24 . Certo è che il Petrarca si mostrò sempre fieramente avverso alla filosofia ufficiale di Padova, di Bologna e di Parigi, tutta impegnata nei problemi logici e fisici che il tardo nominalismo andava esasperando. La sua crudele condanna dell’indagine naturalistica, della medicina, della scienza averroistica, significava richiamo alle scienze dello spirito, all’indagine intorno all’anima ed alla vita umana. «Costui molte cose sa delle belve, degli uccelli e dei pesci, e ben conosce quanti crini il leone abbia sul capo, e quante penne nella coda lo sparviero, e con quante spire il polipo avvolga il naufrago; ...come la fenice, abbruciata da fuoco aromatico, quindi rinasca, e il riccio fermi una nave spinta a qualsiasi velocità, ma tratto dall’acqua perda ogni potere... Cose, tutte, in gran parte... false; ma quand’anche fossero vere, a nulla servirebbero per la vita beata. Io infatti mi domando a che giovi il conoscere la natura delle belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpenti, ed ignorare o non curar di sapere la natura dell’uomo, perché siam nati, donde veniamo, dove andiamo»25 . PETRARCA, Seniles, XI, 14. PETRARCA, Dell’ignoranza sua e d’altrui, pp. 272-73. [Sulla polemica del Petrarca, sui suoi «amici», sull’«averroismo», cfr. P. O. KRISTELLER, Petrarca’s «Averroists». A Note on the History of Aristotelians in Venice, Padua and Bononia, «Mélanges Augustin Renaudet», «Bibl. Humanisme et Renaissance», IV, 1952, pp. 59-65; ID., Il Petrarca, l’Umanesimo e la Scolastica a Venezia, nel vol. La civiltà veneziana del Trecento, Firenze, 1956, pp. 147-8; B. NARDI, Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, nel vol. La civiltà veneziana nel Quattrocento, Firenze, 1957, pp. 101-45]. 24 25
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Alla vana ricerca intorno alla natura delle cose Petrarca oppone recisamente l’indagine umana, una umile filosofia degli uomini e della città terrena da loro edificata. Il mondo di Dio è chiuso con sette sigilli alla mente finita, ed è empio e fuori luogo volerlo penetrare. «I segreti della natura, i ben difficili misteri di Dio, che noi accettiamo con umile fede, costoro con superba iattanza si sforzano di comprendere, ma non li raggiungono, né ad essi neppur si avvicinano; gli stolti credono di stringere nel loro pugno il cielo, contenti della loro falsa opinione par loro realmente di stringerlo, felici nell’errore; né da tanta pazzia vale a ritrarli l’assurdità dell’impresa, così bene espressa dalle parole dell’Apostolo ai Romani: Chi conosce gli arcani di Dio? Chi fu a parte de’ suoi consigli?»26 . 3. La polemica contro le scienze della natura Fu appunto questa esigenza di una indagine umana, morale, quella che alimentò la insistente polemica petrarchesca contro le scienze della natura, che si precisò nell’implacabile avversione contro i medici, in quanto la medicina significava conoscenza e cura dei corpi. Nell’Invectiva contra medicum quendam, che avrà un’eco non piccola nella disputa quattrocentesca intorno al rapporto fra scienze della natura e scienze dello spirito, Petrarca esclama vivacemente: «Fai il tuo mestiere, meccanico, ti prego, se ci riesci; cura i corpi se puoi, e altrimenti uccidi e fatti pagare la mercede del tuo delitto... Ma come potresti osare con inaudito sacrilegio di subordinare la retorica alla medicina, la padrona alla serva, un’ar26
PETRARCA, loc. cit., p. 289.
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te liberale a un’arte meccanica?»27 . E suona commento a questa invettiva l’altra affermazione delle Senili: «compito vostro è la cura dei corpi; lasciate ai veri filosofi e agli oratori la cura e la educazione delle anime»28 . In Cicerone e in Platone, conosciuto piuttosto per fama che non direttamente, attraverso la tradizione patristica e S. Agostino, Petrarca cercava appunto una direzione diversa da quella rigidamente logica e fisica dell’occamismo, dell’averroismo, della scolastica parigina e padovana. All’occhio esperto dello storico potranno svelarsi analogie sottili fra l’estremo nominalismo ed i nuovi interessi filologici e retorici, così come già si sono manifestati intimi legami fra la fisica parigina e la nuova scienza rinascimentale29 . In Petrarca, tuttavia, il tema ciceroniano, o l’appello a Platone, significano affermazione di un filosofare che sia riforma morale, rinnovamento spirituale dell’uomo e della città terrena, instaurazione di una nuova forma di vita. I dialoghi di Platone che conobbe Petrarca furon quelli stessi che il Medioevo aveva studia27 PETRARCA, Invectiva in medicum quendam; Opera, Basilea, 1581, p. 1087 sgg. Una buona edizione critica delle Invective ha dato Pier Giorgio Ricci (Roma, 1960) che vi ha opportunamente aggiunto il volgarizzamento di Domenico Silvestri. 28 PETRARCA, Senil., III, 7; Opera, p. 778. 29 Alcuni temi fondamentali, suscettibili di ampi sviluppi, si trovano nei saggi del Michalski, pubblicati fra il 1924 o il 1938 (v. l’elenco in«Giornale crit. d. filos. it.», 1948, pp. 386-87), a proposito del dissolversi della Scolastica. Perché è difficile trascurare l’amicizia di Geri d’Arezzo con l’occamista arditissimo fra’ Bernardo, che fu in relazione con Nicola di Autrecourt (è questo, infatti, il Bernardo di cui parla il WEISS, Il primo secolo cit., p. 190), o quello che scrive il Salutati al logico nominalista Pietro Alboino da Mantova, convertitosi alla poesia (sul quale v. quanto ho scritto sul «Giornale critico», 1948, pp. 203-4, 389-90): «enuda sophismatum apparentiam; redde nobis rerum noticiam... tum velim de poetica cogites».
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to: il Timeo, il Fedone, il Menone30 . Degli altri egli possedeva i codici, ma erano pagine mute a lui ignaro di greco. È vano, dunque, ricondurre a un’influenza platonica un atteggiamento di pensiero che invocò Platone solo come arma polemica contro il prevalere, con l’aristotelismo, della preoccupazione teoretica e dell’indagine naturalistica. Nel platonismo, come del resto nella retorica, si cercava un ritorno ai problemi della comunicazione umana, della società umana. Si voleva, in una parola, ritrovare il senso concreto della città terrena, rivalutando quelle virtù politiche alle quali, come Petrarca ricorda sulle orme di Macrobio, e quindi di Plotino, è aperto il regno dei cieli. E se il poeta non rivendica ancora, in questo mondo, un primato della virtù attiva, insiste sulla necessità di riconoscerle tutto il suo valore accanto alla virtù contemplativa. Di più, egli accenna al motivo, che doveva venire largamente svolto, della connessione di tutte le discipline liberali appunto con la vita attiva, con la vita civile, mentre con fiero disdegno viene investendo le scienze della natura. In realtà mentre la pura contemplazione viene relegata nell’altra vita, la vita terrena viene ponendosi come campo fecondo delle attività umane, della moralità umana. La nuova filosofia nasce sul terreno della morale, in una polemica sempre più aspra fra natura e umanità, o anche, se si vuole, fra fato, fortuna e virtù. Petrarca stesso sognava di comporre, aveva anzi posto mano a «un trattato contro quel rabbioso cane ch’è Averroè, il quale agitato da infernale furore, con empi latrati, e con bestemmie da ogni parte raccolte, oltraggia e lacera il santo nome di Cristo e la cattolica fede». Così scriveva 30 Cfr. L. MINIO-PALUELLO, Il«Fedone» latino con note autografe del Petrarca, «Rendic. Acc. Lincei», Cl. sc. mor., IV; 4 (1949, pp. 107-113; Plato Latinus, II, Phaedo, Londini, 1950, p. XII.
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all’agostiniano Luigi Marsili, a cui raccomandava di congiungere, sulle orme di Lattanzio e di Agostino, studia humanitatis e studia divinitatis, e a cui commetteva insieme il compito di continuare l’opera sua nella costruzione di una pia philosophia31 . Il nome del Marsili ci riporta ai colloqui del «Paradiso degli Alberti», a quel fervido focolaio di cultura umanistica che fu in Firenze il Convento di Santo Spirito, a quel circolo di dotti fra cui primeggiò Coluccio Salutati, e che Leonardo Bruni ritrasse nei suoi Dialogi ad Petrum Histrum32 . Proprio del Marsili, nobile figura di sacerdote piissimo, intransigente fustigatore della corruzione pontificia in Avignone, tesserà Leonardo un magnifico elogio: «riteneva nella mente non solo le cose che hanno riguardo alla fede, ma anche quelle che chiamano gentili. E sempre aveva sulle labbra Cicerone, Virgilio, Seneca e gli altri antichi, e ne riferiva non solo le opinioni e le sentenze, ma anche le parole, e non come detti d’altri, ma come cose sue»33 . Maestro incomparabile di tutti i fiorentini – lo chiamerà il Salutati, il maggiore erede e il più fedele continuatore della tradizione del Petrarca. Del cui pensiero sottolineava appunPETRARCA, Senil. IV, 6-7. ALESSANDRO WESSELOFSKY, Il Paradiso degli Alberti; Ritrovi e Ragionamenti del 1389: romanzo di Giovanni da Prato, Bologna, 1867. Sul Marsili cfr. U. MARIANI, op. cit., p. 66 sgg. Singolare interesse, fra i documenti editi dal Wesselofsky, ha il poemetto in lode di Occam composto dal Cieco degli Organi [su cui cfr. C. VASOLI, Polemiche occamiste, «Rinascimento», III, 1952, pp. 119-41] Per la polemica retorica-dialettica, oltre i «dialoghi» del Bruni, son da vedere i testi pubblicati da A. MANETTI, Roberto de’ Rossi, «Rinascimento», II (1951), pp. 33-55. 33 LEONARDO BRUNI, Dialogi ad Petrum Histrum, ap. MEHUS, Historia litteraria florentina (AMBROSII TRAVERSARII Latinae Epistolae, I), Florentiae, 1759, p. CCLXXXIII. 31
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to il valore etico, l’interesse umano. In una celebre lettera, scritta al conte Roberto Guidi di Battifolle in morte del poeta, oppone alla vuota dialettica delle scuole la sottile ricerca dei moti dell’animo, la scuola di vita, l’elevazione a Dio, quali motivi centrali della filosofia petrarchesca. «E per non parlare delle arti liberali..., fu sommo in quella filosofia che è dono divino, e regolatrice di tutte le virtù, e purificatrice dei vizi..., e di tutte le scienze signora e maestra. Né mi riferisco a quella che i moderni sofisti con vuota vanagloria, e sciocca e impudente leggerezza, esaltano nelle scuole, ma ad una sapienza che plasma le anime, che forma le virtù, che lava le macchie dei vizi, che illustra, al di fuori delle sottigliezze dialettiche, la verità»34 . 4. Coluccio Salutati Proprio in questa indagine nuova sulla vita dell’uomo fu grande Coluccio Salutati. Nei trattati morali, ma più ancora nelle pagine mirabili del suo vastissimo epistolario, egli viene proponendoci la sua fine riflessione su una ricchissima esperienza interiore. Educato alla scuola di Pietro da Muglio negli studi di logica e di grammatica (plurima veterum grammaticorum et dialecticorucm assidua lectione perlegit), dotto di diritto, come cancelliere della Signoria di Firenze pesò con la sua attività nella vita politica italiana. Fiero difensore della florentina libertas, unica degna erede della romana libertas, le sue lettere ufficiali, secondo il celebre detto del Visconti, erano più temibili di un esercito in campo. Non a caso Pio II lodava la saggezza dei reggitori di Firenze che sceglievano come can34 COLUCCIO SALUTATI, Epistolario, ed. Francesco Novati, vol. I, Roma, 1891, pp. 178-79.
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cellieri della loro repubblica i più grandi umanisti35 . Vita politica e vita di pensiero ci appaiono infatti nel Salutati, come poi nel Bruni, felicemente congiunte; il saggio, il dotto, non è un solitario staccato dalle vicende degli uomini, ma un uomo che risponde alla sua vocazione, che serve il suo Signore celeste fra i tumulti della vita terrena. Il motto di Salutati, e l’epigrafe più degna della sua attività, potrebbero essere le parole di esortazione alla lotta rivolte nel De saeculo et religione a Niccolò di Lapo da Uzzano; o le altre, fermissime, indirizzate sul tramonto della vita a frate Raffaello Bonciani: standum est in acie, conserendae manus, luctandum pro iusticia, pro veritate, pro honestate36 . Terrestre è la vocazione umana. L’impegno nostro è nella costruzione della città terrena, nella società. «Le due cose in terra più dolci sono la patria e gli amici». In un’altra lettera, a Pellegrino Zambeccari che voleva farsi monaco, suona aperta la lode della vita attiva. «Non credere, o Pellegrino, che fuggire la folla, evitare la vista delle cose belle, chiudersi in un chiostro o segregarsi in un eremo, siano la via della perfezione. Credi tu 35 G. MANETTI, De illustribus longaevis, Cod. Urb. lat. 387 (in F. NOVATI, op. cit., IV, 2). Invectiva LINI COLUCII SALUTATI... In Antonium Luschum Vicentinum..., Florentiae, 1825, pp. 21-22, 54. Cfr. AENEAE SYLVII In Europam sui temporis, LIV (Opera, Basilea, 1571, p. 454): «commendanda est multis in rebus Florentinorum prudentia, tum maxime quod in legendis cancellariis, non iuris scientiam, ut pleraeque civitates, sed oratoriam spectant et quae vocant humanitatis studia. Norunt enim recte scribendi dicendique artem, non Bartholum aut Innocentium, sed Tullium Quintilianumque tradere... Coluccius, cuius ea dicendi vis fuit, ut Galeacius Mediolanensium princeps, qui patrum nostrorum memoria gravissimum Florentinis bellum intulit, crebro auditus est dicere, non tam sibi mille Florentinorum equites quam Colucii scripta nocere...» 36 C. SALUTATI, De saeculo et religione, I, I.
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veramente che a Dio sia stato più caro Paolo solitario e inattivo di Abramo operoso? Non pensi tu che al Signore sia stato ben più diletto Giacobbe con dodici figli, con due mogli, con tante greggi, dei due Macari, di Teofilo, di Ilarione? Fuggendo dal mondo tu puoi precipitare dal cielo in terra, mentre io, rimanendo tra le cose terrene, potrò alzare il mio cuore dalla terra al cielo. Provvedendo, servendo, preoccupandoti della famiglia, dei figli, dei parenti, degli amici, della patria che tutto riabbraccia, non puoi non elevare il tuo cuore al cielo e non piacere a Dio»37 . Nell’altra vita noi assurgeremo alla gloria della contemplazione, ma solo se in questa vita avremo combattuto la nostra battaglia, assolto la nostra opera, fedelmente compiuto la nostra giornata. Nel più rigorosamente ascetico dei suoi trattati, il De saeculo et religione, Coluccio Salutati presenta tutta la vita religiosa come operosità, lotta, lavoro. «La religione è la dura via della virtù...; la travagliosa via della lotta verso il porto della pace...; l’aspro cammino che fra gli scogli del mondo conduce ai dolci riposi del cielo». Non mai ritiro, ma sempre contrasto, prova, fatica: summus hic profecto labor. E fatica concorde: a chi nel pericolo di una epidemia gli suggerisce la fuga, il Salutati risponde sdegnoso che l’uomo non può venir meno mai al vincolo comune che lo congiunge ai fratelli. Meditazione su questa umana operosità, coscienza più viva di questo comune lavoro; riflessione sulla condizione umana e sulla sorte dell’uomo, sulla sua condotta, sulle forme della sua vita; presa più viva di contatto con tutta la drammaticità dell’esperienza vissuta: ecco la filosofia. E Socrate è, così, il filosofo per eccellenza, il santo della filosofia; colui che, se fosse morto nella fede verace, sarebbe oggi il più grande dei martiri – princeps nostro37
C. SALUTATI, Epistolario, II. p. 303-307.
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rum martyrum38 . Ogni pagina del Salutati è traversata da questa esigenza di un filosofare che sia scuola di vita, meditazione seria e profonda di problemi di vita. Solo dalla più accorta consapevolezza di noi stessi potrà nascere una filosofia che non sia mera esercitazione di scuola, astratta costruzione, atta piuttosto a separare che non ad avvicinare alla realtà. Quello stesso drammatico pensiero della morte, già invocato dal Petrarca, torna nel Salutati come esperienza fondamentale che, mentre fa cadere le vecchie teorie consolatorie, le molteplici finzioni con cui gli uomini cercano di distrarre se stessi dalla gravità dei loro problemi, riconduce la mente alle sorgenti originarie della meditazione, ai termini più semplici del filosofare. «Perché il mio Pietro, che era ancora un ragazzo, mi viene strappato nel fiore degli anni...? Sopravviva pur l’anima, che è immortale; ritorni il corpo alla terra da cui è venuto; l’uomo, ohimè, non è più, una volta che sia rotta l’armonia dell’unità umana». Nessuna dottrina consolatrice consolerà mai l’uomo dal dolore della perdita di una persona amata, o dal terrore della propria fine: «sono tutte sottigliezze sofistiche; svanito il rumore delle parole, non lasciano eco alcuna solida e ragionevole»39 . 5. Il primato della volontà in Coluccio Salutati Nata su questo piano, la filosofia di Coluccio Salutati non poteva non sentirsi lontanissima da tutto il bagaglio tradizionale di sillogismi e di ragionamenti. Era un orientamento e un indirizzo nuovo che cercava le proprie testimonianze così in Socrate come in Cristo o in san Francesco, nei maestri cioè che avevano posto la propria vita come un messaggio di verità. Ma, più vicini di costoro, 38 39
De fato, II, 8, Cod. Vat. lat. 2928, fol. 16r. Epist., III, pp. 416-20.
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aveva a sostegno i teorici del primato della volontà, i filosofi della scuola francescana, che nell’aristotelismo tomistico avevano visto il pericoloso naufragio di tutte le conquiste più preziose del cristianesimo. La polemica fra il Salutati e il Dominici si impernia proprio sulla questione del primato della volontà, della vita attiva, della connessione fra studia humanitatis e vita civile. Il Dominici fu senza dubbio uomo di non comune statura, tutt’altro che chiuso ai problemi che tormentavano il suo tempo. Nei suoi scritti non manca un riconoscimento pieno per il significato della vocazione terrena dell’uomo. Ma la premessa tomistica lo rendeva sospettosamente avverso a ogni critica del procedimento intellettivo, mentre la degenerazione retorica dell’umanesimo lo faceva guardingo di fronte ai troppo facili entusiasmi per l’antichità. Il Salutati era pronto a riconoscere il pericolo degli eccessi, ma insisteva sul valore della educazione nuova. La quale solo apparentemente poteva sembrare grammaticale. In realtà essa insegnava a ritrovare sub corticem il valore intenzionale dei termini, smarrito nella consuetudo, penetrando l’espressione nel suo significato intimo come direzione spirituale. Parola e cosa, insiste il Salutati, non possono disgiungersi; la parola è nata a un medesimo parto con la cosa (velut cum ipsis rebus nata); serio insegnamento grammaticale non si dà, che non sia, insieme, presa di contatto reale. «Ipsa grammatica sine noticia rerum, et quibus modis rerum essentia varietur, sciri non potest». Proprio per questo la disciplina grammaticale è il vestibolo d’ogni penetrazione spirituale. Senza la capacità di intendere fino in fondo i termini, la lingua, non si dà conoscenza della scrittura, della parola di Dio. Ogni conoscenza seria è comunicazione. In tal modo gli studia humanitatis come mezzo per ritrovare nella lettera l’inseparabile spirito, nel corpo l’anima indisgiungibile, sono strettamente connessi con gli studia divinitatis. Lo studio del messaggio divino è integrale riconqui-
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sta di una direzione spirituale, cui prepara l’adeguata riconquista di quella società spirituale che si esprime e si conserva attraverso i monumenti letterari40 . Così, all’incirca, il Salutati rispondeva nel 1406 a una parte delle critiche del Dominici. Alle altre tutto il suo pensiero era una risposta. «Non so come e di dove alcuni abbiano osato, contro la ragione e l’autorità dei santi, anteporre la volontà e i suoi atti all’intelletto e alle sue operazioni. Ma costoro forse discutono per discutere, o si riferiscono a constatazioni di fatto, a quel modo che in non poche case la moglie comanda e il marito obbedisce, o in molti pollai la gallina canta e il gallo sta zitto». Così acremente il Dominici nella Lucula noctis. In realtà già tutto lo scritto del Salutati De fato, fortuna et casu aveva risolto sul piano di una certezza pratica le difficoltà e i contrasti insolubili che il problema del destino presenta all’umana ragione. È il libero atto di volontà che fa libero l’uomo, mentre la ragione gli vien dimostrando l’impossibilità della libertà41 . Ma la giustificazione piena della sua posizione il Salutati dà nel De nobilitate legum et medicinae, opuscolo che, se si inserisce nella disputa contro i medici, sollevata dal Petrarca e poi continuata fino alla fine del secolo XV, la supera di grandissimo tratto per acume speculativo. Il Salutati, affrontando la discussione circa il valore delle leggi di fronte alla medicina, intendeva esaminare il significato di un sapere umano nei confronti dell’indagine naturalistica. Le leggi, infatti, indicavano ai suoi occhi la regolata attività della famiglia umana nello sforzo concorde per raggiungere il bene comune. «Fine della speculazione – egli osserva – è il sapere, il cui oggetto è Epist., IV, pp. 205-40. De fato, II, 10-11, fol. 23v-31v. JOHANNIS DOMINICI, Card. Sancti Sixti, Lucula Noctis, ed. E., Hant, Notre Dame, Indiana, 1940. 40 41
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il vero; fine delle leggi è la direzione delle azioni umane. L’oggetto loro è dunque il bene, e non un bene qualunque, ma quel divinissimo bene che è il bene comune». Ora, come non riconoscere la superiorità del bene sul vero, soprattutto quando si ponga mente al fatto che non si tratta qui di un bene naturale, ricevuto come un dono, ma di un bene voluto, di qualcosa che vale, e che si conquista con sforzo; di un bene che ci fa in qualche modo collaboratori con Dio? «Non è, il bene comune ricercato dalle leggi, quel bene per cui noi siamo un bene, ma quel bene che ci fa buoni. Il primo è bene di natura, e per esso non siamo degni di lode... Quella lode che meritiamo, invece, per il bene che facciamo... quando Dio ci fa degni di operare e bene meritare con lui»42 . Le leggi, dirà altrove43 , sono veramente un sigillo divino, con cui dopo il primo peccato Dio ha offerto alle comunità degli uomini la via per riconquistare il bene (leges, quibus inter cunctos equabilitas statueretur, hominum mentibus inspiravit). Ispirate da Dio agli uomini, inscritte nell’anima umana, esse hanno un’altra superiorità, rispetto alle leggi naturali: possono essere conosciute nella loro pienezza integrale, con una certezza che non si troverà mai nelle scienze della natura. «Hanno principi che non sono nelle cose esteriori, ma in noi, naturalmente inspirati nelle menti nostre, con tale certezza che non possono sfuggirci, senza che sia necessario cercarli fuori, poiché, come vedi, sono nell’intimo di noi». «Le leggi – insiste Coluccio – hanno l’infallibilità dell’umana promulgazione, e contengono insita la ragione naturale che ogni uomo di mente sana vede, o può ritrovare meditando e discutendo. I princìpi della medicina, al contrario, se vien meno l’esperienza, sono incer42 43
De nobilitate legum et medicinae, 5. Ep. Regi Navarrae (1376), ms. Marucell. (Firenze), C, 89,
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ti e possono ingannare, anzi ingannano, né ci mostrano quella comune ragione, né danno gli effetti desiderati». Alla superiore dignità della moralità corrisponde la diversa validità della giurisprudenza rispetto al sapere naturalistico. La critica che al sapere avevano mosso gli occamisti non era passata invano per il Salutati, che la sottintende nella sua piena validità quando vien costruendo quella bellissima orazione in lode delle leggi che mette in bocca appunto alla medicina medesima: «riflettendo meco stessa al mistico corpo che viene costituito dalle umane moltitudini riunite in famiglie, regioni, città, nazioni, regni ed imperi; osservando come le leggi tutto ordinino, reggano e conservino, ho visto che... la salute verace delle umane società non dipende dalla medicina, ma dall’accordo spirituale... Povera me! perché mai esaltate la mia certezza?... Le leggi sono validissime nei rapporti delle menti umane, e non solo certissime, ma ben conosciute. Me invece come potrete mai conoscere, quando a stento riuscite ad afferrare una parte minima delle cose che sono?... Quando l’intera esperienza varia... per le differenze del tempo e dello spazio?... Io sono generata dalla terra, le leggi dalla sapienza di Dio. Dio ha dettato le leggi con la sua parola, e me ha scritto negli eventi dell’esperienza. Io, contingente, derivo da cose contingenti; la legge è fondata sull’eterna universale giustizia». Ego de terra, lex vero de mente divina: in questa conclusione del Salutati era implicita la posizione di Vico; ma essa era il motto e il programma dell’umanesimo, che volgendo le spalle alla natura, poneva la vita degli uomini al centro delle sue preoccupazioni. Ed erano uomini che la terra avevano domato per ritrovare se stessi; «fortissimi uomini, che hanno vinto le mostruose fatiche della terra», e degni perciò delle stelle, quali vengono celebrati, sempre da Coluccio, nel De Hercule eiusque laboribus, ov’è pur l’indagine intorno alla poesia, vista in genere come umana creazione («figmenta et res factae dicta
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sunt a poyo...»), ed alla retorica che ha la stessa potenza ispiratrice e generatrice propria dell’amore: «a Venere, dea dell’amore, non a caso attribuiamo la retorica, il cui compito è quello di accendere gli animi ed infiammarne novellamente i cuori...»44 . 6. Le leggi e la medicina La discussione, tanto vigorosamente condotta dal Salutati circa il primato delle scienze dello spirito, non rimase davvero senza eco; le risonanze di essa ritroviamo dovunque per tutto il ’400. Perfino uno studioso come Andrea figlio di Ugo Benzi da Siena, noto per il suo impegno nelle dispute classiche dell’aristotelismo, in una sua prolusione fiorentina, probabilmente del 1451, ancorché non ricordi Coluccio, attinge certamente a lui l’esaltazio44 Cod. Magliabech., cl. VIII, 1445, fol. 166v: «Uraniam autem cum Venere collocamus, nam grece uros latine ignis est, neos novum, et ipsa Venus, amoris ut inquiunt dea, novos ignes admovet... Huic non incongruenter rhetoricam deputamus, cuius est proprium animos accendere et novos estus in auditorum mentibus generare...» Su mitologia e poesia in Boccaccio cfr. V. BRANCA, Motivi preumanistici nell’opera del Boccaccio, in Pensée humaniste et tradition chrétienne au XV.me et XVI.me siècles, Paris, 1950, pp. 69-85 (Il De Hercule del S. è uscito a cura dell’Ullman, Zürich, 1951, 2 voll.; e, sempre a cura dell’Ullman, anche il De saeculo et religione, Firenze, 1957). Per lo sviluppo Mussato-Petrarca-Boccaccio, cfr. G. BILLANOVICH, Pietro Piccolo da Monteforte tra il Petrarca e il Boccaccio, in Medioevo e Rinascimento, Studi in onore di B. Nardi, Firenze, 1955, pp. 1-76. Sul Salutati, la sua vita e la sua biblioteca, nonché sul complesso dell’opera sua, è da vedere, ora, B. L. ULLMAN, The Humanism of Coluccio Salutati, Padova, 1963. A proposito della polemica sulla poesia cfr. FRANCESCO DA FIANO, Un opuscolo inedito in difesa della poesia, a cura di M. L. Plaisant, «Rinascimento», N. S., I, 1961, pp. 119-162.
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ne delle leggi e del viver civile; «se si togliessero le leggi, qual mai città, qual comunità, quale casa, quale famiglia non verrebbe meno? che anzi la natura umana intera andrebbe annientata»45 . Non così, invece, pensava il discepolo più grande del Salutati, il Bruni46 , il quale, riferendosi all’aspetto meramente coercitivo del diritto, lo veniva anzi opponendo alle lettere, come quello che riguarda i malvagi e non i buoni, ed è variabile secondo i luoghi e i tempi, «sì che spesso è legittimo a Firenze quello che è condannato a Ferrara». E Poggio Bracciolini, nei dialoghi composti nel 1450, dove sono introdotti come interlocutori Carlo Marsuppini, Benedetto Accolti e Niccolò da Foligno, non solo disdegna il diritto, ma giunge ad affermare che le grandi azioni si hanno soltanto quando la volontà del singolo uomo spezza la legge dei più. «Solo la plebaglia e il popolaccio sono legati dalle vostre leggi; solo per costoro esistono i vincoli del diritto. Gli uomini gravi, prudenti, modesti, non hanno bisogno di leggi. Essi stessi si son fissata una legge di vita, formati dall’indole e dall’educazione alla virtù e ai buoni costumi... Gli uomini forti poi respingono e spezzano le leggi, adatte ai deboli, ai mercenarî, ai vili, ai miserabili, ai pigri, a coloro che non hanno mezzi... Infatti tutte le imprese egregie e deOratio HUGONIS DE SENIS (Laur. gadd. 89, sup. cod. 27, fol. 125a; cfr. K. MÜLLNER, Reden und Briefe italienischer Humanisten, Wien, 1899, p. 113): «atqui tollantur leges, quae civitas, quae universitas, quae domus, quae familia non illico deficiat? quin immo natura ipsa humana ad nihilum redigetur... Non immerito nobilissimus ille iuris consultus Ulpianus civilem sapientiam veram philosophiam appellat. Huius disciplinae tanta est vis, tanta potestas, ut vix possit aliquo eloquentiae studio enarrari...». 46 LEONARDO BRUNI, Epist. VI, ed. Mehus, II, Florentiae, 1741, p. 50. 45
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gne di ricordo sono nate dall’ingiustizia e dalla violenza, e, insomma, dalla violazione delle leggi»47 . Tuttavia, a parte quest’ultima interessante esaltazione della forza, tanto il Bruni quanto il Bracciolini rimanevano al di fuori del problema del Salutati, impostato su altro piano, proprio a difesa di quell’umanità che anch’essi volevano celebrare. Le leggi che Coluccio aveva esaltato sono i princìpi stessi della vita morale, l’anima della vita comune, della società degli uomini; costituiscono la base della umana comunicazione in tutta la sua ricchezza. In un dialogo molto interessante del medico Giovanni d’Arezzo, dedicato a Lorenzo de’ Medici poco dopo la morte di Pietro, e nel quale sono introdotti a discorrere de medicinae et legum praestantia il Marsuppini, il Niccoli e il Bruni, proprio in bocca del Bruni è messa la confutazione del Poggio: «non si loderanno mai abbastanza, a mio parere, le leggi; esse, infatti, non regolano solamente i villani, o i comuni cittadini, o i ricchi; ma limitano e trattengono i pretori e i magistrati, reggono i re, signoreggiano i signori, sugli imperatori esercitano il loro imperio...; difendono i deboli dai forti, tra gli eguali mantengono l’armonia...». Né contro le leggi valga l’obbiezione della loro mutevolezza; «sono i popoli che variano d’opinione e di parere col variare dei tempi; e tuttavia con ciò non toccano le sante antichissime leggi, ma solo illudono e ingannano se stessi». La norma della giustizia sta eterna, regola e signora di tutte le leggi. Le quali costituiscono veramente la base concreta ed il legame profondo delle umane società. «Santissimo e dolcissimo nome, la patria... Grande cosa è l’appartenere alla stessa città, soprattutto se è libera città. Molte cose comuni hanno i cittadini: il diritto, le leggi, il fo47 POGGIO BRACCIOLINI, Opera, Argentorati, 1513, fol. 19 r v.
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ro, il senato, le magistrature»48 . Così Lapo da Castiglionchio, pure non tenero per le pretese dei giuristi. Ma anch’egli era ben consapevole del valore sociale della humanitas, che in una sua Oratio de laudibus philosophiae presenterà edificatrice di città e domatrice della natura49 . D’altra parte i filosofi di Padova scenderanno in campo in difesa della medicina con quel sottile, eppur sfuggente pensatore, ch’è Nicoletto Vernia. Il quale si era molto interessato alla polemica, e tra i suoi manoscritti conservava una quaestio del teologo agostiniano Giovanni da Imola utrum scientia civilis vel canonica sit nobilior medicinali. «E sembra di sì – cominciava il frate – se è vero che è più nobile la scienza che rende l’uomo più degno d’onori». A Nicoletto pareva il contrario, e 48 JOHANNIS ARETINI physici de medicinae et legum praestantia, Laur. lat., plut. LXXII, 22: «numquam satis, mea opinione, legalis disciplina laudari potest... haec enim non rusticos solum, vel cives, aut optimates, sed praetores et magistratos compescit et limitat, reges regit, dominis dominatur, imperatoribus imperat...; haec minores a maioribus tuetur paribusque aequitatem servat». Sul mutar delle leggi: «id populi faciunt, qui diverso quidem tempore varias habent opiniones et iudicia; nec tamen antiquas sanctasque leges, sed seipsos decipiunt aut deludunt... Leges ipsae canones suos vel regulas servari iubent, quasi dominae sint». Questo e i vari altri testi qui citati sono stati raccolti da me nel vol. La disputa delle arti nel Quattrocento, Firenze, 1948, da integrarsi con l’importante studio di G. F. PAGALLO, Nuovi testi per la ‘disputa delle arti’ nel Quattrocento: la «quaestio» di Bernardo da Firenze e la «disputatio» di Domenico Bianchelli, «Italia Medievale e Umanistica», II, 1959, pp. 467-481 (e su una replica al Vernia di Pietro Donato Avogaro cfr. BERNARD M. PEEBLES, Studies in Pietro Donato Avogaro of Verona, «Italia Medievale e Umanistica», V, 1962, pp. 28-9). 49 LAPUS CASTELIUNCULUS, Epist. Roberto Strozzae (Cod. Ottobon. lat. 1677, fol. 218v). Cfr. MÜLLNER, Reden und Briefe, p. 249 sgg.: Oratio de laudibus philosophiae, ivi, p. 139 sgg.
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lo sostenne con dovizia d’argomenti. La politica, è vero, conserva l’uomo in pace, ma la medicina lo conserva in quell’esistenza senza cui non si dà attività alcuna. Ed è più nobile la scienza della natura anche perché, invece di appoggiarsi all’umana autorità, si fonda su processi logici. Ma il culmine della quaestio del Vernia è nel concetto di felicità, riposta da lui, non già nell’attività sociale, ma nella pura speculazione. «Fine della legislazione è una certa felicità circa la convivenza e la comunicazione delle civili adunanze. Ma non è questa la felicità vera... È invece mediante la speculazione che ci avviciniamo a Dio, la cui beatitudine consiste nella contemplazione della propria essenza»50 . Né dal Vernia si allontana, nel suo scritto della dignità delle discipline, Antonio de Ferrariis, il Galateo, il quale, mentre non risparmia ingiurie al Salutati («cum nihil sciat, omnium rerum notitiam sibi vindicat...»), antepone addirittura, dal punto di vista della socialità, api e formiche all’uomo: «chi non sa di quanta civile prudenza dan prova api e formiche e simili animaletti. In molti animali giustizia e pietà sono assai più sviluppate che in molti uomini». La nobiltà dell’uomo è tutta nel sapere, non nel fare. «Civilis disciplina omnis in actione est... Quantum contemplativa activae praeest, tantum medicinae ista pars [speculativa] civili disciplinae»51 . Erano veramente qui in contrasto due concezioni opposte della vita e della filosofia: l’una umana, per cui ciò 50 MAGISTRI JOANNIS DE IMOLA quaestio utrum scientia civilis vel canonica sit nobilior medicinali, Marcianus lat. cl. X, 218, fol. 79-82. N. VERNIA, Quaestio an medicina nobilior atque praestantior sit iure civili (nella edizione curata dal Vernia del commento del Burley alla Fisica, cfr. GUALTERII BURLAEI de physica auscultatione, Venetiis, 1589). 51 Vari opuscoli di ANTONIO DE FERRARIS detto il GALATEO, Lecce, 1868 (Collana di scrittori di Terra d’Otranto, III), pp. 10, 13, 25-26.
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che conta per l’uomo è il suo farsi e il suo fare; ed era visione cristiana. L’altra, legata all’ideale aristotelico del sapere, del vedere, per cui l’azione, l’operosità, rappresentano qualcosa di secondario e inferiore, continuava ed esauriva la concezione dell’essere propria della teologia medievale.
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LA VITA CIVILE
1. La scuola del Salutati e Bernardino da Siena Chi cercasse a fondo l’origine ideale della concezione del Salutati intorno al primato della volontà e al valore dell’opera terrena dovrebbe rifarsi, con ogni probabilità, alla tradizione francescana e a motivi scotistici, come già s’è accennato a proposito della polemica con il Dominici, tomista. Una conferma può, forse, ritrovarsi in san Bernardino da Siena, discepolo d’un discepolo di Coluccio, e gran lodatore di «messer Francesco Petrarca» e di «messer Coluccio Salutati», i quali entrambi «nobilissime cose feciono e da commendargli grandissimamente». Bernardino aveva visto l’immenso pregio dell’anima, superiore, come insiste a dire, polemizzando contro gli astrologi, ad ogni cosa creata; ma nell’anima è altrettanto chiaro il primato del volere. «La voluntà è imperadrice di tutte e tre le... potenzie [dell’anima] e di tutti i nostri sentimenti; la voluntà è reina della mente nostra... La buona voluntà è imperadrice di tutto l’universo». Se in patria, nei cieli, l’uomo andrà a contemplare, nel mondo è chiamato a operare e ad amare; le chiavi della sapienza medesima sono possedute dalla carità; «più conosce chi ama che chi non ama»52 . 52 Per la polemica antiastrologica e il pregio infinito dell’anima cfr. S. BERNARDINO DA SIENA, Le prediche volgari a cura di P. Bargellini (sono le prediche senesi del 1427), Milano, 1936, predica II, p. 56 sgg.: «L’altro reame è lo spirituale, il quale è l’anima; la quale anima è sopra tutte le cose corporali, e più gentile che niuna altra cosa corporale. Questa anima è in altezza e virtù sopra tutta la terra, sopra l’acqua, sopra il fuoco, sopra l’aria, sopra ogni cosa che s’appartiene a detti elemen-
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La calda lode rivolta da Leonardo Bruni al dolce santo di Siena non era ossequio di maniera; era l’incontro sincero, nell’atmosfera ideale della scuola di Coluccio, dell’erede di Duns Scoto e del fervido restauratore degli studi classici. Che non erano per lui, come non erano stati per il maestro suo dilettissimo, esercitazioni letterarie pedantesche, ma veramente rinnovata vita dello spirito. Il grido d’entusiasmo con cui il Bruni accoglie l’insegnamento del greco iniziato dal Crisolora non è retorica; è il saluto a un’età in cui lo spirito umano potrà affermarsi in più feconda ricchezza ritrovando i propri tesori perduti. «Erano settecento anni che l’Italia ignorava il greco; eppure è quella la sorgente di ogni dottrina» (septingentis iam annis nemo per Italiam graecas litteras tenuit; atque tamen doctrinas omnes ab illis esse confitemur). Le litterae tornavano in tutta la loro fecondità a formare, non già degli eruditi, ma degli uomini completi. «E si chiamano studia humanitatis perché formano l’uomo completo»53 .
ti. L’anima è sopra il cielo della Luna e di Mercurio e di Venus, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, di tutti e’ segni che so’ in essi: ella è sopra alle 72 costellazioni». Per la critica alla filosofia astratta cfr. Le prediche volgari edite dal P. C. Cannarozzi, vol. II, Pistoia, 1934 (Quaresimale del 1424), p. 97: «piglia e’ filosofi, l’uno dice a uno modo, l’altro dice a uno altro. Platone discorda da Aristotile...». Sulla nobiltà frutto dell’opera, ivi, p. 213. Sullo studio v. tutta la predica XVII del 1425, ed. Cannarozzi, vol III, p. 207 sgg. (L’educazione umanistica in Italia, Bari, 1949, p. 39 sgg.). Per i rapporti con lo scotismo utili i testi, specialmente dalle opere latine (Opera omnia, Lugduni, 1650), indicati da D. SCARAMUZZI, La dottrina del B. G. Duns Scoto nella predicazione di San Bernardino da Siena, Firenze, 1930. La lettera del Bruni riferita dal Cannarozzi, I, p. XXXIX, è tratta dal Laur. plut. 90, 34, fol. 206. Ma più notevole quella ufficiale, sempre del B., del 1439 (ms. Panciat. 148, 112r). 53 Le parole del Bruni sul ritorno della cultura in L. ARETINI Rerum suo tempore gestarum commentarius, in MURATO-
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La conoscenza dell’altrui pensiero, non barbaramente violentato, ma religiosamente restituito nella sua integrità, umilmente ascoltato nella sua pienezza, fa entrare gli spiriti in una ideale società, dove nella voce degli uomini si traduce solenne la parola di Dio. Ecco perché la conversazione con gli spiriti maggiori d’ogni tempo, cui ci abituano gli studia litterarum, non è affatto «volgare erudizione» ma scoperta del vincolo umano a tutti comune, sviluppo delle basi ideali d’ogni verace città. Quando Angelo Decembrio nella sua Politia literaria presenterà la scuola del Guarino, si affretterà a chiarire che egli adopera il termine politia, non nel senso greco di città o repubblica delle lettere, ma in quello latino di cultura ( «a polio verbi nostri significatione, vel urbana conversatione... quam et ipsam elegantiam elegantiaeque culturam intelligi volumus»). Senonché questo mondo della cultura umana, in cui gli spiriti «urbanamente conversano» fuori dei limiti del tempo e dello spazio, è appunto una ideale repubblica, in cui affonda le radici onde trarne sapore tutta la nostra vita spirituale. E la conversazione civile e politica stessa è preparata e illuminata e sorretta proprio da quella cultura54 . È il Bruni che nella vita di Dante scrive: «doppo questa battaglia [di Campaldino] tornò Dante a casa; agli studi più che prima si diede, e niente di manco niente tra-
RI, Rer. ital. Script., XIX, 3, ed. C. di Pierro, 1926, p. 403 sgg. Sugli studia humanitatis cfr. Epist., ed Mehus, Florentiae, II, p. 49: «quae propterea humanitatis studia nuncupantur, quod hominem perficiant atque exornent» (v. CAROLI SIGONII de laudibus studiorum humanitatis, in M. A. MURETI Orationes, Lugduni, 1590, p. 97). 54 ANGELI DECEMBRII Mediolanensis Ad summum pontificem Pium II de Politia literaria, Basileae, 1562, p. 6. Politia titeraria significa qui, insieme, la honesta disciplina del Crinito e la elegantia del Valla.
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lasciò delle conversazioni urbane e civili... Nella qual cosa mi giova riprendere l’errore di molti ignoranti, i quali credono niuno essere studiante, se non quelli che si nascondono in solitudine e in ozio, ed io non vidi mai niuno di questi camuffati e rimossi dalla conversazione degli uomini, che sapesse tre lettere... Né solamente conversò civilmente con gli uomini Dante; ma ancora tolse moglie.. della quale ebbe più figliuoli... Qui il Boccaccio non ha pazienza, e dice le mogli esser contrarie alli studi, e non si ricorda che Socrate, il più sommo Filosofo che mai fosse, ebbe moglie e figliuoli ed offizi nella repubblica della sua città, ed Aristotile, che non si può dire più là di sapienza e di dottrina, ebbe due mogli in diversi tempi, ed ebbe figliuoli e ricchezze assai. E Marco Tullio, e Catone, e Seneca, e Varrone, latini sommi filosofi, tutti ebbero moglie, figliuoli, ed offizi, e governi nella repubblica... L’uomo è animal civile, secondo piace a tutti i filosofi; la prima congiunzione, della quale multiplicata nasce la città, è marito e moglie, né cosa può esser perfetta dove questa non sia»55 . La stretta connessione posta qui dal Bruni fra cultura e vita sociale risponde in pieno alla tesi del Salutati, lodatore anch’esso delle famiglie operose, degli stati prosperi, delle attività mondane. Anche Salutati insiste fortemente sul valore positivo del matrimonio, e ne tesse le lodi, affrontando un argomento che sarà particolarmente caro alla letteratura moralistica del ’400, e che servirà quasi da pietra di paragone per definire i singoli atteggiamenti. Così vediamo il Manetti convenir col Bruni nell’esaltare Socrate filosofo, cittadino e padre di famiglia. Ecco i trattati De re uxoria di Francesco Barbaro, 55 LEONARDO BRUNI, Vita di Dante in PHILIPPI VILLANI Liber, p. 46 (cfr. anche A. SOLERTI, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al sec. XVI, Milano, 1904).
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De dignitate matrimonii del Campano; ecco il più vivace scritto di Guiniforte Barzizza56 . La tendenza a risolvere l’humanitas in un mero fatto culturale, e le litterae in retorica, contro cui mettono in guardia già il Salutati e il Bruni, si svela proprio nella diversa posizione presa di fronte a questo fondamentale atto di partecipazione al consorzio umano. Per gli uni cultura è umana conversazione: vita civile integra, dunque. Ancora il Ficino, con tutto il suo ascetismo platonico, esclama, lodando il matrimonio: «così l’uomo, come divino, con una certa successione l’umana specie perpetua conserva. E, come grato, alla natura rende quel che prestato gli aveva...; come felice e vero scultore, la sua viva immagine scolpisce ne’ figli... Oltre ciò ha una domestica repubblica, nel governo della quale tutte le forze della prudenza e della virtù pone... Finalmente la moglie e la famiglia, o ci è dolce consolazione ed alleggerimento di fatiche, ovvero un certo profondo esercizio alla morale filosofia». Agli occhi del sacerdote Marsilio Ficino non può non spogliarsi dell’umanità stessa, che è vita comune, colui che dispregia il matrimonio. «Per ciò se volete esser uomini, e legittimi figli di Dio, accrescete legittimamente gli uomini, e a Dio somigliando, così come Dio, figliuoli a voi simili create, nutrite, reggete e governate. E ricordatevi infine che governando con somma diligenza la famiglia, formate voi stessi, divenite esperti e ono56 FR. BARBARI De re uxoria liber in partes duas, ed. A. Gnesotto in «Atti e Memorie d. R. Accad. di Padova», vol. XXXII, 1915, pp. 8-103: composto nello stesso clima, i Dialogi del Bruni, il De ingenuis moribus del Vergerio e il De re uxoria di F. Barbaro costituiscono, presi insieme, un quadro tipico di un atteggiamento caratteristico del primo Quattrocento fiorentino, Il De dignitate matrimonii del Campano in Opera, Venezia, 1595. Utile per la bibliografia è il volume di R. KELSO, Doctrine for the Lady of the Renaissance, Urbana Ill. 1956.
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rati nella terrena repubblica, e vi fate degni della celeste città». II Ficino ritrovava il tono e la nobiltà del vecchio Coluccio, e il suo ideale dell’uomo completo, capace d’armonizzare in profonda unità cultura e vita morale. Di contro, la retorica celebrava il suo tripudio con Ermolao Barbaro, il quale in una lettera del 1486 a Arnoldo di Bost, ove troviamo la forte e significativa espressione duos agnosco dominos, Christum et litteras, condanna in pieno il matrimonio. «Non v’è nulla di così pernicioso alla cultura quanto il matrimonio e la cura dei figli. Non condanno in senso assoluto – senza matrimoni neppur le lettere ci sarebbero; ma il letterato, colui che contempla Dio, le stelle e la natura, deve essere libero e sciolto da tale catena»57 . Il contrasto fra l’humanitas del Bruni e la retorica del Barbaro si rivela qui crudamente. Là la cultura umanistica è pienezza di umanità, e quindi società. Qui è isolamento, contemplazione, letteratura. 2. Leonardo Bruni Il Bruni era fisso a tutt’altro ideale: le humanae litterae, gli studia humanitatis sono formazione dell’uomo integrale: «inest auctoritas magna propter elegantiam, et ingenuitas quaedam liberis hominibus digna». Questo è lo scopo della formazione umanistica: essere una compiuta educazione umana. Per questo egli tiene gli occhi fissi alla virtù civile. Presentando la sua traduzione della Po57 M. FICINI Opera, Basileae, 1565, I, 778-779. ERMOLAO BARBARO, Epistolae, Orationes et Carmina, ed. V. Branca, Firenze, 1943, I, p. 96. Nel Valla l’esaltazione della carne va ben più in là: «melius merentur scorta et postribula de genere humano quam sanctimoniales virgines et continentes» (Opera, Basileae, 1543, p. 924).
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litica aristotelica, egli afferma appunto: «fra gli insegnamenti morali con i quali si forma e si educa la vita umana, tengono in certo modo il posto più alto quelli che concernono gli stati e il loro governo, poiché tale disciplina tende a procacciare la felicità a tutti gli uomini. E se è ottima cosa dare la felicità ad un solo, quanto sarà più bello conquistarla a tutto uno stato? Il bene, infatti, quanto più ampiamente si diffonde, tanto più divino deve considerarsi...». La vita civile, questa società concretata dall’uomo, è, insieme, perfezione dell’individuo, che raggiunge la propria compiutezza solo nell’umana comunicazione. «Cumque homo imbecillum sit animal et, quam per se ipsum non habet sufficientiam perfectionemque, ex civili societate reportet, nulla profecto convenientior disciplina homini esse potest, quam, quid sit civitas et quid respublica, intelligere...»58 . L’interesse del Bruni è, sempre, tutto rivolto alle cose del mondo, della sua città, in cui le virtù si conservano e si esaltano. Le indagini naturali non lo attirano; «hanno sì un pregio teorico non comune, ma nessun valore di vita; l’altra filosofia invece è, per dir così, tutta nostra»59 . Con Socrate egli ripete che ciò che è oltre le mura del58 H. BARON, Leonardo Bruni Aretino, Humanistischphilosophische Schriften mit einer Chronologie seiner Werke und Briefe, Leipzig-Berlin, 1928, p. 73, ove sono contenuti i testi qui indicati. Sulle traduzioni aristoteliche cfr. quanto di notizie sono venuto raccogliendo nel saggio Le traduzioni umanistiche di Aristotele nel secolo XV, Firenze, 1951 (Accademia di scienze morali «La Colombaria», VIII). Un discorso a sé meriterebbero i commenti quattrocenteschi fiorentini all’etica e alla politica aristoteliche (per qualche tema e indicazione di fonti cfr. la mia Giovinezza di Donato Acciaiuoli, «Rinascimento», I, 1951, pp. 43-70). 59 In questo senso sono orientate anche le battute filosofiche dei Dialogi ad Petrum Histrum del 1401, dove si scherniscono la fisica e la logica degli occamisti, che anche in Firenze avevano trovato un difensore in Francesco Landini, il Cieco degli
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la sua città non l’interessa. Il che, tuttavia, non implica una monastica chiusura, ma un socratico dono di sé agli altri, un cristiano amore del prossimo. Il bene solitario, s’è visto, è tristissima cosa; noi godiamo donandoci. Ciò che vale non è la contemplazione statica e chiusa, il β´ιoς θωρητικ óς aristotelico, l’ascesi stoica o la vita conventuale. Gli uomini sono chiamati a operare sul piano della carità. Se l’impostazione dei problemi del Bruni è, generalmente, di sapore aristotelico, dell’Aristotele etico, lo spirito animatore è tutto cristiano. Di un cristianesimo che all’ideale greco dello contemplazione coscientemente oppone quello di una volontà operante per il bene comune. Di qui anche l’ammirazione per Cicerone, per l’etica romana preoccupata di risolvere il pensiero in termini concreti, per Dante, ideale dell’uomo completo opposto al letterato solitario, stoicamente isolato dal mondo ed inutile nel mondo. «Mi giova riprendere l’errore di molti ignoranti, i quali credono niuno essere studiante se non quelli che si nascondono in solitudine ed in ozio... Lo ’ngegno alto e grande non ha bisogno di tali tormenti, anzi è vera conclusione, e certissima, che quello che non appara tosto non appara mai; sicché straniarsi e levarsi dalla conversazione è al tutto di quelli che niente sono atti con loro basso ingegno ad imprendere». Presentando a Cosimo il Vecchio la traduzione delle epistole platoniche, eccolo sciogliere un inno al senso platonico della vita politica. Nella bella introduzione alla versione della Politica d’Aristotele noi leggiamo una elegante dimostrazione della tesi che il bene operare è tan-
Organi (1325-1397). I dialoghi, idealmente connessi col De ingenuis moribus del Vergerio, puntano sull’esaltazione dell’antico e sul valore dell’aurea eloquenza ciceroniana, ma sono ben lontani da un’idolatria che dimentichi i moderni, difesi anzi con molto calore dal vecchio Coluccio.
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to più fecondo quanto più grande è il numero di coloro che dalle nostre azioni traggono vantaggio. E v’è, al centro, insistente l’asserzione che l’uomo, «debole animale, per sé insufficiente, raggiunge la sua perfezione solo nella civile società», onde «non v’è per l’uomo disciplina più conveniente del conoscere che sia lo Stato, cosa la città, in che modo si conservino e periscano». Questa classica preoccupazione del bene comune, che a parere del Bruni costituiva il fulcro del pensiero di Platone, d’Aristotele e di Cicerone, secondo lui s’incontrava poi pienamente col motivo centrale dell’etica cristiana. «Questa parte della filosofia – scriverà a Eugenio IV – che tratta dei costumi, del governo degli stati, del miglior modo di vivere, è quasi uguale nei filosofi pagani e nei nostri». Per questo lo studio degli antichi era per lui quasi fondamento unico per il raggiungimento di una coscienza piena della propria umanità60 . 3. Poggio Bracciolini e il valore dei beni terreni Nell’introduzione alla sua traduzione degli Economici d’Aristotele Leonardo Bruni aveva sottolineato il valore della ricchezza, di quel danaro che, secondo la bella immagine del Davanzati, è per la città quello che è il sangue per il singolo. In questa generale rivalutazione del mondo umano in ogni suo aspetto, noi vediamo che anche l’attività economica viene considerata ed apprezzata. 60 Sul significato della partecipazione piena alla «vita civile» cfr. del Bruni, De militia liber singularis, pubblicato in appendice alle Osservazioni e dissertazioni varie... concernenti... .Antonio da Pratovecchio, Livorno, 1764, p. 81 e sgg., e ora, criticamente, in appendice al volume di C. C. BAYLEY, War and Society in Renaissance Florence, Toronto, 1961, pp. 361-97 (ai mss. usati dal Bayley va aggiunto quello, assai notevole, dell’Arch. di Stato di Firenze, Strozziane, III, 46, cc. 1-8).
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Tra il 1428 e il 1429 Poggio Bracciolini compone il dialogo De avaritia dove Antonio Loschi, mentre si scaglia contro l’ipocrisia fratesca, illustra la naturalità della brama del danaro, anzi la sua utilità nel consorzio civile61 . Se tutti gli uomini, senza distinzione di sesso, d’età, di condizione o di razza, bramano il danaro, nessuno potrà negare esser naturale l’avidità dell’oro. «E non obbiettarmi qualcuno di quei rozzi, ipocriti parassiti, che vanno in giro dando la caccia al vitto, senza lavorare e faticare, col pretesto della religione, predicando agli altri la povertà e il disprezzo dei beni. Noi non costruiremo le nostre città con codeste larve d’uomini, che nell’ozio più completo si mantengono col nostro lavoro». Ma alla polemica antifratesca, che scoppierà così crudele nel Contra hypocritas, sottentra subito l’aspetto costruttivo: una strana, moderna valorizzazione del denaro, e vorremmo dire del capitale, traversa queste pagine, che sfuggirono così a Max Weber come ai suoi critici, fermi a considerare le preoccupazioni sociali di s. Antonino o le tesi dell’Alberti. Poggio ci presenta con efficacia polemica il sovvertirsi della società intera che seguirebbe al chiudersi di ciascuno in un’economia preoccupata di soddisfare soltanto i bisogni del singolo in ogni momento singolo. Ciascuno sarebbe impegnato e tutto assorbito dalle necessità della vita vegetativa. «Scomparirebbe dalle città ogni splendore, ogni bellezza, ogni ornamento; non più templi, non monumenti, non arti...; l’intera vita nostra e dello Stato sarebbe sovvertita se ciascuno si procurasse solo il necessario... Allo Stato il danaro è nerbo necessario, e gli avari ne devono esser considerati base e fondamento»62 . 61 POGGIO BRACCIOLINI, Historia disceptativa de avaricia, Opera, fol. 7 r. 62 Un grande interesse ha, in proposito l’atteggiamento attribuito, sia pure polemicamente, dal Filelfo al Poggio nel terzo dialogo delle Commentationes florentinae de exilio (dal ms. au-
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Il lavoro, che in Giordano Bruno susciterà un inno appassionato, è non condanna, ma benedizione; è l’espandersi umano con cui l’uomo fa a sé umano e familiare il mondo. E la ricchezza è quasi tangibile segno della approvazione divina. Già in Salutati Dio guarda benigno i pingui greggi e la copiosa roba di Giacobbe. E se può sembrar legata a un antico motivo retorico l’esclamazione dell’Alberti, esser la povertà invisa agli dèi come agli
tografo della Naz. di Firenze, II, II, 70), dove il Bracciolini tesse l’elogio di Cosimo e della concretezza delle res, che sono quasi la tangibile espressione dell’attività umana. Rivolgendosi al Bruni, egli rileva l’inutilità della vuota retorica: «at apud Cosmum Medicem, Leonarde, minimum omnium valeat, qui rem malit quam verba expendere. Huius divitiae sunt amplissimae, nec eas tamen consumit in umbris. Nec enim te fugit quam saepe multi istiusmodi Diogenes et Cratetes eius aedes frequentant ut aliquid implorent, aliquid petant; quos facile semper audit, exaudit numquam. Nam in iis nullam nec publicam videt nec privatam utilitatem esse repositam praeter impudentiam singularem. Sed in eos se liberalem praestat, qui vel sibi possint vel reipublicae esse usui» (fol. 93 r). Altrove insiste: «vir gravis et callidus rem longe malit quam verba considerare» (fol. 92 r). E criticando gli atteggiamenti ascetici: «obscura ista et iniucunda vivendi victitandique institutio, quam ab Anthistene profectam, a Diogene auctam, a Cratete confirmatam video, est ferarum, et earum quidem immanium, non urbanorum hominum» (fol. 98 r),. Ma particolarmente significativo tutto il libro III (de paupertate), ove il trionfo dei Medici è attribuito alla potenza del denaro e dove anche il Bruni difende le ricchezze attirandosi la risposta: «et ipse dives est ad sexaginta millia aureum et apud te loquitur [Palla Strozzi] cui gratificari putat, qui adeo sis locuples ut ad trecenta millia aureum aut etiam amplius aedes tui fundique ascendant (foll. 83-84)». Cfr. i testi da me editi del Filelfo e del Landino (Testi inediti e rari, Firenze, 1949); ma documenti caratteristici si trovano un po’ dappertutto (cfr. p. es. le lettere scambiate fra G. Manetti e D. Acciaiuoli, ms. Magliab. VIII, 1390; o quelle di Niccolò Luna al Palmieri, ms. Riccardiano 1166).
