7 - La Polemica Evola-Guenon Sul Vedanta
Short Description
Download 7 - La Polemica Evola-Guenon Sul Vedanta...
Description
Quaderni del Gruppo di Ur VII LA POLEMICA EVOLA-GUENON SUL VEDANTA
Il Sole e il Loto
Ogni quaderno del Gruppo di Ur raccoglie, in forma organica e sintetica, quanto emerso nell'omonimo Forum, in relazione ad un determinato argomento. In esso si trovano, perciò, sia citazioni degli autori studiati, sia commenti. I quaderni si devono considerare in continuo aggiornamento, dal momento che l'emergere di nuovo materiale sull' argomento trattato può rendere opportuna una nuova edizione.
La polemica Evola-Guenon sul Vedanta ebbe come teatro la rivista "Idealismo Realistico", fondata nel 1924 da Vittore Marchi (Potenza 1892-Roma 1981), che condivideva con Evola e gli altri collaboratori l'interesse per l'idealismo e, nello stesso tempo, un atteggiamento indipendente nei confronti dell'attualismo gentiliano e dello storicismo crociano. Il tutto nacque, nel 1925, con una recensione di Evola dell'opera guenoniana "L'Uomo e il suo Divenire secondo il Vedanta". La risposta di Guenon, assieme ad una replica di Evola, venne pubblicata in un numero dell'anno successivo. Nella rivista in questione la cosa finì lì, ma echi delle medesime divergenze comparvero in diverse opere successive dei due autori. Cominceremo con l'esaminare la recensione di Evola, la risposta di Guenon e la controrisposta di Evola. Dal dibattito susseguente, avvenuto, tra i membri del forum emergeranno anche le fasi successive della polemica. Come nei precedenti quaderni, alcune osservazioni pertinenti, fatte in messaggi privati, sono state riportate sotto il nome collettivo di "Turba Philosophorum".
I) La recensione di Evola L'UOMO E IL SUO DIVENIRE SECONDO IL VEDANTA L'Idealismo Realistico, Anno II, n°. 21-24 (1 novembre - 15 dicembre 1925). L'interesse crescente mostrato oggi dalla nostra cultura per tutto ciò che è orientale, è un fatto incontestabile, e non può essere spiegato come una semplice ventata di moda esotistica, ma deve riconnettersi a qualcosa di assai più profondo. Però, circa il significato di questo fatto, esso resta ancora un problema e, a dir vero, un problema che meriterebbe di venire studiato assai più di quel che non lo si sia fatto sinora. In un primo momento era abitudine sbarazzarsi dell'Oriente con una semplice scrollata di spalle, dall' alto di una «suffisance» basata essenzialmente sulle conquiste della civiltà nostra nel campo della materia e dell'astratta discorsività. Ma, destatisi da questa presunzione spensierata, a qualcuno cominciò a balenare il sospetto che tali campi non fossero poi l'ultima istanza, e con un rinnovato sguardo considerando l'Oriente, cominciò a comprenderne la realtà spirituale; e accorgendosi nel contempo verso che punti critici graviti in fondo l'insieme della vantata civiltà europea quando sia portata sino alle sue ultime conseguenze, oltre a riconoscere l'Oriente cominciò a domandarsi se, per avventura, esso potesse offrire qualcosa per integrare la civiltà europea stessa, per portarla, di là dalla crisi, verso una più alta positività. Tuttavia vi fu chi cadde nell'eccesso opposto, cioè nell'idea, che l'Oriente sia come l'ancora di salvezza o la manna del cielo, che tutto ciò che da noi è stato fatto, dai Greci sino ad oggi, sia un non-valore, un traviamento, una degenerazione da cui importa soltanto salvarsi riconoscendolo come tale e tornando alla concezione orientale e tradizionale della vita - ad un dipresso, come figliuoli prodighi. Curioso è però notare che la gran parte di questa gente ad una tale incomprensione dell'Occidente ne accompagnano una analoga nei riguardi dell'Oriente stesso. Cioè: dell'Oriente essa non vede che il lato più esterno e deteriore quando non addirittura falsificato - quel lato che permette soltanto di venir meno a tutto ciò che è serietà scientifica, disciplina, volontà, consapevolezza, per darsi in braccio ad uno sfrenato divagare e per disciogliersi in sentimenti, sogni e vuoti suoni. Ora come è da stigmatizzarsi la «suffisance» materialistica rispetto all'Oriente, crediamo che altrettanto - se non più - è da stigmatizzarsi un tale atteggiamento che, soltanto esso, rispecchia il disfacimento di alcuni elementi della nostra civiltà. Noi affermiamo che se l'Oriente rappresenta una realtà spirituale, del pari lo rappresenti l'Occidente; che dunque si tratta di termini distinti ed entrambi positivi, suscettibili, se mai, di sintesi, non di piatta riduzione dell'uno all'altro. In questa sintesi non è detto poi che solo noi, e non anche l'Oriente, abbia a guadagnare - se non più; giacché pensiamo che una tale sintesi, se deve essere feconda, deve prendere il suo tono appunto dallo spirito della cultura occidentale, che è: potenza, conato a celebrare e attuare lo spirito non negando il «mondo» - il sistema delle determinazioni e delle individuazioni - e venendo meno ad esso, bensì volendolo, affermandolo e dominandolo e, in ciò, realizzandolo. Questa è la semplice dichiarazione di una tesi; circa la sua dimostrazione, rimandiamo all'insieme dei nostri scritti, che si può dire l'abbia per centro di gravità, e specificamente ai «Saggi sull' Idealismo Magico» (Roma, 1925) e alla prima sezione del «L'Uomo come potenza» di imminente pubblicazione, uscita del resto già nei nn. 2,-3-4 della rivista «Ultra». Qui vogliamo soltanto prendere in considerazione l'opera di un autore francese, René Guénon, e vedere, per una analisi critica delle sue tesi, che cosa possa davvero rappresentare per noi uno dei massimi sistemi indiani: il Vedanta. Il Guénon ha pubblicato una serie di libri, che si possono dividere in due gruppi. L'uno comprende «Le Théosophisme», «Introduction générale aux doctrines hindoues», «Orient et Occident»; il secondo, lo studio, di recentissima pubblicazione, «L' homme et son devenir selon le Vedanta» (éd. Bossard, Paris, 1925, pp. 271,
frs. 18), il quale ne preludia un gruppo di altri. Il primo gruppo si può dire negativo, il secondo positivo, nel senso che dalle prime opere lo scopo è: a) Sgombrare il campo da tutte le deformazioni, incomprensioni.e parodie a cui è andata soggetta la sapienza orientale per opera di certe correnti occidentali; b) Criticare a fondo l'intera civiltà d'Occidente e mostrare la crisi e la rovina che le incombe quando non volga a tutto un altro ordine di valori. Nella seconda serie il Guénon si fa invece ad esporre sistematicamente la sapienza tradizionale orientale, che egli in massima identifica precisamente ad un tale ordine di valori. *** In riferimento al primo punto, noi non possiamo non aderire all'opera purificatoria e smascheratrice del Guénon. Compromessi, incomprensioni e divagazioni come quelle di un certo «spiritualismo» inglese e dell'antroposofia steineriana, insieme a tutti i toni minori neo-mistici, rabindranath-tagoreggianti, gandheggianti et similia, non possono venire trattati con abbastanza severità, e sono davvero i peggiori ostacoli per una intesa ed una integrazione reale di Oriente e Occidente. Abbiamo però delle riserve sui mezzi prescelti dal G. a questo fine, mezzi più ad hominem che dimostrativi (intendiamo riferirci al «Théosophisme») giacché invece di assumere le dottrine e farne vedere le assurdità intrinseche, egli più che altro si limita a svelare i retroscena delle persone e delle associazioni, la cui eventuale scarsa trasparenza rispetto a ciò che importa significa però assai poco. Di là da ciò, siamo ancora d'accordo con il G. in ordine all'esigenza verso una conoscenza meta-fisica e, quindi, verso il livello proprio alle tradizioni iniziatiche. Questo è un punto su cui non si saprebbe mai sufficientemente insistere. Fra noi, ci si è abituati a chiamare «spirituale» ciò che è un semplice contorno o accessorio ad uno stato fisico di esistenza. Bisogna capire che ciò che importa, è soltanto il rapporto reale, concreto con le cose e gli esseri, rapporto che per gli uomini è quello estrinseco e contingente proprio alla percezione fisica e alle categorie spazio-temporali che la reggono. Quanto a tutto ciò che è conoscenza discorsiva, mondo cardiaco, mentale, morale, devozionale, ecc. - tutto ciò è qualcosa di relativo a questo stato fisico stesso, e con tutti i suoi «superiore» ed «inferiore», «alto» e «basso», «divino» e «umano», «bene» e «male», ecc. non porta di un passo di là da esso, non trasfonna in nulla ciò che metafisicamente, nell'ordine di una assoluta concretezza, l'uomo è (meglio: l'Io è, come uomo). Lo spirituale non debba essere un vuoto suono - allora occorre che l'uomo abbia la forza di comprendere ciò, di prender dunque in blocco tutto ciò che egli è, sente e pensa, metterlo da parte, ed andare avanti: andare avanti in una trasformazione radicale del rapporto secondo cui egli sta con le cose e con sé stesso. Tale la realizzazione metafisica, che è stata l'interesse costante di tutta una tradizione esoterica, le cui radici si confondono con quelle stesse della storia. II G. riaffenna tali esigenze, e di ciò gli facciamo grande merito. Pertanto, finché egli resta sulle negative, cioè: più in ordine alla sua idea di ciò che il metafisico non è che in ordine alla sua idea di ciò che il metafisico è. Certamente, qui ci si trova su un terreno assai malfermo, poiché la lingua, coniata per la vita materiale e discorsiva, offre scarse possibilità per esprimere adeguatamente ciò che è proprio ad una tale metafisicità. Crediamo pertanto di poter dare una indicazione approssimata dicendo che l'attitudine del G. verso il metafisico risente di una mentalità che potremmo chiamare razionalistica - e ci spieghiamo così: il presupposto del razionalismo (del razionalismo come sistema filosofico, si intende, e non nel suo senso volgare, che in nessun modo si può riferire al G.) è l' «oggettività ideale», cioè la credenza in leggi esistenti in e da sé stesse, in principi che sono quelli che sono, senza alcuna possibilità di convertibilità, fatalmente e universalmente; è il mondo come qualcosa in cui tutto ciò che è contingenza, tensione, oscurità, arbitrio, indeterminabilità, non ha alcun posto, in cui tutto è già fatto e un ordine superiore riprende tutti gli elementi. Di questo cosmos il principio è non la volontà e la potenza, ma la conoscenza e la contemplazione, non il dominio ma l'identità. L'individuo vi è come una ombra illusoria e contradittoria, che scompare nel tutto. Da quella radice profonda onde le cose e le leggi - siano esse sensibili che non-sensibili - sono rette e sono quelle e non altre, radice che è fatta di pura contingenza, qui si fa astrazione o, per meglio dire, la si estingue in qualcosa di puramente ideale: si realizza dunque l'interiore secondo il suo modo «apollineo» o intellettuale, da cui il principio dell'Io, anziché riaffermato in un «ente di potenza», viene abolito. Certamente, queste sono espressioni filosofiche, che debbono valere soltanto come suggestioni; suggestioni da cui pertanto è adombrato un particolare modo di mettersi in rapporto con le cose anche in un ordine, che ormai sta di là da tutto ciò che è filosofico e mentale. Ciò posto, l'errore del Guénon è questo: di credere che un tale atteggiamento debba rappresentare l'ultima istanza, che «metafisico» e «intellettuale» (questo tennine è usato dal G. non nella sua accezione moderna, ma, in un certo modo, in quella scolastica e neoplatonica) siano termini convertibili - il che è discutibile. Il G. sa - e noi con lui - che la sua concezione si riconnette a tutta una tradizione di sapienza iniziatica; ma ciò che egli mostra di non sapere o di fare come non sapesse, è che una tale tradizione non è la sola, che - parimenti di là da tutto ciò che è esperienza mondana e sapere «profano» - di contro alla tradizione della conoscenza, della contemplazione e dell' unione vi è la grande tradizione delle scienze magiche ed ermetiche, che è invece di potenziamento, di individuazione e di dominazione. Onde prima di attribuirsi il monopolio della
