55487171 Storia Dell Arte Einaudi Tafuri Manfredo Architettura Italiana 1944 1981

August 26, 2017 | Author: papaveroverde | Category: Italy, Milan, Rome, Urban Planning, Historiography
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Architettura italiana 1944-1981 di Manfredo Tafuri

Storia dell’arte Einaudi

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Edizione di riferimento:

in Storia dell’arte italiana, II. Dal Medioevo al Novecento, 7. Il Novecento, a cura di Federico Zeri, Einaudi, Torino 1982

Storia dell’arte Einaudi

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Indice

1. Gli anni della ricostruzione

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2. Aufklärung I. Adriano Olivetti e la communitas dell’intelletto 40 3. Il mito dell’equilibrio. Il piano Vanoni e l’Ina-Casa secondo settennio

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4. Aufklärung II. Il museo, la storia, la metafora (1951-1967) 56 5. Nuove crisi e nuove strategie (1968-1975)

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6. Due «maestri»: Carlo Scarpa e Giuseppe Samonà

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7. Il frammento e la città. Ricerche e exempla degli anni ’70

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8. Architettura come colloquio e architettura come «invettiva civile»

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9. Il «caso» Aldo Rossi

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10. Il rigorismo e l’astinenza. Verso gli anni ’80

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1. Gli anni della ricostruzione. Una difficile dialettica fra il conoscere e l’agire si impone, all’indomani della Liberazione, agli architetti impegnati a dare risposte alla nuova realtà italiana1. Difficile a causa delle contraddittorie basi su cui poggiava la tradizione disciplinare, ma anche a causa della molteplicità di livelli imposta da quel conoscere. Tanto piú che sembrava scontato, alle forze piú qualificate, che non potesse esistere un conoscere sganciato dall’agire: l’incontro con la politica attiva appare un imperativo. Attraverso un susseguirsi di ideologie, comunque, gli architetti italiani procedono in un’affannosa ricerca di identità, appoggiata di continuo a tematiche extradisciplinari. In tal senso, è sin troppo semplicistico individuare nel «rapporto con la storia» il filo rosso che lega le ricerche dell’età neorealista agli esiti estremi dei viaggi nella memoria di architetti come Scarpa, Rogers, Gabetti e Isola, Aldo Rossi o Franco Purini. Tuttavia, se per Ridolfi, Albini o Rogers vale l’imperativo che connette «l’io sono» al «cosí furono», per le esperienze degli anni settanta vale piuttosto quello che stringe «l’essa è» dell’architettura alle scaturigini prime del suo essere. La ricerca della «grande casa» dell’architettura: anche questa, camuffata sotto vesti non ancora sospette di heideggerismo, è presente nelle prime esperienze posteriori al conflitto mondiale.

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Con un inevitabile ricorso allo schematismo, tuttavia. Il riesame del recente passato viene improntato a una logica manichea, mentre il bisogno di autocritica non giunge al cuore delle «unità discorsive» in cui il sapere architettonico si era scomposto e in cui continuava a scomporsi. Quell’autocritica, cosí, si limita a questioni di «stile». I convulsi fermenti che agitano la cultura architettonica italiana dopo il ’45, espressi in coraggiose iniziative editoriali, con la presenza nei luoghi di decisione, con la formazione di gruppi e associazioni, convergono almeno su un punto: della tradizione formata da Persico e Pagano – vista frettolosamente come unitaria – andavano raccolte principalmente le istanze «morali», quelle che sembravano condurre inevitabilmente «al di là dell’architettura». Automaticamente, interi settori delle ricerche degli anni venti e trenta vengono messi fuori gioco: una rimozione provvisoria, comunque, destinata a pesare, nella forma del «risveglio», in anni a noi più vicini. Solo su un fondamento etico, infatti, potevano riconoscersi solidali gli architetti tesi a introiettare i valori della Resistenza, compatti almeno nel perseguire un «programma di verità». Ben piú complesso era definire i contenuti di quella verità e le forme di azioni conseguenti. Che ci si trovasse di fronte a un ciclo nuovo da costruire sembrava pacifico; altrettanto pacifica era la necessità di fare i conti con un’«idea di ragione» che – come denunciava in quegli anni Elio Vittorini – aveva mostrato la propria disfatta. Non ci sembra cosí casuale che la storia dell’architettura italiana del dopoguerra si apra con due opere concepite come commossi omaggi a ideali che avevano costituito, nel ventennio trascorso, fragili punti di appoggio per un’intelligencija costretta a ripiegare su se stessa. Il monumento alle Fosse Ardeatine a Roma (1944 sgg.) di Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini,

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Nello Aprile, Cino Calcaprina e Aldo Cardelli, e il monumento ai Caduti nei campi di concentramento in Germania dei Bpr (1946): un impenetrabile masso sospeso, testimonianza muta al cospetto del luogo dell’eccidio, e un reticolo metallico su base cruciforme in pietra, contenente al centro un’urna piena di terra dei campi tedeschi2. Da un lato, una geometria che si compromette con la materia, memore forse del progetto per il Palazzo dell’Acqua e della Luce all’E 42 del gruppo Albini-Gardella-Minoletti: in un solo segno è contratto il dolorante ricordo di un evento che rende retorico ogni commento. Dall’altro, un omaggio lirico ai miti illuministi degli anni trenta, espresso con esplicite allusioni al traliccio di Persico e Nizzoli nella Galleria di Milano e agli «oggetti prigionieri» di Duchamp, Giacometti e Melotti. Si è parlato, e a ragione, per il monumento dei Bpr, di «commemorazione di un ideale»3. Ma quel monumento, quel reticolo «troppo razionale» opposto all’immensità dell’eccidio, costituisce anche un momento di riflessione che dà senso al motivo della «continuità» più tardi teorizzata da Rogers. Una riflessione conclusiva sul passato, dunque, il monumento alle Fosse Ardeatine, alla luce delle successive esperienze dell’ambiente romano; il punto di una situazione culturale ritenuta ancora operante, il monumento dei Bpr nell’ambiente milanese. La lirica con cui ci si volge all’indietro, affinché non sia permesso dimenticare, è però accompagnata da un impegno nella ricerca di strumenti specifici atti a contribuire al problema della ricostruzione: immediatamente, quella cultura tesa al nuovo si mostra legata a pratiche discorsive tutte operanti sin dagli anni venti e trenta. Nel dicembre 1945, al I Convegno nazionale per la ricostruzione edilizia, la voce di Rogers si leva per lamentare l’assenza di un piano nazionale, mentre Zevi indica come modello pos-

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sibile quello dell’edilizia di guerra statunitense, tentando di trasferire alla situazione italiana i risultati di un secondo New Deal letto in modo impressionistico4. È De Finetti, il vecchio allievo di Loos, erede spirituale di un Illuminismo lombardo di stampo rigorista, del tutto estraneo alle polemiche sui destini del «moderno» e autore di alcune «inattuali» proposte per il centro di Milano, fra il ’44 e il ’51, a mostrare un maggior realismo, leggendo gli sviluppi del tessuto milanese alla luce del mercato fondiario e preconizzando una nuova legge urbanistica in grado di provvedere ad adeguati demani pubblici di aree5. Ma il nodo politico della ricostruzione sfugge agli architetti: le loro petizioni vertono sulla globalità dell’intervento, rimanendo evasive rispetto all’attrezzatura tecnico-istituzionale che avrebbe dovuto permetterla. Del resto, un documento come quello redatto nel ’44-45 da Della Rocca, Muratori, Piccinato, Ridolfi, Rossi de Paoli, Tadolini, Tedeschi e Zocca parla chiaro circa le ideologie che ispirano le ipotesi della cultura italiana in merito alla ricostruzione6: l’accento batte sull’agricoltura come settore prioritario di intervento, su un’Italia contadina ristrutturata e razionalizzata attraverso un’urbanistica che punti su una «migliore distribuzione della popolazione» e il potenziamento del turismo, salutato come sicura vocazione economica del paese. Gli urbanisti italiani, di fronte al tema della ricostruzione, legano tenacemente la propria tradizione disciplinare a scelte politico-economiche avanzate «in proprio». Piú che alla «supplenza», il loro lavoro tende alla «simulazione». Non sembra comunque lecito riconoscere nelle esperienze urbanistiche del primo dopoguerra un reale salto metodologico rispetto alle elaborazioni della seconda metà degli anni trenta e alle indicazioni contenute nella legge del ’42. L’entusiasmo e le generose illusioni che caratterizzano il clima ciellenistico permettono piutto-

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sto di fissare in modelli i contenuti ancora fluidi di quelle elaborazioni. Il piano ar, elaborato sin dal ’44 dal gruppo italiano dei Ciam per il capoluogo lombardo7, fissa le coordinate di un sistema urbano in cui strutture alternative si integrano a un consolidamento del patrimonio esistente: due assi attrezzati si incrociano legando una zona direzionale decentrata alla viabilità regionale8 un restauro conservativo è previsto per il centro storico cosí liberato; nuclei integrati di residenza e produzione sono localizzati presso Gallarate, Como, Varese, Monza, la Brianza, nella prospettiva di una riorganizzazione regionale, mentre l’agglomerato urbano vero e proprio viene limitato a una città di media grandezza. Lotta contro la speculazione, conservazione e valorizzazione dei nuclei storici, sviluppo unidirezionale di «città alternative» sono gli obiettivi che si vorrebbe integrare, a Milano come a Roma. Nel ’46, una commissione di cui fanno parte Luigi Piccinato, Mario Ridolfi, Aldo Della Rocca, Franco Sterbini, Ignazio Guidi, Cherubino Malpeli e Mario De Renzi è chiamata ad elaborare un piano del traffico per la grande Roma; ne esce un programma urbanistico completo, offerto come base per una polemica che sfocerà nelle vicende del piano del ’629. Tutto ciò, tuttavia, rimane nei limiti della pura esercitazione. Anche quando, come nel caso degli studi per il piano regionale del Piemonte, frutto dell’iniziativa di Giovanni Astengo e Mario Bianco, ci si confronta con una tematica territoriale di complessa struttura economica10, emerge la volontà di consolidare una disciplina dotata di una indiscussa tradizione. È opportuno però distinguere le tendenze che fra il ’44 e il ’48 caratterizzano l’approccio italiano all’urbanistica: il regionalismo del piano ar è in linea con quello che aveva ispirato il piano della Valle d’Aosta, patrocinato da Adriano Olivetti nel 1936-37, pur nella diversità dei contesti; quel-

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lo affrontato da Astengo e Bianco per il Piemonte è piuttosto frutto di una petizione di principio e di una ricerca di metodologie analitiche. Saranno le pressioni contingenti a far precipitare l’esperienza urbanistica in dogmatismi tenacemente vincolati a modelli di sviluppo cittadino alla fine ineffettuali. Per suo conto, d’altronde, il territorio italiano sfugge ad ogni pianificazione: nel catalogo delle utopie vengono relegate le proposte del piano ar o quelle emergenti dal concorso del ’46 per il centro direzionale di Milano, mentre il crollo progressivo delle speranze seguite alla lotta di liberazione spinge gli architetti – specie quelli settentrionali, in presenza di una committenza piú dinamica e di un apparato industriale rapidamente riassestatosi – a concentrare in messaggi formali le loro aspirazioni a nuovi ordinamenti civili. Il confronto con la storia, che in modo piú o meno ambiguo caratterizzerà il decorso della ricerca italiana, è d’altronde imposto da occasioni clamorose, come quella della ricostruzione dei ponti e della zona di Por Santa Maria a Firenze, distrutti da uno dei più gratuiti atti compiuti dalle truppe tedesche in ritirata. Nell’affannoso tentativo di contrapporre le qualità della «civiltà» all’ignominia della barbarie, gli architetti toscani si cimentano in progetti e polemiche che si concludono con una ricostruzione del tessuto storico povera e compromissoria: rispetto alle indicazioni – anch’esse, tuttavia, viziate da incertezze e ambiguità – di Giovanni Michelucci, la vicenda fiorentina sfocia anch’essa in un fallimento, lasciando però emergere problemi su cui sembrerà degno impegnarsi a fondo11. La cultura architettonica italiana sente subito, peraltro, di dover fronteggiare molteplici nemici, e non tutti esterni. Non si tratta solo della battaglia contro la «leva dei morti» di cui parlava Guido Dorso, ma anche di quella che gli intellettuali sentono di dover ingaggiare

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con se stessi, con le proprie tradizioni, con il nodo che li lega a istituzioni da sovvertire. Sono esattamente questi i temi affrontati dall’Associazione per l’architettura organica (Apao) e dall’azione personale di Bruno Zevi, tornato in Italia dopo aver completato i suoi studi negli Stati Uniti. Zevi esordisce con un volume, Verso un’architettura organica (1945) scritto come «manifesto» non solo di una scelta storiografica ma anche di un principio di azione: la fondazione dell’Apao e della rivista «Metron» è conseguente alle riflessioni depositate in quel volume, le cui linee metodologiche saranno esplicitate piú tardi in Saper vedere l’architettura12. Per Zevi, il «superamento» dell’eredità del cosiddetto «razionalismo» non prescinde dalla rivoluzione delle coscienze da esso preconizzato. Anzi, il rinnovamento dovrà completare e approfondire un’operazione il cui ascetico calvinismo non ha piú ragion d’essere dopo l’ampliamento alle masse del messaggio contenuto nel terrorismo delle avanguardie. La lezione di Wright, principalmente – ma anche quella di Aalto – dovrà essere assorbita per «liberare» le forme, per piegarle a una «umana» fruizione dello spazio. Ma l’insistenza zeviana sulle valenze spaziali va colta nel suo valore di metafora. Lo spazio è protagonista là dove esiste scambio fra progettazione e fruizione, dove il suo oscillare fra condizioni naturali e innaturali permette il recupero di «luoghi», dove si fa riconoscibile l’ambiente di una società democratica. Singolare è l’integrazione tentata da Zevi del metodo analitico della «scuola di Vienna» con l’eredità crociana e con una volontà di intervento diretto della storia nell’azione contingente13. Certo, lontana da Zevi era l’intenzione di proporre una «maniera» linguistica. Ma il nuovo vessillo da lui agitato come catalizzatore di energie altrimenti prive di centri è troppo mitico per non divenire adatto ad ogni uso. L’Apao afferma, nel suo programma ideologico, di per-

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seguire una pianificazione urbanistica e una libertà architettonica come strumenti di costruzione di una società democratica in lotta: la libertà sociale deve essere garantita dalla socializzazione dei grandi complessi industriali, bancari e agrari14. Tale deciso appello rimane tuttavia generico e privo di relazioni con le scelte da compiere nel settore edilizio. La politica viene evocata, piuttosto che praticata dall’Apao. I cui obiettivi specifici, comunque, sono anch’essi vaghi: l’equazione architettura organica = architettura della democrazia è utile piú che altro per riconoscersi, non certo per riconoscere. Né le incertezze della cultura romana sono compensate dal richiamo all’ortodossia proveniente dal Movimento studi di architettura (Msa) di Milano o dal gruppo Pagano di Torino: dietro le formule, si nasconde un’incertezza di fondo che l’analisi storiografica non riesce a rimuovere. Eppure, riviste come «Metron», «Domus» – diretta dal 1946 al 1947 da Rogers – o «La nuova città», diretta dal ’45 da Giovanni Michelucci, ereditano con diversi orientamenti la vis polemica della «Casabella» di Pagano: ma la prima rimane legata alle sorti dell’Apao, la seconda si presenta con un volto aristocratico, incidendo scarsamente sull’architettura militante15, la terza è costretta in limiti localistici. Rimane comunque alla pubblicistica di questo periodo il merito di aver ampliato le pertinenze dell’analisi critica e di aver abbozzato una revisione dell’eredità storica del cosiddetto «movimento moderno» che produrrà ben presto i suoi frutti. Nel frattempo, le istanze tese alla formulazione di un linguaggio nuovo, libero dalle ambigue ipoteche del recente passato e capace di entrare in consonanza con le speranze riposte nell’ordinamento democratico e con i valori espressi dalla Resistenza, sfociano per vie differenti nella vicenda neorealista16. Sin troppo facile è tracciare le linee di un’archeolo-

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gia del neorealismo architettonico: la mostra sull’architettura rurale alla VI Triennale di Milano (1936), che vede l’esordio di Pagano come fotografo, la villa a Porto Santo Stefano di Quaroni (1938), il progetto di Ridolfi per un’azienda agricola a Sant’Elia Fiumerapido (1940) sono lí a testimoniare una volontà antiretorica che suo malgrado entra in risonanza con le velleità ruraliste della politica economica del regime, che nel voler reagire al «lasciarsi vivere soltanto» cerca parole prime in una logica costruttiva legata al mito della «naturalità», che nelle sperimentazioni lecorbusieriane con i materiali poveri scopre un’ideologia di ricambio. E viene da fantasticare su un archeologo del futuro privo di documenti che non siano grafici o costruiti, perplesso nel dover collegare opere cosí distanti come quelle citate, ai quartieri progettati da Forbat per Karaganda (1932), agli edifici residenziali realizzati da Püschel ad Orsk (1935), ai progetti per case contadine di Mel´nikov (1918-19) o al folclore di maniera di Norristown, caposaldo della «conquista» rooseveltiana della regione del Tennessee. Impossibile isolare meccanicamente le anime della «tradizione del nuovo» in separate stanze: avanguardie, populismi, rétours à l’ordre convivono come maschere intercambiabili di un medesimo attore. Che sceglie, nel caso del neorealismo italiano, la via della descrizione. Descrizione, innanzitutto, di un incontro traumatico con uno specchio imprevisto – la convenzione chiamata «realtà» – che restituisce a chi guarda immagini inquietanti; descrizione di emozioni provate nello scambiare l’orgoglio della modestia con l’immodestia di una volontà di potenza frustrata; descrizione di un viaggio «là dove altri erano» nella speranza di poter cosí comprendere il presente di tutti. Di tale contaminazione fra il soggetto, la collettività, la parte e il tutto vive la stagione neorealista. Autobiografica è infatti la narrazione dell’improvvi-