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uomini, ha invece significato incancellabile il mito narrato dall’infelice giurista pesarese Pandolfo Collenuccio. Il Lavoro, dio attivo, non può rimaner celibe; e sposa la solerte Agenoria, figlia dell’Uso, cui Pallade aveva scelto otto nobilissime ancelle: Politia, Opi, Pale, Aracne, Larunda, Dori, Bellona e Panacea, che «sempre procuravano messi, bestiame, vesti, case, merci, difesa, salvezza», obbedienti e coordinate nei loro sforzi da Politia. E sette figlie nacquero dal felice connubio: Vita, Valentia, Virtù, Vittoria, Ubertà, Verità, Voluttà63 . Ma per tornare al Bracciolini, non v’è accento caratteristico dell’umanesimo che in lui non si ritrovi. Veramente, come scrive al Niccoli, le litterae hanno giovato ad vitam et mores. Ed innanzitutto v’è l’insistente polemica contro ogni sterile ascesi, contro ogni monastica solitudine64 . «Se la vita umana fosse privata della salute, della ricchezza, della patria, la nostra virtù rimarrebbe senza dubbio agghiacciata, solitaria, sterile, non uscirebbe tra gli uomini, nella loro vita reale. E da essa nascerebbe una rustica nobiltà priva veramente d’ogni nobiltà». Si suol ricordare, quasi manifesto dell’età moderna, l’invito di Campanella a Pico della Mirandola, che esca dalle biblioteche nell’ansia operosa del mondo. Ma già Poggio disdegna il dotto chiuso tra i codici, bramoso di una rustica virtù. «Io invece quella bramo, quella approvo, che l’umana consuetudine conferma». Quella vera virtus, celebrazione dell’uomo completo, che si misura nel mondo, e gode del mondo. Standum in acie, esclamava Coluccio; e Poggio affronta coraggiosamente i due temi della gloria e della fortuna. È la gloria quasi l’aspet63 L. B. ALBERTI, Opera inedita et pauca separatim impressa, Firenze, 1890, p. 169; PANDOLFO COLLENUCCIO, Agenoria, in Operette morali, Bari, 1929, pp. 15-17. 64 Dell’epistolario del Bracciolini si è usata l’edizione del Tonelli, 3 voll., Firenze, 1832-61.
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to tangibile, il corpo della virtù, l’eco sua diffusa nella società umana, indisgiungibile da una verace virtù civile. E connesse alla gloria sono le lettere, che nell’unica città dello spirito umano fanno vivere e vibrare la memoria dei grandi fatti, espressione concreta di una collaborazione di anime che non conosce limiti di tempo o di spazio. Disdegnare la gloria per amore della virtù è vagheggiare un ideale di virtù monastica e solitaria, sterile e vana. Una virtù integra e piena non può essere disgiunta da questo suo ripercuotersi come paradigma e come meta nei cuori degli altri uomini; e la gloria è quasi il segno tangibile del suo irraggiarsi sociale. Né può trascurarsi, nella considerazione della vita e della virtù umana, il problema della fortuna. È, la fortuna, la trama stessa degli eventi in un suo incontrollabile processo, il mareggiare delle cose, il risultato degli atti in quanto viene inserendosi nel corso della realtà. Ora l’uomo non può essere ad essa indifferente nell’illusorio rifugio di una sua pretesa roccaforte di solitaria virtù. La virtù, se è seria virtù, è sociale, è incremento dell’umana città, cui non può essere indifferente o estranea la fecondità, la riuscita degli atti. Nel Liber de nobilitate Poggio insiste sul motivo della virtù che nobilita, ma insieme, sul valore della nobiltà come espressione di una virtù feconda e riconosciuta come tale; di una virtù che si impone vittoriosa sulla fortuna, e trasforma il mondo degli uomini, anche quando si manifesta nelle meditazioni dei filosofi, «che con i loro studi e le loro veglie educano, benché separati, la vita desti uomini nelle varie arti»65 . 65 POGGIO BRACCIOLINI Ad insignem omnique laude praestantissimum virum Gerardum Cumanum de nobilitate liber, Opera, fol. 31 v-32 r. Sul concetto della gloria e dei letterati che danno la gloria cfr. il De infelicitate principum e il De veritate
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D’altra parte, proprio nel De nobilitate, il Bracciolini sottolineava i due temi fondamentali nella discussione umanistica sulla nobiltà, da cui uscirono e gli scritti di Buonaccorso da Montemagno66 e, sul declinare del secolo, l’opera del Landino: il motivo antiascetico, che accentua il significato della nobiltà come riconoscimento della virtù, ma insieme l’esaltazione di una nobiltà tutta nata da virtù, dal lavoro di ognuno, e non da diritto ereditario. «La virtù è a disposizione di tutti; essa diventa propria di chi l’abbraccia. I pigri, gl’ignavi, i malvagi, i perversi, che credono di succedere ai loro antenati, sono da stimarsi tanto meno degli altri quanto più sono lontani dal somigliare a coloro da cui discendono». 4. Il mondo delle passioni e il valore del piacere Tutta la prosa, talora mirabile, del Bracciolini è percorsa da una valutazione positiva di ogni manifestazione della vita nella sua integrale schiettezza. Le sue celebri descrizioni di spettacoli della natura, o della grazia perfetta di un corpo umano, rientrano in questa fresca sensibilità di fronte a tutti gli aspetti della vita. C’è in lui sempre desta la coscienza, del resto profondamente cristiana, dell’incarnazione dello spirito. L’uomo non è anima, è uomo, e cioè un corpo oltre che uno spirito. Con molta precisione scrive il Filelfo in una epistola del 1450: «io non capisco come ci si possa dimenticare del corpo dal momento che l’uomo non è solo anima» (quomodo corporis
fortunae. La Oratio in laudem matrimonii si trova anche nel ms. magliab. II, IX, 14, c. 119 r-127 r. 66 Il De nobilitate di Buonaccorso da Montemagno (Prose e rime, Firenze, 1718), volgarizzato da Giovanni Aurispa, non è che un’esercitazione retorica dove le due tesi, nobiltà del sangue e delle azioni sono messe vivacemente a confronto.
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oblivisci queat non intelligo, siquidem neque solus animus homo est)67 . Proprio in questa ricerca di un equilibrio, capace di soddisfare le varie esigenze dell’uomo in una tranquilla condotta morale, consiste il maggior significato dell’indagine di Francesco Filelfo, assai più fecondo che non profondo scrittore. In una sua lettera a Bartolomeo Fracanzani, meglio che nel prolisso trattato De morali disciplina, è delineato chiaramente in termini aristotelici il suo ideale della alipia, e cioè di una tranquillità calma e sicura dell’animo, in cui si placa ogni turbamento ed ogni tumulto. La pace, dunque, ma una pace soddisfatta per il temperato soddisfacimento, oltre che dello spirito, del corpo68 . Del resto tutta l’opera sua è improntata a una tendenza conciliatrice fra le varie posizioni contrastanti, e in particolare tra Aristotele e Platone. Al socratismo e all’aristotelismo del primo umanesimo si veniva ormai chiaramente opponendo Platone. Filelfo già sostiene la tesi, che sarà cara alla scuola del Ficino, dell’accordo sostanziale fra i due maggiori filosofi dell’antichità. Solo che la sua conciliazione è priva d’ogni profondità. Troppo preso da una retorica superficiale, svuotando gli studia humanitatis di ogni vera umanità, nelle sue prolusioni il Filelfo viene degradando ad artificio grammaticale un’intuizione della vita. Quando antepone a Socrate, a Platone, ad Aristotele Cicerone per la sua eleganza oratoria, se può incontrarsi con certi atteggiamenti del Poliziano o di 67 Filelfo, in ms, magliab. VIII, 1445, c. 308-9. Nelle Commentationes, fol. 81 r, scrive: «si hominem scimus non animum, non corpus, sed tertium quiddam, quod et animo constet et corpore, immortali mortalique natura, nequaquam ambigere nos oportet...». 68 Cfr. del Filelfo, oltre le Epistulae, Venetiis, 1502, il De morali disciplina, Venetiis, 1552. Numerosi testi in C. DE ROSMINI, Vita di Francesco Filelfo, Milano, 1808, 3 voll.
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Ermolao Barbaro, si pone tuttavia già fuori della grande tradizione umanistica, di cui solo qualche riflesso si può talora rintracciare, per esempio nei dialoghi delle Commentationes florentinae de exilio, attraverso l’esaltazione della ricchezza messa in bocca al Bracciolini nel terzo libro De paupertate. Tutt’altro tono hanno invece le lodi dell’epicureismo che troviamo nell’epistola di Cosimo Raimondi da Cremona, assai dotto latinista, finito suicida nel 1435. La polemica del Raimondi, come quella del Valla, è indirizzata contro gli stoici, «filosofi aspri e inumani, con i sensi sopiti e chiusi, morti ad ogni allettamento della gioia». Errore fondamentale d’ogni ascetismo è di non considerare che la virtù umana è virtù di tutto l’uomo, anima e corpo, nella loro armonia perennemente riconquistata. L’avere inteso questo è, appunto, il merito di Epicuro, non uomo, ma essere veramente divino. «Si condanna Epicuro perché si ritiene che abbia avuto del sommo bene una concezione troppo rilassata, ponendolo nel piacere ed asserendo che tutto va ad esso riferito. Io invece, se più accuratamente lo considero, ogni giorno sempre di più sono solito approvarne questa opinione, quasiché fosse norma e principio non di un uomo, ma di uno spirito superiore. Egli pose il bene supremo nel piacere, avendo visto più a fondo la forza della natura, avendo compreso che siamo nati e siamo stati formati dalla natura in modo che nulla ci fosse più appropriato del mantenere sane ed integre tutte le membra del nostro corpo, conservandole nel loro stato, senza essere affetti da alcun male dell’animo o del corpo»69 . 69 La lettera del Raimondi, l’unico suo scritto filosofico, fu pubblicata dal SANTINI, Cosma Raimondi umanista ed epicureo, «Studi storici», 1899, pp. 153-66, di su un codice del libraio Martini, e dalla sua stampa fu da me riprodotta e tradotta nei Filosofi italiani di ’400, Firenze, 1942, pp. 133-49. Successiva-
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Il Raimondi insiste con efficacia sulla bellezza cui ci affacciamo con i sensi, sulla gioia di vivere che si traduce e si valuta, appunto, in piacere. L’epicureismo, quale appariva da Diogene Laerzio e dal poema lucreziano scoperto nel 1418 dal Bracciolini, e subito comunicato al Niccoli, offriva una base felice per questa caratteristica riconsacrazione della natura nella sua integrità. Esaltazione che si vestiva di toni irreligiosi fino a sboccare nella più schietta empietà anticristiana, come avvenne in Roma nel circolo di Pomponio Leto. «Costoro tenevano opinione che non fusse altro mondo che questo, et morto il corpo morisse la anima, et demum che ogni cosa fusse nulla se non attendere a detti piaceri e vuluptà, sectatori del Epicuro et de Aristippo...»70 . Ove, a parte ogni probabile esagerazione polemica dell’inviato di Galeazzo Maria Sforza, qualcosa pur si rifletteva dell’atteggiamento di certi letterati del gruppo romano, come specialmente Filippo Bonaccorsi (Callimaco Esperiente), che anche altrove vediamo avverso alla platonica separazione dell’anima dal corpo71 . La propria ortodossia sostenne invece sempre il Platina, di cui suonano tuttavia vivacissi-
mente ne identificavo una copia nell’anonimo Laur. Ashb. 267 del sec. XV, col titolo Defensio Epicuri contra Stoicos, Achademicos et Peripateticos («Rinascimento», 1950, pp. 100-101). 70 Il testo integrale nel PASTOR, Storia dei Papi, tr. Mercati, Roma, 1925, vol. II, p. 742. 71 Sulla posizione di Callimaco Esperiente e suoi scritti cfr. B. KIESZKOWSY, Filippo Buonaccorsi detto Callimaco e le correnti filosofiche del Rinascimento, «Giornale critico della filosofia italiana», 1934, pp. 281-94. Notevole la quaestio de peccato indirizzata in forma d’epistola al Pico (segnalata dallo Zeissberg, in «Arch. für österr. Gesch.», vol. 55, 1877 e pubblicata parzialmente da me, «Rivista critica di storia della filosofia», 12, 1957, pp. 16-21. La Rhetorica è stata pubblicata dal Kumaniecki, Varsavia, 1950). Gli scritti del Platina nell’ed. di Colonia del 1540. Il De optimo cive, con la trad. di F.
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me le sferzate contro i monaci, gli asceti e i contemplanti di tutte le fedi. «Molti, sia Greci che Egizi, si sono dilettati della contemplazione, e molto hanno scritto circa i misteri e le meraviglie del creato... Ma io lodo ed ammiro sopra tutti i Romani che, dimenticando i vantaggi dei singoli e i godimenti dello spirito, scrivendo intorno alle leggi e alla morale, provvidero sempre alla comune utilità degli uomini». La scienza stessa, la cultura, è presentata nel De falso et vero bono come un mezzo di comunicazione umana, un linguaggio che supera tempi, luoghi, differenze di nazione e di razza. «Unico fra tutti l’uomo dotto non è straniero in terra straniera.. La cultura, dovunque ci rechiamo, ci accompagna, ci guida, ci riconduce in porto». I naufraghi sbattuti dalle onde su una spiaggia ignota, ecco che si rianimano scorgendo sulla sabbia tracce di figure geometriche. E il filosofo che è tra essi, li saluterà con l’insegnamento: «dite ai miei concittadini che i genitori non possono dare ai figli viatico migliore di una educazione nelle discipline liberali»72 . Le lettere, intese come honesta disciplina, come studia humanitatis, rappresentano il più solido e vasto vincolo umano. 5. Il Valla e le scienze morali Lorenzo Valla fu veramente colui che si impegnò in ogni campo per la valorizzazione piena, totale, della vita mondana, in tutti i suoi aspetti, contro ogni negazione ascetica. La sua polemica antistoica, la sua satira antimonastica, è esigenza di integrità di vita, in una purezza che
Battaglia, nell’ed. di Bologna, 1944 (insieme a MATTEO PALMIERI, Della vita civile). 72 Dal De falso et vero bono, II (ed. Colonia).
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vuol riconoscere anche nella natura, nella carne, l’opera di Dio. Dalle mani di Dio è uscito tutto l’uomo, anima e corpo; né v’è parte dovuta al demonio. Non a caso s’è detto purezza ; nel Valla c’è un bisogno quasi casto di liberarsi da soprastrutture che sono troppo spesso degenerati pervertimenti, foschi lembi di barbarie, sotto cui va ritrovata la schiettezza di un’innocenza tradita. L’appello alla natura, alla voluptas del De vero bono (de voluptate), non può idealmente disgiungersi né dal tono fideistico del De libero arbitrio, né dalla esigenza di una logica più aderente ai movimenti del pensiero, di un diritto libero da ogni cristallizzazione, di un linguaggio che abbia ritrovato le direzioni originarie. Il Valla è sempre crudelmente polemico, e questo suo accento riveste di colori particolari, e quasi scandalosi, le antitesi di cui si compiace nei confronti del passato. Ecco così gli accorgimenti letterari con cui viene esaltata la voluptas. Ma il senso più intimo è in quel richiamo alla natura che freme e vive in noi, divina e ministra di Dio, contro cui pecca chi la soffochi o la venga mutilando. Scopo dell’uomo è, non mutilare se stesso, ma svolgere le sue attività e godere quella lieta commozione dell’animo, quella soave giocondità del corpo, in cui appun´. Goderla in questo mondo, conto consiste la ηδoν η tro ogni ascesi stoica e cristiana, riconoscendo il valore del piacere come compenso e scopo dell’azione; goderla nell’altro mondo come sanzione divina al nostro operare: ecco, secondo Valla, il segno di una saggezza verace. Il tradizionale rapporto di mezzo a fine, il moto dall’onestà al piacere, oltre che immoralmente gretto anche falso, va invertito, o meglio va eliminato. Non l’onesto per il piacevole, e neppure il piacevole per l’onesto, ma il piacere per sé (voluptatem propter se ipsam expetendam): l’agire vale in se medesimo, non per altro. V’è, nel pensiero del Valla a questo proposito, come un intrinsecarsi di gioia e di moralità che corrisponde all’incarnarsi umano, per cui
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non v’è, né può esservi, separazione netta, o meglio opposizione, fra carne e spirito. La difesa della natura nella sua integrità, che costituisce il centro di tutto il primo libro del De voluptate, non mira, come pur si è detto, a sostituire la natura a Dio, ma a rivendicare la santità e la perfezione della ministra prima di Dio; di questo saggio e provvidenziale ordine di cose, cui l’atto deve adeguarsi. E proprio in questo naturale agire, e cioè in questa inserzione precisa dell’atto nella realtà, è il bonum; o per lo meno un bonum reale, fecondo, concreto, e non quel nome vano che è il bonum stoico, duramente contrapposto all’ordine naturale. La voluptas, la divina voluptas è il segno di questa fecondità, e scende sull’azione come benedizione di Dio (Nomen ipsum honesti cassum quiddam et nugatorium planeque pernitiosum. Voluptate nihil amabilius nihilque praestantius). Nel piacere si esprime in tutta la sua forza la natura, e manifesta la positività del suo espandersi. E nel godimento, nella gioia, noi proviamo questo irrompere in noi del torrente di delizia, la cui esaltata fruizione è, appunto, il paradiso («delectatio» atque «deliciae», non a «delecto», sed a «delector», sive a «delectat». Nam altero modo actionem significat, ut exhortatio, altero passionem, ut exultatio). Prende così sapore quello strettissimo legame, sostenuto dal Panormita nel primo dialogo, fra bellezza e voluptas, come quella che si impone e signoreggia gli animi, onde gli avvocati stessi se ne valgono nei tribunali per penetrare nelle anime e vincerle. Finché, in un compiacimento sensuale, si viene esaltando l’amore fisico, legato alla bellezza, mentre alla fecondità del piacere si attribuisce un senso del tutto corpulento: il mantenimento del genere umano. Se l’ascetismo riuscisse a imporre la verginità, quantum naufragium de genere humano! Ove si ritrovano e la polemi-
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ca antimonastica e l’esaltazione del matrimonio: entrambi luoghi comuni della trattatistica quattrocentesca73 . Tutto il De voluptate si muove tra questa puntuale critica dello stoicismo, e, attraverso lo stoicismo, di ogni ascetismo, e la conquista di un raffinatissimo significato della voluptas, culminante in quell’esaltazione del gaudio divino, e di tutta l’esperienza cristiana, che costituisce l’ultimo libro dell’opera. Lo stoicismo ha peccato per un estremo dualismo, mentre nell’opposizione fra ragione e senso, fra anima e corpo, si celava un sottinteso di tipo manicheo. Valla ha buon gioco, non solo nel mostrare l’antitesi fra ascesi stoica e realtà della vita, ma nello svelare l’assurdo di una dottrina che, mentre chiude l’esistenza di un uomo nel limite di questa esistenza terrestre, gl’impone poi di rinunciare a tutto quello che la vita ha di positivo. Il cristianesimo, dinanzi allo stoicismo, 73 Ma più specialmente per la polemica antimonastica cfr. il De professione religiosorum, edito nel 1869 dal Vahlen (L. VALLAE opuscula tria. «Sitzungsber. d. Wiener Akad., philos. histor. Klasse», Bd. 61, pp. 7-67, 357-444. Bd. 62, 93-149). Non è qui il luogo di riprendere la questione delle varie redazioni del De voluptate, e delle eventuali modificazioni e attenuazioni recate dal Valla. È comunque probabile che una prima redazione del 1431 ci sia conservata dall’ed. parigina del 1512; una seconda del 1433 nelle stampe di Lovanio (1483) e di Colonia (1509); la terza, definitiva, nell’Ottoboniano lat. 2075 della Vaticana. L’ed. di Basilea delle opere conserverebbe un’arbitraria contaminazione delle prime due redazioni (cfr. M. DE PANIZZA, Le tre redazioni del De voluptate del Valla «Giornale stor. d. letteratura ital.», 1943, vol. 121, pp. 1-22. La De Panizza è tornata poi sulla questione, integrando e correggendo, nel saggio su Le tre versioni del «De vero bono» del Valla, «Rinascimento», VI, 1955, pp. 349-64 (e de vero bono, non de voluptate, sarebbe il titolo genuino dell’opera). Una bella traduzione degli Scritti filosofici e religiosi del Valla ha dato G. Radetti, Firenze, 1953).
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diventa rivendicazione dell’unità e integrità dell’uomo, e soprattutto lotta contro ogni postulato manicheo. La proclamata santità della voluptas, del resto sentita molto lucrezianamente, è una difesa della divinità della natura, manifestazione mirabile dell’ordinata e provvidenziale bontà di Dio. Come ogni troppo viva posizione antimanichea, anche quella esposta in certe pagine del Valla sembra scivolare verso il pelagianismo, rischiando di deificare la natura, e, attraverso la natura, il piacere, hominumque divumque Voluptas74 . Tuttavia nulla vien perso della sua validità, né della giustezza di quel richiamo all’esperienza cristiana, intesa come redenzione non dell’anima, ma dell’uomo, di tutto l’uomo, carne e anima, contro ogni pessimistico ascetismo e ogni evidente o larvato manicheismo. L’orazione finale del De voluptate, ove all’esaltazione della natura fatta dal Panormita Niccolò Niccoli oppone le lodi di Dio, non è una cauta maschera indossata alla fine per opportunismo; essa rispecchia veramente il pensiero del Valla per cui la natura è opera di Dio, e tutto ciò che è naturale è divino, sacro linguaggio. Alla divina legge, signora di noi e delle cose, conviene anzi abbandonarsi con ingenua fiducia: totum ad voluntatem Dei esse referendum. E quivi appunto troveremo la gioia. Il De libero arbitrio con i suoi accenti paolini, con la sua aspra condanna di una teologia aristotelizzante, con la sua esaltata affermazione di una fede che è offerta totale dell’anima a Dio, mentre si congiunge in piena armonia con i motivi volontaristici del De fato di Coluccio, non stona affatto nell’indagine del Valla. Il quale è preoccupato di rompere le armature sillogistiche della dia74 VALLA, Opera, pp. 906 sgg., 909 sgg., 926 ecc. («Stoicos pre ceteris imitari studebimus, qui sunt evangelio propinquiores», scrive nel 1444 Enea Silvio, Lettere, ed. Wolkan, I, I, p. 342).
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lettica scolastica, di abbattere il diaframma che la ragione aristotelica ha innalzato fra noi e la natura, fra noi e Dio. Solo abbandonandoci alla realtà, solo aprendoci al divino, solo ritrovando la schiettezza della nostra natura, e l’ingenua innocenza di tutta la natura, noi ci rifaremo degni di Dio75 . Se rileggiamo così la Dialettica come le Eleganze noi troviamo costantemente lo stesso tema. Oltre le discussioni logiche tradizionali il Valla vuole afferrare il senso preciso primitivo delle espressioni; ridiscendendo alla valutazione originaria della parola egli intende determinarne la portata, l’intenzionalità, ripenetrando alle sorgenti del pensiero pensante che vi si incarna. Di qui la sua violenta critica d’Aristotele, di Boezio, di tutta la barbarie medievale; di qui la sua indagine linguistica, grammaticale. Si tratta di riprendere i termini, rivestiti di significati insussistenti, sedimenti di teorie infondate. Si tratta di ripresentarli nella loro funzione originale, liberandosi una volta per sempre da ogni discussione vana e artificiosa. Non a caso egli parla di un sacramento del latino classico, quasi di un carattere sacro, di un divino sigillo proprio della prima schietta incarnazione del pen75 VALLA, De voluptate, I, 10: «quod natura finxit atque formavit, id nisi sanctum laudabileque esse non posse. Est hoc caelum, quod supra nos volvitur, diurnis nocturnisque luminibus distinctum, tantaque ratione, pulchritudine utilitate compositum. Quid commemorem maria, quid terras, quid aërem, quid montes, plana, flumina, lacus, fontes, ipsas etiam nubes ac pluvias? Quid pecudes, cicures, aves, pisces, arbores, segetes? Nihil invenies non summa... ratione, vel specie vel utilitate perfectum, instructum, ornatum. Cuius rei una corporis nostri compago potest esse documento, quemadmodum Lactantius... manifestissime ostendit in eo libro quem de opificio Dei inscripsit». Ove è da sottolineare il riferimento al luogo ermetico di Lattanzio, da cui attingerà Giannozzo Manetti. Ma utili paralleli potrebbero stabilirsi fra non pochi luoghi del De voluptate e l’opera del Manetti sull’uomo.
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siero degli uomini76 . Di qui l’imperativo di rispettare la parola, di non far violenza al linguaggio, ma di ascoltare con devota umiltà il messaggio dello spirito vivo negli spiriti in cui viene parlando. Solo così la parola riacquisterà il suo valore di comunicazione, di contatto fra uomini; solo così parola e pensiero cesseranno di essere termini contrastanti. In Valla, come poi in Poliziano, la filologia acquista un particolarissimo valore; è la via a intendere il pensiero. Nella storia di una parola, nel suo riconquistato valore, si ritrova la storia di un rapporto umano essenziale, si ritrova la storia di una istituzione, di un concetto, di un costume, di una forma di vita. Se rileggiamo, nell’introduzione al libro terzo delle Elegantiae, la sottile presentazione del nesso tra diritto e filologia, vediamo che cosa potesse significare la lettura del Digesto, e comprendiamo insieme il substrato filologico e la portata morale e politica dell’opuscolo sulla donazione costantiniana dove la questione linguistica è già atto di vita sociale e religiosa77 . La lingua, s’è detto, torna ad essere considerata come tangibile manifestazione dell’unità degli spiriti umani, tessuto connettivo della società e, insieme, incarnazione dello Spirito. In una lettera a Giovanni Tortelli, l’umanista aretino cui sono dedicate le Elegantiae, un contemporaneo scrive che nell’eloquenza sono rinate e si sono incontrate tutte le forme della vita spirituale degli uomini; «atque eodem, quasi unum in corpus, convenerunt scientiae omnes». 76 Elegant. praef.: «magnum ergo Latini sermonis, sacramentum est, magnum profecto numen...». Cfr. anche Dialectica, Opera, p. 643 sgg. 77 Elegantiae, Lugduni, 1543, p. 156: «perlegi... digestorum libros.. et relegi cum libenter, tum vero quadam cum admiratione. Primum quod nescias utrum scientia rerum an orationis dignitas praestet...».
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Che è il tema consapevolmente svolto, sulle orme di Cicerone, dai maggiori maestri del Quattrocento: tutta la vita spirituale degli uomini ha la sua radice e il suo fondamento negli studia humanitatis. «Chi non sa – diceva Gasparino Barzizza – che tutte le arti che riguardano la humanitas hanno tra loro un vincolo comune e sono quasi congiunte da un solo legame di parentela? Chi non sente che la vita degli uomini, quando di esse fosse priva, non solo sarebbe monca e deserta, ma più bassa e più vile anche di quella di molti animali?»78 . E già in Valla la «filologia» così ampiamente intesa, come studio e coscienza e educazione dell’uomo integrale entro il mondo dell’umanità verace, vichianamente si converte nella storia. La quale, se è lodata da un Platina come maestra d’eloquenza, è intesa da Valla come sintesi di tutte le umane discipline. «Per quello che io posso comprendere, mostrano maggior gravità, maggior prudenza, maggior sapienza civile gli storici nelle loro orazioni, che i filosofi con le loro massime. E, a dire il vero, dalla storia deriva una grande conoscenza delle cose naturali, che poi altri ridussero a sistema, ed una grande dottrina dei costumi e d’ogni altra sapienza. E poiché abbiamo svelato la superiorità degli storici rispetto ai filosofi, se vogliamo riferirci ora alla religione, anche Mosè, anche gli Evangelisti... non possono considerarsi che storici»79 . Storia, dunque, maestra 78 Tortellio Aretino viro sapientissimo CASSIUS [Iunius Cassius o Giovanni Cassi] in «La R. Accademia Petrarca di Arezzo a F. Petrarca», Arezzo, 1904, p. 87 (dal Vat. Lat. 3908). G. BARZIZII. in principium quoddam artium oratio (MÜLLNER, op. cit., p. 57). Cfr. CICER. Arch. 2. 79 L. VALLA, Historiarum Ferdinandi Regis Aragoniae libri tres, Neapoli, 1509; cfr. POLIZIANO, Praefatio in Svetonium, Opera, Lugduni, 1528 vol. II, pp. 392, 399; PLATINA, Proemium in vit. Pontif., Opera, Colonia, 1529, p. a r. Cfr. anche, oltre il bel libro di F. GAETA, L. Valla. Filologia e storia nell’umanesimo italiano, Napoli, 1955, G. RADETTI, La religio-
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della vita; ma anche storia che è, soprattutto, il concreto vivere dello spirito in tutta la sua ricchezza, il suo dilatarsi in tutta l’ampiezza delle sue ideali dimensioni. Storia viva, contemporanea; riconquista che l’uomo compie di se stesso mentre allarga al massimo il proprio orizzonte. A mezzo il ’500 il veneziano Gianmichele Bruto, nel suo De Laudibus historiae80 , uscirà nelle potenti espressioni: «ci educa, non il filosofo che langue inattivo, ma Scipione armato; e non nelle scuole d’Atene, ma negli accampamenti di Spagna; e ci educa, non con i discorsi, ma con gli atti e con gli esempi». E la moralità della storia è, non già in una universale giustificazione, ma in un crudo proiettare, senza limiti e senza rispetti, ombre e luci; nello scagliar fuori, senza appello, dall’eterna vita dell’umanità, chi non può vivervi. «Giudice di tutto il mondo è chi fa la storia; giudice unico, pio e incorrutibile». 6. Giannozzo Manetti e la prima impostazione del problema della dignità dell’uomo Nella linea medesima del pensiero di Leonardo Bruni si muove ancora Giannozzo Manetti, che del Bruni appun-
ne di L. Valla, nella cit. miscellanea Nardi; F. ADORNO Di alcune orazioni e prefazioni di L. V., «Rinascimento», V, 1954; G. ZIPPEL, L. V. e le origini della storiografia umanistica a Venezia, ivi, VII, 1956, pp. 93-133; C. VASOLI, Le «dialecticae disputationes» del Valla e la critica umanistica della logica aristotelica, «Rivista critica di storia della filosofia», XII, 1957, pp. 412-33; G. ZIPPEL, La «Detensio quaestionum in philosophia di Lorenzo Valla, e un noto processo dell’Inquisizione napoletana, «Bullettino dell’Ist. Stor. Italiano per il Medio Evo», n. 59, 1957, pp. 319-47. 80 JOH. MICH. BRUTI De historiae laudibus, Colon. Brandeb., 1698, pp. 703-4, 731, 743-4.
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to lesse un caldo elogio funebre. Scolaro di Ambrogio Traversari, il dotto camaldolense traduttore di Diogene Laerzio, aveva frequentato i convegni di Santo Spirito ove s’era imbevuto delle idee del primo umanesimo, ispirato ai motivi del Petrarca, del Salutati e del Marsili. Profondo conoscitore dell’ebraico, del greco e del latino, «usava dire avere tre libri a mente, per lungo abito; l’uno era l’Epistole di Santo Pagolo; l’altro era Agostino, De civitate Dei; e de’ Gentili l’Etica d’Aristotele», che pubblicamente lesse e commentò. Dell’aristotelismo, celebratore di virtù civile, egli fu seguace, congiungendolo con una salda fede cristiana. «Usava dire che la fede nostra non si debbe chiamare fede, ma certezza». Ma anche il cristianesimo era per lui soprattutto carità umana, amore del prossimo. E questo senso austero della serietà della vita egli venne costantemente manifestando in una intransigenza politica che lo obbligò a gustare i frutti amari dell’esilio. Come per Bruni, incarnazione di dignità è per lui Dante e, nell’antichità, Socrate, il cittadino integro che aveva combattuto sui campi di battaglia, aveva affrontato senza paura i rischi della lotta politica, era stato padre e marito esemplare. «Benché sommo filosofo, visse in Atene la vita civile, come ogni altro cittadino. Con gli Ateniesi conversava, contrasse matrimonio, fu magistrato, nulla trascurò infine di quello che riteneva proprio della vita sociale»81 . E quando gli veniva prospettato il monastico e disumano ideale stoico, egli vivacemente reagiva. Nel Dialogus consolatorius de morte filii di continuo polemizza con coloro che vogliono strappare dall’uomo le passioni. Virtù, egli esclama, significa esaltazione dell’umanità, umanità integrale. «Abraccia quella virtù con tutte le forze dell’anima e del corpo, ché essa, se crediamo a Cicerone, trae il suo nome da virilità». Ora trasformare con gli Stoici gli uomi81
Vita Socratis, Cod. Laur. LXIII 30.
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ni in pietre, è annullare, non celebrare la loro umanità82 . Ed avendogli Agnolo Acciaiuoli ricordata la massima di Terenzio, dover gli uomini sopportare senza turbamento le vicende dolorose della fortuna, egli ribatte: «Benché io mi ricordassi di quel tuo [detto] terenziano, nondimeno... questo altro memorabile del medesimo poeta mi stava fermo nella mente: tutti noi quando siamo sani diamo di buoni consigli agl’infermi. E quell’altro mirabile ancora d’esso poeta non dimenticavo: io sono uomo e niuna cosa umana riputo aliena da me. Sì che tutto il dolore ch’è in me piuttosto all’umanità mia che a leggerezza, si debbe, secondo il mio parere, attribuire». L’Acciaiuoli è stoico intransigente, e perciò, secondo il Manetti, affatto disumano; il Manetti, aristotelico, difende apertamente la vita del sentimento: «i Peripatetici, assai più umani, tengono che tutte le passioni dell’animo principalmente abbino origine dalla natura... e io seguito l’opinione de’ Peripatetici, come più conveniente all’umana natura». Per questo, essere uomini significa innanzitutto consentire con gli uomini, soffrire e godere, umanamente; amare i figli e la famiglia e la patria, nella ragione cercare non la nemica, ma la guida, la misura degli affetti. «Onde sempre mi piacque quella notabile ed aurea sentencia del savio imperadore Antonino Pio il quale a chi riprendea Marco Antonio, quello che da prima diede opera alla filosofia e di poi, conseguitato il governo della repubblica, avea posseduto lo ’mperio, perché essendo filosofo e imperadore piangesse la morte d’uno che l’aveva allevato, si legge che in tal maniera rispose: deh! 82 Dialogus consolatorius de morte filii, Palat. 691 della Naz. di Firenze, che contiene anche la versione italiana dello stesso Manetti. Cfr. le notevoli orazioni di G. Manetti sulla «giustizia» (per es. nei Palat. 51 e 598 della Naz. di Firenze). Una delle orazioni del M. fu stampata a Torino dai Fanfani (Collezione di opere inedite o rare, vol. II, 1862, p. 195-201). L’orazione del Palmieri vide la luce a Prato nel 1850.
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lasciatelo essere uomo, però che la filosofia e lo ’mperio non toglie in alcuno modo l’affecto dell’animo». E il Manetti, a proprio appoggio, con Cicerone ripete che, tolta la vita del sentimento, non vi sarebbe differenza alcuna, «io non dico tra una pecora e uno uomo, ma tra uno uomo e un tronco, o veramente un sasso, o qualunque altra cosa insensata». Di qui la conclusione antistoica: «né però si debbono udire coloro che dicono che la virtù è una cosa dura, e quasi ferrea e adamantina. E se noi veggiamo che la morte de’ catellini e degli sparvieri e degli altri leggiadri e vaghi animaletti alcuna volta è si molesta a chi gli alieva, che non è sanza lagrime, perché si veggono privati per l’avenire di quelle blandizie e adulazioni... che debbono fare i padri per la perdita de’ propri figliuoli, i quali si sentono in sempiterno privati di più certe o più expresse piacevolezze puerili, non vani e frivoli dilecti. E d’altra parte cognoscono che delle loro proprie carni gl’ingenerarono et ch’erono d’una medesima natura durante la vita con loro». E se è proprio dell’uomo accogliere con umile rassegnazione la sventura inviata da Dio, umanissima cosa è soffrire e piangere. «Le quali cose, bench’elle paino ne’ temerarii e leggieri uomini in qualche modo contrarie e ripugnanti, niente di meno ne’ prudenti e savi spesse volte insieme si convengono». Parole che, nella loro ricchezza di comprensione, ben rispecchiano la larghezza di spirito propria dell’umanesimo, che in una simile condanna della durezza stoica, monastica e solitaria, ispirerà al Guarino l’aspra invettiva: «essi strappano dall’uomo la mutua benevolenza, la carità, l’amicizia, la pietà, e di questo nulla v’è di più atroce, di più ferino, di più avverso all’umana società»83 . 83 GUARINO VERONESE, Epistolario, ed R. Sabbadini, vol. I, Venezia, 1915 («Miscellanea di Storia veneta edita per cura della R. Deput. Veneta di Storia Patria», Serie III, vol.
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Su queste basi, socratiche ed aristoteliche, e a un tempo profondamente cristiane, è basata la celebrazione notissima che il Manetti fece della dignità dell’uomo, la quale, ancorché ricondotta talora attraverso Lattanzio all’esaltazione ermetica del Dio Anthropos, si viene di preferenza fondando sul valore delle attività mondane. Come narra Vespasiano da Bisticci, fu Alfonso d’Aragona a spingere prima il Fazio, poi il Manetti, perché componessero una dissertazione sull’uomo. Alfonso, com’è noto, e come ricorda con tanta efficacia Pandolfo Collenuccio, amava particolarmente le dispute letterarie e «il confabulare de le lettere», convinto com’era che «il re non letterato è un asino coronato». Del ligure Bartolomeo Fazio, scolaro del Guarino, aveva apprezzato molto un dialogo intorno alla felicità (De vitae felicitate), steso in polemica col Valla, ma molto povero di forza speculativa. Il Fazio, ponendosi con ciò del tutto fuori della tradizione umanistica, tornava ad esaltare la pura contemplazione, la quale ci farà conoscere i segreti della natura – «conosceremo bene tutte le stelle, di cui nulla si può immaginare più luminoso, più adorno e più vario». Ma del De excellentia et praestantia hominis il sovrano rimase, a quanto sembra, deluso; e non a torto, se si pensa alla piatta banalità dell’argomentazione, tutta volta a esalVIII): «nec vero duris ego quibusdam et agrestibus unquam sum assensus, qui omnem e nobis affectionem ita penitus nituntur avellere, ut nullam humanitatis curam ad nos pertinere velint. Quod cum nullo fieri modo possit, hominum societati prorsus inutile; tollit enim mutuam inter se hominum benivolentiam caritatem amicitiam misericordiam, qua re nihil atrocius, nihil immanius, nihil hominum convictui excogitari possit hostilius...». Cfr. anche l’epistola al Corbinelli: «maiores nostros... non admirari et maximis prosequi laudibus non possum cum tantam in eis animi magnitudinem... fuisse intuear ut litterarum ac doctrinae studia, simul et rerum tum publicarum tum familiarium negotia capesserent...».
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tare i doni concessi da Dio all’anima e, in particolare «la filosofia, guida e maestra del ben vivere, che c’induce al culto di Dio, e ad ogni opera di virtù»84 . Insoddisfatto delle pagine stese dal Fazio, re Alfonso si rivolse a Messer Giannozzo, e «dopo più disputazioni... domandollo quale fusse il suo proprio uficio dell’uomo rispose: Agere et intelligere». Ma nei quattro libri dell’opera sua il Manetti venne insistendo sull’attività umana, ed anche il conoscere gli si venne svelando come produzione di scienze atte a governar la natura, e celebrazione di arti, ed edificazione sulla natura di uno splendido mondo armonioso di monumenti umani. Alla prosa retoricamente pessimistica del De contemptu mundi di Lotario diacono, che fu il pontefice Innocenzo III, il Manetti viene contrapponendo Cicerone e Lattanzio, e attraverso Lattanzio l’esaltazione dell’uomo che fu caratteristica dell’ermetismo. Senonché egli non indugia, come più tardi il Ficino e il Pico, sul significato metafisico della centralità umana, in un approfondimento della conoscenza umana come incentrarsi nell’umano pensiero di tutta la natura, in esso quasi accolta e sublimata e sollevata alle soglie del regno dello spirito. Il Manetti ricorda, è vero, il racconto della Genesi e l’immagine e la simiglianza divina dell’uomo; dalla tradizione patristica riprende anzi il tema, che il plurale usato nel sacro testo («facciamo l’uomo...») indichi nell’atto della creazione umana l’intervento di tutte le persone della Trinità. Tuttavia il motivo dominante dell’inno sciolto all’uomo dal Manetti è costituito dall’eccellenza delle opere umane. Lo vediamo così rievocare il viaggio di Giasone e l’ardimento dei navigatori; le costruzioni mi84 B. FAZIO, De vitae felicitate, Antverpiae, 1556; stampato insieme al De excellentia et praestantia hominis con l’Epitomae de regibus Siciliac et Apuliae di F. Sandeo (Hanoviae, 1611), pp. 106 sgg., 149 sgg.
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rabili, non solo degli antichi artisti, ma del suo Filippo Brunelleschi, architectorum omnium nostri temporis facile princeps; le opere d’ogni arte; la letteratura, il diritto, tutto il mondo dello spirito, tutto «il regno dell’uomo». E al centro la libertà umana, questo dono così grande e così grave, che è dono insieme e conquista, di cui l’uomo si rifà perennemente degno col suo lavoro, con cui viene rendendo sempre più belli e più perfetti i prodotti del Signore («ab omnipotenti Deo ad usus hominum primo inventa institutaque, et ab ipsis postea hominibus gratanter accepta, multo pulchriora multoque ornatiora ac longe politiora effecta»). Ficino e Pico batteranno sul significato cosmico dell’uomo, sul suo esser nodo del tutto; e in pagine eloquenti verranno trasfigurando quasi l’uomo in un dio. Nell’umile prosa del Manetti l’umano valore ha sì, come sfondo, la particolare dignità conferita dal Creatore, ma si celebra nell’opera terrena, nella costruzione quotidiana della città terrena, nella serietà della vita civile. 7. Leon Battista Alberti In un cerchio non diverso di terrena esperienza, di preoccupazioni essenzialmente mondane, rimane anche Leon Battista Alberti, pur con la ricca complessità dei suoi temi e la vastità dei suoi orizzonti. La limitatezza della condizione umana è da lui solennemente affermata in uno dei più significativi dialoghi latini, quello intitolato al Fato e alla Fortuna, ove si racconta il sogno singolare del filosofo cui si viene svelando in mirabile visione il contrasto delle anime sulle rive del fiume della vita. Le ombre che vanno errando lungo le acque turbinose del fiume in attesa dell’incarnazione, scintille del fuoco divino, avvertono il troppo curioso indagatore dell’inutilità di ogni soverchio ardimento speculativo. «Desisti, uomo, desi-
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sti dall’investigare più del conveniente i segreti del Dio. A te e ad ogni altra anima imprigionata nei corpi sappi che i celesti han consentito solo di non ignorare quello che cade sotto gli occhi». Chi vuole penetrare entro i divini misteri è come il fanciullo che vuole afferrare i raggi del sole: «desine, inepte, nam res divinae carcere mortali nusquam detinentur»85 . Altrove, come nel De iciarchia, l’assentarsi dalla società umana per la pura ricerca è denunciato come un tradimento; «chi, per cupidità d’imparare quello che non sa, abbandonasse il padre e gli altri suoi impotenti e destituti, sarebbe empio, inumano. L’uomo nacque per esser utile all’uomo». E sommamente utile all’uomo è colui che col prossimo collabora volgendo ogni suo sforzo «alla patria, al ben pubblico, allo emolumento ed utilità di tutti i cittadini»86 . Il tipico motivo rinascimentale virtù vince fortuna si inserisce, nell’Alberti, entro l’esaltazione del lavoro umano, glorificato quasi dalla prosperità delle famiglie e delle città, ove il fiorire delle ricchezze e il prosperare dei beni terreni è simbolo ed insieme espressione tangibile del favore di Dio. Così, con questo intendimento, va riletto il mirabile e celebre proemio ai libri della Famiglia, ove ogni pessimismo ed ogni ascetismo sono al tutto sbanditi nella certezza del valore dell’opera umana. Poggio Bracciolini tra le rovine di a Roma inveiva contro la fortuna, la maligna fortuna, che s’era divertita a trasformare in stalle di porci le sedi solenni dei magistrati romani. Pio II, a Tivoli, sospira in pagine squisite sulle dimore delle antiche regine divenute squallidi nidi di serpi. L’Alberti si chiede pensoso la ragione di quel rapido tramonto di gloria cui ci fa assistere la vicenda alterna 85 Opera inedita et pauca separatim impressa, ed G. Mancini, Firenze, 1890, p. 137. 86 De iciarchia, in Opere volgari, ed. Bonucci, Firenze, 184349, vol. III, p. 92.
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dei tempi. «Ah! quante si veggono famiglie molte cadute e ruinate; né saria da annumerare o raccontare quali e quante siano simili a Fabii, Decii, Drusii, Gracchi e Marcelli, e agli altri nobilissimi appo gli antichi, così nella nostra terra famiglie assai state, per lo ben publico a mantenere la libertà, a conservare la auctorità e dignità della patria, in pace e in guerra modestissime, prudentissime, fortissime... Delle quali tutte famiglie non solo la magnificentia e amplitudine, ma gli uomini, né solo gli uomini sono scemati e disminuiti, ma più il nome stesso, la memoria di loro, ogni ricordo, quasi in tutto si truova casso e annullato. Onde non sanza cagione a me sempre parse da voler conoscere se mai tanto nelle cose umane possa la fortuna, o se a lei sia questa superchia licentia concesso, con sua instabilitate e inconstantia porre in ruina le grandissime e prestantissime famiglie». La risposta a questa grave e angosciosa domanda è chiara: «scorgo molti per loro stultitia scorsi ne’ casi sinistri, biasimarsi della fortuna, e dolersi d’essere agitati da quelle fluctuosissime sue onde, nelle quali stolti se stessi precipitarono». L’uomo è esso stesso cagione dei suoi mali e dei suoi beni. Sempre la virtù vince la fortuna. E virtù significa qui umana virtù, operosità terrena, «la buona e santa disciplina del vivere». «Le giuste leggi, e virtuosi princìpi, e prudenti consigli, e forti et constanti fatti, l’amore verso la patria, la fede, la diligenzia, le gastigatissime et lodatissime observantie de’ cittadini sempre poterono, o senza fortuna guadagnare et aprender fama, o colla fortuna molto extendersi et propagarsi a gloria». Ove la fortuna propizia ben poco differisce nei suoi effetti da quella avversa, laddove alla virtù, intesa nel senso più pieno di virtù civile, non può mancare nella storia un sicuro trionfo. «Mentre che da noi furono le optime e sanctissime nostre vetustissime discipline observate, mentre che noi fummo studiosi porgere noi simili a’ nostri maggiori e
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con virtù demmo opera di vincer le lodi de’ passati, et mentre ch’e nostri estimorono ogni loro opera industria et arte et al tutto ogni sua cosa essere debita et obligata alla patria, al ben publico, allo emolumento et utilità di tutti i cittadini, mentre che si exponea l’avere, il sangue, la vita per mantenere l’auctorità maiestate et gloria del nome latino, trovoss’egli alcun populo, fu egli natione alcuna barbara ferocissima, la quale non temesse e ubbidisse nostri editti et leggie?». Virtù significa qui, s’è detto, umanità, opera umana saggia e prudente, virtuosa e forte, meditata con calcolo sottile, inserita con abilità e finezza nel giuoco delle forze mondane. «Stimeremo noi suggetto alla volubilità e alla volontà della fortuna quel che gli uomini con maturissimo consiglio, con fortissime e strenuissime opere a sé prescrivono? E come diremo noi, avere balìa con sue ambiguità e incostantie la fortuna a disperdere et discipare quel che nui vorremo sia più sotto nostra cura e ragione che sotto altrui temerità? Come confesseremo noi non essere più nostro che della fortuna quel che noi con sollecitudine e diligentia deliberaremo mantenere e conservare? Non è potere della fortuna, non è, come alcuni sciocchi credono, così facile vincere chi non voglia essere vinto. Tiene giogo la fortuna solo a chi se gli sottomette». Ove non si insisterà mai abbastanza sul ricchissimo significato della virtù, che è l’agire dell’uomo colto in tutta la sua pienezza di valore etico e politico, laddove fortuna è il limite dell’accadere fisico, impotente, da solo, a vincolare completamente l’azione umana, che quand’è virtuosa, anche se sfortunata, vince sempre, riscattandosi nei confini di quella città umana dove il valore infelice è non solo santificato, ma resta fecondo nella sua funzione educatrice. «Ci fu la loro [dei latini] immensa gloria spesso dalla invidiosa fortuna interrupta, non però fu denegata alla virtù; né mentre che indicarono l’opere virtuose insieme colle buone patrie discipline essere or-
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namento et eterna fermezza dello imperio, all’ultimo mai con loro seguì la fortuna se non facile e seconda. E quanto tempo in loro quegli animi elevati e divini, que’ consigli gravi e maturissimi, quella fede intensissima verso la patria fioriva, e quanto tempo ancora in loro più valse l’amore delle publice cose che delle private, più la volontà della patria che le proprie cupiditati, tanto sempre con loro fu imperio, gloria e anche fortuna. Ma subito che la libidine del tiranneggiare, e singulari commodi, le iniuste voglie... più poterono che le buone leggi e santissime consuete discipline, subito incominciò lo imperio latino a debilitarsi e inanire». L’antitesi virtù-fortuna nel Machiavelli suonerà ben diversa. Per Machiavelli virtù e scelleratezza non sono termini antitetici, ma possono anzi coesistere e collaborare come già in quell’imperatore romano che fu, a un tempo, virtuosissimo (e cioè fortissimo) e scelleratissimo. Virtù è forza ed astuzia; è forza naturale inserita abilmente fra forze. Per l’Alberti virtù è bontà; bontà feconda e operosa, ma pur sempre bontà; giustizia costruttrice di un mondo umano ove non può non trovare rispondenza ed effetto. «Nelle cose civili e nel viver degli omini», e cioè nella nostra terrestre città, valgono solo «l’industria, le buone arti, le constanti opere a maturi consigli, le oneste exercitazioni, le iuste volontà, le ragionevoli expectazioni». Umana ragione, «questa prestanzia d’animo, questo lume d’ingegno», che ci distingue dalle bestie, è per l’uomo mezzo «con lo quale e’ senta e discerna che essa sia onestà». Perciò l’umana dignità per l’Alberti risiede nel lavoro, e solo nel lavoro, «Chi mai stimerà potere asseguire pregio alcuno o dignità, sanza ardentissimo studio di perfectissime arti, sanza assiduissima opera, sanza molto sudare in cose virilissime e faticosissime?». E queste opere sono, nell’Alberti, contatti e rapporti civili, essendo «gli uomini... nati per cagione degli uomini». Nel quale civile
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consorzio convergono virtù e felicità, e si fanno quasi sublime preghiera a Dio. «Pertanto così mi pare da credere sia l’uomo nato, certo non per marcire giacendo, ma per stare facendo... Sia dunque persuaso che l’uomo nacque non per atristarsi in ozio, ma per adoperarsi in cose magnifiche et ampie, colle quali e’ possa piacere e onorare Iddio in prima, et per avere in se stesso come uso di perfecta virtù, così fructo di felicità». L’occhio dell’Alberti vagheggia una città terrena armoniosa come uno dei suoi palazzi, ove la natura si piega all’intenzione dell’arte come la obbediente pietra serena dei colli fiorentini. Non v’è l’aperto conflitto di Machiavelli, né il perenne dissidio cui pensa Guicciardini, e neppure l’aristotelica concezione della «buona fortuna» propria del Puntano, ove la fortuna si presenta necessario elemento della felicità (nam si felicitas in actione et usu est posita, manca erit omnino exuta fortunae bonis...), ed insieme del tutto al di fuori dell’umana libertà (cum humani minime sit arbitrii), onde sul piano politico si apre insanabile la divergenza fra la cecità di un impeto di natura (fortuna... naturalis quidam impetus) e la civile prudenza (civilis felicitas... bonae... fortunae praesidiis... indiget). Per l’Alberti l’uomo è fattore unico della città terrena, e la natura, e quindi la fortuna, sono strumenti e occasioni; limiti, se si vuole, ma non ciechi e irriducibili per l’uomo prudente, che li inserirà nel suo calcolo; ostacoli alla virtù, ma di cui la virtù riuscirà sempre trionfatrice, per l’assoluto imperio che essa ha nel mondo spirituale dell’uomo, ove non le potrà mai esser negata, pur nella sventura, la gloria e la fecondità perenne di un’efficacia educatrice87 . 87 Della Famiglia dell’Alberti seguo l’ed. del Mancini, Firenze, 1908. Il De fortuna del Pontano in Opera omnia, Venetiis, 1518, p. 275 sgg.
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«Lui geometra, lui astrologo, lui musico» – dice dell’Alberti il Landino; e realmente le credenze astrologiche si affacciano di continuo nel De architectura, ma valgono anch’esse, piuttosto che ad inserire nel mondo l’ombra oscura di forze cieche, ad accrescerne la perfetta regolarità, per il connettersi dell’universo in una rete di rapporti, ove la realtà naturale, proprio per non svelar fratture di sorta, si presenta come la base sicura per l’opera umana. La matematica infatti, già per l’Alberti, è la cifra segreta del tutto. Quando gli avviene di dissertare della pittura, «fiore d’ogni arte», e vuol cercare la radice di quella sua «forza divina», che fa «i morti dopo molti secoli essere quasi vivi», in null’altro la trova se non nella matematica, che «dalle radici entro dalla natura fa sorgiere questa leggiadra e nobilissima arte»88 . 8. Matteo Palmieri e il trapasso al platonismo Cristoforo Landino a più riprese tenterà di prospettare la figura dell’Alberti nella luce delle discussioni e delle sintesi platonizzanti. In realtà egli ne era al di fuori, anche se, talora, non gli è estraneo qualche spunto di quelle concezioni platonico-pitagoriche della natura che, volgarizzate dalla scuola ficiniana, dovevano riverberarsi più tardi anche sull’intuizione di Leonardo89 . L’anima 88 ALBERTI, Il trattato della pittura, ed. Papini, Lanciano, 1913, pp. 13, 43, 45, 49, 95. 89 Per la rappresentazione che il Landino fa dell’Alberti cfr. oltre le Disputationes camaldulenses il De vera nobilitate (ms. Corsin. 433), nonché la cit. prolusione al corso sul Petrarca. Cfr. FICINI Opera, Basilea, 1561, vol. I, p. 936. Nel De iciarchia (Opere, ed. Bonucci, vol. III, p. 118 sgg.), l’Alberti parlerà in termini stoico-ciceroniani delle faville che natura pose nell’anima dell’uomo perché ne illuminino la mente con i raggi di ragione.
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dell’Alberti era ancor tutta presa da questo mondo terreno, e ben lungi dall’anelare con ascetici voli a una fuga in Dio. «Voglio ne’ tuoi mali invochi aiuto da Dio; ma non voglio in questo t’abbandoni e dieti a intendere non potere in te di te quello che puoi. Resta, quando che sia, sollecitare gl’Iddii con tanti tuoi voti e chieste. Eccita in te la tua virtù: sat sit mens sana in corpore sano. La mente nostra sarà sana quando la vorremo esser sana». E la virtù terrena facevasi in lui concreta pur nelle risonanze pratiche, economiche; in quel tradursi, abbiam visto, in successo, mentre questo successo veniva finalmente prendendo corpo fin nella «roba», nel denaro, nella «masserizia». «Non si spregino le ricchezze, ma signoregginsi le cupidità, e nel mezzo della copia e abundanzia delle cose così viveremo liberi e lieti...»; liberi da quella miseria che attraverso i bisogni del corpo avvilisce anche l’anima. La qual rivalutazione dell’economia e dei beni terreni andava in quegli anni pienamente affermandosi anche nelle pagine della quarta parte della Summa del santo vescovo di Firenze Antonino, che, pur rifacendosi all’Aquinate, coloriva delle nuove esigenze le antiche intuizioni90 . Ma particolarmente vicino all’Alberti per certe esigenze, e perfino per taluni atteggiamenti letterari, e pur già influenzato da nuovi motivi, ci appare Matteo Palmieri, che Alamanno Rinuccini celebrerà tipico e mirabile esempio di perfetto equilibrio fra virtù attiva e contemplativa91 . A definire l’ideale della vita civile dedicava il Palmieri il dialogo appunto ad essa intitolato, Cfr. A. MASSERON, S. Antonin, Paris, 1926. ALAMANNI RINUCCINI Oratio in funere M. Palmerii, in FOSSI, Monumenta ad A. Rinuccini vitam, Florentiae, 1791 «cum enim duplex felicitatis genus, a philosophis propositum, duplicem vivendi conditionem ostendat, et earum una in communibus vitae civilis actionibus versetur, altera ab omni actione remota, altissimarum rerum adipiscende cognitioni 90
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che è tutto una condanna dell’indagine sterile, di un sapere puro e astratto, tagliato completamente fuori della vita. «Chi pone ogni diligenzia e cura nelle cose oneste e degne di cognizione, delle quali seguiti alcuna comodità privata o publica, meritamente è degno di loda. Coloro che perdono il tempo in arti oscurissime, difficili e sanza doctrina di bene vivere, sono degni d’universale vituperazione, perocché non reca seco alcuno frutto». Né d’altra parte, sbandita ogni vana contemplazione, si celebra una virtù monastica e solitaria. Il bene è carità, è vincolo d’amore, è vite nel consorzio umano, è società. «Niuna altra carità maggiormente ci strigne che l’amor della patria e de’ propri figliuoli». In questo corpo civile noi ci sentiamo non solo immersi, ma per esso soltanto ci sembra poter sopravvivere, onde un desiderio profondo ci porta ad infuturarci in esso. «Onde e’ si venga a sufficienza ridire non puossi, ma certo si conosce negli animi nostri essere un desiderio quasi pronosticativo de’ futuri secoli, il quale ci strigne a desiderare la nostra perpetua gloria, felicissimo stato della nostra patria, e continua salute di quegli che nasceranno di noi...». Perciò appunto l’azione veramente umana, veramente virtuosa è l’azione rivolta al bene comune: «per questo s’afferma di tutte l’opere umane niuna essere più prestante, maggiore, né più degna, che quella se exercita per acrescimento e salute della patria et optimo stato d’alcuna bene ordinata republica... Nulla opera fra gli uomini può essere più optima che provedere alla salute della patria, conservare le città e mantenere l’unione e concordia delle bene ragunate moltitudini...». L’etica ciceroniana si congiungeva nel Palmieri con Platone ed Aristotele, ma tendeva ormai soprattutto a ve-
dumtaxat intenta sit; prudentissimus vir medium quendam, inter utramque viam, modum sequitur».
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stirsi di colori platonici: «di cielo venire, e in cielo ritornare tutti i giusti governatori delle repubbliche per tutti i secoli del mondo è stato da’ sommi ingegni certissimamente approvato». E, tuttavia, era ancora uno strano platonismo ove curiosamente si fondevano l’esaltazione per Dante letterato sovrano e cittadino compiuto, il mito di Er e il Somnium Scipionis. Comunque, al centro resta l’esaltazione della città umana, dell’opera umana, del suo successo, della sua fecondità. Virtù che non sia utile, che sia scissa dall’utilità, è sterile e vana. Le parole del Palmieri in proposito sono quanto mai significative e degne tutte d’essere sottolineate. Per lui infatti è «consuetudine trascorsa dalla vera via, quella che separa l’onesto dall’utile... Lo sprezzare l’utile, il quale giustamente si può conseguire, merita biasimo né in alcun modo si confà a chi è virtuoso... La vera lode di ciascuna virtù è posta nell’operare; e all’operazione non si viene sanza le facultà atte a quella. Per questo né liberale, né magnifico può essere colui che non ha da spendere; iusto né forte non sarà mai chi in solitudine viverà, non experimentato, né esercitato in cose che importino e in governi e facti appartenenti ai più... Da questo procede che a’ virtuosi s’appartiene cercare utile, acciocché possino ben vivere... Chi, non nocendo a persona, con buone arti accresce suo patrimonio, merita loda»92 . L’antica polemica del Salutati contro una virtù solitaria, la sua appassionata esaltazione del bene comune, trovavano qui il loro coronamento compiuto. Eppure nel Palmieri, che anche il Ficino loderà come poeta teologo, questa ispirazione mondana verrà più tardi collocandosi in una cornice pitagorica, platonica, origeniana. Il 92 MATTEO PALMIERI, Il libro della vita civile, Firenze 1529, pp. 42-43, 62, 75-76, 120-125. Cfr. Una prosa inedita di M. Palmieri fiorentino, Prato, 1850, ossia il Protesto del 1437. Importante la raccolta di orazioni del Riccardiano 2204.