sapienza iniziatica, così come ci sembra abbia fatto, sarebbe stato bene che il G. avesse riflettuto un po' di più; giacché di là dai profani e dagli ingenui, vi è chi potrebbe chiedere i mandati e invitarlo ad una revisione di conti che potrebbe anche non andare interamente liscia. Questo è un punto importante, per il fatto che dal particolare atteggiamento del Guénon rispetto allo spirituale non può non seguire un completo disconoscimento di tutto ciò che l'Occidente rispetto allo spirituale stesso - sia pure soltanto come esigenze e tendenze - ha realizzato, e, quindi, l'accennata remissione all'Oriente quasi come all'ancora di salvezza di uno che nulla ha e tutto chiede. Infatti lo spirito occidentale è specificatamente caratterizzato dalla libera iniziativa, dall'affermazione, dal valore dell'individualità, da una concezione tragica della vita, da una volontà di potenza e di azione - elementi, questi, che se potrebbero essere il riflesso sul piano umano, esteriore, del superiore valore magico, pertanto stridono di contro a chi voglia invece il mondo universalistico, impersonale e immobile dell' «intellettualismo» metafisico. Notiamo ancor questo: che nel suo riferimento allo stesso Oriente il Guénon, consapevolmente o no, è, per i bisogni della causa, unilaterale. Egli infatti si restringe alla tradizione vedica, quale è stata sviluppata sino alle Upanishad e al Vedanta, trascurando varie altre scuole che, se sono poco riducibili ad essa, non per questo sono meno «metafisiche». Accenneremo soltanto al sistema dei Tantra e a correnti magiche e alchemiche del Mahayana e del Taoismo, ove l'accento è spostato appunto sul lato potenza onde, anziché contradirlo, potrebbero offrire all'Occidente materia per una più alta riaffermazione. Il G., di fatto, non ignora tali scuole, ma le considera «eterodosse», il che, per lui, è esplicito verdetto di condanna; per noi in vece - ci permetta il G. di dirlo - queste sono semplici parole: staremo a vedere se si dirà vera ed alta una dottrina perché tradizionale, ovvero se la si dirà tradizionale perché vera ed alta. Anche qui il G. presuppone fatti e saldati dei conti, i quali invece restano perfettamente aperti - tendenza dogmatica e autoritaria, questa, che si riflette un po' dappertutto nei suoi scritti, d'altra parte, per chiarezza ed erudizione, assai pregevoli. Passiamo dunque a vedere fino a che punto il Vedanta - che per il G. sarebbe quasi il sistema «metafisico» tipo - possa rappresentare qualcosa per un Occidentale che non sia un degenerato - cioè che non sia venuto meno a quanto in consapevolezza critica e spirito di affermazione la civiltà a cui appartiene gli ha realizzato, che non abbandoni le posizioni per tornare indietro, ma voglia invece portarle avanti. Però, prima, si impone una avvertenza. Abbiamo accennato al carattere trascendente della realizzazione metafisica e alla difficoltà di poterne dare un senso in funzione alle categorie abituali. Ma questo punto - da noi esplicitamente concesso non deve divenire rifugio per uno sfrenato, dogmatico quanto arbitrario, divagare soggettivo. Poiché precisamente così fanno alcuni begli spiriti dilettanti in «occultismo»: non stanno zitti nel puro ineffabile, ma parlano; tuttavia quando si chiede loro che determinino bene il senso delle espressioni e rendano conto delle difficoltà che suscitano, si traggono indietro vaporizzandosi di nuovo nel riferimento ad un puro intuire interiore, il quale così resta un fatto bruto che non rende conto di sé, che si impone così poco quanto il gusto di uno a cui piace il formaggio di contro a quello di un altro, che preferisce le fragole. Quindi delle due, l'una: o si resta chiusi nell'ambito iniziatico, i cui sistemi autoverificativi e comunicativi non possono però, salvo casi eccezionali, entrare in linea di conto per un «profano»; ovvero si parla. Ma se si parla, si è tenuti a parlare correttamente, ossia: a render conto di ciò che si dice, a rispettare le esigenze logiche che qui sono così inoffensive come quelle grammaticali, a far vedere che l'oggetto della realizzazione metafisica sia pure per accidente (nella sua «forma propria» cadendo nella pura interiorità dell'lo) dà reale soddisfazione a tutte quelle esigenze e quei problemi che nell'ambito puramente umano e discorsivo sono destinati a rimanere puramente tali. È troppo facile, infatti, risolvere i problemi non ponendoli, imitando quasi lo struzzo che annulla il pericolo nascondendo la testa sotto l'ala. Bisogna invece tener fenno, affrontare il nemico fissandolo bene in viso, e abbatterlo usando le sue stesse armi. Diciamo ciò per prevenire chi accusi la nostra critica - se non addirittura la nostra opera in generale - di avere una portata puramente filosofica. Ciò, anzitutto, non è esatto, perché in noi quel che sta prima è una certa «realizzazione» e, soltanto dopo, come veste, un certo sistema logicamente intelligibile. Ma quand'anche fosse, ogni espressione in quanto tale è tenuta alla prova del fuoco del logos; e se parte dal soprarazionale tanto meglio, essa vincerà certamente questa prova poiché ciò che è superiore implica e contiene in modo eminente ciò che è inferiore. E che il volume del G. sul Vedanta non sia che una esposizione filosofica, speriamo che l'autore ne sia consapevole. Egli parla sì di qualcosa che non è precisamente filosofico, tuttavia egli ne parla (e non è colpa sua, poiché non vi è altra scelta, a meno di ricorrere a simboli) filosoficamente, ossia si sforza di presentare qualcosa di intelligibile e di giustificato. Se dunque, prendendo questo aspetto, mostreremo la relatività di una tale intelligibilità e giustificazione, egli non può trarsi indietro e cambiare giuoco col riferirsi alla superiore validità tradizionale e metafisica; alla quale del resto, sullo stesso livello, sapremmo riaffermare il nostro atteggiamento di cui le nostre critiche filosofiche non sono che serve obbedienti. Dunque: che cosa dice il Vedanta sul mondo, sull'uomo e sul suo divenire? Anzitutto si ha il presupposto ottimistico 'che esista un Dio' cioè che l'insieme contingente e fenomenico delle cose non sia ciò che sta prima, ma soltanto l'aspetto accidentale di un tutto che, attualmente, è già perfetto e compreso in un superiore principio. Che questo sia un mero presupposto, e che qui il Guénon faccia assai poca attenzione alla teoria della conoscenza propria agli Indiani, ognuno lo può vedere da sé non appena sappia che per l'Indiano qualcosa non è vero, che quando venga sperimentato attualmente. Nel nostro caso: nessuna certezza di Dio, fuori da quella esperienza dell'Io che lo abbia per contenuto. Ora poiché una tale esperienza non è immediata e generale ma per giungere ad essa occorre un certo processo, non vi sono argomenti dimostrativi per affermare che Dio esista già (e quindi che il processo sia semplicemente riconoscitivo)
anziché venir dopo, come un risultato di questo processo che ha fatto divino qualcosa che non era tale. Passiamo avanti. Di questo presupposto - Dio o Brahman - il mondo sarebbe la manifestazione. Ora il concetto di manifestazione secondo il Vedanta è qualcosa di furiosamente ambiguo. È detto infatti che Brahman nella manifestazione rimane ciò che è - immutabile, immobile - non solo, ma che la manifestazione stessa (e, quindi, tutto ciò che è particolarità, individualità e divenire) è, rispetto a lui, qualcosa di «rigorosamente nullo». Essa ne è una «modificazione», che in nessun modo lo altera. In lui, in eterna, attuale presenza, sono tutte le possibilità: la manifestazione è soltanto un modo accidentale che investe alcune di esse. - Come tali proposizioni possano essere rese intelligibili, difficilmente lo si saprebbe mostrare. Si badi: qui non vi è la scappatoia dell'ex nihilo cattolico, ove il nihil si fa un principio distinto e a suo modo positivo, da cui le creature sarebbero materiate onde sarebbero e, nel contempo (in quanto fatte di «nulla», di «privazione»), non sarebbero. Brahman non ha invece nulla fuori di sé: nemmeno il «nulla». Le cose sono sue modificazioni: come si può dunque dire che non sono? In connessione: se Brahman è la sintesi assoluta di tutto, che posto vi è per un modo contingente di considerarla? Come è possibile che sorga un tale modo, una tale oscurazione in Brahman? Come non accorgersi che la frase ha senso solo nel presupposto dell'esistenza di un principio distinto da Brahman, capace appunto di comprenderlo in modo relativo ed accidentale - il che è contro la premessa? Dice il G. (pp. 30-31): «Metafisicamente la manifestazione non può essere considerata che nella sua dipendenza dal principio supremo e a titolo di semplice supporto per elevarsi alla conoscenza trascendente». Ora domandiamo: chi è che si eleva ad una tale conoscenza? O è Brahman stesso, ed allora bisogna intendere, con Eckhart, Scoto Eriugena, Hegel, Schelling e tanti altri, che il mondo è lo stesso processo autoconoscitivo dell' assoluto - ma allora esso ha un valore e una realtà, anziché essere un fantasma di contro alla sintesi eterna preesistente, è l'atto stesso con cui questa sintesi si dà a sé stessa. Ovvero vi è un «altro» di contro a Brahman, il che significa far di Brahman un relativo, «uno fra due», contro l'ipotesi. Ancora: «Immutabile nella sua natura propria, Brahman sviluppa solamente le possibilità indefinite che egli comporta in sé stesso, mediante il passaggio dalla potenza all'atto... e ciò senza che la sua permanenza essenziale ne sia affetta, precisamente perché questo passaggio non è che relativo e questo sviluppo non è sviluppo che in quanto lo si consideri dal lato della manifestazione, fuori dal quale non può esservi quistione di una qualunque successione, ma soltanto di una perfetta simultaneità» (p. 36). La difficoltà è la stessa: ciò andrebbe benissimo dato che si avesse modo di fare intendere come possa esistere un punto di vista diverso da quello dell'assoluto e coesistente con esso. Ma se ciò non è possibile, la successione, lo sviluppo e il resto non sono da dirsi accidentali e illusori, ma assolutamente reali. L'unico rifugio sarebbe il creazionismo come 'projectio per jatum' dei teologi cattolici, ossia la possibilità divina di staccare da sé centri distinti di coscienza, che possano dunque vedere dall'esterno ciò che Egli internamente comprende in modo eterno. Ma anche prescindendo dall'inconsistenza logica di una tale veduta, sta di fatto che essa è interamente sconosciuta alla sapienza indiana. Il G. moltiplica i punti di vista per spiegare le antinomie, e non si accorge che questa è una pseudosoluzione, anzi un circolo vizioso, salvo partire da un originario dualismo, cioè proprio dall'opposto di ciò a cui si vuole giungere. Trasposte a quelle dei punti di vista, le opposizioni non solo restano, ma risultano esasperate. Quando il G. dice (p. 44) che non si può separare la manifestazione dal suo principio senza che essa si annulli donde il profondo senso della dottrina vedanta e mahayana, che le cose sono ad un tempo reali (in riferimento al loro principio) e illusorie (se prese in sé stesse) - egli dice giusto. Non una tale separazione noi gli rimproveriamo, ma quella del principio dalla manifestazione. Dal dire che se il mondo non può distinguersi da Brahman, Brahman invece può distinguersi dal mondo (come sua causa libera), al dire che «l'intera manifestazione mondiale è rigorosamente nulla rispetto alla sua infniità», vi è un bel salto, e cioè l'introduzione surrettizia di un concetto contestabilissimo dell'infinità stessa. Cioè: l'infinità intesa come indeterminazione, come ciò che in ogni determinato non può che soffrire la morte di sé. Tale per noi non è l'infinità vera, sibbene l'astratta sua ipostasi, quasi il carattere proprio dell'essere ignavo ed impotente. Infinità vera è potestas, ossia: energia di essere incondizionatamente ciò che vuole. L'assoluto non può avere - come un sasso e una pianta - una sua natura (e tale sarebbe la stessa infinità se intesa come qualcosa di fatale, di immutabile, dunque di passivo rispetto a sé stesso). Egli è quello che vuole essere; e ciò che egli vuole essere senz'altro, l'assoluto, l'infinito. Il manifestarsi e, in conseguenza, il finito, l'individuale, ecc. allora non sarebbero più la morte e la contradizione dell'infinito (quindi un non-essere), un nulla che oscura il pieno (omnis determinatio negatio est), ma invece il suo atto, la sua gloria, ciò in cui testimonia e afferma a sé stesso la sua libertà potente. Il bello è che un tale punto di vista lo si ritrova in una scuola orientale (che, naturalmente, il G. chiamerà «eterodossa») - quella dei çakti-tantra, i quali muovono al Vedànta una critica, la cui portata è indiscutibile. Solamente a patto di mettere al posto delle nebulose, intellettualistiche nozioni di spirito (atma) e infinito (brahman) quella attivistica e concreta di potenza (çakti) - essi dicono - si ha modo di venire a capo, da un punto di vista non-dualistico, delle varie difficoltà inerenti al concetto di manifestazione. L'assoluto è potenza di manifestazione, il mondo è il suo atto: quindi è reale, di una suprema realtà. Se invece l'assoluto lo si comprende come una infinità attuale esistente ab aeterno, che posto vi è più per una manifestazione? Non si accorge il G. dell'assurdità del concetto che questa sia lo «sviluppo» di alcune «possibilità» presenti al principio supremo? Infatti o si dà un senso al tennine «sviluppo», o non glielo si dà. Se sì, si avrebbe una cosa che è, ad un tempo e nello stesso rapporto, in potenza e in atto, il che è, contradizione