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so incontro dell’intellettuale con le masse subalterne rese «auratiche» dalla Resistenza; autobiografica la rivelazione di una speranza, che proietta su un’immagine sentimentale della realtà nazionale una volontà di rigenerazione che somiglia all’espiazione di ataviche colpe; autobiografica la struttura di opere che della loro emarginazione fanno motivo di orgoglio. Cosí che uno slogan sembra permeare il progetto del gruppo Quaroni-Ridolfi per la Stazione Termini, il quartiere Tiburtino o La Martella: «Io partecipo; dunque noi siamo». Sartrianamente, quegli intellettuali prendevano posizione: sceglievano di identificare il destino della loro tecnica e del loro linguaggio con quello di classi venute improvvisamente alla ribalta, ricche di un passato «perdente» eppure intriso di valori, se esso aveva permesso loro di emergere, di profilarsi come portatrici di nuove «purezze». Poco importava se l’adesione somigliava troppo a un bagno catartico, se l’esplorazione di quelle tradizioni nascondeva un masochistico bisogno di identificarsi con i perdenti, se la ricerca di radici nel focolare contadino rimuoveva l’ansia per lo spaesamento incontrato a contatto con la società di massa. Né si era in grado di valutare che pensando di agire come re magi, recanti in dono ai nuovi eletti il proprio engagement, si era letteralmente parlati da un disegno di cui inconsciamente ci si faceva docili strumenti. Ma nei primi anni del dopoguerra tale risvolto non era avvertibile. L’orgoglio con cui si pronunciano le nuove parole è proporzionale alla volontà di cancellare quelli che vengono considerati i compromessi o gli errori dell’anteguerra: il linguaggio della materia e della realtà popolare è invocato per annullare un passato fatto di adesioni intellettualistiche o opportuniste agli etimi costruttivisti, internazionalisti o neoclassici. È su tale base che prende forma l’opera piú eloquente della «scuola romana», il progetto presentato al concorso per il

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fabbricato viaggiatori della Stazione Termini dal gruppo Quaroni-Ridolfi (1947). Non è forse azzardato leggere nel progetto del gruppo Quaroni, Ridolfi, Fiorentino, Cardelli, Caré e Ceradini per la stazione Termini l’immagine di una faticosa liberazione. Liberazione, anzitutto, di una struttura dalla propria matericità: e ciò non contrasta affatto con l’espressionistica articolazione della copertura, «gran tetto» al cospetto di una città pesantemente conformata ma di incerto destino. Ma liberazione, anche, da canoni tranquillizzanti, da «soluzioni». Arrivo e partenza «fanno problema», in questo progetto che non rinuncia all’allegoria – il risucchio e l’espulsione – per contaminare le tonalità, per fare della piazza coperta un omaggio alle contraddizioni del presente17. Ma nello sforzo teso al recupero di una rappresentatività volutamente ambigua e nel fascio di tendini che trasmettono le loro tensioni ai sostegni a doppia forcella non è forse un’esagitazione che rassomiglia sin troppo a un esorcismo della tecnica? Nello stesso 1947, Quaroni progetta la chiesa al Prenestino a Roma18, con un’idea ripresa nella chiesa a Francavilla al Mare (1948-58): la forma aspira a ricongiungersi all’inventio tecnologica, ma anche a far sparire, nella levitazione del rappresentato, il soggetto stesso del fare tecnico19. Si tratta di un controcanto rispetto all’abaco della «piccola tecnica» del Manuale dell’architetto. Tormentosamente, e riproducendo una casistica di «generi» che nulla ha a che fare con la tipologia, si aprono sentieri obliqui al percorso di un’architettura insofferente a ridursi a semplice dispositivo, e condannata nonostante tutto a denunciare tale propria carenza. La «liberazione» sopra riconosciuta come contenuto di fondo del progetto per la stazione Termini di quelli che si stanno avviando a divenire i maestri della «scuola romana» è, alla fine, indice di un’inconfessata aspirazione a elude-

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re l’indagine circa le condizioni di senso della progettazione, pur presentandosi come accorato punto interrogativo sulle strutture della comunicazione. Ma il progetto Quaroni-Ridolfi per Termini dice anche altro. In esso l’oggetto e l’idea di città formano un’unità: a differenza dello strutturalismo severo ma esibito del progetto di Saverio Muratori per il concorso per il nuovo Auditorium di Roma20, lí la gestazione di un linguaggio implicato nel dolore e nelle speranze del momento parla epicamente. Monumentalmente, il neorealismo pronuncia inediti etimi. Tuttavia, non un’occasione unica bensí temi generalizzabili costituiscono il terreno naturale di crescita del neorealismo: sia Quaroni che Ridolfi incontrano subito il problema della nuova committenza sociale. Per Ridolfi, la cerniera che congiunge le opere degli anni trenta alla poetica populista è costituita da un’intensa ricerca manualistica21. Del ’40 è il suo Contributo allo studio sulla normalizzazione degli elementi di fabbrica, del ’42 i Problemi dell’unificazione: l’indagine verte sugli elementi minimi, sul dettaglio, sul recupero di un sicuro «mestiere», dove l’attenzione per la correttezza e la normalizzazione si riallaccia alle ricerche concretizzate negli arredi fissi e nei particolari delle palazzine di via di Villa Massimo e di via San Valentino a Roma, per metterne fra parentesi i modi del linguaggio. La porta è aperta per la tassonomia del Manuale dell’architetto, pubblicato nel 1946 sotto il patrocinio del Cnr e dell’Usis: è quello che abbiamo chiamato un abaco per una «piccola tecnica», dedicato all’età della ricostruzione22. In esso il valore dell’«esperienza» viene esaltato; all’edilizia dell’Italia postfascista viene consegnato un prontuario «da bottega». In realtà, la concretezza della tradizione costruttiva che il Manuale esalta è frutto di una media di culture regionali non immune da intellettualismo: l’esperanto vernacolare che assume in esso forma tecnologica si

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riallaccia alla celebrazione del regionalismo in abito «folk» che era stato uno degli ingredienti ideologici del New Deal. Il manuale destinato a divenire testo di riferimento per l’architettura tesa alla ricerca del «nazional-popolare» funge da tramite rispetto alle esperienze di una politica sperimentata oltre oceano e divenuta merce di esportazione. Al Manuale e alle tipologie studiate da Ridolfi per i fascicoli normativi dell’Ina-Casa, tipiche espressioni dell’ambiente romano, risponde il Problema sociale costruttivo ed economico dell’abitazione, opera di Diotallevi e Marescotti – già collaboratori di Pagano per il progetto di «città orizzontale» – edita a Milano nel 194823. Al culto del dettaglio costruttivo, il volume di Diotallevi e Marescotti oppone analisi sociologiche e tipologiche, con espliciti riferimenti ai modelli della Germania di Weimar, specie nel primo gruppo di tavole: la stessa organizzazione dell’opera, per schede successivamente integrabili, ne caratterizza il contenuto, in presa diretta con la grande tradizione dell’architettura e dell’urbanistica «radicali» fra le due guerre. Ve n’era abbastanza per riservare un’accoglienza men che disattenta al Problema sociale dei due milanesi, destinato, a differenza del Manuale ridolfiano, a divenire rarità bibliografica. Ma per inquadrare storicamente quella sfortunata iniziativa editoriale, è necessario considerarla una tappa intermedia, nell’attività teorica di Marescotti, fra la mostra «La città del sole» (Catania 1945) e lo studio sui problemi dell’edilizia per il piano del lavoro proposto dalla Cgil24. L’impegno di Marescatti è in presa diretta con le rivendicazioni del movimento operaio e del movimento cooperativo: i suoi sbocchi limitati conseguono alla sconfitta delle sinistre alle elezioni del ’48 e all’avvento della politica centrista, ma anche alle proprie interne utopie. Per Marescotti, infatti, i centri sociali cooperativi sono luoghi di organizzazione autonoma dell’utenza con obiet-

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tivi antiburocratici: l’associazione cooperativa è salutata come forma di azione politica dal basso, in polemica con ogni gestione piramidale. Era inevitabile per Marescotti entrare immediatamente in conflitto con gli stessi partiti di sinistra: fra Bottoni, che offrirà la sua tecnica lineare al movimento operaio organizzato, e le istanze antiburocratiche di Marescotti, si apre un incolmabile varco. Quello di Marescotti, tuttavia, è populismo ideologico espresso in forme ascetiche: i suoi quartieri per l’Iacp di Milano – Baravalle e Varesina del 1947, Mangiagalli del 1949 – sono fedeli agli studi sulla «casa dell’uomo» elaborati dallo stesso Marescotti negli anni trenta, mentre il centro sociale e cooperativo «Grandi e Bertacchi» (1951-53) costituisce il canto del cigno delle sue idee partecipative25. D’altro lato, opere come la Casa del Viticultore di Ignazio Gardella (1945-46) e il Rifugio Pirovano a Cervinia di Albini (1949-51) testimoniano – come poco piú tardi il quartiere di Cesate – la penetrazione anche a Milano delle ideologie populiste: anche se, specie nel rifugio albiniano, queste vengono accolte come valore aggiunto di un aristocratico distacco dal materiale formale. Vero è, piuttosto, che il volume di Diotallevi e Marescotti, il quartiere qt8 a Milano, alcune delle opere degli anni quaranta dei Bpr, come le case in via Alcuino (1945), le testimonianze di fedeltà alla sintassi elementarista di Figini e Pollini (casa in via Broletto del 1947-48), di Ghidini e Mozzoni (la terragnesca villa a Gallarate del 1948), di Piero Bottoni (edificio polifunzionale in corso Buenos Aires, 1947-49), o il raffinato ascetismo di Asnago e Vender, autori, fra l’altro, dell’edificio per uffici e abitazioni in piazza Velasca (1950), esprimono nel loro insieme una proposta radicalmente alternativa all’organizzazione della produzione edilizia dell’età della ricostruzione. Né è un caso che tale linea – perdente – si profili in un centro industrialmente

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sviluppato, laddove da Roma si afferma l’ipotesi – vincente – di una gestione dell’edilizia come sacca di contenimento della disoccupazione e settore subordinato al mercato finanziario e speculativo. Dal punto di vista linguistico, la «continuità» lombarda e il populismo romano sembrano concordare almeno su un punto: sulla messa fra parentesi del problema. Una comune linea riduzionista viene abbracciata. Si parla – anche in opere indubbiamente elaborate come la Casa al Parco di Gardella (1947) – con sintassi «povere», come a voler riflettere le condizioni del frangente storico impedendosi di oltrepassarle. Eppure, afone, nei confronti delle ricerche neorealiste, appaiono le testimonianze di continuità con l’esperanto moderno. Ed è significativo che su quest’ultimo si innesti la pratica sociale che muove l’opera di Marescotti o di Bottoni: la forma che riveste le ricerche che puntano a una produzione di massa e a una riforma pianificata dell’abitazione è affatto dimessa. D’altronde, non è certo con problemi formali che si confronta Bottoni nel progettare, per l’VIII Triennale di Milano, il quartiere sperimentale qt8. Iniziativa indubbiamente innovatrice, quella di Bottoni, che unifica una proposta di rivitalizzazione della Triennale con una chiamata a raccolta delle forze vive della cultura architettonica italiana intorno al tema della residenza popolare. Il qt8, il cui piano urbanistico diviene parte integrante del progetto di piano regolatore di Milano e dei piani di ricostruzione, è concepito come mostra permanente di nuove tipologie, di programmi costruttivi e igienici sperimentali, di una tecnologia basata sulla prefabbricazione e l’industrializzazione: norme speciali vengono elaborate da Luigi Mattioni in collaborazione con l’ufficio tecnico della Triennale – di cui Bottoni è commissario – mentre i diversificati tipi edilizi si attengono a un asciutto elementarismo26.

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Eppure, nel clima politico-economico definito dalla strategia di Luigi Einaudi, imprese come il qt8 o impostazioni del tema sociale dell’alloggio come quella di Marescotti assumono tratti utopistici. La stabilizzazione monetaria einaudiana aveva allontanato il pericolo dell’inflazione e ridotto progressivamente il deficit dello Stato: ma a spese di un’aumentata divaricazione della forbice fra regioni settentrionali e regioni meridionali, senza risolvere il problema del passivo dei conti con l’estero, e soprattutto con un pauroso aggravio della disoccupazione, che da 1 654 872 unità del 1946 tocca un massimo di 2 142 474 unità nel ’48. L’edilizia è chiamata a «risolvere» il problema coscientemente creato dalla politica neoliberista: il piano Fanfani diviene legge nel febbraio 1949, originando la Gestione Ina-Casa, con il titolo Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori. Chiare sono le finalità del piano: arginare l’aumento del tasso di disoccupazione, usare l’edilizia in funzione subordinata ai settori trainanti, tenendola ferma a un livello preindustriale e in funzione dello sviluppo delle piccole imprese, mantenere inalterato piú a lungo possibile un settore della classe operaia fluttuante, ricattabile e non massificabile, fare dell’intervento pubblico un sostegno per l’intervento privato. Non certo le proposte di innovazione produttiva implicite nella manualistica di Marescotti o nel qt8 possono essere funzionali a tali obiettivi. Piuttosto, l’esaltazione di una tecnologia povera e legata alle tradizioni regionali, cosí come si configura nelle tavole del Manuale dell’architetto e nelle aspirazioni del neorealismo, entra in singolare consonanza con essi: la celebrazione dell’artigianato, del localismo, della manualità, cosí come l’insistenza sull’organicità degli insediamenti, distanti – idealmente e spazialmente – dalla «città del compromesso» formano gli ingredienti privilegiati della poeti-

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ca neorealista e delle esperienze del primo settennio Ina-Casa27. La politica urbanistica dell’Ina-Casa appare subito ai piú avvertiti antitetica a una «sana» pianificazione urbana. Dislocati in aree lontane dai centri urbanizzati per usufruire di terreni a basso costo, i quartieri Ina-Casa sfuggono a inquadramenti di piano o condizionano questi ultimi, stimolando la speculazione fondiaria e edilizia che progressivamente li raggiunge ed accerchia, approfittando delle infrastrutture create dall’operatore pubblico. Non a caso, programma e gestione dell’ente sono condizionati dal paternalismo di Arnaldo Foschini: per suo tramite, si cala nella nuova realtà un ulteriore motivo di continuità con i risvolti populisti agiti nel ventennio fascista. Si pone quindi un «problema di coscienza» agli architetti italiani riuniti nell’Apao: esso sarà risolto scegliendo la via della Realpolitik, ma con contraccolpi non indifferenti sulla compattezza di quel gruppo di pressione. «Manifesto» del neorealismo architettonico e insieme dell’ideologia dell’Ina-Casa primo settennio è il quartiere Tiburtino a Roma, che vede riuniti, fra il ’49 e il ’54, i due nuovi «maestri», Quaroni e Ridolfi, insieme a giovani e giovanissimi collaboratori, come Carlo Aymonino, Carlo Chiarini, Mario Fiorentino, Federico Gorio, Lanza, Sergio Lenci, Piero Maria Lugli, Carlo Melograni, Giancarlo Menichetti, Rinaldi, Michele Valori: la «scuola romana» ha qui un ulteriore momento fondativo28. Esiliato dalla città, il Tiburtino volge sdegnosamente le spalle a quest’ultima. I suoi modelli sono i luoghi della «purezza» popolare e contadina; di essi, il nuovo quartiere intende riprodurre la vitalità, la «spontaneità», l’umanità. Non piú le rigorose griglie o il terrorismo geometrico della Neue Sachlichkeit: l’intento è esaltare l’artigianalità che costituisce il modo obbligato di produzione del complesso, salutandola come

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antidoto antialienante. Ne esce una planimetria vagamente informale, solo marginalmente controllata tipologicamente, e un’architettura ricca di motivi strapaesani, dai balconi in ferro battuto, alle coperture a tetto tradizionale, al taglio delle finestre, alle sequenze delle scale esterne e dei ballatoi. Ma è proprio qui che, involontariamente, la polemica antiavanguardista del neorealismo si morde la coda. Il lessico popolare, elevato a norma linguistica, è assunto, specie nei blocchi controllati personalmente da Ridolfi, come puro «materiale». La comunicazione, ricercata con tanta accoratezza, avviene grazie alla deformazione di quel materiale linguistico, grazie alla sua distorsione: il procedimento è esattamente quello preconizzato dal formalismo e dalle avanguardie tecnologiche. Il che contiene un ulteriore risvolto. L’ansia conoscitiva nel neorealismo si rivela infatti, sulla base di tali considerazioni, per quello che è: ansia di un gruppo intellettuale di conoscere se stesso, nei casi peggiori attraverso l’immersione nei tepori dell’eterna pace contadina, in quelli migliori come espressione di rancore e di traboccante volontà di comunicazione. Nonostante tutto, rimane nel Tiburtino uno schiaffo alla rispettabilità piccolo-borghese. Né città, né periferia, il quartiere, a rigore, non è neanche un «paese», bensí è un’affermazione, insieme, di rabbia e di speranza, anche se le mitologie che lo sostengono rendono la rabbia impotente e la speranza ambigua. Uno «stato d’animo» tradotto in mattoni, laterizi e intonaci di scarsa qualità: come ogni stato d’animo, esso doveva essere «superato». Era necessario lasciar là il Tiburtino, fra la montagna sabina, le sconnesse zone industriali, la ferrovia e il quartiere di San Lorenzo, come testimonianza di un incontro unilaterale fra intellettuali e lotte popolari. Poiché è chiaro che tutta la carica eversiva che promana dall’antiformalismo del Tiburtino, da questo

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monumento all’incerta linea di confine che separa la delusione dell’engagement, contiene, paradossalmente, un «grande sì» detto alle forze che dell’isolamento dell’edilizia popolare fanno incentivo per la speculazione, dell’arretratezza tecnologica uno strumento di sviluppo per i settori avanzati, dell’eloquenza un motivo di stabilizzazione. Era necessario lasciar solo il Tiburtino. Si procedette invece in direzione contraria, riducendo a formula quell’irripetibile episodio, che con troppa generosità offriva materiali di facile uso e consumo. Eppure, sia Ridolfi che Quaroni intuiscono che l’esperienza lí fatta è irripetibile: le loro diverse declinazioni dell’ideologia populista battono ben presto nuove strade. Praticamente a ridosso dell’esperienza del Tiburtino, infatti, Ridolfi offre, calata nel vivo della periferia romana, una delle piú alte testimonianze dell’inquietudine intellettuale dei primi anni cinquanta, dimostrando la fecondità della propria disponibilità linguistica. Il nucleo di case alte in viale Etiopia a Roma, realizzato da Ridolfi per l’Ina (1950-1954), accetta la densità edilizia di quello che non a caso è stato chiamato il «quartiere africano»: anzi, la continuità della struttura cementizia esibita, la perentorietà volumetrica delle torri ad angoli smussati, la violenza chiaroscurale si traducono in epica popolare, ostentano la propria drammaticità come commento dolorosamente partecipe di una condizione umana non riscattabile con «certezze» architettoniche. Per questo le orgogliose torri di Ridolfi adottano soluzioni irripetibili. L’uso del colore, del ferro lavorato, della maiolica smaltata non introduce notazioni ironiche, bensí una «piccola scala» – quella alla quale ha ancora possibilità di esprimersi il fare artigiano – che sottolinea, per scarti, la grande scala del complesso29. Assolutamente nuova, per lo stesso Ridolfi, tale composizione «per scarti». Indubbiamente, l’autore si trova, nel con-