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grande poema filosofico La città di vita, rimasto inedito perché sospetto d’eresia, e il preludio in cielo della lotta terrena. Le anime umane non sono altro che gli angeli che «per sé foro», e non cambatterono né per Dio né per Lucifero. Ad essi è offerta l’ultima prova; incarnati, combatteranno in sembianza umana la loro battaglia sulla scena del mondo. La quale, così, diviene il teatro dell’ultimo atto del dramma divino. L’opera terrena, in tal modo, se veniva da un lato inserita in un processo cosmico, semplice episodio nella storia dello spirito, veniva d’altra parte caricata di un significato e di un valore immensi. Nella decisione umana, nella vita in terra, si decide della sorte di un’immortale sillaba di Dio. Questo mondo è l’arena che Dio offre agli spiriti perché liberamente decidano della loro sorte. E nel vasto teatro della città degli uomini la fecondità dell’opera è il sigillo della vittoria sul male per l’eternità. Eppure non mancava ormai, nella Città di vita, una sottile tendenza a volger lo sguardo verso altri mondi, a considerare la terra una parentesi, anche se una decisiva parentesi. Ed accanto all’esaltazione dell’opera d’amore si veniva riaffermando il pregio della contemplazione pura, dello slancio mistico dell’anima che s’impenna per volare a Dio93 . 9. La filologia e la retorica nel Poliziano e nel Barbaro Se da una parte la speculazione andava volgendo i propri interessi verso la metafisica platonica, d’altro canto l’appello agli antichi, lo studio degli antichi, tendeva a perdersi in pure discussioni grammaticali. La compattezza 93 M. PALMIERI, La città di vita, a cura di M. Rooke (Smith College Studies in Modern Language, VIII, 1-2) Northampton Mass., 1927-28.
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chiara del primo umanesimo veniva scindendosi ed oscurandosi sotto la pressione di forze molteplici, prima fra tutte la cultura ufficiale, con i suoi schemi e con le sue tradizioni, che, se accettava con qualche diffidenza alcuni temi del nuovo movimento di pensiero, a sua volta voleva imporre le proprie esigenze, insistendo su quella opposizione fra res e litterae, forma e contenuto, contro cui già il Bruni si era scagliato94 . Gli umanisti, ammessi quali insegnanti di grammatica e di retorica, con le loro traduzioni e con i loro commenti si erano affacciati nei chiusi orti accademici pretendendo di sconvolgere la dialettica, la medicina e il diritto, la metafisica, la teologia e la morale. «L’età nostra – scrive il Poliziano nella Lamia –, poco esperta dell’antichità, ha chiuso in troppo brevi confini la grammatica, che presso gli antichi, invece, ebbe tanta autorità, che solo i grammatici erano giudici e censori di tutti gli scritti». E parlando di sé, mentre disdegnosamente rifiuta il nome di filosofo (non scilicet philosophi nomen occupo, ut caducum), ricorda che come grammatico ha scritto libri di diritto, di medicina, di morale, di filosofia: «nec aliud inde mihi nomen postulo – soggiunge – quam grammatici»95 . Ma proprio perché il grammatico, e cioè lo studioso del linguaggio e del discorso, ripone nella scienza del discorso tutta la sapienza umana. Se noi scorriamo, sempre del Poliziano, la Dialectica, vediamo come egli ci avverta subito che vi sono due specie 94 In pieno Cinquecento così scrive al padre da Padova Paolo Sacrato, nipote del Sadoleto (Epistolarum Pauli Sacrati libri sex, Lugduni, 1581, p. 11): «haec autem studia maxime inter se differre non ignoras, quod in his, quibus nunc versor assidue, rebus agatur, in illis vero, in quibus tu potissimum a me requiris ut operam consumam, de verbis tantum quaeratur; nec te latet, si stylo operam dedero, animum meum a philosophia, quae hominem sapientem reddit, avocatum iri, quod eodem tempore utraque in re operam ponere nequeam». 95 POLITIANI Lamia, Opera, II, 302.
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diverse di dialettica. L’una, «arte somma fra tutte, parte purissima della filosofia, si pone al di sopra di tutte le discipline, e ne costituisce il coronamento». Non è di quella che il Poliziano vuole occuparsi; troppo lontana, troppo difficile, situata com’è sulle vette dei misteri platonici – Platonica ista remota nimis, nimisque etiam fortassis ardua. La dialettica che egli espone è arte del discorrere e dell’argomentare, affine alla grammatica, grammatica del pensiero, colto nelle sue articolazioni quali si esprimono nella concretezza del linguaggio, nell’espressione verbale carica di tutta l’intenzione spirituale. Le sue indagini, così affini a quelle del Valla, sui termini; i suoi interessi per i documenti del pensiero giuridico, scientifico, morale, religioso, filosofico; tutto indica quel suo volere afferrare la genuinità degli atteggiamenti umani attraverso i documenti in cui si sono consegnati alla storia96 . Perciò egli voleva esser detto grammatico e non filosofo, pur sentendosi vero filosofo proprio perché grammatico. Com’egli scrive nella Lamia, la grammatica, secondo il suo intendimento, è ben lungi dall’essere povera cosa; è tentativo di scoprire nell’espressione umana tutta l’anima che vi si traduce. Leggere, in tutto il loro significato originario, intenzionale, i libri dei giuristi: questo è esser giuristi. Leggere veramente il libro di Dio: questo è esser teologi. Leggere, fino in fondo, i libri dei filosofi sommi: ecco la filosofia. A chi gli contesta la qualifica di filosofo, Poliziano risponde citando i suoi grandi maestri classici, che egli ha compreso e commentato. Ma, soprattutto, a chi gli parla di una filosofia di scuola, arida e sterile, egli oppone una filosofia come umana comunicazione, ritrovata con consapevolezza in tutta la sua efficacia. Le sue lodi della retorica, di sapore lievemente gorgiano, hanno in comune con la posizione sofistica la salda fiducia nel valore di un incontro umano, le cui risonanze si colgono 96
POLITIANI Opera, II, 459.
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particolarmente sul terreno morale e politico. «Che cosa vi può essere di più utile e fruttuoso del persuadere mediante la parola i tuoi concittadini a che compiano le cose convenienti allo Stato, allontanandosi invece da ciò che è pernicioso?»97 . Arte del governare e medicina dell’animo, regolatrice sottile delle passioni, la retorica si presenta come la forma più elevata del contatto fra uomini, come l’espressione più felice della scienza dell’umanità. 97 ANGELI POLITIANI Oratio super Fabio Quintiliano et Statii Sylvis (Opera, II, 384-5): «Nam ut quod caput est, ipsam tantummodo, qua de hic in primis agitur Rhetoricen inspiciamus. Quid est, quaeso, praestabilius quam in eo te unum vel maxime praestare hominibus in quo homines ipsi caeteris animalibus antecellant? Quid admirabilius, quam te in maxima hominum multitudine dicentem, ita in haminum pectora mentesque irrumpere, ut et voluntates impellas quo velis atque unde velis retrahas et affectus omnes, vel hos mitiores vel concitatiores illos emodereris, et in hominum denique animis volentibus cupientibusque domineris? Quid vero praeclarius quam praestantes virtute viros eorumque egregie res gestas exornare atque extollere dicendo? Contraque improbos pernitiososque homines orandi viribus fondere ac profligare, ipsorumque turpia facta vituperando prosternere atque proculcare? Quid autem tam utile tamque fructuosum est quam quae tuae Reipublicae carissimisque tibi hominibus utilia conducibiliaque inveneris posse illa dicendo persuadere, eosque ipsos a malis inutilibusque rationibus absterrere?... Haec igitur una res et dispersos primum homines in una moenia congregavit, et dissidentes inter se conciliavit, et legibus moribusque omnique denique humano culto civilique convinxit... Quid autem tam munificum, tamque bene instituitis animis consentaneum, quam calamitosos consolari, sublevare afflictos, auxiliari suplicibus, amicitias clientelasque beneficiis sibi adiungere atque retinere... Nulla unquam profecto vitae pars, nullum tempus est, nulla fortuna, nullae aetates, nullae denique nationes, in quibus non maximas dignitates... facultas oratoria consecuta sit...».
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E tuttavia v’era anche il pericolo che, dimentica della sua funzione prima, essa si trasformasse in un mero atteggiamento letterario, non più preoccupata di organizzare il mondo degli uomini, ma tutta presa da un ideale estetizzante di eleganze linguistiche. È appunto ciò che vediamo se, dal Poliziano, ci volgiamo a un suo grande amico, Ermolao Barbaro, bramoso soprattutto di un discorso raffinato, ansioso non di rendere fedelmente il significato profondo delle anime con cui entrava in contatto, ma di adornare l’altrui espressione di una concinnitas che rischiava di tradire l’intimo contenuto. Laddove il Poliziano è preoccupato di ritrovare il valore preciso del vocabolo, scoprendone insieme ogni più segreta risonanza, il Barbaro ama l’armonia dei suoni, la raffinatezza delle frasi, l’eliminazione di ogni asprezza. Egli era partito dalla giusta esigenza, proclamata in una lettera a Giorgio Merula, di evitare il divorzio fra forma e contenuto, operato dai filosofi e dai giuristi ai danni della forma. A Girolamo Donato, traduttore di Alessandro di Afrodisia, egli, il traduttore di Temistio, esponeva nel 1480 il suo programma: combattere senza quartiere «i filosofastri plebei e legnosi che separano la filosofia dall’eloquenza», fare in modo che «la filosofia della natura si riconcilii con gli studia humanitatis» (ut naturalis philosophia cum studiis humanitatis in gratiam redeat). Senonché gli avvenne poi di operare la medesima separazione ai danni del contenuto, quando l’orrore della barbarie e il culto della concinnitas lo fecero fanatico ricercatore di raffinatezze linguistiche. Lo vediamo così trasformare il tradurre in un exornare (omnes aristotelis libros converto et quanta possum luce, proprietate, cultu exorno); lo vediamo condannare la vita civile in nome delle lettere, lo vediamo sostenere il celibato per i dotti, lo vediamo concludere con quella sua frase famosa che
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è il motto e l’epigrafe della sua posizione: duos agnosco dominos, Christum et litteras98 . 10. Il Galateo e il Pontano La traduzione del commento di Temistio alla Fisica fu dal Barbaro dedicata al Galateo con la calda esortazione di collaborare insieme al Pontano per una vasta opera di propaganda a favore di una riconciliazione totale fra studi filosofici e letterari. In realtà il Galateo, se pur scrisse qualche pagina efficace, se amò criticare la corruzione ecclesiastica dei tempi suoi, fu ben poco consistente nelle sue posizioni teoretiche. Critico del Salutati nel De dignitate disciplinarum ad Pancratium, esalta contro l’azione la pura contemplazione che è propria dei pochi sapienti opposti alla moltitudine volgare: contemplatio perfectorum opus est, actio vero plurimorum. Altrove insiste con ugual vivacità sull’oziosa beatitudine del saggio (otium apud sapientes beatum habetur), o sulla necessità di evitare perfino il vincolo dell’amicizia, pronto d’altra parte, in una lettera del 1513 a inveire contro le lettere (dispereant inanes litterae!) e a scrivere la bella affermazione: «in malevolam et improbam animam non intrabit sapientia»99 . Ben altra la statura del Pontano! Il quale, se ebbe quasi il culto degli studi astrologici, ispiratori di prose e di versi; se amò diffondersi nei suoi trattati morali in variazioni aristotelico-stoiche, del resto non del tutto inefficaci; se in gravi questioni filosofiche si abbandonò trop98 BARBARI Epistolae et orationes, ed. Branca, Firenze, 1943, II. 90-93. 99 Le opere del Galateo, a cui ci si riferisce, sono uscite nella Collana degli scrittori della Terra d’Otranto, Lecce, 1867, voll. II-IV, XVIII, XXII.
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po spesso a generiche affermazioni; mostrò tuttavia di sentire l’importanza di talune questioni che diventeranno centrali nel ’500. Così, nell’Actius noi lo vediamo affannarsi a determinare la natura della poesia mettendola a confronto con la storia. Ed eccolo accettare la definizione che fa della storia una poetica soluta; eccolo sostenere, nelle due, un’identità di contenuto, e far consistere la differenza solo nella disposizione del discorso, più casta nella storia, più molle nella poesia (historia tamen est castior, illa vero lascivior). L’incontinenza poi dello stile poetico si concreta nel dare il linguaggio alle cose mute, o agli dèi. «Entrambe, storia e poesia, hanno ritmi e figure, ma diversi. E diverso è l’ordine tenuto nella narrazione, poiché la storia segue la serie e il processo degli eventi, mentre la poesia molto spesso comincia dal mezzo o addirittura dalla fine,... e dà voce e parola agli esseri muti (vocem quoque dat et orationem rebus mutis)». Frase vichiana, che richiama l’altra, sempre dell’Actius, essere il linguaggio nato come espressione di uomini agresti, i cui usi e abitudini si rispecchiarono nelle parole che li tramandarono fino a noi: «sermonem autem quo utimur ab agrestibus ac rudibus coepisse hominibus, illud declarat potissimum, quod pleraeque e primis illis impositionibus sunt rusticis incomptisque a rebus sumptae». Ma in realtà, ricondotta la poesia a imitazione della natura (cum... ipsa vero poetica naturam potissimum imitetur...), la storia viene presentata soprattutto come retorica, e come tale educatrice e formatrice delle costumanze civili. L’oratoria, e cioè i discorsi dei sommi personaggi, costituiscono quasi l’anima della storia; «cosiffatte allocuzioni non solo adornan le storie, ma quasi le animano». D’altra parte là dove l’oratoria si fa veramente alata, e commuove, e penetra l’animo, e lo plasma, sembra tornare alla potenza originaria della poesia, che attinge le proprie forze dalla natura stessa.
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La conclusione dell’Actius, con l’eloquente elogio della poesia, è tra le cose veramente più felici del Pontano. «Quando i poeti fingono le loro immagini e dolcemente, mirabilmente, magnificamente le esprimono, essi insegnano anche agli altri a parlare. Infatti coloro che, imitandoli, in seguito perorarono le cause nei tribunali, o discussero le leggi nel senato, o tramandarono le storie, recarono a perfezione quella primitiva libera eloquenza. Perciò ogni forma del dire è derivata dalla poesia. I poeti infatti furono i primi sapienti, e tutto dissero in carmi e ritmi... Salve dunque, o Poesia, madre fecondissima d’ogni dottrina! Salve ancora! Tu infatti sei venuta in soccorso dell’umanità condannata a morire con l’immortalità dei tuoi scrittori. Tu hai tratto gli uomini fuori dalle caverne e dalle selve. Per te conosciamo, per te abbiamo dinanzi agli occhi le cose passate; per te comprendiamo Dio, per te abbiamo la religione e il culto...»100 . 11. Spunti pedagogici In verità nel Barbaro, come nel Galateo, che pur trattò di problemi educativi101 , ma senza soverchia originalità, le litterae si erano venute impoverendo nel senso di una retorica staccata da ogni valore concreto, ed erano venute perdendo gran parte dell’efficacia di cui erano state piene, al principio dell’umanesimo, quando avevano costituito la base degli studia humanitatis. Si era ormai 100 PONTANO Dialoghi, ed. C. Previtera, Firenze, 1944, pp. 143, 194, 207, 221, 238-39. 101 De educatione («Collana degli scrittori della Terra d’Otranto», Lecce, 1867). (Ma cfr. la lettera a B. Acquaviva in A. CROCE, Contributo a un’edizione delle opere di A. Galateo, «Archivio storico per le provincie napoletane», 1937, pp. 20-33).
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chiaramente iniziato quel divorzio per cui come s’è visto, a metà del ’500, il nipote del Sadoleto Paolo Sacrato, studente di filosofia in Padova, poteva scrivere al padre che l’esortava ad esercitarsi in latino: «tu non ignori che queste due discipline divergono tra loro massimamente; la filosofia che coltivo assiduamente, tratta di realtà (rebus); le lettere, a cui tu mi spingi, di parole (verbis)». Ciò che Leonardo Bruni, e prima ancora il Salutati, avevano fatto convergere, ecco che ora sommamente divergeva – haec studia maxime inter se differre. L’educazione umanistica, come formazione dell’uomo completo attraverso la rivissuta cultura classica, veniva perdendosi in una educazione puramente letteraria contrapposta a una cultura concreta. Il letterato monastico e solitario, sostituitosi all’uomo ricco di una umanità integra, e perciò sociale, non vedeva ormai nella humanitas che eleganza letteraria. Il Bruni, s’è visto, aveva affermato essere quella humanitas formazione spirituale (humanitatis studia nuncupantur, quod hominem perficiant), anzi l’unica verace educazione. E, contro coloro che criticavano in nome della religione tale atteggiamento, aveva tradotto nel 1403 la difesa che Basilio il Grande aveva fatto degli studi letterari nella celebre Oµιλ´ια π ρ òς τoùς ν ´oυς óπ ως αν ξ Eλλνικω˜ν ωφλoι˜ντo λóγων 102 . Ed aveva, seguendo da presso il Salutati, mostrato come l’educazione alla poesia sia un rinnovare e riplasmar se stessi nella bellezza, nella sua divina grandezza, nella sua obbiettiva validità (divina quaedam alienatio, ac velut sui ipsius oblivio, et in id, cuius pulchritudinem admiramur, transfusio). Qui non parole s’insegnano, ma cose; ed anzi si introduce l’anima alla realtà nella sua totale compiu102 Il Bruni dedicava la traduzione al Salutati affermando che col nome di Basilio il Grande voleva reprimere l’ignavia e la perversità dei vituperatori degli studia humanitatis.
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tezza. Le lettere mettono l’anima di fronte a un assoluto valore e in esso quasi la sublimano; velut extra nos positi, totis affectibus in illum corripimur. E come si chiamano litterae humanae perché recano a compiutezza l’umanità nostra, così si dicono arti liberali perché liberano l’uomo e lo collocano, signore di sé, in un libero mondo di spiriti liberi (idcirco est liberalis, quod liberos homines facit). Tutto il De ingenuis moribus di Pier Paolo Vergerio è rivolto a mostrare come le lettere, alimentando questo dialogo fra spiriti, al di là d’ogni vincolo di spazio e di tempo, aprano l’anima a una più larga e più ricca umanità. «Che mai vi può essere di più bello dello scrivere e del leggere? e conoscer le cose del mondo antico, e parlare con coloro che nasceranno un giorno, e far nostro ogni tempo, e passato e futuro?» Lo spirito attraverso le lettere si dilata, si distende; e mentre si arricchisce di infiniti tesori, impara a rispettare l’altrui valore; nel suo sempre rinnovato colloquio educa nella maniera più nobile a vivere nella società degli uomini. La sapienza, lungi dall’essere isolata in una torre d’avorio, «abita nelle città, fugge la solitudine, brama di giovare alle moltitudini» (in urbibus habitat et solitudinem fugit... et prodesse quam plurimis cupit)103 . Né diverso è il tono del De educatione liberorum di Maffeo Vegio, ove le lettere non solo fondano sul rapido trascorrere del tempo la sicura saldezza di una comunità spirituale (non modo iacturam temporis evitabunt), ma avvivano la carità, la comunicazione, ed ogni vincolo 103 Lo scritto del Vergerio nella cit. ed. della Gnesotto e nel vol. L’educazione umanistica in Italia. (Mi sia lecito, per questa parte, rinviare al vol. su L’educazione in Europa, Bari, 1957, e alla raccolta di testi, illustrati e tradotti, L’umanesimo, Firenze, 1958).
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umano (modeste, graviter sancteque vivere, patriam et parentes colere, Deum venerari)104 . Gli stessi accenti risuonano in Gasparino Barzizza, il maestro di Francesco Barbaro, ma soprattutto in Guarino Guarini, discepolo di Giovanni da Ravenna e di Emanuele Crisolora, dalla cui scuola ferrarese uscirono il Pannonio, Ermolao Barbaro, il Lamola, Alberto da Sarteano, per non dir degli altri moltissimi, celebri e oscuri, accorsi a lui, non solo dalle più remote regioni d’Italia, ma da Creta e da Cipro, dalla Polonia come dall’Inghilterra. Anche per Guarino le lettere arricchiscono l’umanità, e scrivendo al Corbinelli dichiara che egli ammira soprattutto coloro che armonizzano dottrina e vita attiva, mentre rivolgendosi al podestà di Bologna svolge largamente il concetto che proprio solo le Muse preparano alla vita politica. «Non piccola gratitudine tu devi alle Muse – esclama – che ti hanno educato fin dall’infanzia, insegnandoti a governar te, i tuoi, e lo Stato... Di qui lo splendido detto di Scipione che, abbandonandosi un giorno, in una pausa dei pubblici affari, agli ozi letterari, esclamò: – Inoperoso, compio ora le cose più grandi». Le litterae erano a questa scuola la causa del risveglio di ogni energia spirituale; son esse che battono alla porta dell’anima perché essa risponda: fores, ut sic dicam, pulsatis, quo vel rogatus ad intelligendum pateat aditus. Bisogna leggere e rileggere gli autori, e impararli a memoria, e vivere continuamente con loro, summa cum voluntate, finché al di là delle parole l’anima si incontri con l’anima. Quel pesar la parola, quel sottile discutere sul suo significato, per ridarle alla fine il suono originario, sono mezzi per trovare nella carne lo spirito, per rianimare nei mondi sepolti, nei monumenti che il tempo sembra avere privato d’ogni splendore, la luce originaria. Solo con 104 Per l’opera del Vegio cfr. l’ed. a cura di M. Walburg Fanning e A. Stanislaus Sullivan, 2 voll., Washington, 1933-36.
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questo avvicinamento filologico noi trarremo dalla lettera muta un significato vitale; nec verbum ex verbo, sed sensa tantisper exprimes. E tutti noi riusciremo fortificati da quel colloquio, e fatti saggi ed antichi per antica sapienza (ut mortales natu quidem iuvenes, prudentia et rerum innumerabilium scientia longaevos efficiat)105 . Eran uomini per cui l’antico non rappresentava un campo di ricerche erudite e curiose, ma un paradigma. L’umanità classica non solo aveva raggiunto una rara pienezza ed armonia di vita, ma l’aveva mirabilmente espressa e consegnata in opere d’arte e di pensiero, perfette come quella vita. Entrare in contatto con esse, e per esse con gli spiriti che vi si erano trasfusi, significava avviare un ideale colloquio con uomini completi, apprendere da loro il significato di una vita completa. Aprirsi umilmente a quelle opere mirabili, e per amore quasi trasformarsi in esse, significava rinnovare se stessi attraverso una larga ricchezza umana, riconquistando a sé tutti i tesori dello spirito. L’ingresso in quel mondo, si impronta così di un tono quasi religioso. «La casa sua era sacrario di costumi, di fatti e di parole» – scrive di Vittorino da Feltre Vespasiano da Bisticci. Alla sua scuola il rispetto dell’uomo, nella sua compiutezza, anima e corpo, aveva qualcosa del rito; e la formazione umana era consapevolezza religiosa di quanto nell’uomo ha valore, e che le arti liberali risvegliano e fortificano106 . 105 Le opere del Barzizza nella ed. romana del 1728. I testi del Guarino nell’edizione del Sabbadini. 106 Oltre la vita di Vespasiano da Bisticci cfr. FR. PRENDILACQUA, De vita Victorini Feltrensis dialogus, Padova, 1774. (Tutti i documenti su Vittorino ho ora raccolti nel cit. volume su L’Umanesimo pedagogico).
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IL PLATONISMO E LA DIGNITÀ DELL’UOMO
1. La crisi della libertà e i dialoghi «De libertate» del Rinuccini Se il primo umanesimo fu tutto un’esaltazione della vita civile, della libera costruzione umana di una città terrena, la fine del ’400 è caratterizzata da un chiaro orientamento verso un’evasione dal mondo, verso la contemplazione. Il platonismo col suo tono ascetico, la filosofia concepita come appressamento alla morte, si sostituiscono a quella serena esaltazione della vita che era stata la nota dominante di un Salutati, di un Bruni, di un Valla. A questo orientamento mutato non fu certo estraneo il complesso delle vicende politiche italiane, l’affermarsi sempre più chiaro dei principi, i cui meriti possono oggi apparire anche eminenti; allora anche i più geniali tiranni sembrarono i nemici d’ogni libertà. Quando nel ’78 la folla inferocita fece a pezzi per le vie di Firenze i Pazzi e i loro seguaci che avevano tentato di rovesciare i Medici, al grido di libertà dei congiurati il popolo oppose, in modo molto significativo, il motto: «viva Lorenzo che ci dà il pane!»107 . E se è vero che spesso quei signori trionfanti protessero i letterati, è ancor vero che ne fecero dei cortigiani, in cui un pensiero tutto permeato di politicità non è più concepibile. Ai nostri occhi l’avvento della signoria potrà rivelarsi come l’eliminazione dei gruppi privilegiati di ricchi mercanti e di nobili. Allora esso distrusse il fervore di lotte 107 A. FABRONI, Laurentii Medicis Magnifici Vita, Pisis, 1784, II, p. 137 e sgg.
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politiche, il palpito intenso di vita dello stato-città. All’ideale della respublica come collaborazione, come vera società, anche se in effetti ristretta società, sostituisce il Cesare che allontana i cittadini dalla vera vita politica, trasformando la cultura, da espressione, strumento e programma di una classe giunta alla ricchezza e al potere, in un elegante ornamento di corte, o in una malinconica fuga dal mondo. La consapevolezza della crisi è viva negli umanisti. Noi la sentiamo nella fiera polemica aperta già nel 1435 da Poggio Bracciolini quando, in un’epistola al ferrarese Scipione Mainenti, si scaglia contro Cesare, degenerato uccisore della romana libertas, ed esalta invece il repubblicano Scipione. Il Guarino rispose difendendo Cesare, e nella discussione entrarono Francesco Barbaro, Ciriaco d’Ancona, Pietro dal Monte. Non si trattava, nonostante l’apparenza, di un esercizio d’ingegno108 . Era l’antitesi fra l’esaltazione dell’eroe, glorificato nel mito di Cesare, e la difesa dell’uomo, che è tale solo se può liberamente esplicare la propria attività in una vita completa. Quale fosse l’animo dei vagheggiatori della «libertà» noi troviamo nella fierissima invettiva di Machiavelli contro Cesare e il cesarismo, che illumina tutti i Discorsi. Chi guardi superficialmente al fondatore dell’impero, egli osserva, loderà, forse, la potenza magnifica del principe; ma chi considererà attentamente le conseguenze della instaurata tirannide, «vedrà l’Italia afflitta, e piena di nuovi infortuni; rovinate e saccheggiate le cittadi di quella. Vedrà Roma arsa, il Campidoglio da’ suoi cittadini disfatto, desolati gli antichi templi, corrotte le cerimonie, ripiene le città di adulterii: vedrà il mare pieno di esilii, gli scogli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire innumerabili crudeltadi e la nobiltà, le ricchezze, i passati onori, e sopra tutto la virtù, essere imputate a peccato capitale. Ve108
GUARINO, Epistolario, II, pp. 226-29.
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drà premiare gli calunniatori, essere corrotti i servi contro al signore, i liberti contro al padrone; e quelli a chi fussero mancati i nimici, essere oppressi dagli amici. E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, l’Italia, e il mondo, abbia con Cesare»109 . Il vecchio Salutati nell’Invettiva contro il Loschi aveva proclamato la florentina libertas erede legittima della romana libertas. Il Cesare distruttore di essa è, per Filelfo, l’infame pernicioso velenoso scellerato Cosimo de’ Medici, corruttore di tutta Firenze, pericolo incombente su tutta l’Italia. Le Commentationes, requisitoria feroce contro l’instaurata signoria dei Medici, rivelano troppo scopertamente gl’interessi dell’autore. I dialoghi De libertate di Alamanno Rinuccini, aspra e dolorosa condanna del novello Falaride Lorenzo de’ Medici, dipingono con efficacia senza pari il mutamento d’interessi della cultura quattrocentesca e le cagioni profonde di un radicale trasformarsi degli orientamenti di pensiero110 . L’ideale del Rinuccini, ed egli lo delineò nell’orazione funebre pronunciata per la morte di Matteo Palmieri, era un’armonica fusione di vita attiva e contemplativa, in cui si prolungava il programma ciceroniano che era stato il tema dell’opera, appunto, del Palmieri: non siamo nati per noi, ma per la famiglia e per la patria (patriae cui post Deum immortalem maxima quaeque debemus). Sono parole, queste, del De libertate, e in forma di rimprovero un amico le ripete al Rinuccini, esule in patria, ritirato in una sua villa campestre in solitarie meditazioni. La 109 MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 10. 110 ALAMANNO RINUCCINI, De libertate, ms. Laur. «Acquisti e Doni», 216; Ravenna, class. 332 (Cfr. ed F. Adorno, Accademia Toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria», XXII, 1957, pp. 267-303; Lettere ed Orazioni, ed. V. R. Giustiniani, Firenze 1953).
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cultura non deve isolarci; il nostro posto è nel mondo, fra gli uomini. La nostra attività, qualunque essa sia, deve concretarsi sempre in un rapporto umano. Amarissima la risposta del Rinuccini: per quell’attività è necessaria condizione la libertà. Solo in una società libera l’uomo può esplicare se stesso. Non più a Firenze. Là un tiranno, Lorenzo, chiude i cittadini nella rete delle menzogne, li costringe o a corrompersi o a ritirarsi. La cultura non giova più a rendere forte l’umanità, ma solo ad offrire un rifugio e un’evasione a coloro che potrebbero esercitare una funzione politica unicamente a patto di tradire la propria coscienza e la verità. Tolta la libertà sul piano politico, l’uomo evade in un terreno diverso, si ripiega su se stesso, cerca la libertà del saggio. Il Rinuccini, che con gli scrittori del primo umanesimo continua a condannare sul piano etico l’ascesi stoica in nome dell’equilibrio aristotelico, vagheggia poi, sul terreno concreto e per motivi politici, una virtù tutta «monastica e solitaria». Questo amatore della vita civile amaramente si riduce a celebrar la cultura come ritiro, come contemplazione, come meditazione di morte e appressamento alla morte. Da un filosofare socratico, tutto problema umano, si passa sul piano platonico, mentre la stessa religione cristiana, fin qui opposta allo stoicismo per il suo senso concreto della vita terrena, si trasfigura alla luce di una sempre più viva tradizione plotiniana. A Firenze, mentre Savonarola lancia l’ultima rovente invettiva contro la tirannide che tutto corrompe e inaridisce, il «divino» Marsilio cerca nell’iperuranio una riva serena dove fuggire le tempeste del mondo.
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2. L’influenza dei dotti bizantini e le traduzioni di Platone È qui che si inserisce, anche se in ultima analisi molto scarsa, l’influenza dei dotti bizantini. Scarsa, giova ripeterlo. La tarda cultura greca era ormai giuoco arido di formule teologiche, ove quasi mancava ogni linfa vitale111 . I greci disprezzeranno i latini per la loro insufficiente erudizione; ma per questi gli autori antichi erano vivi, erano voci che destavano fremiti e alimentavano la meditazione. Quello che ai fedeli della lettera pareva scarsa informazione non era, molto spesso, che fedeltà allo spirito. L’apporto effettivo di Bisanzio all’umanesimo ebbe un carattere soprattutto strumentale; furono dei materiali preziosi che arricchirono il patrimonio culturale dell’Occidente; furono delle formule felici che si offrirono a un pensiero già pervenuto a maturazione in via del tutto autonoma. D’altra parte uomini non volgari di animo e di mente come il Crisolora o l’Argiropulo, ma soprattutto come il Pletone e il Bessarione, offrirono in un momento opportuno a delle coscienze in crisi le vie dell’evasione platonica. Senonché, anche qui, nei cieli della metafisica platonica si cercarono ancora risposte agli antichi problemi, morali, estetici, magari religiosi, ma sempre umani. Anche nei maggiori, quali un Ficino, un Pico, un Diacceto, invano cercheremmo un ben architetta111 Cfr. G. PASQUALI, Medioevo bizantino, in «Civiltà moderna», 1941, p. 289 sgg. (Per una profonda revisione di questo giudizio cfr. ora F. MASAI, Pléthon et le platonisme de Mistra, Paris, 1956, e i miei Studi sul platonismo medievale, Firenze, 1958, pp. 155-219; per questo non del tutto appropriati sembrano certi rilievi di J. IRMSCHER, Theodores Gazes als griechischer Patriot, «La parola del passato», 78, 1961. p. 161 sgg.).
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to sistema, un’ordinata sistemazione del mondo; ancora e sempre ciò che ritroviamo è, innanzitutto, una meditazione umana. Il nome di Emanuele Crisolora va qui ricordato per l’opera sua di grammatico e di traduttore, e soprattutto di maestro ed ispiratore del Guarino; così come Giovanni Argiropulo continua ad apparirci quale ce lo dipinge lo scolaro suo più fedele, l’Acciaiuoli, «non erudito soltanto, come lo celebrava la fama, ma sapiente, venerando, degno in tutto di quei Greci antichi». E fu l’Argiropulo a dare l’avvio al commento e allo studio rinnovato della Nicomachea, non più entro l’ambito di una stretta fedeltà allo spirito civile e politico del bene comune e dell’uomo considerato nella sua socialità, ma con gli occhi fissi a quella finale esaltazione dell’intelletto contemplante e separato ove si riversava tutto il più puro platonismo. Il tema della conciliazione fra Platone ed Aristotele, che diventerà centrale nel gruppo ficiniano, e continuerà per tutto il ’500, noi lo troviamo proprio chiaramente impostato nel commento alla Nicomachea ove l’Acciaiuoli esporrà fedelmente l’insegnamento dell’Argiropulo. Il quale, com’è noto, aveva avuto qualche parte nella disputa iniziatasi tra Giorgio Gemisto Pletone e Giorgio di Trebisonda sulla superiorità del platonismo rispetto all’aristotelismo. Discussione per sé non molto costruttiva, soprattutto finché rimase sul terreno del pettegolezzo, del libello e dell’ingiuria, ma che pure si colorì di motivi fecondi nell’anima grande del cardinal Bessarione, che la trasferì sul piano dei massimi problemi teorici e dette l’avvio a tanta parte della più alta meditazione rinascimentale112 . 112 Cfr. A. DELLA TORRE, Storia dell’Accademia platonica di Firenze, Firenze, 1902; PLETONE, N óµoι, ed. Alexandre, Paris, 1858; G. CAMMELLI, I dotti bizantini e le origini dell’umanesimo, I (Crisolora), Firenze, 1941, II (Argiropulo),
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Il Pletone, venuto a Firenze per il Concilio che doveva pacificare, sotto l’urgenza di motivi contingenti, chiesa greca e latina, volle dare ai suoi amici latini, tutti infatuati d’Aristotele, un’idea della grandezza di Platone, o almeno di quel bizzarro suo modo di vedere Platone, che era poi una complessa mescolanza di elementi neoplatonici in un’atmosfera di profetismo riformatore. E Giorgio di Trebisonda, che di Platone era stato traduttore, anche se non felice, rispose malmenando l’antico filosofo e il suo nuovo profeta. Ché, a dire il vero, ciò che più interessa nel Pletone è proprio quel suo imponente atteggiamento profetico, quel suo annunziare imminente la fine delle tre grandi religioni, ebraica, cristiana e maomettana, e l’avvento della città platonica, costruita secondo i princìpi di una concezione dell’universo ove il neoplatonismo si precisa in un rito e in una legge di vita. Delle Leggi, che Giorgio Scolario fece dare alle fiamme, non abbiamo che pochi frammenti, eppur notevoli per quel sogno di una riforma morale, religiosa e politica dell’umanità che sarà così caro ai pensatori del tardo ’400, e poi del ’500 fino a Campanella. E il Pletone, come fra’ Tommaso, già scorgeva i segni che annunciavano il nuovo regno, quello per il quale dovevano variamente combattere e soffrire un Pico e un Bruno. Ma v’era, nel Pletone, anche la preoccupazione di interpretare le favole antiche, la mitologia e i sogni dei poeti; di costruire insomma quella teologia poetica che Giovanni Pico promise e che, in ben altro senso, scriverà Vico nella Scienza Nuova. Firenze, 1943; L. MOHLER, Kardinal Bessarion als Theologe, Humanist und Staatsmann ecc., Paderborn, 1923 e sgg., 3 voll.; B. KIESZOWSKI, Studi sul Platonismo del Rinascimento in Italia, Firenze, 1936. Per ulteriori indicazioni, specialmente suIl’Argiropulo, cfr. la cit. Giovinezza di D. Acciaiuoli (e, ora, gli studi riuniti nel vol. Medioevo e Rinascimento, Bari, 19612 ).
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Certo è che il Pletone fece impressione sul vecchio Cosimo de’ Medici, nuovo Platone sul novello Dionigi. E il tiranno dell’italica Atene ne sarà indotto a favorire alla sua corte una rinascente scuola di platonismo spingendo il figlio del suo medico, il promettente Ficino, a tradurre e illustrare Platone. Quanto poi all’altro spinoso argomento, quello della supremazia di Platone, il Bessarione, dotto traduttore della Metafisica, ma profondissimo studioso di Platone, nel suo In calumniatorem Platonis andò sottilmente dimostrando come tra i due sommi pensatori antichi non fosse poi troppo difficile scoprire un intimo accordo in molti punti fondamentali, e come, anzi, una rinnovata apologetica cristiana potesse fondarsi utilmente su una conciliazione di platonismo ed aristotelismo. E forse, con i suoi spunti, mosse primo Ficino per le vie della sua docta religio. 3. Il problema dei rapporti fra vita attiva e contemplativa in Cristoforo Landino Ma il mutato atteggiamento di pensiero, che corrispondeva a un diverso orientamento di vita, noi vediamo in una delle più caratteristiche opere del secondo Quattrocento: le Quaestiones camaldulenses di Cristoforo Landino, composte intorno al 1475, ed in cui il platonismo come tendenza al puro contemplare si faceva sempre più vivo. Il Landino, che, giovinetto, si era fatto ammirare nel 1441 al «certame coronario» come fine recitatore delle terzine di Francesco Alberti, sarà poi consigliere e guida al Ficino, che lo annovererà tra i suoi platonici, e nelle Quaestiones loderà quell’inesprimibile accento che è proprio della ispirazione platonizzante (habet nescio quid quod exprimere nequeam). Al neoplatonismo ormai era giunto ad aderire pienamente. E se nella pro-
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lusione italiana a un corso sul Petrarca si trovano, e l’esaltazione del volgare, e la lode piena del primo umanesimo, e accenti tratti da Leonardo Bruni, nei commenti allegorici a Virgilio e a Dante tutto ci trasporta sul piano di quella «teologia poetica» che fu sì cara al Ficino e al Pico. Teologia poetica già insegnata dagli ultimi rappresentanti greci della scuola di Platone, e che intendeva ricercare nei poeti, e particolarmente negli antichissimi, una divina rivelazione nascosta dietro il rigoglio delle immagini. Insomma, quella sapienza riposta contro cui dirigerà tutte le sue critiche il Vico. Anche le Quaestiones camaldulenses113 negli ultimi due libri ritrovano nell’Eneide la storia ideale dell’anima umana e l’esaltazione della vita contemplativa. Ché proprio questo è il problema al centro di tutta l’opera, problema decisivo, come il Landino sentì, nella cui soluzione si manifestava chiarissimo l’orientamento di una civiltà e di una cultura. Il Salutati, pur riconoscendo con la tradizione medievale che il contemplare è, per dignità, da anteporsi all’operare, proietta nell’al di là, nel cielo, la visione beatifica, e in terra dà all’uomo la missione di operare. Landino torna nettamente a una supremazia del sapere, della vita contemplativa, ma giustificandola come la base più profonda dello stesso operare. Prendendo in esame proprio quel Cicerone a cui già si erano tanto ispirati uomini come il Bruni, il Landino sostiene che il maggior giovamento il genere umano lo ebbe, non quando egli combatté Catilina o Antonio, contribuendo alla libertà e al benessere dei soli suoi concittadini e in un tempo determinato, ma quando, «lungi dalla politica, tutto rivolto ai massimi problemi... abbracciando l’universa realtà afferrò il fine dell’uomo». Non solo; ma alla vita comune egli giovò più largamente quando nei suoi 113 C. LANDINI Quaestiones camaldulenses ad Federicum Urbinatum principem (Florentiae, 1480?).
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trattati politici disse una parola non destinata a morire, valida per ogni uomo in ogni tempo. «Con le sue sagge azioni Cicerone vinse i gravi pericoli incalzanti nel momento; ma le cose che nella ricerca consegnò ai libri riguardano ogni tempo, e provvedono a lasciare precetti di vita onesta e felice, non solo ai contemporanei, ma anche a quanti son vissuti e vivranno di poi. Le opere di chi non operò nella vita attiva hanno reso gli uomini, da stolti e barbari, docili e gentili (dociles humanosque)... Onde si può concludere che coloro che sono immersi nell’azione giovano certamente, ma nel presente o per breve tempo. Coloro invece che illuminano la natura misteriosa delle cose, sempre gioveranno. Le azioni muoiono con gli uomini; i pensieri vincono i secoli, vivono immortali, s’innalzano all’eterno». Proprio per questo, quando in una ideale città esamineremo qual posto dare ai singoli membri, «il nostro sapiente interrogato in che possa giovare alla vita comune, risponderà d’essere uno che si propone di non occuparsi di alcuna precisa attività pratica, astenendosi da ogni affare pubblico o privato, tutto assorto nell’indagine delle cose supreme, ricercando e affidando agli scritti quello che è, secondo natura, utile, onesto». Ma non perciò dovremo allontanarlo come dannoso o infecondo nella vita associata, quando invece è da proporsi come ideale modello e reggitore di tutti. «Oserà forse affermare qualcuno che tal uomo non reca utilità alla città, quando invece nessuno potrà bene assolvere il suo compito senza ricorrere a lui per consiglio?» Alla radice dell’inversione landiniana v’è, chiara, l’influenza della Repubblica platonica e del sapiente reggitore. E v’è, giusta, la considerazione, propria della stessa Nicomachea, della profonda praticità della teorèsi, attività suprema dell’uomo. E v’è, infine, anche una conquistata coscienza del valore umano, e quindi sociale, della formazione culturale. L’uomo è tale, e quindi è otti-
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mo cittadino, appunto attraverso una piena cultura. Senonché lo sforzo di intimamente connettere quel sapere e quest’operare, che era poi stata la preoccupazione del primo umanesimo, viene vanificandosi in un rinnovato divorzio tra fare e contemplare. Il mero contemplante che si pone vivente appello e tipo ideale, ma non scende nella caverna a soffrire, somiglia piuttosto al monaco studioso, che a Socrate soldato a Potidea, e perciò maestro d’Atene. Landino afferma esplicitamente di andare oltre i vecchi scrittori della generazione precedente alla sua, quando esclude che l’inattività dell’ottimo lasci lo stato in balia dei pessimi, insistendo anzi sul motivo aristotelico della celebrazione umana suprema attraverso il conoscere. E non si accorge che quel suo vagheggiato «Dio terreno», che contemplando il cielo (ασ τρoνoµoυ˜ντα) si fa modello agli altri, anche Platone aveva collocato in un miracoloso stato ove, per volontà degli dèi, i filosofi siano re, o i re filosofi, sì che a tali reggitori non manchino mezzi e potenza per educare gli altri. Ma come situarlo in quella tal caverna, ove chi ridiscenda – e ridiscendere deve, anche secondo Platone – rischia, non già d’essere venerato qual Dio, bensì messo a morte da coloro che non intendono? Al Landino pareva cosa pacifica che lo stolto ami esser guidato, e che è più bello essere governati che non governare (suavius regi quam regere), e che in ogni modo, anche «ammesso che ai più non piaccia d’esser resi migliori, il saggio si chiuderà in se stesso e gioverà agli uomini in altro modo». L’evasione consapevolmente accolta come tale dal Rinuccini, e cioè come rinuncia e abdicazione dolorosa alla propria umanità completa, si fa qui giustificazione di una vita monastica e solitaria, di cui si postula, ma non si dimostra la fecondità educativa. Le litterae educatrici del Guarino erano scese dalla Repubblica di Platone nella feccia di Romolo, e i cittadini della Gerusalemme celeste pugnavano
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nella terrena Babilonia, in modo che il loro sapere fosse sì contemplazione di Dio, ma ben calata nella condizione terrestre. Il Landino, che pur sottolineava con finezza una più profonda politicità della cultura, la annullava poi quando la segregava nella repubblica delle lettere. Politia litterarum, e non a caso, significò nel primo Quattrocento, non città ideale dei sapienti, ma humana disciplina, formazione completa di ogni uomo, e, in ogni uomo, di tutto l’uomo. Lo slittamento verso il concetto, destinato a fiorire nel Seicento, della «Repubblica delle lettere», nacque dalla crisi che si operò nella cultura e nella vita del Rinascimento quando le sue conquiste, guadagnando apparentemente in universalità umana, e disancorandosi dalla città in cui erano nate, persero insieme la loro pienezza. Parafrasando Agostino il Salutati insisteva sul congiungimento pieno, in terra, della città terrena e della città celeste, così come l’anima è sempre incarnata, e l’idea, che sia seria idea, è sempre impegnata in una lotta terrena. Il Landino battendo invece sul concetto di una sapienza disancorata da ogni legame di spazio e di tempo, da ogni mondana storia, si poneva già sul piano del Ficino maestro al mondo intero di quella pia philosophia che nella «filosofica pace» congiunge ogni spirito in una unità superessenziale che ormai ci porta per entro gli abissi della tenebra mistica. Eppure non sempre il Landino si muove nell’ambito dell’accademia risorgente in Careggi. E se i suoi dialoghi De nobilitate animae, dedicati intorno al 1472 a Ercole d’Este, non si spostano sensibilmente dal punto di vista ficiniano, nel De vera nobilitate, ove si ritrae un banchetto avvenuto dopo la morte di Cosimo, il vecchio motivo, caro alla retorica umanistica, della nobiltà che deriva dall’opera e non dal sangue, aveva trovato qualche accento non banale, soprattutto nella contrapposizione fra nobiltà veneta, nata e consolidata nell’opera e nell’attività, e nobiltà napoletana dove l’ultimo raggio di una inve-
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stitura andava disperdendosi senza dignità nell’ossequio supino al re, e nell’orgoglio più vano (delicatum... ocium et in divitiis, quam etiam si non habeant, tamen summo studio simulant, vanam ambitionem). Il Landino, anzi, aveva, per contrasto, elogiato non senza efficacia il trafficare, e il danaro così accumulato, pur insistendo nella consueta polemica contro l’usura. «Una liberale mercatura, infatti,... reca pubblico e privato splendore, rende molti più ricchi, e largamente assiste il popolo che vuol migliorare con l’opera propria le sue condizioni, e vincere la fame e il freddo, e perciò abbandona l’inerzia per il lavoro». Anzi, questi benemeriti del genere umano son degni d’essere considerati quasi divini benefattori (tamquam dii mortalibus omnibus salutares esse videntur)114 . 114 C. LANDINI De vera nobilitate, ms. 433 Bibl. Corsini (36, E, 5) fol. 36-7: «mercatura enim liberalis et nulla fraude in adulterandis mercibus commissa, publice privatimque splendorem affert, multosque locupletiores reddit; plebem autem quae se aliquo artificio opificiove tueri et famem frigusque a se arcere studet, propteraque ab ignavia ad laborem convertitur abunde alit, et populi qui ex illa ditescunt, ac propterea ad urbem suam publicis sacrisque aedificiis ornandam convertuntur, plurima magnificentia illustriores evadunt, ac denique, cum nulla in terris regio extet, ubi omnia sint, id tamen efficiant mercatores, ut sua opera atque industria nusquam locorum quicquid desit..., huiuscemodi hominum genus, a quibus omnis dolus, omnis fraus absit, liberalitas autem ac beneficientia adsit, tamquam dii mortalibus omnibus salutares esse videntur. Quorsum ergo haec? nempe ut illud concludam, industriae nos mercatoriae plurimum debere, eosque homines, qui ex plurimarum rerum inopia copiam inducant, veluti bene de hominum genere meritos laudandos censeo. Sintne autem omnino inter nobiles reponendi, nondum satis intelligo. Materia in qua plurimum versantur pecunia est, cuius quidem studiosi sunt; eos in nullo hominum numero apud philosophos unquam fuisse videmus. Sed si liberalitas in his sit atque beneficentia, possunt huiuscemodi virtutes nobilitatem facile parere»
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Con tutto ciò, proprio nel De vera nobilitate, suona alto l’elogio per Ficino, per la sua docta religio, per il suo far convergere ogni interesse umano verso temi metafisici e religiosi. 4. Marsilio Ficino e la concezione di una «docta religio» Un gruppo di scritti, meglio si direbbe di giovanili appunti ficiniani, pubblicati di recente da P. O. Kristeller, documentano la preparazione tradizionalmente scolastica del Ficino, che tra il 1454 e il 1455 si muoveva nell’ambito del più tecnico aristotelismo di scuola115 . Quell’umanesimo «morale», che siamo venuti seguendo fin qui, gli era estraneo, e non aveva suscitato in lui neppure un impegno polemico. Più tardi, nel proemio a Lorenzo de’ Medici premesso al Plotino latino, riconduce la propria conversione al platonismo all’influenza combinata di Gemisto e di Cosimo de’ Medici. Cosimo, infatti, spinto dal Pletone, avrebbe vagheggiato di far risorgere a Firenze l’antica Accademia, incaricando alcuni anni dopo il figlio del suo medico, il giovane Marsilio, di tradurre tutto Platone e i platonici, e in particolare gli scritti ermetici. Terminata la versione platonica, per un . 115 P. O. K RISTELLER, The Scholastic Background of Marsilio Ficino. «Traditio», 1944, vol. II., p. 257 sgg., ove, pp. 274-316, è pubblicata da un ms. moreniano della Riccardiana (Palagi, 199) una giovanile Summa philosophie. Un’altra notevole lettera-trattato del F. ha dato il Kristeller in «Rinascimento», I, 1950, pp. 35-42. Qualche precisazione sulla formazione del Ficino nell’anonima vita (ma, forse, opera del Caponsacchi), ignota al Della Torre, contenuta nel Palat. 488 della Naz. di Firenze. (Le ricerche del Kristeller sono ora da vedere nella raccolta di saggi sopra citati. Le biografie del F. sono state pubblicate da R. MARCEL, Marsile Ficin, Paris, 1958).
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misterioso influsso (nescio quomodo), l’anima del morto Cosimo ispirò il giovane principe della Mirandola a spingere Ficino a tradurre le Enneadi e i neo-platonici (heroicus ille Cosmi animus heroicam Joannis Pici Mirandulae mentem instigavit...)116 . In realtà se l’insegnamento di Niccolò Tignosi da Foligno, peripatetico ortodosso ed estraneo alle combinazioni platoniche dell’Argiropulo, fu con ogni probabilità decisivo del suo iniziale aristotelismo117 , i rapporti con Cosimo, l’influenza del Landino, che lo spinse a comporre nel ’56 quattro libri di Institutiones platonicae attinte a fonti latine, orientarono ben presto il suo interesse verso Platone118 . Fra il ’56 e il ’57, tuttavia, egli era impegnato anche in taluni commenti a Lucrezio (commentariola Lucretiana), i cui brevi frammenti rimastici (ma gli stessi commenti eran brevissimi: perbreve quoddam ar116 FICINI Opera, Basileae, 1576, II, 1537-38. Cfr. anche il prologo al De vita: «ego sacerdos minimus patres habui duos: Ficinum medicum, Cosimum Medicem. Ex illo natus sum, ex isto renatus. Ille quidem me Galeno, tum medico tum platonico commendavit. Hic autem divino consecravit me Platoni». 117 Sul Tignosi cfr. L. THORNDIKE, Science and Thought in the Fifteenth Century, New York, 1929, p. 161 sgg., 308 sgg. Ma forse la posizione del Tignosi e in genere dell’aristotelismo fiorentino è da vedere sotto una luce diversa, mutando anche le prospettive rispetto al Ficino. Del Tignosi in particolare cfr. l’opuscolo in difesa dei propri commenti (Naz. di Firenze, Conv. C., 8, 1800); v. anche il mio studio su Testi minori sull’anima nella cultura del Quattrocento in Toscana, «Arch. di filosofia», 1951, pp. 1-36, e, ora, soprattutto A. ROTONDÒ, Niccolò Tignosi da Foligno, «Rinascimento», IX, 1958, pp. 21755. 118 Sulle perdute Institutiones, cfr. Opera, I 929 (KRISTELLER, S UPPLEMENTUM F ICINIANUM Florentiae, 1937, I, CLXIII-IV). Sui Commentariola, Opera, I, 933 (Supplementum, I, CLXIII; II, 81). Il De voluptate ad Antonium Canisianum in Opera, I, 986, sgg.
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gumentum) ben poco ci dicono. Della sua simpatia per Lucrezio e per l’epicureismo più ampia traccia è, invece, nel giovanile De voluptate, compiuto alla fine di dicembre del ’57, e presentato dal Ficino piuttosto come una raccolta dossografica, che non come una personale elaborazione. Eppure non è scritto senza significato, in quel suo gravitare verso l’esaltazione di una voluptas che è un aderire della volontà (adhaesio voluntatis), un assenso perfetto (perfecta grataque assensio) della mente al suo ideale oggetto, alla verità, cioè, che le è propria e familiare (assensio qua voluntas in eo, quod mens considerat, utpote familiari ac sibi proprio penitus conquiescit). Il più alto piacere, dunque, è da collocarsi in questo intrinsecarsi della mente al suo oggetto; e se – come leggiamo nei commenti platonici – la voluptas è servitù, quel nobile godere che è un bene verace è un servir dell’anima rispetto a un oggetto assoutamente valido. Ed è un servire che significa libertà piena, non passione, ma perfezione dell’atto (perfectio quaedam operationis)119 . Per questa via Ficino ritrova un tono religioso di Lucrezio, e la voluptas, spogliata di ogni carnale sensualità, diventa il segno della pace raggiunta in una piena comunione col divino. Ma la prima chiara presa di posizione del Ficino nel problema che più lo impegnerà, e cioè nel problema religioso, noi troviamo nella lettera di dedica a Cosimo premessa alla versione di Ermete Trismegisto, compiuta nel 1463 e pubblicata nel 1471. Qui è formulata con tutta chiarezza quella tesi che verrà poi ritornando senza posa in tutti i suoi scritti: la tesi di una perenne rivelazione del Verbo, del Logos, di una pia philosophia tramandata dai poeti antichissimi e dalla Bibbia, accolta da Pitagora 119 Cfr. il commento in Convivium Platonis de amore, Opera, II, 1320 sgg. (cfr. anche l’ed. di R. Marcel, Paris, 1956, con ampia introduzione).
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e da Platone, approfondita da Plotino e dagli scritti attribuiti a Dionigi l’Areopagita. È questa appunto la teologia platonica, intesa come tipo esemplare di una docta religio, di una conoscenza di sé attraverso la conoscenza di Dio, e, viceversa, di una conoscenza di Dio attraverso la conoscenza di sé120 . Come spiegherà Ludovico Lazzarelli, poeta e filosofo tutto ficiniano ed ermetico, la felicita suprema, paradisiaca, che è lo scopo della nostra vita, è tutta nella conoscenza di sé come conoscenza di Dio, o meglio del Logos ritrovato in noi stessi, nella conversione di ogni nostro desiderio dall’esterno all’interno, per ottenere la quiete nella intima vita del Verbo vivente in noi. Che è appunto il processo illustrato dal Ficino. Comprendere la verità con i nostri mezzi, non possiamo; la mente umana è un occhio che per vedere ha bisogno di una luce, e per vedere il sole della luce del sole (divino itaque opus est lumine, ut solis luce solem ipsum intueamur). Ma la solare luce divina (il Logos) non si manifesta finché la mente non si volga ad essa, così come il sole illumina soltanto quella parte della luna che ad esso è rivolta. Né la conversione è possibile finché l’anima non si sarà liberata dagli inganni dei sensi e dalle nebbie della fantasia121 . Questa liberazione come processo di conversione a Dio, secondo Ficino, è realizzata appunto dalla teologia platonica che scopre sotto le nebbie dell’immaginazione poetica, di cui sono rivestite le rivelazioni religiose, il senso profondo della verità, convincendo insieme d’errore i filosofi peripatetici che, guardando nella religione solo all’aspetto estrinseco, la rifiutano come una favola da vecchierelle (de religione tamquam de anilibus fabulis Opera, II, 1836. L. LAZZARELLI, Crater Hermetis, Parisiis, 1505 (su cui cfr. M. Brini, in «Archivio di Filosofia», 1955, Testi umanistici su l’ermetismo, pp. 23-77). 120 121
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sentiendum) e i poeti, tutti volti a ridurre entro i limiti d’un’immagine una verità metafisica. Nella prefazione a Plotino il Ficino chiarisce con molta precisione i termini della sua doppia polemica. Filosofia in senso tecnico – egli dice – significa ormai peripatetismo, distinto nelle due scuole contrastanti, dei seguaci d’Alessandro d’Afrodisia e degli averroisti; ma in ogni caso la religione viene distrutta. D’altra parte i poeti, e gli uomini di lettere in complesso, non comprendono la dottrina nascosta dagli antichi sotto il velame dei versi. «Era costume degli antichi teologi nascondere i divini misteri con simboli matematici e figurazioni poetiche, perché non venissero temerariamente divulgati a tutti (ne temere cuilibet communia forent)». Contro il naturalismo degli aristotelici e l’interpretazione estetica dei poeti, o, quasi si direbbe, contro la filosofia dei filosofi e la poesia dei poeti, Ficino inserisce la propria docta religio, che non è che una pia philosophia, in cui convergono filosofia e poesia, sopravanzando l’ascesa «amorosa» ogni processo razionale puro122 . I nostri tempi – egli osserva – non si contentano più dei miracoli come fondamento della fede; non si ferma122 FICINI Opera, II, 1537: «Nos... elaboravimus ut, hac theologia in luce prodeunte, et poetae desinant gesta mysteriaque pietatis impie fabulis suis annumerare, et Peripatetici quamplurimi, id est philosophi pene omnes amoveantur, non esse de religione saltem communi tamquam de anilibus fabulis sentiendum. Totus ferme terrarum orbis, a Peripateticis occupatus, in duas plurimum sectas divisus est, Alexandrinam et Averroicam. Illi quidem intellectum nostrum esse mortalem existimant; hi vero unicum esse contendunt; utrique religionem omnem funditus aeque tollunt, praesertim quia divinam circa homines providentiam negare videntur, et utrobique a suo etiam Aristotele defecisse, cuius mentem hodie pauci, praeter sublimem Picum, complatonicum nostrum, ea pietate, qua Theophrastus olim et Themistius, Porphyrius, Symplicius, Avicenna, et nuper Plethon interpretantur».