in termini. Tale la «possibilità» di cui parla, giacché questa in quanto riferita all'eventuale manifestazione dovrebbe essere in potenza, ma in quanto d'altra parte è possibilità del principio supremo, non è più possibilità ma attualità, cosa già «sviluppata», nulla essendovi in Brahman che non sia attuale (1). Si può notare come il G., nel suo entusiasmo (stavamo per dire: fanatismo) per l'Oriente, vede la pagliuzza nell'occhio del vicino, ma non la trave nel suo proprio: infatti precisamente questa critica egli fa alla concezione del Leibniz (che, naturalmente, per lui è mera «filosofia profana») e non si accorge che essa va ad investire le radici stesse del Vedanta. La contradizione dunque cessa solamente dato che Brahman non sia più l'eterna luce intellettuale, sibbene pura potenzialità che nelle cose manifestate ha non la sua negazione, ma la sua affermazione. E la necessità di una tale concezione trapela spesso nello stesso G. - là dove egli si riferisce ad una «volontà creativa divina», ad un «supremo principio causante». Così egli si avvicina alla coerenza - ma, nel contempo, si allontana dal Vedànta quale è veramente. Infatti il Vedanta affenna esplicitamente che l'assoluto non è causa né attività, che causa ed attività non cadono in lui, sibbene nell'inconscia «maya», onde quando se le attribuisse dicendo: «Io causo, io agisco, io creo», egli cadrebbe vittima di illusione e di ignoranza. Causalità, creazione insieme a tutto ciò che è divenire e determinazione, per il Vedanta non cadono nell'assoluto che, per esso, è pura, indeterminata esistenza nuda di qualsiasi attributo (nirguna-Brahman), sibbene nell'assoluto oscurato da maya (saguna-Brahman), la quale maya resta un principio inesplicabile e indefinibile, un «dato» di contro a cui si arresta. E fra saguna-Brahman e nirguna-Brahman vi è un abisso incolmabile(2): l'uno è, l'altro non è. Concetto questo, a cui infatti il G. dall'altro canto si tiene rigorosamente stretto, riaffermando così l'originaria concezione astratta dell'assoluto e dell'universale. L'originalità e, ad un tempo, il difetto d'origine del Vedanta, sta precisamente nella separazione del principio di una sintesi da ciò che è sintetizzato, separazione che fa dei due termini qualcosa di contradittorio l'uno rispetto all'altro. Mentre in un non-dualismo conseguente l'universale è l'«atto» che comprende il particolare come la «potenza» di cui è l'atto e attraverso cui si realizza, nel Vedanta l'universale non comprende, ma esclude il particolare, giacché esso non può comprender questo che negandolo nell'indeterminata «identità», nel mero «etere di consapevolezza» (cid-akaça), notte - per dirla con lo Hegel- in cui tutte le vacche sono nere. (1) Si noti: la critica già fatta previene l'eliminare la difficoltà di questi aspetti contraddittori presenti in una stessa cosa con il riferirli a due diversi punti di vista. (2) I tentativi di conciliazione, inerenti p. e. al concepire l'immobilità dell'assoluto come quella dell'aristotelico «motore immobile», se trovano fondamento in altre scuole orientali, non saprebbero però correttamente trovarne nel Vedanta. *** Ora che presso ad una tale veduta ogni significato dell'uomo e del suo divenire vada dissolto, lo si può sin d'ora prevedere. L'individuo, in quanto tale, appartiene alla manifestazione e così è un nulla, una parvenza - questa è l'unica conseguenza rigorosa della premessa. Inutile contestare la legittimità di assumere a sé l'individuo e dire quindi che la distinzione fra Io e Brahman è una illusione propria all'Io (p. 210) - perché appunto qui sta il problema: questa illusione è reale, e bisognerebbe spiegare come nasca e sia possibile presso la mostrata impossibilità di duplicare i punti di vista. Inutile anche raddoppiare l'unità di coscienza in quella di un «me» (personalità, Io metafisico) e di un «Io» (individualità, Io empirico), giacché qui tornano le stesse contradizioni sopra rilevate procedenti dal presupposto dell'assoluta eterogeneità fra universale e particolare, fra metafisico e empirico. Fra questo «me» e questo «Io» non vi può essere una unione reale (come in una dottrina della potenza, ove il «me» sarebbe la potenza, di cui l'«Io» è l'atto ovvero, da un altro punto di vista, viceversa), ma una estrinseca, incomprensibile composizione (confermata del resto dalla dottrina dei «corpi sottili» quale la espone il G.), analoga a quella fra «essenza» ed «esistenza» escogitata dalla Scolastica; ed altra conferma si ha dal G. quando dice che il passaggio dello stato manifestato a quello di Brahman (corrispondenti ai due principi dell'uomo) implica un salto radicale (p. 200). L'inconsistenza di una tale veduta (che, fra l'altro, nei riguardi della «salvazione» o «liberazione» dovrebbe coerentemente sboccare nel mistero cristiano della «grazia») al Vedanta l'hanno mostrata con mano appunto i Tantra. I Tantra fanno ai vedantini questo ragionamento: voi dite che davvero reale è solamente l'immobile Brahman senza attributi e il resto - l'insieme degli esseri condizionati - illusione e falsità. Ora rispondete: chi siete voi, che affermate ciò, Brahman o un essere condizionato? Ma se voi siete un essere condizionato (e altro lealmente non potete dire di essere), siete illusione e falsità e quindi, a maggior ragione, illusorio e falso sarà tutto ciò che voi dite e così la stessa vostra affermazione, che soltanto Brahman è, e il resto è illusione. Del resto lo stesso concetto di «essere condizionato», con cui il G. definisce l'uomo e le altre «manifestazioni» a lui simili, conduce ancora una volta al noto dilemma. Infatti o si ammette un principio distinto, suscettibile di subire delle condizioni, contro una potenza condizionante ma ciò è radicalmente contrario a tutto lo spirito del Vedanta. Ovvero si nega la distinzione, ed allora il condizionato e il condizionante divengono una sola e medesima cosa: è Brahman stesso che nei vari esseri si vuole così e così determinato, senza condizioni. Onde
nulla vi è di relativo e di dipendente, tutto è invece assoluto, tutto è libertà. E qui, ancora una volta nessun posto per l'espediente dei «punti di vista». Non ha senso di parlare di un punto di vista della creatura, che vive come condizioni e dipendenza ciò che per Brahman non è tale: il punto di vista non può che essere unico: quello di Brahman. È Brahman stesso che nei vari esseri gioisce e dolora e che nello yoghin volge a dare a sé stesso la propria «liberazione». Tale il punto di vista dei Tantra (e, con esso, di tutto l'immanentismo occidentale), il quale però non può essere quello del Vedànta appunto perché per il Vedanta l'assoluto come causa immanente è illusione e fra lui e il relativo e il «manifestato» vi è discontinuità, salto radicale. Perciò: il mondo è un nulla. L'uomo, un nulla. Il divenire dell'uomo quello di un nulla che si risolve in nulla. Quale è infatti il senso di un tale sviluppo secondo il Vedanta? Un riassorbimento dello stato di esistenza concreta in quello di esistenza «sottile» e poi di un tale stato in quello non-manifestato, dove le condizioni (leggi: le determinazioni) individuali sono infine del tutto cancellate. Non si tratta dunque - come lo dice lo stesso G. (p. 175) - di una «evoluzione» dell' individuo, giacché il fine essendo «il riassorbimento dell'individuale nello stato non-manifestato, dal punto di vista dell'individuo sarebbe piuttosto da dirsi una involuzione». Noi andiamo anzi più avanti: concependo la manifestazione come l'«atto» dell'assoluto, diremmo (si ricordi sempre: è impossibile duplicare i punti di vista) che un tale divenire in verità è il venir meno dello stesso assoluto al suo atto, il suo pentirsi - regressione, degenerazione, non progressione. Che le idee del G. e del Vedanta su questo punto siano chiare, del resto è dubitabile. Infatti, presso al «riassorbimento», si parla altresì di una identificazione dell'Io con Brahman in cui pertanto esso non si perde in alcun modo (p. 233) e di una «risoluzione» che più che annichilatrice è trans-formativa, apportatrice di una espansione di là da ogni limite, realizzatrice della pienezza delle possibilità (pp. 196-7). Ambiguità, questa, in cui si rispecchia il dissidio di un dato di esperienza interna, spirituale in sé valido che pertanto non ha trovato, per esprimersi, un corpo logico adeguato, che è deformato da una concezione limitata e statica, quale è quella propria all'astratto universalismo del Vedanta. In ogni caso, resta la difficoltà principale: qualunque ne sia la direzione, ha o no il divenire dell'uomo un valore, un valore cosmico? Insomma: perché debbo io divenire, trasformarmi? Di nuovo, non c'è che la scappatoia dei punti di vista. Rispetto all'infinito presupposto come esistente 'actualiter' e 'tota simul ab aeterno', come identico rigorosamente a sé in qualsiasi stato o forma, tutto ciò che è divenire di «esseri condizionati» non può avere alcun reale significato, esso non può realizzare a Brahman nulla in più nello stesso modo che il suo non avvenire non potrebbe realizzargli nulla in meno. Brahman, è e non può che essere, indifferente: tanto lo stato di un bruto (paça) che quello di un eroe (vira) o di un dio (deva), per lui debbono essere perfettamente la stessa cosa, quindi il progresso da uno di questi stati ad un altro, dal suo punto di vista non può avere alcun senso e giustificazione. Anzi, di rigore, non si può parlare di progresso e regresso, ma soltanto di passaggio; ma nemmeno: giacché lo stesso divenire è una illusione, riferentesi ad un punto di vista diverso da quello di Brahman. Ognuno vede quali conseguenze pratiche derivino da ciò. Due casi: o una contemplazione passiva e stupefatta del succedersi incomprensibile degli stati; ovvero una morale utilitaria. Utilitaria perché il motivo animatore dell'eventuale svilupparsi e trasformarsi dell'uomo non potrebbe connettersi ad un valore cosmico, al senso cioè che il mondo, il Dio stesso chiede a me qualcosa che non è se io non la faccio, ma potrebbe giustificarsi soltanto in funzione di un utile personale, della maggiore convenienza che all'individuo possono offrire particolari stati di esistenza. Ma non basta. Dal punto di vista di un vedantismo coerente procede un disfattismo morale tale, che non è capace di giustificare nemmeno una etica utilitaria. Ciò, perché il passaggio attraverso una gerarchia di stati sino al non-manifestato Brahman, che un essere particolare può realizzare mediante il lungo, aspro, austero processo di autosuperamento proprio allo yoga, non è che una specie di accelerazione di qualcosa che accadrà in via naturale a tutti gli esseri - è la «liberazione attuale» al luogo della «liberazione differita», onde tutto si riduce ad una quistione di... pazienza. Infatti la veduta del Vedanta è che il mondo, procedente da stati non-manifestati, in essi torni a sommergersi alla fine di un certo periodo, e ciò ricorrentemente. Alla fine di un tale periodo tutti gli esseri, bon gré mal gré, saranno dunque liberati, «restituiti». Donde una nuova negazione: non solo manca ogni reale, soprapersonale giustificazione allo sviluppo, ma la stessa libertà è, in ordine ad esso, negata: gli esseri in ultima istanza sono fatalmente destinati alla «perfezione» (crediamo sia pennesso dare questo attributo, questa «relatività» al non-manifestato rispetto al manifestato, dal momento che non si è così non-dualisti da non distinguere quello da questo); veduta, questa, che contrasta con molte altre della stessa sapienza indiana - specie del buddhismo - in cui invece è vivissimo un senso tragico dell'esistenza, il convincimento che se l'uomo non si fa il salvatore di sé stesso, nulla mai potrà salvarlo, che soltanto la sua volontà può trarlo via dal destino della generazione e della corruzione (samsara) in cui altrimenti permarrebbe per l'eternità. *** Crediamo che non vi sia bisogno di aggiungere altro per rendersi conto del senso di ciò che il Vedanta vuole. Ciò che è certo, è che esso non è assolutamente ciò che noi vogliamo. E quando un «profano» ci dicesse che se questa - questo nihilismo della realtà, dei valori e dell'individualità - è la «metafisica», egli di tale metafisica non sa proprio che farsene, non bastandogli né servendogli, noi, davvero, non sapremmo come dargli torto. Certamente, qui abbiamo trascurati diversi elementi positivi contenuti nel Vedanta (per i quali
pertanto non è che quelli negativi già riscontrati cessino di essere tali); ciò sia perché tali elementi non costituiscono quantò vi è di specifico nel Vedanta, ma sono comuni ad altre tradizioni esoteriche e specialmente a quelle che abbiamo chiamate magiche; sia perché si deve insistere su ciò che l'Oriente ha di negativo di contro a chi, come il Guénon, nell'Occidente non vuole vedere nulla di positivo. E si badi: chi scrive ha per l'Oriente la massima considerazione e ad esso è stretto da vincoli molto più profondi di quanto non possa a tutta prima apparire. Solo che egli non può e non vuole procedere dogmaticamente: tanto l'Oriente che l'Occidente vanno sottoposti ad una critica che sia nell'uno che nell'altro separi il positivo dal negativo. Soltanto dopo una tale separazione - a dir vero da operarsi con lo spirito più scevro di pregiudizi e di smanie polemiche più o meno femminili - si può pensare alla sintesi: a quella sintesi che, forse, è problema di vita e di morte, sia per l'una che per l'altra cultura. In relazione ad essa, due ci sembrano i punti fondamentali: la coscienza razionale, il puro livello logico e discorsivo - in cui è il culmine della civiltà occidentale - va superato. Ma ciò che sta davvero di là dal concetto non è il «sentimento» come non è né la moralità, né la devozione, né la contemplazione e l'immedesimazione «intellettuale». Ciò che sta di là dal concetto è invece la potenza. Di là dal filosofo e dallo scienziato non vi è il santo, l'artista, il contemplatore-ma il mago: il dominatore, il Signore. In secondo luogo: la coscienza extravertita, perduta nel mondo materiale e facente di questo l'ultima istanza, va trascesa. Ma questo superamento non deve essere ascesi, distacco, fuga dalla realtà, fede sognante nei cieli e sommersione intellettuale nell'«Identità suprema»: deve essere invece immanente risoluzione del mondo nel valore, spirito che va a fare della realtà la espressione stessa della perfezione della sua attualità. La realtà del mondo va riconosciuta e, a dir vero, come quella del luogo stesso ove da un uomo si trae un Dio, dalla «terra» un «Sole». Queste due esigenze trovano la loro migliore espressione in due massime, che, di proposito, non traiamo, come potremmo, da «profana filosofia occidentale», sibbene da un sistema metafisico orientale quello dei Tantra: «Senza çakti (= potenza) la liberazione è mera burla». «O signora del Kula! In Kuladharma (via tantrica della potenza) il fruimento diviene realizzazione (yoga) perfetta, il male si fa bene e il mondo stesso diviene il luogo della liberazione».