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testo di viale Etiopia, in una situazione che lo spinge a mettere fra parentesi ogni afflato sentimentale e ogni nostalgia; la sapienza con cui egli tratta la doppia scala in cui sceglie di giocare il suo intervento – la sensibilizzazione delle intelaiature cementizie e delle coperture rispondono, con tonalità grave, alle «sfacciate» variazioni delle soluzioni di dettaglio – segnano, per Ridolfi, il passaggio dal neorealismo al realismo. Un realismo che, malgrado quanto è stato scritto in contrario30, non sembra colto da Mario Fiorentino nelle attigue torri residenziali realizzate fra il 1955 e il 1962 sullo stesso viale Etiopia al ciglio della ferrovia: graziosamente agnostiche, le torri di Fiorentino riducono le tensioni ridolfiane, per proporsi come «civili» divagazioni in una violenta periferia. D’altra parte, il rischio cui la ricerca ridolfiana si espone è proprio questo: i suoi strumenti espressivi divengono facilmente commestibili: da Roma città aperta è sin troppo facile passare a Pane amore e fantasia. Ma la ricerca di Ridolfi procede per diagonali: nello stesso 1950, insieme a Wolfgang Frankl, suo collaboratore fisso, Ridolfi realizza un quartiere Ina a Cerignola, frutto di un attento studio del comportamento umano dei futuri abitanti e, ancor piú, di una severa declinazione della tipologia e del gioco con la materia31. Il fare sofferto è ancora quello delle torri di viale Etiopia; ma a Cerignola la densità delle allusioni rapprese nella tessitura dei materiali e nell’asciuttezza dei volumi non permette «copie». Anche l’isolamento cui si condanna l’alto artigianato è atto – involontario – di realismo: la poesia concessa e stimolata dal ritardo tecnologico è sublimazione di una transeunte contingenza, e il canto che ne scaturisce sa di vivere una stagione colpevolmente felice. Che poi tale «colpa» fosse vissuta in qualche modo da Ridolfi lo dimostra un’ulteriore opera del 1950-51, la palazzina romana in via G. B. De Rossi. Un ritorno all’edilizia per il ceto medio,

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dunque: ma ora non è piú possibile al lirico dell’«altra Roma» affrontare il tema con il medesimo distacco utilizzato nell’anteguerra nella vicina palazzina in via di Villa Massimo o ai Parioli. Non v’è piú tipologia da proporre per quel ceto, nessun «modo di vita». Ne esce un espressionistico cozzare di forme, un irrequieto e dodecafonico elenco di distorsioni geometriche, culminanti nella tormentata trave cementizia a profilo spezzato che fa da basamento. Lo «schiaffo al gusto del pubblico» viene reiterato, in quest’opera ridolfiana. Alla scontrosa dignità del quartiere di Cerignola si sostituisce a via De Rossi una sorta di «ritratto» della committenza: disgregata, inutilmente ansiosa, volgare in definitiva, essa appare, nella lettura di Ridolfi, singolarmente vicina a quella che in diverse occasioni vorrà darne Visconti. E un ulteriore confronto si impone. La palazzina di via De Rossi e le torri di viale Etiopia: due lingue per due realtà compresenti, l’eccezione e la regola, anche se la prima non scalfisce la realtà da cui si divincola, e la seconda è obbligata a un semplice «commentare». È questo il dramma cui la poetica ridolfiana va inesorabilmente incontro: il gioco delle manipolazioni della materia diviene sempre piú tormentoso, come nelle palazzine in viale Marco Polo (1952) e in via Vetulonia (1952-53) a Roma, colloquia con la struttura urbana di Terni – città cui il Nostro dedica una meticolosa e continua opera di «cura urbanistica»32 – come nella magistrale Scuola media in via Fratti, si staglia polemicamente al di sopra di edifici eclettici, come nelle sopraelevazioni di via Paisiello (1948-49) e di via Mercadante (1954-55) a Roma, sottostà a un rigoroso imperativo geometrico nelle nuove carceri di Nuoro, progettate nel 1953-5533. Ma alle soglie del «miracolo economico», la scomparsa progressiva delle condizioni che avevano sostenuto il sorgere di quella poetica riducono quello che era stato un incontro fra l’urgere di un soggettivo bisogno di comunicare e le

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necessità imposte dalla situazione storica a una coerenza che sopravvive a se stessa parlando con inopportuna nostalgia di un «cattivo» mondo scomparso. Nel frattempo, la complessità della ricerca ridolfiana contribuisce ad alimentare polemiche disgreganti in seno all’Apao. L’attenzione della critica si rivolge quasi esclusivamente alle piú scoperte motivazioni populiste del neorealismo: ma non è certo questo un esito accettabile per chi, come Zevi, aveva proposto la formula «organica» come strumento di arricchimento e non di eversione della tradizione «moderna». Nel 1950, la Storia dell’architettura moderna di Zevi precisa e sistema definitivamente i concetti anticipati in Verso un’architettura organica e in Saper vedere l’architettura. In un suggestivo racconto, le cui articolazioni molto debbono ad esclusioni obbligate da una ricerca storiografica ancora embrionale e ad azzardati giudizi ben presto smentiti dai fatti, Zevi tenta di riportare il dibattito sui «destini» dell’architettura in ambiti non viziati da folclorismi o da cadute populiste. Non a caso, in quel volume egli non riconosce nel neorealismo un’incarnazione, sia pure parziale, della poetica «organica», limitandosi ad indicare, come esempi di una tendenza nascente, il progetto di Samonà per l’Ospedale traumatologico di Roma, il ristorante a Sabaudia di Claudio Dall’Olio, la palazzina da lui stesso progettata insieme a S. Radiconcini in via Pisanelli a Roma. Né Scarpa – non ancora «scoperto» – né Carlo Mollino vengono considerati in quel volume. Eppure, proprio Mollino, con la Stazione per slittovia con albergo al Lago Nero in Val di Susa (1946 sgg.) e con i suoi oggetti di design, procedeva verso un’integrazione di membrature ridotte a scheletri animati in organismi aerodinamici, che fornivano, come già la sua sede della Società ippica a Torino (1935-39), una versione originale e ironica dell’organicismo34. In effetti, una vera tendenza organica non prende piede in Italia,

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malgrado l’appassionata predicazione zeviana. Opere come il Villaggio del fanciullo a Trieste-Opicina (1949) di Marcello D’Olivo – una delle piú notevoli di quegli anni –, o la villa a Mondello di Samonà (195o) rimangono isolate insieme alle geniali riletture wrightiane di Scarpa e a pochi exploits di maniera. Il dibattito sull’architettura organica rimane a livello letterario. Nel ’51, Giulio Carlo Argan risponde implicitamente al disegno contenuto nella Storia zeviana con un volume pubblicato anch’esso da Einaudi, dedicato a Walter Gropius e la Baubaus. Non si tratta di una contrapposizione di linee normative. Il Gropius ricostruito da Argan è erede dell’etica protestante cosí come viene interpretata da Weber e da Troeltsch, è portatore di un mito europeo della ragione «che reca in sé i germi del dubbio e del disinganno», è protagonista di un salvataggio in extremis «di un’idea di civiltà dall’inevitabile collasso della classe dirigente». La «razionalità» di Gropius, come quella di Le Corbusier o di Mies – preciserà piú tardi Argan35 – nasce «da un’ultima illusione d’immunità portata nel vivo della mischia», dato che il concetto moderno di libertà non è piú identificabile con una «sconfinata effusione nell’immenso dominio della natura»: la fedeltà a quella lezione, già data come perdente sul piano ideologico, è considerata un’imprescindibile necessità. Difficile lettura, quella di Argan, per la cultura italiana dei primi anni cinquanta. Considerate con un rispetto proporzionale all’incomprensione, le pagine di Argan formano un’élite di giovani storici, ma, come quelle di Zevi, non modificano sostanzialmente la vicenda architettonica. La crisi dell’Apao e del Msa pone il problema, per conto suo, di nuovi modi di organizzazione della cultura architettonica, che ha ancora da abbattere residui accademici particolarmente forti nelle sedi universitarie. A Venezia, Giuseppe Samonà raccoglie alcuni dei protagonisti piú vivi del dibattito italia-

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no: Zevi, Albini, Gardella, Belgiojoso, Giancarlo De Carlo, Scarpa, Luigi Piccinato, Giovanni Astengo contribuiscono a fare della scuola da lui diretta una roccaforte avanzata; ma Venezia è subito isolata dal mondo accademico, e «l’isola felice» è costretta a crescere su se stessa. L’Inu procede invece agitando il vessillo della pianificazione, cercando un colloquio con le forze politiche che avrà alterne fortune. Ed è appunto vivendo da protagonista la battaglia dell’Inu che Quaroni prosegue, dopo il Tiburtino, il proprio tragitto. Anche per lui, quell’esperienza è superata mentre si compie: senza poetiche, senza «lingue», Quaroni si obbliga a un bagno nella realtà italiana, alla ricerca di strumenti in grado di «potere». Prima un breve periodo all’interno del Gruppo tecnici socialisti, poi l’impegno meridionalista, l’incontro con il movimento Comunità di Adriano Olivetti, le ricerche per l’inchiesta parlamentare sulla miseria36: Quaroni non mette in questione solo gli strumenti della progettazione urbana, ma anche le tecniche di analisi. Con un interrogativo di fondo, relativo alle strutture destinate a coagulare e rendere realmente sociale la domanda proveniente dalla base. Non casuale, al proposito, l’incontro di Quaroni con Olivetti. Il movimento di Comunità, infatti, tramite la sua azione capillare, l’organizzazione che tende ad offrire agli intellettuali in nome dell’unità della cultura, i suoi strumenti editoriali, appare come una «repubblica degli intellettuali» in presa diretta con il sociale, priva delle remore nei confronti delle nuove scienze umane che provengono dai partiti di sinistra. L’anima terzaforzista di molta intelligencija italiana trova cosí in Comunità un terreno obbligato. Il quale si concreta privilegiando, appunto, l’urbanistica, con riferimenti – propagandati sia dalla rivista «Comunità» che dalle edizioni del movimento – alla sociologia urbana e ai modelli di interven-

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to anglosassoni. I motivi populisti serpeggianti nell’età della ricostruzione si incontrano in tal modo con i modelli decentralisti e con un pensiero teso a recuperare qualità comunitarie in insediamenti concepiti in alternativa alla «Dinosaur City»: i testi di Lewis Mumford, le Greenbelt Cities di età rooseveltiana, l’esperienza della città-giardino possono cosí essere filtrati attraverso l’ideologia olivettiana divenendo materia di riflessione per nuovi esperimenti37. L’urbanistica diviene cosí linguaggio che pretende di ridurre a sintesi le molte lingue che governano la città: in essa, quella inquietante pluralità di tecniche trova una patria e una dimora. Per Adriano Olivetti si tratta di un’azione in continuità con quella intrapresa nell’anteguerra e che aveva portato ai progetti teorici di pianificazione della Valle d’Aosta: alle sue idee presiede una concezione dell’impresa come luogo da cui si irradii una razionalizzazione neoumanistica dell’ambiente fisico. È quindi conseguente il percorso che porta Olivetti alla presidenza dell’Inu e alla vicepresidenza dell’Unrra-Casas, come è conseguente quello che conduce lo stesso Olivetti, Quaroni e una serie di architetti romani ad agire nel cuore del sottosviluppo meridionale. Proprio come vicepresidente dell’Unrra-Casas, Olivetti, sfruttando nuovi finanziamenti da parte del fondo Erp (European Recovery Program) centra l’attenzione sul Mezzogiorno, nella prospettiva di un programma di decentramento industriale in regioni come la Campania, la Basilicata, le Puglie. Non si tratta, per lui, solo di chiudere la forbice del dualismo economico nazionale. Partire dal sottosviluppo significa anche intervenire in zone non compromesse, al fine di raggiungere equilibri territoriali piú difficilmente ottenibili nelle regioni sviluppate. I modelli newdealisti, e quello della Tennessee Valley Authority in particolare, sembrano agire esplicitamente in tale concezione38.

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L’attenzione si accentra sul «caso» dei Sassi di Matera, l’agglomerato che aveva commosso la cultura italiana dopo la lettura delle pagine del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, e che era stato definito sia da Togliatti che da De Gasperi «vergogna d’Italia». Matera è cosí assunta – anche a causa delle lotte popolari che vi scoppiano nel 1945 – a capitale-simbolo dell’universo contadino, e viene sottoposta ad analisi da sociologhi americani e italiani, da giornalisti, da economisti, da architetti39: nel 1950, una relazione di Mazzocchi Alemanni e Calia per il Consorzio di bonifica della media valle del Bradano propone una ristrutturazione agricola del territorio legata alla creazione di borghi rurali e allo sfollamento dei Sassi. È a questo punto che interviene Olivetti. Su sua iniziativa, viene costituita, nel 1951, la Commissione di studio della città e dell’Agro di Matera, a cura dell’Inu e dell’Unrra-Casas, per la quale lavorano Quaroni, Federico Gorio, Tullio Tentori e Rocco Mazzarone con un impegno pressoché volontaristico e fra difficoltà d’ogni genere. La legge n. 619 del 1952 per il risanamento dei Sassi, infatti, usa in modo distorto le indagini della Commissione, prevedendo l’inabitabilità di 2472 case sulle 3374 censite e la creazione di borgate rurali per il trasferimento delle famiglie evacuate. In realtà, in presenza di quella che è stata definita la «controriforma fondiaria»40, il caso di Matera esemplifica il ruolo assegnato al sottosviluppo dal grande capitale industriale: il sottosviluppo stesso, infatti, va gestito come serbatoio di manodopera di riserva per le aree industrializzate, e per questo è necessario confermare la vocazione contadina del Sud, gonfiare artificialmente il settore terziario, attuare una politica di opere pubbliche nel Mezzogiorno che ne stimoli il ruolo di consumatore41. In tale ottica vanno inquadrati sia il villaggio Unrra «La Martella» che i quartieri Serra Venerdì, Lanera e Spine Bianche. La Martella viene progettata da Quaro-

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ni, con Gorio, Piero Maria Lugli, Michele Valori e Agati come nucleo modello di intervento territoriale e di gestione: alcuni dei progettisti del Tiburtino si trovano di nuovo insieme a «scoprire» la realtà meridionale42. Ne esce un insediamento aderente alla situazione geografica e a suo modo plasmato come omaggio commosso a quella realtà: l’«unità di vicinato», rilevata nei Sassi, viene reinterpretata in un linguaggio a metà fra il populista e l’astratto, nelle case dislocate secondo le curve di livello e che hanno nella chiesa di Quaroni, dominata da una torre sull’altare, il loro punto fisso di riferimento. Ma i conflitti fra l’Ente riforma e i criteri dei tecnici dell’Unrra rendono inefficienti i servizi e fanno fallire gli obiettivi primi del villaggio: l’estremismo conservatore del blocco agrario ha ragione sui progetti di riforma economica, sociale e fondiaria. Per Quaroni si tratta di un duplice fallimento: l’impegno meridionalista trova come ostacoli interessi consolidati e il conflitto fra i poteri si risolve negativamente a causa dell’ambiguità interna, anche, delle illusioni «terzaforziste». I Sassi, nel frattempo, contribuiscono ad alimentare indirettamente l’ideologia comunitaria e decentralista: i nuovi quartieri materani di Serra Venerdì, di Spine Bianche, di Borgo Venusio, che realizzano le linee portanti del piano regolatore redatto nel 1952-56 da Luigi Piccinato43, sorgono come «paesi nel paese», mentre incerto rimane il rapporto residenzalavoro nello sviluppo urbano. Il caso di Matera, su cui tanto si affanna la cultura italiana, non è certo il piú grave del sottosviluppo nazionale: esso è però il piú «letterario», e ciò giustifica la concentrazione degli interessi. In realtà, per città meridionali come Napoli, Bari o Palermo, opere pubbliche ed edilizia fungono da mezzi di contenimento della disoccupazione e come strumento di primo addestramento al lavoro per ceti agricoli da indirizzare verso

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l’immigrazione nelle regioni sviluppate, a formare un esercito di riserva atto a contenere i livelli salariali. Di fronte a tale piano sotteso, la cultura architettonica e urbanistica non ha armi adeguate, né il riferimento – peraltro generico e sospettoso – ai partiti di sinistra riesce a fornirne. Là dove gli architetti tentano di calare la propria tecnica nella trasformazione delle strutture si registrano scacchi cocenti: le città e i terreni periferici sono sedi delle piú sfrenate speculazioni, come conseguenza collaterale della politica neoliberista imposta dai centri di potere. Il che spiega come mai l’edilizia che dà forma alla nuova Roma degli anni cinquanta non abbia nulla a che fare con lo sperimentalismo di Quaroni né con l’accorato lirismo ridolfiano. Per l’alta e la media borghesia è lí pronta la tipologia della «palazzina», consacrata dal piano regolatore del 1931 e perfettamente adeguata a vellicare le ambizioni condominiali di una classe sostanzialmente statica44; alle classi popolari sono riservati gli intensivi che si ammassano alla periferia; al sottoproletariato le «borgate» e i vani abusivi, che ancora negli anni settanta ammontano a cinquecentomila, ospitando un quinto della popolazione romana. Ugo Luccichenti, Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti si incaricano di rendere la «palazzina» oggetto di piacevole consumo: cordialmente, questa tipologia di compromesso si installa nelle fasce contigue al centro storico, a designare, con i suoi balconcini neoorganici o «alla Rietveld», le sue volumetrie obbligate ma che non rinunciano a esibizionismi, i suoi materiali ben curati, lo status symbol che ad essa viene richiesto45. Né mancano interpretazioni «monumentali» della palazzina: Luigi Moretti, nella sua Casa del Girasole a viale Bruno Buozzi (195o), attribuirà a quel tipo edilizio le cadenze solenni del tempio, squarciato da una rampa ascendente. Si viene cosí a creare una situazione paradossale. Il professionismo di Mona-