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no ai meravigliosi racconti, vogliono una conferma razionale e filosofica (placet... auctoritate rationeque philosophica confirmare). Ora il peripatetismo, non meno della critica meramente letteraria, noi diremmo estetica, considera i monumenti religiosi in genere, la Bibbia come la poesia teologica antica, favola, e cioè posizione puramente fantastica dinanzi alla realtà, aniles fabellae. A modo suo Ficino si ripropone così il problema del significato della poesia, in termini che rimarranno in sostanza gli stessi fino a Vico. Quale è, insomma, il rapporto fra una concezione della realtà, una visione totale della vita, e la rappresentazione del poeta? I peripatetici del Cinquecento, domandandosi di che cosa sia imitazione l’arte, non cercavano, in sostanza, cosa diversa. Tuttavia Ficino, sotto la spinta di una forte preoccupazione religiosa, comincia con l’accettare, quasi senza accorgersene, la distinzione, cara agli gnostici, e affermata da Averroè, di due tipi d’umanità: i semplici, gli ignoranti, i non iniziati ai sacri misteri, e coloro che colgono sotto la lettera lo spirito, i filosofi. Le immagini, come del resto la natura stessa, celano un’anima, un significato; fermarsi all’immagine fantastica, così come limitarsi a una considerazione puramente fisica della natura, e non scendere alla più profonda direzione spirituale, all’intenzione dell’artista (umano o divino non conta, ché unico vero artista è il Logos); staccare e chiudere in sé la superficie, ecco l’errore più pernicioso. La manifestazione esterna, intuita, è solidale con il moto intimo da cui si genera; è quindi necessario, per intenderne il valore, ritrovarne la sorgente. E questa sorgente è la luce e la sapienza di Dio. D’altra parte, raggiunto il Verbo, noi ci immergiamo in una Verità senza tempo, vivente nell’eterno, in quella luminosità di cui parla Platone, e che è oltre e fuori da ogni discorso, da ogni distinzione, perché di tutto è la radice. A questa luce attingono i seguaci di quella pia philosophia, che non ha tagliato il simbolo
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esterno, parola, misura o natura dalla fonte vitale; «factum est ut pia quaedam philosophia quondam et apud Persas sub Zoroastre, et apud Aegyptios sub Mercurio nasceretur, utrobique sibimet consona, nutriretur deinde apud Traces sub Orpheo atque Aglaophemo, adolesceret quoque mox sub Pythagora apud Graecos et Italos, tandem vero a divo Platone consummaretur Athenis». La poesia non fu dunque un velo (velamen), simile nel suo ufficio espressivo ai numeri e alle figure (mathematicis numeris et figuris), che furono i mezzi per celare, insieme, e tradurre i divini misteri (divina mysteria). Ma in linguaggi diversi (realtà naturale dei fisici, simboli matematici, figure poetiche) si manifesta un’unica Verità ed un’unica Vita. Il merito di Plotino è tutto nell’aver chiarito il legame profondo che lega quella radice unica con queste manifestazioni, gettando le basi di una verace teologia (Plotinus tandem his velaminibus theologiam enudavit). Compito del nuovo teologo, ormai, è quello di tradurre e commentare Plotino, a cui Ficino viene così assegnando un posto paragonabile solo a quello che per i fisici dell’ultima scolastica aveva avuto Aristotele. Eppure v’era, in Ficino, una più sottile affermazione. Oltre le molteplici manifestazioni sensibili l’Unità non può rivelarsi che in una sola Verità, che avrà più aspetti, ma che nella sua eterna presenzialità non può essere che una. Chi vada a fondo, e questi è il pio filosofo, coglie l’unico vero oltre gl’infiniti aspetti, e in tutte le rivelazioni religiose, in tutti i canti dei poeti, in tutte le bellezze della natura, in tutte le armonie matematiche, afferra l’unica anima, quel Logos che parla anche in noi, e che, come platonicamente canterà con accenti esaltati il Lazzarelli, sentiamo nelle altre anime, nelle cose, nel tutto infinito, poiché tutto è rivelazione di Dio. Pia philosophia che si identifica con la docta religio, con la vera religione del Logos, che è la unica vera
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religione del Cristo (ν αρχη˜ ην o Λóγoς ), e che significa la consapevolezza di questa solidarietà del tutto con Dio, in un circolo amoroso, che è un diffondersi e un riflettersi di luce. «Sì come il sole sanza il sole non si vede, e come l’aria sanza l’aria non s’ode, ma l’occhio pieno di lume vede el lume, e l’orecchio pieno d’aria ode l’aria risonante, così Iddio sanza Iddio non si conosce, ma l’animo pieno di Dio tanto inverso di Dio si lieva quanto dal lume divino illustrato riconosce Iddio, e acceso del divino calore di quel medesimo ha sete. Perché non s’eleva a Colui che è sopra lui e infinito, se non per la virtù di chi è superiore e infinito. Di qui l’anima si fa tempio di Dio»123 . Ma posta la questione in tali termini, non solo «è grande propinquità... intra la Sapienza e la Religione», ma addirittura v’è una perfetta identità. Rompere «la copula di Pallade e di Themis» significò far nascere superstizione e eresia; poiché gl’ignoranti straziano «come porci... le pietre preziose della Religione», mentre i filosofi cadono nell’empietà. Se infatti un distacco del mondo naturale dalle sue radici divine è eresia, «le vili cure degl’ignoranti, superstizione più tosto che religione chiamare si conviene». La dotta religione è, dunque, verace filosofia; è convergenza piena dell’intelletto (Sapienza) e della volontà (Sacerdozio). Ma se Ficino dovesse indicare a chi spetta una ideale priorità, indicherebbe i filosofi; infatti «è ragionevole che quelli che prima le cose divine per la intelligenzia da sé trovarono, o vero da Dio attinsono, ancora prima esse cose divine per la voluntà venerassino rectamente e la recta venerazione di queste agli altri insegnassino»124 . 123 124
Della Christiana Religione, II. Della Christiana Religione, Proemium II.
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E a chi giunga alla Verità, che è unica, tosto si svela la veracità del Cristianesimo che riassume in sé e compie, a chi ben l’intenda, tutta l’umana conoscenza. 5. La teologia platonica Dalle premesse esaminate sopra risulta chiaro che l’immutabile eterna verità, simboleggiata nelle primitive teologie poetiche, rivelata da Cristo, filosoficamente chiarita da Platone e Plotino, si impernia sull’unità del mondo, sulla inscindibilità delle manifestazioni rispetto al Manifestante. Contro le eresie della divisione, dell’autonomia del mondo, conviene restaurare la verità della convergenza del tutto nell’Unità. Ora la via del Ficino procede per due tappe: la prima è la dimostrazione della ideale convergenza di ogni rivelazione di Dio, in una ininterrotta tradizione (la pia philosophia), la quale, per altro, non rappresenta in alcun modo uno svolgimento storico, ma la pura coincidenza, slegata dal tempo, in quella Verità che vive nell’eterno. La seconda è costituita dalla visione di una realtà tutta così strettamente connessa nelle sue strutture, che solo chi ben ne legga la faccia in Dio può dire di conoscerla. In entrambi i casi il procedimento va dall’immagine del senso alla luce interiore, in un ritorno ascensivo dal simbolo, dall’espressione, all’intimo, all’anima che si è manifestata. E se è innegabile che, nell’interpretazione teologica del Ficino, la poesia si perde, intendendosi per essa soltanto un incorporarsi del Vero, un velame sensibile dell’Uno, è ancor certo che, d’altra parte, tutta la la realtà universa si presenta come il poema di Dio, il suo linguaggio, la sua sensibile espressione, la sua poesia. La cui verità, del resto, non è un concetto, ma, ancora, il Dio vivente, e l’umano spirito che, rivestite le ali d’amore, si fa uno con l’eterna vita.
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Ut sole attrahitur vapor, Ut magnes calybem trahit, Sic flammis rapiar tuis. Te coniunge michi, Pater; Mox ad te penitus trahar
Unumque efficiar simul125 . Alla teologia poetica, alla scoperta, cioè, di un’unica verità al fondo delle molte rivelazioni, corrisponde la teologia platonica, e cioè l’esposizione sistematica della verità delle cose, ottenuta attraverso il ripensamento della tradizione platonica in cui il divino si è venuto articolando e spiegando. Ma il nucleo dottrinale dell’opera maggiore del Ficino è, ancora, l’Unità fontale che si esprime in un complesso di aspetti direttamente intuiti, «non altrimenti che innumerabili numeri i quali, nella unità origine di quelli, sono una cosa sola, e innumerabili linee in un centro individuo sono una cosa sola e individua»126 . Conoscere, e quindi ascendere a Dio, è vedere ogni aspetto della realtà come momento, o tappa, grado, dell’unitaria serie del tutto; risalire dal raggio al centro, secondo l’antica immagine; cogliere nelle cose l’insufficienza loro per giungere così alla divina sufficienza. Poiché ogni grado dell’essere è «specchio» di Dio; ma ogni grado, se ci si affisi, ci si dimostra imperfetto e ci rimanda ad altro: le cose a noi stessi, noi stessi a Dio. «Si debbono infatti conoscer le cose per conoscere se stessi, e conoscere se stessi per conoscere Dio... Perché Dio ci ha comandato di conoscer noi stessi, se non perché nel conoscerci, tutto ciò che abbiamo di buono, conosciamo averlo completamente da lui?»127 . Crater Hermetis, loc. cit. FICINI Orphica comparatio Solis ad Deum (Opera, I, p. 825 sgg.). 127 FICINI Ep. lib. VI (Opera, I, pp. 812-13). 125 126
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Unità e gradualità del tutto sono temi in Ficino strettamente congiunti, e formano la base di quella visione dei vari momenti come simboli, aspetti o specchi della divinità. D’altra parte i singoli gradi della serie delle cose (series, ordo rerum) si dispongono secondo una convergenza verso l’Unità piena, partendo dalla corporeità, come quantità pura per procedere, attraverso la qualità, l’anima, l’angelo, fino a Dio. Convergenza, s’è detto, verso l’Unità, che sola spiega la struttura del mondo, articolato in un ritmo musicale pulsante attraverso il recessum e l’accessum; «siccome l’unità numerica è dovunque presente in tutti i numeri, e il punto in tutte le linee, così anche quella divina Unità, rimanendo in sé indivisibile, è ugualmente presente dovunque a tutti gli spiriti e a tutti i corpi, e ugualmente lega e connette l’universo. E perciò stesso tutte le cose in una mutua convenienza convergono a un unico fine, essendo guidate da un solo principio. E come tutti i corpi si posson ricondurre a un solo sommo corpo che tutti li muove, così tutti gli spiriti a un solo supremo spirito che tutto abbraccia, e che i corpi vivifica e guida mediante spiriti a sé soggetti»128 . Ora, nella concezione ficiniana, un’importanza particolare viene assunta dal concetto, caratteristicamente ´, di intermediario, che, platonico del resto, di µταξ υ comune a tutte le teorie impiantate su una visione dell’unità dinamica del mondo, ha sempre rappresentato il modo onde spiegare il ritorno dalla molteplicità all’unità. Nella considerazione del reale, osserva una volta il Ficino, sono da escludere tre errori: e, innanzitutto, di concepire una ciclicità ritornante perennemente in se stessa, ove tutto sarebbe pari al resto (et sic utique idem ad idem comparatum esset), né alcuna distinzione si avrebbe, se non apparente. Il secondo errore è quello di intro128
FICINI Argumentum in Platonicam theologiam.
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durre più princìpi della realtà; il terzo di ammettere un processo infinito senza base e senza meta. Come si vede, nel primo errore si vuol colpire l’interpretazione della circolarità come capace di esaurire in sé l’Unità somma, la quale, al contrario, è al di sopra del processo che da essa ha inizio e in essa ritorna. «Simile a Dio», unificante cioè, ma non unità raggiunta, è l’anima, la quale ha veramente questa funzione: di collegare, di restituire. Posto Dio al di là, l’anima sola può esser partecipe, per l’ambigua sua costituzione, dei termini estremi della realtà, connettendo ciò che più è simile a Dio, come l’angelico spirito puro, a ciò che più ne è lontano, come la materia elementare. Esprimendosi in riferimento al tempo il Ficino dichiara: «Dio è sopra la eternità; l’Angelo nella eternità è tutto, perché la essenzia e operazione sua è stabile, e lo stato dell’eternità è proprio. L’anima è parte nell’eternità e parte nel tempo, perché la sustanzia sua è sempre quella medesima senza alcuna mutazione di crescere o di scemare, ma l’operazione sua... per intervalli di tempo discorre. Il corpo in tutto è sottoposto al tempo, perché la sustanzia sua si muta, e ogni sua operazione richiede spazio temporale»129 . Poiché Dio è fuori dell’ordine delle cose, anche se è il senso di quell’ordine, solo chi sia e non sia perfezione, chi insomma partecipi degli estremi, può rannodarli e costituire il simbolo di quella trascendente Unità in una unificazione sempre operosa anche se non completa. Ficino si muove a questo proposito sempre fra quattro temi: la luce, la bellezza, l’amore e l’anima, fra i quali non v’è esclusione, ma implicanza reciproca, anche se nelle varie opere l’accento talora sembri mutare. Ontologicamente parlando la realtà è luce, giuoco di luci, dalla invisibile luce di Dio (Deus lux summa luminum) alla 129
FICINO, Sopra lo Amore, ed. Rensi, Lanciano, 1914, p.
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tenebra della materia, ove la luce sembra estenuarsi fino a morire. Ma il Deux lux, abyssus luminum, è anche, in quanto tale, fons formarum, traducendosi la luce, che è stoffa di tutto, in visibilità del tutto e universale bellezza («io ti risponderò te essere ignorante, se la Bellezza altro che luce essere credessi»). Ora ciò che visivamente e intellettualmente si traduce in simboli di luce, praticamente si esprime in termini di calore e di amore. «Poiché il caldo si origina dalla luce (a lumine calor), v’è ancora un immenso ardore..., che noi proviamo piuttosto con l’ardore della volontà che con la luce dell’intelletto»130 . In tal modo l’anima, come la realtà tutta, mentre traduce il suo conoscere e la sua conoscibilità in termini di luce, traduce in termini d’amore e di calore la sua sostanza profonda. E mentre la luce, quanto più è luce, tanto più è inaccessibile, l’amore quanto più è alto tanto più vince. «Poiché Dio quanto più ci trascende con la luce del suo intelletto, tanto più in noi s’interna (se nobis inurit) con l’ardore della volontà; e nulla è più alto sopra di noi di Dio, e nulla di lui più profondo in noi. Quanto più lucente è la sua luce, tanto più è ignota all’intelletto; quanto più veemente è l’ardore, tanto la volontà è più certa». L’ascesa conoscitiva non coglie, come quella che vuol conquistare e far propria, e quasi imprigionare nei propri ristretti confini, una realtà infinitamente più grande; il tentativo di chiudere «Dio nelle cose» fallisce. Ma quando, non più perduti nell’esteriorità del mondo, ma richiamati in noi stessi, attraverso l’amore ritroveremo le cose e noi in Dio, allora, risolvendo in totale apertura la nostra chiusura, «apparirà che noi abbiamo prima amato Dio nelle cose, per amare poi le cose in lui: e noi onoriamo le cose in Dio, per ricomperare noi soprattutto; e amando Dio, abbiamo amato noi medesimi». 130
FICINI Opera, I, 706-16; De sole et lumine, I, 965 sgg.
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Si tratta di una radicale conversione (circuitus, restitutio) per cui, dalla esteriorità visiva, conoscitiva, impigliata nel limite delle cose, si ritrova, oltre il limite, il processo dinamico del tutto e si sale alla sorgente. O, meglio, ci si immerge nel fiume divino e si conquista la nostra verità facendoci conquistare. «La luce di Dio, oltrepassando i confini dell’intelletto, non può in alcun modo essere intesa dalla naturale intelligenza dell’uomo, ma piuttosto si ama, e così amata par che graziosamente (gratis) sia in noi infusa. L’anima infatti, accesa dal suo amore, quanto più arde, tanto più chiaro risplende e più a fondo discerne e con più dolcezza gode. Per questo Platone ha detto che la luce divina non si indica con il dito della ragione, ma si accoglie con la chiara serenità di un’esistenza devota». Funzione della bellezza è, appunto, la conversione; determinar la crisi per cui la chiarità visiva accende il caldo d’amore, e lo status diviene circuitus. «Mal d’occhi» è inizio d’amore, dice Ficino, quando l’oggetto cui noi ci volgiamo si fa di passivo attivo, e per la comune natura degli esseri risponde alla nostra azione con la sua azione, che è «un certo tiramento dell’una cosa all’altra per similitudine di natura»; come quando l’occhio dell’amante fisso in quello dell’amata ne è vinto, e il cacciatore diventa preda. Ché questo produce amore: ci riduce da attivi, o almeno apparentemente attivi, in passivi; in umili e devoti servi. «Il Sole volge inverso sé fiori e foglie: la Luna muove l’acqua, e Marte i venti... Così ciascuno è tirato dal suo piacere». La nostra salute consiste, così, nel lasciarci vincere da Colui che è vera bellezza, che è suprema bellezza, e, divenuti suoi devoti, ritrovarci attraverso il dono totale di noi. La passione, se si patisca l’azione del bene, è veramente educazione dell’uomo, come quella che trae fuori (e ducit) la sua divina sostanza. Perché l’oggetto amato, se è buono, trae a sé, trae al bene l’amante, e dall’amante,
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che patisce la sua azione, trae fuori quello che v’è di bene. Ed ecco, secondo Ficino, la funzione educatrice dell’amore socratico, quando Socrate, saggio e buono, «fu da’ giovani assai più amato, che egli alcuno ne amasse». Ostetrico egli era perché educava, e cioè traeva fuori; e «giocondamente», facendosi amare. «La città non è fatta di pietre, ma di uomini; gli uomini si debbono cultivare, come gli alberi quando son teneri: e dirizzare a produrre i frutti». E non si migliorano con le leggi; «tutti non possiamo essere Licurgi o Soloni. A pochi si dà l’autorità di fare leggi. Pochissimi alle leggi date obbediscono». La via feconda è la via socratica. Socrate, amatore di Dio, si fece servo devoto di Dio, e, «commosso da carità di Patria», fu, non l’amatore dei giovani, ma il suscitatore dell’amore loro, per trarli al bene, per trarne il bene, per educarli insomma, facendoli anch’essi, per tramite suo, servi di Dio nella giocondità d’amore. A simiglianza di quel vero Amore che noi crediamo cercare e afferrare, laddove è lui che ci cerca, e ci si fa presente, e ci conquista; come Platone dice, alato perché dà le ali e fa volare131 . Poesia, bellezza, amore sono i termini in cui si risolve tutta la teologia ficiniana, se ben si guardi oltre la tenue superficie di una fragile impalcatura concettuale. 6. Pico della Mirandola e la polemica antiretorica La formazione filosofica del Ficino ci è apparsa molto lineare; condizionata da un peripatetismo scolastico giovanile non troppo impegnativo, orientata dapprima in senso umanistico con toni lucreziani, ma sboccata ben presto, e molto pacificamente, in un’immutata fedeltà 131 FICINO, Sopra lo Amore, p. 153 (cap. XVI: Quanto è utile il vero amatore).
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a Platone ripensato attraverso la rivelazione ermetica e Plotino. I temi della meditazione del Pico furono senza dubbio più complessi, ed attestano un travaglio costante, e il desiderio di soddisfare una curiosità oscillante fra i problemi della natura e i rapporti dell’uomo con Dio. Educatosi nell’ambiente culturale dell’aristotelismo padovano, alla scuola del Vernia, estese ben presto i suoi contatti col peripatetismo arabo ed ebraico frequentando Elia del Medigo, ebreo dottissimo, studioso e traduttore di Averroè. Elia sentiva ugualmente forte l’esigenza della sua fede e l’amore per Aristotele e il suo Commentatore, e dal conflitto credeva di uscire, o con la più grossolana applicazione della formula della «doppia verità», o con l’accentuazione di alcuni toni mistici che dal neoplatonismo erano filtrati nell’averroismo: la felicità posta nella congiunzione, nell’incontro contemplativo fra umano e divino. Elia poteva così accordarsi col Vernia, ma poteva anche soddisfare l’esigenza religiosa del Pico132 . Il quale non era insensibile, certo, al fascino dell’umanesimo letterario, ma rimaneva troppo fine conoscitore della scolastica e del peripatetismo, per lasciarsi sedurre dalle facili evasioni di una retorica che aveva ormai fatto divorzio da ogni concretezza umana. Le lettere, che avevano cercato di essere espressione di una umanità integrale, si erano estenuate in una formalità vuota, cui era estraneo ogni interesse di verità e di vita. La più aperta denuncia di questo distacco è costituita appunto dalla lettera indirizzata nel 1485 a Ermolao Barbaro, de genere 132 Gli opuscoli latini del Del Medigo v. in app. alla edd. venete della Fisica di Jean de Jandun (p. es. Venetiis 1546). La lunga epistola al Pico (Parigi, Naz. lat. 6508, fol. 71-72) in G. PICO D. M., De hominis dignitate ecc., Firenze, 1942, pp. 67-72. L’epistola del Barbaro a Elia, nelle Epistulae del B., ed. cit., I, 87-90. Sulle letture dei cabbalisti («Li libri di Mitridate») v. anche la quasi ignota lettera del Pico del 1489 (Parigi, B. N., Autogr. Rotschild, n. 252).
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dicendi philosophorum, che costituisce un vero e proprio «manifesto» contro la degenerazione della retorica in cui riaffiorava perfino il deteriore nominalismo dei calculatores di Oxford. La nuova filologia nata come nuova filosofia, e cioè come coscienza critica della ricerca di una concretezza umana, si era estenuata in una scienza nominum opposta a una scienza rerum; nel culto di una formalità vuota che non poteva non condurre a uno scetticismo larvato, e già si concretava in una crisi morale133 . Una lettura precisa del Barbaro, che è del resto sommamente istruttiva, ci illustra in che modo intendesse egli congiungere filosofia ed eloquenza. Nella dedica a Sisto IV di una sua versione di Temistio, nel 1480, il Barbaro, dopo la consueta esaltazione delle litterae che, sole, ci distinguono dalle bestie, dichiara di non avere per nulla reso alla lettera, sed libere et traslationibus et figuris et tropis usi sumus ad morem romanum. La sua versione vuol essere una manifestazione di latinità liberamente rivissuta (lusimus arbitratu nostro), una gara con Temistio: in plenum, non tam latinum reddere Themistium, quam certare cum eo volgui. Allo spirito dell’autore si oppone un preteso spirito della lingua latina; al suo pensiero e alle sue esigenze, il proprio pensiero e le proprie esigenze. Il tradurre non è più fedeltà all’opera, ma gara e contrasto (non tam reddere, quam certare). Il Barbaro, dopo aver denunciato aspramente i suoi predecessori per ave133 L’epistola del Pico nei citati Filosofi italiani del ’400 pp. 428-45; quelle del Barbaro nella cit. ed. Branca, I, 84, 100, 101 sgg. Per le calculationes suiseticae, ivi, II, 22 sgg. Un interessante documento, fin qui sfuggito, dei rapporti del Pico con gli scienziati contemporanei si trova fra gli scritti del fisico e medico Bernardo Torni (ms. Ricc. 930, fol. 26 r-31 r), professore in Pisa fra il 1476 e il 1496. (Un’importante messa a punto del rapporto fra E. Barbaro e i logici ha fatto C. DIONISOTTI, Ermolao Barbaro e la fortuna di Suiseth, Miscellanea Nardi, pp. 219-53).
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re barbaramente subordinato i testi alle proprie esigenze, non fa diversamente da loro, quando non si serve di Cicerone per rendere Aristotele, ma mette Aristotele al servizio del proprio ciceronianismo (Aristotelis libros... quanta possum luce, proprietate, cultu exorno)134 . Proprio di qui si mosse Giovanni Pico, insistendo sul rapporto troppo spesso svisato di res e verba (philosophiam rebus constare, verborum pompa nihil indigere), ed accendendo così una discussione che doveva prolungarsi nei medesimi termini fin in pieno ’600. La bella lettera del Pico è una difesa eloquente del puro pensiero, della dignità della ricerca: «siamo vissuti celebri, o Ermolao, e tali vivremo in futuro, non nelle scuole dei grammatici, non là dove si insegna ai bambini, ma nelle accademie dei filosofi e nelle adunanze dei sapienti, dove non si discute sulla madre di Andromaca, sui figli di Niobe e su simili fatuità, ma sui principi delle cose umane e divine». Ed è insieme un atto d’accusa contro il letterato che degenera in vuoto grammatico, che dimentica il significato umano della comunicazione, e che, per questo, decade dalla sua dignità di uomo. Ma se siamo incondizionatamente col Pico quando ci dipinge il pensatore anxius, e mai pacificato, e perciò mai adagiato nella formula retorica, subito sentiamo che la polemica lo porta oltre la premessa, quando separa anch’egli sapienza ed eloquenza. Perché dalla polemica contro l’ornamento egli è quasi indotto a staccare la parola dalla sua radice, o meglio ad ammettere che tale distacco possa avvenire. La risposta che alla questione darà lo Sforza Pallavicino nel Trattato dello stile, rifacendosi al Pico, ma utilizzando le osservazioni che sulla maniera di scriver la storia avevano fatto Famiano Strada e Agostino Mascardi, è che, «essendo ufficio del filosofo la sincera manifestazione della verità nel suo semplicissimo aspetto, non conviene a lui al134
BARBARO, Epistol., I, p. 8 sgg., 12, 14, 96.
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terare, o con l’ingrandimento la sembianza di lei, o col movimento la pupilla di chi la mira»135 . Il che significa distinguere dal pensiero, non già la parola nella sua appropriatezza, ma l’ornato, la retorica ormai degenerata. Del resto Pico vedeva il più profondo significato morale della questione: «non è uomo raffinato chi non si preoccupa della forma letteraria; ma chi è privo di filosofia non è uomo. La sapienza meno eloquente può giovare; ma un’eloquenza stolta è come la spada nelle mani d’un pazzo: non può non nuocere sommamente». La filosofia come filologia era stata un richiamo alla radice spirituale, intima, della parola; alla parola non distaccata dalla sua direzione significante. Ma la retorica, separata dal mondo degli umani affetti, e trasformata in puro giuoco formale, che dà piacere e potenza, che è misura a se stessa in una sua astratta formalità, apriva un fatale divorzio fra mondo delle idee e mondo delle litterae, e del filosofo faceva un sognatore, e del letterato un giullare cortigiano. Oscuramente il Pico combatteva la retorica come pseudo-logica e pseudo-poesia, in quanto non esiste una dottrina della pura forma espressiva nella quale indifferentemente si cali la meditazione del filosofo o il canto del poeta. «Tu mi ribatterai – egli osserva – che secondo me dovremmo lodare le statue non dalla forma, ma dalla materia; che se Cherilo avesse cantato lo stesso soggetto di Omero, e Mevio di Virgilio, anch’essi sarebbero stati grandi poeti. Ma non vedi l’assurdità del paragone? Anch’io affermo che il valore dipende dalla forma espressiva e non dal soggetto, poiché una cosa è 135 SFORZA PALLAVICINO, Opere, Milano, 1834, vol. II, p. 586. Sono interessanti in proposito, fra le molte, le orazioni pronunciate a mezzo il ’500 dal Mureto, italiano per cultura, e dal dottissimo Carlo Sigonio, del quale è da vedere particolarmente la settima, de studiis humanitatis (Lugduni, 1590, pp. 97-115).
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quello che è per la forma; solo che è diversa la forma della poesia da quella della filosofia». Ed è proprio per questo che è assurdo vestire Aristotele di panni ciceroniani. Il piagnone e ficiniano Giovanni Nesi, pubblicando nel 1497 un suo profetico Oraculum de novo saeculo, ed esaltando l’eloquenza del Socrate ferrarese, riprendeva tesi e termini del Pico per sottolineare un’eloquenza che non era un ornamento retorico sovrapposto, ma il prolungarsi scarno ed efficace dell’animo. «Hinc Alcibiadem nuda illa Socratis quam Periclis luculenta oratio magis movit atque afficit». E non a caso il richiamo del filosofo si collegava col potente appello morale del domenicano di San Marco, perché era anch’esso un appello morale: richiamo alla serietà e sincerità della filosofia, condanna del letterato e del grammatico puro, della parola «separata». 7. L’uomo Anche l’Oratio, che doveva introdurre a una pubblica discussione filosofica in Roma nel 1487, a una specie di convegno internazionale di filosofi indetto dal ricchissimo Signore della Mirandola; anche quel carmen de pace aveva piuttosto del manifesto e dell’appello, che non del discorso inaugurale. Composta in un momento d’esaltazione religiosa, fra lo studio e il commento ai testi della gnosi ebraica e del misticismo cabbalistico, e la stesura di un trattato sull’amore e la bellezza a gara col Ficino, l’Oratio è dominata da due temi: la centralità dell’uomo nella realtà, e la intima profonda concordia di tutte le sincere affermazioni di pensiero136 . Il tema più celebre 136 Vedi l’intera orazione nell’ed. cit., pp. 102-45. (Ma nel frattempo m’è venuta tra mano quella che fu, forse, la redazione originaria del celebre discorso, contenuta anonima nel Palat.
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è rimasto il primo, da cui l’orazione ha preso poi il titolo De hominis dignitate. La tesi pichiana è veramente notevole: ogni realtà esistente ha una sua natura che condiziona la sua attività per cui il cane vivrà caninamente, e leoninamente il leone. L’uomo, invece, non ha una natura che lo costringa; non ha un’essenza che lo condizioni. L’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uomo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà. La sua costrizione è la costrizione a essere libero, a scegliere la propria sorte, a costruirsi con le sue mani l’altare di gloria o le catene della condanna. Il Manetti aveva parlato di un uomo creatore del mondo dell’arte; Ficino di un orizzonte dei mondi. Per Pico la condizione umana è di non aver condizione, di esere veramente un quis, non un quid: una causa, un atto libero. E l’uomo è tutto, perché può essere tutto, animale, pianta, pietra; ma anche angelo e «figlio di Dio». E la immagine e somiglianza di Dio è qui: nell’essere causa, libertà, azione; nell’essere resultato del proprio atto. Questo lucido puntare su un’esistenza che contrae e risolve in sé l’essenza, che trova l’unica condizione nella propria libera scelta, e che quindi non può non concludere a una posizione dell’uomo-persona fra persone e di fronte alla Persona; che non può non sboccare a una superiorità del volere e dell’amore sull’astratto sapere: ecco l’originalità del Pico. Il Nesi, che per il Pico ebbe quasi un culto, scriveva: «tu se’ imagine e similitudine dell’eterno Dio... tanto più perfetta quanto più efficacemente il tuo exemplare rappresenti. Più lo rappresenti per amore che per dottrina. Più in te riluce la sua effige amando che speculando; più gli piace chi l’ama che chi lo conosce, ma perché l’ama da lui è redamato». Come il
885 della Naz. di Firenze: cfr. Notizie intorno a G. P., «Riv. di storia della filosofia», 1949, fasc. 3).
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Pico stesso dichiarerà in una lettera al Manuzio, perché cercare invano con l’intelletto quello che gioiosamente si può raggiungere d’un balzo con l’amore? Perché, ripeterà in versi Lorenzo de’ Medici, restringere in noi Dio e non, amando, «dilatarsi» in lui? 8. La pace filosofica Come s’è detto, il secondo tema dell’orazione pichiana fu la pace, pitagorica concordia del pensiero, cristiano riscatto d’ogni manifestazione del logos. La grande antitesi fra Platone e Aristotele, fra Avicenna e Averroè, fra Tommaso e Scoto, in cui sembra proporsi in forma esemplare il cozzo fra «separazione» e unità, fra trascendenza e immanenza, fra natura e spirito, si compone nella meditazione pichiana attraverso l’unità del pensiero umano, che accentua via via alcuni aspetti o momenti o problemi, i quali, se paiono escludersi, meglio considerati si implicano e vicendevolmente si chiamano. L’unità della verità, la continuità della speculazione, l’unicità del Maestro, l’identità della luce divina, postulano per Pico la concordia. La quale viene da lui puntualmente ritrovata in una specie di storia critica della filosofia impegnata a illustrare la magia dell’unità attraverso la varietà degli atteggiamenti. Ma l’unità che si svela nel pensiero filosofico non è che un aspetto dell’unità che si rivela nella tradizione religiosa, nell’universa realtà. Il Pico non esita a far suo l’antico parallelo fra natura e Scrittura, entrambi libri di Dio, scritti con caratteri diversi, ma la cui radice è la stessa. E come la cabbala non è che una perfezionata filologia per riafferrare il senso genuino della Bibbia, la scienza naturale è uno strumento consimile atto a farci afferrare l’intima essenza delle cose. Nell’Heptaplus i mondi, e cioè i vari piani della realtà, si presentano come corrispondenti, anzi
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intrinsecati l’uno all’altro, e quasi prospettive molteplici della realtà, in sé distinte, ma complicate e compenetrate nell’uomo, di tutte partecipe. Il concetto ficiniano, o, meglio, largamente sfruttato dal Ficino, dell’uomo nodo del tutto, è inteso, alla luce della tesi della libertà dell’atto che si fa tutto, come concentrarsi nella conoscenza umana di tutti gli aspetti e piani della realtà. La pace filosofica corrisponde a una pacificazione mondana, universale, in quanto sul terreno umano, attraverso l’opera umana, i molteplici aspetti della realtà si connettono e si compenetrano. L’uomo è un Dio terreno non perché empiamente usurpi il trono del vero Dio, ma perché, simile a Dio, è un puro esistere capace di farsi nodo partecipe di tutte le essenze. Come si vede, Pico vuole estendere al massimo, e si incontra qui con Campanella che pur polemizzerà con lui, la portata della filologia, dandole il compito, se vuol essere vera filosofia, di comprendere e leggere tutte le Scritture, quella divina e sacra, come quella naturale, intimamente sacra e divina anch’essa, poiché Dio si rivela ugualmente nelle acque e nelle arene del mare, e nelle stelle del cielo; caeli enarrant gloriam Dei. Dio è poeta, e cioè creatore; e noi dobbiamo, dovunque, nell’opera leggere l’autore, umilmente comprenderne lo spirito, e armonizzandoci con lui divenire in qualche modo partecipi dell’opera sua. E poiché spontaneo è venuto il ravvicinamento a Campanella, è notevole osservare come anche la posizione del Pico sboccasse, come quella di Campanella, sul terreno pratico: appello a tradurre l’unità del vero e dello spirito che lo pensa in una organizzazione unitaria, in una ecclesìa unica, capace di accogliere l’umanità intera. Ecco la sua profezia come la troviamo nel Nesi: «Mahumethanos ad Christianam fidem vobis adhuc viventibus adsciscendos. Ovile tandem omnium unum, pastorem
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unum»137 . Siamo nel ’97, nell’epoca del profetismo savonaroliano; ma sappiamo che il giovane principe aveva disegnato, prima che lo rapisse una morte precoce, di tradurre sul piano pratico di predicazione e di riforma il suo sogno di una pace universale. Ed il cristianesimo era per lui l’autentica e compiuta affermazione di quella fede verace, che unica traluce nella coscienza degli uomini ed è impressa con cifra evidente nell’universo intero. Prima di Campanella, in pieno Cinquecento, Francesco Sansovino ci presenta nell’isola Utopia gli adoratori dell’unica «occulta ed eterna divinità» che «mirabilmente» si convertono subito tutti alla fede cristiana, come al necessario complemento della loro posizione138 . 9. La polemica antiastrologica Se, da un lato, l’amore entusiastico del Pico per taluni spunti occultistici e mistici può essere ricondotto nell’ambito di una generica quanto giovanile simpatia verso il misterioso, l’indefinito, il primitivo, in verità, quando si guardi a fondo, cabala e magia ci riportano sul terreno della «filologia» umanistica caricata di tutti i suoi sensi profondi. Il più profondo dei quali era poi un ricercato contatto con la «natura», intesa nel suo ricorrente significato polemico, in opposizione cioè al cristallizzarsi della tradizione. Ciò che al Pico preme veramente, 137 Oraculum de novo saeculo. Ma del Nesi s’è visto lo zibaldone Magliab. VI, 176 e le orazioni nei mss. Magliab. XXXV, 211 e Ricc. 2204. Per altri spunti mi sia concesso rimandare al saggio Desideri di riforma nell’oratoria del Quattrocento, nel I quaderno di a «Belfagor», 1948, pp. 1-11. 138 FRANCESCO SANSOVINO, Del governo et amministratione di diversi regni et republiche così antiche come moderne, Venetia, 1578, c. 197 r e sgg.
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è di ritrovare in ogni piano del reale, in ogni prospettiva, quelle stesse linee direttrici che ha scorto nell’uomo, in modo che i ritmi accolti in termini umani si svelino davvero irraggiati dovunque. Che le cose stiano veramente così dimostra quella sua finale polemica contro l’astrologia giudiziaria, che non solo lo pose contro tutti gli atteggiamenti di più o meno dichiarato occultismo, ma che lo indusse a proporre in formule più chiare il problema del rapporto fra uomo e natura, troppo facilmente confuso e sommerso nella meditazione sull’amore. L’unità del tutto, il nodo e il circolo amoroso delle cose, sembravano travolgere anche l’uomo, anima e corpo, nelle vicende universali, necessarie o capricciose che fossero. Centro, sì, ed orizzonte, l’uomo, ma in quanto passivo ricettacolo, formula abbreviata, microcosmo. Ficino, sfruttando questo tema, si era trovato dinanzi alla quasi inevitabile conseguenza di trasformare il primato umano in una totale subordinazione alle cose. L’uomo, specchio di tutte le cose, si dissolve nelle vicende di tutte le cose; e mentre il suo fegato segue e riproduce il moto di Marte, e ne contrae malanni, il temperamento che discende dagli astri orienta secondo gli astri il carattere, e solo altri astri, o mirabili virtù di animali, di pietre e d’erbe potranno combattere le prime influenze. Microcosmo, certo, l’uomo, e specchio di tutto, ma, perciò stesso, nulla; non più che pietra, ma meno che pietra; non libero, ma necessitato. La celebrazione pichiana dell’uomo è tutta una sottintesa polemica contro il tema del microcosmo, tritum in scholis; per giungere, capovolgendo la tesi dell’universo che si incentra nell’uomo, all’altra, dell’uomo che si prolunga nell’universo. Ma nella polemica antiastrologica v’era di più; v’era, cioè, la precisazione di un regolare e ragionato e ordinato processo di natura, escludente, per il suo stesso ordine intrinseco, qualunque disordinato influsso del me-
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no degno sul più degno, del più opaco sul più chiaro. Nell’emergere delle forme verso Dio, i cieli, come in genere il mondo degli elementi, trovano il loro posto al di qua della coscienza umana. La natura è ordine, è unita molteplice armonicamente regolata; e di questa armonia e di questa unità è espressione la causa, intesa come legame razionale e logicamente traducibile di tutte le cose. Il determinismo implicito nell’astrologia giudiziaria, pretendendo di far dipendere la vita interiore, non solo da modificazioni corporee, ma, attraverso il corpo, da configurazioni celesti, finte a immagine delle divinità pagane, sostituisce alla bella e divina armonia delle cause un complesso di corrispondenze accidentali e fittizie. Il Pico non esclude, né lo potrebbe, il collegamento fisico del tutto, ma nega che gli astri abbiano una posizione determinante diretta e, insieme, privilegiata, quasi che, essi soli, immediatamente, orientino tutte le vicende della nostra vita, e in genere della vita sublunare, caratteri umani, mutare di regni, sorgere e tramontare di fedi religiose (oroscopo delle religioni). Molto acutamente egli trova in tutto questo una reviviscenza, più o meno travisata, dei culti astrali139 . A Marte o a Giove sono attribuiti certi influssi, non perché veramente li dimostri operanti lo studio dei loro raggi, ma perché le divinità corrispondenti nell’Olimpo pagano avevano certe attribuzioni. La virtù non è dell’astro, ma del nome, o meglio del Dio da cui il nome deriva. Il Savonarola, tanto sensibile sul piano morale e religioso, vide bene come la polemica antiastrologica avesse essenzialmente una funzione apologetica, e in questo 139 I testi qui usati del Pico, del Savonarola, del Pontano vedili citati nell’ed. da me curata in due voll. delle Disputationes del Pico, Firenze, 1946-51. E, ivi, p. 16, il facsimile di una carta della redazione originaria del De rebus caelestibus del Pontano dal Vat. lat. 2839.
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senso svolse la sua opera parallelamente al Pico, anche se poi lasciava in ombra l’aspetto filosofico e scientifico della questione. Ché il Pico, nonostante la critica del Pontano, o di professionisti come il Bellanti, o di uno spirito fine come il Pomponazzi, non intendeva affatto indebolire le premesse della scienza della natura. Anzi egli ci si presenta come il difensore di una concezione ordinata, rigorosamente causale del tutto, denunciando nell’astrologia giudiziaria, non solo continui errori scientifici, ma l’abuso dell’analogia, l’inserzione arbitraria di influssi religiosi nel corso degli eventi naturali, e, finalmente, il disordine introdotto dall’applicare al mondo umano della coscienza la causalità fisica, valida fino a determinare l’orizzonte dell’anima, ma incapace di spiegarne i liberi atti. Alle soglie dell’anima la legge di natura sistit pedem et receptui canit140 . 10. Spunti di un’apologetica platonica Come s’è notato, Giovanni Pico esorbita, con le sue indagini, dal piano in cui si era posto il platonismo ficiniano. La stessa sua dimestichezza con la Scolastica, apertamente confessata, arricchiva il suo pensiero dei motivi più vari. In un punto, tuttavia, il gruppo savonaroliano, con cui il Pico si venne legando sempre più, s’incontrava con i ficiniani fino a confondersi con essi: in una profonda esigenza religiosa. Se percorriamo gli scritti filosofici del domenicano di San Marco, non vi troviamo che i motivi tradizionali del tomismo. Ma ai fiorentini egli apparve profeta, in quell’ansia di rinnovamento e di 140 Sulla tragica figura dell’astrologo Lucio Bellanti e sulla sua attività politica cfr. N. MENGOZZI, Un processo politico in Siena sul finire del secolo XV, «Bollettino Senese di Storia patria», 1920.
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riforma, che aveva accompagnato l’umanesimo nascente. E soprattutto quando parve fallire l’azione umana e terrestre, e un desiderio di miracoli, e di mistici annunzi, e di totali palingenesi si diffuse largamente. Lo stesso Pico dette a tutte le sue opere, e alla sua vita medesima, il tono di un appello. L’amico suo, il ficiniano Nesi, vide nel Savonarola un novello Socrate («philosophiam, quae de moribus agit, diutius exulantem revocavit in urbem, civitatique restituit»), che dell’antico aveva la divina ispirazione, il demone guida, e la missione riformatrice. Il secolo nuovo sta per spuntare; il mondo muterà politicamente, ma soprattutto spiritualmente: «Mahumethanos ad Christianam fidem, vobis adhuc viventibus, adsciscendos. Ovile tandem omnium unum, pastorem unum»». Cosi nel ’97. Circa un decennio prima, con frondosità barocca, aveva tratto dalla letteratura ermetica e platonica, messa in circolo dal Ficino, una orazione de charitate culminante nell’invito commosso all’unione mistica con Dio. «Io finalmente l’amante ne l’amato, e l’amato ne l’amante converto. Il primo perché, morendo l’amante in sé, vive ne l’amato. Il secondo perché, ricognoscendosi l’amato ne l’amante, ne l’amante ama se medesimo, dove amando sé ama l’amante già in amato converso»141 . 141 Tono diverso ha il De moribus, ms. Laur. plut. 78, 24, ove la ricerca morale viene esaltata rispetto all’indagine fisica: «quid enim animo male affecto proderit, sive reciprocas elementorum vicissitudines ac nostrorum corporum compaginem intellexerit, sive ad viscera usque terrae descenderit?». Ben altra la funzione di una civile disciplina: «in agris quondam dispersos homines et victu ferino propagantes compulit in una moenia et in communem societatem convocavit. Haec illos primo inter se domiciliis coniunxit, deinde coniugiis quasi vinculis quibusdam devinxit; tum sermonum litterarumque communione formavit. Haec leges sanxit; haec eos ad deorum cultum erexit, ad ius hominum erudivit, ad fortitudinem excitavit, ad
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Se nel dialogo de moribus si prolunga ancora un’eco della civile speculazione del primo umanesimo, qui ormai si obbedisce all’invito pichiano: evolemus ad Patrem. Là, nella pax unifica, sarà valido il tema proposto dal Poliziano: Tibi silentium laus! Girolamo Benivieni trasferiva sul piano religioso le sue effusioni d’amore, e nel commento alle sue liriche riduceva in termini di entusiasmo cristiano la prosa giovanile del Pico. L’11 aprile 1484 Giovanni Mercurio da Correggio aveva predicato per le vie di Roma una renovatio ermetica, che Ludovico Lazzarelli, poeta filosofo, celebrò come opera di mirabile e nuovo profeta. Nel 1488 Ermete Trismegirto era effigiato a mosaico nel Duomo di Siena. Egidio da Viterbo, dal 1517 cardinale della Chiesa di Roma, vedeva nel trionfo della teologia platonica il ritorno dell’età dell’oro («hec sunt, mi Marsili, Saturnia regna, hec toties a Sybilla et vatibus etas aurea decantata»), e su basi neoplatoniche e cabbalistiche costruiva un’apologetica platonica («propono platonicas questiones contra Peripateticos») destinata a prolungarsi fino nel concilio di Trento attraverso l’opera del cardinal Seripando142 .
continentiam modestiamque composuit, ad meliorem denique vivendi frugem convertit» (fol. 3 v). Quanto agli scritti del Savonarola e alla sua posizione, un singolare interesse ha il trattatello sulla divisione delle scienze e sulla poesia (Apologeticus de ratione poetica artis) dedicato a Ugolino Verino. 142 G. BENIVIENI, Commento sopra a più sue canzone ecc., Firenze, 1500; del L AZZARELLI cfr. il Bombix, Aesii, 1765, e, per l’Epistola de admiranda ac portendenti apparitione novi atque divini prophetae ad omne humanum genus cfr. P. O. KRISTELLER, in «Annali Scuola Normale Superiore Pisa», 1938, pp. 237-62 (Studies, p. 221 sgg.). Tuttavia la lettura del testo induce a pensare a influenze oltre che degli scritti ermetici «teologici», anche di quelli magico-astrologici. (Il testo
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Se dalla scuola del Valla agli studi ebraici del Pico la filologia umanistica, operando sul terreno scritturale, preparava una grande offensiva critica; se la «teologia platonica» sboccando nella mistica unione con Dio nel segreto dell’anima costituiva il prologo di tanta parte della più fervida religiosità cinquecentesca, e giustificando le varie religioni annunciava l’ideale della tolleranza; Savonarola, impegnato a creare in terra una città umana degna dell’uomo, segnava col suo rogo del ’98 il fallimento sul terreno pratico anche di non piccola parte del programma umanistico. dell’Epistola è stato ora ristampato da M. Brini nel cit. saggio, pp. 34-50). Di Egidio da Viterbo è venuto occupandosi Eugenio Massa, specialmente nei saggi Egidio da Viterbo e la metodologia del sapere nel Cinquecento, «Pensée humaniste» cit., pp. 185-239; L’anima e l’uomo in Egidio da Viterbo, «Arch. di Filosofia», 1951, pp. 37-138; I fondamenti metafisici della «dignitas hominis» e testi inediti di Egidio da Viterbo, Torino, 1954. Particolarmente notevoli Scechina e Libellus de Litteris hebraicis, a cura di F. Secret, 2 volumi, Roma, 1959.
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PLATONISMO E FILOSOFIA DELL’AMORE
1. Francesco Cattani da Diacceto e l’ortodossia ficiniana Se apriamo i Discorsi del conte Annibale Romei, gentiluomo ferrarese, nei quali sono introdotti a dissertar di filosofia, per sette giornate, «dame e cavaglieri», alla presenza di Francesco Patrizi, vediamo che gli argomenti trattati sono la bellezza, l’amore, l’onore, il duello, la nobiltà, le ricchezze, le lettere. L’opera del Romei è lo specchio fedele di quelli che furono gli effettivi temi del comune dissertare cinquecentesco non «scolastico», ove in discussioni di maniera venne estenuandosi l’opposizione platonica all’aristotelismo accademico143 . Lasciate ai professionisti le questioni più impegnative sul piano metafisico, rimaneva agli uomini colti il vasto campo delle osservazioni morali ed estetiche, nelle quali i letterati potevano far bella mostra di rari virtuosismi stilistici. Al centro di queste ricerche troviamo l’amore, la cui importanza come tema filosofico veniva caricandosi poi, nelle ricercate prose degli scrittori, di toni variamente sentimentali. Nella prima lezione «fatta da messer Benedetto Varchi pubblicamente nella virtuosissima accademia fiorentina», leggiamo: «dall’amore solo, e non da niuna altra cosa, procedettero procedono e procederanno sempre tutti i beni, o d’anima o di corpo o di fortuna, che in tutti i luoghi, per tutti i tempi, o da tutte le cose, s’ebbero, s’hanno o s’avranno mai... Perciocché che il cielo si mova, n’è prima e principale cagione amore; ed il mo143 ANNIBALE ROMEI, Discorsi divisi in sette giornate, Verona, 1586, (Per i nessi fra «filosofia dell’amore» e petrarchismo, cfr. ora l’elegante ricerca di L. Baldacci, Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, Milano-Napoli, 1957).
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versi il cielo fa che la terra stia ferma; dal movimento del cielo come padre, e dalla quiete della terra come madre, nascono crescono e si mantengono tutte le cose, tanto le viventi, come son le piante e gli animali, quanto le mancanti di vita, come son tutte l’altre cose sotto il cielo, che animali e piante non sono. Anzi non pur tutte le cose che da Dio e dalla natura si fanno, si fanno solo mediante l’amore; ma ancora tutte quelle che parlano e che operano tutti gli uomini»144 . È il Varchi stesso che, altrove, ci dichiara, oltre Platone, le sue fonti: Ficino, Pico, il Diacceto, il Bembo, e, «ultimamente», il «dialogo di Filone Ebreo», ossia l’opera in tre libri di Leone Ebreo. Ma è il Diacceto, di cui stese un elogio eloquente, quasi «specchio non solamente della vita civile, ma eziandio della specolativa», colui che più lo mosse a meditare. Nel Diacceto si prolungava la tradizione ficiniana ortodossa; «noi, tutto quello che siamo, – scriverà – se siamo cosa alcuna, siamo da Marsilio Ficino». E Ficino è per lui «quasi familiaris... daemon», che anche dopo morte «nostro ore loquetur». Ma con Ficino egli sente proprio ispiratore il Pico, nel suo sforzo di accordare Platone ed Aristotele nell’ambito del cristianesimo («utrorumque cum Christiana religione convenientiam in plerisque dogmatibus»). Aristotele, maestro di virtù civili, prepara l’uomo ai voli della contemplazione145 . Come scrive nella prolusione a un 144 BENEDETTO VARCHI, Opere, Trieste, 1859, II, p. 531 sgg., cfr. ivi, p. 496 e sgg. (Dell’amore, Lezione una), p. 816 sgg. (Vita di Francesco Cattani da Diacceto). 145 Del Diacceto cfr. I tre libri d’amore, con un panegirico d’Amore; et con la vita del detto Autore fatta da M. BENEDETTO VARCHI, in Vinegia, 1566; Opera omnia, Basileae, 1563; gli scritti vari del ms. Magliab. XII, 47 (e P. O. KRISTELLER, Francesco da Diacceto and Florentine Platonism in the Sixteenth Century, «Miscellanea Mercati», Città del Vaticano, 1946, vol. IV, pp. 260-304 = Studies, p. 287 sgg.).
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corso sulla Nicomachea, «nostra guida valente è Aristotele che nei libri morali a Nicomaco con squisita ricchezza ci prepara la via onde possiamo raggiungere la somma virtù. Chi, infatti, entra nel tempio della felicità verace, trova subito nel vestibolo le virtù civili, di cui tratta questo libro. Poiché le virtù liberatrici e dell’animo ormai purificato, fastigio della vita intera, seguiranno dopo». Solo che, per il Diacceto, già in questa vita noi possiamo avvicinarci alla divinità partecipando con piena adesione all’amoroso circolo del tutto. «Noi diciamo Dio esser principio, mezzo e fine. Imperocché per il principio intendiamo le cose da lui procedere; per il mezzo a lui convertirsi; per il fine esser da lui donate all’ultima sua perfezione: la quale consiste nella vera unione seco. Questo significarono gli antichi pitagorici quando dissono la Trinità esser misura di tutte le cose. Questo significò ancora Orfeo quando disse Giove esser principio, mezzo e fine, e però (come dice Dionisio Areopagita) in questo modo Iddio è splendore agli illuminati, perfezione ai perfetti, ai deificati divinità, ai semplici semplicità, unità a quelli che partecipano dell’uno, vita de’ viventi, essenzia di quelle cose che sono; di tutta l’essenzia, di tutta la vita, principio e causa. E però ogni cosa creata, o vuoi eterna, o vuoi mortale, o vuoi razionale, o vuoi angelica, può esclamare insieme col Profeta: Signore, lo splendore della faccia tua è segnato sopra noi». In questo circolare convergere del tutto, la bellezza nasce nella realtà mondana per l’intrinseco nesso di unità e molteplicità, per questo moto perenne attraverso il quale tutto procede da sé e a sé, e tutto è erotico per il senso di insufficienza e, insieme, per la sete profonda di sufficienza. «Mirabile bellezza nasce nel corpo mondano dalla unione per la quale cose tanto diverse e sì contrarie come sono nel mondo, fatte sé amiche, costituiscono un grande animale. E se gli è lecito comparare le cose grandi alle piccole il mondo è simile all’uomo». Il quale, po-
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sto nel mezzo del tutto, al punto centrale della universale conversione rispecchia in modo eminente la natura ancipite d’amore, che è insieme mancanza e possesso. Bellezza è, così, visibile espressione dell’armonia uno-molti; l’anima è vivente «nodo dell’universo». Come l’uomo ha il suo essere nel suo farsi, così l’amore è perenne tensione verso una meta. Nel ritmo universale che si esteriorizza in bellezza, l’uomo e l’amore sono un nodo vivente di termini. Come non si concepirebbero in una molteplicità pura, così non sussisterebbero nell’assoluta unità; vivono al limite, ma ponendosi come confine rendono possibile la vita delle due realtà confinanti. Bellezza, ugualmente, non è in Dio, ma risplende, come luce di Dio, nell’ordine angelico, e nella natura. È sigillo di vita vivente, manifestarsi estrinseco dell’universa deificazione, del movimento di tutte le cose verso Dio; visibilità del bene. «La bellezza è una grazia, uno splendore della bontà, che su la prima giunta apparisce all’aspetto, quasi il colore alla superficie, obietto della potenza visuale... per modo d’accidente». Il Diacceto insiste, molto platonicamente del resto, sul carattere visivo della bellezza («obietto visivo»); e ne sottolinea insieme l’estrinsecità («per modo d’accidente»). Interiorità è vita («gran seminario, gravido de’ semi, semi di tutte le cose»); bellezza è apparire, fiorire («fiore della bontà»); bellezza è avvio e, insieme, velarsi e svelarsi del mistero del bene agire («bellezza... portinaria alla abitazione secretissima della divina bontà»). 2. La grazia Ricondotto il problema dell’amore a quello della bellezza, il Diacceto stesso ci impone di soffermarci su un motivo particolarmente caro alla discussione del tempo: quello della grazia e della leggiadria. A mezzo il Cinquecento
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il dotto Tomitano scriveva «una bellezza senza grazia essere un amo senza l’esca», intendendo per grazia alcunché di sopraggiunto, e quasi di abilmente quanto artificialmente ottenuto. Concetto che ci rinvia a due grandi teorici della grazia, il Castiglione e il Della Casa, che ne discussero appunto sul piano di una perfetta formazione umana. Il Castiglione, nell’antitesi grazia-affettazione, introduce il motivo della sprezzatura («quella esser vera arte, che non appare esser arte... né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla»)146 , che è un’arte così perfetta da risolvere in sé ogni artificio; una produzione umana che giunge a sembrare tutt’uno con la divina opera creatrice. Anche il Della Casa si preoccupa di precisar che sia questa grazia, che ora sembra confondersi, ora distinguersi dalla bellezza, aggiungendosi ad essa come una nota che la rende gradevole. «Non si dee... contentare l’uomo di fare le cose buone, ma dee studiare di farle anco leggiadre; e non è altro leggiadria, che una cotale quasi luce, che risplende dalla convenevolezza delle cose, che sono ben composte, e ben divisate l’una coll’altra, e tutte insieme; senza la qual misura eziandio il bene non è bello, e la bellezza non è piacevole». E questa misura è «una cotale dolcezza» che si manifesta in tutto il comportamento. Anche qui grazia e leggiadria sono ricondotte nell’ambito del voluto, del sorvegliato, dell’arte, insomma, che par natura per la sua perfezione stessa147 . E quel che il bello e il caro accresce all’opre, L’arte, che tutto fa, nulla si scopre 146 BALDASSAR CASTIGLIONE, Il Cortegiano, I, 26, (ed. Cian, Firenze, 1894). 147 GIOVANNI DELLA CASA, Galateo ovvero de’ costumi, Firenze, 1707, p. 75.