Maya Shakti
II) La replica di Guenon Ed ecco la replica di Guenon. A nostro parere insoddisfacente, perchè, nonostante le apparenze, non risponde ad alcuna delle obiezioni rivoltegli da Evola. Ad es. pretende di respingere l'accusa di "razionalismo" (nel senso che Evola aveva precisato), semplicemente...definendo il termine razionalismo in modo diverso! E' del tutto ovvio che Guenon non fosse razionalista nel senso che lui intende, ma ciò a cui avrebbe dovuto rispondere era, invece, se per caso lui (e il Vedanta) potevano dirsi o meno razionalisti nel senso di Evola. Guenon continua poi con analoghi argomenti elusivi, che potranno valutarsi meglio dopo la replica di Evola; eppure aveva avuto diversi mesi per preparare una risposta adeguata. Poco raffinato poi l'atteggiamento reiterato a difendersi dalle critiche altrui, dicendo semplicemente che sono gli altri a non capire. Atteggiamento che diversi seguaci dell'autore francese hanno poi pedestremente (e non meno sgradevolmente) copiato. RENÉ GUÉNON A PROPOSITO DELLA METAFISICA INDIANA: UNA RETTIFICA NECESSARIA L'Idealismo Realistico, Anno III. n° 9-10 (1-15 maggio 1926) Nell'articolo comparso in queste stesse pagine (n. 21-24 del 1925) a proposito del nostro libro sopra il Vèdanta, (1) J. Evola ha commesso un certo numero di errori assai singolari; non li avremmo rilevati se si trattasse solo di noi, ma, e questo è assai più grave, essi vertono sopra la interpretazione della dottrina stessa che abbiamo esposto, e perciò non ci è possibile lasciarli passare senza apportarvi una rettifica. Già precedentemente, in un articolo pubblicato dalla rivista Ultra (settembre 1925), Evola aveva creduto di dovere incidentalmente prendere contro di noi la difesa della scienza occidentale attuale, di cui pertanto riconosce sotto certi rispetti l'insufficienza, e ci aveva, nel medesimo tempo, trattato di «razionalista». Questo abbaglio, verificandosi a proposito di un libro (Orient et Occident) in cui avevamo denunciato precisamente il razionalismo come uno dei principali errori moderni, è veramente stupefacente. Ora, vediamo che il rimprovero di «razionalismo» vien rivolto allo stesso Vedanta; è vero che questa parola è forse distolta dal suo vero senso, e che in ogni caso la definizione che ne vien data, in termini visibilmente presi a prestito dalla filosofia tedesca, è lungi dall'esser chiara. Eppure la cosa è ben semplice: il razionalismo è una teoria che pone la ragione al di sopra di tutto, che pretende identificarla, sia alla intiera intelligenza, sia almeno alla parte superiore dell'intelligenza, e che, per conseguenza, nega od ignora tutto quello che oltrepassa la ragione. È questo un genere di concezioni proprio della filosofia profana, e d'altronde specificatamente moderno; Descartes è il primo autentico rappresentante del razionalismo. Non vediamo che possa trattarsi di altra cosa che non questa, tanto più che Evola ha cura di precisare che intende parlare «del razionalismo come sistema filosofico»; ora, il Vedanta non ha nulla in comune con un «sistema filosofico» qualunque, e noi abbiamo molto spesso fatto osservare che le etichette occidentali non potrebbero in nessun modo venire applicate alle dottrine metafisiche dell'Oriente. In verità, Evola è molto più vicino di noi ad ammettere le pretese del razionalismo, perché si rifiuta di vedere una differenza tra la ragione, e quel che abbiam chiamato l'«intellettualità pura»; egli mostra così molto semplicemente di ignorare affatto che cosa è quest'ultima, sebbene affermi il contrario in maniera assai imprudente. Se l'espressione di «intellettualità pura» gli dispiace ne proponga un'altra in sostituzione; ma con quale diritto accampa la pretesa che essa, nell'uso che ne facciamo, significhi tutt'altro di quello che noi abbiamo così voluto designare? Noi continuiamo a sostenere che la conoscenza metafisica è essenzialmente «sopra-razionale», essa è tale o non è, ed il solo sbocco logico del razionalismo è la negazione della metafisica. Ecco d'altronde, sul carattere di questa conoscenza metafisica, un altro e non meno deplorevole errore: per il fatto che, conformemente alla dottrina hindu, parliamo di conoscenza pura e di «contemplazione», J Evola s'immagina che si tratti di un'attitudine puramente «passiva», mentre è esattamente il contrario. Una delle differenze fondamentali tra la via metafisica e la via mistica sta anzi in questo che la prima è essenzialmente attiva, mentre la seconda è essenzialmente passiva; e questa differenza è analoga, nell'ordine psicologico, alla differenza che passa tra la volontà ed il desiderio. Si noti bene che diciamo analoga e non identica, prima di tutto perché qui si tratta di conoscenza e non di azione (non bisogna confondere «azione» ed «attività»), eppoi perchè quello di cui parliamo è affatto fuori del dominio della psicologia; ma non è meno vero che si può considerare la volontà come il motore iniziale della realizzazione metafisica, ed il desiderio come quello della realizzazione mistica. Questo, del resto, è tutto quello che possiamo concedere al «volontarismo» di Evola, la cui attitudine a questo riguardo non ha sicuramente nulla di metafisico nè, comunque ne pensi, di iniziatico. L'influenza esercitata sopra di lui da filosofi tedeschi quali Schopenhauer o Nietzsche è assai appariscente, molto più di quella del Tantra di cui si fa forte, ma che non pare comprenda meglio del Vedanta e che vede presso a poco come Schopenhauer vedeva il Buddismo, vale a dire attraverso a delle concezioni affatto occidentali. La volontà, come tutto quello che è umano, non è che un mezzo; la sola conoscenza è fine a se stessa; e, beninteso, qui
parliamo della conoscenza per eccellenza, nel senso vero e completo di questa parola, conoscenza «sopra-individuale», quindi «non umana», secondo l'espressione hindu, e che implica l'identificazione con quello che è conosciuto. Su questo, il Vedanta ed il Tantra, per chi ben li comprenda, vanno perfettamente d'accordo; certamente vi sono tra essi delle differenze, ma che vertono in somma solo sui mezzi della realizzazione; perché mai Evola si sforza di trovare una incompatibilità che non esiste tra questi diversi punti di vista? Voglia ben riportarsi a quello che abbiam detto dei «darshanas» e dei loro rapporti nella nostra Introduction générale à l'étude des doctrines hindoues. Ognuno può seguire la via che meglio gli conviene, quella ch'è più adatta alla sua natura, perché tutte conducono al medesimo fine; e, quando si sia sorpassato il dominio delle contingenze individuali, le differenze scompaiono. Noi sappiamo almeno, così come Evola, che vi sono parecchie tradizioni iniziatiche, che sono precisamente queste varie vie cui abbiamo or alluso; ma esse non differiscono che nelle forme esteriori, ed il loro fondo è identicamente lo stesso, perchè la Verità è una. Naturalmente, così dicendo, supponiamo che si tratti di vere e proprie tradizioni o tradizioni «ortodosse», le sole che ci interessino; questa nozione dell'«ortodossia» non è stata compresa dal nostro contradittore, quantunque avessimo avuto la precauzione di precisare a parecchie riprese in quale senso bisognava intenderla, e di spiegare perché, in questo campo, ortodossia e verità non sono che una sola e medesima cosa. Siamo rimasti stupefatti nel vedere affermare che per noi sono «eterodossi» il Tantra, il Mahàyàna... ed il Taoismo! Eppure abbiam dichiarato il più nettamente possibile che quest'ultimo rappresenta, in Estremo-Oriente, la metafisica pura ed integrale! Ed in L'Homme et son devenir selon le Vedanta, abbiamo anche citato un numero abbastanza grande di testi taoisti, per mostrarne la perfetta concordanza con la dottrina hindu; Evola non se ne sarebbe dunque accorto? È vero che il Taoismo non è né «magico», né «alchimico», contrariamente a quello che egli suppone; noi ci chiediamo dov'è che ha potuto farsene un'idea così fantasiosa. Quanto al Mahàyana è una trasformazione del Buddismo per reincorporazione di elementi presi in prestito alle dottrine ortodosse; e quello che abbiamo scritto è contro il Buddismo propriamente detto, eminentemente eterodosso ed antimetafisico. Infine, quanto al Tantra, bisognerebbe distinguere: esiste una moltitudine di scuole tantriche, di cui alcune sono di fatto eterodosse, almeno parzialmente, mentre altre sono strettamente ortodosse. Fino ad, oggi non abbiamo mai avuto l'occasione di spiegarci su questa questione del Tantra; ma Evola, il quale, per dirlo en passant, non afferra che molto imperfettamente il significato della «Shakti», non ha senza dubbio osservato che noi affermiamo assai spesso la superiorità del punto di vista shivaita sul punto di vista vishnuita; ciò avrebbe potuto aprirgli altri orizzonti. Naturalmente, non ci attarderemo qui nelle critiche di dettaglio, che procedono tutte dalla medesima incomprensione; d'altronde ben poco convinti dell'utilità di certe discussioni, per mezzo di procedimenti tratti dalla filosofia profana, e che non sono veramente al loro posto che in questa. Ci è stato insegnato, oramai già da un pezzo, che vi sono delle cose che non si discutono; bisogna limitarsi ad esporre la dottrina come è, per coloro che son capaci di comprenderla, ed è quello che cerchiamo di fare nella misura dei nostri mezzi. A chi cerca veramente la conoscenza, non si devono mai rifiutare gli schiarimenti ch'egli domanda, se è possibile fornirglieli, se non si tratta vogliamo dire di qualche cosa che sia assolutamente inesprimibile; ma se qualcheduno si presenta con un'attitudine di critica e di discussione, «le porte della conoscenza devono chiudersi dinanzi a lui»; d'altra parte a che servirebbe lo spiegare qualche cosa a chi non vuole comprendere? Noi ci permettiamo di invitare Evola a meditare su questi pochi principi: di condotta, che sono d'altronde comuni a tutte le scuole veramente iniziatiche di Oriente e di Occidente. Ci limiteremo a rilevare alcuni esempii di manifesta incomprensione: Evola parla dell'identificazione del «me» con Brahma, mentre si tratta del «Sé» e non del «me», e mentre che, se questa distinzione fondamentale non viene afferrata sin dall'inizio, nulla di quel che viene in seguito potrebbe essere non più afferrato. Egli crede che il Vedanta considera il mondo come un «nulla», seguendo l'interpretazione erronea degli Occidentali, che si pensano tradurre in questo modo la teoria della «Illusione», mentre che questa significa solamente «realtà minore», vale a dire realtà relativa e partecipata, in opposizione alla realtà che non appartiene che al Principio supremo. Egli rende «stato sottile» con «corpi sottili», mentre che abbiamo fatto osservare che in nessuna maniera potrebbe trattarsi di «corpi», contrariamente alle concezioni fantasiose degli occultisti e dei teosofisti, e che d'altronde, nell'assieme della manifestazione formale o individuale, lo «stato sottile» s'oppone precisamente allo «stato corporeo». Egli confonde anche «salvezza» e «liberazione», quantunque noi abbiamo spiegato che queste sono due cose essenzialmente differenti e che non si riferiscono affatto al medesimo stato dell'essere (pp. 187 e 218 della nostra opera); e, cosa che è anche meglio, egli scrive che, per il Vedanta «alla fine di un certo periodo, tutti gli esseri, bon gré mal gré, saranno liberati», mentre noi abbiamo citato (p.191) questo testo che dice il contrario in un modo sufficientemente esplicito: «Alla dissoluzione (pralaya) dei mondi manifestati, l'essere è immerso nel seno del Supremo Brahma; ma, anche allora, può essere unito a Brahma nel medesimo modo solamente che nel sonno profondo (vale a dire senza la realizzazione piena ed effettiva della Identità Suprema)». Ed, a scanso di equivoci, aggiungemmo una spiegazione sopra la comparazione qui fatta col sonno profondo, e che indica che in simile caso vi è ritorno ad un altro ciclo di manifestazione, di dove risulta che lo stato dell'essere di cui si tratta non è affatto la «liberazione». Decisamente, bisogna dire che Evola, malgrado la sua intenzione di parlare del nostro libro, non lo ha letto che molto distrattamente! Per parlare francamente, diremo che quello che sopratutto manca ad Evola, è una coscienza netta della distinzione tra il punto di vista iniziatico ed il punto di vista profano; s'egli avesse questa coscienza, non li mescolerebbe costantemente come fa, e nessuna filosofia avrebbe influenza sopra di lui. Ben sappiamo che potrà rispondere, come l'ha già fatto capire, che egli non prende il linguaggio filosofico che come un semplice