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co e Luccichenti o le rarefazioni formali di Luigi Moretti battono la via del «disimpegno» declinando alfabeti che hanno comunque le loro radici nella tradizione dell’avanguardia; l’engagement, per suo conto, sembra seguire vie regressive. Il che ha persino una sua coerenza: la lingua del «Neues Bauen» mostrava la propria disponibilità, ma anche la propria aulicità. Chi voleva esser «comprensibile» pensava bene di doversene allontanare, ripiegando sulla deverbalizzazione architettonica. Certo, era facile accusare di formalismo Moretti da parte della cultura «impegnata». Eppure, le sue casealbergo a via Corridoni (1948-50) 0 il complesso per abitazioni e uffici in corso Italia a Milano (1952-56), assai piú della Casa Astrea a Roma (1949), sono qualificate da una scrittura sicura, non immune da tonalità irrealiste per eccesso di astrazione. La sapienza del comporre, rivendicata da Moretti, investe organismi che traducono in lingua astratta forme classiche: il purismo eloquente dei suoi edifici milanesi è fedele, in sostanza, alle ricerche più «metafisiche» degli anni trenta, quelle di Terragni comprese. Ma nel clima degli anni cinquanta tale ricerca è destinata a rimanere isolata o ad essere respinta. Il lirismo di Moretti raggiunge ancora alti livelli nella Villa Pignatelli a Santa Marinella (1952-54), perseguendo uno spazio – come scrive il suo autore – estraneo alle «avventure grandi e piccole» della vita quotidiana: volumi incurvati e ciechi, intonaci mediterranei, allusioni arabizzanti proteggono una «casa gelosa, saracena, degli affetti e dei pensieri». Ben presto, tuttavia, le astrazioni morettiane pencoleranno verso grafie fini a se stesse, come nella Casa San Maurizio a Roma (1962), o nel nuovo complesso termale di Fiuggi (1965)46. Ma intanto, la Palazzina del Girasole, gli edifici milanesi e i pochi numeri della rivista «Spazio» diretta da Moretti fra il ’5o e il ’53, si appropriano, «da destra», dell’eredità linguistica dell’avanguardia; magari per ten-

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tare di dimostrarne la non estraneità a una cultura che paga i propri debiti all’accademia. Se nelle «aure» morettiane è comunque leggibile una sintassi inequivocabile, insieme a un legame diretto con le velleità della sua committenza, nelle opere degli architetti impegnati sul fronte del rinnovamento e non attestati né sulla linea «organica» né su quella neorealista, è facile scorgere una cautela che si nasconde dietro timide eleganze. L’edificio per abitazioni e uffici di Samonà a Treviso (1949-53) o l’Ospedale Inail a Bari dello stesso autore (1948-53) si affidano a formule sicure, mentre Gardella, con le sue case per impiegati ad Alessandria (1952), la Galleria d’Arte Moderna a Milano (1951-54), le Terme Regina Isabella a Ischia (1950-53), intesse tenui colloqui fra vibrazioni dei volumi e tessiture di materiali47. La tacita parola d’ordine è sempre quella del superamento dialettico del «razionalismo»: senza clamore, ma pervicacemente, la nuova qualità è cercata in variazioni basate sull’esaltazione della materia, sulla cordialità e l’indeterminazione delle forme, su un’empiria assunta come metafora di una condizione artigianale che costringe a produrre opere uniche dissimulate sotto una patina di modestia. Eppure, è proprio tale condizione costrittiva a permettere ad Albini di pervenire a uno dei risultati piú notevoli di tale fase di ricerca, l’edificio per l’Istituto nazionale delle assicurazioni a Parma (1950). Ricucendo la smagliatura di un tessuto urbano ampiamente definito, Albini ricorre a una calibrata misura: l’intelaiatura cementizia ridotta a esile trama, a puro suggerimento ritmico, entra in colloquio con una distillata modulazione di pannellature e di vuoti48. Un design en plein air, dunque, una correttezza formale fatta di precisione tecnologica e di gusto irrealista – pensiamo anche alla scala interna dell’edificio parmense – che verranno lette, e non solo da Rogers, come interpretazioni critiche delle

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preesistenze ambientali: l’opera di Albini può cosí essere accostata alla casa di via Borgonuovo dei Bpr a Milano, all’edificio di Samonà a Treviso, alla Borsa Merci a Pistoia di Giovanni Michelucci (1947-50). Il colloquio con «l’ambiente»: questo il tema che emerge da tale complesso di opere e che sembra costituire l’originalità dell’esperienza italiana in quegli anni. Il rivolgersi all’ambiente, peraltro, non è che la seconda faccia del rivolgersi alla natura: si cerca «protezione», ci si mette a riposo, ci si infila fra tiepide coltri. E anche a questo proposito si pencola fra due estremi: un’eccezionale spregiudicatezza nei confronti del lascito delle avanguardie; un’altrettanto eccezionale cautela nella definizione dei limiti concessi al dialogo con la storia. In verità, «l’ambiente» non era considerato come struttura storica in senso proprio; prevale l’atteggiamento impressionistico, il «saggio» in definitiva strumentale a una sospensione di giudizio. È proprio Michelucci, a Firenze, a dar corpo a un’architettura che aspira costantemente a negarsi, per risolversi nella vita vissuta49. Dopo le inospitali cifre metafisiche del Palazzo del Governo ad Arezzo (1939) e di Villa Contini-Bonacossi a Forte dei Marmi (1941), con cui Michelucci sembra sconfessare i risultati raggiunti nella stazione di Santa Maria Novella, già gli schizzi per la ricostruzione della zona Ponte Vecchio a Firenze (1945) parlano di una forma urbana plasmata da flussi intrecciati di esistenze50. Una forma «che nasce con l’urgenza e l’evidenza di un fatto vitale»: questo è l’obiettivo cui Michelucci tende con i delicati equilibri e l’ostentata chiarezza della Borsa Merci di Pistoia, oggetto che si affida all’elementarietà dello spazio unico interno e all’evidenza della struttura per pervenire a una fissità albertiana posta in relazione diretta con le tipologie del Rinascimento toscano. Nella chiesa di Collina a Pontelungo (progetto 1947-50, terminata nel ’53) l’archi-

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tettura tende a immergersi nel paesaggio, a commentarne la desolazione, a segnare in essa una presenza umana unicamente con variazioni sul tema del «casolare». Si tratta di una declinazione personale del neorealismo, materico come quello ridolfiano, ma privo degli accenti espressionistici in quello presenti. La ricerca michelucciana, fatta di adesioni spesso irriflesse a sensazioni contraddittorie, è fra le piú insofferenti, nel clima italiano del dopoguerra, alla fissazione di cifre o frasari: malgrado tutto, essa aspira a un’improbabile fusione di lingua ed esistenza. Ciò porta Michelucci a un’assimilazione della «non-forma», o comunque all’accettazione transeunte e provvisoria, quasi suo malgrado, di forme dettate dal genius loci: ciò spiega, dopo l’omaggio alla campagna pistoiese compiuto nella chiesa di Collina, l’enfasi dimensionale dei due grattacieli allacciati progettati per Sanremo (1952), la confidente essenzialità della chiesa della Vergine a Pistoia (1954-56)51, la nitida strutturalità della Cassa di Risparmio di Firenze (1953-57)52, il delicato equilibrio raggiunto nell’edificio per abitazioni e negozi a via Guicciardini a Firenze (1955-57). Che la forma, per Michelucci, rappresenti comunque un arresto rispetto al fluire della vita è dimostrato dall’ossessivo gioco di vibrazioni con cui egli investe le superfici della chiesa di Larderello (1956-59); mentre l’insofferenza per i limiti di ogni sintassi si fa esigenza di liberazione fantastica: ne escono l’osteria del Gambero Rosso a Collodi e la chiesa del Villaggio Belvedere a Pistoia (1959-61), esperimenti di fluidificazione dello spazio e di ramificazione delle strutture. Si tratta di un preludio ai temi che Michelucci affronterà negli anni sessanta e settanta, a partire dalla «grande tenda» della Chiesa dell’Autostrada. L’«ambiente», cui le poetiche degli anni cinquanta rendono omaggio è comunque inconscia metafora di un’aspirazione alla contemplazione della staticità rifrat-

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ta da specchi in movimento. La consolazione che ne deriva è certo inappagante; eppure, è questo il valore perseguito. L’intervento in campagne dal volto ben definito, o in centri di cui si accentua – non senza residui mentali di tipo giovannoniano – l’unitarietà, fa emergere la corale «socialità» dell’ambiente storico: si persegue una classica utopia regressiva, quella della «comunità» contrapposta all’anonimato di una metropoli «in cui si va come in terra straniera». Siamo tornati alle ideologie olivettiane, al fantasma di Tönnies, al Mumford più romantico. Con il medesimo atteggiamento, gli architetti si adoperano a definire i loro strumenti di lavoro per affrontare il tema del quartiere. Ancora una sociologia di importazione: al mito della città nucleare – nucleare = organico – corrisponde l’ideologia dell’unità di vicinato di dimensione conforme, raccolta intorno ai servizi primari, alle scuole innanzitutto. L’unità quartiere si scinde in sottosistemi idillicamente organizzati, almeno sulla carta: piccole, controllabili «comunità» a misura di bimbo e per la pedagogia dell’adulto si sommano fra loro, dando corpo a insiemi che sotto la ricerca di valori riaggreganti celano un’adesione a «paci» interclassiste. La mitologia dell’unità di vicinato, in realtà, non è, per gli architetti italiani, che materiale compositivo: piú che per salvarsi l’anima, la sociologia entra nella definizione del quartiere come strumento di controllo figurativo e come garanzia di un rapporto con il reale. Da un lato, i limiti imposti dalle scelte a monte divengono i limiti stessi del comporre: tutto si risolve nel microcosmo della sottounità urbana, considerata in possesso di un suo linguaggio. Dall’altro, l’articolazione di quel linguaggio è reticente: sistemato in codici, il neorealismo perde ogni vis polemica per divenire piuttosto strumento di dissimulazione. E si potrebbe anche osservare che la sintassi della modestia, divenuta generalizzata,

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permette persino a vecchi accademici di rientrare in campo: ma l’osservazione rimane marginale di fronte all’esigenza di sistema che trapela dalle realizzazioni del primo settennio Ina-Casa. Una mimesis di maniera sostituisce ora l’accoratezza autobiografica. Si consideri pure la differenza di impostazione fra i vari quartieri come frutto di un omaggio a un malinteso genius loci: la contrapposizione tipologica, che è l’unico elemento emergente dalla tavolozza disordinata del quartiere a Borgo Panigale a Bologna, vale quella, fondata su un ambientismo tanto esplicito da divenire macchiettistico, del quartiere San Giuliano a Mestre (1951-55), del gruppo Samonà-Piccinato. Ed è significativa, in quanto sintomatica di un clima, l’adesione di un architetto come Giuseppe Samonà alla lingua dell’accattivante domesticità – non solo a San Giuliano, ma anche nel quartiere Ina a Sciacca (1952-54) – qualora si consideri che dalla matita dello stesso era uscito, nel 1945, il progetto di sistemazione del quartiere del Lavinaio a Napoli, attento alle elaborazioni lecorbusieriane e sicuro nella sua monumentalità senza tempo53. «Essere nel tempo» significa invece pagare uno scotto, fare professione di astinenza, fingersi disponibili con l’occhio fisso «al di là dell’architettura». E ciò vale anche per i complessi realizzati a Milano e a Torino. Nel quartiere di Cesate (1950 sgg.), Albini, Albricci, i Bpr e Gardella declinano con passiva pulizia linguistica un dialetto paradossalmente divenuto un esperanto54, mentre Figini, Pollini e Gio Ponti tentano il recupero di valenze elementariste nei grandi blocchi disposti a turbina intorno a uno spazio centrale a verde nel quartiere di via Dessié a Milano (1951-1952). Singolare, comunque, la disinvoltura con cui la riduzione del populismo a idioletto si stempera in complessi che passivamente accettano tipologie fissate a priori. Dietro lo schermo dell’«impegno» e del moralismo, si cela una

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rinuncia: la contraddittorietà del clima intellettuale che segue agli eventi del 1948 informa pesantemente la progettazione dell’edilizia pubblica italiana. La quale risente, come si è accennato, anche delle influenze del New Empiricism scandinavo: attraverso la lezione dei quartieri di Backström e Reinius, principalmente, sembrava possibile recuperare valenze legate a una ricerca tipologica e morfologica connessa in modo articolato alla cellula-tipo. Ma non era estranea a tale riferimento culturale una ricerca di identità, risolta in una simulazione: l’immagine del piccolo interno di famiglia contadina viene appiattita contro quella della rarefatta pace raggiunta dalla «grande famiglia» socialdemocratica, modello provvisorio e sperimentale di una cultura che sconta nel limbo dell’incertezza le proprie scelte terzaforziste. Dalle aggregazioni continue sperimentate dal New Empiricism svedese e dalla cordiale ovvietà degli impaginati di facciata e dei dettagli, su cui quello stesso movimento gioca la propria ricerca di artificiosa naturalità, prendono le mosse sia il quartiere Unrra-Casas di San Basilio a Roma, di Mario Fiorentino e S. Boselli (1949-55), che quello di Falchera a Torino, del gruppo Astengo-Renacco (1950-51). Per il primo di essi, la critica piú spietata è quella che si risolve nello stato d’animo cui non si sfugge a una visita del complesso nello stato attuale: ghetto per emarginati, il suo deperimento fisico parla chiaramente circa le condizioni produttive che ne hanno condizionato il sorgere, denunciando la dose di utopia che il «realismo» conteneva in sé. E il risultato indubbiamente piú positivo di Falchera, basato, come San Basilio, su una successione di corti aperte di forma poligonale, non ha certo fra le sue cause ultime la realtà di una Torino che va divenendo sempre piú una company town in grado di collocare l’intervento pubblico all’interno delle proprie esigenze complessive55. Da tale panorama in definitiva mediocre si staccano

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due esperienze, non foss’altro che per il loro carattere sperimentale: il quartiere di Villa Bernabò Brea a Genova, di Luigi Carlo Daneri (1951-54) e l’unità di abitazione orizzontale al Tuscolano, a Roma, di Adalberto Libera (1950-1951) ai margini del dignitoso complesso progettato da Muratori e De Renzi56. Sia Daneri che Libera prendono le loro distanze dal sottolinguaggio populista à la page, rivendicando con diversi strumenti una fedeltà, che poteva persino suonare anacronistica, rispetto alle ricerche del rigorismo italiano anteguerra. In particolare, il complesso genovese dimostra che l’inserimento nella natura è tanto piú valido quanto meno si sforza di essere mimetico, introducendo all’interno di una morfologia aperta, ma rigorosamente calibrata, elementi di definizione tesi a saldare ipotesi linguistiche a ipotesi produttive, come la prefabbricazione in cemento armato, i pilotis che staccano i blocchi dal suolo, la standardizzazione tipologica, la strada pensile interposta ai piani. Ancora piú polemica appare l’unità di Libera, scontrosamente chiusa nel proprio rigore teorico e geometrico. A un tessuto continuo, fatto di cellule a un solo piano connesse in modo da formare una piastra solcata da percorsi pedonali, si contrappone un blocco a ballatoi: le memorie delle tipologie olandesi degli anni trenta e degli studi di Pagano per la «città orizzontale» rivivono quindi nel complesso di Libera, valido come testimonianza di una possibile alternativa al formulario corrente, anch’esso rivolto all’indietro. E rientra perfettamente nel disegno generale del piano Fanfani – gestito con ammirevole agilità burocratica da un tecnico certo non di avanguardia, come Arnaldo Foschini – che le proposte di Daneri e di Libera vengano accuratamente isolate: esse sono ospiti «tollerate» all’interno dell’edilizia del primo settennio Ina-Casa. E pour cause. Anche se fra le righe, entrambe contengono indicazioni produttive incompatibili con gli obiettivi

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del programma che liberalmente concede loro spazio. Cosí, l’accerchiamento dei «quartieri» da parte della città speculativa – fenomeno previsto e calcolato, d’altronde – rende ben presto palese che neanche isole di utopia realizzata il disegno degli architetti riesce a produrre: il realismo si mostrava per quel che era, il frutto di un compromesso inutile.

2. Aufklärung I. Adriano Olivetti e la «communitas» dell’intelletto. Nel frattempo, le idee olivettiane puntano sulla trasformazione dell’ambiente di lavoro nell’impresa di Ivrea: concentrandosi su una città, Olivetti vuol dimostrare la concretezza delle sue teorie comunitarie, offrendo nello stesso tempo un’immagine «sociale» della ditta – in piena espansione fra il ’46 e il ’54 – e tentando di contrapporre alle incertezze dell’intervento pubblico le certezze di un intervento «illuminato» di tipo imprenditoriale57. L’alleanza fra la politica cultural-manageriale di Olivetti e l’immagine che ne viene offerta dagli architetti, peraltro, regge, negli anni cinquanta, a livello di manufatti, mentre rivela le sue crepe a livello di pianificazione. La razionalità umana della «comunità del lavoro» deve mostrare la propria olimpica continuità: nell’ingrandimento della fabbrica, realizzato fra il 1947 e il 1949, Figini e Pollini rimangono sostanzialmente fedeli all’impostazione da loro data al nucleo degli ultimi anni trenta, e ancora nelle nuove officine Ico, che essi realizzano nel 1955-57, il linguaggio non si distacca da un monumentale ascetismo. Ma il volto sociale dell’industria abbisogna di mediazioni: la communitas vive delle proprie articolazioni e si proietta nella vita quotidiana elargendo paterni sorrisi. Se il centro direzionale

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Olivetti a Milano, di Bernasconi, Fiocchi e Nizzoli (1955) adotta ancora un formulario International Style, il Centro studi e ricerche a Ivrea di Edoardo Vittoria (1952-55), ma ancor piú la fascia dei servizi sociali di Figini e Pollini (1954-57), il ristorante aziendale di Gardella (1955-59), il centro di vacanze a Brusson, realizzato da Carlo Conte e Leonardo Fiori nel ’68, usano con cordiale disinvoltura geometrie basate sul rombo, sull’esagono, o su spezzate irregolari58. La via «organica» qualifica gli spazi destinati alla riproduzione della forzalavoro: il sorridente recupero della natura, da parte del ristorante di Gardella, proteso ad abbracciare un giardino ricco di japonismes, è sintomatica testimonianza del programma olivettiano, d’altronde liberamente introiettato da parte dei suoi interpreti. Onnicomprensiva, pertanto, deve presentarsi la «repubblica dell’intelletto». Ivrea accoglie opere di architettura come fossero quadri da collezione, mirando a una qualità sempre meno legata a linguaggi precostituiti. Per questo, accanto al Gardella del ristorante aziendale e dell’ospedale, e a Figini e Pollini nella loro duplice versione, ecco il Quaroni autore della neutriana scuola elementare di Canton Vesco (1955) e del ponte-diga a due livelli sulla Dora (1958), progettato con Zevi, Adolfo De Carlo e Sergio Musmeci, ricco di implicazioni urbane ed esibito come «macchina» dalle funzioni complesse59; ma ecco anche il Ridolfi dell’asilo-nido di Canton Vesco (1955-63), materica dissonanza in cemento e pietra a vista, snodata all’interno del quartiere dominato dai blocchi residenziali di Nizzoli e Fiocchi (1950-53)60. Le inquietudini ridolfiane – qui severamente controllate e ironicamente rivissute: vedi le aeree gabbie che culminano sulle terrazze – vengono cosí a commentare la regolare griglia che dà forma al principale nucleo residenziale della «comunità» olivettiana, mentre il quartiere Castellamonte, su piano del ’38 di Picci-