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come canterà il Tasso. La più tarda trattatistica, sviluppando lo stesso motivo, farà appello al moto, e la grazia cercherà in una bellezza in movimento. Il Romei, nei suoi dialoghi, mette in bocca al Patrizi questa interessante conclusione: «la grazia principalmente si scorge ne’ soavi e leggiadri movimenti del corpo; perciocché stando il corpo immobile, ella non è apparente; e quanto a me direi che la Grazia non fusse altro che una certa facilità o agilità che ha il corpo ad ubidir all’anima»148 . Grazia, dunque, che non è che «fior di bellezza», ossia verace e compiuta bellezza, è il sensibilizzarsi, e manifestarsi nel moto corporeo di un moto spirituale. Con chiarezza anche maggiore si esprime un oscuro scrittore di questioni di morale e d’estetica, Alessandro Sardo, che in un suo Discorso della bellezza, afferma che «grazia, vaghezza, fior di bellezza e, dantescamente, gentile aspetto», è cosa umana ed è il trasfondersi «nel corpo materiale» o dell’intelletto, di quel che v’è nell’uomo di razionale, di spirituale. «Risplende la grazia per la vivacità dello ingegno, per la tranquillità degli affetti, per la castità, per la gravità, per la modestia, per l’affabilità, e... anco per la cognizione delle cause e delle scienze»149 . In tal modo, sotto il segno della grazia, si ribadiva il concetto ficiniano della spiritualità della bellezza, e nell’appello all’artificioso si richiamava il valore dell’arte umana. Non deve, tuttavia, credersi che la trattatistica restasse rigidamente fedele alla distinzione fra grazia e bellezza, anche se oscuramente sentì l’esigenza di tenerle separate. Il Castiglione nella celebre chiusa del Cortegiano, assomigliata la bellezza a «un flusso della bontà divina, il quale... si spande sopra tutte le cose create, come il lume del sole», afferma che la grazia nasce quando tale ROMEI, Discorsi, pp. 13-14. ALESSANDRO SARDO, Discorsi, Venezia, 1586, pp. 13-14. 148 149
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divino raggio ritrova nel ricettacolo materiale «una certa gioconda concordia di colori distinti, ed aiutati dai lumi e dall’ombre e da un’ordinata distanzia e termini di linee». Allora «quel subietto ove riluce adorna ed illumina d’una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio di sole che percota in un bel vaso d’oro terso e variato di gemme preziose»; ov’è degna di nota questa perfezione fondata sopra l’incontro fra gli elementi materiali, predisposti secondo proporzioni geometriche («ordinata distanzia e termini di linee»), e il motivo formale («flusso della bontà divina»)150 . Più confuso, in fondo, il Bembo, che nel terzo libro degli Asolani tenta di definire la bellezza attraverso il concetto stesso di grazia: «ella non è altro che una grazia, che di proporzione e di convenienza nasce, e d’armonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne’ suoi suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa, e più vaghi: ed è accidente negli uomini non meno dell’animo che del corpo. Perciocché, siccome è bello quel corpo, le cui membra tengono proporzione fra loro, così è bello quell’animo, le cui virtù fanno tra sé armonia; e tanto più sono di bellezza partecipi l’uno e l’altro, quanto è in loro quella grazia, che io dico, delle loro parti e della loro convenienza più compiuta e più piena». Ove questo insistere sul concetto di armonia e convenienza di parti sembra riecheggiare appunto la formula del Diacceto della bellezza unità di un molteplice, formula che ritorna poi fermissima nel Della Casa («la bellezza Uno quanto si può il più; e la bruttezza per lo contrario è Molti»)151 . Ma se costante tendenza di quanti abbiamo esaminato è il considerar la grazia fiore della bellezza, non manca neppure chi, al contrario, sussume la bellezza alla graCASTIGLIONE, Il Cortegiano, p. 409. Strani sviluppi del tema dell’unità nelle Opere di GIULIO CAMMILLO, Venezia, 1560, 2 voll. 150
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zia definendo, come l’Erizzo, la bellezza stessa una specie («la bellezza non è che una certa grazia, la quale l’animo dilettando ferisce e col suo conoscimento muove ad amare»)152 . Del resto tutta una messe di rilievi, spesso molto fini, anche se destinati a confondersi in una estrema ricerca di sottigliezza, noi troviamo nella vasta produzione intorno alla bellezza della donna. Nella quale emerge senza dubbio l’opera del Firenzuola, che da pagine ove la bellezza femminile è posta esclusivamente in rapporto alla funzione sessuale, e considerata un astuto ritrovamento di natura per indurre alla riproduzione, passiamo a scaltrite discussioni platoniche153 . Anch’egli tenta di sfruttare il motivo del corpo strumento, tanto più bello quanto più adatto a servire l’anima, quanto più «trasparente» e spiritualizzato o, almeno, preparato allo spirituale. «Piglia due candele d’ugual bontà, d’ugual grandezza, e in nessuna cosa sia dall’una all’altra differenza: ponile in due lanterne, una più trasparente, l’altra meno trasparente; e vedrai che quella che è nella più trasparente renderà più chiaro lume che quell’altra. Quale è la cagione? la disposizione dello instrumento». Ma quale debba intendersi il rapporto fra la divina luce interiore e l’instrumento, non ci sa dire. Né più ci illumina quando, volendo precisare le condizioni obbiettive della grazia, ci dice che questa nasce «da un’occulta proporzione, e da una misura che non è nei nostri libri, la quale non conosciamo, anzi non pure immaginiamo, ed è, come si dice delle cose che noi non sappiamo esprimere, un non so che». Ove il Firenzuola, senza dubbio, aveva ragione 152 Di S. Erizzo cfr. la lettera a pp. 627-35 della raccolta del Ruscelli, Lettere di XIII uomini illustri, Venezia, 1560. 153 Del FIRENZUOLA cfr. i Ragionamenti e i Discorsi (Opere, Firenze, 1848, vol. I, pp. 81-131; II, pp. 239-80; 281-305).
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di polemizzare con i «raggi» e «altre quintessenzie», ma non riusciva ad una posizione molto più chiara. In verità, dissertando d’amore, e cioè della risonanza nell’uomo della bellezza, si era necessariamente portati a isolarne la condizione obbiettiva, e sotto il segno della grazia i nodi vengono al pettine. Se, nella generale atmosfera platonica, resta fermo il tema esser la bellezza «un certo atto, o razzo d’Iddio penetrante in tutte le cose», o, per usar sempre i termini del Brucioli, il «volto d’Iddio» stampato nelle cose, a una ricerca più scaltrita non sfugge la domanda più urgente: come, in alcune cose sì, e in altre no, si precisi quella «certa grazia che muove l’anima... per la quale esse cose son grate all’anima»154 . Quando un tardo scrittore qual è Niccolò Vito di Gozze, nel suo Dialogo d’Amore detto Antos, «secondo la mente di Platone», ci dice che «la preparazione della bellezza alla grazia consiste in tre cause: cioè nell’ordine, nel modo e nelle forme, o specie», sembra affrontare ormai una precisione estrema, anche se la sua fonte è dichiarata; e a maggiore aderenza sembra voler giungere insistendo ancora su motivi di pura quantità («metro, misura, proporzione... di parti»; «debita quantità»; «lineamenti convenevoli»)155 . Senonché non ci si spostava, qui, dalla platonica preparazione matematica della materia. In fondo, la linea più precisa, che poi tornerà in infinite variazioni, già l’aveva data il Diacceto, considerando la bellezza in genere come alcunché di spirituale, come l’affiorare (il «fiorire») ai sensi, il sensibilizzarsi, il manifestarsi e l’apparire di un intimo valore, di un processo interno di significato morale. È il bene che si rivela come 154 ANTONIO BRUCIOLI, Dialogi della naturale philosophia e humana, Venezia, 1544, c. 105 v. 155 NICCOLO VITO DI GOZZE, Dialogo della bellezza detto Antos secondo la mente di Platone, Venezia, 1581, p. 22 (cfr. i suoi scritti teologici negli Urb. lat. 499-500).
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bellezza, quando il limite corporeo, in luogo di ostacolo, si fa adeguato mezzo o istrumento, trasparenza di un’intima luce, e insieme espressione esemplare, adatta particolarmente all’occhio (bellezza come visibilità), «per essere gli occhi corpi lucidi, diafani e spirituali, non di quella grossa carnalità composti»156 . La partecipazione intima dell’essere al divino, e quindi la sua bontà, ecco la condizione oggettiva per la traduzione sensibile, visibile, in bellezza. Come in una lettera del 1557 scriveva Giulio Castellani, filosofo molto noto, assalendo la cultura ufficiale ostile all’arte, «costoro non s’accorgono, che l’arte poetica riprendendo, vengono similmente la filosofia a disprezzare, perciò che l’una non è dall’altra se non nel nome diversa, insegnandoci questa e quella il vivere virtuoso e onesto»157 . E su altro piano troviamo Federigo Luigini che dedica tutto un libro del suo trattato Della bella donna a «quanto spetta alla parte di dentro», perché, come con tanta finezza scriveva il Firenzuola, la bruttura dell’animo non può non tradursi fedelissimamente nel volto, ove la bellezza è «un certo buon segno manifestante la sanità dell’animo e la chiarezza della coscienza»158 . 156 Sugli occhi e il vedere cfr. MARIO EQUICOLA, Di Natura d’Amore, Venezia, 1525: «per il vedere riconosce (la mente) la vera bellezza della nostra anima, la qual... ha avuto questa sorte, di poter esser veduta, avendo il simulacro manifesto...». 157 GIULIO CASTELLANI, Opuscoli volgari editi e inediti, Faenza, 1847, pp. 74-78. 158 FEDERIGO LUIGINI, Il libro della bella donna (in Trattati del ’500 sulla donna, Bari, 1913); FIRENZUOLA, Delle bellezze delle donne, I. Ma è ancora da vedere, del Varchi, il discorso Della bellezza e della grazia (Opere, II, pp. 733-35) «nel quale si disputa se la grazia può stare senza bellezza».
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3. La metafisica d’amore Alla scuola del Diacceto si formarono i gruppi disputanti agli Orti Oricellari fra cui, a discuter di politica, fu anche Niccolò Machiavelli. Ed ecco Palla e Giovanni Rucellai; Alessandro de’ Pazzi traduttore della Poetica aristotelica; Giovanni Corsi, biografo del Ficino; Donato Giannotti il politico; Antonio Brucioli, seguace della Riforma, traduttore della Politica, prolisso compilatore di dialoghi fisici, metafisici e morali, ove senza originalità pretese ritrarre, appunto, le discussioni fiorentine. Ecco Francesco de’ Vieri, o il Verino primo, continuatore ufficiale della tradizione ficiniana, cui terrà dietro il Lapini da San Giovanni, che nell’insegnamento pisano nutrirà di dottrina matematica e di sapere filologico le esposizioni di Platone e d’Aristotele, alle quali attingerà poi non peregrina ispirazione il Verino secondo ancora impegnato, al finire del secolo, in «ragionamenti» e «discorsi» delle Idee, delle Bellezze e d’Amore159 . Ma, in tutta questa tradizione accademica, traspare, schietta, una visione estetica della realtà, la quale, nel suo manifestarsi, è, appunto, bellezza. Anzi, come scriverà con accenti ispirati il minorita Francesco Giorgio (Zorzi) Veneto, musica. La sua vasta quanto curiosa opera De harmonia mundi totius cantica tria, uscita in Venezia nel 1525, ermetica, platonica e cabalistica, vuol presentare l’architettura dell’universo come musica. Governato da leggi numeriche, il tutto, che è vivente immagine di Dio, può essere interpretato solo attraverso il numero («ille omnia rite novit, qui bene scit numerare»). Ma il numero può presentarsi diversamente, traducendosi in ritmi vocali, in leggi fisiche, in ordinate azioni morali («alius 159 L’elenco degli scolari del Diacceto in VARCHI, Opere, II, p. 818.
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in voce, alius in rerum proportione, alius in anima et ratione...»). Il compito che il Giorgio si propone è di ridurre ogni aspetto in termini musicali («musicis continuo rationibus»), facendo risaltare, appunto, l’armonica proporzionalità, la perfetta misura, la musicale bellezza del ‘cosmo’ («pulchrum mundum totum»). In pratica la sua trattazione si riduce a una serie di combinazioni numeriche care a quel pitagorismo cabalistico che, iniziato dal Pico, con una patina di fascinoso mistero si può ritrovare, oltre le compilazioni di un Alessandro Farra, fin in pieno Seicento, alimento sotterraneo della stessa fiducia, così forte nella grande scienza secentesca, che l’universo intero sia scritto in lettere matematiche160 . Le «preghiere del divino Mirandolano» avevano indotto anche Jehudah Abarbanel, Leone Ebreo, a stendere, «scholastico stilo», un trattato De caeli harmonia, purtroppo perduto. Ma la sua visione dell’universo sotto il segno della bellezza e dell’amore ci è conservata nei Dialoghi d’amore, composti nei primi anni del ’500, ma pubblicati solo nel ’35, senza alcun dubbio il capolavoro di questa letteratura161 . Nel dialogo secondo, anche Leone Ebreo scioglie un inno all’armonia universale. «Se ben fra li celesti manca la reciproca e mutua generazione, non però manca fra loro il perfetto e reciproco amore... Se tu contemplassi... la correspondenzia e la concordanzia de li moti dei corpi celesti... e se tu conoscessi il numero degli orbi celesti, per li quali son necessari li diversi moti... vedresti 160 ALESSANDRO FARRA, Tre discorsi, Pavia, 1564 (nel primo si discorre «dei miracoli d’amore», nel secondo della divinità dell’uomo, imitando e compilando il Pico; nel terzo de «l’ufcio del Capitano»). Sul valore del Giorgio v. ora un acuto rilievo del Nardi, «Acta Congr. Schol. Intern.», Romae, 1951, pp. 625-26. 161 Dell’opera di Leone Ebreo si è usata l’edizione di S. Caramella, Bari, 1929.
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una sì mirabil corrispondenzia e concordia... che tu resteresti stupefatto dell’advenimento e de l’ordenatore». L’amore, infatti, non è, qui, solamente vincolo umano; è legame universale che avvince e vivifica tutto l’universo, senza distinzione. Ed anche gli esseri elementari «insensibili, come li metalli, e specie di pietre», «hanno conoscimento naturale del suo fine e inclinazione naturale a quello», e si muovono nel grande mare dell’essere, ciascuno verso il suo porto, «come a proprio luogo conosciuto e desiato». Leone Ebreo va rintracciando un pulsare eterno di vita in tutte le cose, una simpatia e amicizia del cosmo, che egli trasfigura immaginosamente, mentre cielo e terra, fatti esseri vivi, si van disposando a soddisfazione del loro perfetto amore. «Con questo reciproco amore s’unisce l’universo corporeo, e s’adorna e sostiene il mondo. E la terra o materia ha amore al cielo come a dilettissimo marito, o amante, e benefattore; e le cose generate amano il cielo come patre pio ed ottimo curatore». Le favole astrologiche, intanto, rivestono di figurazioni mitologiche questa poetica filosofia della natura, la quale a sua volta serve a spiegare le riposte significazioni dei miti classici alla cui radice nient’altro si contiene se non una visione del giuoco mutevole delle forze naturali. E fra uomo e natura v’è così perfetta compenetrazione che non sai dire, se sia l’uomo a confondersi nel tutto, o il tutto a umanizzarsi. La natura assume volto; essa è qualcosa di più del campanelliano tempio vivente del Dio; è l’opera d’arte di Dio, in cui Dio stesso vive, animatore ed artefice. Un Dio che è fonte inesauribile d’amore; non aristotelica chiusura in sé, ma traboccante effusione di vita. «Il fine del tutto è l’unita perfezione di tutto l’universo... Essendo dunque questa legge osservata ne l’universo, l’intelligenzia si felicita più nel muovere l’orbe celeste... che ne la intrinseca intelligenzia sua essenziale, che è il proprio atto».
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Somma sapienza non è un sillogizzare sottile, ma rapimento estatico e «bacio» divino e morte umana per rinascere in Dio. «Tale è stata la morte dei nostri beati, che, contemplando con sommo desiderio la bellezza divina, convertendo tutta l’anima in quella, abbandonano il corpo». E nell’universale circolo amoroso Dio non è solo l’amato, Colui cui tutto tende; è anche supremo amatore, Egli che «con amore produce e governa il mondo e collegalo in una unione». Solo che il suo amore, non è desiderio che cerca l’appagamento, ma è dono di se. «Dio non desidera sua unione con le creature, come fanno gli altri amanti con le persone amate, ma desidera l’unione delle creature con sua divinità, acciò pur la loro perfezione con tale unione sia sempre perfetta, e immaculata l’operazione di esso creatore relata alle sue creature». Se l’essenza del mondo è amore, e suo aspetto è bellezza, «bellezza è grazia, che dilettando l’animo col suo conoscimento, il muove ad amare». Secondo la tesi dei ficiniani, bellezza è affiorare (fiorire) di bontà; è espressione di un intimo processo capace di suscitare un moto analogo nel contemplante che si apra a patirne l’effetto. Poiché, osserva Leone Ebreo, vi sono due sorta d’amore; quello che è figlio del desiderio, ed è cieco e incomposto, e nasce da mancanza, e si traduce in violenza e brama smodata di possesso. «L’altro amore è quello che di esso è generato il desiderio,... perfetto e vero amore... è padre del desiderio e figlio della ragione»; ma di una «ragione estraordinaria» che non comanda più all’uomo di conservar se stesso, ma di donarsi, di offrirsi tutto all’amato, di confondersi con l’amato amatore nel fattivo processo universale. Come splendidamente dice Leone Ebreo, chi vive una «ragione ordenaria» è come un albero frondoso, ma sterile, esaurito in sé; chi, invece, vive d’amore si fa collaboratore del flusso fecondo che anima l’universo «da la prima causa che ogni cosa produce fino
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all’ultima cosa creata», consentendo con l’infinito amore di Dio. 4. La moda delle discussioni d’amore Leone Ebreo alimentava la filosofia d’amore della più alta ispirazione religiosa, attingendo a quelle fonti a cui si era abbeverato nel suo commento al Cantico dei Cantici anche il suo correligionario Jochanan Alemanno, come lui vissuto a contatto con la cultura platonica fiorentina. Ma accanto a questi più elevati misteri d’amore troviamo tutto un fiorire di discorsi accademici e, magari, di «belle questioni» di società, come le chiama il Castiglione; di «dubbi» in cui eran maestri i trattatisti come l’Equicola, come il Calandra, che nell’Aura, un suo libro oggi perduto, andava esaminando «qual sia maggior difficultà fingere amore, ovvero amando dissimular non amare», e altre sessantanove consimili questioni. Questo al principio del secolo; alla fine, l’ultimo dell’anno 1588, l’accademia ferrarese indiceva con programmi a stampa una disputa sull’amore di Dio per le creature, quale sia, come si distribuisca; se Dio ami più l’angelo o l’uomo, un innocente o un penitente, una vergine o una cortigiana; come possa insieme amare e odiare. A questo sterile ed astratto accademismo si era arrivati lentamente, per una serie di sviluppi che sarebbe troppo lungo seguire nei particolari. E v’influirono molteplici spunti, e vari interessi letterari. Ancora negli Asolani del Bembo, composti fra la fine del ’400 e il principio del ’500, e usciti in Venezia nel 1505, Amore è presentato con efficacia come il propulsore e lo stimolo di ogni umano progresso e di ogni civile società ( «quello, che né battitura di maestro, né minacce di padre, né lusinghe o guiderdoni, né arte o fatica o ingegno o ammaestramento alcuno può fare, fallo Amore...»). Amore, «siccome
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il sole», tutto vivifica, ingentilisce; «insegna parlare, insegna tacere, insegna cortesia». Forza universale, anima e addolcisce l’universo («ride la terra, ride il mare, ride l’aria, ride il cielo; di lumi, di canti, d’odori, di dolcezze, di tiepidezze, ogni parte, ogni cosa è piena»). E il Castiglione, alla fine del Cortegiano: «tu dolcissimo vinculo del mondo, mezzo tra le cose celesti e le terrene, con benigno temperamento inclini le virtù superne al governo delle cose inferiori, e, rivolgendo le menti dei mortali al suo principio, con quello le congiungi». Giuseppe Betussi, dopo avere nel Raverta (1544) divagato su Dio bello bellificante, e aver mostrata l’identità fra la Trinità divina e la bellezza, essendo il Padre fonte del bello, il Figlio di bellezza, e lo Spirito il bello bellificato, ne La Leonora dissertava ancora della bellezza come esteriorizzazione dell’intima armonia. Tullia d’Aragona discuteva della infinità d’amore (1547), per non dire dell’Equicola, dello Speroni, del Doni, del Franco, del Varchi, del Sansovino, del Gottifredi, o del Nifo e del Patrizi. I poeti collaboravano con i filosofi, ma senza uscire dal chiuso delle questioni tradizionali, come quando il Tasso, per consiglio di Antonio Montecatini, incline a curiose sintesi peripatetico-platoniche, chiese ispirazione al Trattato dell’amore di Flaminio Nobili, uscito in Lucca nel 1567, ove quel fecondo ripetitore dei motivi più banali della produzione moralistica del tempo, sull’onore, sulla nobiltà, e così via, somministrava ancora una volta gli sfruttatissimi spunti ficiniani162 . 162 Una raccolta di Trattati d’amore del Cinquecento curò G. ZONTA (Bari, 1912); ma è raccolta inadeguata a dare un’idea del banalizzarsi di questa produzione. Un buon elenco in P. LORENZETTI, La bellezza e l’amore nei trattati del ’500, Pisa, 1920, pp. 165-75 («Annali della R. Scuola Normale Superiore», XXVIII); ma vi sono lacune, non solo per quel che riguarda lettere e scritti minori, ma anche per la maggior trattatistica (è omesso il Nifo, De pulchro e De amore, Lugduni,
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Più interessanti, invece, le ricerche intorno «ai motti e disegni d’amore, che comunemente chiamano imprese», per l’addentellato evidente con le discussioni estetiche dell’età del Barocco, e poi per le analoghe osservazioni del Vico. Al qual proposito mentre il Giovio o il Domenichi si andavan «trastullando» nella descrizione delle invenzioni con cui si adornano i cavalieri «per significare parte de’ lor generosi pensieri»;, Girolamo Ruscelli affrontava il problema stesso del loro valore e significato espressivo. Uomo di non grande intelletto, ma di larga cultura e di larghissimi interessi, il Ruscelli, cui tanto irrise il Tasso nel suo Minturno, collegò subito il problema delle imprese con quello del linguaggio in genere, presentando il segno visivo come universale modo di comunicare, più adeguato della parola all’intenzione. La parola, infatti, è individuata, e quindi mutevole, «là ove col rappresentare e dimostrar la forma delle cose... è naturale communemente a tutti... Onde da questo esser così naturale e così commune il dimostrar per segni,
1549, che, p. 91, fa gran lodi dell’Equicola: «amicissimus noster, meo iudicio fertilissime de amore scripsit...»). Del Trattato dell’amor humano del Nobili è da vedere l’ed. Pasolini, Roma, 1895, che riproduce anche le postille del Tasso. Un più lungo discorso, invece, meriterebbe, per i suoi vasti temi, il trattato di Guido Casoni, Della Magia d’Amore... Nella quale si dimostra come Amore sia Metafisico, Fisico, Astrologo, Musico, Geometra, Aritmetico, Grammatico, Dialetico, Rettore, Poeta, Historiografo, Iurisconsulto, Politico, Ethico, Economico, Medico, Capitano, Nocchiero, Agricoltore, Lanifico, Cacciatore, Architetto, Pittore, Scultore, Fabro, Vitreario, Mago naturale, Negromante, Geomante, Hidromante, Aeremante, Piromante, Chiromante, Fisionomo, Augure, Auruspice, Ariolo, Salitore e Genetliaco..., Venezia, 1591 (cfr. E. ZANETTE, Una figura del secentismo veneto. Guido Casoni, Bologna, 1933).
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è da credere che la lingua nostra s’abbia fatto il verbo insegnare»163 . 5. La conciliazione fra Platone e Aristotele Questa ondata di ispirazione platonica che traversa tutto il ’500, pervadendo il dominio delle lettere e seducendo i poeti non meno dei filosofi, era ben lungi da ogni intolleranza antiaristotelica. L’Aristotele della Nicomachea, che celebrava ultima perfezione dell’uomo il puro contemplare, si accordava perfettamente con la contemplazione platonica. Non a caso Simon Porzio, il peripatetico napoletano, nel dialogo del Tasso a lui intitolato, esclama, a proposito delle scienze teoretiche pure, che «il loro fine è altissimo, e collocato nella contemplazione, o nella cognizione della verità; la qual conosciuta acqueta l’intelletto nella sua propria felicità; anzi il congiunge a Dio medesimo, e, come dicono i Platonici, il fa collega degl’intelletti divini». Non diversa era stata la via dell’averroizzante Nifo; o del tomista Crisostomo Javelli, che poneva la «morale» platonica mediam inter peripateticam et Christianam; o del ficiniano e platonico Felice Figliucci, traduttore del Fedro e poi chiosatore dell’etica d’Aristotele. E il peripatetico Antonio Montecatini, professore in Francia, amico del Patrizi, nel pubblicare il suo vasto commento alla Politica, dichiarava impossibile intender Aristotele senza Platone164 . 163 Ragionamento di Mons. PAOLO GIOVIO... sopra i motti, e disegni d’arme, e d’amore, che comunemente chiamano imprese. Con un discorso di GIROLAMO RUSCELLI intorno allo stesso soggetto, Milano, 1559, p. 54 sgg. Cfr. LUDOVICO DOMENICHI, Ragionamento nel quale si parla d’imprese d’armi, et d’amore, Milano, 1559. 164 CHRYSOSTOMI JAVELLI CANAPICII... Opera, Lugduni, 1580, II, 269 sgg. FELICE FIGLIUCCI, Della
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Ma, per lasciar da parte l’interminabile schiera dei minori interpreti, veramente caratteristico è il caso di Francesco Piccolomini, lungamente professore in Padova, e la cui «grandissima copia» celebra anche il Tasso. Ora, in quell’«oceano d’ogni scienza [che] sono i suoi scritti», vera enciclopedia d’ogni saper filosofico, egli si mostra incline a una certa ortodossia aristotelica, fino a criticare una volta anche il tentativo pichiano di conciliazione. Ma sotto il nome di Pietro Duodo e sotto quello di Stefano Tiepolo, furon pubblicate in Venezia e a Basilea, fra il 1575 e il 1590, «dispute sull’anima» e a «platoniche contemplazioni», tutte animate di furori platonici, e dovute in realtà allo stesso Piccolomini, che, nelle Academicae contemplationes (in quibus Plato explicatur et peripatetici refelluntur), spiegherà che ogni conciliazione è impossibile proprio poiché Aristotele non è che l’avvio per giungere alle serene ed eccelse dimore platoniche165 . Il peripatetismo, e non è questo l’unico esempio, veniva quasi capovolgendo il cammino della storia, e concedeva ad Aristotele la terra, vista come punto d’appoggio per sollevarsi ai cieli platonici, nella cui visione astratta dal mondo si realizza pur anche l’ideale della Nicoma-
filosofia morale libri dieci sopra i dieci libri dell’etica d’Aristotele, Venezia, 1552. (Cfr. Il Fedro, ovvero il Dialogo del bello di Platone tradotto in lingua toscana per F. F., Roma, 1544; ANTONII MONTECATINI In Politica, hoc est in civiles libros Aristotelis progymnasmata, Ferrariae, 1587-94). 165 PETRI DUODI... Peripat. de anima disput. lib. VII, Venetiis, 1575; STEPHANI THEUPOLI Academicarum contemplationum lib. X..., Basileae, 1590. F. PICCOLOMINI, Universa philosophia de moribus, Venetiis, 1583; Libri ad scientiam naturae attinentes, Venetiis, 1600: Compendio di scienza civile, Roma, 1858. Nella letteratura platonica del ’500 sono molto notevoli le versioni in volgare (Apologia, Eutifrone, Critone, Fedone e Timeo) e i vasti commenti (soprattutto al Fedone) dell’Erizzo (Venezia, 1574).
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chea. Invece il più ortodosso platonismo, con diversa sfumatura, andava ricercando l’accordo segreto della filosofia, della scienza e della religione, e col Verino secondo elaborava le «vere conclusioni di Platone conformi alla dottrina cristiana e a quella di Aristotele», impiantandole sul triplice accordo di Platone con la fede, di Aristotele con Platone, di Ippocrate con Platone166 . Lo scritto del Verino usciva in Firenze nel 1589; ma già nella prima metà del secolo il tema del platonismo filosofia perenne aveva trovato la più aperta affermazione nei dieci libri de perenni philosophia di Agostino Steuco da Gubbio che, vivacemente polemizzando contro la Riforma luterana e calvinista, tornava ai motivi essenziali del platonismo ficiniano167 . Lutero e Calvino avevano accentuato fortemente il distacco fra umano e divino, l’incomprensibile irraggiungibilità di Dio, la miseria e il nulla dell’uomo. Umana stoltezza e divina follia, filosofia e fede, sono inconciliabili: insanabile resta il distacco fra cielo e terra, mentre la proclamata impotenza dell’uomo al cospetto divino sembra confermarsi nella sconfortante visione di un’umanità che è nulla nell’azione e nel pensiero, e può esser qualcosa solo in una fiamma di fede, per grazia di Dio. La soluzione platonica, impegnata a ridare fiducia all’uomo, mostrandogli la sua similitudine con Dio e additandogli nell’amore il dono di Dio a noi, attraverso il quale è possibile l’offerta di noi a Dio; tutto l’eros, pronto a trasformarsi in charitas: ecco gli elementi che appaiono allo Steuco l’unica via di salvezza per una 166 Vere conclusioni di Platone conformi alla Dottrina christiana et a quella d’Aristoteles. Raccolte da Messer FRANCESCO DE’ VIERI detto il Verino secondo, Firenze, 1589. Del Verino cfr. anche Ragionamento de l’eccellenze et de’ più meravigliosi artificii della magnanima professione della Filosofia, Firenze, 1589. 167 AUGUSTINI STEUCHI Eugubini de perenni philosophia libri X, Lugduni, 1540.
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nuova apologetica, solo che si possa più profondamente stabilire il legame fra tradizione sacerdotale e tradizione filosofica, fra amor di Dio e ragione illuminata168 . Ecco così l’idea di una luce perenne, vivente nelle anime degli uomini, tutta chiara e svelata nel primo Adamo, poi resa quasi opaca dal peccato, e quindi tramandata con sempre maggior precisione, ed accolta con consapevolezza sempre più profonda. Il concetto già largamente elaborato da Ruggero Bacone, di un compiuto sapere primitivo, si viene intrecciando con quello di un progressivo discoprimento del vero, finalmente confermato nel secondo Adamo, mentre il mutevole rapporto delle tenebre dell’ignoranza e della luce del sapere vien fatto corrispondere al ritmo morale e religioso di peccato e redenzione. Nello Steuco è certo assente ogni concetto di progresso, ma v’è l’esigenza di una continuità fondata sull’unità originaria dell’umano pensare e del suo oggetto. Adamo 168 De perenni philosophia, pp. 77-78: «Coniungunt igitur dexteram seseque exosculantur vetus et nova theologia, et saeculorum intervallis disiunctae redeunt, ipsis philosophis auctoribus, ad amplexum, mutuoque copulantur, et per manus philosophorum ducitur in sacrarium domiciliumque suum Veritas... O beata palam tempora quibus veritas haec, haec theologia manifestissima de caelo refulsit, quam philosophi videbant et non videbant... Quocirca cum sint haec, non nostra solum praedicatione et professione manifesta, sed ipsorum quoque philosophorum testimonio probata, non video quid philosophiam a theologia disiungat. Nam neque Aristotelem, quem suorum maiorum theologiam admirantem saepe reperies, possumus ab istorum consortio, si iudices aequi voluerimus esse, seiungere». Ancora pp. 561-62: «cuncti naturali consensu atque... rationis... instinctu, ...universaque philosophia, ...id tandem cuncti concordes, quasi ratione se ipsam excitante, ...Plato et Aristoteles multique alii Philosophorum adeo Clare hunc finem viderunt, ut pene miraculum sit, eos ratione vidisse quod post nuntius caelestis revelavit... Quamquam, ut dixi, perennis haec fuit usque ab exordio generis humani philosophia...».
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ebbe tutto il sapere, egli che assisté alla creazione e vide Dio fare, e lo sentì mentre egli stesso, l’uomo, era fatto, onde il primo sapere fu presente coscienza dell’assoluto fare («dum nascerentur, a Deo se creari cernerent»). Lo Steuco è, in proposito, chiaro: l’originaria rivelazione fu la consapevolezza immediata del nascimento universale, non un faticoso congetturare. La dispersione fu dispersione materiale – nelle varie regioni del mondo – e spirituale – nella molteplicità delle lingue. Il peccato si traduce in un tangibile allontanamento. E, viceversa, la verità più a lungo dimorò fra coloro che meno si staccarono dalla culla dell’umanità, dico Chaldaeos, Armenios, Babylonios, Assyrios, Aegyptios, Phoenices, anche se nell’oscuramento delle coscienze quella scienza divenne fabulosa, et scyrpis et latebris absconsa. Torniamo così al tema ficiniano della teologia primitiva implicita nella poesia. Ma una raffinata esegesi della produzione poetica dell’umanità ci svela, per dirla vichianamente, un linguaggio essenziale uniforme del genere umano, espressione di una essenziale unità di credenze («idem semper omnes gentes credidisse quod nunc credunt retinentque omnes»). Il tomismo aveva insistito sull’unità del vero; per lo Steuco l’unità del vero si documenta e si manifesta nell’unità della filosofia perenne. «Tutti gli uomini per naturale consenso (naturali consensu, natura duce ac magistra rapidoque veritatis aestu), per impulso (instinctu) di quella ragione che li separa dai bruti, si sono sempre accordati nell’ammettere che non c’è nulla di superiore alla religione...; tutta la filosofia, quasi per impulso della stessa ragione, ha decretato che il vero bene è quello promesso da questa fede... Platone, Aristotele ed altri hanno visto così chiaramente questo fine, che par quasi un miracolo che abbiano raggiunto con la ragione quello che più tardi rivelò il celeste messaggero». Questa idea dell’accordo o sinfonia dei filosofi, quasi incentrata nella sintesi Platone-Aristotele, doveva non
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diversamente da altri temi, prolungarsi in pedisseque manifestazioni accademiche, rumorose quanto inconcludenti come le cinquemilacentonovantasette tesi di Jacopo Mazzoni da Cesena, pubblicate nel 1577 a Bologna169 . Il Mazzoni, che doveva occuparsi poi di questioni letterarie, e rinnegare in parte gli entusiasmi giovanili, ci porta ormai ai tempi di Galileo, con cui fu in cordiali rapporti. Né più vale il platonismo dei siciliani Pietro Calanna e Giovanni Antonio Viperano, o del ferrarese Tomaso Gianini, o di Paolo Beni, impegnato insieme a commentar la Poetica, a discuter della priorità del Tasso su Omero, e a chiosare il Timeo. Ormai l’antico problema dell’accordo dei filosofi si perdeva in compilazioni storiche e in repertori eruditi, mentre il platonismo, dopo avere alimentato le conversazioni cortigiane, si estenuava in una vaga atmosfera di letteraria evasione dal mondo, o, nel migliore dei casi, diveniva argomento di dotte dissertazioni. 6. Lo scetticismo di Gian Francesco Pico La crisi finale del tentativo di conciliazione dei filosofi aveva intuito, fin dal principio del ’500, una non volgare figura di pensatore, il nipote di Giovanni Pico della 169 JACOBI MANZONII Cesenatis De triplici hominis vita, activa nempe contemplativa et religiosa, methodi tres, quaestionibus quinque millibus centum et nonaginta septem distinctae, in quibus omnes Platonis et Aristotetis multae vero aliorum Graecorum, Arabum et Latinorum in universo scientiarum orbe discordiae componuntur, quae omnia publice disputanda Bononiae proposuit, Anno salutis, 1577; JACOBI MAZONII Cesenatis In almo gymnasio pisano Aristotelem ordinarie, Platonem vero extra ordinem profitentis, in universam Platonis et Aristotetis praeludia, sive de comparatione Platonis et Aristotelis, Venetiis, 1597.
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Mirandola, il savonaroliano Gian Francesco. Tragica personartà che si muove fra il rogo del profeta fiorentino e le lotte familiari in cui perse la vita, allo scetticismo di Sesto Empirico chiede argomenti per distruggere la filosofia a vantaggio della religione. Se con lo zio combatte i falsi profeti, e scrive contro maghi, negromanti, astrologi, geomanti, chiromanti e così via, egli fermamente crede nella conoscenza profetica, luce divina che lampeggia nell’anima umana, il cui intelletto vanamente si dibatte nelle tenebre insidiose del discorso, «poiché il nostro intendimento, che è l’ultima delle intelligenze, passa dalla potenza all’atto; e molto si inganna nel ragionamento e nei processi discorsivi, ed è impedito e quasi trattenuto dagli accidenti che velano le sostanze, e dalle ignote differenze delle cose». La luce che brilla nelle tenebre scaturisce d’improvviso come un dono gratuito, e non ha continuità alcuna, ma ora viene e ora va (vicissimque pro accessu et recessu). Ed è l’incontro e l’accordo mirabile e perfetto della fantasia e dell’intelletto, verificandosi il quale l’uomo può giungere a cogliere il futuro. Ora, proprio in queste affermazioni del De rerum praenotione è implicita quella critica del sapere filosofico che costituisce l’ossatura della meditazione di Gian Francesco170 . L’umana conoscenza è intuizione, o legata al senso, o nelle forme sublimi della profezia quando l’intelligibile si congiunge in una miracolosa corrispon170 Le opere di Gian Francesco Pico sono in gran parte raccolte nel II vol. della ed. di Basilea, 1573, degli scritti dello zio. Cfr. anche On the Imagination by G. F. Pico of M., the Latin text, with an intr. and an English transl. and notes by H. Caplan, Cornell Univ. Press, 1930. A proposito della polemica intorno all’imitazione cfr. GIORGIO SANTANGELO, La polemica fra P. Bembo e G. F. Pico intorno al principio d’imitazione, «Rinascimento», I, 1950 pp. 323-340. Il Santangelo ha anche ripubblicato i testi. Firenze, 1954.
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denza col sensibile. Ma questo è dono, è grazia, è un divino concedersi, quando ciò che è al di là dell’umano si esprime in forme aperte all’uomo. La filosofia come processo razionale è discorso; è pretesa di giungere alla verità con le forze della ragione naturale. Se la filosofia potesse assolvere il compito assegnatole esaurirebbe gran parte della religione. Se fosse vera la teoria di una pia philosophia, e cioè di un accordo sostanziale fra i filosofi classici e il cristianesimo, sfumerebbe il significato più vero del cristianesimo, e insieme il suo valore più profondo. Apologetica platonica e apologetica aristotelica, o plotiniana, o pitagorica, stabilendo una continuità dov’è un abisso, vanificano la redenzione stessa. I filosofi non vanno d’accordo; la ragione non basta a se stessa. Sul tessuto di menzogne del ragionamento; sulle contraddizioni dell’intelletto; sull’insufficienza radicale dell’umana ricerca, si leva la sufficienza sovrarazionale della rivelazione. Giovanni Pico nell’accordo dei filosofi trovava la testimonianza della Verità; «mihi autem – scrive Gian Francesco – venit in mentem, consentaneum magis esse et utile magis, incerta reddere philosophica dogmata». Quell’antichità classica, vantata dai più come un paradigma di perfezione, ci viene presentata da Gian Francesco Pico come la più folle delle contraddizioni. E su questa crisi della ragione, su questa umanità fallita nei suoi tentativi assurdi, si leva, salda, la parola del Cristo. Ma l’Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis disciplinae Christianae non è solo una critica della conoscenza umana degna d’essere avvicinata, come pur si è fatto, a Montaigne. Essa è la quasi pascaliana distruzione di tutto quel mondo di valori umani, di quel regnum hominis, che il Rinascimento aveva esaltato. Con la filosofia cadono lettere, arti, grammatica, retorica, matematica. L’uomo in sé è nulla; è errore e colpa. Solo la religione, come abbandono totale di sé a Dio, sine lite, sine dis-
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sensione, sine vago et anxio discursu; solo una fede completa cui corrisponda un dono divino, può dare all’uomo la Verità e la pace. Consapevole del pericolo cui l’umanesimo andava incontro, di vanificare quello che di più profondo c’è nell’uomo, Gian Francesco, ispiratore dell’intransigenza antifilosofica del Concilio Lateranense del 1517, nella polemica col Bembo sull’imitazione non esitava a rifiutare il valore letterario della forma umanistica.
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L’ARISTOTELISMO E IL PROBLEMA DELL’ANIMA
1. Pietro Pomponazzi Su un altro piano, e in un’atmosfera diversa, un profondo rinnovamento si operava anche nella cultura più rigidamente ispirata a premesse aristoteliche, fossero poi queste averroiste, o alessandriste, o, magari, tomiste e scotiste. Ben difficile è, senza dubbio, tener distinte le varie correnti, e le influenze di Temistio o di Simplicio accanto a quelle più note ed evidenti già ricordate, mentre spunti platonici variamente si insinuano a rendere estremamente fittizia la tradizionale antitesi fra Firenze umanistica e platonizzante, e Padova aristotelica ed averroistica. Tuttavia è innegabile che anche gli incontri, quando vi sono, nascono per l’incrociarsi di vie diverse, per il convergere da varie parti di temi in origine distanti. Come non è difficile notare quando si volga l’attenzione anche a quel motivo caratteristico della centralità umana, che pur sembra talora accostare in superficie la ficiniana Theologia platonica e il De immortalitate animae del Pomponazzi. Pietro Pomponazzi, il maggiore degli aristotelici del ’500, successore del Vernia (quel Nicoletus philosophus celeberrimus, celebre invero quanto sterile di produzione), nel 1488 ancor giovanissimo fu chiamato in Padova a tenere un corso parallelo ad Alessandro Achillini, a cui più tardi succedette sulla cattedra bolognese. L’Achillini, che secondo il Giovio era stato suo maestro, anche se meno brillante e meno profondo del Pomponazzi, non fu certo pensatore da poco. Averroista, aveva fatto ricorso aperto alla più caratteristica espressione della formula della «doppia verità» quando aveva dichiarato di sceglie-
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re, a proposito dell’intelletto, «fra due opinioni false (rispetto alla fede) la più probabile, e cioè quella averroistica». Nei suoi scritti lo vediamo impegnato a trattare gli argomenti d’uso, fisici, medici, logici, con un interesse preponderante per quello che era tema d’obbligo delle scuole universitarie: l’anima. Che l’intelletto umano fosse forma del corpo gli sembrava una pericolosa riduzione dello spirituale al corporeo, e nella separazione vedeva la salvezza sicura dell’autonomia del pensiero. D’altra parte l’uomo, nodo vivente del corporeo particolare e dell’universale intelligibile, gli appariva «termine del mondo materiale, perché in lui si uniscono cose materiali e immateriali, onde si svela la guisa per cui è vincolo delle inferiori e delle superiori». Che era la solita conclusione alla quale, sempre su terreno aristotelico, arrivava un altro maestro del Pomponazzi, Pietro Trapolino, che nell’immancabile commento all’anima secondo Aristotele ed Averroè, riafferma la medietà dell’intelletto, forma separata, eppure animatrice della materia171 . In questa atmosfera, dunque, si alimentò l’indagine del Pomponazzi, che alla centralità umana arrivò per vie ben diverse da quelle ficiniane e pichiane. In Padova, 171 Le opere dell’Achillini son riunite nell’ed. di Venezia, 1508. I commenti del Trapolino sono manoscritti (cfr. B. NARDI, Appunti sull’averroista bolognese Alessandro Achillini, «Giornale critico della filosofia italiana», 33, 1954, pp. 67-108). Del Pomponazzi cfr. l’ed. di Venezia del 1525, e per il De fato e il De incantationibus l’ed. di Basilea del 1567 a cura del Gratarol (ma, ora, del De fato è uscita l’ed. critica a cura di R. Lemay, Lugano, 1957; del De immortalitate cfr. l’ed. Morra, Bologna, 1954); per le Dubitationes in IV meteor. Arist. lib. l’ed. veneta del 1563. Dei corsi di lezione fu parzialmente edito quello sull’anima dal Ferri nel 1877; ma finalmente vengono ora studiati sistematicamente e pubblicati nelle parti importanti da Bruno Nardi («Giornale critico della filos. ital.», 1950-56; cfr. anche Il commento di Simplicio al «De anima» nelle controversie della fine del sec. XV e del sec. XVI, «Arch. di filosofia» 1951).
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infatti, i tentativi più dichiaratamente umanistici in senso letterario non trovarono terreno adatto e degenerarono facilmente in una arida ricerca grammaticale. Il Vernia lodava il Barbaro per le versioni da Temistio e, forse, per certi suoi interessi logici; ma né il Barbaro, né, poi, l’elegante ed erudito Niccolò Leonico Tomeo, amico e raccomandato del Bembo, si affermarono oltre una ristretta cerchia di letterati puri172 . Mantenevano, al contrario, vigore le discussioni di logica formale e di fisica degli occamisti, che riusciranno a sedurre in giovinezza anche il Pomponazzi. Ed erano vive le discussioni degli scotisti, fra cui emergeva il Trombetta, efficace polemista; né mancavano i tomisti che a un certo momento credettero di annoverare tra i loro anche il Pomponazzi. Il domenicano Crisostomo Javelli da Casale, dopo la pubblicazione del De immortalitate, rimpiangerà l’atteggiamento del Pomponazzi come un tradimento («i moltissimi a te devoti... si stupiscono che tu abbia volto le spalle a Tommaso, guida saldissima tua e mia...»). In realtà il Peretto non fu ripetitore né di s. Tommaso, né di Averroè, e critico di Averroè lo ricorda il Contarini, così come un altro suo allievo trascriveva nei suoi appunti gli scherni fatti a lezione contro «isti fratres truffaldini, dominichini, franceschini vel diabolini». La filosofia era per lui non dogma, ma aspra ricerca, che amava paragonare all’avvoltoio che rode il fegato a Prometeo incatenato. E il filosofare egli raffigurava come un perenne discuter se stessi, e combattere, e cadere in eresia (oportet enim in philosophia haereticum esse qui veritatem invenire cupit). Proprio per questo egli irrideva i chiosatori, i ripetitori, quelli che Galileo chiamerà i trombetti dell’altrui opinione. 172 Il Tomeo raccolse i suoi Dialoghi nel 1524 (ed. Venezia) e nel 1525 gli Opuscula. Gli scritti filosofici del Contarini, più volte stampati, sono raccolti nell’ed. veneta del 1588.
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Non a caso lo Speroni lo presenta critico acerbo di quanti, ai suoi giorni, «confidandosi solamente nella cognizione della lingua», hanno osato «por mano» ai libri d’Aristotele, «quelli a guisa degli altri libri d’umanità pubblicamente esponendo». Non diversamente dall’Achillini il Pomponazzi aveva cominciato col trattare problemi di fisica e di logica, riprendendo la questione proposta in origine dagli occamisti inglesi, e poi dibattuta a Parigi, e in Italia da Gaetano di Thiene e dal Marliano, dei rapporti fra variazioni quantitative e qualitative (de intensione et remissione formarum). Ma l’opera che per fervore di discussioni più lo impegnò uscì nel 1516 a Bologna come tentativo di risolvere su un piano schiettamente razionale il problema dell’immortalità. L’uomo, la sua natura ancipite, la sua centralità, erano stati i grandi temi del ’400; ed anche Ficino aveva dedicato al problema dell’immortalità dell’anima il suo capolavoro. Pomponazzi vede la questione con un rigore estremo, connettendola con una sua chiara concezione dell’ordine naturale. «La natura – egli osserva una volta – procede per gradi; i vegetali hanno già un po’ d’anima; seguono gli animali dotati soltanto di tatto, gusto, e indefinita immaginazione; vengono quindi gli animali tanto perfetti da sembrare dotati di intelligenza, che costruiscono case e si organizzano in civili società, come le api, tanto che un gran numero di uomini sembrano inferiori ai bruti per intelligenza». Proprio la continuità reca con sé il concetto di medietà, di anelli congiungenti e sintetizzanti. «Vi sono animali medî fra le piante e le bestie, come le spugne marine, fisse a guisa di piante, ma senzienti a mo’ di animali. V’è la scimmia, che non sai se sia bestia o uomo; v’è l’anima intellettiva media fra il temporale e l’eterno». Senonché qui non poteva sfuggire al Pomponazzi il carattere nuovo di questa medietà, non più collocata fra gradi diversi della natura, ma al confine fra natura e so-
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pranatura, fra necessità e libertà. Tutto il suo sforzo è volto proprio a capire che cosa possa significare la partecipazione dell’anima al mondo sopranaturale. Ché egli è fieramente avverso soprattutto alla separazione platonica, e quindi, in fondo, averroistica, anche se dell’averroismo conserva tutta la spregiudicatezza critica. Troppi sono i legami fra sentire ed intendere, né si può spiegare l’intendere senza un costante riferimento al sentire. «E se l’essenza con cui sento fosse diversa da quella con cui intendo, in che modo io che sento potrei essere colui medesimo che intende? Ed è ridicolo il supporre che si tratti quasi di due uomini insieme congiunti le cui cognizioni siano corrispondenti». Non solo la separazione netta, ma una qualunque occasionalistica corrispondenza viene così disdegnosamente scartata. Contro averroisti e platonici era naturale che Pomponazzi si accostasse così a Tommaso, che aveva ben sottolineato l’intrinsecarsi nell’uomo di forma e materia. L’influenza di Alessandro di Afrodisia, così insistente nel proporre l’identità con Dio della luce intellettuale, è assai meno appariscente di quanto si sia spesso sostenuto, mentre i contemporanei, e in particolare avversari scaltriti come lo Javelli, si compiacquero di porre sul medesimo piano Pomponazzi e il grande tomista Tommaso da Vio. Anzi secondo lo Javelli nessuna distinzione, sul problema dell’anima, si potrebbe fare fra i due173 . In realtà Pomponazzi critica l’Aquinate per aver concluso dalle sue premesse a un’anima «veracemente e assolutamente immortale», laddove l’immortalità umana è solo «impropria», come solo parzialmente slegato dal corpo è l’intelletto, in quanto cioè ci si riferisca all’indipendenza relativa della sua funzione. Quando, metafo173 Quaestiones subtilissimae super tres libros Arist. de an., Venetiis, 1552, fol. 131; v. THOMAS DE VIO, Scripta philosoph., I, Roma, 1938.
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ricamente, Pomponazzi parla di un profumo di immortalità (odorat), vuol indicare appunto, nell’uomo, un’ansia, un’esigenza, una ideale direzione, non un carattere posseduto, che sarebbe in sé assurdo e contraddittorio. Nell’ascesa di tutta la natura l’uomo è il culmine; ma là dove Pico faceva dell’uomo il limite, dinanzi al quale il mondo naturale si inchinava come ad alcunché di superiore (sisti pedem, receptui canit), Pomponazzi pone l’uomo nei confini naturali, anche se proteso oltre. E non sempre, ché talora leggiamo osservazioni ben amare: «se tu esaminerai le regioni abitate, troverai che quasi tutti gli uomini sono più bestie che uomini, e rarissimi sono quelli che sembrano razionali. Ed anche quelli razionali, non possono chiamarsi così in senso proprio, ma solo per confronto con altri sommamente bestiali, così come le donne non sono mai veramente sagge, ma solo in rapporto ad altre particolarmente sciocche». Una separazione totale, come quella ammessa dai platonici; una immortalità che concepisca la vita autonoma dell’anima è, dunque, impossibile. Proprio perché medietà, orizzonte, l’anima non può essere staccata da quella realtà di cui è confine senza essere snaturata e falsata, resa inconcepibile nelle sue operazioni, che hanno bisogno sempre di un dato sensibile. Né il rifiuto dell’immortalità, o almeno della certezza razionale dell’immortalità, può scuotere la moralità. Virtù e felicità, intimamente connesse, anzi aspetti diversi di una sola realtà, sono la stessa armonia interiore. Il vizio che la spezza, se imbestia l’uomo, gli toglie insieme ogni gioia («chi dunque, benché mortale, preferirà il vizio facendosi con ciò bestia, anzi peggiore della bestia?»). Con tutto ciò lo scritto del Pomponazzi finisce ambiguamente, su un problema neutro, ripetendo per l’immortalità press’a poco quello che S. Tommaso aveva detto per l’eternità del mondo: «coloro che procedono per le vie della fede, rimangono fermi e saldi». Nel De nutri-
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tione, il più radicale degli scritti editi pomponazziani, in cui qualcuno, esagerando, ha trovato un chiaro materialismo, leggiamo questa affermazione: «io credo vera secondo Aristotele la divisibilità, non solo delle anime delle piante e degli insetti, ma in genere di tutte quelle che siano atto di una materia inferiore. E questo benché secondo quella Verità [rivelata], che Aristotele non conobbe, l’anima umana debba considerarsi assolutamente indivisibile. Il che, tuttavia, mi sembra debba porsi solo per fede, e non per ragione naturale... . La Chiesa, invece, non si fonda sulle stoltezze dei filosofi, né sulla umana ragione, che è tutta avvolta di nebbie, ma sullo Spirito santo, sull’evidenza di indiscutibili miracoli; ora né le ragioni né le parole d’Aristotele debbono farci abbandonare questo santo proposito». Era sincero o ironico, qui, il Pomponazzi? O voleva soltanto accentuare la possibilità paradossale di fare appello oltre la chiusura terrena, a un atto di fede? 2. La polemica sull’immortalità Troppo lungo sarebbe seguire in tutti i suoi sviluppi l’ampia discussione cui dette luogo il libretto del Pomponazzi, bruciato pubblicamente in Venezia, vilipeso dai pulpiti, maltrattato dalle cattedre. Scrivono contro di esso e l’acre Ambrogio Fiandino e Bartolomeo di Spina e Crisostomo Javelli e il Fornari, ma, soprattutto, Gaspare Contarini e Agostino Nifo da Sessa174 , cui il Pomponazzi risponderà coll’Apologia e col Defensorium. Le obbiezioni fondamentali vertevano tutte sulla possibilità, negata dal Pomponazzi, di sostanze separate. L’intelletto, che 174 Del Nifo cfr. oltre il De immortalitate animae, Venetiis, 1525, il De intellectu, Venetiis, 1527 e il comm. al De anima, Venetiis, 1503.
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è conoscenza dei puri princìpi primi, delle forme slegate da ogni materia, mostra con questa sua attività la falsità della tesi per cui è impossibile un pensare indipendente dal fantasma sensibile. Inoltre, in quanto pura capacità di tutto comprendere, l’intelletto respinge con questo ogni legame con la estensione, ogni divisibilità. Non a caso il Contarini si richiama al famoso argomento di Avicenna dell’«uomo volante», caro anche al Ficino, volto a dimostrare la pura spiritualità dell’anima. Mentre il Nifo faceva appello alle intelligenze celesti, ammesse da Pomponazzi, e proprio come agenti estrinseci (assistenti), in senso tipicamente platonico. Che il Nifo fosse un confusionario chiacchierone è tesi antica, se già al Varchi pareva «che non solo in questo, ma in moltissimi altri luoghi abbia, senza giudizio o considerazione alcuna, detto tutto quello che gli veniva, non che nella mente, alla bocca; il che per avventura, gli potette avvenire non tanto dalla natura sua, quanto dalla grandissima reputazione ed incredibile autorità». Reputazione e autorità dovute poi ad una erudizione sconfinata e ad una produzione che non lasciò intentato alcun campo, anche se, troppo spesso, i resultati rimasero piuttosto scadenti. Nella discussione sull’anima egli era stato scolaro del Vernia, aveva sentito forti influenze averroistiche, per finire in una certa separazione platonica. Ma la sua funzione storica non fu in determinate dottrine, che sarebbe impossibile fissare, bensì nella sua cultura, nell’avere idealmente collegate le scuole di Padova e Bologna con quelle di Firenze e Pisa, e poi di Napoli e Salerno, onde il suo nome risuona, più che nelle dispute de’ filosofi, nelle pagine di letterati come Galeazzo Florimonte, il buon Galateo, o come Torquato Tasso, che gli dedicò due dialoghi sul piacere, ritraendo al vivo lo spirito mondano di quel divulgatore, per non dire, platonicamente, rivenditore al minuto della filosofia. «Io, che filosofo sono – gli fa dire il Tasso – come So-
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crate non ho indorato le suole ai piedi, ma più tosto come Scipione [le ho] avvezzate alle pianelle, e agli agi delle scuole greche». Averroismo fu per lui affermazione di spregiudicatezza, più che solida e seria posizione; tanto è vero che fu sempre pronto a diluirla in un platonismo di maniera, perfettamente adattabile alle riunioni mondane che preferiva al chiuso delle accademie. Tutt’altro temperamento ebbe, anche se impegnato negli stessi problemi, Simone Porzio, che insegnò fra Pisa e Napoli, e fu amico del bizzarro e dotto Giovan Battista Gelli, scrittore, filosofo e calzolaio, che univa le ispirazioni ermetiche della tradizione ficiniana al rigore scarno del peripatetismo più puro175 . Il Porzio fu veramente e rigorosamente alieno da ogni separazione dell’anima, e per questo combatté averroisti e simpliciani, e ad Alessandro di Afrodisia rimproverò l’identificazione con Dio della luce intellettuale. La mente, pur con la nobiltà delle sue azioni, è opus naturae. L’aristotelismo se bene inteso, non significa altro che questa rigida fedeltà alla natura, questa chiusura dell’uomo nei limiti terreni. Di qui il contrasto con quel Jacopo Antonio Marta, discepolo del Nifo, che, polemizzando col Porzio, e più tardi col Telesio, volle ancora trovare un appoggio alla religione in Aristotele. In realtà una rigida classificazione di precise correnti, che pure è stata spesso vanamente tentata, nei riguardi del problema dell’anima, è cosa impossibile. Né si possono isolare i seguaci di Temistio, di Simplicio o d’Averroè, quelli d’Alessandro, quelli d’Avicenna, i tomisti e così via, anche se, volta a volta sentiamo parlare di simpliciani o d’averroisti, di tomisti e d’alessandristi. Abbia175 SIMONIS PORTII NEAPOLITANI De humana mente disputatio, Florentiae, 1551 (la trad. it. del Gelli in un ms. della Naz. di Parigi). Gli «opuscoli» del Porzio con l’Apologia del MARTA, Neapoli, 1578.
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mo visto Pomponazzi apparire agli uni seguace ortodosso d’Alessandro d’Afrodisia, e allo Javelli, domenicano e platonizzante, nella identica posizione del più grande tomista del ’500, il De Vio. In realtà le varie denominazioni sono solo bandiere di battaglia, ed hanno un significato puramente polemico. Così un Giulio Castellani, che si professa ammiratore e seguace del Porzio, che dichiara insieme di accettare il commento di Alessandro di Afrodisia, e la posizione di Pomponazzi, ma che ama Ficino e Platone, e a un tempo imita Vincenzo Maggi peripatetico ortodosso, in sostanza vuole soprattutto rivendicare alla filosofia una precisa indagine psicologica che mostri lo svolgersi dal sensibile dell’attività di pensiero, senza preoccupazioni religiose. Ed infatti la sua critica dichiarata va contro i simpliciani di Padova e gli averroisti, in quanto separano, e cioè staccano, platonicamente, un mondo spirituale dalla natura. E la sua condanna non risparmia un suo parente, Pier Niccolò Castellani che, traducendo la plotiniana Theologia Aristotelis, aveva in qualche modo fornito nuovi argomenti alla tesi della separazione176 . D’altra parte, se ai seguaci d’Alessandro gli averroisti sembravano troppo inclini alla trascendenza per la separazione estesa all’intelletto possibile, e quindi per un certo platonismo, gli averroisti a loro volta si ponevano, di fronte ai tomisti, come campioni di un pensiero libero e critico. Il Varchi, che aveva non poche tenerezze per Averroè, discutendo dell’anima, affermava: «la presente materia, oltra l’essere dubbiosa e malagevolissima di sua natura, è stata trattata da tanti tanto scuramente e diversamente, che né anco quelli che sono stati molti anni per molti studii osano di favellare sicuramente: anzi que176 G. CASTELLANI, De humano intellectu libri tres, Bononiae, 1561. Cfr. del Varchi la lezione Sulla creazione ed infusione dell’anima razionale, Opere, II, pp. 311 sgg.
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sta è quella cosa, della quale chi più sa, meno ardisce di ragionarne». 3. Jacopo Zabarella In verità il problema dell’anima si complicava variamente; nato come questione intorno all’immortalità, se si potesse dimostrare razionalmente, si sviluppava imponendo la soluzione di problemi gnoseologici e psicologici. Ma non vale cercare le molteplici venature nei troppi professori che stamparono o lasciarono manoscritte le loro lezioni dallo Zimara, l’averroista di stretta osservanza, al Bacilieri o al Bernardi mirandolano, al simpliciano Pasero detto il Genova, al gran Pendasio, al Burana, al Vimercati e al Montecatini, a Vito Piza o al Piccolomini, al Cremonini o al Liceti, per non dire dei più oscuri ancora. Più utile ripercorrere con Jacopo Zabarella le tappe principali della disputa, da lui magistralmente esaminata ed illustrata177 . L’antitesi fondamentale Platone-Aristotele si è, secondo lui, ripetuta in Alessandro e Averroè. Per l’averroismo, infatti, l’anima è forma assistente, e cioè una realtà compiuta in sé e per sé, atto in atto («quella dicesi forma assistente che, quasi stando presso l’oggetto per guidarlo, non solo è separabile, ma è separata e divisa dalla materia, a cui non dà l’essere, come il nocchiero che è nella nave è separato dalla nave, perché è estraneo all’essenza della nave»). I seguaci d’Alessandro, al contrario, pongono l’anima come forma informante, che nella nave è la natura stessa di nave, e nell’uomo la specie, vivente nell’individuo concreto. Insomma, secondo Zabarella, le polemiche intorno all’aristotelismo circa l’anima ripetono le difficoltà del platonismo, mentre si af177 JACOBI ZABARELLAE De rebus naturalibus libri XXX, Venetiis, 1590.