mezzo di espressione; probabilmente è anche con tutta sincerità persuaso che così è, ma ciononostante, per conto nostro, non ci crediamo per niente. Del resto, il solo fatto di scegliere, fra tutti i possibili modi di espressione, quello che è meno appropriato, il più inadeguato, il meno capace di rendere le cose di cui si tratta, perché queste cose appartengono a tutt'altro ordine di quello pel quale esso è specialmente fatto, questo solo fatto, diciamo, prova una mancanza di discernimento delle più deplorabili. Il più straordinario, è che Evola afferma che il nostro libro sul Vèdanta «non è che una esposizione filosofica», ed aggiunge che «spera che noi ne siamo coscienti» (ci chiediamo che cosa possa importargliene); tutto al contrario, noi lo neghiamo formalmente, perché nulla potrebbe essere più opposto alle nostre intenzioni, che dopo tutto dobbiam bene conoscere meglio degli altri, che il parlare «filosoficamente» delle cose che non hanno alcun rapporto con la filosofia; e ripeteremo una volta di più, in questa occasione, che ogni espressione, verbale od altra, non ha per noi che un valore esclusivamente simbolico. Noi intendiamo sempre metterci sul terreno puramente metafisico ed iniziatico, e nulla potrà farcene escire, neppure le critiche formulate sopra un altro terreno, e che, per ciò stesso, battono necessariamente in falso; Evola non si dubita che le questioni non si pongono affatto nel medesimo modo per lui e per noi, e che certe difficoltà «filosofiche» che egli solleva non hanno metafisicamente alcun senso, perché i termini stessi in cui vengono espresse non corrispondono più a nulla quando si vuole farne la transposizione in un ordine superiore. Non aggiungeremo che un'ultima osservazione: non spetta ad Evola il dire che «noi avremmo fatto meglio a riflettere un poco di più» a certe cose, perché egli non ha, come noi, lavorato e riflettuto sopra queste questioni durante più di quindici anni prima di decidersi a pubblicare il suo primo libro. Egli è molto giovane, e questo è senza dubbio quel che lo scusa; ha ancora molte cose da imparare, ma ha il tempo dinanzi a sé e potrà forse apprenderle... a condizione, tuttavia, che cambi un pocolino d'attitudine e che non si immagini di sapere di già ogni cosa! (1) L' homme et son devenir selon le Vedanta. Ed. Bossard. Paris. 1925.
III) La controreplica di Evola Nello stesso numero de L'Idealismo Realistico, nel quale venne pubblicata la replica di Guenon, comparve anche la seguente controreplica di Evola. Al Guénon facciamo, a nostra volta, rilevare quanto segue: 1) Che prima di usare una parola, siamo abituati a definirla. Ora come razionalistico abbiamo definito ogni atteggiamento che «crede a leggi esistenti in e da se stesse, in principi che sono quelli che sono, inconvertibilmente; che intende il mondo come qualcosa in cui tutto ciò che è contingenza, tensione, oscurità, arbitrio, indeterminabiIità non ha alcun posto». Ci dica il G. se pensa il contrario e se, pensandolo, si resti nell'ambito del Vedanta - altrimenti la sua protesta resta puro suono. E che la «realizzazione meta-fisica» sia essenzialmente soprarazionale (nel senso tutto empirico di «ragione» usato dal Guénon), non ci sembra poter essere più recisamente affermato di chi, come noi, ha scritto pervenirvi soltanto «colui il quale ha la forza di prendere in blocco tutto ciò che è, sente e pensa, metterlo da parte, ed andare innanzi». 2) Se il G. intende la «realizzazione intellettuale» (con cui mutua quella meta-fisica) come qualcosa di «essenzialmente attivo», riflettente, in un certo senso, il modo della volontà, noi di certo ritiriamo la riserva fatta in proposito (consigliandogli pertanto il termine «attualità pura»); per riaffermarla, però, quando ci parla di una volontà che non ha scopo in sé, sibbene in una conoscenza. E qui «conoscenza» significhi pure «identificazione con l'oggetto conosciuto» - noi, di là da ciò, affermiamo un valore superiore: il dominio sull'oggetto conosciuto. E se al G. piace di credere che il nostro «volontarismo» non ha «nulla di iniziatico e di meta-fisico» (quasi che la potenza, di cui parliamo, fosse la volontà muscolare degli uomini!!), lo creda pure, noi non gli possiamo fare nulla che - lo dice esattamente lui stesso - non vi è modo di far capire a chi non vuole capire; e come lui minaccia, «chiudere le porte della conoscenza», noi chiudiamo le porte di qualcosa che stimiamo per assai più che non la sua conoscenza e qualsiasi altra. 3) Non è il caso, su queste colonne, venire ad una rettifica circa le varie scuole orientali e la loro «ortodossia» o meno; p. e. di accennare che il giudizio di eterodossia del G. l'abbiamo riferito non al mahayana e al taoismo in sé, sibbene a correnti magiche e alchemiche di queste scuole che se il G. (come sembra) non conosce, potremo quando vuole fargliele conoscere noi, conducendolo per mano. Rileviamo soltanto che il G. non ha risposto alla nostra quistione fondamentale, se una dottrina la si accetterà per vera per il semplice fatto che è tradizionale, ovvero se lasceremo giudicare il valore della tradizionalità dall'immanente verità della dottrina; che il G. resta invece fermo ad un puro autoritarismo che fa credito a se stesso e per salvare l'unità delle tradizioni iniziatiche ci fa un circolo vizioso: definisce a priori come non iniziatiche, profane, filosofiche, ecc. tutte quelle direzioni che non coincidono con il suo gusto o preconcetto. Quanto poi alla nostra pretesa incomprensione in fatto di sapienza indiana, e, in ispecie, tantrica, abbiamo sufficienti assicurazioni da parte di persone che con essa hanno avuto diretti ed interiori rapporti, perché le
insinuazioni che in proposito, con molta spensieratezza e senza l'ombra di una prova, avanza il G., ci lascino, anche rispetto agli altri, perfettamente calmi. 4) Quanto a ciò che riguarda il rapporto o miscuglio fra filosofia ed esoterismo, si dovrebbe pregare il G. (e, con lui, chi ci legge) a rivedere ciò che, prevenendolo, abbiamo scritto in proposito nel saggio in quistione. Ma, anche qui, nessun peggior sordo di chi non vuoi sentire. Abbiamo p. e. detto che il «carattere trascendente della realizzazione metafisica non deve divenire rifugio per uno sfrenato, dogmatico quanto arbitrario divagare soggettivo»; abbiamo parlato di «alcuni begli spiriti dilettanti in occultismo (attenti a chi tocca!)» i quali «non stanno zitti nel puro ineffabile, ma parlano; tuttavia quando si chiede loro che determinino bene il senso delle loro espressioni e rendano conto delle difficoltà che suscitano si traggono indietro vaporizzandosi di nuovo nel riferimento ad un puro intuire interiore, il quale resta così un fatto bruto che non rende conto di sé, che si impone così poco quanto il gusto di uno a cui piace il formaggio di contro a quello di un altro, che preferisce le fragole»; abbiamo quindi posto il dilemma: «o si resta chiusi nell'ambito iniziatico, ovvero si parla. Ma se si parla, si è tenuti a parlare correttamente, ossia: a rispettare le esigenze logiche, a far vedere che l'oggetto della realizzazione metafisica sia pure per accidente dà reale soddisfazione a tutte quelle esigenze e quei problemi, che nell'ambito puramente umano e discorsivo sono destinati a rimanere puramente tali». Ora il G. non solo parla, ma scrive, ma si rivolge a tutto un pubblico, a tutta una cultura di cui fa la critica. Egli dunque non può trarsi indietro, non può cambiare giuoco, sottrarsi a quelle che sono le condizioni di un tale ambito. Ciò, con piena astrazione di quel che noi possiamo rappresentare in un ambito che non si riduce precisamente a questo, e per cui non sentiamo affatto il bisogno di chiedere un qualunque riconoscimento al Guénon. Ora noi dichiariamo che alle fondamentali difficoltà da noi oggettivamente rilevate nel Vedanta e alla sua esegesi da parte del G. -la pseudo-soluzione delle antinomie con i punti di vista, l'assurdo della pura attualità trascendente, della teoria della «realtà minore» e dell'«essere condizionato», il nihilismo di ogni valore, di ogni senso nella manifestazione e nel divenire - il G. stesso non ha risposto nemmeno una parola, ma ha creduto concludere qualcosa con pseudo-rettifiche esteriori e quasi grammaticali, in nulla ledenti il nocciolo dell'argomentazione; oltre poi a prendere per «manifeste incomprensioni» di elementi della dottrina ciò che ne è semplicemente l'approfondimento critico che, di certo, non può rispettare la forma ingenua e provvisoria in cui sono dati (e ciò sia detto per la distinzione fra «me» e «sé», per l'illusione come «realtà minore», per il sussistere di esseri non identificati nel pralaya e via dicendo). Potremmo, del resto, prendere atto della dichiarazione che egli fa dopo che gli abbiamo esplicitamente detto che per noi filosofico significa qualcosa «che si presenti in modo intelligibile e giustificato». Dunque si tratta di un'opera inintelligibile e ingiustificata - per esplicita dichiarazione del suo autore. Il che ci lascia assai perplessi in quanto da una parte l'autore dichiara che «dopo tutto, le proprie intenzioni le conosce meglio di qualunque altro», dall'altra noi di certo non ci sentiremmo (forse perché, a credere al G., non abbiamo letto attentamente il volume) di pronunciare proprio un tale apprezzamento su quel che scrive il G., per il quale nutriamo assai più stima di quel che, forse, egli non supponga e non creda ricambiarci. Conveniamo di certo sulla scarsa utilità di polemiche su certe quistioni, specie quando esse, più che a rimuovere, valgono ad aggiungere alle eventuali incomprensioni dell'una parte almeno altrettante dell'altra. Noi, naturalmente, abbiamo varie cose da sapere ancora - ma allo stesso modo che altre ne abbiamo da insegnarne. Onde, quando credessimo che certi argomenti valessero uno jota, a chi ci rinfaccia la nostra età (senza saperne nulla di preciso, pertanto), potremmo rispondere che deve invidiarci pel fatto di avere noi, per imparare, un tempo che la canuta età di altri, che almeno altrettanto ne ha bisogno, non ha. E, quanto ad attitudine, spetta forse più a cambiarne a chi sente il bisogno di parlare ex tripode, dall'alto di un autoritarismo intollerante e dogmatico - in verità più da pastore protestante che da quel serio studioso di cose iniziatiche che, con le dovute riserve, continuiamo a riconoscere nel G.