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nato, modificato e realizzato da Figini e Pollini, si arricchisce, dal ’51 in poi, di ville per dirigenti e alloggi collettivi per impiegati progettati da Nizzoli e Oliveri, prima secondo canoni «internazionali», poi con matrici linguistiche che sembrano rifare il verso, senza convinzione, alle compiaciute distorsioni dello Scharoun del dopoguerra. L’appel aux architectes olivettiano è intriso di implicazioni pedagogiche: la «buona forma» è lí per saldare ogni differenza, per dimostrare che una «vita altra» attende chi vorrà entrare nella koiné permessa da rapporti di produzione in cui capitale e lavoro adottano nuove forme di scambio; l’«officina di vetro» vuol essere omaggio alla trasparenza di tale scambio, tende ad annullare – come, del resto, gli «organici» edifici dei servizi – la realtà delle ineliminabili differenze, la realtà del lavoro a catena, le leggi, imperscrutabili ad ogni progetto comunitario, che regolano la strategia nazionale e internazionale dell’impresa. La quale, ancora agli inizi degli anni cinquanta, tenta di concretizzare la politica meridionalistica di Adriano installando una fabbrica a Pozzuoli, su progetto di Luigi Cosenza (1951 sgg.)61. La regione del Canavese come alternativa alle concentrazioni metropolitane settentrionali; un impianto nel Meridione del sottosviluppo, come esempio di possibile politica alternativa a quella imposta dal blocco di potere. Intervenendo direttamente a Pozzuoli, Olivetti cerca di provocare un’inversione di tendenza, sperando di suscitare rotture e ripercussioni a catena nel sistema economico napoletano. Non a caso, la sua è un’officina modello, ad alta tecnologia e ad alti salari, i cui risvolti sociali vengono demandati a un letterato, Ottiero Ottieri, che nel ’55 è incaricato di selezionare i futuri operai della nuova fabbrica fra i molti aspiranti attirati dall’impresa olivettiana: le lucide pagine di Donnarumma all’assalto rimangono a testimoniare il dramma e le speranze frustrate di quel proletariato, insieme all’isola-

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mento in cui il tentativo di Olivetti è condannato a vivere. Nulla di quel dramma traspare però dalle terse volumetrie di Luigi Cosenza, preoccupato di inserire nel golfo di Napoli la sua «fabbrica verde», edificio che vuol apparire «antiindustriale», luogo di integrazione fra spazio del lavoro e spazio sociale. La «grande casa» della catena di montaggio si articola colloquiando con il paesaggio, con la natura e con laghetti sinuosamente disegnati: la catarsi disalienante si rivela fatto privato dell’architetto e delle sue forme. La confluenza occasionale fra le ideologie del movimento di Comunità e le fuoriuscite ideologiche di architetti alla ricerca di miti cui consacrare velleità extradisciplinari o il bisogno «di essere presenti» aveva comunque basi troppo fragili per sopravvivere alla breve stagione in cui l’utopia olivettiana sembrava compensare l’irraggiungibilità delle istituzioni. La collezione architettonica radunata a Ivrea ha, negli anni cinquanta, un significato simile a quello assunto dall’Istituto universitario di architettura di Venezia diretto da Samonà. Due «carceri dorate» da cui l’evasione è difficile. Ma una koiné non si raggiunge semplicemente «rimanendo vicini». In un certo senso, l’aspirazione olivettiana che non riesce a farsi realtà con l’architettura viene soddisfatta nel settore del design. Come è stato acutamente osservato62, il mito americano – fordismo + riorganizzazione societaria – informa in modo del tutto particolare la produzione degli oggetti della Olivetti, a partire dalla macchina da scrivere mp1 del 1932. Nizzoli, principalmente, e Xanti Schawinsky, con un grafico come Pintori e un letterato come Sinisgalli, interpretano in modo fedele un progetto che punta sul dialogo, attraverso l’immagine incorporata al prodotto, non con un pubblico e una società reali, bensí con un’ipotesi metastorica

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di pubblico e di società. Il «classicismo del nuovo» instaurato da Nizzoli con la Lexikon 80 (1948), la Lettera 22 (1950) la Divisumma (1956), la Summa Prima 20 (196o), non costituisce un’immagine credibile del prodotto, bensí fa entrare in circolo un’immagine significante del progetto politico-culturale complessivo che si innesta sull’operazione di mercato. Un mercato, peraltro, che va toccato anch’esso con canali conseguenti al carattere sovrasignificante dei prodotti: i luoghi normali di distribuzione appaiono ad Olivetti, già negli anni trenta, inadeguati; Schawinsky e Nizzoli vengono incaricati di allestire spazi di esposizione a Torino e a Venezia, in cui ciò che è messo in mostra, piú che l’oggetto, è il valore aggiunto cui esso allude, il «progetto» di cui esso è frammento 63. Conseguentemente, i negozi Olivetti, in Italia e all’estero, divengono preziosi scrigni spaziali, la cui qualità è affidata a un surrealismo architettonico che sospende il prodotto nel vuoto: che lo isola, principalmente, dal suo contesto materiale tendendo a cancellarne il carattere di merce. Compiutamente surreali, infatti, sono i magazzini espositivi Olivetti di New York – il primo ad essere creato all’estero, sulla prestigiosa Quinta Avenue, su progetto dei Bpr (1954) –, di Düsseldorf, su progetto di Gardella, di Venezia, su progetto di Scarpa (1957-58), di Parigi, su progetto di Albini e Helg (1958). Agli architetti italiani che piú d’altri avevano contribuito a rinnovare la museografia viene cosí affidato il compito di caricare gli oggetti Olivetti di un’«aura» impalpabile64. Meno felice, come si è accennato, è il rapporto di Adriano Olivetti con le operazioni urbanistiche da lui stesso innescate a Ivrea e nel Canavese. Nel 1938, Adriano aveva patrocinato presso il comune di Ivrea la redazione di un piano regolatore, affidato a Luigi Piccinato: mai adottato dal consiglio comunale, è sulla scorta delle direttive da esso previste che sorgono i due

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quartieri di Canton Vesco e Castellamonte. Nel 1952, è ancora Olivetti a sollecitare lo studio di un piano di dimensioni regionali: questa volta i progettisti sono Quaroni, Fiocchi, Ranieri e Renacco, cui si affianca una vasta équipe di sociologhi, economisti, specialisti di problemi agricoli e industriali. Per la cultura italiana sembra arrivato il momento di sperimentare tecniche di analisi sui piú diversi aspetti della struttura territoriale, cogliendo l’occasione per mettere a punto strumentazioni interdisciplinari di alto valore scientifico. In altre parole, si trattava di dar sostanza allo slogan «l’urbanistica per l’unità della cultura»: piú che il risultato finale – il progetto di piano – interessa agli intellettuali il processo compiuto per giungere ad esso. D’altra parte, la complessa organizzazione impiantata per l’analisi del territorio canavese, e che avrebbe dovuto sfociare in pubblicazioni modello, dimostra in che modo gli intellettuali meno organicamente legati all’ideologia olivettiana interpretassero, per se stessi, il concetto di «comunità»: sotto l’egida di un impresario illuminato, è la cultura che si ricementa, che compie un notevole sforzo per superare le barriere delle specializzazioni, che si dispiega come coacervo di tecniche fra loro colloquianti. Il mito dell’interdisciplinarità si salda, qui, a quello comunitario, rivelando però che l’unica reale comunità organizzabile concretamente – ma in una ulteriore situazione di eccezione – è quella dei clercs65. Per tali ragioni, il piano di Ivrea rappresenta la summa delle teorie e dei modelli circolanti nella cultura italiana dell’epoca, coniugati, per dovere d’ufficio, all’idea olivettiana della «comunità» a misura d’uomo. Il piano, presentato senza fortuna nel ’54 e rimaneggiato nel ’59, prevede un’espansione per nuclei a dimensione controllata e in simbiosi con centri minori di produzione, la valorizzazione conservativa del centro storico, uno sviluppo frazionato delle zone industriali, la

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creazione di due centri direzionali a raggio urbano e territoriale, uno dei quali al di là della Dora, legati dal ponte poi progettato, come s’e visto, da Quaroni, Zevi, De Carlo e Musmeci. Il processo che ha condotto al piano, tuttavia, e le difficili relazioni fra intellettuali e interessi di impresa deludono profondamente. Per Quaroni quel processo si rivela di nuovo insoddisfacente o incompiuto: anche il mito dell’interdisciplinarità appare in esso consunto. Il riflesso di tali delusioni si manifesta in modo singolare alla X Triennale di Milano (1954). La mostra dell’urbanistica, organizzata da Quaroni, Giancarlo De Carlo e Carlo Doglio, assume tonalità decisamente provocatorie: i tre cortometraggi lí presentati – specie Una lezione di urbanistica, al cui progetto collabora Elio Vittorini e che ha come protagonista Giancarlo Cobelli66 – rivolgono un severo e caustico monito agli urbanisti, «perché precisino – come scrive De Carlo – in quali limiti sono disposti ad affrontare il rischio di un confronto con la realtà: a portare nell’urbanistica la collaborazione di tutte le forze attive della cultura che vi sono implicate ed escogitare i mezzi che rendono possibile una effettiva capillare partecipazione della collettività». Ma la provocazione rimane senza effetto. «I Grandi Sacerdoti, ineffabili – prosegue De Carlo67 – hanno respinto la provocazione con sdegno e non hanno risposto». Il ripensamento sugli strumenti della pianificazione proposto da intellettuali come De Carlo e Quaroni, in realtà, toccava ancora di striscio il nesso piano - istituzioni - riforme di struttura. Al sostanziale fallimento dei generosi tentativi dell’ Aufklärung urbanistica, nel Meridione e a contatto di Olivetti, non si riesce a rispondere con analisi compiutamente politiche della situazione reale. Da parte sua, di fronte a quegli stessi fallimenti, l’ideologia comunitaria tenterà di tradursi per suo conto in politica diretta: nel ’58, Adriano Olivetti partecipa in

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prima persona alle elezioni politiche. L’anacronismo della via terzaforzista diverrà cosí pesantemente evidente. Del resto, alla fine degli anni cinquanta, il sogno olivettiano era già andato in frantumi, compromesso dal tentativo di entrare nel mercato dell’elettronica gigante, da una crisi di finanziamenti e dalla perdita del controllo assoluto dell’impresa da parte degli Olivetti: Adriano, morto nel 196o, non assisterà alle trasformazioni dell’azienda, che, oltre a comportare una revisione dei suoi programmi sociali, richiede un’immagine internazionale di mercato ben diversa da quella propugnata negli anni cinquanta.

3. Il mito dell’equilibrio. Il piano Vanoni e l’Ina-Casa secondo settennio. Le profonde modificazioni dell’economia italiana avviate nel corso della ricostruzione erano state condizionate dall’incalzare del capitale internazionale. Il ruolo trainante dell’impresa pubblica aveva peraltro avuto buon gioco nei confronti dei settori del padronato ancorato a nostalgie autarchiche: l’ingresso dell’Italia nella Ceca, con la conseguente espansione della siderurgia, trascina con sé, in particolare, il settore meccanico, rendendo evidente la necessità di una strategia di lungo periodo volta a una trasformazione dell’intera società. Alla fine del ’54, il piano Vanoni sembra rispondere a tale necessità: mantenendo un saggio di incremento del reddito nazionale annuo del 5 per cento e prevedendo posti di lavoro addizionali extraagricoli, il piano punta al potenziamento dell’efficienza e della capacità concorrenziale del sistema produttivo, fissando come obiettivo da raggiungere la creazione di quattro milioni di nuovi posti di lavoro. Il programma che guiderà le linee di crescita del capitale di Stato è cosí

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fissato: le vicende della sua attuazione dipenderanno strettamente dalle variabili politiche messe fra parentesi dal modello. Solo in tal modo, infatti, si spiega l’abbandono di alcuni «settori propulsivi» a favore di altri, che non tarderanno a rovesciarsi come un boomerang contro la strategia dello sviluppo. Le grandi infrastrutture – autostrade e linee di distribuzione dei gas naturali – chiamate a riorganizzare il territorio fungono in realtà da sostegno all’espansione dei consumi privati (settore dell’auto), accentuano il formarsi di aree metropolitane, si rivelano incapaci di guidare inversioni di tendenza nella geografia dello sviluppo. È il sogno dell’equilibrio, alla base del piano Vanoni e dei tentativi piú avanzati del movimento cattolico di questi anni, che va in frantumi di fronte a una strategia che, senza piano, punta sul blocco edilizio come garanzia di cementazione fra i vari strati della borghesia proprietaria e di un’alleanza fra quest’ultima e la Confindustria, attraverso le realizzazioni della rendita fondiaria e i suoi travasi nel sistema produttivo68. «La politica del settore edilizio – veniva scritto nel piano Vanoni – dovrà promuovere o contenere gli investimenti nell’industria delle costruzioni nella misura in cui la domanda di beni di consumo diversi dall’abitazione sia rispettivamente insufficiente o eccessiva in relazione al processo di espansione possibile». Il processo di urbanizzazione scatenatosi in Italia negli anni cinquanta nulla ha a che fare con tale concezione dell’edilizia come «volano». Il malgoverno delle amministrazioni locali sembra divenire istituzionale, le norme edilizie e di piano regolatore vengono considerate meno che formali, l’offerta di case si espande in modo indiscriminato comprimendo quella destinata ai ceti popolari o seguendo unicamente le leggi della speculazione sulle aree, l’aumento dei costi di costruzione porta a un prezzo triplicato, fra il 1953 e il 1963, dei nuovi fab-

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bricati, in corrispondenza di un prezzo decuplicato dei suoli edificabili, l’industria edilizia rimane frammentata e a basso livello organico di capitale, sfruttando tale sua deliberata arretratezza sia in senso economico che politico. Si valuti inoltre che i vani di abitazione annualmente realizzati passano dai 543 ooo del 1951 a 1 970 ooo del 1961, con una media annua di 1 400 000 vani, mentre la produzione edilizia, nel suo complesso, nel periodo considerato, si sviluppa a un tasso annuo del 12,1 per cento circa, contro l’8,2 per cento dell’industria nel suo complesso. Il tasso medio annuo delle retribuzioni nel settore, per suo conto, registra il 4,5 per cento di aumento, per una massa di lavoratori che rappresenta il 28 per cento dei lavoratori industriali complessivi. Il piano Vanoni, dunque, funge piú da detonatore di un conflitto interno al movimento cattolico, risolto con la conferma del ruolo dirigente delle forze piú reazionarie, che da indicatore di una linea effettuale di politica economica. La realtà è che l’intreccio di poteri funzionale a uno sviluppo volutamente squilibrato, disposto a pagare, con il rigonfiamento dei settori parassitari, i rischi provocati da pesanti inceppi per il meccanismo complessivo, rende illuministico ogni tentativo di sovrapporre a un quadro istituzionale cosí vischioso programmi quadro che implichino spostamenti di interessi e blocchi di alleanze storicamente impossibili. Per collages di disposizioni settoriali, e non attraverso dichiarazioni programmatiche, la politica edilizia italiana viene piuttosto concretamente attuata. Alla legge istitutiva dell’Ina-Casa si collegano altri due provvedimenti, la legge Tupini sull’edilizia cooperativa (1951) e la legge Aldisio, che vara la costituzione di un fondo di incremento per l’edilizia: il fine è quello di sostenere comunque, sulla base di meccanismi creditizi e finanziari che privilegiano la piccola impresa frazionata, l’offerta di case, spostando l’interesse – specie con la legge Tupi-

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ni – su un mercato accessibile ai ceti medi. L’aggravamento dell’urbanesimo selvaggio, conseguente a tale rigonfiamento indiscriminato dell’offerta, ha come effetto indiretto il potenziamento dei flussi migratori verso le aree sviluppate e verso i centri urbani, provvedendo l’industria di un esercito di riserva non qualificata, in buona parte riassorbita in edilizia. Ciò spiega il basso livello tecnologico cui l’edilizia stessa permane, anche una volta superate le condizioni contingenti della ricostruzione; il degrado e la congestione che attaccano le aree centrali, per loro conto, sono funzionali, assieme al meccanismo del blocco dei fitti, a un lento ma progressivo rastrellamento di porzioni dei centri storici da parte delle immobiliari, in attesa che il mito dell’antico e l’esaurirsi delle aree pregiate esterne ai centri determinino un mercato di lusso nei centri storici, grazie anche al permanere in essi di gran parte delle funzioni direzionali. (Ciò quando, naturalmente, il centro storico non viene direttamente e pesantemente aggredito dalla speculazione, come a Milano). Di fronte a tale dispositivo innescato dal blocco di potere cui fanno capo le forze centriste con il beneplacito della grande industria – che, fino a quando i fenomeni da esso indotti non si riveleranno frenanti, può aspirare capitali, tramite i meccanismi finanziari, dalla rendita di speculazione – la cultura urbanistica risponde in modo duplice. Da un lato, si apre un’intensa campagna scandalistica all’insegna del moralismo: nel 1957 viene fondata l’associazione Italia Nostra su iniziativa di Umberto Zanotti-Bianco; la rubrica di Antonio Cederna sul «Mondo» colpisce periodicamente le malefatte dei «vandali in casa», contribuendo ad arrestare operazioni di sventramento e a salvare dalla lottizzazione parchi e aree verdi; il processo per diffamazione intentato dal sindaco di Roma Salvatore Rebecchini contro «L’Espresso» mette in luce la portata e i mecca-

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nismi della speculazione sui suoli e l’intreccio fra corruzione amministrativa e potere economico. D’altro lato, si procede verso un’astratta precisazione degli strumenti disciplinari, alla ricerca di una «tecnica indeterminata»: indeterminata, anzitutto, perché priva di referenti e di soggetti i cui interessi collimino con quelli dell’«equilibrato territorio», e indeterminata perché costretta a continue petizioni di principio a proposito delle condizioni prime chiamate a giustificarne l’esistenza, come la fine del mercato liberistico dei suoli o almeno il controllo pubblico degli stessi. Non è sicuramente un caso che l’Inu proceda, fra il 1952 e il 1958, a un esame di tutte le possibili scale di intervento, mentre i pochi piani redatti nel paese vengono evasi o resi inoperanti tramite il meccanismo delle «varianti». Rimane per gli architetti la progettazione dei quartieri Ina-Casa: l’esperienza compiuta nel campo non risulta consumata invano, ed è a partire da una revisione autocritica che i suoi limiti vengono forzati fino a toccare le soglie di nuovi terreni di ricerca. Le ipotesi comunitarie e il disimpegno linguistico che avevano caratterizzato l’ideologia del quartiere, nel corso del primo settennio Ina-Casa, risultano infatti consumate agli inizi del secondo settennio. È ancora Quaroni a riassumere le fila dell’esperienza compiuta, in un memorabile saggio pubblicato sulla rivista «La Casa», e a compiere un’autocritica che sfocia, nel 1957, nel quartiere San Giusto a Prato69. Non è sicuramente estranea, alla radicale revisione quaroniana, l’esperienza architettonica compiuta nel ’56 con i progetti per le chiese genovesi del San Gottardo e della Sacra Famiglia. Se la prima, rimasta allo stadio di idea, tende a divenire cerniera urbana aderente alla struttura fisica del sito – un nodo di traffico a livelli ascendenti –, la seconda sfrutta abilmente un’area stretta da presso da edifici e da un alto muro di sostegno intersecato da due strade a