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frontano aristotelici genuini e platonici camuffati da aristotelici. Lo stesso equivoco insidioso rinasce nel problema dell’intelletto quando la separazione platonica si riaffaccia a staccare ora questo ora quell’intelletto, dilacerando l’anima e riaffermando la separazione stessa. Ponendo con gli averroisti l’intelletto possibile separato, nel rapporto del nocchiero alla nave, porremo insieme l’atto dell’intendere come transiens, o accidentale, rispetto all’uomo, non come immanens, o essenziale. Gli averroisti parlano, è vero, di una connessione obiective dell’intelletto all’uomo, perché intendere non si può se non attraverso la sensibilità; ma, incalza Zabarella, in tal caso è come dire che, poiché il nocchiero vede la nave, la nave stessa, oltre che vista, è anche veggente. Né val più, a favore della separazione, la considerazione che l’intelletto pensa gli universali che sono disgiunti del tutto da ogni materia. Disgiunti, in questo caso, vuol dire astratti, e l’astrazione significa una separazione secundum operationem, non secundum esse. E questo significa che v’è nell’uomo un’attività distinta, ma non staccata, dalle modificazioni organiche. Così come può dirsi che l’anima è nocchiero, non nel senso che sia staccata dal corpo, ma nel senso che domina gli organi, li modifica e li indirizza, unità immanente all’organismo e che fa, dell’organismo, appunto un organismo. La separazione di cui parla Aristotele non è, dunque, un assoluto distacco platonicamente inteso, ma è l’indicazione di un rapporto. Il processo conoscitivo, insomma, è processo autonomo, in cui dalla sensazione si ascende all’intelletto senza interventi esteriori. La chiarezza dello Zabarella, lucida mentalità logica, cercheremmo invano nei suoi successori, e non solo nel Piccolomini, sempre incerto fra Aristotele professato e Platone nascostamente amato, ma anche nel celebre Cesare Cremonini da Cento, scolaro del Pendasio, amico del Tasso e del Patrizi, collega di Galileo, uomo senza
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dubbio rispettabile per la fierezza con cui difese, contro insidie e minacce e critiche, la sua fede nella ricerca razionale. All’Inquisitore sapeva rispondere: «quanto al mutare il mio modo di dire, non so come potrei io promettere di trasformar me stesso. Chi ha un modo, chi un altro. Non posso né voglio ritrattare le esposizioni d’Aristotele perché l’intendo così». Anch’egli dissente dagli averroisti che intendono l’anima forma assistente, ma resta poi incerto col Nifo alla definizione dell’anima-forma che usa del corpo come di uno strumento (utens corpore pro instrumento ad varias operationes). Né più di lui vale un Liceti, sulla cui debolezza speculativa ha gettato ancora una volta uno sprazzo di notorietà solo il rapporto con Galileo. In sostanza la lunga discussione sull’anima e sull’intelletto, che occupa tanta parte dell’aristotelismo italiano, spostava, ma non mutava, il tema impostato dai platonici. L’anima è l’estremo della natura; ma è cosa compresa nel mondo naturale, ed è quindi mortale, e legata alle vicende fisiche; oppure tutto il suo operare, conoscitivo ed etico, la sua ancipite essenza, la pongono in una posizione irriducibile al piano naturale puro e semplice? Il problema, che si presentava in termini gnoseologici e morali, era nella sua profondità metafisico. Ora l’incerta posizione di tutto l’aristotelismo, percorso e insidiato, non solo dall’immanente platonismo, ma dal neoplatonismo arabo e dalle interpretazioni cristiane, era incapace di sviluppare coerentemente quella direzione naturalistica cui sembrava più legato178 . 178 Per i testi sull’anima dei minori aristotelici cfr. E. RENAN, Averroës et l’averroisme, Paris, 1852. F. FIORENTINO, Pietro Pomponazzi, Firenze, 1868; K. WERNER, Der Averroismus in der christlich-peripat.Psychol. d. späteren Mittelalters, Wien, 1881. L. MABILLEAU, Etude historique sur la philosophie de la Renaissance en Italie. C. Cremonini, Paris, 1881; B. Nardi, La fine dell’averroismo, in «Pensée humaniste»
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4. Il problema religioso nell’aristotelismo Dove, tuttavia, l’aristotelismo ci appare più fecondo è al di fuori dei problemi classici in cui si suole, invece, collocare. È, forse, nelle discussioni di logica e di metodo, nella morale e nella politica. Qui, nell’adesione fedele alla realtà sinceramente descritta, gli aristotelici sono veramente spiriti sottili. Così Pomponazzi non è certo meno grande nel De incantationibus o nel De fato, opere di una non comune arditezza e di un’innegabile profondità, eppure tanto meno celebri del De immortalitate. Nel De incantationibus si propone il problema del soprannaturale, della possibilità di interventi di un ordine diverso sul piano naturale. In un luogo anche troppo famoso dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio Machiavelli discute delle varie religioni esclusivamente in rapporto alla loro efficienza pratica, politica. Nell’ambito di una visione esclusivamente terrestre l’appello al cielo è considerato, anch’esso, un fenomeno puramente mondano, interessante nei suoi aspetti sociali, innegabili e vastissimi. Pomponazzi è spirito per più lati affine al Machiavelli. Entrambi considerano solo la terra, e nell’uomo vedono sì un mirabile costruttore, ma sempre e soltanto una creatura terrena, chiusa nel limite terreno, oltre il quale non escludono la possibilità di una fede, assolutamente gratuita, completamente slegata dalla ragione, anche se interessante l’indagine razionale per i fenomeni concreti attraverso cui si ripercuote nella nostra vita mondana. E come Machiavelli esamina quelle ripercussioni sul piano politico, Pomponazzi le considera da un punto di vista psicologico, logico e fisico: in che modo, insomma, il fatto religioso incide sulla natura umana, e la trasforma;
cit., pp. 139-151. Singolare, del Cremonini, in un Marc. lat., la Quaestio utrum animi mores sequantur corporis temperantiam.
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che valore hanno le affermazioni di influenze miracolose di cause soprannaturali? La risposta del De incantationibus è chiarissima: «noi possiamo salvare ogni esperienza mediante cause naturali, né v’è ragione alcuna che ci costringa a far dipendere da démoni taluni fenomeni. È inutile dunque introdurli; ed è ridicolo e fatuo abbandonare l’evidenza e la ragione naturale per andare a cercare quello che non è né verosimile né razionale». Tutto il complesso dei miracolosi interventi può essere agevolmente ricondotto nell’ambito delle cause naturali, o, meglio, è miracoloso né più né meno di quello che miracolose sono tutte le altre connessioni causali. Non si spiegano i miracoli come non si spiega perché il canto del corvo produca sventura, come non si spiega perché un’erba guarisca una malattia (sicut ignoramus per quam naturam sciammonium purget bilem). Ove Pomponazzi ci mette davanti a uno dei suoi tipici capovolgimenti: tutto rientra nell’ordine dell’esperienza e della ragione; tutto è spiegabile, tranne questa stessa spiegazione. E in questo margine egli lascia ancora una volta aperto il cammino a Dio. Astri e simboli religiosi agiscono in modo naturale, come naturalmente agiscono le formule magiche e le immagini astrologiche; solo che «la Croce è efficace unicamente come segno di quel Legislatore, che anche gli altri rispettano». Uguale paradosso noi troviamo nel De fato, posto al centro del conflitto fra il contingentismo di Alessandro di Afrodisia e la universale necessitazione stoica. Anche qui Pomponazzi sembra prima propendere per la posizione dello stoicismo («l’opinione stoica appare molto probabile»), per rifiutarla poi riammettendo per il sapiente, «divinità terrena», una pienezza di libertà. Sulle bestie umane, dominate dalle leggi di natura, si levano i pochi saggi che, trasformando la condanna in una redenzione, si sollevano sulla natura incrinandone irrimediabilmente la compattezza.
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Quando lo Speroni, legato in tanti modi al Peretto, opporrà, nel dialogo sulla retorica, al filosofo solitario, assorto in metafisiche contemplazioni, il retore a «civile», senza rendersene conto distinguerà fra una visione scolastica tradizionale della filosofia come metafisica sistematica, e un’operosa riflessione impiantata sulla vita, e volta a modificare la vita stessa. E, in questo senso, in parte inconsapevolmente, si impegnava il Pomponazzi medesimo.
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LOGICA, RETORICA E POETICA
1. Problemi logici e metodologici Se dalle cattedre universitarie più spesso si attendeva una parola intorno alle questioni psicologiche, intorno alle quali sembrava quasi annodarsi ogni più grave problema metafisico e religioso, non meno impegnative erano le discussioni logiche, che vedevano a fronte gli ortodossi aristotelici e quanti, invece, sentivano, attraverso temi retorici e grammaticali, farsi avanti l’esigenza di una disciplina del pensiero più aderente alla concretezza del pensare. In un luogo della prima giornata dei Massimi sistemi Galileo mette in bocca al Salviati una condanna della logica formale, come «strumento» che diventa fine a se stesso. «La logica è l’organo col quale si filosofa»; ma «il suonar l’organo non s’impara da quelli che sanno far organi, ma da chi sa sonare; la poesia s’impara dalla continua lettura de’ poeti; il dipignere... col continuo disegnare e dipignere; il dimostrare, dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli e non i logici». Insomma, a nulla giova la discussione su astratti schemi dimostrativi, che restano sterili e vuoti. E questa non era solo condanna di un metodo, ma di una filosofia, «quella muta e oziosa filosofia, della quale si può dire, come della fede, che senza l’opera è morta». E operare significa, in queste parole di Stefano Guazzo avere una cognizione feconda, e capace di agire nella civile «conversazione»179 . 179 La civil conversatione del Sig. STEFANO GUAZZO, gentiluomo di Casale di Monferrato, divisa in quattro libri... nuovamente dall’istesso autore corretta e ...ampliata, Venezia,
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Insomma, la logica deve essere consapevolezza critica d’un pensare in atto. Assai prima del Galileo l’aveva detto con eloquenza Alessandro Piccolomini, che di logica scrisse a lungo e più volte, sempre sostenendo che «tutte le scienze sono da imparare insieme in un certo modo mischiate e ligate, in guisa che l’una ha bisogno alcuna volta dell’altra»180 . Proprio per questo, «quantunque una di quelle scienze, al giudicio di tutti, sia prima, nondimeno, quando quelle ancora, che seguono dopo lei, si saranno apprese, quella prima parimente, quantunque innanzi appresa fusse, tuttavia diventerà perciò più perfetta». Né mai il Piccolomini si stancherà di ripetere che è vano disperdersi «dietro alle inutili e minute questioncelle» dei logici occamisti, non avendo valore alcuno il disputare per disputare. «Laonde molte volte mi vien pietà di coloro che, nell’età pochi anni addietro alla nostra, ne gli studii delle lettere s’essercitavano conciosiaché... dalla verità sempre si dipartivano, alla quale per proprie e diritte strade, non per torte e rimote, fa mestieri che vengan coloro che, non il vero per dubitare e per contendere, ma il dubitare per trovare il vero s’ingegnano d’andar cercando». Che era un sottolineare il momento inventivo rispetto al dimostrativo e, in fondo, uno svalutare la logica confinata, secondo quanto altrove lo stesso Piccolomini aveva detto, alla dimostrazione, spettando ad altre scienze l’invenzione e la definizione. Esaminando infatti in un suo opuscolo del 1547 la validità della matematica, aveva riservato alla logica propriamente detta i due metodi risolutivo e compositivo come strumenti di dimostrazione, sostenendo che solo per accidens spetta 1586, pp. 16, 19, 24. Del Guazzo cfr. anche le Lettere, Torino, 1591. 180 ALESSANDRO PICCOLOMINI, L’istrumento della filosofia, Venezia, 1560; Della institution morale libri XII, in Venetia, 1582, pp. 125, 133.
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alla logica stessa l’invenzione. Laddove, per esempio, il Varchi, dissertando del metodo, ed identificando logica e dottrina del metodo, comprenderà «sotto questo nome così la Topica..., o vero l’invenzione, come la giudiziale, cioè la Dimostrativa», definendo poi in genere la logica come «quella o scienza o arte o più tosto facoltà, la quale sola ne mostra la via e ne guida così a tutte le scienze come a tutte le arti»181 . Comunque, mentre generale era la riprovazione delle sottigliezze dei terministi che avevano imperversato fino ai tempi del Pomponazzi, l’attenzione si volgeva sempre più verso l’invenzione, e si sottolineava il momento analitico o risolutivo, come mezzo prezioso per giungere alla definizione. E basta, in proposito, prendere il Trattato dell’istrumento e via inventrice degli antichi del platonizzante Sebastiano Erizzo per trovarvi solennemente affermato come «per mezzo della divisione noi ritroviamo quello che più nelle cose importa, che sono tutte le differenzie loro essenziali, delle quali la definizione si compone». Non solo, ma la risolutiva, com’egli dice, è via unica dell’invenzione; né a caso si riferisce a Galeno e alle scienze naturali. «Sì che non bisogna traviare da questo sentiero, che la divisione sia istrumento e via – che è quello che i Greci dicono metodo – inventrice delle cose. Né si può in alcun modo dire che per questa non si acquisti l’invenzione». Ed a Galeno e all’esperienza e all’utile, e ad una necessità di rinnovare vecchi schemi insufficienti, fa appello nel suo opuscolo De methodo anche Giacomo Aconcio, di cui è pur notevole, di nuovo, la preferenza da181 A. PICCOLOMINI, In mechanicas quaestiones... comm. de certitudine mathem. discipl., Romae, 1547, p. LXXIII; v. VARCHI, Opere, II, p. 797.
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ta al processo risolutivo, come unico efficace strumento inventivo182 . 2. Zabarella e le polemiche padovane Al Varchi, nelle Lezioni già ricordate, pareva oziosa distinzione, a proposito della logica, il domandarsi se sia scienza o arte. Non così ai maestri padovani, tra i quali lo Zabarella giungerà in proposito a conclusioni veramente interessanti. Per oltre mezzo secolo, commentando Aristotele e Averroé, i professori di Padova si erano affaticati a determinare i processi che dagli effetti portano alle cause, e, di nuovo, dalle cause agli effetti. Il Tomitano, grammatico e retore insigne, aveva insistito sul fatto che la scienza della natura procede dagli effetti alle cause, mentre il movimento dall’universale al particolare (sillogistico) è caratteristico nella sistemazione di un sapere già acquisito. Il regresso, che non è che l’induzione, costituisce tutta la forza della ricerca costruttiva (inquisitio). Il ritmo caro a Galileo di analisi-sintesi era già formulato con molta chiarezza. Lo Zabarella era scolaro del Tomitano e, come logico, ebbe a più riprese a sostenere vivaci polemiche, fra le quali, innanzitutto, deve ricordarsi quella con Francesco Piccolomini, della cui posizione, incerta fra Aristotele e Platone, già s’è detto. Lo Zabarella distingueva fra metodo e ordine, indicando con metodo, a cui dava la massima importanza, il momento inventivo, il passaggio dal noto dell’esperienza all’ignoto della causa, laddove l’ordine non significava per lui che un semplice proces182 S. ERIZZO, Trattato dell’istrumento e via inventrice degli antichi Venezia, 1554; Lettere di XIII huomini illustri, pp. 62025; GIACOMO ACONCIO, De methodo e opuscoli, ed., G. Radetti, Firenze, 1944, p. 166.
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so giustificativo secondario. Per il Piccolomini, al contrario, fondamentale è l’ordine, rispecchiamento in noi della struttura data da Dio alle cose, e quindi riprodotta nel pensiero (constitutio quaedam divina ad unum primum caput et ducem relata). Con tono non diverso il Varchi, trattando appunto dell’ordine rispetto al metodo, ricorda come «di tutte le arti e di tutte le scienze sono i semi in noi, e i princìpi da Natura, e chi insegna o appara alcuna cosa deve sempre seguitare lei». In altri termini non solo la logica è metafisica, ma tutta la trama obbiettiva della realtà è presupposta nella mente. Zabarella, al contrario, non solo batte sulla distinzione, che abbiamo visto sottolineata anche da Alessandro Piccolomini, di invenzione e dimostrazione, ma nega che la logica sia scienza; che abbia, cioè, come oggetto la realtà. La logica è una tecnica, un’arte umana, che serve alla costruzione del sapere scientifico183 . «La logica – egli dice – riguarda nozioni seconde, termini, che sono invenzioni nostre, e possono non esistere. Non sono cose necessarie, ma contingenti, e perciò non se ne ha scienza, perché la scienza è solo delle cose necessarie». Gli uomini creando le intenzioni seconde (concetti) l’hanno creata, ma essa ha un posto analogo alla grammatica. Proprio su questo punto, anzi, lo Zabarella, o, meglio il suo scolaro Ascanio Persio ebbe una vivace polemica col vecchio logico Bernardino Petrella (e col suo allievo Giulio Marziale, se non è questo uno pseudonimo del Petrella stesso). Il Petrella, infatti, sostenne con molta tenacia esser la logica scienza, ed aver per oggetto non ter183 Cfr. ZABARELLA, Opera logica, Francoforte, 1608; FR. PICCOLOMINI, Universa philosophia de moribus, nella ed. di Venezia, 1594 (gr. I, cap. XIV-XXIV; Comes politicus, pro recta ordinis ratione propugnator...) PERSIO, Defensiones; PETRELLA, Quaestiones logicae, Patavii, 1571 e 1576; del Varchi cfr. Del methodo, Opere, II, pp. 796 sgg.
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mini, ma puri concetti; non seconde intenzioni ma prime nozioni. Ed è sommamente istruttivo notare come il Petrella si trovasse poi nell’impossibilità di passare dal suo mondo di concetti entificati alla realtà fisica, mentre analisi e sintesi si riducevano a un circolo vizioso tra forme astratte e vuote. Per lo Zabarella, invece, il processo logico è strumento che mira, oltre i termini, alle cose significate, e intende ad esse. Il metodo mira a guidare e sorvegliare i processi cogitativi, le ricerche fisiche e metafisiche nella loro indagine dal noto all’ignoto. Non è più un moto di scomposizione e ricomposizione di nozioni astratte, ma un passaggio dai fatti alle cause e dalle cause ai fatti. Non si tratta di un ragionamento geometrico, in cui nel soggetto è contenuto il predicato, ma di una venazione di concetti dove la logica chiarisce le guise e le astuzie della caccia (instrumentum est ipsa via divisiva vel compositiva, per quam docet... quomodo praedicata venari debeamus, et horum venatio est venatio ipsius definitionis ignotae). Ora il metodo non è che la tecnica della caccia all’ignoto (non disponit scientiae partes, sed a noto ducit nos in cognitionem ignoti). E questo metodo venatorio, o inventivo, è ritmato in due momenti: regresso risolutivo dall’effetto alla causa; processo compositivo per cui dalla causa vediamo generarsi l’effetto (producere et generare finem illum possumus). La cosa è ritrovata nel suo segreto rapporto di sé a sé; è approfondita e illuminata in se stessa. «L’induzione non prova una cosa mediante un’altra; in certo modo essa rivela la cosa attraverso la cosa stessa. E poiché la cosa è meglio conosciuta come particolare che come universale, perché è sensibile come particolare e non come universale, l’induzione è un processo, che va dalla cosa alla cosa medesima; dalla cosa nell’aspetto più ovvio, alla cosa nell’aspetto più oscuro e riposto. Così per induzione non si conoscono solo i princìpi delle cose, ma anche i princìpi dello stesso sapere scientifico che si dicono indimostrabili». La logi-
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ca, come movimento intimo onde la cosa è compresa nel riferimento a sé, e nella riflessione, non poteva esser colta più chiaramente. Né il metodo galileiano poteva esser meglio chiarito. Nella lezione LXVI della Dialettica del Cremonini, raccolta dal suo scolaro Troilo Lancetta, l’avversario di Galileo definiva: «ordo compositivus incipit a principiis et progreditur per ipsa ad rerum cognitionem; ordo vero resolutivus incipit a fine, et ipsius habita praecognitione progreditur ad ea considerando per quae talis finis haberi possit»184 . 3. Logica e retorica. Mario Nizolio Filosofo senza dubbio molto penetrante fu Zabarella; eppure, nonostante il suo acume, egli ha dell’antico molto più di un grammatico quale Mario Nizolio, che nei quattro libri del De veris principiis et vera ratione philosophandi, stesi contro il Maioragio, ma in realtà volti a distruggere quanto restava del vecchio schematismo logico aristotelizzante, mirava a delineare i processi viventi del pensiero colto nel suo ritmo, al di fuori di ogni cristallizzazione di idee o di universali fittizi. Il suo tentativo, perché non fu che un tentativo, ma pur degno delle lodi e dell’ammirazione di un Leibniz, voleva presentare le pulsazioni della mente nei suoi rapporti con le cose e con gli uomini, sorprendendo l’unità del processo che anima così la comunicazione linguistica, come tutte le strutture conoscitive. Per questo, secondo il Nizolio, bisogna liberarsi innanzitutto da ogni soprastruttura fittizia – universalia stulta et inepta – e ritrovare la purezza nostra e delle cose nella verginità dell’espressione linguistica, traduzio184 CAESARIS CREMONINI CENTENSIS... Dialectica, addita in fine singularum lectionum paraphrasi a Troylo de Lancettis, Venetiis, 1663, p. 89.
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ne spontanea del rapporto fondamentale dell’uomo col mondo185 . Non conviene infatti dimenticare l’iniziale dichiarazione del Nizolio sulla ridicola futilità delle ricerche che non si rivolgano alla morale, alla politica e all’economia; alle «scienze mondane», insomma. Né può trascurarsi, quando si legga nel primo suo principio generale del filosofare che alla base di tutto deve trovarsi la conoscenza delle lingue greca e latina, essere per lui tali lingue l’espressione concreta ed esemplare della direzione originaria dello spirito umano. Per cui lo studio grammaticale e retorico, subito dopo raccomandato (sine quibus omnis doctrina prorsus est indocta, et omnis eruditio inerudita), non è che la presa di contatto con l’articolarsi effettivo dell’interiorità umana, con i suoi ritmi, con i suoi processi: «logica reale» e non «formale». Ed ecco, infatti, subito, la critica alla metafisica, preoccupata solo di una verità vuota, indifferente a ogni indagine de utilitate et de pertinentia rerum, quasiché sia possibile parlare di verità, quando si prescinda da quel concreto e umano rapporto in cui, soltanto, la verità è vera (quasi nihil intersit, re185 M. NIZOLII De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos libri IV, in quibus statuuntur ferme omnia vera verarum artium et scientiarum principia... et praeterea refelluntur fere omnes M. A. Majoragii obiectationes contra eundem Nicolium, Parmae, 1553. Com’è noto lo scritto fu ripubblicato da Leibniz con introduzione e note, Francoforte, 1671 (Antibarbarus philosophicus, sive Philosophia scholasticorum impugnata libris IV de veris ecc.). Sul Nizolio latinista cfr. P. MANUTII Epistularum libri V, Venetiis, 1561, cc. 35-36. (Del De veris principiis del Nizolio abbiamo ora la bella ed. di Q. Breen, 2 voll., Roma, 1956; sul N. v. gli studi del Breen stesso e i due saggi di Paolo Rossi, nei volumi miscellanei La crisi dell’uso dogmatico della ragione, a cura di A. Banfi, Milano, 1953, e Testi umanistici sulla retorica, «Archivio di filosofia», 1953, pp. 57-92).
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rum quae traduntur, esse non solum non falsas sed etiam non inutiles, non supervacuas, nec impertinentes). Unica vera scuola filosofica la lettura dei grandi classici, continua e penetrante, per comprendere la loro parola; e, a un tempo, la comprensione del linguaggio umano comune (intelligentia communis usus loquendi tum eorum, tum etiam populi). Comprensione, questa, che solo l’esperienza può dare, poiché ci muoviamo, qui, sul terreno della libera creazione umana, completamente autonoma. In questa adeguazione di sé alla coscienza degli uomini, in questa civile conversazione, scopriremo veramente il nostro segreto, e il senso e il valore dell’umanità nelle sue relazioni (veram sapientiam veramque eloquentiam). E quello stesso appello iniziale ai classici perderà qualunque equivoco sottinteso di abdicazione alla propria libertà; sarà null’altro che un mezzo per ritrovare la propria verità. Dichiaratamente il Nizolio, nel suo quarto principio, riafferma la piena indipendenza d’indagine (libertas et vera licentia, sentiendi ac indicandi de omnibus rebus), proprio in omaggio al vero (ut veritas ipsa rerumque natura postulat). Oltre ogni autore, al di sopra di Platone e d’Aristotele, restano, unici e veri maestri, i sensi, il pensiero e l’esperienza. Né, d’altra parte, la comprensione scientifica della realtà significa il rifugio in nebulosi universali, ma l’aderenza al reale singolo, afferrato nel suo intimo rapporto di sé con sé e con i reali dello stesso genere. Il Nizolio insiste in una polemica mai interrotta, opponendo all’astrazione che finge, oltre gli enti, altri enti fittizi, la comprensione con cui la mente afferra, simul et semel, singularia omnia cuiusque generis. La quale comprensione poi, come dirà altrove, lungi dal perdersi per entro le nubi dell’astrazione, resta aderente al senso e alla coscienza. Insomma, alla logica aristotelica si vuol sostituire una nuova logica che nasca per entro gli effettivi moti della interiorità umana, e ne costituisca la concreta consape-
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volezza critica. E poiché lo studio dei poeti, e in genere del linguaggio, fa presente un vivo articolarsi espressivo, che insieme traduce e suscita moti reali dell’animo, e attinge la profondità del mondo quale si rivela nei rapporti con l’uomo, attraverso i comportamenti che nell’uomo suscita, ecco che la nuova logica, lungi dal modellarsi sui processi matematici, vuole impiantarsi sui processi effettivi con cui la mente comunica con le menti e intende e interpreta la realtà186 . 186 Op. cit., I, 7: «respondeo tibi, domine Aristotele, etiam si nulla erunt universalia stulta et inepta, ut vere non sunt, tamen artes et scientiae et definitiones tradentur et erunt de singularibus et individuis..., non per naturam propriam et privatam, sed per communem et perpetuam successionem aeternis, nec de omnibus singillatim et seorsum, sed in universum vel universe, hoc est simul et semel acceptis... Vestrum universale fit per fictam illam et vanam, ut vos appellatis, intellectus abstractionem a singularibus... Nostrum vero universum efficitur per comprehensionem et acceptionem omnium cuiusque generis singularium simul et semel, sine ulla intellectus a singularibus abstrahentis ope, sed solo intelligentiae singularia ipsa comprehendentis auxilio... Vestrum universale licet per naturam existat in singularibus, tamquam nubes quaedam in aere pendens, ubi sunt ideae Platonis...; nostrum universum et per naturam est singularibus, et per intellectum non separatur a singularibus, non magis quam populus et exercitus cum intelliguntur a nobis et omnino ipsum nihil aliud est, nisi ipsa singularia simul et semel per intellectum comprehensa et quasi congregata... Vestrum universale vos, non solum ab intellectu solo fieri, sed etiam ab intellectu solo cognosci ac percipi vultis, ab exterioribus vero sensibus nequaquam. Nostrum universum, licet ipsum quoque ab intellectu quodam modo fiat, ita comprehendente, ut dixi, simul omnia singularia, et ab eodem cognoscatur intelligaturque, utpote ab ipso comprehensum, tamen percipitur et usurpatur etiam a sensibus tam esterioribus quam interioribus, si non omnino, at certe magna ex parte». Cfr. III, 7, la definizione di comprehensio: «actio quaedam sive operatio intellectus nostri, qua mens hominis singularia omnia sui cuiusque generis, simul et semel comprehendit, et de eis ita compre-
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4. La retorica e la «civile conversazione» Nella posizione di Nizolio rifluiva tutta l’esperienza dell’umanesimo, e il senso che, se all’uomo conviene il mondo umano, è ancora una logica umana, dell’umana e civile conversazione, quella che bisogna formulare. Ond’è che l’attenzione si rivolge al linguaggio come manifestazione esemplare dell’umanità. Stefano Guazzo, nei suoi dialoghi su La civile conversazione, usciti la prima volta nel 1574, afferma appunto che «la medesima natura ha dato la favella all’uomo, non già perché parli seco medesimo, ...ma perché se ne serva con altri; e voi vedete che di questo istromento ci serviamo in insegnare, in dimandare, in conferire, in negociare, in consigliare, in correggere, in disputare, in giudicare, in isprimere l’affetto dell’animo nostro, co’ quali mezzi vengono gli uomini ad amarsi, e a congiungersi fra loro». Ma la lingua non è solo il tessuto connettivo dell’umana società; è la vivente tradizione del sapere umano, per cui la scienza si realizza e si trasmette: «non si può ricevere alcuna scienza, se non ci è insegnata da altrui...; la conversazione è non solamente giovevole, ma necessaria alla perfezione dell’uomo». Anzi principio e fine d’ogni sapere è proprio questo dialogo umano («il sapere comincia dal conversare e finisce nel conversare»), in cui non solo si mette a prova il nostro sapere («la disputa è il cribro della verità»), ma si sveglia l’anima nostra, e si incita a feconda ricerca. Umanità, anzi, è questo conversare, questo parlare, questo dialogo, che in sé riassume ogni concreto significato della vita spirituale. «Si potrebbe dar l’elleboro al solitario come al pazzo, e qualunque persona avrà riguardo...
hensis artes omnes et scientias tradit ratiocinationes et ceteras argumentationes generales facit».
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all’etimologia della voce uomo, che nella lingua greca, secondo il parere d’alcuni dotti scrittori, significa insieme, s’accorgerà che non si può essere uomo senza conversazione, perché chi non conversa non ha esperienza, chi non ha esperienza non ha giudicio, chi non ha giudicio è poco men che bestia»187 . Sottinteso alla trattazione modesta ma fortunata del Guazzo, menzionata qui quasi come esemplare, è l’altro problema del rapporto fra retorica e filosofia, fra una logica formale e il vario vivente processo per cui la verità s’ingenera e si comunica. Problema che forse nessun trattatista propose e chiari con la lucidità dello Speroni, non a caso uscito dalla scuola del Pomponazzi188 . Nel Dialogo delle lingue lo Speroni si proponeva la questione del latino e del greco, domandandosi se, al posto della logica formale, debba porsi lo studio delle lingue classiche, quasi di per sé sufficiente all’apprendimento del vero («non altramente che se lo spirito d’Aristotele, a guisa di folletto in cristallo, stesse rinchiuso nell’alfabeto di Grecia»). Era, ed egli se ne rendeva ben conto, sostituire al formalismo un altro formalismo. Humanitas aveva significato ritrovamento, attraverso la parola, di un pensiero; e, nei classici, attraverso un’espressione sorvegliatissima e adeguatissima, di un pensiero sommo. La degenerazione degli studia humanitatis aveva portato con sé il grave errore che una lingua potesse aver «da se stessa privilegio di significare i concetti del nostro animo», inducendo nella stolta credenza del latino e del greco esprimenti per sé le strutture logiche del pensiero in forma definitiva. Quello che si era verificato con la logica aristotelica, valida finché viva in un pensiero, ma morta e inutile se 187 STEFANO GUAZZO, La civil conversazione (Venezia, 1586), p. 14. 188 SPERONE SPERONI, Dialoghi, Venezia, 1552, c. 110 sgg.
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considerata come schema fisso e immutabile, tornava ad attuarsi con le lingue antiche, staccate dall’intenzionalità originaria dell’animo ( «ma tutto consiste nell’arbitrio della persona»). Tuttavia se lo Speroni, com’è naturale, difende l’umanità del volgare, sente in pieno il problema della retorica come arte del persuadere di fronte alla logica, come filosofia che possiede la verità e la sua norma. La soluzione più semplice e più comune, e la troviamo nel Tomitano, che l’espose appunto all’accademia degl’Infiammati, presidente lo Speroni, tendeva a mostrare «la filosofia esser necessaria al perfetto oratore e poeta», come quella che doveva trovar la verità, perché poi il retore la potesse presentare «con eleganza», in modo da persuadere, addolcendo di soavi licori gli orli del vaso pieno di farmachi salutari189 . Anche lo Speroni muove da una posizione analoga, riconducendo la retorica entro i limiti di un abbellimento dei termini, fatto allo scopo di rendere più accettabili i concetti («un gentile artificio d’acconciar bene e leggiadramente quelle parole, onde noi uomini significhiamo l’un l’altro i concetti dei nostri cuori»). Onde la retorica sembra ridursi sotto il concetto dell’arte, destinata ad abbellire con scopi educativi la verità. Lo Speroni, così, paragona la retorica alla pittura; «le parole nascono al mondo dalla bocca del volgo, come i colori dalle erbe; ma il grammatico dell’orator famigliare, quasi fante di dipintore, quelle acconcia e polisce, onde il maestro della retorica dipingendo la verità, parli e ori a modo suo». E, tuttavia, come al pittore non basta vedere la natura e la 189 B. TOMITANO, Quattro libri della lingua toscana... ove si prova la filosofia esser necessaria al perfetto oratore e poeta con due libri nuovamente aggiunti di precetti necessari allo scrivere e parlare con eleganza, III ed., Padova, 1570 (nell’ed. veneta del ’46 al secondo libro è aggiunta una notevole parafrasi della Retorica d’Aristotele).
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sua verità, ma conviene «lungamente dimenticarsi» per tradurne l’ineffabile anima, conì il retore deve conoscere «un certo non so che della verità che di continuo ci sta dinanzi»; di quella verità che ci parla e ci vive nel cuore, «sì come cosa, la quale nei nostri animi, naturalmente di saperla desiderosi, sin da principio volle imprimer Domenedio»190 . E qui, evidentemente ricordando la fine del Fedro platonico, lo Speroni fa un passo avanti, attribuendo alla retorica e alla poesia la funzione di svegliar l’anima, suscitando in noi la verità. Non, dunque, abbellimenti del vero, e al vero subordinati e posteriori, ma del vero nunzi e presentimenti, o, meglio, guide e indici della verità stessa nel processo del suo articolato ritrovamento. Ai filosofi, egli osserva, poesia e retorica possono sì sembrare simili alla frutta che si serve alla fine del pranzo, «ma a coloro che già non sono, e son per farsi filosofi, le due arti predette sono i fiori che innanzi ai frutti delle scienze, le menti loro di fruttare desiderose, quasi pianta la primavera, si dilettano di fiorire». La insostituibile funzione della retorica è proprio nell’educare, nell’insegnare, nel trasformare un presentimento in un possesso, nel persuadere e nel formare. «Indarno adunque d’insegnare... non dilettando ci fatichiamo... e dilettando senz’altro – quanta è la forza del compiacere – siamo possenti di persuadere». E solo in questa persuasione, in questo attivo raggiungimento del vero, ottenuto in una calda collaborazione che è l’ideale colloquio, sottinteso eppure immancabile, se la parola è suasiva; solo così riportiamo «la desiata vittoria, non per forza,... ma come grazia a noi fatta dagli ascoltanti... E veramente quello è buono oratore, il qual parlando d’alcuna cosa principalmente, non con la causa trattata, sì 190 S. SPERONI, Dial. 1596, c. 130 sgg).
della Rhettorica (Dialoghi, Ven.
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come fanno i filosofi, ma con l’arbitrio, col nuto, e col piacere degli auditori, tenta e procura di convenire». Senonché, per questa via, se a parole si fanno onori ai filosofi, in realtà si celebrano i rétori, cui non spettano, è vero, le solitarie fisiche contemplazioni, ma rimangono le reali e umane conversazioni civili. Per questo, proponendosi la questione se a capo delle repubbliche umane debbano stare i filosofi o i rétori, lo Speroni non esita. Le leggi delle città terrene «per oneste cagioni, avendo rispetto ai tempi, ai luoghi, alla utilità, alle sue forze e all’altrui, spesse fiate da un dì all’altro mutano forma e sembiante». Le leggi non sono Dee; sono umani prodotti, che vengono trasformati in idoli. Ora il saggio reggitore deve non già conformarsi a una rigida norma universale, ma «ragionevolmente» comprendere ciò che è reale. «Ragione è bene che le nostre repubbliche, non da scienze dimostrative vere e certe per ogni tempo, ma con retoriche opinioni variabili e tramutatili – quali son le opere e le leggi nostre – prudentemente sian governate». Che è poi, condotto a consapevolezza e giustificato, l’appello del Guicciardini al particolare in antitesi con la considerazione del Machiavelli per l’universale, rigidamente necessario. E par di leggere, dei Ricordi, quel celebre avvertimento: «è grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varietà delle circumstanze, in le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzioni ed eccezioni non si trovano scritte in su’ libri, ma bisogna lo insegni la discrezione». 5. La questione della lingua V’era, in questo ricercare il valore della retorica, e nel contrapporla, per la sua aderenza al concreto, alla logica,
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non tanto una condanna della filosofia in genere, quanto una manifesta insoddisfazione di certa scolastica filosofia, unita alla fiducia di raggiungere la realtà umana per altre vie. Né vi sarà da stupire se i più accorti letterati, i figli dei più profondi umanisti, proprio per amor del concreto, andranno, sul piano linguistico, difendendo, non il latino, ma il volgare. Ché la pretesa di mantenersi fermi al latino era in fondo appoggiata all’idea di una norma fissa nell’umana società, che è, invece, moto e sviluppo e vita. I classici, riconducendo all’umanità effettuale, dopo aver grecamente e latinamente insegnato, in nome di quell’insegnamento stesso dovevano indurre a ripudiare il greco e il latino. Come in un testo dello Speroni dice il Pomponazzi, assai più schietto era l’Aristotele riesposto in mantovano da chi ne comprendeva davvero l’ideale intenzione, che non l’Aristotele chiosato in greco da chi non andava oltre la forma estrinseca. Apparente capovolgimento, dunque, in quella difesa del volgare che si andrà allargando nel ’500 tra coloro che avevan tratto vital nutrimento dagli studi delle lettere, e per fedeltà alla schiettezza umana vagheggiata dagli antichi affermavano ora il diritto per gli uomini di esprimersi in modo adeguato al proprio sentire. E se non giova ripercorrere qui la vasta letteratura che, dal Bembo al Caro, al Trissino, al Varchi, al Castelvetro, al Muzio, al Tolomei e agli altri moltissimi, minutamente esaminò nei suoi vari aspetti il problema del volgare, conviene tuttavia menzionare la precisa affermazione del Varchi essere il volgare nuova lingua, che rispetto alla latina «non si dee chiamar corruzione, ma generazione». E le stesse lingue poetiche son barbare finché sono alterazione erronea del latino, ma non più «tanto barbare, quanto per avventura credono alcuni», se si coglie in esse il nascimento di una nuova lingua. Alla scuola degli antichi, cercati polemicamente contro i moderni, si imparava alla fine a rispettare i moder-
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ni e a comprenderne la modernità, il cui significato e le cui conquiste proprio alla luce delle precedenti conquiste trovavano sapore e valore191 . 6. La poetica Vincenzo Maggi, e con lui Bartolomeo Lombardi, commentando la Poetica d’Aristotele, e sostenendo che la poesia è al servizio della morale, non esitarono a ridurre poesia e poetica all’etica192 . I platonici, come il Patrizi, Francesco Piccolomini e, specialmente, Jacopo Mazzoni, affermarono essere la poetica disciplina civile, mentre il Patrizi dichiarava addirittura esser l’opuscolo aristotelico il nono libro della Politica. Gli aristotelici più ortodossi la riconducevano invece alla logica, e sentenziavano col Varchi esser «la dialettica, la loica e la poetica... quasi una medesima cosa, non essendo differenti sostanzialmente ma per accidente». Anzi, essendo la poetica «parte o spezie della loica, nessuno può esser poeta, il quale non sia loico: anzi quanto ciascheduno sarà miglior loico, tanto sarà ancora più eccellente poeta». In entrambi i casi alla poesia si attribuiva un compito strumentale, educativo, morale, ma non certo illuminante. Se il platonismo aveva cercato nel bello una ascesa a Dio, l’aristotelismo vi vede un mezzo di formazione morale o di chiarificazione intellettuale, sussidiaria alla logica, sul piano della retorica. E di questo si deve tener conto nel considerare il largo interesse con cui il ’500 guardò 191 L’Ercolano, dialogo di BENEDETTO VARCHI, dove si ragiona delle lingue e in particolare della toscana e fiorentina con la correzione di LODOVICO CASTELVETROe la Varchina di GIROLAMO MUZIO, Firenze, 1846. 192 In Aristotelis librum de Poetica explanationes, Venetiis, 1560. Gli scritti del Varchi nella cit. ed. delle Opere, vol. II.
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alla Poetica, messa dapprima in circolazione dalla versione latina di Giorgio Valla (1498), ma poi pubblicata nel testo, e di nuovo tradotta in latino e in volgare, e commentata, parafrasata, illustrata dal Pazzi, dal Segni, dal Maggi, dal Vettori, dal Castelvetro, dal Piccolomini, per non parlare delle trattazioni del Vida, del Trissino, del Daniello, del Giraldi, del Muzio, del Varchi, del Minturno, dello Scaligero, del Tasso, e dei moltissimi minori. Se l’ispirazione platonica delle discussioni intorno al bello non si attenuava, l’aristotelismo riconduceva le discussioni estetiche nell’ambito della comunicazione o «conversazione» umana, chiedendosi qual sia l’oggetto della rappresentazione poetica, e quale la funzione pratica del poetare. «Poeta è chi scrive cose finte, e amplia le vere, riducendole alla perfezione della qualità conveniente al suggello preso a manifestare». Così il quasi ignoto Alessandro Sardo; ma non diversamente gli altri trattatisti, per cui poetare è imitare «cioè fingere o rappresentare», come dice il Varchi, «per ammendare e correggere la vita» senza fatica alcuna, ma con «diletto grandissimo». E per giungere a quella tal rappresentazione converrà che il poeta conosca un po’ tutto, e sia scienziato prima che poeta; «è di mestieri al poeta... d’aver cognizione dell’arti e delle scienze..., e geografo e astrologo o teologo e d’ogni altra scienza bene intendente dimostrarsi». Così Bernardo Tasso per cui l’artista deve essere còlto in tutto, e di tutto avere esperienza, per potere poi «tutte quelle ricchezze... con lucidissimo ordine e con vaghe parole accomodare a’ luoghi loro»; e questo allo scopo di adornare la mente degli uomini d’ottimi costumi193 . 193 SARDO, Discorsi, p. 76; VARCHI Della poetica, Opere II, 685; BERNARDO TASSO, Ragionamento della poesia, in Opuscoli inediti o rasi di classici o approvati scrittori, tomo I, Firenze, 1845, p. 174.
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Le quali conclusioni garbatamente esponeva, traendole «dall’erudito Robortello, dal nostro giudiziosissimo messer Vincenzo Magi, e dall’eccellente messer Pier Vittorio». Senonché proprio qui s’inserivano i maggiori problemi; non basta ripetere, come fanno un po’ tutti, che essenza della poesia, e dell’arte in genere, è «fingere o rappresentare» la realtà mescolando il vero col fittizio («addit ficta veris, aut ficta veris imitatur», dice lo Scaligero). Non basta concludere sentenziosamente imitatur ut doceat; si tratta di cogliere il modo di quella poetica imitazione, che è, innanzitutto, un fabbricare apparente, che produce immagini di cose non come sono, ma come potrebbero e dovrebbero essere, con lo scopo di dilettare, insieme, e di educare194 . Che è l’elaborata conclusione cui lo Scaligero giunse dopo le dissertazioni dei Capriano, dei Leonardi, dei Minturno, e, specialmente, dell’acuto Castelvetro, intorno al tormentatissimo parallelo fra poesia e storia, e alla natura specifica della imitazione poetica. Qual è, infatti, l’oggetto imitato? Non raro è l’appello al classico esempio di Zeusi che trasse l’immagine di una bellissima fanciulla dalla vista di più modelli racchiudenti ciascuno una perfezione singola. Vi insiste, fra gli altri, Giulio Cammillo, che nel Discorso sopra Hermogene, pubblicato dal Patrizi e lodato 194 JULII CAESARIS SCALIGERI Poetices libri septem, Apud Petrum Santandreanum. 1594, p. 2: «differunt autem (Historia et Poesis), quod alterius fides certa verum et profitetur et prodit, simpliciore filo texens orationem, altera aut addit ficta veris, aut fictis vera imitatur, maiore sane apparatu... Hanc autem Poesim appellarunt, propterea quod, non solum redderet vocibus res ipsas quae essent, verum etiam quae non essent, quasi essent, et quo modo esse vel possent, vel deberent, repraesentaret. Quamobrem tota in imitatione sita fuit. Hic enim finis est medium ad illum ultimum, qui est docendi cum delectatione». Cfr. B. WEINBERG, Scaliger versus Aristotle on Poetics, «Mod. Philol.», 1942, pp. 337-60.
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dal Tasso, si riferisce come a carattere proprio dell’imitazione poetica all’unità realizzata attraverso la sintesi ultima, in un’unica forma, di molti aspetti particolari. Il poeta, insomma, organizza i dati singoli in modo da dare, non un mucchio di elementi, ma un’unità vivente, un organismo; come osserva il Giraldi Cintio, «mi pare che si possano assomigliare i corpi de’ poemi alla compositura del corpo umano»195 . Ma che il ’500 veda l’imitazione poetica come tentativo di rappresentar la vita vivente della realtà, è stato spesso osservato. Ciò che più importa è il notare come la discussione non si fermi qui, ma si voglia render ragione più a fondo della differenza fra il puro e semplice ritrarre ciò che è, e l’opera poetica, che oltrepassa, non solo la fedeltà storica, ma la realtà stessa qual è. Nell’esempio di Zeusi è implicito il concetto che l’arte esprime sensibilmente, in una sua creatura visibile, ciò che è quasi disperso e diffuso nei molti («colui che imita un perfetto, imita la perfezion di mille raunata in uno»). Ma proprio questo concretare in un’immagine singola il tutto, sembra insieme far vivere in una sola realtà tutta la vita, esaltando oltre il consueto una individua singola creatura. Onde necessario all’arte sembra il continuo trascorrere «tutti li sensi favolosi, come di Saturno, de’ Titani, de’ Giganti, e Centauri, e Sirene, e Tritoni, e Lestrigoni, e Ciclopi, e Perseo. Dir cose che eccedano la natura dell’uomo, ma mostruosamente... Dir che cose inanimate servano agli Iddii con alcuno senso... Dir universalmente e mostruosamente le cose impossibili e incredibili...». Ma, di continuo, conviene trapassare di nuovo dal divino nel concretissimo ( «sottilmente narrar le cose particolarmente»), e calare il divino, l’assoluto ( «non parer dir da se stessi quelle cose che si dicono, 195 Opere di M. GIULIO CAMMILLO, Venezia, 1560, vol. II, p. III; G. B. GIRALDI CINTIO, Scritti estetici, 1864, vol. I, p. 20.
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ma... far che l’orazione paia propria degli dei») per entro quanto v’è di più simile e determinato («nell’istoria ciò renderebbe bassezza»)196 . 7. Il «Naugerius» di Girolamo Fracastoro Se l’esame dei concetti aristotelici dell’imitazione, come fondamento dell’attività poetica, e del verosimile come suo oggetto, tendeva a precisare i caratteri dell’arte come forma dell’umana produzione, il vecchio lievito platonico agiva col motivo della bellezza liberatrice, espressione sensibile della bontà, elevazione dell’anima a Dio. È ben difficile, non dirò opporre, ma anche solo chiaramente distinguere un tema aristotelico da uno schiettamente platonico, sol che si vada oltre la precettistica, o l’insieme di osservazioni singolari. Come l’imitazione ci rimanda a ciò che, di là dall’apparenza, è forma universale fatta sensibile, valore eterno sensibilizzato, fatto visibile, così la funzione liberatrice dell’arte ci riconduce entro l’ambito dell’eros come spinta verso il divino. Bernardo Tasso, dopo avere esaltato la felicità del suo secolo per aver finalmente scoperto «la Poetica di quel famosissimo Filosofo, la quale con tanto ordine e sì particolarmente insegna l’arte del poetare», conclude poi, citando Platone, che «il fine della Poesia non è altro che, imitando le umane azioni, con la piacevolezza delle favole, con la soavità delle parole in bellissimo ordine congiunte, con l’armonia del verso, gli umani animi di buoni e gentili costumi e di varie virtù adornare». Dal quale moralismo e pedagogismo non era poi difficile trapassare nel platonismo di Torquato Tasso che mette in bocca al Minturno, nel dialogo a lui intitolato, formule degne del196
GIULIO CAMMILLO, Opere, II, p. 119 (Cfr. I, p.
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la più rigida ortodossia ficiniana. Infatti, dopo aver prospettato la tesi secondo cui la bellezza sarebbe «una vittoria che la forma riporta della materia», o, meglio, «un sembiante, ovvero una immagine del bene», viene escludendo dal concetto stesso di bellezza ogni contaminazione di materia. «Laonde io mi meraviglio del Nifo e degli altri Peripatetici, che riposero la bellezza nella materia, perch’ella è per sua natura brutta e deforme oltremodo, anzi è la bruttezza istessa: laonde il bello ai troverebbe nel brutto, quasi in proprio soggetto: il che mi pare molto sconvenevole, perché il bello dee germogliar nel bello, quasi fiore in fiore». E così la bellezza sembra sfuggire ogni umano contatto e «non patisce d’esser descritta, o circoscritta dal luogo, dal tempo, dalla materia, o dalle parole»197 . Naturalmente il Tasso non si tenne fermo a questa posizione estrema, ma venne mitigandola nell’asserzio197 BERNARDO TASSO, loc. cit., pp. 174, 179; TORQUATO TASSO, Il Minturno ovvero della bellezza (Prose filosofiche, Firenze, 1847, 413). Cfr. nei Discorsi sul Poema Eroico: (disc. II,. Venezia, 1587, c. 10 r). «Scelta ch’avrà il Poeta materia per se stessa capace d’ogni perfezione, li rimane l’altra assai più difficile fatica, che è di darle forma e disposizione poetica, intorno al quale officio, come intorno a proprio soggetto quasi tutta la virtù dell’arte si manifesta. Ma però che quello che principalmente costituisce e determina la natura della Poesia, e la fa dall’Istoria differente, è il considerar le cose non come sono state, ma in quella guisa che dovrebbono essere state avendo riguardo piuttosto al verisimile in universale che alla verità dei particolari, prima d’ogn’altra cosa deve il Poeta avvertire se nella materia ch’egli prende a trattare v’è avvenimento alcuno il quale altrimente essendo successo o più del verisimile, o più del mirabile o per qualsivoglia altra cagione portasse maggior diletto e tutti i successi che sì fatti trovarà, cioè che meglio in un altro modo potessero essere avvenuti senza rispetto alcuno di vero o di Istoria, a sua voglia muti e rimuti e riduca gli accidenti delle cose a quel modo ch’egli giudica migliore col vero alterato il tutto finto accompagnando».
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ne che bellezza è armonia de’ dissimili («proporzione e misura delle cose che hanno parti dissimili»), segno imperfetto di un’unità increata ch’è oltre la bellezza («Dio... non è bello né perfetto perché non è fatto»). Ma colui che meglio d’ogni altro riuscì ad armonizzare il tema dell’imitazione aristotelica con i più fini motivi platonici fu il Fracastoro nel suo Naugerius sive de Poetica dialogus, ov’è chiaramente detto che il poeta imita, non la cosa, ma l’idea, e che così facendo non fa che realizzare nel modo più pieno e più perfetto la cosa medesima nella sua compiuta realtà. In genere, tutta la trattatistica aveva inteso l’arte o, platonicamente, come invito ad evadere verso i cieli dell’idea, o, in modo più aderente allo spirito mondano dell’aristotelismo, come formazione umana, e, soprattutto, come dilettosa forma d’educazione. Per Fracastoro, se pur sono innegabili le risonanze educatrici dell’arte, la poesia trova in se stessa il proprio fine e la propria misura. E di qualunque argomento essa tratti o discuta, ne discute e ne tratta sempre in quanto poesia, poeticamente, secondo quel suo peculiar modo ond’è, appunto, poesia. Per questo, neppure è lecito porre una qualsiasi materia come peculiare del poeta; omnis materia poetae convenit. Ma, se mai, sarà propria del poeta l’arte di ben dire, di esprimere, cioè, l’idea rivestendola di bellezza (idea simplex, pulchritudine vestita), realizzandola a pieno nella sua libertà d’espressione, e nella completezza del suo significato (liberam et in universum pulchram). Il poeta non finge e non falsifica; è colui che vede ed esprime l’idea nella sua visibile bellezza. Proprio nella precisione sistematica, con cui riprende, e quasi conclude e concilia tesi varie e contrastanti, sta la radice del successo del dialogo fracastoriano. Ove si parte dalla natural tendenza dell’uomo a imitare e a cantare (natura insitum canere, et musica quadam agi), per definir la poesia, al di fuori dei suoi effetti (piacere, inse-
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gnamento, meraviglia), e dei suoi contenuti, in funzione esclusiva del suo raggiungimento dell’universale198 . Universalità che, per Fracastoro, è, insieme, libertà199 . 198 Naugerius (H. FRACASTORII Opera omnia, Venetiis, 1584), c. 115-116: «alii singulare ipsum considerant, poeta vero universale, quasi alii similes sint illi pictori, qui vuitus et reliqua membra imitatur, qualia prorsus in re sunt, poeta vero illi assimiletur qui non hunc, non illum vult unitari, non uti forte sunt, et defectus multos sustinent, sed, universalem et pulcherrimam ideam Artificis sui contemplatus, res facit, quales esse deceret. Quippe omnes, quibus bene dicendi facultas tributa est, bene quidem atque apposite dicunt, quantum cuique convenit. Sed inter illos hoc interest, quod, praeter poetam, nullus simpliciter bene atque apposite dicit, sed in genere suo tantum et quantum attinet ad constitutum sibi finem, hic quidem docendi, ille persuadendi, et siquis eiusmodi finis est. Poeta vero per se, nullo alio... fine, nisi simpliciter bene dicendi circa unumquodque propositum sibi...». 199 «Vult quidem, et ipse, et docere et persuadere et de aliis loqui, sed non quantum expedit, et satis est ad explicandam rem, tamquam adstrictus eo fine, verum ideam sibi aliam faciens liberam et in universum pulchrum, dicendi omnes ornatus, omnes pulchritudines quaeret, quae illi rei attribui possunt.» «Non ...rem nudam, uti est, ...sed simplicem ideam, pulchritudinibus suis vestitam, quod universale Aristoteles vocat...» Interessante, in una lettera al Ramusio, l’allusione ai commentatori della Poetica (Lettere di XIII huomini illustri, pp. 738-39): «quanto mi scrivete del commento d’Averroè sopra la Poetica, io non l’ho mai veduto, né curato di vedere, perché non ci può essere cosa se non da ridere, eccetto s’egli non citasse qualche commentator Greco, onde si potesse cavar qualch’utile. Quello del Robortello io non ho veduto, similmente, né quello del Maggio bresciano, che intendo ha fatto favor grande al nostro povero M. Bartolomeo Lombardo, attribuendogli tanto».
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RICERCHE MORALI
1. Moralità e «modi civili» Uno dei testi classici della trattatistica cinquecentesca, il Galateo di Monsignor Giovanni Della Casa, ove si vien formando un giovane a ben vivere «nella comune conversazione», si apre con una serie di rilievi veramente interessanti. L’uomo non è chiamato in ogni momento della sua vita a cimentarsi nei più tragici conflitti, né deve ad ogni istante dar prova delle sue più alte virtù. La vita d’ogni giorno non ci vede combattenti contro tigri circasse o leoni africani, ma contro fastidiosissime mosche e zanzare dei nostri paesi. «La giustizia, la fortezza, e le altre virtù più nobili e maggiori, si pongono in opera più di rado, né il largo e il magnanimo è astretto di operare ad ogni ora magnificamente; anzi non è chi possa ciò fare in alcun modo molto spesso, e gli animosi uomini e sicuri similmente rade volte sono costretti a dimostrare il valore e la virtù loro con opera». Ma se la virtù nelle sue forme eroiche è dei giorni di festa, ai giorni comuni appartiene invece la convivenza operosa con gli uomini, «e la convenevolezza de’ modi, e delle maniere, e delle parole, giovano non meno a’ possessori di esse che la grandezza dell’animo, e la sicurezza altresì, a’ loro possessori non fanno». I «modi» son quelli che più ci congiungono ai nostri simili; e se peccare contro questa «conversazione» non è, certo, peccato mortale, tuttavia la natura subito ci punisce con somma gravezza, «privandoci, per questa cagione, del consorzio e della benivolenza degli uomini». Su una distinzione fra doti del costume e virtù morale, fra socialità e moralità, il Della Casa impianta gran parte della sua trattazione, in cui, per altro, tutta la moralità
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viene veramente vivendo e distendendosi in quell’umano costume, «che a chiunque si dispone di vivere, non per le solitudini o ne’ romitori, ma nella città e tra gli uomini», serve come base fondamentale per ogni attività seriamente valida. E in quel costume prende corpo e concretezza la virtù, facendosi, da solitaria esercitazione, vita concreta200 . Non diversamente, del resto, da quanto ci induce a concludere una lettera che nel ’49, sempre il Della Casa, indirizzava ad Annibale Rucellai a proposito dell’eloquenza. La quale, veramente, trasforma la lettera morta in vivo spirito, e della scienza, e perfino della massima evangelica, fa persuasione operante. «Il Vangelo c’insegna, che noi amiamo il prossimo; ma il predicatore, s’egli è buono oratore, ci sforza a ire a trovare il nostro nimico, ed abbracciarlo». L’opera è maturata, non dal sapere freddo, ma dal calore di un contatto umano; «quello che io non fo... leggendo la Scrittura, e poi fo udendo la predica, è tutto opera e frutto dell’eloquenza», la quale è arte di consentire, di comunicare, di convenire, ed è "«differente dalla dottrina e dalla erudizione». Di qui una moralità che è, soprattutto, sincerità di rapporti fra uomini e, insieme, pienezza di educazione di uomini; che è, insomma, disciplina, come nel Cortegiano definiva il Castiglione. Per il quale ogni uomo, ha, senza dubbio «incluso e sepolto nell’anima» il seme delle virtù morali; ma v’è necessità del «bono agricultore», che coltivi ed apra la via a quei semi; v’è necessità «della artificiosa consuetudine», la quale trasformi l’uomo e lo faccia veramente umano. E questo, non già estirpando 200 DELLA CASA, Galateo, p. 4-6; Lettere, p. 75 (Sul Della Casa cfr. L. CARETTI, Giovanni della Casa, uomo politico e scrittore, nel vol. Filologia e critica, Milano-Napoli, 1955, pp. 63-80).