IL DIBATTITO
Atma Gita Tarquinio Prisco: Praticamente Evola volge in una forma filosofica occidentale la stessa critica che in India lo Çakti-Tantra rivolgeva da secoli al Vedanta. Sono perciò fuori strada quegli autori che hanno preteso che la critica rivolta, in tale saggio, a Guenon e al Vedanta fosse unicamente espressione di una fase "filosofica" di Evola poi "superata". Ea: Guenon ha scritto:"... il Vedanta ed il Tantra, per chi ben li comprenda, vanno perfettamente d'accordo; certamente vi sono tra essi delle differenze, ma che vertono in somma solo sui mezzi della realizzazione; perché mai Evola si sforza di trovare una incompatibilità che non esiste tra questi diversi punti di vista? Voglia ben riportarsi a quello che abbiam detto dei «darshanas» e dei loro rapporti nella nostra Introduction générale à l'étude des doctrines hindoues. Ognuno può seguire la via che meglio gli conviene, quella ch'è più adatta alla sua natura, perché tutte conducono al medesimo fine; e, quando si sia sorpassato il dominio delle contingenze individuali, le differenze scompaiono. Noi sappiamo almeno, così come Evola, che vi sono parecchie tradizioni iniziatiche, che sono precisamente queste varie vie cui abbiamo or alluso; ma esse non differiscono che nelle forme esteriori, ed il loro fondo è identicamente lo stesso, perchè la Verità è una. Naturalmente, così dicendo, supponiamo che si tratti di vere e proprie tradizioni o tradizioni «ortodosse», le sole che ci interessino". I darshana sono, nell'ambito della tradizione indù, i punti di vista ortodossi, cioè quelli che non contraddicono i Veda. Su questa "non-contraddizione" bisogna però intendersi. Assai spesso i testi sacri non scendono nei dettagli riguardo a questioni dottrinarie: non solo i Veda sono così, ma anche ad es. i due Testamenti e il Corano. Una dottrina è perciò un punto di vista "ortodosso", quando non contraddice i passi del testo sacro stesso. Nell'ambito della teologia cristiana, ad es., ci si riferì inizialmente ai filosofi neoplatonici, poi a Platone, poi ad Aristotele, adeguando, in tutti i casi, l'esposizione in modo che non contraddicesse le scritture. In India è avvenuto qualcosa di analogo. Il fatto che i vari darshana non contraddicano i Veda (per la generica esposizione dottrinaria dei Veda stessi) non implica che essi non giungano invece a contraddizione tra loro, proprio perchè, a differenza dei Veda, essi sviluppano analiticamente la dottrina fino ai dettagli. Guenon fa proprio il punto di vista del Vedanta monistico di Shankara, assumendo che gli altri darshana non siano altro che punti di vista parziali, rispetto al Vedanta monistico medesimo. Inutile dire che in India i seguaci degli altri darshana non sono affatto d'accordo nè con Shankara, nè con Guenon e, in particolare, la polemica dello Shakti-Tantra con il Vedanta di Shankara è ben nota. Che tutte le vie conducano al medesimo fine è discutibile. Come Evola mise in evidenza nella sua replica, non la contemplazione o la susseguente "identità" è la finalità della via magica, ma il dominio. Guenon non comprese mai pienamente la via magica, perchè tendeva ad identificarla prevalentemente con la "bassa magia", avendo dell' "alta magia" scarsa cognizione, soprattutto per il fatto di non esservi versato.
Tarquinio Prisco: Evola dice nella sua recensione dell'opera di Guenon: "Dunque: che cosa dice il Vedanta sul mondo, sull'uomo e sul suo divenire? Anzitutto si ha il presupposto ottimistico 'che esista un Dio' cioè che l'insieme contingente e fenomenico delle cose non sia ciò che sta prima, ma soltanto l'aspetto accidentale di un tutto che, attualmente, è già perfetto e compreso in un superiore principio. Che questo sia un mero presupposto, e che qui il Guénon faccia assai poca attenzione alla teoria della conoscenza propria agli Indiani, ognuno lo può vedere da sé non appena sappia che per l'Indiano qualcosa non è vero, che quando venga sperimentato attualmente. Nel nostro caso: nessuna certezza di Dio, fuori da quella esperienza dell'Io che lo abbia per contenuto. Ora poiché una tale esperienza non è immediata e generale ma per giungere ad essa occorre un certo processo, non vi sono argomenti dimostrativi per affermare che Dio esista già (e quindi che il processo sia semplicemente riconoscitivo) anziché venir dopo, come un risultato di questo processo che ha fatto divino qualcosa che non era tale". Sempre Evola, nel saggio "Cosa vuole l'antroposofia di R. Steiner" (Ignis 6-7 1925), dice analogamente: "...Steiner dà dei metodi, seguendo i quali, ognuno può anche lui riuscire a vedere quel che l'altro vede. Con il che la quistione è semplicemente spostata: poichè una tale visione non è immediata e universale ma per giungere ad essa occorre un certo processo, non vi sono argomenti dimostrativi per affermare che quanto ad essa corrisponde non sia creato da questo processo stesso". L'accusa che muove a Guenon (e al Vedanta) e a Steiner è praticamente la stessa: essi porrebbero come dato qualcosa che, dal punto di vista magico, è invece semmai il risultato di un processo. C'è da chiedersi come mai, in genere, egli si mostri più severo con Steiner anzichè con Guenon, visto che l'accusa è pressochè la medesima. Sadescan: Come ho accennato in un precedente messaggio, Evola rimproverava a Steiner di aver ostentato i risultati della sua personale veggenza. Ho anche evidenziato, in quella sede, i motivi che avevano indotto Steiner a comportarsi così (il suo agire in un ambiente influenzato dal teosofismo anglo-indiano). Che si sia trattato di motivi del tutto contingenti è dimostrato dal fatto che, in generale, i seguaci di Steiner, a cominciare da quelli italiani, non sussistendo più quei motivi, hanno al contrario assunto, per quanto riguarda le loro esperienze interiori, un atteggiamento di riserbo. D'altro canto ad Evola non piaceva neppure un esasperato "mutismo" alla Guenon, esteso agli stessi metodi della disciplina interiore. Scrive ad es. in "Sui limiti della regolarità iniziatica" (Introduzione alla Magia, vol III): "Nei libri del Guenon, purtroppo, non si trova nulla circa quel che può essere una disciplina attiva di preparazione, la quale, in certi casi, può condurre perfino, senza soluzione di continuità, alla stessa illuminazione: allo stesso modo che il Guenon nulla indica, come discipline concrete, quanto all'opera di attualizzazione che dell'iniziato virtuale fa un iniziato vero e, alla fine, un adepto. Come si è detto, il dominio del Guenon è quello della semplice dottrina, laddove a noi interessa essenzialmente quello della pratica." E della pratica steineriana, insegnata da Colazza, Evola si interessò approfonditamente, come dimostrano molte monografie di Ur, anche perchè Steiner non fu certo il creatore di quella pratica, ma piuttosto il trasmettitore e forse l'adattatore di essa all'uomo dei tempi ultimi. Quella pratica provenendo da ambienti rosacrociani, taluni dei quali (e non i meno importanti) connessi all'Italica Schola. Tarquinio Prisco: A chiunque sia stanco di visioni limitate, "ad usum delphini", della tradizione indù, così come la presentano svariati orientalisti sia accademici, sia non accademici (come Guenon) e voglia farsi un idea effettiva della complessità dottrinaria di tale tradizione, consigliamo la lettura del "Manuale delle Teologie Induiste" di Josè Pereira, Roma 1979. Purtroppo sono rimasti vittime delle suddette visioni limitate anche autori di notevole valore. Un esempio è costituito dal volume dello studioso di storia delle religioni Walter Heinrich "Verklärung und Erlösung in Vedanta, Meister Eckhart und Schelling". Tale volume venne recensito in termini abbastanza favorevoli da Evola, nella rivista "East and West" del Giugno-Ottobre 1960. Si tratta di un testo audace, che mette in evidenza le concordanze tra le dottrine del Vedanta, di Eckhart e di Schelling: una comparazione che certamente avrebbe fatto inorridire Guenon. Il testo, perciò, ha il merito di dimostrare indirettamente ai guenoniani tutta la limitatezza di vedute del loro maestro. Ha però un difetto, evidenziabile già dal titolo: riguardo alla tradizione indù, accoglie, in pratica, la visione ristretta di Guenon. Certo, se avesse considerato le dottrine Indù in tutta la loro effettiva complessità come fa Pereira, Heinrich avrebbe probabilmente scritto un opera ben più ponderosa, ma , nello stesso tempo, di ben più alto valore. Questo dimostra tutta la difficoltà di applicare in maniera non arbitraria quello che Heinrich definisce "metodo tradizionale", dal momento che esso, come lo presenta l'autore, si fonda su due principi a volte contrastanti: 1) l'intuizione essenziale di un contenuto che idealmente precede le parti, contenuto che la ricerca comparativa deve servire ad illustrare. 2) il metodo "fenomenologico", in base al quale l'evidenza deve parlare da sé stessa e non si deve aggiungere nulla di estraneo e di personale. In molti casi, come quello della tradizione Indù, occorrerebbe, invece, prima adoperare il metodo fenomenologico a tutto campo, in modo da farsene un'idea veramente complessiva e solo dopo tentare quell'intuizione essenziale di cui parla Heinrich. Rexlukos: ho letto con attenzione la diatriba tra Evola e Guènon sul Vedanta e le altre considerazioni connesse, e permettetemi di formularvi delle domande. Tali divergenze sono manifeste di un diverso orientamento personale, che se per Guènon è puramente contemplativo, da brahmana, per Evola è attivo, operativo, da guerriero: non pensate che ci sia stata una giusta complementarietà (Dottrina e Metodo?), Tarquinio Prisco: No, perchè non vi è alcuna complementarità tra la dottrina di Guenon e il metodo di Evola.