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livelli diversi: la chiesa, dominata da un torrione compatto squarciato sullo spigolo, funge ancora da soluzione di continuità fra percorsi cittadini intersecati, fulcro visivo ricco di epos che si staglia al centro di un flusso ascendente di scalinate. L’equilibrio fra la ricerca di un codice inedito, ormai scevro di concessioni a romanticismi, e quella tesa a far colloquiare un oggetto fortemente strutturato con il luogo urbano è uno dei piú alti raggiunti da Quaroni70. Le chiese genovesi da un lato, il progetto del ponte sulla Dora a Ivrea dall’altro, si legano strettamente al progetto per il quartiere di San Giusto. La complessità della città non è dominabile scindendo la stessa in elementi finiti; eppure, questa è la «condizione» imposta dalla politica dell’Ina-Casa. Non rimane che assumere tale contraddizione e darle voce. La composizione si snoda a partire da un modulo planimetrico a torre, si amplia in un secondo modulo «a corte» in cui si ripete una disposizione «a turbina» delle cellule, si svincola infine dalla figura geometrica prefissata nell’aggregarsi libero e continuo delle corti. Con un brusco e significativo scarto rispetto alla «poetica del quartiere» – contraddetto solo dal trattamento ancora «paesano» degli alzati – Quaroni si appresta, a Prato, a definire i materiali che sfoceranno nella piú problematica delle sue opere dei tardi anni cinquanta, il complesso Cep di San Giuliano a Mestre. Le corti chiuse non fanno piú riferimento ad enunciati sociologici: è il tessuto che qui conta, il suo aprirsi e il suo rimanere fedele a moduli plurimi. Il quartiere non «risolve» più; ad esso non è piú richiesto alcun riscatto. Esso è solo ciò che può essere, né intende nobilitare la propria emarginazione. Ed è sintomatico ritrovare temi consimili – la corte chiusa assunta come modulo, la definizione di una maglia estensibile, una disciplina consapevole – in un

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altro quartiere chiave del secondo settennio Ina-Casa, quello di via Cavedone a Bologna, anch’esso del 1957, realizzato da una équipe guidata da Federico Gorio e che ha fra i suoi membri Marcello Vittorini e Leonardo Benevolo71. A puri residui vengono ridotte le persistenze populiste: è il tipo urbano ciò che ora conta e insieme un controllo tecnologico che sembra preludere a nuove ipotesi di progettazione. Il neorealismo è comunque affossato senza una critica all’altezza dell’esperienza; il ricorso a una morfologia collaudata, come quella del cortile chiuso, evita palesi riferimenti storicisti; il tentativo di imporre una severa misura «realista» si risolve in semplificazioni reticenti. L’irraggiungibilità della città, che nel progetto di Quaroni è denunciata fra le righe, nel quartiere di via Cavedone è accettata con rassegnata serenità. Comunque, un’apertura sperimentale caratterizza la fase aperta con il secondo settennio: ancora a Bologna, nel complesso di via della Barca (1957-62), realizzato dal gruppo guidato da un rigorista della vecchia guardia come Giuseppe Vaccaro, le unità di vicinato sono interpretate come tessuto continuo interrotto dal lungo edificio porticato e ricurvo posto sull’asse mediano. Di nuovo, il quartiere tenta di uscire dal suo isolamento, preleva motivi dalla città storica, articola le sue funzioni accostandole timidamente. Il décalage ideologico, evidentissimo, fa di questi quartieri delle esperienze «di attesa»; ma permette anche di concentrarsi in ricerche in cui invenzioni tipologiche e aggregative vengono sfruttate per il loro valore di immagine: è il caso dei quartieri di Galatina (Lecce) e di Ascoli Piceno (1958) realizzati dal gruppo Cicconcelli con l’apporto determinante di Luigi Pellegrin. Estremamente riflessa la lezione wrightiana assorbita da Pellegrin. Ben diverso da quello di Carlo Scarpa, anche il wrightismo di Pellegrin rifiuta soluzioni di maniera, rivelandosi piuttosto stru-

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mento per una meditazione sulle qualità dello spazio e degli oggetti: le sue scuole a Urbino e Sassari (1956, in collaborazione con C. Cicconcelli), o le case d’abitazione progettate per Roma mostrano chiaramente la linea analitica di questo solitario sperimentatore. Che nei quartieri di Galatina e di Ascoli dimostra che l’afasia cui la maggior parte dei progettisti dell’Ina-Casa si autocondanna è anacronistica. Specie a Galatina, la reiterazione delle cellule tipo, orientate a 45° rispetto alla maglia viaria, le aggettivazioni e il dosaggio degli elementi di raccordo permettono al complesso di raggiungere una sua identità; e sia pur convulsa e fatta di inquiete cesure. Al primato dell’indagine propugnato da Quaroni si contrappone cosí la ricerca di risultati finiti di Cicconcelli e Pellegrin, mentre solo come variazioni di collaudate esperienze tipologiche e linguistiche sono apprezzabili gli interventi Ina-Casa di Ridolfi a Napoli (appartamenti in via Campegna e a via Chiaina, 1956) a Conegliano (1958-6o) a Mareno (1958), a Treviso (1956-58), in cui il disinteresse per la scala della progettazione e la concentrazione degli interessi sul manufatto edilizio mostrano i loro limiti. E ancora un risultato concluso in se stesso è il quartiere di Forte Quezzi a Genova (1958 sgg.), del gruppo Daneri72, forse il piú spettacolare complesso residenziale del secondo settennio Ina-Casa. Si tratta anzitutto di una dimostrazione di coerenza personale: dalle case alla foce al Lido di Albaro (1938 sgg.) al quartiere Bernabò Brea, al complesso di Forte Quezzi, Daneri compensa le limitazioni linguistiche autoimpostesi con approfondimenti che non disdegnano il riferimento a modelli riconoscibili, come, per l’ultimo caso citato, la serpentina e i blocchi «danzanti» sulle colline di Algeri del Plan Obus di Le Corbusier. Ma nei sinuosi blocchi che a Forte Quezzi sembrano voler commentare il paesaggio,

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seguendo fedelmente le curve di livello, frantumandosi in unità tipologicamente complesse, arricchite di servizi interni, loggiati, percorsi pedonali, è anche il tentativo di consolidare un frammento urbano che «si espone» come contraddizione vivente. Il piano pedonale pubblico che interrompe i due blocchi centrali va letto contestualmente al difficile colloquio instaurato con il sito: elasticamente, il complesso si contrae e si espande, si apre «a teatro» e si chiude in se stesso. Serenamente, Daneri parla qui delle ormai non più tollerabili condizioni imposte dai programmi dell’intervento pubblico: alla problematica ricerca di Quaroni, egli risponde con un’immagine e una struttura che mettono in tensione, l’una contro l’altra, la finitezza dell’intervento e la sua aspirazione frustrata a divenire parte della città. In fondo, gli esempi emergenti del secondo settennio Ina-Casa – cui dovrebbero aggiungersi le molte realizzazioni di routine, spesso di sconcertante provincialismo, come il villaggio residenziale a Ricciano (Pescia) del gruppo Gori o il quartiere di Acilia, del gruppo Perugini - Del Debbio (1957-59) – rendono evidente che la sempre maggiore marginalità dell’edilizia pubblica e la sua strumentalità si prestano solo a brillanti forzature o a sperimentazioni che rimandano ad altre intenzionalità. Parlando «d’altro», ci si sporca le mani salvando l’anima; assumendosi i limiti del reale, si disegnano suggestive «cifre sbagliate». Ma ciò che è maggiormente significativo è che in questi quartieri l’ideologia dell’«abitare» sopravvive a se stessa come simulazione. Simulata, infatti, è la «ricerca del luogo» a Forte Quezzi; simulata la ricerca tipologica a Galatina; simulata la metodologia con cui vorrebbe convincere il quartiere di San Giusto. Il quartiere non risiede in città; eppure è funzionale a una dinamica che viene occultata con la sua realizzazione: chi è chiamato a far da protagonista in tale gioco non può che

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appellarsi a una «onesta dissimulazione». Il bagno nel realismo produce cosí il sonno della ragione. I mostri non si faranno attendere. Si tratterà del rovescio dello stato d’animo che aveva generato le mitologie dell’immediato dopoguerra: al realismo come ideologia si sostituirà ben presto il recupero dell’utopia. Ma bisognava bruciare fino in fondo i motivi che avevano dato luogo all’autobiografia come rispecchiamento, o, perlomeno, era necessario far compiere loro un salto di scala.

4. Aufklärung II. Il museo, la storia, la metafora (1951-1967). Alle frustrazioni sofferte nel corso dell’esperienza di progettazione dell’edilizia pubblica, la cultura architettonica italiana ha da contrapporre i successi ottenuti nel settore del design, e, ancor piú, quelli ottenuti nel campo della museografia. Indubbiamente, nell’arredo delle «case dell’arte», i migliori architetti italiani liberano aspirazioni altrimenti represse: qui, il rapporto con la storia è obbligato e diretto, e strettamente intrecciato a compiti pedagogici73. L’architettura del museo sembra riassumere, depurati da molte scorie contingenti, i temi principali dibattuti negli anni cinquanta: dal ruolo «civile» della forma a quello dell’incontro fra la memoria e il nuovo, al recupero di una rappresentatività legata ad occasioni privilegiate. In tale quadro, l’allestimento di Palazzo Bianco a Genova, ad opera di Franco Albini (1950-51), costituisce immediatamente un riferimento d’obbligo per una cultura tesa a salvaguardare, in ogni occasione, rassicuranti equilibri74. In effetti, l’allestimento albiniano è un capolavoro del suo genere: all’estremo rigore esplicato nella tecnica museografica si unisce una raffinata neutralità dell’arredo nei confronti

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delle opere esposte; tale, però, da lasciar trasparire in filigrana i segni interpolati, ridotti a rispettose glosse interlineari di frammenti di testo pazientemente ricostruiti. Lo «stile» museale di Albini rimane cosí definito; più tardi, esso si esprimerà nel restauro e nella sistemazione di Palazzo Rosso a Genova (1952-61), per raggiungere un apice nel Museo del Tesoro di San Lorenzo (1952-56)75. Tre tholoi di diverso diametro, nello spazio sotterraneo del San Lorenzo, intersecano un invaso esagonale dotato di escrescenze. Si tratta di un preciso programma allegorico, cui non è estraneo l’intervento di Caterina Marcenaro: al sacello del Santo Graal si unisce il ricordo del Tesoro di Atreo. L’esoterismo dei riferimenti è comunque sublimato da Albini. La dialettica degli spazi, la variata incidenza della luce, il colloquio fra la forma delle teche vitree e l’ambigua allusività degli organismi agganciati fra loro rendono omaggio a uno degli ingredienti piú originali della poetica albiniana: una vena surreale tanto piú sottile quanto piú risolta in etimi tecnologicamente inappuntabili. L’architecture ensevelie di Albini possiede un proprio linguaggio. Protetta dal mondo esterno, in essa il dialogo fra l’eleganza tecnologica – ulteriore strumento di supremo distacco – e le forme esalta una dimensione irreale: la dimensione, per l’esattezza, dell’astrazione come «immagine sospesa». Si tratta della medesima astrazione che, negli allestimenti albiniani, gioca come reagente a contatto di oggetti storici magicamente spaesati all’interno di invasi effimeri. Cosí, nella mostra didattica «L’evoluzione della bicicletta» (Triennale 1951), nelle Sale dei «Tessuti genovesi del xvi secolo» e del «Miracolo della scienza» (Venezia, Palazzo Grassi, 1952), nel Salone d’Onore della X Triennale di Milano (1954), nella piú recente sistemazione della mostra palladiana nella Basilica di Vicenza, Albini crea capolavori di virtuosismo rappre-

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sentativo, non alieni da suggestioni oniriche. Una lirica, questa di Albini, affidata a telai eretti, appesi, sospesi, controventati, che – come ha notato Fagiolo – sembrano «larve o surrogati della struttura architettonica»76: la severità albiniana allude a un’assenza senza mai sconfinare nel tragico. Fra «l’astrazione magica» dell’Albini «arredatore» e quella dell’Albini autore del Museo di San Lorenzo esiste una continuità diretta, assai meno percepibile nelle opere in cui – come nel complesso gradonato degli uffici comunali dietro Palazzo Tursi a Genova (1952-62) – alla lirica dell’intérieur si sostituisce il gioco formale en plein air77. Eppure, sarebbe errato pensare che l’architettura per i musei costituisca per Albini un capitolo in sé concluso: se all’allestimento di Palazzo Bianco corrisponde il Palazzo dell’Ina a Parma, è indubbio che il Museo del Tesoro di San Lorenzo, anche nel suo recupero di valenze allegoriche, apre ai progetti per La Rinascente a Roma. Ma negli anni cinquanta è la «misura» degli interventi albiniani a fare testo. Di fronte al mormorio sommesso dei pur apodittici segni di Albini, le invenzioni museografiche di Carlo Scarpa appaiono troppo parlanti: la critica, anche quella favorevole al maestro veneziano, non nasconderà la propria perplessità nei confronti dell’opera di Scarpa al Correr (1953)78. Da un lato, dunque, il «lasciar essere» di Albini, dall’altro la magistrale narratività di Scarpa: l’alternativa non dà ancora scandalo. Quest’ultimo esplode piuttosto nel 1956, quando si apre al pubblico il Museo del Castello di Milano, opera dei Bpr, che offre il fianco a una serrata polemica, puntualmente ripresa, due anni dopo, a chiusura di cantiere di un’ulteriore opera dei Bpr e destinata a divenire sintomatica del clima milanese della fine degli anni cinquanta: la Torre Velasca79. In realtà, chi discuteva separatamente del Museo del Castello e della Velasca non si accorgeva di affrontare un medesimo

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problema. L’assunto verte sulla manipolabilità dei reperti: per i Bpr, e per Rogers in particolare, che aprirà il dibattito sulle preesistenze ambientali su «Casabella»80, solo la manipolazione – leggi l’appropriazione mediante il contatto fisico – rende storico un cantiere archeologico. Il quale sarà, indifferentemente, un museo o una città. Attraverso l’intervento – il progetto –, la storia assume un volto: le molte eredità che nel progetto si incontrano daranno luogo a contaminazioni, a opere in qualche modo «sporche»; ma sarà quell’impurità a permettere il «gioco dei riconoscimenti». L’architettura, contaminandosi con gli antichi reperti, riconosce la legittimità della propria tradizione; quei reperti potranno di converso usare il «nuovo» come cartina di tornasole, come specchio da interrogare e da cui trarre un principium individuationis. Nell’allestimento del Museo del Castello l’operazione compiuta è eloquente: contro le caute interpolazioni albiniane, i Bpr scelgono la via di una scenografia continuamente e pesantemente presente, che introduce – nel pavimento da città medievale della Sala degli Scarlioni, nello «steccato» della Sala delle Asse, nella disposizione onirica della Sala Verde delle armature, nell’apparecchiatura che recinge la Pietà Rondanini – polivalenti risonanze fra pezzo esposto e macchina espositiva. L’ansia comunicativa fa da protagonista: soggetto di essa è la relazione fra memoria privata e memoria collettiva; o meglio, il problema di come far parlare una memoria privata – quella dell’intellettuale – considerata, «per elezione», depositaria di doveri rispetto alla memoria collettiva. Si tratta dei medesimi «doveri» cui, a suo modo, intende rispondere la Torre Velasca, costruita dai Bpr su incarico della Rice su un’area devastata dai bombardamenti a 450 metri da piazza del Duomo81. La progettazione del complesso polifunzionale – negozi, spazi

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commerciali, uffici, studi, abitazioni – inizia nel 195051, nel momento in cui la società immobiliare completa l’acquisizione dei suoli in tale zona strategica del centro milanese; la struttura è in ferro, e la torre si presenta come un monolito, geometricamente e metricamente definito, scomposto nei tre elementi caratterizzanti anche la soluzione realizzata: una protome introduttiva sulla via Velasca, un corpo verticale a lastra scandito da pilastri, un doppio cubo aggettante. Scartata per il suo alto costo la soluzione in ferro, dal ’52 al ’55 prende piede il progetto definitivo, costruito fra il ’56 e il ’57: la Torre è ora un solido compatto, percorso da costoloni in cui si addensano le interne tensioni dell’immagine chiamata a stagliarsi come unicum nella skyline milanese. Il raccordo fra il blocco verticale e il corpo dilatato superiore avviene ora per mezzo di puntoni inclinati: la Velasca, orgogliosamente avvolta nella sua matericità, si dilata come magma energetico verso il cielo, assumendo l’aspetto di una torre medievale paradossalmente ingigantita. Un «omaggio a Milano» compiuto dunque con strumenti non ancora tacciabili di storicismo. La Velasca si installa in città commentando liricamente un corpus urbano in via di sparizione: ancora una volta, dalle intenzioni riposte nelle pieghe di un solo oggetto si attende una catarsi. Come il Museo del Castello Sforzesco, infatti, la Velasca intende «insegnare a vedere»: le risonanze interiori che hanno generato questa forma chiamano le «coscienze» a un’epoché collettiva, a una riconsiderazione radicale del nuovo alla luce del temps perdu che esso stimola a ritrovare. Non per nulla Enzo Paci è il «filosofo» di «Casabella», accomunato a Rogers dalla lezione insieme ricevuta da Antonio Banfi. Ma principalmente la Velasca, avvolta nella sua ambigua aura fatta di significati ritrovati per analogie e sottintesi, è lí a costituire un simbolo riassuntivo delle aspirazioni del-