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gli affetti, come voglion di Stoici, ma armonizzandoli per entro una misura201 . Tutto il Cortegiano, col suo spirito inconfondibile, è in questa valutazione della passione umana, che va temperata, non strappata. Agostino Nifo, nel suo opuscolo De principe (Libellus de his quae ab optimis principibus agenda sunt, uscito in Firenze nel 1521), osservava appunto che temperante è, non chi non desidera, ma chi debitamente desidera («qui quae debet, et ut debet, et quando debet, concupiscit»). Si capisce così, che fondamentale rimanesse il problema della educazione; e cioè del trarre a compimento i semi latenti di virtù, «levando... le spine e ’l loglio», finché maturino felici frutti. Né a caso le due opere ora menzionate, insigni nella produzione del secolo, sono indirizzate entrambe a formare l’uomo «civile»202 . Ed uno dei più prolissi chiosatori della Nicomachea, Felice Figliucci, che pubblicò proprio a mezzo il ’500 il suo vasto e fortunato libro Della filosofia morale, ov’è pur tanto platonismo, insisteva sulla necessità che, «prima che alla contemplazione e speculazione ci mettiamo», si conoscano bene le nostre passioni ed affetti per renderli «mitigati e composti». Solo in questo equilibrio armonico della vita emotiva «l’animo nostro al tutto preparato e disposto rendiaCASTIGLIONE, Il Cortegiano, I, 14. Rientra in certo modo in questa linea L’Anassarcho del Lapino (Frosino Lapini), o vero Trattato de’ Costumi, o modi che si debbono tenere, o schifare nel dare opera agli studij. Discorso utilissimo ad ogni virtuoso e nobile scolare, Firenze, 1571 (cfr. p. 74: «non per altro son dati i Precettori a’ discepoli, che per iscoprire e migliorare con l’arte quel che la natura, come suo più caro dono, dentro a l’uomo ha occultato e racchiuso...»). Del Lapini, il biografo del Diacceto, vedi anche le Stanze sopra la dignità dell’huomo, Firenze, 1566 e una Lezione del fine della poesia, Firenze, 1567. 201
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mo a ricevere in sé il seme che la contemplazione vi sparge». Né ci inganni troppo, anche nel Figliucci, la conclamata superiorità del contemplare, somma attività dell’intelletto, ma, appunto per questo, riserbata agli angeli e agli spiriti puri, «dove le azioni e le opere morali e virtuose sono proprie dell’uomo»203 . 2. La «institution» dell’uomo Uomo significa – insiste Alessandro Piccolomini – un «animale civile e comunicativo». Di questo dobbiamo occuparci, e questo, appunto, dobbiamo formare. Che se anche fosse possibile che un uomo, materialmente parlando, potesse viver solo, e da solo soddisfare ai propri bisogni, non uomo sarebbe, ma «di ferro e di marmo», se non comunicasse con i suoi simili. In terra, solo attraverso la comunicazione umana l’uomo si solleva verso Dio, e giunge alla felicità; «dilettevolissima... è la communicanza e la natural benevolenzia..., conciosiacosa che... per il mezzo di questa umana benevolenzia l’uomo all’uomo, beneficandosi insieme e aiutandosi, simile si rende a Dio». L’aristotelico Piccolomini, non solo pone l’indiamento nell’azione comune, ma la scienza stessa e la contemplazione connette in modo indissolubile con la sua condizione «civile, amicabile, benefica, conversativa». Poiché l’uomo è parola; poiché unico fra gli animali emette non voci e grida, ma parole e discorsi, con cui non soltanto formula agli altri i suoi pensieri e ritrovati, ma li perfeziona, collaborando, in un modo che al solitario sarebbe precluso. Con molta chiarezza il Piccolomini insiste 203 FELICE FIGLIUCCI, Della filosofia morale libri dieci sopra i dieci libri dell’Etica d’Aristotele, Venezia, 1552, cc. 3-5.
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su questa continuità della formazione del genere umano, e di un sapere scientifico, che solo una tradizione di sforzi collettivi può costituire. «Perché all’uomo... più oltre conviene che al diletto e dolor del senso solo rispetto avere, non bastandogli la voce sola per quello che trattar doveva, [la natura] gli volse dar la favella con la quale i varii pensieri e le diverse invenzioni, che intorno alle scienzie e alle operazioni utili e virtuose con la ragione forma nella mente dentro, potesse, communicando il tutto con la favella, far si che, soccorrendosi gli uomini ed aiutandosi e supplendo l’uno a quel che comincia l’altro, riducessero a perfezione le scienze e le virtù; dalle quali due cose depende il lor sommo bene e la felicità loro». Chi, fuori dalla conversazione umana, si ritiri sui monti o nelle selve, «per pazzia o... mala fortuna», se ancora abbia volto d’uomo, si ridurrà a discorrere «con gli sterpi e co’ sassi». Ma già sarà decaduto dalla sua natura, perché il «solitario, veramente piuttosto fiera che uomo si dee stimare», avendo bisogno l’uomo, «per commodo e per ornamento della sua vita», di cose che «senza l’aiuto d’altri non può avere». Il Piccolomini, appunto perciò, batte sui due motivi della educazione perenne ( «educa... ed è educato») e della vita civile, della città, «la qual tutte l’altre communicanze, amicizie e parentele abbraccia, e circonda; per la cui salute ha da por l’uomo le sostanzie, gli amici, i parenti, e ’l sangue proprio s’ella bisogno n’avrà mai». Nasce così, intorno al ’40, quella Instituzione dell’uomo nobile, nato in città libera, che, più volte largamente rimaneggiata, ebbe larga fortuna e diffusione per tutto il secolo. Opera, com’egli si compiaceva di dire, economica e politica, oltreché morale, che cominciava dal considerare la città «libera», e nella vita civile tendeva a risolvere, come strumenti, tutte le scienze e le arti. Delle quali lo vediamo introdur via via la trattazione, proprio e solo in funzione di quella società che, unica, è capace di da-
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re all’uomo la felicità. «Uomini, non angeli siamo», egli insiste, e «divina cosa è lo speculare», né «a noi proprio, mentre che uomini siamo». «Laonde è cosa degna di maraviglia che tanti signori degli Studii d’Italia con ogni diligenzia s’ingegnino, che i desiderosi delle lettere abbiano occasione di farsi dotti nelle scienze fisice, matematice e metafisice», tralasciando invece le «onoratissime scienze donde s’impari l’arte del vivere, cioè la via delle virtù e de’ buoni costumi, che ci guidino alla felicità che ci potria far beati». Né il Piccolomini esita a capovolgere la tesi degli aristotelici: cittadini del cielo non ci fa la speculazione fisica, ma una concreta moralità terrena. La scienza della natura non fa che sopravalutare il corpo rispetto all’interiorità, né ci avvicina, anzi ci allontana, da quell’intuizione suprema che attende i beati. «Essendo composti noi d’una parte che poco vale e presto manca, e d’un’altra ch’è degna molto e sempre dura, per la salute di quella prima, senza perdonare a spesa e fatica, in favore della medicina... se ne vergan le carte, e ne rimbombano ad ogni or le scuole; e per la cura e salute dell’altra poi non è chi pensi di far parola, se già dir non volessimo che alla cura delle menti nostre attendano coloro che, per gli studi d’Italia, con la misura del giusto interpretando le leggi, fanno altrui conoscere la mente dei Legislatori». Né deve credersi perciò che il Piccolomini sia fanatico sostenitore di una educazione grammaticale, ché anzi, molto lucidamente, osserva come i greci, modelli a noi di umanità, non se la formassero affatto attraverso lo studio delle lingue. E altra cosa son gli studi grammaticali e linguistici, altra quelli umani, quali gli studi storici e poetici, attraverso cui, solamente, può il giovane arrivare alle scienze utili per la vita civile. La storia, infatti, «quasi uno specchio della vita», ci permette di vivere «col pericolo e nelle spese di coloro che sono viventi innanzi». Ed i poeti, «se prudentemente saran dichiarati, maravi-
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glioso frutto a’ fanciulli, quanto a’ costumi, apporteranno come soleva tra i Greci Omero». Poiché Omero e la sua poesia, e non la lingua greca come tale; e Virgilio ed Orazio, e non la grammatica latina, costituiscono quegli studi letterari che sono vera scuola di umanità204 . In una delle varie edizioni dell’opera sua il Piccolomini prometteva di trattar l’argomento insieme «peripateticamente et platonicamente». In realtà, non solo rimaneva fedele al peripatetismo, ma andava svincolandosi anche da quanto di ascetismo platonico rimaneva nella Nicomachea, a quel modo, del resto, che il Mureto incentrava la sua attenzione su quel libro quinto della giustizia che, in particolare, prendeva a commentare. E lo stesso Francesco Piccolomini, autore di una prolissa trattazione morale, la Universa philosophia de moribus, di intonazione platonica, in un suo Compendio della scienza civile, «regola dell’umana vita, legge delle nostre azioni, fida scorta nel periglioso sentiero di questo corso mortale, ed insomma sicura strada per ritornare alla patria celeste», distingueva e raccomandava una «virtù civile», adatta a 204 ALESSANDRO PICCOLOMINI, Della Institution morale libri XII. Ne’ quali egli levando le cose soverchie, e aggiungendo molte importanti, ha emendato, e a miglior forma, e ordine ridotto tutto quello, che già scrisse in sua giovinezza delle Institution dell’uomo nobile. In Venetia, 1582. (La prima ed., Venetiis, 1543, aveva il curioso titolo: De la institution di tutta la vita de l’huomo, nato nobile e in città libera. Libri X. In lingua toscana, dove e Peripateticamente e Platonicamente, intorno a le cose de l’Ethica, Iconomica, e parte de la Politica, è raccolta la somma di quanto principalmente può concorrere a la perfetta e felice vita di quello. Composti dal S. Alessandro Piccolomini, a beneficio del Nobilissimo Fanciullino Alessandro Colombina, pochi giorni innanzi nato, figlio de la Immortale Mad. Laudomia Forteguerri. Al quale, (havendolo egli sostenuto a battesimo) secondo l’usanza dei compari: dei detti libri fa dono.
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realizzare in terra il fine umano, di fronte alla virtù eroica, che, appunto, appartiene soltanto agli «eroi»205 . 3. Influenze aristoteliche e commenti alla «Nicomachea» In Roma, il 16 dicembre del 1563, Marco Antonio Mureto pronunciava una orazione de moralis philosophiae laudibus, in cui, appunto, citava dalla Repubblica il luogo famoso – «nobilissimam vocem, tamquam ex oraculo» – in cui si dice che gli Stati saranno felici solo il giorno in cui, o i capi saranno filosofi, o i filosofi diverranno sovrani. E soggiunge, commentando, che la vera filosofia non consiste nella logica e nella fisica (in disserendi subtilitate, aut in pervestigandis rerum naturalium causis), ma nella morale e nella politica, nel procacciare cioè la felicità agli uomini (beatas respublicas efficere). A questo fine, tuttavia, l’indagine morale amava trarre ispirazione, piuttosto che dal platonismo, da Aristotele, dei cui scritti etici si moltiplicano i commenti e le imitazioni. E nel ’50 Bernardo Segni, offrendo al granduca Cosimo de’ Medici la sua versione in volgare della Nicomachea con un vasto commento, tratto in gran parte da quello latino dell’Acciaiuoli, additava nella classica trattazione il migliore strumento possibile per l’educazione degli uomini. Soggiungeva, anzi, che, poiché la speculazione pura è «nell’uomo, non come in uomo, ma come in chi vive di vita più che da uomo», convien ragionare piuttosto della vita «attiva, come di quella in che s’abbia più parte». 205 FRANCESCO PICCOLOMINI, Breve discorso della istituzione di un principe e compendio della scienza civile, a cura di Sante Pieralisi, Roma, 1858; Universa philosophia de moribus, Venetiis, 1594 (è la II ed.; la prima è del 1583. Il commento del Mureto nella raccolta cit., pp. 103-117; la sua versione, del ’65, pp. 371-410).
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Tuttavia chi vada scorrendo chiose e commenti, da quelli del Nifo, o dello Javelli, a quelli del Figliucci o dello Scaino, per non dir d’altri molti; chi riprenda vaste e massicce compilazioni come quella del Brucioli, ben di rado incontra qualche accento nuovo. Dei più famosi, come del Pomponazzi, del Nifo o del Porzio, si trovano, se mai, interessanti riflessi, che traversano la letteratura moralistica in genere di tutto il secolo206 . Così derivano dall’insegnamento del rumoroso filosofo di Sessa i Ragionamenti sull’etica d’Aristotele, di Galeazzo Florimonte, che non è poi che il Galateo del Della Casa207 . E sono dialoghi in volgare, garbati e piani, ma tutt’altro che originali, se non, forse, per talune inserzioni di temi teologici e di motivi agostiniani. Il Nifo ritro206 La traduzione italiana del Segni, più volte ristampata, uscì a Venezia nel 1550. Nel ’47 a Firenze, era uscita una traduzione latina di Pier Vettori. Di A. SCAINO, cfr. L’etica d’Aristotele ridotta in modo di parafrasi con varie annotazioni e diversi dubbi, Roma, 1574 (del 78 è la Politica). I Dialoghi della naturale e morale filosofia del Brucioli, di cui s’è detto, uscirono in Venezia nel 1544. Del ’47, sempre pubblicata in Venezia, è la versione della Politica (Gli otto libri della repubblica che chiamano Politica d’A.), dedicata a Piero Strozzi. 207 Ragionamento di Mons. GALEAZZO FLORIMONTE, vescovo di Sessa, sopra l’Ethica d’Aristotile, Venezia, 1567. La prima edizione, del ’54 fu rifiutata dall’autore, per essere stata pubblicata manchevole, senza suo consenso («di che io non poco mi dolsi»). Così parla delle trattazioni in volgare: «non già... che io speri qualche gran lode d’un’opera così priva d’ogni ornamento... alla quale, se io avessi saputo che il Signor Alessandro Piccolomini, o il Figliucci, o alcun altro gentile spirito avessero questa medesima materia trattato nella lingua nostra, non avrei posto mano...». In realtà, ed è interessante sottolinearlo, la prima edizione si presentava come fedele riproduzione del pensiero morale del Nifo: Ragionamenti di M. AGOSTINO DA SESSA, con l’illustriss. S. Principe di Salerno sopra l’Ethica d’Aristotile raccolti dal Rev. Mons. Galeazzo Florimontio..., Parma, 1562.
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viamo ancora, e non a caso, a discorrere del piacere in due dialoghi del Tasso (Il Gonzaga ovvero del piacer onesto; Il Nifo ovvero del piacere, ch’è un rimaneggiamento del primo), ov’è ben ritratto il temperamento tutt’altro che ascetico del Sessano. Sempre il Tasso intitolava al Porzio, «il migliore, più famoso filosofo, non solo di Napoli, ma d’Italia tutta», il dialogo Delle virtù. Simone Porzio, scolaro del Pomponazzi, aveva a più riprese discusso questioni legate all’etica, e nel De dolore, del 1551, ov’è sostenuta la natura non corporea, ma spirituale del dolore, e nelle dissertazioni sulla libertà, di cui ci resta l’opuscolo «se l’uomo diventa buono o cattivo volontariamente», che, sempre nel ’51, uscì contemporaneamente nell’originale latino e nella versione di Giovan Battista Gelli, calzolaio fiorentino, dantista e filosofo e arguto scrittore, del Porzio amicissimo. Ma là dove il Porzio non si slegava dalla posizione d’Alessandro d’Afrodisia, il Gelli in garbatissimo modo riprendeva i temi dell’umanesimo quattrocentesco quando, subito nella dedica della Circe affermava esser solo l’uomo capace di «eleggersi per se stesso uno stato e un fine suo; e camminando per quel sentiero che maggiormente gli aggrada, guidare piuttosto secondo lo arbitrio della propria volontà, che secondo la inclinazion della natura, come più gli piace, liberamente la vita sua». Prometeo e camaleonte, l’uomo; ond’è trasparente la favola di Circe, e ricca d’insegnamenti la conclusione cui giungono, per esempio, la talpa e l’ostrica: esser più felice la condizione loro della condizione umana, perché priva d’inquietudine e lieta della propria perfezione («essendo io perfetta in questa mia specie, e vivendomi senza un pensiero al mondo, io mi ci voglio stare»). Ché tutta l’umana dignità e perfezione è in uno scontento perenne, in uno squilibrio, in una imperfezione saputa e sofferta («stato pieno di tanti affanni e di tante miserie»); in un perenne bisogno, in un continuo decade-
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re nel tempo, e trovar limiti reali e fittizi; «poca sicurtà, ...nell’animo, delle cose presenti, paura... e cura delle future, sospetto... di quei della sua specie con i quali egli è forzato conversare continuamente, timore e... rispetto delle leggi». Solo l’elefante comprende che la grandezza dell’uomo consiste nella sua sofferenza, che è la sua libertà. «Perché tutte l’altre creature hanno avuto una certa legge, per la quale elle non possono conseguire altro fine che quello che è stato ordinato loro dalla natura, né possono uscire in modo alcuno di que’ termini che ella ha assegnato loro. E l’uomo per avere questa volontà libera, può acquistarne uno più degno, e uno manco degno, come pare a lui, o inchinandosi inverso quelle cose che sono inferiori a lui, o rivolgendosi verso quelle, che gli sono superiori». Ma appunto perché comprende il discorso d’Ulisse, l’elefante diviene uomo. Di questa condizione umana, ambigua, sofferente eppur nobile per il legame terreno, son pieni anche i Capricci del bottaio, ove si insinua continuamente lo spirito dell’ascetismo platonico, «perché e’ non sono beni... questi beni mondani»208 . Nella Circe, anzi, v’è un interessante cenno al danaro, utile strumento, fattosi poi, per l’avarizia, fonte di schiavitù e sofferenze umane209 . Nei Marmi 208 S IMONIS P ORTII De dolore, Flor. 1551. G. B. GELLI, La Circe, I Capricci del Bottaio ecc., Milano, 1878. Una «urbana e modesta» riflessione morale, tratta dalla tradizione medievale del Panciatantra, ritroviamo nella Prima veste dei discorsi degli animali del Firenzuola («la filosofia apparisce più bella con mansueto aspetto, puro e semplice abito, che coll’orrido supercilio coperto da qualsivoglia cappello; e... chi per parer savio si mostra in volto torbido e collerico, il più delle volte ha l’intelletto così rozzo come egli dimostra nel sembiante»); e così pure ne La filosofia morale di G. B. Doni (nuova ed., Ferrara, 1610). 209 Circe. ed. cit., p. 67: «furono da voi ritrovate le città, dove poi poteste, abitando comodamente insieme, provvedere
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il Doni, mentre insiste sull’infinita miseria del possesso, nell’inquietudine umana vede, non segno di gloria, ma condanna. Anche all’uomo era stata assegnata una sorte, quella d’Adamo in paradiso. L’uomo, peccando, è decaduto nel regno del tempo e della morte, dell’apparire vano. «Il tempo e la morte son signori del tutto. Ultimamente, non ci trovo altro al mondo che opinione: l’uomo si ficca una fantasia maledetta nel capo e va dietro a quella, pascendosi tanto che finisce i suoi giorni; oggi si conturba tutto per la roba, domani s’adira per la dignità, l’altro si cruccia per i figlioli, tal ora muor di doglia e spesso crepa d’allegrezza; così ogni dì, ogn’ora muta voglia, faccenda e stato»210 . 4. Vita attiva e contemplativa Non altrettanto brio troviamo nei dialoghi del Tasso, ove i temi d’obbligo ritornan tutti, ma senza originalità vera. Più gioverebbe, forse, ricercare le osservazioni sparse dal Varchi in certe sue lezioni sull’invidia e la gelosia , o magari le raccolte di lettere, che sono talora trattatelli
a’ bisogni l’un dell’altro. E acciocché voi conseguiste meglio questo fine, non avendo sempre bisogno uno di quelle cose che ha colui che ha bisogno delle sue, voi trovaste ancora il danaro, mezzo certamente bellissimo, e molto accommodato per la commutazione delle cose: ma poiché egli arreca tanti comodi al viver vostro, voi l’amate tanto straordinariamente, che e’ non è cagione fra voi di manco male, che si sia di bene». Ma cfr. in proposito di Bernardo Davanzati i due scritti, del 1588. Sulle monete e sui cambi. 210 A. F. DONI, I Marmi, a cura di E. Chiorboli, Bari, 1928, vol. I, p. 268 sgg.
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edificanti, come la lunga epistola di Claudio Tolomei a Dionigi Atanagi sulla ricchezza e la povertà211 . Le opere dichiaratamente morali, dialoghi o trattati, tornano sempre sui motivi consueti che si fanno fastidiosamente banali. Ed ecco le innumerevoli discussioni sul duello, sull’onore, sulle virtù del gentiluomo, sulla nobiltà, dal massiccio trattato di Antonio Bernardi della Mirandola, plagiato dal Possevino, agli scritti del Farra, del Sardo, del Romei, del Nobili, alle solite composizioni del Muzio, ai dialoghi del Tasso. Ecco il Trattato della lode, dell’honore e della gloria del Verino secondo, e i dialoghi Dello dignità di Bernardino Baldi; per non dir dei confronti fra le armi e le lettere. Non a caso le sette giornate in cui il Romei distribuì i suoi Discorsi sono dedicate appunto a questi argomenti212 . 211 B. VARCHI, Opere, II, p. 568 sgg.; C. TOLOMEI, Delle lettere, libri sette, Venezia, 1585, p. 162 sgg. Ma, tra le lettere, vi sarebbe larga messe da cogliere; cfr. per es. quella del Caro a Bernardo Spina dove si toccano i soliti temi della vita monastica e solitaria, del ritiro dal mondo ecc. ANNIBAL CARO, De le lettere familiari, volumi due, Venetia, 1587; Lettere familiari (1531-1544), Firenze, 1920 (e, ora, l’ed. critica a cura di A. Greco, 3 voll., Firenze, 1957-61). 212 Cfr. per es. A. BERNARDI DELLA MIRANDOLA, Eversiones singularis certaminis; G. B. POSSEVINO, Dialogo dell’onore nel quale si tratta del duello, Venezia, 1553; POMPEO DELLA BARBA, Due... dialoghi... de’ segreti della natura... sull’armi e le lettere, Venezia, 1558; G. MUZIO, Il duello, Venezia, 1553; Il Cavalier, Roma, 1569; Il gentiluomo, trattato della nobiltà, Venezia, 1571; Avvertimenti morali Venezia 1572; F. NOBILI, De hominis felicitate, De vera et falsa voluptate, De honore, Lucae, 1563; A. FARRA, Settenario... sull’innalzarsi dell’anima alla contemplazione di Dio, Venezia, 1594; FRANCESCO DE’ VIERI, Trattato dell’honore, della fama, et della gloria, Firenze, 1580; B. BALDI, Della dignità; L’arciero, in Versi e prose, Firenze, 1859, pp. 293-402. Il commento alla Nicomachea del Bernardi della Mirandola nell’Urb. lat. 1414.
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Un posto a sé, tuttavia, meritano i Dialoghi di Sperone Speroni, già più volte menzionati, e nella loro prima stesura ripresi in parte da Alessandro Piccolomini, quando questi compose originariamente la sua Istituzione. Lo Speroni, vedemmo, ebbe vivissimo il senso della «comunicazione» umana, ed alle lingue e alla retorica dedicò alcune delle sue pagine più degne. Ma nella seconda parte dei dialoghi egli venne largamente discutendo anche di altri problemi assai gravi, e in particolare del rapporto fra vita attiva e contemplativa, e della storia. Intorno al primo punto, la conclusione messa in bocca ad Antonio Brocardo è ferocemente avversa al puro contemplare, vita, com’egli dice, non umana né cristiana. Quando si costituiron le città, egli afferma, fra gli uomini deboli, inutili, miseri «e non ben vivi», vi fu qualcuno «non migliore, ma meno scempio de’ suoi consorti, il quale, per coprire la sua viltà, finse una vita, onde e’ paresse di rifiutar tutto il bene che non poteva ottenere, la qual vita niuna cosa umanamente operando, ma vanamente considerando le cagioni dell’opere della natura e di Dio... con un bello e gran nome, non più inteso da alcuno, fu chiamata speculativa». Così «nacque e crebbe e visse... felicemente nella follia de’ volgari la vana vita contemplativa»; vana perché, tutta presa a investigare il mondo di Dio, rimane estranea al nostro mondo, ch’è il mondo degli uomini. E i «filosofi speculativi,... tutti intesi alla vanità dello speculare, tanto sanno del nostro vivere umano, quanto saprebbe chi... fosse nato tra’ mutoli, o fuor del mondo albergasse». L’uomo è come una spada che Dio ha fatto, non perché mediti su sé e le cose, ma perché valga al combattimento; «l’uomo non dee spendere suo tempo in investigare troppo curiosamente in qual guisa creasse Dio la nostra anima, ma lei fatta dee adoperare in ma-
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niera che in ogni sua operazione buono essendo, sempre voglia esser buono, e sempre buono sia riputato»213 . Per bocca del Brocardo lo Speroni giungeva qui a una posizione estrema ma significativa, apertamente rivolta contro la cultura accademica, la quale, platonica o aristotelica che fosse, insisteva sulla superiore dignità del contemplare. Né a caso il Tasso mette in bocca al Porzio l’ammonimento: «non superbisca... la nostra umana prudenza, né si stimi tanto, ch’ella possa paragonarsi colla dignità della sapienza, perché le cose, ch’ella considera, sono umane, ma dell’uomo sono molte cose più divine...». E poco innanzi, discorrendo del saggio virtuoso che fugge il mondo, aveva osservato come egli non fugga «fra le cose inferiori, ma fra le superiori; non fra le caduche, ma fra l’immortali; non fra le terrene, ma fra le celesti; e nella fuga si assomiglia a Dio»214 . Così se prendiamo il terzo volume del corpus aristotelico-averroistico pubblicato in Venezia dai Giunta, possiamo leggere, nella prefazione ai libri morali, stesa da Giovan Bernardo Feliciano, una discussione de duplici hominis felicitate, duplicique eius vita, activa et contemplativa, ove la perfetta felicità del contemplante è esaltata nella sua stessa solitudine totale (hominem verum et contemplativum non esse sociabilem)215 . Per questo assume un singolare rilievo l’ampia e complessa trattazione di Paolo Paruta, nei dialoghi Della perfezione della vita politica216 , pubblicati nel 1579, ed in cui 213 Dialoghi del Sig. SPERON SPERONI, nobile Padovano, di nuovo ricorretti a’ quali sono aggiunti molti altri non più stampati, Venezia, 1596, pp. 180-215. 214 T. TASSO, Prose filosofiche, Firenze, 1847, I, pp. 22, 33. 215 ARISTOTELIS Stagiritae Libri, Tertium volumen, Venetiis, 1574 (FELICIANI praefatio). 216 PAOLO PARUTA, Opere politiche, a cura di C. Monzani, Firenze, 1852, vol. I, p. 118 sgg.
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figura anche uno dei personaggi del dialogo dello Speroni, Gaspare Contarini. L’opera del Paruta, che nel suo andamento ricorda non poco le discussioni quattrocentesche intorno alla vita civile, tocca anche, in genere, tutti i temi tradizionali, come ad esempio, quello della fortuna217 . Ma affronta in pieno il problema della dignità della vita attiva. Nessuno nega, osserva il Paruta, che il puro contemplare, nella sua totale perfezione, quale potrà realizzarsi in intelletti angelici, sia cosa sublime. Ma all’uomo, vincolato al senso, tale sommità è preclusa. «In quel modo, adunque, che miglior artefice è colui che esercita perfettamente alcuna arte, tuttoché ella non sia tra le più nobili, che quell’altro non è, il quale datosi ad arte più degna, altro di quella non ne abbia appreso che certi princìpi; così più vero uomo e più felice si deve stimare chi è ornato d’un abito perfetto di prudenza...». Né, questa, è una rinuncia. L’uomo, in verità, raggiunge Dio proprio nel rapporto umano, «avendo rispetto al beneficio che può l’uno prestare all’altro, insieme vivendo nella vita civile. Quale... sarà studio più nobile, quale più vera filosofia, che quella che ci ammaestra nelle nostre umane azioni, e ci insegna di ben reggere noi stessi, la famiglia e la Patria? Perciocché, non è la filosofia, come ben diceva Pindaro, quasi un’arte statuaria, che faccia le figure mutole, prive di sentimento: anzi, ha ella a risvegliarci gli spiriti, e a renderli meglio disposti e pronti alle operazioni civili; onde, da quella ammaestrati, possiamo con maggior frutto adoperarci per lo ben comune... Queste son opere veramente egregie e divine; alle 217 Sulla fortuna lo Speroni compose un dialogo molto bizzarro sostenendo che, «così come il nostro intendere non è a caso, ma è umano artifizio così il caso non è inteso d’alcuno, et è caso pure perciò, né lo sarebbe se intendendo si conoscesse» (Dialogo sopra la fortuna ed. cit., pp. 509-15).
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quali appena meritano d’esser paragonate quelle dell’uomo solitario, come se a sé solo nato fusse». Pochi anni prima, nel ’74, Stefano Guazzo poneva ugual concetto in quei suoi dialoghi de La civil conversazione, che volevano essere insieme un manuale di belle maniere e di morale volgarizzata. E l’uomo simile all’ape, «che non può viver sola», e la natura del linguaggio, e la moralità come socialità, sono i motivi che nell’opera tornano, fino al fastidio, per oltre seicento pagine, modesta ma significativa epigrafe di tutta una vasta corrente di pensiero, che sul fallimento politico d’Italia sperava ancora di vedere l’alba di un rinnovamento morale. 5. Storia e vita politica Quanto strettamente connesse a queste riflessioni fossero le meditazioni sulla storia, e le ricerche storiche medesime, non è chi non veda. Il Sigonio, tessendo in una sua orazione le lodi della storia, osservava appunto che essa non è, «se non la diligente e chiara dimostrazione della scienza morale»218 . Gli storici ci attestano la realtà di quello che i moralisti ci insegnano, e accordano così sul terreno concreto essere e dovere (etenim philosophi quid agere homines debeant, historici, quid praeclare egerint, docent). Senza la conferma dello storico i precetti morali sembrerebbero appelli vani e ridicoli, lanciati al vento, laddove l’esempio li trasforma in solenni guide e vitali orientamenti. In un vastissimo dialogo, un trattato vero e proprio, ov’è menzionato largamente anche il Pomponazzi, Speron Speroni cerca di determinare che sia la storia, ma senza muoversi dal parallelo d’Aristotele fra storia e poesia, riducendo la storia alla narrazione del particolare. Il 218
G. SIGONII orationes (Lugduni, 1590), p. 87.
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quale, tuttavia, si presenta come la verità che lo storico, col sussidio dell’arte retorica, rende efficace219 . Né più oltre sembra andare il platonico Patrizi nei suoi dialoghi Della historia, usciti in Venezia nel 1560, il quale cercava sì nel corso degli eventi la certificazione di un divino piano provvidenziale, ma soprattutto vi trovava insegnamenti di prudenza politica e incitamenti alla vita virtuosa. E, come lui, Aconcio nelle note che stese, imitandolo, quattro anni dopo220 . Tuttavia, più che in considerazioni teoriche sulla storia, i frutti di questa meditazione sul concreto agire degli uomini nel mondo umano maturarono nelle dissertazioni politiche, che di storia si alimentavano appunto, e che si costituivano insieme come avvertimenti civili e come filosofiche considerazioni intorno alle umane vicende. Effettualità storica e meditazione morale si congiungevano nella politica, oscillante fra il commento al passato e l’insegnamento per una ricostruzione avvenire, al margine fra etica e storia, fra vagheggiamento di platoniche città ideali e crudele fedeltà all’inesorabile corso degli eventi, non giudicati, ma integralmente accettati. Di qui i trattati di politica in forma di commenti a opere storiche, le quali – al dir del Giannotti221 – ci permettono «di conoscere con vivi esempi quelle cose che si deono fuggire e quelle che si deono seguitare». E tale insegnamento 219 SPERONI, Dialoghi, pp. 361-502 (interlocutori Silvio Antoniano, Paolo Manuzio e Girolamo Zabarella). 220 Della Historia dieci dialoghi di M. FRANCESCO PATRITIO, ne’ quali si ragiona di tutte le cose appartenenti all’Historia et allo scriverla et all’osservarla, Venezia, 1560; J. ACONCIO, Delle osservazioni et avvertimenti che aver si debbono nel leggere delle historie, in Opere, ed. Radetti, p. 303 sgg. (Cfr. FR. ROBORTELLUS, De historica facultate, Florentiae, 1548). 221 D. GIANNOTTI, Opere (Della repubblica veneta, pref.), in Scritti politici, Milano, 1830, p. 32.
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ci viene, insiste il Giannotti, non per qualche valore paradigmatico degli antichi, ma perché essi furono sottili e precisi espositori; «laonde io giudico che quelli si debbano assai commendare, i quali... investigando i costumi dei tempi nostri, non sono di quelli al tutto disprezzatori, ma ne ritraggono quel frutto e quella utilità, che si puote di cose non perfetti trarre». La storia ci propone dinanzi, viva nella sua dinamica articolazione, la società, e ci permette di cogliere in essa quella immutabile umana natura, che è rimasta sostanzialmente la stessa col volger dei tempi. È vero, infatti, osserva Machiavelli, che le cose umane sono sempre in moto; ma, e vi insisteranno ugualmente un Cardano o un Bruno, si tratta, non di un processo, ma di un vano mareggiare («o le salgono o le scendono»). E l’ammirazione per l’antico non nasce che da un maggiore distacco, e dallo spegnersi delle passioni («timore e invidia»), finché l’occhio si faccia capace di cogliere nella sua essenza immutabile l’umanità civile, tanto che sembra venir meno fin la ragione «del laudare e biasimare». «E pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre essere stato ad un medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono, quanto di tristo, ma variare questo tristo e questo buono di provincia in provincia»222 . La considerazione della storia convince Machiavelli della immutabilità sostanziale dell’umana natura e delle umane vicende, ove il margine lasciato dalla necessità obbiettiva alla nostra virtù è ben poco, e non sai mai se esso non sia in fondo che il frutto di una nostra opinione, e insufficiente conoscenza. Proprio di qui nasce talora un’ambivalenza di scelleratezza e virtù, che se non potrà redimersi di fronte alla coscienza morale, si riscatta tuttavia in una fredda e razionale visione dell’essenza delle cose. Nella quale tut222 MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, II.
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to rientra, anche la religione intesa come fenomeno e avvenimento puramente umano, riassorbito in una visione che prescinde da quanto esorbiti dal necessario, eterno, uniforme accadere. Che era poi, in Machiavelli, un trapassare su un piano metafisico, insinuando in quella che voleva esser mondana e concreta visione del mondo degli uomini la premessa di una concezione rigidamente naturalistica della realtà. Come colse sottilmente il Guicciardini, innamorato di una aderente fedeltà alla mobile e singolare esperienza umana. «Io per me non so che maggior diletto mi potessi avere, che udire parlare delle cose pubbliche e civili un uomo di grande età e di singolare prudenza, che non ha imparato queste cose in su’ libri da’ filosofi, ma con la esperienza e con le azioni, che è il modo vero dello imparare»)223 . Guicciardini, infatti, si tiene ben fermo a quel limite di indeterminatezza lasciato incerto dal Machiavelli, sempre preoccupato della natura delle cose. Guicciardini non ci parla di quel che è naturale, necessario; di quello che si verifica sempre. Egli insiste sulla «varietà delle circumstanze», sulla «diversità», sulla fluidità della «esperienza», sull’accidentale, sul caso, sulle «varie nature degli uomini». E «le cose del mondo» egli insegna a «giudicarle e risolverle giornata per giornata». Che fu il segno più alto della sua sapienza civile, rifiuto preciso di ogni astrazione filosofica d’intorno al civile mondo degli uomini, avvio consapevole a una filosofia dell’umano, veramente fedele all’effettualità dei rapporti umani. E con ciò Guicciardini si poneva oltre quei tardi cinquecentisti, che non più su Livio, ma ormai su Tacito, eppur 223 F. GUICCIARDINI, Del reggimento di Firenze, I, Opere inedite, 1858, vol. II, p. 13. (Cfr., a questo proposito, V. DE CAPRARIIS, Francesco Guicciardini. Dalla politica alla storia, Bari, 1950, p. 14 sgg.).
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sempre sulle orme di Machiavelli, ancor vedranno storia, politica e morale come determinazione della «verità immutabile» della natura dell’uomo e delle cose224 . 224 Discorsi del Signor FILIPPO CAVRIANA, cav. di S. Stefano sopra i primi cinque di Cornelio Tacito, Firenze, 1597 («Al Lettore»).
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INDAGINI SULLA NATURA
1. Leonardo da Vinci Alla radice di gran parte della scienza del Rinascimento resta, sottinteso, il presupposto, dal Ficino messo in chiara luce, di una corrispondenza perfetta fra mente umana e realtà attraverso la matematica, in cui si rispecchia esemplarmente il ritmo preciso con cui Dio ha creato l’universo (numero, pondere et mensura). Questo sottinteso pitagorico-platonico, di una specie di armonia prestabilita fra mondo e uomo, fondata sul platonico Dio geometrizzante, è comune così a Leonardo, «omo sanza lettere», come a Galileo, nemico dei «trombetti» ripetitori dell’antico, ma dogmaticamente sicuro del fatto che Dio ha scritto l’universo in caratteri matematici. Era l’implicito riferimento, fattosi esplicito poi nel cartesianismo, al Dio verace, all’immutabile fondamento della ragione divina. Come osservava al principio del ’500 Luca Pacioli, «Idio mai non se po’ mutare», e «tutto ciò che per lo universo inferiore e superiore si squaterna, quello de necessità al numero, peso e mensura fia soctoposto»225 . Il cabbalismo di Pico e dei pichiani, fino alle sue estreme risonanze nel ’600, è fondato su questa pitagorica fiducia nelle virtù del numero. Non diverso l’atteggiamento di Leonardo da Vinci, il quale, se dispregia i grammatici, irrigiditi sull’opposizione fra scienze della natura e dello spirito, vede poi la natura, molto ficinianamente, pregna della divina ragione «che in lei infusamente vive». La sua esperienza, come atteggiamen225 L. PACIOLI, Divina proportione, Vienna, 1889 (I ed., 1508).
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to, non è diversa da quell’umile rispetto predicato dagli umanisti dinanzi ai testi che essi leggevano e interpretavano. Solo che Leonardo, oltre le opere dei poeti, voleva leggere l’opera di Dio, il libro del mondo; «or non sanno questi – egli esclama – che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienza, che d’altrui parola, la quale fu maestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio». A suo modo anche Leonardo è figlio degli umanisti; il loro metodo, che era il ritorno, oltre ogni diaframma, alla realtà genuina, era il suo metodo; solo che, per tornare alla realtà fisica, bisognava far giustizia di ogni autorità, e liberare le cose degli «accidentali vestiti». «La sapienza è figliola della sperienzia. Chi disputa allegando l’autorità, non adopera lo ’ngegno, ma piuttosto la memoria. Fuggi li precetti di quelli speculatori che le loro ragioni non sono confermate dalla isperienzia». Esperienza che è porta aperta a vedere la ragione delle cose; esperienza che è, non negazione della ragione, ma rispetto per la ragione delle cose oltre la nostra ragione: «nessun effetto è in natura sanza ragione: intendi la ragione e non ti bisogna sperienzia». Perché di una cosa è soprattutto convinto Leonardo con fermissima fede, che la natura è intimamente retta da una regola razionale («la natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamente vive»); che questa regola si esprime e si traduce matematicamente («nissuna umana investigazione si po’ dimandare vera scienzia, s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni»); che questa anima razionale dell’universo è forza che penetra ovunque, sigillo molteplice dell’unico Sole del tutto («el suo lume allumina tutti li corpi celesti, che per l’universo si compartono, tutte l’anime discendon da lui perché il caldo, ch’è in nelli animali vivi, vien dall’anime, e nessun altro caldo né lume è nell’universo»). E non è chi non veda quanto di ficiniano vi sia in questo Sole.
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L’esperienza non ha che una funzione intermedia, accertatrice, che svela come il discorso razionale non si esaurisca nella mente come possibilità pura. «Se tu dirai che le scienze, che principiano e finiscono nella mente, abbiano verità..., si niega», perché «in tali discorsi mentali non accade sperienzia, senza la quale nulla dà di sé certezza». E questa verifica è necessaria al ragionamento umano perché la mente umana non è creatrice, come quella divina, alla quale invece si assimila quella dell’artista il cui concepimento sbocca non in una verifica, ma in una produzione; «la deità ch’ha la scienza del pittore si trasmuta in una similitudine di mente divina, imperocché con libera potestà discorre alla generazione...». 2. Girolamo Cardano Reminiscenze platoniche, unite a un vivo interesse per l’indagine naturale, ritroviamo in quel Girolamo Cardano che il Bruno nel De immenso condannava senz’altro come rudis et amens fabulator. Nell’epistola nuncupatoria, premessa a quella vasta e curiosa enciclopedia che è il De rerum varietate, non senza efficacia il Cardano presenta la sete insaziata di conoscenza che lo spinge alla ricerca: «la gioia e la felicità suprema, per l’uomo, consiste nel conoscere gli arcani segreti del cielo, i misteriosi penetrali della natura, le menti divine, l’ordine dell’universo». E questo sapere libera veramente l’uomo dal suo peso mortale («a mortalitate ipsa seiungitur»). E questo sapere il Cardano credeva di avere abbracciato nel suo complesso, e unificato nella sua fontale divina radice: «quella sublime altezza, da nessuno raggiunta dopo Plotino, e cioè l’origine e il fine di tutte le cose, io l’abbracciai nei miei sette libri De aeternitatis arcanis; ed ugualmente l’ordine dell’universo e di tutte le singole cose in esso contenute, nei quattro libri De fato». Ammiratore
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dell’esperienza, e sostenitore a oltranza dell’indagine naturale, egli, tuttavia, ne sentiva l’insufficienza, ed affermava così, in pari tempo, i diritti della ragione matematica. Anzi, com’egli ripete, solo un processo discendente dall’uno ai molti potrebbe evitare incertezza al nostro sapere («inde incerta nostra cognitio, quae si ab uno ad multa descendere posset, confusionem vitaret»). Ma il legame col corpo, l’instabile sintesi senso-ragione, ci impedisce di afferrare in pieno quelle essenze ideali («res incorporeae»), che sono i princìpi dei corpi stessi («quae etiam corporum sunt principia»), e soprattutto ci toglie la visione adeguata del nesso causante, per cui le cose stesse si generano dai loro princìpi. Il nostro sapere fisico è un sapere di superficie; è uno scivolar sulle cose, senza penetrarne l’anima, mediante pure analogie e similitudini («anima humana, in corpore posita, substantias rerum attingere non potest, sed in illarum superficie vagatur... scrutando mensuras..., similitudines...»). La matematica è valida nella sua formalità astratta; la sua certezza risiede nella mente che la produce, e che, essendo insieme la cosa prodotta, la possiede a pieno («scientia vero, quae res facit, est quasi ipsa res...»). Ma la possiede nell’ambito preciso della sua produzione, senza poter valutare integralmente la validità sua per la conoscenza della realtà fisica. Cardano, insomma, sente tutta la difficoltà del passaggio dal mentale al reale, dalle idee («a principiis animae ab initio inditis») alle cose. Egli è ben convinto dell’ordine del tutto («tantum rerum ordinem»), del vincolo che il tutto unifica ( «omnia connexa sunt atque in un unum deducta»), ma non sa trovare il nodo, il punto dell’unione, e resta perplesso fra l’unità postulata dalla ragione e la dispersione dell’esperienza. Per cui dogmaticamente è tratto a negar vita e movimento al tutto, immobilizzato attraverso la dottrina dell’eterno riorno, che riduce il divenire a mera parvenza. «Ritornano, non solamente
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le cose naturali, ma anche le nostre opinioni... Restano le stesse anime, uguali di numero..., e infinite volte si ripetono le medesime opinioni, le vere e le assurde». Come per Bruno, che insisterà eloquentemente sul medesimo concetto, i molti e l’Uno si fissano senza sviluppo, e gli stessi processi dell’intelletto, quasi coesteso al tutto («quasi coextenditur omnibus») sfumano in un ritmo che si meccanicizza e perde valore («contrahitur et extenditur, fulget et obscuratur, silet et operatur»). Tanto è vero che il trapasso al divino, che Cardano non nega, e che apre all’uomo la possibilità del miracolo, resta misterioso e miracoloso esso stesso. Eppure solo lì, nella connessione Uno-molti, sta il segreto dei molti e del loro ordine; ma saperlo è precluso all’uomo – si scirem, Deus essem. Per questo l’esperienza si sgretola in mille osservazioni slegate, e la metafisica si inaridisce nella postulazione astratta dell’Uno plotiniano; per questo, forse, Cardano, come poi anche il Della Porta, guarda, piuttosto che al corso normale degli eventi, allo straordinario e al misterioso, sognando il bagliore illuminante di una divina rivelazione («afflatus, cum manifeste cognoscimus admoneri divinitus»)226 . 3. Girolamo Fracastoro e G. B. Della Porta Su un piano, invece, assai più rigoroso d’esperienza – magistra experientia – volle mantenersi in tutte le sue indagini Girolamo Fracastoro, il quale si preoccupa sempre di ritrovare la causa particolare e propria, e non universale e prima («hic non universalem et primam causam quaerimus, sed particularem et propriam, quale esse non potest eorum ullum, quae immaterialia sunt»). E questo 226
Dall’edizione di Lione, 1663, in 10 voll., di tutte le opere.
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è il tema che si propone nel De sympathia et antipathia rerum, dove, ricercando le origini del «mirabile consenso» che avvince le particelle costitutive delle cose, intende simpatia e antipatia in termini di mere forze fisiche, escludendo qualunque elemento misterioso o «spirituale». E con lo stesso tono combatte l’astrologia applicata alla medicina, e, nel Turrius, descrive fenomenologicamente i processi del conoscere. Lo scienziato, come tale, descrive e precisa le cause particolari, o, come meglio si direbbe, i nessi costanti che collegano l’uno all’altro fenomeno. La causa, e cioè la potestà generatrice delle cose, è su altro piano, inattingibile alla umana cognizione. Ne canterà il poeta, e Fracastoro fu fine poeta, inneggiando alla libera, divina, generatrice Natura, capace, se voglia, di mutare l’ordine stesso delle cose («forsitan et tempus veniet...»). In una lettera a Giovan Battista Ramusio il Fracastoro si vantava che, nei suoi «bizzarri» studi di medicina astrologica, sui giorni critici, aveva salvato ogni cosa con cause naturali («io salvo ogni cosa del moto dei nostri umori»)227 . Giovan Battista della Porta nei molti suoi scritti di magia, di astrologia e simili, partiva anch’egli dalla stessa esigenza, di ricondurre sotto il segno dell’indagine scientifica quel complesso di corrispondenza fra corpo e anima che sembrano invece dominio del meraviglioso e dello straordinario: «osservare con occhi di lince i fenomeni, onde, compiuta l’osservazione, tosto si possa operare». Magia naturale, così, è scienza, che offre un pronto trapasso alla tecnica228 ; fisiognomonia è determi227 Lettere di XIII huomini illustri, p. 713; H. FRACASTORI Opera, Venetiis, 1584. 228 JO. BAPTISTA PORTAE... Magiae naturalis libri viginti (Hanoviae, 1644), I, 2: «unde vos, qui Magiae visuri acceditis, nil aliud Magiae opera credatis, quam naturae opera, uti ars ministra, et sedula famulatur...».
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nazione dei rapporti di interdipendenza fra animo e corpo, fra materia e spirito, fra le stelle e la vita umana; «l’esperienza ci fa scorgere con facilità che l’animo non è impassibile rispetto ai moti del corpo, così come il corpo si corrompe per le passioni dell’animo». Ma, tosto, il Della Porta si lascia sedurre dal meraviglioso, dall’eccezionale, dal miracolo, e non esita a proclamare che «chi cerca una ragione di tutto, distrugge insieme scienza e ragione; chi non ha fede nei miracoli della natura, cerca in qualche modo di distruggere la filosofia». Non, come nel Fracastoro, l’umile impegno a seguire il comportamento costante, ma il costante desiderio di sorprendere la chiave dell’attività produttrice delle cose, «il secreto e lo modo d’oprare... molto alto e degnissimo», la pietra filosofale, l’arte del miracolo. Ed è veramente curioso questo rovesciamento, per cui, partiti per costruir la scienza sull’uniforme, si vuol poi, nell’eccezionale, trovar la spia della creatività stessa della divina Natura. Che era, in fondo, un modo diverso di tradurre l’inquietante problema del Cardano, di passare dall’Uno divino al molteplice reale, che l’uomo arriva sì a descrivere, ma non riesce a spiegare229 . 4. Andrea Cesalpino Un più fedele peripatetismo, senza indulgenze per sogni magici, ci offrono invece le Quaestiones peripateticae di Andrea Cesalpino, uscite in Venezia nel 1571, e nelle quali l’aristotelismo è inteso come rinvio all’esperienza concreta. È vero, com’egli afferma, che Aristotele ha innalzato la filosofia al suo estremo culmine umano, tan229 De furtivis literarum notis, vulgo de ciferis, libri quatuor, Neapoli, 1563, Introd.: «ita me semper ad haec propensum natura tulit, ut arcani quid et abditi inde depromerem...».
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to che, «dopo quasi duemila anni, ogni fatica è volta a intendere solo Aristotele». Ma è anche vero che seguire Aristotele non significa altro che osservare la natura. «Se dai corpi naturali noi riceviamo un insegnamento senza errori, perché dunque avere maggior fede nella ragione? È una debolezza dell’intelligenza abbandonare la percezione per invocare la ragione». Il dato immediato non mente mai; «possiamo noi credere a una menzogna della natura, quando ci indica il polo con la calamita, ...o non dobbiamo piuttosto attribuire la menzogna alla ragione che si allontana dalla natura?» E questa natura egli presenta, aristotelicamente, mossa verso un fine, scandita in ordine per gradi, ma ove ogni grado intende alla propria perfezione. In questo modo finalità non significa svalutazione dell’inferiore di fronte al superiore, ma, anzi, rivalutazione di ogni momento in sé considerato. Così non vi sono parti o funzioni vergognose: «nella natura non ci sono vergogne, anche le cose più vili hanno la loro parte di divino». Proprio l’accentuazione del valore di ogni momento, di ogni grado della realtà come in sé perfetto, lo indurrà, trattando dell’anima, a volgersi verso l’immanenza piena, e la connessione più stretta del sensibile con l’intelligibile, fino a domandarsi «in qual modo mai si possano differenziare le anime degli uomini da quelle degli altri esseri mortali»230 . Naturalmente egli non si fermò qui, e con somma ambiguità tentò di salvare l’immortalità dell’anima individuale. Ma la sua posizione resta comunque del massimo interesse, più che per sottili osservazioni particolari, per questo suo aristotelismo che si fa aperta e ferma difesa dei diritti dell’esperienza e dell’immediata osservazione della natura. Non a caso il De rerum natura 230
A. CESALPINO, Questiones peripateticae, Venetiis,
1571.
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juxta propria principia del Telesio si svolgerà spesso col tono di un commento alla fisica d’Aristotele. 5. Bernardino Telesio Bernardino Telesio, cosentino, fu discepolo nei primi anni di uno zio, Antonio Telesio, oscuro poeta inneggiante alla omniparens natura in versi lucreziani. Ma sarebbe molto artificioso cercare in lui un’ispirazione originale, in un’epoca in cui un po’ tutti, su esempi illustri, seguivano una moda diffusa. Né Bernardino Telesio fu estraneo alla cultura filosofica del suo tempo, ma studiò a Padova, ed ebbe stima e venerazione per Vincenzo Maggi, il ben noto aristotelico, cui sottopose i primi due libri del suo capolavoro, discutendone lungamente ed ottenendone l’approvazione («principia non improbavit, et quod non e principiis flueret videre nihil potuit»). Ideale connessione, dunque, con il più intelligente aristotelismo ufficiale, di cui non si può non tener conto. Ai contemporanei, e a quanti l’han preceduto, Telesio rimprovera soprattutto di aver costruito arbitrari sistemi, miscugli strani d’esperienza e ragione, non rispettando né ascoltando la natura, ma barbaramente facendole violenza. «Troppo fiduciosi in se stessi, senza osservare come conveniva le cose in sé e le loro forze, senza riconoscere nelle cose la grandezza, intelligenza e capacità, che ad esse erano state date, ma gareggiando in sapienza con Dio nel ricercare con la ragione i princìpi e le cause del mondo, credendo di dover inventare quello che non riuscivano a trovare, hanno immaginato il mondo a loro arbitrio (veluti suo arbitratu mundum effinxere)». E l’hanno veramente ricreato, se anche in modo del tutto fittizio, a propria immagine e somiglianza, a emula-
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tori non solamente della sapienza, ma della potenza ancora di esso Dio»231 . Telesio sdegna tali metodi (tardiore ingenio et animo remissiore), e si propone una sapienza non divina ma umana (humanae omnino sapientiae amatores cultoresque), semplice fino all’umiltà. Il sottinteso polemico contro il concetto di un uomo che fa sé misura dell’universo si svela nell’insistenza con cui batte sul fatto che la sua opera non reca in sé nulla di mirabile (nihil divinum, nihil admiratione dignum, nihil etiam valde acutum). Misura del nostro sapere, come del nostro operare, è la natura quale si svela al senso, che è, anch’esso, natura. «Noi abbiamo seguito il senso e la natura; la natura che, perennemente concorde con se stessa, opera e compie sempre le medesime cose nel medesimo modo (perpetuo sibi ipsi concors, idem semper et eodem agit modo, atque idem semper operatur)». Ove ciò che più interessa è questa fede, ingenua insieme e dogmatica, nella uniformità e costanza della natura, sempre uguale a sé, fissa, dominata da norme inderogabili. Natura uniforme, che si rivela pienamente nel senso, che è, anzi, essa stessa senso per l’universale sensibilità («tutti gli enti hanno senso»). Analizzando, infatti, la struttura della realtà, Telesio si scosta meno di quel che può a prima vista apparire dall’aristotelismo. Complessa, egli insiste, è la sostanza di ogni ente reale, e formata da un substrato recettivo, che è la materia, e da due forze agenti, il caldo e il freddo. Ora, benché talvolta egli chiami sostanze per sé ciascuno di questi elementi, in realtà ogni particella («quantulavis 231 BERNARDINI TELESII De rerum natura, a cura di V. Spampanato, Modena, 1910, Roma, 1926; Delle cose naturali, trad. di Francesco Martelli (1573), dall’ed. in due libri (I manoscritti palatini di Firenze, a cura di F. Palermo, III, Firenze, 1868, pp. I-232).
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entis cujusvis particula, quin punctum quodvis») è sempre un’unità complessa, costituita da un intimo rapporto di passività-attività, forza agente-resistenza; di aspetti, insomma, che sola una considerazione astratta isola e prende per sé232 . Ma v’è di più: tutta la realtà, in ogni suo aspetto e momento, è dotata di sensibilità, e, germinando dal senso ogni cognizione, di una qualche aurorale forma di conoscenza. Il sentire è intrinseco alla stessa natura agente, la quale per conservarsi dovrà avere una, per quanto oscura, notizia di quel che le giova e di quel che le nuoce. «Se le nature conservar si deono – scrive il Telesio nella redazione in due libri dell’opera sua – è di bisogno che non solamente fusse loro impresso un sommo appetito della propria conservazione, e un sommo odio della propria distruzione, ma una forza ancora di conoscere le proporzionate e le simili, le contrarie e le dissimili. Perché invano appetiranno di conservarsi e osterranno di corrompersi, se non conosceranno quelle dalle quali sien conservate, e quelle dalle quali sieno offese»233 . La ragione poi, su cui Telesio sembra fondare questa originaria dotazione del mondo, ha un sapore del tutto platonico e teologizzante: Dio è buono, non ha invidia, ha compiuto un mondo perfetto, e non può, dunque, aver tolto alle creature il mezzo di conservarsi; «e tutte queste proprietà si veggono attribuite alle nature agenti, acciò che non paia, che Colui che le creò si sia dimenticato di conservarle, e come artefice pigro, non abbia lor donato tut232 De rerum natura, I, 2: «nam si... agentes operantesque naturae, calor nimirum frigusque moli, cui sese indunt, unum prorsus fiunt, itaque nullam entis ullius partem invenias, quae vel moles sola vel sola agens natura sit, sed quantulavis entis cuius vis particula, quin punctum quodvis, ex utraque, penitus alteri commixta altera et unum utraque alteri facta constat...» 233 Delle cose naturali, I, 34; p. 57 sgg.
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te le cose necessarie alla lor conservazione; cioè, la forza e il senso...». Come, in ogni sia pur piccola parte della realtà v’è, sempre, attività e passività, opaca resistenza materiale e forza agente, così, inscindibile, v’è, in tutto, sentire e, quindi, conoscere. Conoscere e essere si compenetrano, a quel modo stesso che negli ionici si compenetravano essere e vita. Dinanzi all’obbiezione, che si prospetterà anche Campanella, che gli altri esseri, diversi dagli animali, non hanno organi sensori, Telesio risponde con molta chiarezza che sono, quelli, semplici mezzi e strumenti della sensibilità. «Ma non perché a nessuna dell’altre cose sia dato gli organi e gli strumenti, con li quali apparisce che gli animali sentino, si debbe dire che solamente gli animali sieno dotati della facultà del sentire, e che gli altri enti ne sieno al tutto privati. Perché non apparisce... che li strumenti sensorii dieno facoltà di operare o di sentire, o facilità all’anima che sente, ma solamente fanno questo, cioè introducon l’azione delle cose sensibili...». Anzi, là dove la differenziazione non è avvenuta, tutto l’ente è senso in ogni sua parte; « non hanno bisogno né di forami, né di meati..., ma essendo similari e veramente uno, è necessario che, patendo egualmente, sentino così nelle parti esteriori come nelle interiori e intrinsiche». Come potentemente dirà Bruno, sono tutto occhio a tutto l’orizzonte234 . Ma il senso, e questo Telesio chiarirà bene, non è né la passione dello spiritus, ossia della sottile materia che si agita nell’interno del senziente, né l’azione o sollecitazione esterna delle cose («vel illarum actio impulsioque, vel spiritus passio commotioque»). È, invece, la percezione di tali mutamenti («illarum harumque perceptio sensus 234
Delle cose naturali I, 35; p. 60.
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sit oportet»). Che era quanto accettar la tesi dell’universale animazione delle cose235 . Come si vede, le premesse telesiane di una natura studiata juxta propria principia, sull’unico fondamento del senso, trovavano una grave limitazione in una serie di presupposti metafisici dogmaticamente assunti. Magis metaphysica videtur quam physica, gli osserva il Patrizi, che gli domanda insieme qual senso mai abbia potuto svelargli l’intima struttura del mondo, e la materia, e la stessa sensibilità universale236 . La pretesa telesiana di opporre alla fisica aristotelica, tutta traversata da posizioni metafisiche, un pura fisica, empiricamente costruita, falliva in pieno. E non già, come qualche critico moderno ha sostenuto, per aver Telesio presupposto al mondo, quasi cartesianamente, un Dio creatore; o per aver sottratto all’indagine naturale la morale; o per aver inserito, nell’uomo, sul meccanismo sensibile, l’anima separata e creata. Telesio contraddiceva le sue premesse quando affermava l’uniformità della natura, quando supponeva la struttura della sostanza, quando immaginava, e non provava, la sensibilità universale. Ma, come tanto finemente gli scriveva Francesco Patrizi, se la sua meditazione non reggeva sul piano scientifico, si riscattava su quello metafisico. E la sua idea di un intrinsecarsi senza residui di senso e natura, di passività e attività e coscienza; di un mondo che è uno e lo stesso, sia come mondo reale che come mondo sentito; tutto questo doveva aprire una via feconda alla riflessione campanelliana intorno alla struttura dell’essere. Ma sulla linea di Telesio v’è, appunto la metafisica di Campanella, e non la fisica di Galileo. De rerum natura, VII, 2; III, pp. 3-4. Le obbiezioni del Patrizi e le risposte del Telesio (Solutiones Thylesii) in F. FIORENTINO, B. Telesio, Firenze, 1872, II, pp. 375-396. 235 236
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6. La metafisica della luce Scolari del Telesio furono, il suo fedele espositore Sertorio Quattromani che univa l’amore per Petrarca all’ammirazione per la nuova filosofia, Antonio Persio che lo difese contro il Patrizi, il Donio e, infine, sommo, il Campanella che lo difese contro il Marta237 . Tuttavia all’influsso telesiano non sfuggì lo stesso Francesco Patrizi da Cherso, professore di filosofia platonica all’Università di Ferrara, scolaro in Padova del Tomitano, del Passero, di Lazzaro Buonamici, di Francesco Robortello. Da tanti aristotelici trasse un odio profondo contro Aristotele, che riversò nelle Discussiones peripateticae monumento insigne di critica, ove ad Aristotele vengono contrapposti i presocratici, col lor naturalismo, mentre al maestro di color che sanno si muove quella medesima accusa di incongruenza che abbiamo già vista rivolta a Telesio. Dopo tanta esaltazione dei sensi perché porre a base della fisica dei princìpi che non potranno mai cader sotto i sensi? Admiror principia ea posuisse quae nullis sensibus percipiantur. Ma la sua metafisica, attinta alle più disparate fonti stoico-platoniche, compilate con i più torbidi elementi della tradizione ermetico-caldaica, si rifaceva alla tra237 La philosophia di Bernardino Telesio ristretta in brevità, et scritta in lingua toscana dal MONTANO ACCADEMICO COSENTINO (Sertorio Quattromani), Napoli, 1589 (ed. E. Troilo, Bari, 1914); ANTONII PERSII Apologia pro B. Telesio adversus Franciscum Patritium. Responsiones ad obiecta F. Patritii contra Telesium (Cod. Magliab., Cl. XII, 39); cfr. anche l’Apologia di Antonio Solino (Cl. XII, I). J. A. MARTAE... Propugnaculum Aristotelis adversus principia B. Telesii..., Romae, 1587; TH. CAMPANELLAE Philosophia sensibus demonstrata... Neapoli, 1591; Prodromus Philosophiae instaurandae, id est dissertationis de natura rerum compendium, Francofurti, 1617.