La dottrina di Guenon, dopo aver invano cercato sbocchi Martinisti, Gnostici, Cattolici, Massonici (tutte vie per le quali Guenon non era portato e verso le quali si comportò come quella volpe che, non riuscendo a raggiungere l'uva, la disprezzò dicendo che era acerba,) trovò come rifugio l'islamismo. Evola non ha alcun bisogno di essere supportato dottrinariamente da Guenon, essendo superiore a lui almeno di una spanna. E poi ce lo vedete Evola che ripete giaculatorie islamiche ed inneggia ad Allah? Rexlukos: E della definizione evoliana riferita a Guènon ("Maestro senza pari")? Non pensate che col tempo e con una maggiore conoscenza certe divergenze si siano placate, si siano chiarite? Tarquinio Prisco: Non si è chiarito un bel niente (visto anche che Guenon morì ben prima di Evola). Se si prova a leggere ciò che dice Evola sul Vedanta in opere mature, come "Rivolta contro il mondo moderno" o "l'Arco e la clava", si trovano affermazioni perfino più nette di quelle dette durante la prima polemica sul Vedanta. Inutile dire che anche le divergenze fondamentali sul concetto di iniziazione, già presenti in "Introduzione alla Magia", si fanno più nette ad es. in "Cavalcare la Tigre". Rexlukos: Qualcuno ha giustamente fatto riferimento alla Schola Italica: ma ci ricordiamo dei rapporti di Reghini e Armentano con Guènon? Ci ricordiamo dei rapporti tra De Giorgio (definito il miglior discepolo di Guènon in Italia) ed Evola (in Ur, La Torre, ...)? Ritengo che tutta la faccenda sia da inquadrare in un'ottica unitaria, di giusta complementarietà, ove ogni cosa deve ricoprire il suo giusto dominio, nella differenza che si annulla nell'Unità. Tarquinio Prisco: Li conosciamo benissimo. Se Guenon fosse stato un po' meno superbo avrebbe scelto Armentano come maestro. Reghini ebbe la modestia di farlo, nonostante fosse più anziano di Armentano e nonostante il suo fiero carattere. Altro che passare dalla Massoneria all'Islam, adducendo che la prima gli aveva dato solo una iniziazione virtuale! Lungi da appianare le divergenze, Evola prese infine le distanze da De Giorgio e da quello che Evola definì "cristianesimo vedantizzante"[vedi ne "Il Cammino del Cinabro" il cap. "Le esplarazioni delle Origini e la Tradizione"], sia per la dottrina (ad Evola il Vedanta non andava giù in nessuna salsa) sia per certi atteggiamenti poco equilibrati ("da iniziato allo stato selvaggio") di De Giorgio (motivo non ultimo del suo fallito tentativo di influenzare Mussolini). Noi la pensiamo come Evola e non vogliamo che nessuna differenza si annulli in una unità indifferenziata, nella quale "tutte le vacche sono nere". Rexlukos: Un'ultima cosa: nell'ultimo testo di Guènon, edito da Atanor, sulla tradizione occidentale, nell'epistolario con Reghini, vi è un giudizio su Evola alquanto sprezzante...non credete che nel tempo le cose siano cambiate? Tarquinio Prisco: Sicuro! Guenon è morto ed Evola è vissuto abbastanza a lungo da perdonare l'offesa ricevuta. Rexlukos: Anche sullo scottante tema cristianesimo-paganesimo-tradizione, non sempre i personaggi hanno manifestato le medesime riflessioni (si guardi Evola in Imperialismo Pagano e in Maschera e Volto, e Guènon in Introduzione generale alle dottrine indù e dal Re del Mondo in poi): che ne pensate? Io ho sempre creduto in un processo di maturazione e di unità, cioè il riaccendersi della vero Fuoco di Vesta, della Sophia Perennis. Tarquinio Prisco: La Sophia Perennis non è mai morta, nonostante gli atteggiamenti da "ultimo dei mohicani" di Guenon. Evola è stato di vedute senz'altro più larghe, ma era ben conscio della presunzione del cattolicesimo exoterico di poter far a meno dell'esoterismo. Purtroppo i cattolici esoterici del Gruppo di Ur (a cominciare da De Giorgio) non erano che degli outsider, senza alcun peso nei confronti delle gerarchie cattoliche ufficiali. E oggi la situazione è forse migliore? Ea: Porgo il mio saluto al neo-iscritto Rexlukos, che è voluto entrare subito nella zona "calda" delle argomentazioni. Dietro ogni sua domanda si avverte l'eco di dibattiti durati mezzo secolo e che ci auguriamo non si trascinino per un altro...millennio. Questo forum si intitola "Gruppo di Ur", perchè l'epoca del gruppo di Ur fu un momento "magico", durante il quale tutte le componenti dell'Italica Schola si imposero di andare d'accordo. Tutta la loro produzione di quegli anni è superiore a quella degli altri periodi, perchè il confronto con gli altri induce a limare quei dettagli del proprio pensiero che non hanno realmente a che fare con l'esoterismo, ma che dipendono dagli aspetti semplicemente umani della propria equazione personale. Tutto questo senza rinunciare al "proprium" della linea iniziatica di appartenenza. L'aver litigato prima con Reghini e poi l'esser entrato "in freddo" con molti altri membri del gruppo di Ur credete che abbia giovato al pensiero di Evola? Si ritrovò solo, chiuso in uno sterile confronto con Guenon. Sterile come può esserlo quello tra due amici, uno contemplativo e uno mago, che hanno perciò diverse dottrine di partenza e diversi metodi. A chi pensa che tutte le vie "conducano a Roma", facciamo notare che la via contemplativa può condurre solo al culmine dell'opera al bianco. A questo punto o il contemplativo si ferma lì, oppure (come dice lo stesso esoterismo islamico e perciò Guenon avrebbe dovuto saperlo) occorre un cambio di "sessualità" interiore. L'anima, prima "femmina" nei confronti del contemplato, deve farsi "maschio", affinchè possa pervenire a quel dominio che è proprio dell'opera al rosso. Purtroppo è molto difficile che un contemplativo, soprattutto agli inizi, si renda conto che la sua via può permettere solo un tratto di strada, donde quella sua presunzione che lo rende poco sopportabile da parte di chi abbia scelto di seguire da subito la via magica. Si deve anche valutare quanto Guenon, islamico già nel 1912 e in rapporto epistolare con molti membri del gruppo di Ur, abbia influito con certe sue insinuazioni al "raffreddarsi" dei rapporti tra i membri del gruppo. Rexlukos: Rivolgendomi per primo a Tarquinio, mi permetto alcune osservazioni su quanto da lui scritto, su alcuni punti circostanziati. La critica a Guènon mi pare un po' troppo accesa e il debito che Evola ha sempre riconosciuto verso l'esoterista francese (anche negli ultimi giorni della sua vita) non è da lui accettato: entrambi
hanno sempre consigliato di vedere oltre le loro, le proprie equazioni personali. Ida La Regina: Come ha indicato Ea, fu proprio nel Gruppo di Ur, che si andò, sia pure per un breve periodo, al di là dei limiti della propria equazione personale. Peccato che Guenon non ne fece parte. Anzi... brigò perchè non si costituisse. In una lettera datata Parigi 21 Aprile 1925, così scrisse Guenon a Reghini: "Il Sig. de Giorgio mi chiede che valore può avere la traduzione del Tao fatta da Evola; non l'ho letta, però, in base a quanto Egli mi ha detto, non mi fido dato che l'autore non conosce la lingua. A proposito di Evola, a che punto sta il suo lavoro sul Tantra? Sarà senza dubbio una riproduzione più o meno arrangiata delle opere di Sir John Woodroffe; malauguratamente anche quest'ultimo sa ben poco di sanscrito e ciò che è ancora più singolare è che commette errori inverosimili anche quando scrive in inglese che, se non vado errato, è la sua lingua madre. Sembra che esista un'altra traduzione italiana del Tao fatta da Evans; la conoscete?". Rexlukos: Questa è la lettera sprezzante di Guènon su Evola, inviata a Reghini, che avevo indicato in un precedente messaggio, ma nel 1925 Ur non era sorto e tale riferimento non comprendo cosa c'entri con l'argomento trattato!?? Ida La Regina: Quando si vuole che una cosa non sorga, si comincia ad agire prima (1925) che sorga (1927). Rexlukos: Io ti ripeto che il riferimento è alquanto fuori luogo, ma è solo un mio parere, figurati. Ida La Regina: Nella medesima lettera, qualche paragrafo prima, Guenon aveva cercato di sobillare Reghini contro Steiner (appena morto e perciò non più in grado di difendersi), dicendo: "Non sapevo che Steiner fosse morto; credo che sarebbe bene cercare di stendere un articolo su di lui, dicendo chiaramente cosa ne pensate, senza preoccuparvi troppo dell'opinione della gente". Si dice che Guenon fosse islamico già dal 1912, ma a giudicare dalla sua "mala lingua" si direbbe invece che fosse uno degli...yezidi (ma non vorrei offenderli con questo paragone). Rexlukos: Anche questo riferimento non comprendo cosa c'entri con Ur!??? Poi perchè sobbillare Reghini contro Steiner? E' solo un invito a discrimanare il marcio (Maschera e Volto, Evola su Steiner). La critica e la "mala lingua" non sono assimilabili! Ida La Regina: Ti rammento (ma lo sai benissimo) che una forte componente di Ur era steineriana. E se Reghini si fosse pronunciato ufficialmente e pesantemente contro Steiner...addio gruppo! Rexlukos: Credo che un gruppo, specie magico come Ur, stia insieme per intima condivisione di una medesima visione del mondo e della vita...e non per sopportazione! La critica ad espressioni neospiritualiste precede tutti le argomentazioni sul gruppo. Rexlukos: Sul rifugio islamico di Guènon, come enunciato da Tarquinio, mi ritorna in mente lo studio del prof. Claudio Mutti sui rapporti tra Evola e l'Islam, che credo, uscirà nei prossimi di Camelot, il periodico di approfondimento tradizionale del Centro Studi Tradizionali Cuib Mikis Mantakas, in cui le varie "divergenze" evidenziate siano risolte e superate, specialmente sul concetto di iniziazione, ove Guènon espone la Dottrina ed Evola l'applicazione nel mondo occidentale (Metodo), cioè l'applicazione dei casi particolari in momento particolare come è il Kali-yuga. Turba Philosophorum: Nella Logica Tradizionale esiste una proprietà che viene detta "proprietà di idempotenza". Essa afferma che affermare una volta sola un enunciato è la stessa cosa che ripeterlo per n volte (dove n è un numero intero grande a piacere) e che la ripetizione non cambia il valore di verità (Vero o Falso) dell'enunciato. Rexlukos continua a ripetere, senza portare argomenti probanti a sostegno, che quella di Guenon sarebbe "dottrina" è quella di Evola "metodo". Per quanto egli lo ripeta come uno slogan, il valore di verità dell'enunciato resta lo stesso: Falso. Infatti ridurre (come cercano di fare taluni appartenenti ad un certo ambiente di Taranto) tutto l'imponente corpus di pensiero di Evola a semplice metodo applicativo della dottrina di Guenon è sminuire il pensiero stesso di Evola. Questi ha enunciato una dottrina perfino più vasta di quella guenoniana ed è con questa in conflitto in più punti. E' merito poi di Evola, a differenza di Guenon, di aver indicato, oltre che una dottrina, anche dei metodi. Evola ne "Il Cammino del Cinabro" (ediz. 1972 p. 13) parla di una "formulazione precipua da me data, nell'ultimo periodo della mia attività, al 'tradizionalismo' in opposto a quella intellettualistica e orientaleggiante, della corrente facente capo a Renè Guenon". Evola dunque dice "in opposto" e non come pretenderebbero le suddette persone dell'ambiente di Taranto "come metodo a dottrina". Inoltre Evola dice "nell'ultimo periodo della mia attività" e non come essi pretendono nel solo periodo giovanile, al quale sarebbe seguito uno di riavvicinamento a Guenon. Si fa presente (forse qualcuno non lo sa) che Evola nell'introduzione de "il Cammino del cinabro" per indicare la finalità del libro dice. "L'intento è di fornire una guida a chi, interessandosi retrospettivamente all'insieme dei miei scritti e della mia attività, volesse orientarsi e stabilire quel che in essa può avere un significato non soltanto personale ed episodico". Dunque l'autore esprime esplicita volontà che quando certi suoi atteggiamenti, assunti in diverse circostanze, sembrassero in conflitto, siano le pagine de "Il Cammino del Cinabro" a decidere quale atteggiamento sia l'autentico e quale il "personale ed episodico". Ida La Regina: Raccomando a Rexlukos, se è uno studioso dell'Islam, la lettura della monumentale opera sull'argomento di Leone Caetani. Rexlukos: L'Islam mi interessa come tutte le vie tradizionali, in uno studio comparativo, ma non è la mia via. Il testo di Caetani l'ho letto, ma anche le controindicazioni del prof. Mutti, che mette in luce non pochi punti oscuri di tale personaggio. Su Armentano e Reghini, so, dai vari carteggi, che essi ebero in grande stima Guènon, e che lo stesso