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l’architettura italiana degli anni cinquanta: nel grande museo costituito dalla città storica, sembra dato trovare una «casa» che consoli i segni del loro straniamento, che li protegga dal futuro, che li illuda circa la validità delle loro istanze «morali». Con risultati formalmente meno interessanti, ma sulla medesima linea di ricerca, è un’ulteriore opera dei Bpr, il complesso di piazza Statuto – corso Francia a Torino (primi studi 1955-56, realizzazione 1959): il tema delle «preesistenze storiche» alimenta, in modo determinante ormai, la discontinua esperienza dei Bpr, che dall’epos dispiegato nella Velasca passano all’enfasi strutturale della torre torinese fino a ripiegare su piú caute allitterazioni nella ristrutturazione di Casa Lurani Cernuschi a via Cappuccio a Milano (1959)82. Si tratta di un’architettura di riflessione: su tutto queste opere riflettono – sul passato, sulle città, sul possibile colloquio fra intellettuali e masse – meno che su se stesse. Mediate dall’insegnamento teorico di Rogers, esse sono destinate a generare un nuovo capitolo nell’autobiografismo dell’architettura italiana. Allegoria dello stato d’animo che le muove è la tomba che, in collaborazione con Carlo Levi, i Bpr erigono a Rocco Scotellaro nel cimitero di Tricarico (1957): una reminiscenza arcaica in muratura che lascia intravedere, dalla spaccatura dal contorno digradante, la valle del Basento. Sulla pietra, i versi del poeta, ricchi di una contenuta nostalgia, che è anche degli architetti: «Ma nei sentieri non si torna indietro | Altre ali fuggiranno dalle paglie della casa | Perché lungo il perire dei tempi | L’alba è nuova, è nuova»83. Eppure, la «nuova alba» sembra preclusa a una cultura che sceglie sempre piú, per riconoscersi, la via della «pensosa sospensione». Una via che viene battuta, contemporaneamente ai Bpr, da Ignazio Gardella, con la sua casa alle Zattere di Venezia, terminata nel ’58. Rispetto alla Torre Velasca, la casa alle Zattere costi-

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tuisce una sorta di pendant, tale, comunque, da poter essere salutata, all’epoca, come indice di un clima storicistico pericolosamente evasivo. Che la casa alle Zattere, con le sue calcolate dissimmetrie, il frastagliarsi dei particolari, il suo impaginato di facciata presentato come «commento» alla tipologia del palazzo gentilizio lagunare, cercasse un confronto volutamente ambiguo con l’eccezionalità del sito è indubbio. Il revisionismo qui espresso da Gardella vive un equilibrio instabile fra rarefazione di strumenti linguistici, intimismo e prudenza formale: lo stesso, in fondo, che aveva caratterizzato le Terme Regina Isabella a Ischia, la chiesa di Cesate (1956-58) e il complesso turistico-alberghiero alla Colletta, Arenzano, realizzato nel ’56 in collaborazione con Marco Zanuso, eppure ricco di tonalità che lo rendono estraneo alla linea seguita dallo stesso Gardella nella Galleria d’Arte Moderna a Milano e nella mensa Olivetti a Ivrea, la piú «classica» delle sue opere degli anni cinquanta. Sembra quasi di incontrare due personalità antitetiche in Gardella: ciò che le accomuna è il gusto per la «revisione gentile»84. Anche per Gardella i linguaggi sono là, già configurati: non rimane che giocare ai loro margini per eroderli lievemente o per saggiarne la resistenza. In fondo, anche se non raggiungerà piú le altezze del dispensario di Alessandria, la ricerca «ai margini» di Gardella nel dopoguerra non è molto diversa da quella da lui stesso perseguita negli anni trenta. Ma lo «scandalo» della casa alle Zattere, definita da Argan, con sapiente sottinteso, «la Ca’ d’Oro dell’architettura moderna»85, travalica il problema del personaggio Gardella, per inquadrarsi nel dibattito, accesosi a livello internazionale, su quella che viene definita da Banham «l’infantile ritirata italiana dal movimento moderno». Pietra dello scandalo, in realtà, non è la Velasca, né la casa alle Zattere, né la Borsa Merci a Pistoia di Miche-

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lucci, bensí un’opera di due giovani torinesi, Roberto Gabetti e Aimaro Isola, la Bottega d’Erasmo a Torino (1953 sgg.) pubblicata in un memorabile numero di «Casabella continuità» del 1957. Progettata ed eseguita con alta raffinatezza, la Bottega d’Erasmo si presenta come una ben calibrata sintesi di sapienza compositiva e di linguaggi allusivi: un vero e proprio flirt con l’età d’oro dell’architettura alto-borghese dell’Ottocento italiano ed europeo trapela – senza mai divenire citazione diretta – da un infittirsi di aggettivazioni che informa le superfici, spezzate e ripiegate, con una rappresentatività ermetica e stupefatta. Rispetto alla Velasca, alla torre torinese dei Bpr o alla casa alle Zattere, la Bottega d’Erasmo ha il merito di eliminare ogni mediazione, rendendo esplicito il nuovo referente chiamato a convalidare la vocazione autobiografica degli architetti italiani. Ma la polemica non nasce da un’analisi diretta dell’opera. È piuttosto la lettera di presentazione di Gabetti e Isola che accompagna le foto, a sollevare in Gregotti, allora redattore di «Casabella», perplessità, e a dettare a Rogers un commento che apre la polemica sul cosiddetto «neoliberty»86. Ciò che scandalizza è l’affermazione di un fallimento del movimento moderno, dei suoi ideali etici tradotti in diete formali divenute superflue. Fintanto che il «recupero delle valenze lasciate libere» dai padri fondatori sembrava non incrinare il castello del movimento moderno, ogni incursione in aree linguistiche eterodosse era giustificata e ritenuta salutare; una volta eliminate – e per giunta verbalmente – le reti teoriche di protezione, contro chi palesa una crisi sembra necessario lanciare anatemi. Eppure, sia la Bottega d’Erasmo che le altre opere significative di Gabetti e Isola – la Borsa Valori di Torino, realizzata, dal ’52 in poi, con Giorgio e Giuseppe Raineri, il progetto di concorso per un convento a Chieti (1956), o la sede della Società ippica torinese a Niche-

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lino (1959) – non presentavano scoperti revivalismi: rilette a distanza di tempo, esse non sembrano giustificare lo scalpore suscitato alla loro apparizione. Scalpore che, in gran parte, è dovuto al loro far emergere problemi sottesi, alla loro capacità di far chiarezza – per eccesso di ambiguità – sul contenuto oscillante dell’introspezione repressa, dell’intimismo catartico, del moralismo teorico propri dei nuovi «maestri» italiani. Perché tutta quell’attenzione per le «preesistenze» e il contesto non era che un estremo tentativo di ancorarsi a un porto stabile, per sfuggire alla tempesta che rendeva fragile la navicella dell’architettura, priva di fari capaci di illuminare gli iceberg minacciosi delle istituzioni87. Ciò comportava una sorta di fobia per ogni codificazione linguistica: storia, preesistenze e movimento moderno – insegnava Rogers – sono mediabili fra loro solo facendo appello al «metodo», e sia pure al metodo «dell’ortodossia dell’eterodossia»88. Gli echi della communitas vengono cosí assimilati al bacio del principe che ha il potere di riportare alla vita la «bella addormentata», la struttura scenica, cioè, semanticamente neutra, delle avanguardie radicali ed elementariste: il che permette di non precisare i limiti delle lingue usate, mentre il dogma della «continuità» risulta sempre piú compromesso. Eppure, quegli stessi limiti possono essere forzati. È semplicemente questa l’operazione compiuta da Gabetti e Isola, e certo il termine «neoliberty» non rende omaggio al fenomeno. Impalpabile è la storia cui i due torinesi si rivolgono, cosí come impalpabile è quella cui si rivolgono, sulla loro scorta, fra Milano e Novara, Vittorio Gregotti, Gae Aulenti, Guido Canella89. Ciò che sembra accomunare gli sforzi di tale generazione è una rivolta contro i «padri», colpevoli di aver trasmesso illusioni duramente scontate e di cui si ostinano a celebrare la «continuità». La borghesia che avrebbe dovuto rac-

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cogliere l’ascetico messaggio del purismo e delle avanguardie ha dimostrato di non saper che fare delle diete spirituali proposte. Meglio disegnare per essa, riconoscendola vittoriosa su ogni utopia illuminista, «poltrone per piangere», come faranno Gregotti, Meneghetti e Stoppino – la «poltrona Cavour» del 1959 – richiamandosi a fluenze timidamente memori del coup de fouet vandeveldiano, o mettersi alla scuola di un padre antico come Alessandro Antonelli, alternativo a Labrouste o Baltard, per dar vita ad opere artigianalmente curate, come il nucleo residenziale operaio della Bassi a Cameri (1956), del medesimo studio novarese. Il quale eleggerà Perret come riferimento d’occasione per leggervi una décadence coniugabile alle brumose atmosfere della «triste Torino», in polemica con la lettura canonica fatta nel ’55 da Rogers dello stesso Perret90: ne sortirà il palazzo per uffici nel centro storico di Novara (195960), omaggio involontario alla tematica delle «preesistenze ambientali». Nel frattempo, i saggi di Canella sulla «scuola di Amsterdam» e su Dudok, come quelli di Gregotti e Aldo Rossi su Antonelli (piú tardi, sarà finalmente rivalutato il «Novecento» milanese, da Muzio a de Finetti non sottacendo l’apporto di Aldo Andreani), mutano la ricerca sulla «preistoria del nuovo»91. Non si tratta piú, come per la rubrica della rivista di Zevi, «Eredità dell’8oo», di annettere piú vaste zone del recente passato all’anticamera di un mitico «movimento moderno». La storia viene ora spezzata in tronconi discontinui, viene costruita come sistema discreto, prelevando da essa campioni in ragione di esplorazioni introspettive. Tale fenomeno non è esclusivo della cultura architettonica. È sintomatico che proprio fra il ’54 e il ’57 registi cinematografici come Fellini e Antonioni facciano slittare il linguaggio neorealista verso tonalità intimiste o lo pieghino a descrivere il risultato di un con-

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nubio fra esplorazione del profondo e dimensioni oniriche. Né è poco significativo che se nella Strada o nell’Avventura le vicende vengono sospese in spazi astorici, nella Dolce vita o nella Notte l’alienazione del soggetto incontra l’alienazione metropolitana. E che quell’alienazione fosse letta con occhi idealistici o messa in scena alludendo a dimensioni fenomenologiche non intacca la sostanza del nostro discorso. Aver insistito sulle componenti autobiografiche presenti nella poetica neorealista ci permette ora di leggere una continuità fra le esperienze che la caratterizzano e quelle tese a un suo superamento. In ballo è sempre una ricerca di identità, un interrogativo circa la propria funzione, cui si risponde con scavi nella soggettività tesi a ritrovare il cordone ombelicale che lega l’infelice savant alla collettività. Gli strumenti scelti per operare quegli scavi sono a loro volta rivelatori: essi parlano di una solitudine ormai accettata, di un’incertezza sul proprio essere sociale che appare l’unico discorso degno di venire comunicato. Le componenti irrazionaliste, specie da parte degli architetti, sono severamente controllate. Eppure, la querelle riesce a scuotere l’ambiente internazionale. Come si è ricordato, Banham tuona nel ’59 contro lo «storicismo italiano» accusato di tradimento92: nella condanna vengono accomunati sia i giovani che nel ’6o bruceranno le loro velleità nella mostra «Nuovi disegni per il mobile italiano», allestita da Gae Aulenti e Guido Canella93, sia i loro «padri» immediati. Né basta. Rogers, Gardella e Giancarlo De Carlo vengono duramente attaccati per la Velasca, la casa alle Zattere e le case materane, al convegno di Otterlo: il solo De Carlo riuscirà a riscattare le accuse di deviazionismo riaffermando la spregiudicatezza del suo impegno antiformalista – uno dei motivi che lo avevano condotto a uscire polemicamente dal gruppo dei dirigenti di «Casabella» – aderendo alle ricerche e alle iniziative del Team X.

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In difesa delle posizioni «neoliberty» interviene nel ’58 Paolo Portoghesi, con un articolo su «Comunità» che costituisce un primo bilancio delle ricerche italiane legate all’enunciazione autobiografica e al recupero di umanesimi disalienanti: non a caso, il saggio si intitola Dal neorealismo al neoliberty94. L’intervento portoghesiano tende in realtà a costruire una koiné là dov’è una disseminazione tutt’altro che sedimentata di interessi, con un chiaro risvolto autogiustificativo. Il recupero della dimensione storica, infatti, gioca per Portoghesi un ruolo ben diverso da quello, allusivo e sommesso, degli ambienti piemontese e lombardo. Concentrato dapprima nell’analisi filologica e critica dell’opera borrominiana, letta come paradigma di una sofferta condizione umana collimante con un’ambiguità che è parte del genius loci romano, poi in quella dell’architettura dell’eclettismo ottocentesco, Portoghesi non rinuncia a tradurre in progetti il bagno nel passato da lui quotidianamente esperito. Base teorica è una critica alle condizioni del «cattivo moderno» e alla notte della reificazione, inizialmente agganciata alle filosofie del progressismo cattolico95. Ne escono prodotti che dell’ibrido fanno la loro ragione d’essere: le modulazioni neobarocche di Villa Baldi a Roma (196o-1962), in tal senso, vanno ben al di là del programmatico e rarefatto monumentalismo del progetto presentato dallo stesso Portoghesi, con Gianfranco Caniggia e Paolo Marconi, al concorso per la Biblioteca Nazionale di Roma, preludendo a una «maniera» orgogliosa delle proprie involuzioni. Il canto di vittoria sulle «inibizioni dell’architettura moderna» viene intonato in falsetto e su una partitura trascritta da qualcuno che ha scambiato per giochi grafici le notazioni musicali96. Sarà però bene mettere da parte ogni moralismo nel tentare di valutare il nuovo interesse per l’accademia,

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nel senso piú genuino del termine, serpeggiante fra le nuove generazioni alla fine degli anni cinquanta. Accademia significa trasmissibilità e perfezionabilità delle esperienze contro il dilettantismo – anche didattico – imperante; significa fedeltà a codici rigorosi cui attenersi contro ogni stucchevole empirismo; significa rivendicare per la cultura cattolica – da cui in gran parte quegli stimoli erano vissuti – un nuovo ruolo contro il lassismo etico imperante. In fondo, i giovani neoeclettici e i sostenitori di una continuità senza residui con le mitologie pevsneriane – pensiamo a Leonardo Benevolo – aspiravano a una medesima etica. Certo, si tratta di diverse accezioni di essa: ma l’arma da usare contro l’assalto ben programmato di forze permeate di volgarità è, ancora una volta, l’appello moralistico. È Saverio Muratori a farsi interprete delle istanze rigoriste e della «critica al moderno» serpeggianti come antidoto al disordinato dibattito in corso. La lezione del neoclassicismo scandinavo cui, insieme a Fariello e a Quaroni, Muratori era ricorso nell’anteguerra nei progetti per la piazza imperiale dell’E42 lascia una traccia significativa in lui; lo strutturalismo severo dei suoi progetti per l’Auditorium romano e per il quartiere Tuscolano I è solo una premessa per una ricerca di leggi oggettive che guidino il comporre, partendo da dati dislocati su diverse aree tematiche. Un’acuta percezione della «crisi dei valori» è nel pensiero di Muratori: la sua critica al moderno «smarrimento», al relativismo, all’effimero, tende a ricostruire l’infranto appellandosi a leggi certe, ritrovate spezzando soggettivamente l’«oblio dell’Essere» e vincendo la malattia che ha generato le attuali «dissociazioni». La crisi, dunque, non va attraversata, ma esorcizzata, per Muratori97. Non la storia, bensí ciò che in essa appare resistente al mutamento viene invocato: da un lato, è la ricerca di forme adeguate a materiali dotati di interna coerenza – muratura cupola-

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ta o voltata –; dall’altro, la ricerca di sicurezze derivanti dall’analisi delle strutture urbane. Indubbiamente, l’analisi urbana, come si è sviluppata in Italia dagli anni sessanta in poi, è debitrice agli studi muratoriani su Venezia e Roma98. Quegli studi, d’altra parte, spostavano gli interessi sulla struttura dei tessuti antichi, rendendo anacronistico il dibattito sulle «preesistenze» e dando diverso spessore al tema stesso dei centri storici. È piuttosto il passaggio non dialettico di Muratori dall’analisi al progetto a inquinare il suo apporto: la sua polemica contro il soggettivismo e «l’esilità del moderno» – Fahrenkamp versus Mies – sfocia in un organismo indubbiamente pregevole, come la sede dell’Enpas a Bologna (1957), ma anche nel mediocre risultato della sede centrale della Democrazia cristiana all’Eur (1955-58), pago del suo polemico anacronismo. Non a caso, le prime rivolte studentesche nelle facoltà di architettura si rivolgono contro la didattica di Muratori a Roma, scelta come punto debole di un’istituzione sorda alle più vive istanze del momento. Rimane il fatto che il ricorso alla storia si risolve comunque in ricerca di assoluti, opposti all’urgere di forze disgreganti o in omaggio a una speranza di palingenesi. L’appello alla totalità nasconde dissimulate nostalgie per un lavoro intellettuale svolto in forma rituale e con panni sacerdotali. Ciò è vero, nonostante le apparenze, persino per la travagliata storia della pianificazione urbanistica di quegli anni. Se Quaroni, come s’è visto, cerca in complessi e sempre nuovi modi di intervento punti di attacco alle realtà delle città e dei territori non fossilizzati in schemi a priori, Luigi Piccinato e Giovanni Astengo consolidano una disciplina che si rivela sempre piú inoperante, ma dotata di modelli divenuti canonici e di tecniche di analisi non prive di raffinatezza. La pianificazione regionale, ufficialmente varata nel ’52, auspice il mini-

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stro dei lavori pubblici Salvatore Aldisio in concomitanza con il congresso dell’Inu dedicato a quel tema, vede Astengo impegnato nella redazione dei due volumi dei Criteri di indirizzo, ricchi di indicazioni metodologiche. Ma il «buongoverno» del territorio evocato con l’immagine dell’affresco senese del Lorenzetti è solo un sogno per philosophes. Gli studi per i piani della Campania, del Piemonte, della Lombardia, del Veneto, rimangono, in assenza di leggi sull’uso del suolo, di istituzioni responsabili e di reali volontà politiche, pure esercitazioni99. All’urbanistica scientifica auspicata da Astengo non rimane che ripiegare sulla scala dei piccoli comuni ricchi di memorie storiche; ma proprio ad Assisi, Astengo sperimenterà una delle sue piú brucianti sconfitte. Né, per suo conto, il «modello» ripetuto da Piccinato nei piani regolatori di Matera, l’Aquila, Padova, Siena, Benevento, Carrara, avrà maggior fortuna. Non si tratta solo di carenze dovute all’eccessiva compiutezza di quel modello. L’urbanistica di Piccinato ha una sua coerenza anche al di là di esso: l’individuazione di assi preferenziali, la collocazione di nuclei direzionali alternativi al cuore storico, la tecnica dello zoning interpretano le possibilità offerte dalla legge del ’42 portando a compimento l’opera dei «padri» della disciplina. (E non si tratta solo di Stübben o Eberstadt, ma anche del Piacentini della proposta per Roma del 1916). Ma è l’ipotesi economica su cui la disciplina stessa è fondata a renderla esornativa; per comprenderlo, saranno necessarie analisi storiche disincantate, impensabili nel clima da crociata in cui si muove l’urbanistica in Italia negli anni cinquanta. Un clima in cui l’uso del termine «pianificazione» è già guardato con sospetto e la cui misura è offerta dalla travagliata vicenda del piano regolatore di Roma100. La decisione relativa al varo di un nuovo piano per la capitale viene presa nel 1954, dopo una relazione del-