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dizione ormai classica della scuola ficiniana. Egli vuol cominciare, è vero, dal senso (a sensibus exordium primum). Primo dei sensi è la vista; oggetto della vista la luce; fondamento primo del mondo la luce, corpo incorporeo, forma e materia, ille primaevus fluor, che discendendo da Dio, pater luminum, si identifica quasi con lo spazio che vien permeando, infinita com’esso, infinita come il mondo238 . Mentre, da un lato, la visione pampsichistica e l’esaltazione del senso e la concezione dello spazio lo congiungevano a Telesio; mentre la posizione del mondo infinito lo riconciliava con Bruno che pur l’aveva ingiuriato come «sterco di pedanti»; la ispirata celebrazione della luce richiama lo Zodiacus vitae di Marcello Palingenio Stellato239 . Nel mondo sopraceleste si distende, per lui, infinita la luce, immagine dell’infinita potenza di Dio («quoniam potuit facere infinita, putandum est fecisse infinita, omnemque explesse vigorem»). Dio infinito si è manifestato nell’infinito; che è ragionamento caro a Bruno, ove assume talora colore spinoziano. La luce penetra il mondo celeste e terreno, e si fa luce visibile. Quaggiù nella fugace vicenda del mondo («terra breve hospitium»), nel vano fuggir delle cose ( «nugae 238 FR. PATRITII Discussiones peripateticae, Basileae, 1581 (la prima parte era uscita in Venezia nel 1571); Nova de universis philosophia, libris quinquaginta comprehensa: in qua Aristotelico methodo, non per motum, sed per lucem et lumina ad primam causam ascenditur. Deinde nova quadam et peculiari methodo tota in contemplationem venit divinitas. Postremo methodo Platonico rerum universitas a canditore Deo deducitur... Venetiis, 1593 (Ferrariae, 1591). Nel 1558 aveva pubblicato la platonica Città felice. 239 Cfr. MARCELLI PALINGENII STELLATI... Zodiacus vitae... libri XII, Lugduni, 1608; v. anche il De immortalitate animarum di ANTONIO PALEARIO (Opera, Amstelodami, 1696, pp. 573-632) e il De principiis rerum di SCIPIONE CAPECE.
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et mera somnia sunt haec»), l’uomo tende con spasimo verso la patria celeste. Patrias optate revisere sedes Hanc igitur fragilem vitam contemnite cuius Principium est fletus, medium labor et dolor, at mors Finis.
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DA GIORDANO BRUNO A TOMMASO CAMPANELLA
1. Rinascimento e Riforma L’impulso profondo a un rinnovamento radicale, che era implicito in tanta parte dell’umanesimo, non poteva non manifestarsi anche sul terreno religioso. Se in Italia sparsa risonanza ebbe la Riforma protestante, e solo sporadici fuochi si accesero qua e là, in gruppi di intellettuali, guardati con indifferenza e spesso aspramente criticati, anche nell’ambiente più colto, non mancarono invece, su terreno filosofico, sogni di rinnovamento totale dell’umana convivenza, che investivano insieme politica e religione. La Riforma traboccava talora in una nuova chiusura confessionale, in un aspra intolleranza, in una depressione dell’uomo e in una condanna del mondo. L’umanesimo era stato riscatto dell’umano, celebrazione di libertà, rispetto per ogni credenza, libera critica e tolleranza. Valla aveva insegnato a leggere i testi sacri con occhi acuti, e sgombri da preoccupazioni dogmatiche, tanto da meritare l’incondizionato elogio di Erasmo, quale fondatore della nuova filologia biblica. Ficino aveva mostrato le occulte corrispondenze di tutte le fedi, e il nascosto accordo d’ogni religione e d’ogni filosofia, nel logos che tutto giustifica e tutto fonda. Libera critica, s’è detto, e tolleranza. Da cui non poteva non nascere il disegno di una nuova convivenza umana, moralmente ricostruita, razionalmente fondata, capace di dare agli uomini la felicità terrena e la salvezza dell’anima. Nella seconda metà del ’500 Francesco Sansovino, descrivendo l’ideale Repubblica d’Utopia, ci mostrerà una religione basata su «un’occulta e eterna divinità, sopra ogni capacità umana, la quale con la virtù, non con la
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grandezza, si stende per questo mondo»240 . E questo Dio gli Utopiensi sono poi pronti a riconoscere nel Dio padre del cristianesimo, che si presenta così come la perfetta religione razionale. Religiosa è la loro visione della vita associata, e la religione è alla base del viver civile. «La principal controversia tra loro è disputare in qual cosa consista la vera felicità dell’uomo... Ma inchinano... a credere che nella volontà consista il viver felice. E si servono a questo della Religione, la qual però appresso loro è greve e severa, né mai disputano della felicità, che non uniscano insieme alcuni principi tolti dalla religione e dalla filosofia. Senza i quali pensano che la ragione umana sia tronca e debole ad investigar la vera felicità... Benché tal principi vengano dalla Religione, tuttavia pensano che siano con ragioni e fondamenti umani condotti a crederli e a concederli»241 . Non è chi non veda la stretta parentela fra una così fatta Repubblica d’Utopia e i «regni di Cristo» o le Repubbliche cattoliche, ovverosia universali «raunanze», germoglianti su terreno più chiaramente religioso, anche se ereticale242 . In simili speranze di umana ricostruzione spirituale confluirono senza dubbio, e s’alimentarono, le ispirate costruzioni dei massimi pensatori del tardo Rinascimento, quali Bruno e Campanella, vicinissimi a volte, anche se talora invece lontanissimi, proprio per la comu240 FRANCESCO SANSOVINO, Del governo et amministrazione di diversi regni et repubbliche, così antiche come moderne, Venezia, 1578, p. 197. 241 SANS0VINO, Op. cit., p. 189. 242 Cfr. l’anonima Forma d’una Repubblica Catholica del 1581 (ed. CANTIMORI, in Per la storia degli eretici italiani nel XVI sec. in Europa, Roma, 1937, «Studi e documenti della R. Accademia d’Italia»). [La Forma è in realtà del Pucci; vedila ora ristampata dal Firpo, Gli scritti di Francesco Pucci, «Memorie dell’Acc. delle Scienze di Torino», s. III, t. 4, parte II, 1957, pp. 69-104.
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ne speranza di un rinnovarsi del mondo. Essi presentano, certo, uno strano miscuglio di credenze astrologiche, di pratiche magiche, di sogni messianici. Ma sono accomunati da un’ansia di umana liberazione, che li nobilita e li riscatta d’ogni errore e d’ogni ingenuità. «Con questa filosofia – son parole di Giordano Bruno – l’animo mi s’aggradisce e me si magnifica l’intelletto. Però, qualunque sii il punto di questa sera che aspetto, se la mutazione è vera, io che son nella notte, aspetto il giorno». Finché la luce, «in cotesta patria» non avrà illuminato per tutti di solare splendore «certe ombre dell’Idee», che risplendono per ora alla mente del saggio, «le quali invero spaventano le bestie e, come fussero diavoli danteschi, fan rimanere gli asini lungi a dietro». 2. Religione e filosofia in Bruno Che un profondo bisogno di rinnovamento spirituale penetri tutta l’opera del Bruno, non può in nessun modo negarsi, anche se si voglia gettare il dubbio sui suoi precisi intenti riformatori («sarìa tornato in Germania per finire la sua setta»). Un afflato religioso traversa tutti i suoi scritti e li infiamma, anche se poi lo induce perfino alla bestemmia della religione cristiana. Ma se la critica alle superstizioni volgari, estesa talora a ogni forma di religione positiva, sboccava nello Spaccio nei noti attacchi alla divinità del Cristo e, in genere, alla venerazione dei Santi («descendono poi ad odorar in sustanza per dèi quei che a pena hanno tanto spirito quanto le nostre bestie»), egli sinceramente poteva riaffermare davanti ai suoi giudici la propria convinzione che al fondo di tutte le religioni, positive e razionali, v’è la necessità di ammettere «un primo elargitore supremo» («secondo tutte le religioni, delle quali altre sono fondate sopra la rivelazione, come la nostra, altre sopra qualche ragione, come
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quella degli antichi Romani, Greci, et Egittij, tutte convengono nella necessità di conoscere un primo elargitore supremo»)243 . Tuttavia ben difficilmente potrebbe ricondursi questa sua sincera religiosità nell’ambito di una qualunque confessione religiosa, cattolica o protestante. Contro i protestanti, e se ne vanterà durante gli interrogatori veneti, ebbe più volte espressioni di critica aspra a proposito della dottrina della giustificazione per la fede. Il Bruno, dell’opera umana così aperto esaltatore, non poteva non scagliarsi contro i nuovi «corrottori di leggi, fede e religione», i quali «insegnano li popoli a confidar senza l’opera, la quale è fine di tutte le religioni». E ritornando senza posa sullo stesso motivo, rimprovera nello Spaccio ai calvinisti la loro negazione della libertà umana, e quindi della stessa possibilità per l’uomo di professare la vera religione («secondo la loro dottrina, non è in libertà de l’elezion loro di mutarsi a questa fede»). Tuttavia, anche a non dar troppo credito alle confessioni blasfeme raccolte dai suoi compagni di prigionia, non è certo possibile ricondurlo, non dirò nell’ambito del cattolicismo, ma neppure in quello di un vago cristianesimo. La chiara allegoria del Cristo sotto la specie del centauro Chirone, che troviamo nello Spaccio, sbocca in una irrisione non attenuata neppure dal troppo trasparente velo dell’immagine («ma in questo consiste la difficultà: cioè, se cotal terza entità produce cosa megliore... se, essendo a l’essere umano aggionto l’essere cavallino, vien prodotto 243 Spaccio della bestia trionfante, in Opere italiane, ed. Gentile, Bari, 1925-27, II, p. 201: «perché finalmente la loro adorazione si termina ad uomini mortali, dappoco, infami, stolti, vituperosi, fanatici, disonorati, infortunati, inspirati da geni perversi, senza ingegno, senza facundia e senza virtude alcuna; i quali vivi non valsero per sé, e non è possibile che morti vagliano per sé o per altro» Cfr. A. MERCATI, Sommario del processo di Giordano Bruno, Città del Vaticano, 1942, p. 90.
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un divo degno della sedia celeste, o pur una bestia degna di esser messa in armento e stalla»)244 . Bruno è, senza dubbio, ebbro di Dio; ardentemente brama d’essere Atteone che ha visto nuda Diana ed è sbranato dai cani, e morto al mondo è tutto aperto alla divina grandezza. «Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de’ perturbati sensi libero dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per forami e per fenestre la sua Diana, ma, avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte». Ma questo infinito orizzonte l’uomo «eroico» attua in se stesso. A Dio non giunge come a realtà fuori di sé; né egli, uomo, è Dio. I pensieri di cose divine lo vincono e annullano la sua umana chiusura, e in lui si apre l’infinito orizzonte; «degli suoi cani, degli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda; perché, già avendola contratta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la divinità»245 . La qual divinità non è che l’unità dell’essere, la semplicità fontale che è l’infinità stessa («monas omnium numerorum fons, simplicitas omnis magnitudinis et compositionis substantia..., monadum monas, nempe entium entitas»); quell’unità che oltrepassa, ma invera e chiarisce, risolvendola in sé, e giustificandola, la molteplicità sensibile246 . «Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de’ sensi, come de diverse rime, fanno vedere ed apprendere in confuG. BRUNO, Opere italiane, I, p. 301; II, pp. 65, 223-24. BRUNO, Opere italiane, II, pp. 472-74. 246 Opera latine conscripta, 1879-91, I, 3, pp. 136, 146: «Deus est monadum monas, nempe entium entitas; quapropter etiam vulgo philosophantibus ens et unum non differunt. Sicut ergo per monadem omnia sunt unum, ita et per monadem sunt; quando quod unum non est, nihil omnino est». 244 245
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sione. Vede l’Anfitrite, il fonte de tutti i numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Monade, vera essenza de l’essere di tutti». Religiosa è questa conversione radicale dai molti all’uno, dalla parvenza alla radice: «non adoravano Giove, come lui fusse la divinità, ma adoravano la divinità, come fusse Giove». Religione è questo adorare, non le cose, ma Dio nelle cose, e le cose come manifestazioni di Dio, «avendo riguardo alla divinità, secondo che ne è prossima e familiare, non secondo è altissima, absoluta in se stessa, e senza abitudine alle cose prodotte». Religione è questo contatto col divino che si rivela, che si manifesta, che si comunica. «Quel Dio, come absoluto, non ha che far con noi; ma per quanto si comunica alli effetti della natura, ed è più intimo a quelli che la natura istessa; di maniera che, se lui non è la natura istessa, certo è la natura della natura; ed è l’anima de l’anima del mondo, se non è l’anima istessa». Per questo saggiamente si è adorato Dio nelle cose, «latente nella natura, oprandosi e scintillando diversamente in diversi suggetti, e per diverse forme fisiche». E via via che il divino sarà colto in cose mortali, sarà pur degna la fede che, oltre quei veli, coglierà Dio. «Ecco dunque come mai furono adorati crocodilli, galli, cipolle, e rape; ma gli dei e la divinità in crocodilli, galli ed altri». Mutano i tempi e i culti; crollano gli altari ma rimane unica la divinità «la quale in certi tempi e tempi, luoghi e luoghi, successivamente e insieme, si trovò, si trova e si troverà in diversi suggetti quantunque siano mortali». E in questo suo manifestarsi terreno, in questo suo rivelarsi, cambia aspetto e nome («secondo che diversamente si comunica... prende diversi nomi»), ed è diversamente invocata, «e per vie innumerabili, con raggion proprie e appropriate a ciascuno, si ricerca, mentre con riti innumerabili si onora e cole». Nomi e preghiere mutano secondo luoghi e tempi; non muta Dio unica luce che si riflette in infiniti spec-
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chi: «onde al fine si trova che tutta la deità si riduce ad un fonte, come tutta la luce al primo e per sé lucido, e le imagini che sono in diversi e numerosi specchi, come in tanti suggetti particulari, ad un principio formale e ideale, fonte di quelle»247 . Asinina idolatria è ridurre Dio alle cose, far discendere la nostra adorazione a oggetti vili o «a uomini mortali»; religione è ascendere «da forme naturali» alla divinità, «una e semplice ed absoluta in se stessa, multiforme e omniforme in tutte le cose». Se il religioso non si fa uno con Dio, non è ancora l’eroe che, vista la Diana ignuda, lascia in pasto ai cani la sua carne; è tuttavia l’uomo pio che si converte, e comincia l’ascesa per penetrare alla divinità, la caccia in cui finalmente di cacciatore si trasformerà in preda. Ma, d’altra parte, questo intrinsecarsi di Dio alle cose, e questo incontrarsi del sapiente col divino, spiegano anche il rilievo dato dal Bruno al momento magico della vita religiosa. Anzi, per lui, il fondatore di religioni si serve della sua conoscenza dei segreti delle cose per convincere ed educare. Mosé, «che in tutte le scienze degli Egizii uscì addottorato da la corte di Faraone», operò mirabili cose servendosi delle leggi stesse di natura. «La magia, dunque, tanto di Moise quanto la assolutamente Magia non è altro che una cognizione de i secreti della natura con facoltà d’imitare la natura nell’opere sue, e fare cose meravigliose agl’occhi del volgo: quanto alla magia mathematica e superstiziosa la intendo aliena da Moise, e da tutti li honorati ingegni»248 . 247 Opere italiane, II, pp. 188-200; cfr. il De visione Dei del Cusano. 248 Sommario, p. 87 (e p. 101); Spaccio, Opere, II, p. 198; e De magia (Opera lat. Conscripta, III, p. 403: «nullum magiae genus noticia et cognitione indignum, quantoquidem omnis scientia est de genere bonorum...»).
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3. La concezione bruniana dell’universo La posizione bruniana nei riguardi della religione già avvia a intendere la sua posizione filosofica. Né traggano in inganno certe sue affermazioni di fedeltà a san Tommaso, spesso ripetute, anche in tutta sincerità, e in momenti tragici della sua vita249 . Nell’Aquinate egli venerava il trionfo della ragione, l’aristotelismo compatto; non il trionfo della fede. Il suo mondo non è il mondo del cristiano; è una natura vivente che torna a se stessa senza sviluppo, nella immobilità reale sottesa a una ciclicità inesorabile. Già abbiamo visto la lapidaria affermazione del Candelaio, e quella sicura attesa di chi sa come il flutto che oggi s’innalza domani tornerà ad abbassarsi. Per cui la vita stessa che in sé rimane immota è, in sostanza, parvenza di vita. Bruno scelse a più riprese come suo motto il detto dell’Ecclesiaste, che vergò di sua mano nel 1587 sull’albo dell’Università di Wittemberg. «Salomon et Pythagoras. Quid est quod est? ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? ipsum quod est. Nihil sub sole novum». E su questo concetto tornò senza posa, nei dialoghi De la causa, nel Sigillus sigillorum, nelle risposte, eloquenti, ai suoi giudici250 . Riferendosi allo spirito divino inteso come anima dell’universo, aggiunge: «da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia provenire la vita e l’anima a ciascuna cosa che have anima e vita, la qual però intendo essere immortale; come anco alli corpi. Quanto alla loro substanzia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione e congre249 Documenti della vita di G. B. a cura di V. Spampanato e G. Gentile, Firenze, 1933, pp. 40, 107, 154; Sommario, p. 89. 250 De la causa, Opere, I, p. 191; Opera lat. Conscripta, II, II, p. 213; Documenti, p. 96; Sommario, p. 115.
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gazione; la qual dottrina pare espressa nell’Ecclesiaste». Più precise ancora talune risposte stese dal Bruno durante il processo a difesa e illustrazione delle sue tesi. A proposito delle anime egli sottolinea: «come dalla generalità dell’acqua viene, e depende, la particolarità di quest’e quell’acqua,... e torna a quella,... così il spirito che è in me, in te, in quello, viene da Dio e torna a Dio». E dopo aver ribadito, a proposito delle cose che, tutte, «non possono essere altro che quel che sono state, né saranno altro, che quel che sono, ...e solamente accade separazione, e congiunzione, o composizione, o divisione, o traslazione», richiama solennemente ancora una volta il versetto dell’Ecclesiaste. A proposito, poi, dell’anima, riprende un’immagine della Lampas triginta statuarum, e la sviluppa lucidamente. L’anima universale è come uno «specchio grande generale», che riflette un’immagine («il quale è una vita, e rappresenta una Immagine»). Frantumato, «quanti sono fragmenti del specchio, tante sono forme intere». Ma effimere, «tamquam aqua decurrens»; perché ricomponendosi nell’unità dello specchio, «l’Imagini, ch’erano in ciascun fragmine, sono annichilate, ma resta... la sostanza, la quale era, e sarà»251 . 251 Lampas triginta statuarum, 22 (Opera lat. conscripta, III, p. 59 sgg): «cum materia sit caussa multitudinis et divisionis, forma vero unitatis, dicimus fulgorem divinitatis spiritum esse per se unum et facere unum (ab uno enim secundum quod unum non procedit nisi unum), tamen quia est, operatur in universo extento et materiali, quo quidem divisionem recipiente et in partium multiplicationem materiam distribuente accidit multitudo, ut ea anima quae in toto tota et in uno una videbatur, iam in multa veluti fragmenta distracto corpore, et in diversas hypostases numerales multiplicato, multae fiunt animae... Quod ita ferme est, quemadmodum si unus sit sol et unum continuum speculum, in toto illo unum solem licebit contemplari; quod si accidat speculum illum perfringi et in numerabiles portiones multiplicari, in omnibus portionibus totam repraesentari videbimus et integram solis effigiem, in quibusdam vero frag-
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Bruno, è vero, dichiarò allora che Dio, «con la potenza della voluntà», sottrae a questo loro destino le anime degli uomini, facendo «li spiriti immortali per grazia di Dio». Ma la logica della sua concezione lo portava altrove: a questa fissità di un ciclo in cui, si parli di natura o di spirito, nulla si crea e nulla si distrugge. Ond’è che, filosoficamente, anche se «Catolicamente parlando», annullava di fatto ogni distinzione possibile fra anima nell’uomo e anima dei bruti, stimando «vera l’opinione de’ Pitagorici... circa quella continua metamfisicosi, cioè transformazione, e transcorporazione de tutte l’anime», essendo l’anima dell’uomo «medesima in essenza specifica e generica con quella delle mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trove animata»252 . E data la concezione che «non è corpo che non abbia più o men vivace e perfettamente communicazion di spirito in se stesso», l’unica anima, «ch’ha sussistenzia distinta dal corpo organigo contra Aristotele», vien partecipandosi senza mutazione, uguale in tutte le cose. Questa naturale fissità del tutto, questa assenza profonda, totale, d’ogni effettiva creazione si rispecchia nel rapporto fra mondo e Dio, nel concetto stesso di Dio, uno e infinito. Come, a proposito dell’anima, Bruno ri-
mentis vel propter exiguitatem, vel propter infigurationis indispositionem, aliquid confusum vel prope nihil de illa forma universali apparebit, cum tamen nihilominus insit, inexplicata tamen. Itaque si quemadmodum uno perfracto speculo propter partium multiplicationem animalium animarum multiplicata sunt supposita, si accidat iterum partes omnes in unam massam coalescere, unum erit speculum, una forma, una anima, sicut si omnes fontes, flumina, lacus et maria in unum concurrant oceanum, unus erit Amphitrites». Cfr. Opere ital., I, p. 196 sgg. 252 Opere ital. II, p. 274 sgg. (Cabala del cavallo pegaseo).
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pete che ab uno, secundum quod unum, non procedit nisi unum, e che, quindi, ogni moltiplicazione è parvente e transitoria dispersione materiale, così il rapporto fra mondo naturale e Dio non è di libera creazione, ma di necessaria manifestazione. La natura infinita non è che l’apparire di un Dio che, essendo infinito, non può non apparire nell’infinito. «Io tengo un infinito universo, cioè effetto della infinita divina potenzia, perché io stimavo cosa indegna della divina bontà e potenzia che, possendo produr oltra questo mondo un altro ed altri infiniti, producesse un mondo finito». Bruno non si stanca mai di insistere su questo punto, considerandolo nei suoi aspetti, anche morali. Non è ammissibile che una potenza infinita e perfetta produca ciò che è finito e imperfetto: se lo facesse sarebbe almeno malvagia e invidiosa («si Deus finita fecisset, potens facere infinita, multi hominum illo essent laudabiliores»). Di qui i «sillogismi demostrativi» dei dialoghi De l’infinito: «il primo efficiente, se volesse far altro che quel che vuol fare, potrebbe far altro che quel che fa; ma non può voler far altro che quel che vuol fare; dunque non può far altro che per quel che fa. Dunque, chi dice l’effetto finito pone l’operazione e la potenza finita. Oltre (che viene al medesimo): il primo efficiente non può far se non quel che vuol fare; non vuol fare se non quel che fa; dunque non può fare se non quel che fa. Dunque chi nega l’effetto infinito, nega la potenza infinita»253 . Su questo legame necessario fra Dio e il mondo è fondata e l’infinità dell’universo e la sua eternità e, infine, la sua stessa fondamentale unità. Come è detto in forma lapidaria nei dialoghi De l’infinito (e nel De immenso è ripetuto), «bisogna che di un inaccesso volto divino sia uno infinito simulacro, nel quale, come infiniti membri, poi si trovino mondi innumerabili», la cui intima vicissi253
Opere ital., I, p. 300 sgg.; Sommario, p. 113.
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tudine non incide sull’eternità del tutto. È come un’interiore circolazione per entro un tutto immutabile, «in modo che, di medesima anima e intelligenza, il corpo sempre si va a parte a parte cangiando e rinovando»254 . Ma come dall’infinita potenza divina necessariamente si inferisce il mondo infinito, così dal mondo si risale all’unità fontale; simulacro dell’inaccesso volto divino, l’universo infinito ci esprime Dio, così come le acque esprimono la sorgente255 . E v’è corrispondenza perfetta, anche se l’uomo, finché è mondano, non potrà veder Dio che nella sua mondana diffusione. Perché questo diffondersi nell’universal simulacro, questo esser natura, è l’esprimersi stesso di Dio, è l’unità nella sua diffusiva ricchezza. Vel nihil est natura, vel est divina potestas, Materiam exagitans, impressusque omnibus ordo Perpetuus256 . Dio è, e non è, la natura; poiché la natura è Dio nelle cose, è la divina potenza nella sua manifestazione («in rebus ipsis manifestata»). S’è parlato di una equazione da Bruno non sempre posta chiaramente; ma in realtà Bruno non oscilla nella sua affermazione: Dio, unità inaccessibile come tale, si esprime, si manifesta, si svela nello spechio della multiforme natura, «per modo di vestigio, come dicono i Platonici, di remoto effetto, come dicono i Peripatetici, di indumenti, come dicono i Cabalisti, di spalli o posteriori, come dicono i Thalmutisti, di specchio, ombra ed enigma, come dicono gli ApocalipOpere ital., I, p. 295; I, p. 321. Opera, I, 4, p. 79; «si quippe sunt pulchre facta, mota, ordinata, concordantia, oportet esse unum concordantem, ordinantem, moventem, et exornantem necessario, quemadmodum ex sensu fluminum et plantarum sensum fontium et radicum colligere cogimur». 256 Opera lat., I, 2, p. 193. 254 255
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tici». Il quale manifestarsi di Dio, ed esplicarsi ed esprimersi suo, non è che un passaggio da un’unità, assoluta e attuale in un atto solo, a una diffusione «a tempi a tempi, a loco a loco, a parte a parte»; la qual faccia distesa e spiegata, tuttavia, presa nella sua complessa totalità è, ancora una volta, tutto ( «come medesimo, sempre e in cadaun loco fa tutto...»)257 . Ma in questa distensione che tutto comprende, in questa circolazione, o «revoluzione vicissitudinale e sempiterna», per cui nel seno onnicomprensivo dell’universo tutte le vicende sempre si attuano, nessuna effettiva conquista si dà, nessuna perdita reale. È come un mareggiare sul «volto inaccesso» dell’Uno assoluto; ed ogni momento, in varia collocazione, contiene ogni particolare vicenda, ogni onda, ogni goccia. «Nella natura è una revoluzione e un circolo», per cui ciò che è alto discende («tutto quel medesimo, che ascende, ha da ricalar a basso»), e ciò che è inferiore s’innalza, nella totale perfezione. «Alta e magnifica vicissitudine, che agguaglia l’acque inferiori alle superiori, cangia la notte col giorno, e il giorno con la notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo in cui tutto è capace di tutto». Solo che, a ben guardare, anche l’accenno teleologico che par emergere da questa frase, sembra nuovamente disperdersi, E il medesmo garbuglio Medesme tutte sorti a tutti imparte. Nel gran mare dell’essere, nella molteplicità mirabile in cui si dispiega l’Uno, «da abiti ed effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contrarii si ritorna al medesimo»258 . Vicende e individui si riducono a vane Opere ital., I, p. 247 sgg. Opere ital., II, p. 430: «però ora che siamo stati nella feccia delle scienze che hanno parturito la feccia delle opinioni, le quali sono causa della feccia degli costumi ed opere, possiamo certo aspettare de ritornare a meglior stati». 257 258
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parvenze, a variazioni di spazio e tempo; ma sotto l’apparenza molteplice resta il medesmo. «La Parca non solamente nel geno della materia corporale fa indifferente il corpo dell’uomo da quel dell’asino, ed il corpo degli animali dal corpo di cose stimate senz’anima; ma ancora nel geno della materia spirituale far rimaner indifferente l’anima asinina dall’umana, e l’anima che costituisce gli detti animali, da quella che si trova in tutte le cose: come tutti gli umori sono uno umore in sostanza, tutte le parti aeree sono un aere in sustanza, tutti gli spiriti sono dall’Amfitrite d’un spirito, ed a quello ritornan tutti». Nulla muore, anche se i composti individuali si mutano. In realtà il mutamento è parvenza, e stoltezza il timore di morte – anima sapiens non timet mortem. La sostanza non muore, né muta; la sostanza è, eterna, una, indifferente alla varietà di aspetti che da essa si manifestano259 . «Il cieco spavento della morte... non già s’accosta dove l’inespugnabil muro de la filosofica contemplazion vera circonda, dove la quiete de la vita sta fortificata e posta in alto, dove è aperta la verità, dove è chiara la necessitade de l’eternità d’ogni sustanza»260 . 4. La «contemplazione» Liberatrice, dunque, la bruniana «contemplazione». Ove chi s’interni, veramente s’accorge dell’intima medesimezza delle cose, dell’universo intero uno nella sua radice ( «è dunque l’universo uno, infinito, immobile»), uno nella sua verità, fine, sostanza. V’è come un pulsare continuo per cui l’Uno si manifesta, discende, e ritorna a sé. Il processo manifestante è descenso «alla produzion delle cose»; la comprensione è ascenso «alla cogni259 260
Opere ital., I, pp. 191 sgg., 211 sgg. Opere ital., II, p. 212.
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zion di quelle». Ma in questo ciclo perenne si traduce la vitale pulsazione dell’essere, ov’è ugualmente valido l’Uno e il suo manifestarsi, il descenso e l’ascenso, la dispersione e il ritorno. «Ecco qua la raggione, per cui non doviam temere che cosa alcuna diffluisca, che particolar veruno o si disperda o veramente inanisca, o si diffonda in vacuo, che lo dismembre in adnichilazione. Ecco la raggion della mutazion vicissitudinale del tutto; per cui cosa non è di male, da cui non s’esca, cosa non è di buono, a cui non s’incorra, mentre per l’infinito campo, per la perpetua mutazione, tutta la sostanza persevera medesima e una». Contemplare è afferrare l’indifferenza fondamentale dell’essere, e, nell’ascenso all’unità, conquistare la pace, abbandonando «doglia o timore,... piacere o speranza». Contemplare è raggiungere «la via vera alla vera moralità», farsi «magnanimi»; diventare più grandi degli dèi venerati dal volgo, «spreggiatori di quel che fanciulleschi pensieri stimano». I «veri contemplatori dell’istoria della natura» comprendono che non v’ha nell’universo distanza o separazione, non grande né piccolo, non vicino o lontano, non bene né male. «Non è altro volare da qua al cielo, che dal cielo qua; non altro ascendere da qua là, che da là qua; né altro è descendere dall’uno all’altro termine. Noi non siamo più circonferenziali ad essi, che essi a noi; loro non sono più centro a noi, che noi a loro; non altrimenti calcamo la stella e siamo compresi dal cielo che essi loro». La comprensione della medesimezza del tutto è liberazione «da vana ansia e stolta cura di bramar lontano», poiché il bene è presso a noi, entro di noi. È liberazione da vano timore, perché nulla muta, ma tutto, unicamente, «cangia volto». L’infinito ritrova la sua salvezza nell’Uno, e l’Uno manifesta nell’infinito la sua feconda inesausta vita. Il contemplante si libera allora da ogni suo timore o speranza, da ogni dispersione nel fu-
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turo, o, in genere, nell’alterazione, per godere la «vera beatitudine... dell’esser presente»261 . 5. La riforma morale Ma proprio qui, nell’intendere questo rapporto circolare fra Dio e l’universo, è tutto il problema di Bruno: ché se questo processo, ontologicamente, sembra svanire in una sostanziale immobilità, d’altra parte, ecco che si trasfigura in un farsi effettivo, anche se interiore a Dio. Negli Eroici Furori si insiste sul motivo che «il corpo è ne l’anima, l’anima ne la mente, la mente o è Dio o è in Dio»; e nello Spaccio non si distingue fra processo gnoseologico e sviluppo ontologico, fra verità e realtà, fra conoscere e fare. «L’atto della cognizion divina è la sostanza de l’essere di tutte le cose»; e, ancora: «è una sorte de verità, la quale è causa delle cose, e si trova sopra tutte le cose; un’altra sorte, che si trova nelle cose, ed è delle cose; ed è una terza, ed ultima, la quali è dopo le cose, e dalle cose. La prima ha nome di causa, la seconda ha nome di cosa, la terza ha nome di cognizione». Non v’è differenza fra vero e ente; e la verità «è ideale, naturale e nozionale; ...metafisica, fisica e logica»262 . Solo che nella compattezza di questo processo interno all’essere, per cui perennemente l’unità torna a se stessa e coglie il suo significato manifestandosi in una molteplicità che, essendole intrinseca, si annulla perennemente nel suo seno; solo che, appunto, in questo circolo dove nulla è nuovo, e nulla può esserci di nuovo, la riforma morale inserisce una novità radicale. L’uomo che «per essenza è in Dio», e anzi è tutt’uno con Dio, per l’operazione intellettuale, e la voluntà conseguente 261 262
Opere ital., I, p. 281 sgg. Opere ital., II, pp. 367, 264 (cfr. Opera lat., II. 3, p. 94).
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dopo tale operazione, si riferisce alla sua luce e beatifico oggetto». All’immediatezza di una unità originaria data, si oppone un volontario ritorno, che è conquista e novità. Che è quanto, sul piano etico-religioso, Bruno chiaramente indica nell’antitesi fra coloro che sono condannati «a parlar ed operar come vasi e istrumenti», e coloro che agiscono «come principali artefici ed efficienti». O, per citare la nota similitudine, «gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti; gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si considera e vede in effetto la divinità, e quella s’admira, adora, ed obedisce; negli secondi si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade». In tal modo, tuttavia, il circolo di descenso ed ascenso perde tutta la sua ciclicità meccanica per trasformarsi in un progresso morale, in un circolo amoroso, in un continuo arricchimento dell’essere. Il passaggio dai dialoghi metafisici a quelli morali sembra mutare la prospettiva bruniana. Quando nel quinto dei dialoghi Della causa, dopo l’esaltato inno all’unità e medesimezza del tutto Bruno si domanda: «perché dunque le cose si cangiano?», senza esitazione risponde «che non è mutazione che cerca altro essere, ma altro modo di essere». Modi diversi, ma unità, identità sostanziale; e nessuna conquista, nessun arricchimento, ma spostamento locale attraverso immutate e immutabili stazioni per entro l’uno infinito immobile («questo lo ha inteso Salomone, che dice non esser cosa nuova sotto il sole»). «Volto labile... di uno immobile... ed eterno essere»; anzi, «ogni volto, ogni faccia, ogni altra cosa è vanità, è come nulla, anzi è nulla». Ma poi questo nulla si anima nello Spaccio e, attraverso la riforma morale e religiosa, gli si apre davanti la possibilità di trasformare il passivo «vaso» del divino, in «artefice efficiente», ove s’ammira «l’eccellenza... della umanitade». Ecco la celebrazione dell’attività umana «per l’emulazione d’atti divini», delle «nove e maravigliose invenzioni». Ecco quel tanto si-
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gnificativo elogio del lavoro che vince l’ozio; quella condanna cruda dell’età dell’oro e d’ogni paradiso terrestre; quell’esaltazione dell’opera («e per questo ha determinato la providenza, che vegna occupato ne l’azione per le mani...»), della costruzione della civiltà, che si libera poco a poco «dall’esser bestiale», quando, «per l’emulazione d’atti divini e adattazione di spirituosi affetti, nate le difficultadi, risorte le necessitadi, sono acuiti gl’ingegni, inventate le industrie, scoperte le arti; e sempre di giorno in giorno, per mezzo de l’egestade, dalla profundità de l’intelletto umano si eccitano nove e maravigliose invenzioni»263 . Alla qual lode del lavoro corre parallela la celebrazione della virtù del pentimento, che è la crisi che rompe la fatale discesa dell’uomo, e rende l’anima afflitta «per il stato presente», riconducendola a se stessa «come per rimembranza de l’alta ereditade». Pentirsi è inserire nella propria condizione terrena «il fervido amore di cose sublimi»; il pentimento nasce, è vero, sulla carne e sul peccato, nella terra e nel dolore, ma «come la vermiglia rosa, che da le adre e pungenti spine si caccia». Nella staticità, essenziale all’essere, la crisi morale del senso della colpa «è come una lucida e liquida scintilla, che dalla negra e dura selce si spicca, fassi in alto, e tende al suo cognato sole». Qui v’è più che un profondo significato morale; è il ritmo dell’essere, che nella sua mobile immutabilità, si fa processo realizzatore di bene, quando la negra e dura selce si spezza, per sprigionare la lucida fiamma dell’amore264 . Ma dolore, senso aspro della colpa e lavoro, sono le uniche strade che fanno umanamente degna la realtà. Là dove la metafisica non scorge che la fissità in sé chiusa dell’Uno eterno e perfetto, la moralità, che discaccia 263 264
Opere ital., II, p. 152 sgg. Opere ital., II, p. 129.
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le fiere delle passioni, trasfigura la passività dell’accoglimento del dato in una riconquista, che è una trasformazione radicale. Mentre l’asinità è accettazione supina, viver morti gli anni propri, non peccare e non riscattarsi, non cogliere con Adamo il frutto proibito, ma non stender con Prometeo la mano a strappare il fuoco divino «per accendere il lume nella potenza razionale». L’asinità è l’accettazione senza lotta; è l’essere cose nel mondo, non uomini: «fermaro i passi, piegaro... le braccia, chiusero gli occhi, bandiro ogni propria attenzione o studio...; quindi non si volgono a destra o a sinistra, se non secondo la lezione... che gli dona il capestro... »265 . La riforma dello Spaccio è, veramente, la riduzione del ritmo descenso-ascenso a un moto di liberazione morale, ove la raggiunta conoscenza della legge del tutto, facendosi nella coscienza umana norma di vita, sostituisce alla passione come sigillo di soggezione l’amore come «contatto intellettuale di quel nume oggetto». Non più «un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci di ferine affezioni; ma un impeto razionale, che siegue l’apprension intellettuale del buono e bello». 6. L’eroico furore Lo Spaccio della bestia, e cioè la vittoria sulla passività, sul predominio della carne, la nascita alla vita umana, che è operazione morale, che è volontà operosa e cosciente («la voluntade umana siede in poppa de l’anima»), ha origine con la consapevolezza di sé e del proprio difetto, e insieme del proprio significato; con una inquietudine che ci fa accorti che, immersi nella natura, non siamo solo natura. L’uomo emerge dal cieco ciclo delle cose quando lo invita un «certo lume che siede nella speco265
Opere ital., II, p. 269.
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la... della nostra anima», e che è la voce critica, l’incrinatura del nostro stare, qualcosa di libero («est ergo quoddam velut libere agens»), di spregiudicato, di socraticamente ironico («e qua... è significato... per Momo»). È «l’atto del raziocinio de l’interno conseglio», la «lanterna de la raggione», che pone l’uomo dinanzi a se stesso, alla sua vita ferina, e fa nascere in lui rossore del suo essere, pentimento del suo peccare e sollecitudine. Ansia cioè di farsi, di «vaso» della divinità, di «asino» che reca il divino, come tutte le cose lo recano, cipolle e coccodrilli, divino anch’egli e tempio vivente, che a Dio volontariamente e liberamente si offre. Perché le passioni son di due specie, «amori volgari e naturaleschi» da un lato, e dall’altro «divini ed eroici furori». Nel primo caso l’uomo è trascinato da «impeto irrazionale»; è cieco; è tutto la sua chiusura, che ribadisce nella sua «cecità», nulla vedendo tranne se stesso, e il suo particolar godimento, passivamente subendo la sua sorte. Ma v’è un amore non di sé, ma dell’essere; non del proprio limite, ma della verità; un amore che non è oblio, ma una memoria della propria radice, un’alienazione dalla propria chiusura; una dimenticanza di sé, che non è negligenza di se stesso, ma amore e brama del bello e buono, «con cui si procuri farsi perfetto con trasformarsi ed assomigliarsi a quello». Qui il perdersi è un conquistarsi, il dimenticarsi èun ricordare; qui l’agire trabocca nel patire, e il patir si identifica con l’agire supremo. Laddove l’amante d’amore volgare è schiavo e soggetto, perché è chiuso essere dinanzi a chiuso essere, e volendo assoggettare al suo piacere si fa schiavo del suo piacere, colui che ama d’amore vero, che, cioè, vuole nel singolo l’eterno, e lo vuole con volontà pura, «doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile in quelle cose che comunemente massime sentemo». L’un patire è patire dal finito, l’altro è patire la presenza del Dio,
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aprirsi a Dio, seguirne la legge. E qui l’amore «non è furor d’atra bile, che fuor di conseglio, raggione ed atti di prudenza lo faccia vagare, guidato dal caso e rapito dalla disordinata tempesta... Ma è calor acceso dal sole intelligenziale ne l’anima, e impeto divino, che gl’impronta l’ali; onde più e più avvicinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oro probato e puro, ha sentimento de la divina e interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita nelle cose». La passione dell’essere è subito trasfigurata in attiva collaborazione con l’essere, allorquando l’uomo «sotto l’imagini sensibili.... va comprendendo divini ordini266 . La storia di questa conversione dal patire sensibile, e cioè dalla soggezione al fato, al patire eroico, e cioè alla liberazione, è storia del processo dell’emergere di una moralità umana dalla natura. E qui è il problema bruniano, assai più che non nella determinazione se l’Uno sia nel mondo come il nocchiero nella nave. Perché quel problema si risolveva in questo problema: come nella passività di ogni ente finito, soggetto al fato, si distingua un altro patire, che è un verace agire con Dio in Dio. Che sarà poi il problema diversamente espresso nel mito di Atteone che, mosso alla caccia della Diana ignuda, trova il suo fine nel diventare di predatore preda. È la mente umana, l’intelletto che, giunto alla presenza del divino, «rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda; perché, già avendola contratta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la divinità». Ove l’interno e l’esterno coincidono, e i molti e l’uno, quando l’uomo, fatto prima «selvatico» rispetto alla dispersa moltitudine, «non più vegga come per forami e per fine266
Opere ital., II. p. 360 sgg.
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stre la sua Diana, ma, avendo gittate le muraglia a terra», si faccia «tutto occhio a l’aspetto di tutto l’orizzonte267 . 7. Problemi nuovi in Tommaso Campanella Senza dubbio, per molti aspetti, la posizione del Campanella esce dai quadri del pensiero rinascimentale per saldarsi strettamente al moto religioso nato dalla Controriforma, alle polemiche politiche alimentate dalla reazione al Machiavelli, agli interessi scientifici del ’600 culminanti in Galileo. Basta pensare a quel suo professato machiavellismo, candidamente ammesso sotto la condanna aperta ed insistente, per rendersi conto di quanta parentela vi sia fra la sua posizione e quella dei teorici della ragion di stato, ai quali doveva del resto attingere a piene mani. «Il mondo diventò pazzo,... e gli savi, pensando sanarlo, furon forzati a dire e fare e vivere come gli pazzi, se ben nel loro segreto hanno altro avviso». Anche Campanella, come Cartesio, avanza mascherato. E di questa sua originalità dinanzi alla cultura nata dall’umanesimo; di questi suoi scopi pratici, morali e politici, cui si subordina la stessa ricerca scientifica, il Campanella non fa mistero. In quella celebre lettera a Monsignor Antonio Querengo, scritta nel luglio del 1607 «dal profondo Caucaso» del carcere napoletano, ove istituisce un confronto fra sé e il Pico, rimprovera alla «fenice degl’ingegni» d’essere stato «scarsissimo» nelle «cose morali e politiche» per aver speso la vita «a voltar libri». «Filosofo più sopra le parole altrui che nella natura, donde quasi niente apprese», il Pico incarna una mentalità e una posizione tutta opposta a quella campanelliana. «Ecco dunque il diverso filosofar mio da quel di Pico; ed io imparo più dall’anatomia 267
Opere ital., II, p. 472 sgg.
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d’una formica o d’una erba (lascio quella del mondo mirabilissima) che non da tutti li libri che sono scritti dal principio di secoli sin a mo’, dopo ch’imparai a filosofare e legger il libro di Dio: al cui esemplare correggo i libri umani malamente copiati e a capriccio, e non secondo sta nell’universo libro originale»268 . C’è il motivo centrale di tanta parte della posizione del Campanella, destinato a tornare nel noto paragone dell’Apologia per Galileo fra natura, sacro libro di Dio, e scrittura, tra le quali non v’è, né può esservi, contrasto269 . Di qui il Campanella traeva argomento a porre come fonte unico di conoscenza il contatto diretto, immediato, fra uomo e cose. S. Agostino e Lattanzio hanno con un sillogismo negato gli antipodi, «ed un marinaro gli ha fatti bugiardi col testimoniar de visu». I ragionamenti, su ogni argomento, giungono a porre l’equivalenza delle opinioni; «in questo secolo oscuro... tutti filosofi e sofisti, religione, empietà e superstizione hanno egual regno e paion d’un colore». Né «per sillogismo», si può decidere «qual sia più vera legge, tra la cristiana e la macometana ed ebraica; e tutti scrittori vacillano sopra l’empietà aristoteliche; e le scole parlano con dubbio e mussitando». Nel proemio alla Metafisica questo appello alla comunicazione diretta col mondo, e quindi con Dio, si precisa ancora. I sillogismo «è come uno strale con cui cogliamo nel segno rimanendo lontani dall’oggetto, e senza gustar268 TOMMASO CAMPANELLA, Lettere (a cura di V. Spampanato), Bari, 1927 p. 134. 269 Apologia pro Galileo: «et propterea mundus vocabatur ab initio Sapientia Dei (ut revelatum est Sanctae Brigittae) et liber, ut omnes in eo legeremus... Ergo sicut Apostolis prae ceteris credimus in Scriptura, naturae libro primo... Concordant enim codices Dei utrique alter alteri...» (Le Opere di GALILEO GALILEI, Firenze, 1846, V, pp. 507-509). Cfr. Poesie, ed. G. Gentile, Firenze, 1939, p. 20 sgg.
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lo (est quasi sagitta qua scopum attingimus a longe absque gustu)»; l’autorità è un toccar le cose per mano d’altri (est tangere quasi per manum alienam). Conoscenza vera si ha per diretto e profondo contatto, con grande dolcezza, intrinsecandosi con l’oggetto (per tactum intrinsecum, in magna suavitate)270 . Campanella insiste sulla trascrizione sensibile di questo rapporto, per sottolinearne l’immediatezza, la non discorsività, congiungendo in un sol termine cognizione sensibile e intuizione intelligibile sul tipo dell’esperienza illustrata da Ruggero Bacone. Come Bacone egli parte dalla tradizionale analogia del vedere, della luce. Ed insiste, s’è detto, sui due libri che Dio ha offerto all’uomo, la natura e la scrittura. Sempre nel citato proemio alla Metafisica Campanella osserva, che «Dio parla a noi in due modi, e cioè producendo le cose stesse, o rivelandole secondo il modo degli uomini, come il maestro ai discepoli». In ogni caso scrive un libro in cui possiamo apprendere guardando (codicem vivum facit, in quo despicientes addiscamus). E, tuttavia, proprio questa celebre analogia visiva non soddisfa più Campanella; proprio l’immagine, a lui così cara, del mondo «libro e tempio di Dio», dell’ «original libro della Natura», lo spinge a andare oltre. La parola, infatti, e la scrittura di Dio, son produzione di cose; dicere autem Dei ac scribere est ipsum facere realiter, sicut nostrum est declarare facta vel facere intentionaliter. Per questo gli antichi hanno chiamato il mondo sapienza di Dio; per questo, perché non siamo Dio, noi produciamo solo favole, e non cose (quas realiter exprimeremus, si Deo aequivalentes essemus), e la nostra poesia, non è creazione, ma finzione. Per questo, nella Poetica, i poeti che non si propongano fini civili sono conside270
Metaph. (Parisiis, 1638), pp. 2-5; Poesie, p. 30.
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rati excrementa reipublicae, merito religanda271 . Ma se il conoscere-specchiare, se il conoscere che, nella metafora visiva, si denuncia come un puro riprodurre, non soddisfa Campanella, il parallelo con Dio apre la via a un altro più diretto contatto, a un compenetrarsi reale con l’oggetto conosciuto, a un intrinsecarsi effettivo. «Sapientia dicitur a sapore, qui sensui gustus intrinsecatur». E l’uomo sapit proprio in quanto fa suo il sapor della cosa (quatenus sentit sapit, non quatenus ratiocinatur... quoniam sapor rei, sicuti est, illi communicatur)272 . Ora non si insisterà mai abbastanza sul valore particolare di questo sentire, non a caso dal Campanella ripetutamente avvicinato all’estremo culmine dell’intuizione platonica, non già alla percezione telesiana; o, se si vuole, percezione telesiana trasfigurata poi in termini di sapienza intuitiva (intuitiva sapientia, et tactus quidam gustusque divinus, faciens scire res sine motu et discursu, ut etiam Plato dixit...). Non a caso l’immagine deriva direttamente dalla tradizione mistica musulmana, dal sûfismo, e la troviamo negli stessi termini già in Gundissalino che accoglieva la trasformazione operata dagli arabi del vedere plotiniano e platonico in un gustare. Poetica, a cura di L. Firpo, Roma, 1944, p. 260. Metaph. (Parisiis, 1638), p. 65. Cfr. GUNDISALINI de anima («Arch. his. doctr. et litt. du M. A.», IV, 192930, pp. 90-91): «sapientia a sapore dicta est... et merito... quia cum omnes alii sensus, praeter tactum, ...a se remota sentiant, gustus ex omnibus... hoc habet proprium ut sentire non possit nisi quod se, nullo mediante, tetigerit...». E a p. 87: «scientia... sensibilis et mutatio formae sensatae cum sentiente... scientia intelligibilis est mutatio formae intellectae cum intelligente...». Cfr. su questa teoria GILSON, Les sources gréco-arabes de l’augustinisme avicennisant, loc. cit. e J. TEICHER, D. Gundisalino e l’agostinismo avicennizzante, in «Riv. Filosof. neoscolastica», 1934. 271 272
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Il senso, dunque, ha qui un significato diverso dall’empirismo aristotelico, e si presenta come intrinsecazione, e quindi compartecipazione con la cosa, e cioè con quell’intimità della cosa che è lo stesso processo espressivo di Dio, il fare divino, che è l’Essere che adegua Potenza ed Amore. Non è un vedere, quindi, o specchiare, riproducendo immagini, ma un compenetrare il processo vitale del tutto; un gustare, insomma, la soavità della vita universale (Hic, in mundo, Deus... Verbo ipsum exprimit...). L’esperienza, che abbatte le barriere fra interno ed esterno, fa intima l’intimità della cosa, riconducendoci a quella reale espressione divina attraverso la cui compartecipazione ci facciamo in qualche modo equivalenti a Dio. Ove, come già in Ruggero Bacone, l’empirismo si impianta e si converte nel misticismo. 8. «L’imparare e il conoscere sono pur qualche morte» Questa vena mistica inserita nel sentire telesiano, mentre rompe la definizione che sentire è perceptio passionis, per farne un contatto diretto con l’Essere, induce Campanella a riprendere tutto il problema del senso. E senso – egli dice – è non già informazione (perder la propria forma, quindi, e farsi tutt’uno con l’oggetto), ma immutazione, e cioè farsi, sì, l’oggetto, ma non completamente («e, allora il fuoco e il sole conosco quando da loro sono mutato; ma non del tutto, che sarìa farmi fuoco, ma poco...»). Conoscere, e conoscere è innanzitutto sentire («la ragione è senso strano e non proprio»), è sempre illuiarsi, accogliere l’altro in sé, farsi l’altro in se stessi («però chi è più passibile e molle, più è atto a sentire e divenir savio»)273 . E dunque conoscere è morire, «perché 273 Del senso delle cose e della magia, a cura di A. Bruers, Bari, 1925, pp. II e 151.
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ogni morte è mutarsi in altro e ogni mutamento è qualche morte». Ed essendo il mutamento farsi l’oggetto, esso è pur morte, ancorché parziale, accompagnandosi sempre questo nostro internarci nell’oggetto alla consapevolezza di noi («sensus nostrimet ipsorum, abditus qui est actus»), al senso intimo per il quale non ci disperdiamo nella cosa, ma ci teniamo fermi a noi stessi. Ma proprio qui interviene quel rovesciamento dal senso alla sapienza, su cui Campanella batte. Se il sentire in quanto farsi l’oggetto, e quindi patire, significa accogliere un nuovo limite, e quindi morire, il contemplare Dio interno a tutte le cose, l’Essere cioè che tutte le costituisce, significa spezzare la negatività della realtà e farsi reali veramente. «E l’imparare e il conoscere, sendo un mutarsi nella natura del conoscibile, sono pur qualche morte, e solo mutarsi in Dio è vita eterna, perché non si perde l’essere nell’infinito mar dell’essere, ma si magnifica». Con una bella immagine, trasferendo il suo problema sul piano morale, Campanella osserva che, «come la luce incorporea si fa, nelli vapori dell’Iride, gialla, rossa e verde... all’istessa maniera l’anima s’infà delle passioni... e se si lascia vincere patirà pena». Ma se l’uomo, invece di esser sopraffatto dal limite delle cose, le ricolloca nella realtà, riafferrandole nell’essere in cui si sia così collocato, allora «perché è penetrante e penetrato» dalla divinità, perché «s’incinge, cioè s’impregna di Dio», si fa «lieto conoscitore e beato». Tutto il maggiore sforzo di Campanella è, appunto, di mostrare la possibilità di un trapasso, sul piano del senso, inteso come diretta esperienza, alla totalità dell’essere («la Teologia vera è tutta manifestata e rivelata alli sensi dell’uomo»). Trapasso possibile quando la senziente conoscenza, che tocca le cose, viene slegandole dal loro limite, dal loro niente, per ricollocarle nella realtà divina del tutto, per coglierle, cioè, nel processo in cui Dio si esprime, affermandone, non la negatività, ma la positività. Di qui l’insistenza polemica di
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Campanella contro l’astrazione aristotelica, che impoverisce e diluisce le cose riducendole a schemi vuoti («è de’ fanciulli e degli ignoranti che conoscono l’uomo in comune, ma non le sue particolarità, ed è propriissimo alle bestie che tutti gli uomini stimano di una sorte, come noi tutte l’ova d’una gallina»). La verità di Pietro non è nell’astratto uomo, ma nel generarsi concreto di Pietro, nella comprensione di tutte le sue minutezze, che «chi vede... di fuori si pensa esser tutte uguali, ma chi mira dentro distingue». Mirar dentro che, poi, distrugge il rapporto stesso dentro-fuori per la comprensione e compenetrazione del processo del tutto («ogni scienza al senso s’appoggia, non dico all’occhio, orecchio, ma alla senziente conoscenza [anima in eis], poiché Paolo alienato e Caterinella mia videro tanto, né sanno se in corpo o fuor di corpo»). Ove i fondamenti metafisici di Campanella, pur collegandosi con alcune tesi del platonismo rinascimentale in genere, oltrepassavano per interessi e conclusioni l’ambito di quel pensiero. Del quale rimaneva invece e la concezione di una matematicità della realtà fisica, e la tesi della animazione universale, e, ancora, il corollario pratico di una conversione dell’umanità intera, attraverso soccorsi anche magici, alla vera religione. La quale, a sua volta, si presenta come fede nel Verbo, tutto spiegato nel mondo: religione naturale, ma coincidente col cristianesimo visto, appunto, come l’espressione più piena della Sapienza divina. Ma proprio in questo complesso, qualche volta equivoco, di motivi, Campanella oltrepassa, ormai, la problematica del Rinascimento.
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EPILOGO
Se l’umanesimo fu, veramente, rinnovata fiducia nell’uomo e nelle sue possibilità, e comprensione della sua attività in ogni direzione, all’influenza umanistica è giusto rivendicare, come si è fatto, anche il nuovo metodo d’indagine scientifica, la rinnovata visione del mondo, il nuovo moto verso le cose per dominarle ed usarle. La cultura italiana dal ’400 al ’500 vide, pur in mezzo a tante oscillazioni e a tanti contrasti, la convergenza di una piena formazione umana, compiuta attraverso gli studia humanitatis, e di una libera e fattiva espansione nel mondo. La vecchia e forte espressione burckhardtiana che congiungeva la riaffermazione dell’uomo e del mondo, dello spirito e della natura, deve connettersi, senza timor di retorica, all’antica celebrazione di una rinnovata armonia raggiunta dalla Rinascenza. Armonia e misura di una umanità completa, non incrinata da quanto di torbido, di aspro, di oscuro, traversa quei secoli: che anzi proprio la durezza di quei contrasti, la profondità di quel travaglio, rende più nobile il volto di quell’età: ricca forse come nessun’altra di personalità esemplari, siano esse l’Alberti o Lorenzo, Michelangelo o Giordano Bruno. Con grande verità Augustin Renaudet ha scritto una volta che «l’Italia del Rinascimento unisce in sé tutti i conflitti». L’uomo che si celebra è questa sintesi vivente, questo nodo, questo mediatore, questo vincolo; il mondo di cui si parla, il Dio che si onora, sono i poli di questa tensione, ma sono visti in questa tensione. E la meditazione filosofica, tutta volta a sottolineare questa sintesi umana, a «educare» a questa missione, è la meno riducibile che mai sia stata a schematizzazioni e a classificazioni. È un tono, un accento, che circola ed anima ogni problema e ogni ricerca; è ammonimento, all’arti-
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sta, allo scienziato, al sacerdote, al politico, della sua misura umana. Per questo essa è varia e molteplice, e sembra polverizzarsi ora in un’orazione politica, ora in un trattato di belle maniere, ora in un manuale tecnico; è richiamo, in ogni indagine particolare, al compito umano cui non si deve mancare. Infranto lo schema della filosofia teologizzante, la scienza dell’universale invano si cercherebbe nelle scolastiche sistemazioni professorali: essa vive come coscienza di sé presente in ogni concreta ricerca. E questa è davvero l’aurora del pensiero moderno: per questo tutta la cultura del Cinquecento europeo è pregna di echi della cultura italiana. Per questo lo storico futuro della cultura filosofica rinascimentale in Italia dovrà legger piuttosto libri di politica, di morale, di retorica, di logica e di scienza, che non di quella scolastica filosofia cui era stato dato un crollo mortale. Dopo il quale la patria di Galileo, di Vico, di Giannone, di Muratori, dei politici ed economisti del ’700, e, domani, di Leopardi, è sembrata a taluni priva di pensiero filosofico, non avendo più potuto dimenticare la lezione dell’umanesimo, anche quando la sua degenerazione retorica sembrò averne inaridita la fonte. Ma chi nella filosofia vede appunto una presente consapevolezza critica dello spirito umano alle varie forme della sua attività, un sempre vivo render conto a sé della propria umana misura così nei limiti come nelle possibilità, un operoso procedere mai pago del termine, un continuo elaborare nuovi strumenti per un’attività inesauribile; chi così intende il filosofare, non può non sottolineare la positività di cosiffatto orientamento «umanistico».
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