Armentano riconosceva un grande debito nei confronti sempre del Guènon, come Evola; ritengo un'esagerazione amplificare differenze che, se poste come sono state poste, non credo avrebbe prodotto rapporti così cordiali, di debito iniziatico, come è facile riscontrare dai documenti. Ida La Regina: Dovresti abituarti a citare per esteso i documenti di cui parli, come fanno tutti gli studiosi del nostro gruppo: è un modo di essere realmente di aiuto agli altri e soprattutto impedisce a chiunque di raccontare le cose...a modo suo. Rexlukos: Accolgo l'invito: su certe questioni è utile la lettera de "Il figlio del Sole", un testo dedicato ad Artuto Reghini, Ignis Edizioni. Ida La Regina: Un testo valido, ma parla soprattutto di Reghini. Per farsi un idea autentica su Armentano e sui suoi rapporti con Guenon, suggerirei piuttosto "Massime di Scienza Iniziatica", sempre delle edizioni Ignis. Rexlukos: Anche! Turba Philosophorum: Riguardo al debito iniziatico (addirittura!) che Reghini ed Armentano avrebbero contratto con Guenon, Rexlukos viene contraddetto dai testi che lui stesso cita. Infatti ne "Il Figlio del Sole" (Ediz. Ignis Ancona, 2003) viene esplicitamente detto. "L'amicizia tra Guénon ed Armentano risale al tempo in cui l'iniziato calabrese frequentava i circoli esoterici di Parigi (anni '10) e ne abbiamo notizia anche da Giulio Guerrieri, un esoterista molto intimo di Arnentano e di cui Guénon era amico fratemo già da tempo. Alcune lettere di Guénon ad Arnentano evidenziano altresì una viva ammirazione del francese per l'amico calabrese e per le sue riconosciute doti spirituali. Altrettanto disinteressata e sincera fu l'amicizia di Guénon verso Reghini, nata e sviluppatasi al tempo del Rito Filosofico Italiano, anche se non andò mai oltre i termini di un reciproco apprezzamento per il comune lavoro filosofico e letterario; entrambi, inoltre, erano fortemente attratti dalla scienza dei numeri e dalla geometria. E' perciò da escludere un' influenza, anche indiretta, di Guénon su Reghini (a non essere lo scambio di informazioni tra studiosi delle stesse discipline), il quale ultimo anzi guardingo e sospettoso come sempre sulle cose "esoteriche" provenienti d'oltr'alpe, nel 1922 annotava con stupore che l'esoterista ftancese si era dimenticato di inserire nell' elenco delle tradizioni iniziatiche d'Occidente degne di essere ricordate proprio quella italica, mentre non gli era sfuggita quella druidica!". Rexlukos: Un'ultima cosa su De Giorgio (che era consapevole quanto Evola e Guènon dell'involuzione ecclesiastica...ma lo spirito di una via permane al di là delle forme contingenti...assurgendo con Dante ad un'espressione eccelsa di Universalità Romana...altra cosa dalla "indifferenzazzione delle vacche"): i commenti di Evola riportati sono i segni di una normale diversità, come è giusto che vi sia in un due persone che seguono vie tradizionali diverse, ma segno di grande rispetto, di grandissimo rispetto: non dimentichiamoci come Evola volle fortemente la partecipazione di De Giorgio a La Torre e in seguito spesso si dolse della sua poca prolificità editoriale, invitandolo più volte a varie collaborazioni. Ida La Regina: Anche qui si dovrebbe...citare. Scrive Guenon a De Giorgio, in una lettera datata Parigi, 18 Dicembre 1928: "Ho ricevuto una lettera di Evola, in cui c'è un passaggio che vi riguarda; ve la trascrivo testualmente: - Avrà visto che Ur 3-4 comincia con un articolo che è una riduzione di quello che, a suo tempo, De Giorgio mi mandò. Avendo presa tale riduzione direttamente sotto nostra responsabilità. Lei potrà vedere che nei punti principali non si era certamente in contrasto con De Giorgio, ma solamente su alcune sfumature, su alcuni modi di presentazione che avrebbero nuociuto all'unità della rivista e che ora sono stati eliminati. Questa pubblicazione può dunque servirle come un punto di orientamento maggiore nei nostri riguardi e nei nostri rapporti -. Evola censurava gli scritti di De Giorgio, altro che...scarsa prolificità. Rexlukos: Anche qui non comprendo il riferimento: censura e prolificità non sono sinonimi; la correzione dei testi di Ur da parte di Evola è tutt'altro discorso! E' sufficiente leggere, su quanto ho scritto, le introduzioni a La Torre e all'ultima edizione de La Tradizione Romana di De Giorgio , o ancora Prospettive sulla Tradizione, Il Cinabro Edizioni. Ida La Regina: La censura di Evola non stimolava certo De Giorgio ad essere prolifico. Se hai letto bene il mio precedente messaggio, sai benissimo che non si trattava di semplici "correzioni" di bozze, ma di "tagli" cospicui, tanto da ritenere importante farlo sapere a Guenon e, per il di lui tramite, a...De Giorgio. Lo so che è faticoso, ma citare vuol dire riportare anche brani e non solo titoli. Infatti siamo in un forum ed è un po' troppo pretendere che gli altri capiscano il tuo messaggio solo dopo essersi procurati e letti quei libri. Rexlukos: Evola definisce De Giorgio come il direttore invisibile de La Torre, a testimonianza che i tagli non avevano creato astio: De Giorgio accetto ciò che Reghini respinse, una visione totalizzante e tradizionalmente universale, ai quali erano solamente indirizzati i tagli evoliani. Sui brani citati, sono l'abc di chi si occupa di Tradizione e poi io non pretendo nulla, ognuno è libero di approfondire o meno...i testi sono fatti anche per questo! Questo è un bel forum, appunto, non una libreria! Turba Philosophorum: L'adesione di De Giorgio al Gruppo di Ur non appare mai come cosa realmente "sentita". In modo perfino più diretto di Guenon, si adoperò per far cessare la rivista. Se ne trova traccia ne le Glosse Varie (La magia, il maestro, il canto) del IV cap. del II vol. di Introduzione alla Magia, dove Evola rispondendo all'invito da parte di De Giorgio (Havismat) di smettere le pubblicazioni, così rispose: "Infine, quanto all'assurdo relativo al parlare di magia (o iniziazione) in scritti 'alla portata di tutti', esso, in fondo è
relativo, perchè anche con la miglior volontà, scritti del genere non saranno mai alla portata di tutti. Se mai, quando è della divulgazione dei metodi di una magia applicata che si tratta, la questione, posta da alcuni, concerne l'opportunità e la pericolosità in ordine ai pochi (anche in questo campo si tratta sempre di pochi) che possono metterli davvero in azione, non avendone saputo prima. Ma ciò rientra in un campo di semplice responsabilità personale, nè più nè meno come nel caso dell'uso che ognuno può fare già di un'arma da fuoco o di un tossico". Che De Giorgio non stimasse realmente nè la rivista, nè il Gruppo che la scriveva è confermato da quanto egli dice in "L'istante e L'eternità" (ed. Archè 1987), in relazione all'articolo di Ekatlos, La Grande Orma: "Il carattere oscuro e nettamente occultista di questo testo non fa che confermare il tono generale della rivista. Tuttavia, non si potrebbe escludere che delle forze di questo tipo abbiano agito dietro il fascismo, delle forze di natura 'residua' che risalgono all'epoca della decadenza di Roma imperiale, allorchè si divulgarono dei culti orientali deviati (come quello di Iside, segnalato nell'articolo in questione). Delle forze che furono provvidenzialmente interrate, in tutti i sensi del termine, con i templi dove esse erano venerate, per l'azione tradizionale cristiana". Un discorso più che da esoterista...da parroco e che evidenzia come l'adesione superficiale di De Giorgio al Gruppo di Ur, fosse più che altro un "curiosare", forse per riferire...Oltralpe. Rexlukos: Ringrazio Ea per il cortese benvenuto in questo forum! Su quanto da lui scritto in merito al tema affrontato, vorrei solo dire alcune cose. Evola non mi sembra esser rimasto isolato (La Torre ne è un esempio), nè mi sembra sia rimasto sotto le influenze nefaste di Guènon: vogliamo dire che tutta la produzione evoliana dopo Ur non ha valore? Non credo. Ea: In questo forum ci occupiamo di magia e non di "cultura" in generale, fosse anche una cultura tradizionalmente orientata. Ora, che da un punto di vista magico (sia operativo, sia dottrinario) già La Torre rappresenti una "caduta di livello" è innegabile. Evola fu praticamente costretto a rinunciare al livello magico, perchè chi mai avrebbe potuto sostituire un Reghini, un Colazza o un Quadrelli? Gli vennero a mancare proprio i massimi calibri di Ur e certo non li poteva sostituire De Giorgio. La produzione di Evola copre, è ovvio, moltissimi altri campi (dagli studi sull'Oriente alla politica) ed in quelli ha certamente valore. Rexlukos: Ho fatto riferimento alla cultura tradizionale generalmente intesa, per inquadrare meglio la situazione e per comprendere al meglio il reale rapporto tra le personalità in questione. Su la Torre consentimi di pensarla diversamente: fu il passaggio da un particolarismo al Tradizionalismo Integrale (con Guènon e De Giorgio) che dalla loggia di un Reghini apre le porte all'Universalità Romana. Turba Philosophorum: Passi per De Giorgio, che (sia pur in maniera tutta sua) aveva certamente rispetto della Tradizione Romana, ma Guenon diceva di essa: "Ai Romani la loro incomprensione dei simboli presi in prestito dagli Etruschi e da diversi altri popoli derivò da una assoluta inettitudine a tutto quello che è propriamente intellettuale" (Introduzione Generale allo Studio delle Dottrine Indù, Torino 1965, p.78). Altro che "Universalità Romana"! In tutta sincerità, non credo che un sincero appartenente all'Italica Schola possa mai essere guenoniano. Rexlukos: Condivido che Ur sia stata un'esperienza magica ed unificante, ma credo che essa sia implosa proprio nel momento in cui ci si doveva davvero trasmutare verso l'universale, abbandonando i propri egoismi, i propri vincoli. Quante volte Evola si è rammaricato di aver messo in contatto Scaligero con ambienti antroposofici e steineriani (solo per fare un esempio)??? Ea: Scaligero fu ben felice di seguire Colazza, verso il quale lo stesso Evola aveva il massimo rispetto. Seguendo Guenon avrebbe solo potuto farsi islamico, perchè Guenon (inutile pigliarci in giro) di concreto non proponeva altro e i suoi seguaci, oggi, di fatto non propongono altro. E' una strada che noi non intendiamo seguire. E ciò per il semplice fatto che già ne seguiamo un'altra. Neppure la consigliamo come soluzione generale per l'Occidente, perchè come altri ha già evidenziato in questo forum, dopo aver sopportato per secoli la pedanteria dell'exoterismo cattolico, non intendiamo sopportare certo il fanatismo dell'exoterismo islamico. E anche da un punto di vista esoterico, non è certo la sostituzione della invocazione di Gesù nel cuore con qualche versetto coranico che cambierebbe la sostanza delle cose. Rexlukos: Scaligero era ben felice di seguire Colazza, ma certamente Evola si è sempre pentito di averglielo presentato (la cosa è incontestabile, come il giudizio su Steiner espresso in Maschera e Volto!). Guènon, poi, non ha mai fatto proselitismo islamico, anzi, ha sempre precisato la sua personalissima via, che ben si inquadra nel suo bel passo "Le conversioni" in Iniziazione e Realizzazione Spirituale. Guènon non ha mai voluto consigliare una via: ritorno la complementarietà con Evola, Dottrina e Metodo. Credo che ognuno debba seguire la via che il proprio cuore gli suggerisce, senza disprezzare vie altrui, perchè molteplici sono le vie che conducono alla Vetta, come ci ricorda Coomaraswamy. Turba Philosophorum: E perchè Evola si rammaricava? Solo perchè Scaligero non seguiva più la sua via? Non erano affari di Scaligero? Rexlukos: Un'ultima cosa. Riproporre l'antitesi contemplazione-azione (Guènon-Evola) credo ci porti verso un falso obiettivo d'analisi: credo sia inutile ricordare quante volte entrambi abbiano chiarito quanto ci sia di attivo nella contemplazione e di passivo nell'azione e quante volte abbiano espresso la necessità di una loro complementarietà. Ritenere Guènon un contemplativo è errato come ritenere Evola votato all'azione: l'opera al rosso, la rubedo, si realizzano solo quando Contemplazione e Azione si manifestano nella loro trascendente unità, quando bramhani (Guènon) e guerrieri (Evola), tornino alla costituzione di Hamsa, della casta primordiale, ove l'Azione Sacra viene ritualizzata dal Rex et Pontifex. Ea: Non proponiamo affatto l'antitesi contemplazione-azione. Ma semmai l'antitesi magia-contemplazione. Noi
seguiamo una via magica e non una via semplicemente "guerriera": Le due cose non sono affatto assimilabili. Perchè la via magica non necessita di azione esteriore (la magia più elevata non è quella "cerimoniale"), mentre la via guerriera sarebbe inconcepibile senza l'azione esteriore. E' proprio il "Re Mago" a dominare sacerdoti e guerrieri. Naturalmente non abbiamo nulla in contrario che tu o altri seguiate altre strade. Resta fermo che, in questo forum, si parlerà di magia. Rexlukos: So bene che la via magica non è assimilabile a quella guerriera, perchè la via magica è la risoluzione della via guerriera e di quella contemplativa; sul Re Mago concordo in pieno! Su Guènon abbiamo opinioni diverse, ma può normalmente accadere in un sereno confronto. Quadreracles: Esiste una recensione di Evola al libro di Guénon apparsa nel 1938 su "Bibliografia Fascista" che completa, in certo qual modo, gli scritti polemici sull'Advaita-Vedanta postati, su mia richiesta, da Ea , che ringrazio, anche se in ritardo. La posizione di Evola sulla questione fu poi approfondita ne "L'arco e la Clava" nell'articolo: "Il mito di Oriente ed Occidente e l'incontro delle religioni". Ea: Ed è infatti tenendo conto della posizione "ufficiale" assunta da Evola nelle sue opere principali che tale recensione va letta. Essa è un po' celebrativa, perchè ad Evola, a quell'epoca, premeva dimostrare all'intellighentia fascista, che lui non era la sola mosca bianca a parlare in un certo modo della Tradizione. Altri esempi possibili, come Reghini, erano improponibili, dopo la famosa lite e Kremmerz era troppo "magico" e perciò non appetibile per semplici intellettuali. In quella che è certamente la sua opera di più ampio respiro e cioè "Rivolta contro il mondo moderno", Evola così si esprime riguardo al Vedanta: "La dottrina di Shankara , sotto vari aspetti, appare improntata dallo spirito di una severa ascesi intellettuale. Purtuttavia , essa nell'intimo resta orientata verso il tema demetrico-lunare del Brahman senza forma -nirguna-brahman- rispetto al quale ogni determinazione non è che una negazione, un puro parto d'ignoranza. Perciò può dirsi che in Shankara appare la più alta delle possibilità di una civiltà dell'età dell'argento." Ne L'Arco e La Clava, approfondisce nei dettagli tale critica, rifacendosi, come nei suoi primi scritti che già abbiamo esaminato, ai testi Tantrici, in particolare al Tantratattva di Shiva Chandra.
View more...
Comments