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l’assessore liberale Storoni tenuta nel dicembre del ’53 in Campidoglio, che segue le linee tracciate appositamente dalla sezione laziale dell’Inu: le campagne della stampa progressista contro la speculazione edilizia e la corruzione amministrativa sembrano sul punto di produrre effetti concreti di vasta portata, e la cultura romana coglie l’occasione per coalizzarsi in una battaglia di lungo respiro. Mentre la sezione laziale dell’Inu funge da organismo di pressione e la popolazione – fino al livello delle scuole superiori – è sensibilizzata sempre piú al problema, la Grande Commissione per il piano procede fra compromessi e confusioni di competenze e il Cet – il Comitato di esecuzione tecnica in cui spiccano le personalità di Quaroni e di Piccinato101 – elabora uno schema che diviene subito oggetto di polemiche e di studi. Il piano del Cet rappresenta, insieme, una summa della modellistica corrente e un’ipotesi decisamente innovativa. Il tema della salvaguardia del centro storico attraverso un’espansione unidirezionale e lo spostamento in zone cerniera delle strutture terziarie si cala nella realtà romana concentrandosi in un’«invenzione» urbanistica decisiva: le zone di espansione orientali si saldano al territorio e al nucleo storico attraverso una struttura direzionale attestata su un asse attrezzato e sui tre poli di Pietralata, di Centocelle, dell’Eur. Il disegno convenzionale dello zoning e l’imprecisato rapporto residenza-lavoro costituiscono i limiti dello schema: che nella situazione data, tuttavia, caratterizzata dall’assenza di piani economici o di semplici prospettive di industrializzazione proiettabili nello spazio, rimane il piú avanzato prodotto della cultura urbanistica italiana di quegli anni. La semplice prospettiva di un piano è comunque sufficiente a coalizzare le forze della grande e piccola speculazione, insieme alle loro espressioni politiche e culturali. Con argomentazioni pretestuose – l’assenza di un

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piano intercomunale – l’elaborato del Cet viene accantonato, e dopo faticose polemiche, nel giugno del ’59, l’amministrazione comunale adotta il «piano della giunta», un documento sostanzialmente rispecchiante i desiderata dei costruttori e dei proprietari terrieri. Quaroni, che in verità aveva mostrato scetticismo sin dalle prime battute della vicenda, considerando immaturo il clima per una reale pianificazione, rifletterà la sofferta delusione di larga parte dell’intelligencija romana in un saggio magistrale, Una città eterna: quattro lezioni da 27 secoli102. Ma la vicenda del piano di Roma non si svolge senza conseguenze storiche indirette. Anzitutto, rimane assodato che lo stesso strumento del piano è un’arma spuntata: e non solo per difetto di una volontà politica che lo sostenga o di un appoggio di massa. Il suo intervento restrittivo in un solo settore di un singolo settore economico – l’uso del suolo – non giustifica le speranze tese a diversi assetti sociali e produttivi, accumulate su di esso da una cultura troppo attenta ai propri tradizionali strumenti e ora venuta a confronto con interessi ancora nevralgici per lo sviluppo capitalista. Per poter offrire ai partiti politici contributi realmente tecnici, è necessario entrare direttamente nel «gioco» e trasformare, con esso, la propria attrezzatura culturale. Ma il dibattito quotidiano sul piano ha anche reso familiare all’opinione pubblica il tema del futuro urbano. La denuncia non appartiene piú solo alle colonne del «Mondo», dell’«Espresso», del «Contemporaneo» o ai quotidiani dei partiti di sinistra: di là a poco, la speculazione urbanistica napoletana verrà descritta da Rosi per il pubblico cinematografico in Mani sulla città. Mentre l’Inu si appresta a sferrare la sua ultima grande provocazione in quanto organismo indipendente, con il Codice dell’urbanistica, l’urbanistica italiana, in possesso della piú bella rivista internazionale specializzata, si vede costretta a ripiegare su posizioni di denuncia.

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Nel frattempo, sul versante architettonico, emergono sporadicamente ipotesi che sottintendono nuovi approcci alla definizione della forma urbana. Parallelamente alle tendenze storiciste e intimiste, si sviluppa infatti una tendenza che viene subito definita «neorazionalista», mentre sollecitazioni linguistiche provenienti dalle ricerche piú sperimentali e meno «ortodosse» iniziano a distaccare il problema della scrittura architettonica da quello dei suoi referenti. È un concorso a fungere da catalizzatore per forze che si dispongono in campo con insegne mutate. Nel 1957, al concorso per la nuova Biblioteca Nazionale di Roma, localizzata nell’area del Castro Pretorio, non risultano presenti né i Bpr, né Albini, né Gardella, né Quaroni, né i revisionisti settentrionali: piú giovani energie si impegnano, insieme a quell’eterno fanciullo che è Giuseppe Samonà, ad interpretare l’occasione del concorso come stimolo per una revisione delle acquisizioni divenute incerte o addirittura come pretesto per una dichiarazione programmatica103. Le proposte dei gruppi emergenti si fronteggiano sdegnosamente. I progetti dei gruppi Benevolo-Giura Longo-Melograni e del gruppo Manieri-Nicoletti (consulente Giuseppe Vaccaro) sono radicali nella loro decisa ripresa del metodo e degli stilemi di un International Style ripercorso criticamente: nel ’58, tale affermazione di continuità ortodossa suona polemica, colpendo sia le tendenze storiciste – documentate, peraltro, da alcuni elaborati presentati al medesimo concorso – sia i revisionismi piú cauti, sia la tradizione neorealista. Si tratta di un’operazione che travalica la qualità dei singoli progetti: rispetto all’anonimato cui si consacra l’afono progetto vincente del gruppo Vitellozzi-Castellazzi, la tradizione rivendicata in particolare da Benevolo, Giura Longo e Melograni appare portatrice di un metodo adeguato a un’Italia che si va inserendo nel consesso economico internazionale e che di

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conseguenza non può permettersi di vedere disperse le proprie energie in ricerche marginali. Per Benevolo, in particolare, si tratta anche dell’annuncio di una svolta autocritica: il populismo dei suoi primi progetti – come quello presentato al concorso per il quartiere Torre Spagnola a Matera – è qui sconfessato; la linea che lo condurrà a disegnare la sua Storia dell’architettura moderna, negli anni immediatamente successivi, è già tracciata con sicurezza. Una linea, tuttavia, che non può apparire che riduttiva a chi, come Samonà, considera la stessa architettura moderna come un vasto coacervo di problemi tutti lasciati aperti e quindi tutti degni di riflessione, al di fuori di ogni visione «prospettica». Nel 1953-58, Samonà aveva sapientemente assunto come materiale del comporre lo strutturalismo di Perret, nei blocchi della Palazzata di Messina, e aveva dimostrato che nessuna «oggettività» era in quel «materiale», da lui manipolato con severità non priva di enfasi. Ma l’unità raggiunta attraverso la scomposizione degli elementi era già stata da lui sperimentata, insieme a Egle Trincanato, nella sede dell’Inail del 1950-56 presso San Simeone a Venezia, con una fraseologia fatta di frammenti e di divertite grafie104. La sapienza del compositore è nella sua capacità di «commentare», di completare e di chiosare una stilistica, ma anche di completare e commentare un sito urbano. Nel progetto di Samonà per la Biblioteca Nazionale di Roma il tema di fondo è immutato, anche se cambiato risulta il modello di riferimento. Ora, è il linguaggio materico e monumentale dell’ultimo Le Corbusier ad essere rivisitato; ma si tratta solo di un codice assunto sotto condizione, di un pretesto usato per dichiarare la necessità di una maestria «classica», per uscire da un dibattito divenuto angusto e che rischia di compiacersi del proprio provincialismo. La sicurezza con cui la fraseologia lecorbusieriana viene ricomposta

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da Samonà in una austera struttura binaria – una L alta, legata diagonalmente a una piastra tormentata da segni ermetici – rimane a ricordare una delle tante occasioni mancate dell’architettura italiana del dopoguerra, ma è anche la ragione dell’isolamento di questa esperienza. Al metodo propugnato da Benevolo, Samonà risponde con la pregnanza della lingua, della «parola piena»: troppo piena per essere compresa nei suoi significati trasmissibili in quegli anni, eppure profetica di un clima che avrà bisogno di sollecitazioni internazionali à la page per affermarsi. Non un risultato, bensí un acerbo ma denso manifesto programmatico presenta invece Carlo Aymonino. Anche Aymonino è alla ricerca di una via d’uscita dalle secche del realismo impoverito che aveva caratterizzato la sua precedente esperienza professionale; anch’egli ripercorre la storia dell’architettura moderna alla ricerca di referenti che parlino di una complessità che non escluda valenze simboliche; anch’egli è disposto a intraprendere, momentaneamente, un’operazione di rilettura. La polivalenza del segno e la componibilità degli spazi: in Aalto, Aymonino cerca una fonte per una scrittura fatta di accumulazioni e di scatti insofferenti; significativo è che alla fine del suo percorso egli incontri le edulcorate aggregazioni di Willem Marinus Dudok105. Chiaramente provvisorio è il dualismo della Biblioteca Nazionale aymoniniana, che comunque, alla pubblicazione dei risultati del concorso, appare come una novità carica di promesse, e certo fra le piú inattese. Che la poetica complessità abbracciata da Aymonino avesse le sue radici proprio nel neorealismo implicitamente sconfessato era invece, all’epoca, piú difficile da cogliere. Eppure, persino la ricerca di organismi che in qualche modo assumono su di sé la polisemia urbana, e che nella città si pongano come variabili legate a una tematica morfologica – tema che caratterizza da ora in poi l’o-

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pera di Aymonino – trova nell’esperienza del Tiburtino una lontana origine. Nei progetti per l’Istituto tecnico industriale di Lecce e per quello di Brindisi, nel condominio in via Arbia (196o-61), e nell’intensivo di via Anagni a Roma (1962-63), Aymonino metterà a punto il suo lessico fatto di affabulazioni: ma le ricerche alla scala edilizia sono per lui solo esperimenti in vitro, momenti minimi di un’elaborazione che attende di potersi confrontare con la scala urbana. Del resto, il recupero del valore rappresentativo dell’immagine è una tentazione costante per l’architettura italiana alla fine degli anni cinquanta. Essa è presente a Milano nell’opera di Vico Magistretti, professionista abile e capace di modulare inquiete aggregazioni volumetriche, come nell’edificio della Società «L’Abeille» (con G. Veneziani, 1959-6o), domina l’Istituto Marchiondi Spagliardi a Milano Baggio di Vittoriano Viganò (1953-57), subito salutato come esempio di «brutalismo» parallelo a quello giapponese e di derivazione lecorbusieriana106, con piú superficialità, informa l’opera di Caccia-Dominioni107 e rende pensosa quella di Figini e Pollini – pensiamo non solo alla chiesa della Madonna dei Poveri a Milano (1952-54), ma anche alla casa di via Circo (1954-57) – viene magistralmente coniugato da Gino Valle a una poetica capace di superare l’oggettivismo di Mangiarotti o l’eleganza astratta di Marco Zanuso108. Anche Valle è impegnato in revisioni linguistiche risolte in etimi di sapore costruttivista109. La sua collocazione geograficamente periferica, ma in presa diretta con una committenza concreta, lo allontana dalle ideologie imperanti ma anche dalla voga autobiografica. L’alto professionismo da lui mostrato nel condominio di via Marinoni a Udine (1958196o), nel monumento alla Resistenza nella stessa città (progetto di concorso del 1958, realizzazione del 1967-69), nel condominio in via San

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Francesco a Trieste (1955-57), introduce a un’opera – gli uffici della Zanussi a Porcia (Pordenone), del 1959-61 – che lo impone all’attenzione internazionale. L’immagine dell’industria è qui offerta nella sua polivalenza: le aggettivazioni strutturaliste parlano della qualità possibile del lavoro industriale, ne traducono la realtà in serena narrazione formale. Ai tormentati appelli dell’alta cultura architettonica italiana, Valle risponde con un antintellettualismo pago del proprio corretto e sicuro inserimento nel mondo della produzione: gli uffici della Zanussi preludono cosí a una ricerca che si continuerà senza scosse fino ad oggi, tesa a pervenire a una realistica conoscenza delle capacità di incidenza della progettazione su una realtà industriale ridotta all’immediato. Negli anni cinquanta, all’interno di un dibattito preoccupato di definire le aree in cui il valore della testimonianza può dissipare le nebbie dell’alienazione, l’opera di Valle appare coraggiosa. La tensione che informa l’organismo e le soluzioni di dettaglio degli uffici Zanussi accetta una tradizione che è al contrario dissipata dalla piatta esercitazione di Melchiorre Bega per il grattacielo Galfa a Milano (1958), ma anche da quella, piú pretenziosa ma ugualmente vuota, del grattacielo Pirelli di Ponti, Fornaroli e Rosselli (1955-58). Eppure, l’edificio di Valle è confinato come oggetto per visite di architetti nella provincia veneta, e le opere di Gio Ponti e Melchiorre Bega dànno forma al nuovo organismo terziario milanese: i loro abiti internazionali sono in sintonia con il bisogno di sicurezza che i ceti dirigenti dell’Italia del «miracolo» contrappongono ai sussulti della coscienza alto-borghese espressi dalla Torre Velasca. Quel bisogno di sicurezza, peraltro, non è estraneo a vaste fasce della cultura architettonica. In tal senso, il «ricorso a Bakema» avvertibile nell’Istituto di farmacologia alla Città Universitaria romana, di Dall’Olio e

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Lambertucci (1957-6o), vale l’esperanto efficientista del terso volume degli uffici in via Torino a Roma di Libera, Calini e Montuori (1956-1958)110: il formulario «internazionale», manipolato peraltro con sicurezza da architetti del calibro di Libera e Moretti, associati per l’occasione a Vittorio Cafiero, Amedeo Luccichenti e Vincenzo Monaco, dà contemporaneamente vita al Villaggio Olimpico a Roma (1957-6o), in una zona arricchita dalla presenza dello Stadio Flaminio e del Palazzetto dello Sport di Vitellozzi e Pier Luigi Nervi111. Il complesso olimpico rimane fra i pochi interventi della fine degli anni cinquanta nella capitale dotato di una sua dignità: i lunghi blocchi arcuati definiscono un paesaggio urbano capace ora di recuperare i valori della strada ora di affermare una poetica dell’indeterminato qui esente dagli eccessi retorici che caratterizzano alcune delle contemporanee e successive opere di Moretti, come la palazzina a Monte Mario (1961-62) o il complesso residenziale Watergate a Washington (1959-61). Rimane però il fatto che il quartiere al Flaminio è un frammento della «Roma delle Olimpiadi»: di una colossale operazione speculativa, cioè, innestata sull’evento sportivo e alternativa a una sia pur minimale razionalizzazione dello sviluppo urbano112. Il professionismo romano è dunque capace di ribattere positivamente alla problematicità di un’alta cultura che non nasconde il proprio disorientamento, e proprio a proposito del nesso disciplina-politica che essa rivendica come proprio. Sulle pagine di «Casabella» il dibattito si sposta sul terreno della storia, mentre si inizia a prendere in considerazione con occhi nuovi la ricerca extraeuropea; ma anche quel dibattito appare ora limitato, compromesso da un élitismo improduttivo. L’insofferenza si manifesterà ben presto con tentativi destinati a breve vita, che vedono alcuni esponenti delle nuovissime generazioni riunirsi intorno a nuove riviste

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come «Superfici» o «Argomenti di Architettura», e giovani architetti raccogliersi nella Società di architettura e urbanistica (Sau). Piú che come gruppo di tendenza, la Sau si pone, dal ’57 al ’63, come un’eclettica associazione di moralisti alla ricerca di un’ideologia. Solo un generico moralismo, infatti, poteva riunire architetti come Benevolo, Aymonino, Valori, Giuseppe Campos-Venuti, Melograni, Vittoria, Bruschi, Manieri, Moroni, Insolera. L’insistenza sui problemi di metodo e sull’«impegno» all’interno dei grandi problemi posti dalla realtà italiana forma un curioso contrasto con i prodotti di quegli architetti, attestati – a meno di poche eccezioni – su formule minimali e pronti a dissolvere il gruppo ai primi impatti con la politica concreta113. Al tentativo «di gruppo» della Sau risponde, nel ’59, l’iniziativa «in grande» di Zevi, che dichiara finita l’epoca dei cenacoli di tendenza e si fa promotore dell’Inarch. Produttori, architetti, tecnici dell’edilizia a tutte le scale, imprenditori sono chiamati a collaborare all’interno di un organismo nazionale: al limite, a far scontrare in una sede unitaria i loro opposti interessi. L’accusa di corporativismo è sdegnosamente respinta da Zevi, che sottolinea la funzione dialettica che l’incontro organizzato di forze comunque destinate a comporsi fra loro può esercitare114. L’Inarch non agirà con le tensioni che avevano caratterizzato la vita dell’Inu, e i grandi obiettivi auspicati da Zevi nel suo discorso di promozione rimarranno in gran parte inevasi. Ma anche la formazione dell’Inarch va registrata come un sintomo delle confuse aspirazioni della fine degli anni cinquanta: né se ne comprenderebbero le ragioni storiche sottovalutando che di lí a poco il dibattito sulla formula politica del centro-sinistra dilanierà i grandi partiti italiani e provocherà aggiustamenti e ridimensionamenti nell’intero schieramento culturale.

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È condizionata da tale clima che viene alla luce, nel 196o, la Storia dell’architettura moderna, di Leonardo Benevolo. Far chiarezza a costo di semplificare con noncuranza, e tracciare una linea coerente e progressiva che attraversi sicura la «tradizione del nuovo» sono al centro del progetto storico benevoliano: il Modern Movement teorizzato nel ’36 da Pevsner diviene qui un solido edificio, alla cui ombra ansie e inquietudini possono trovare riposo e appagamento. Rassicuranti anche gli esiti scelti come exempla nelle pagine finali: schiacciata l’allucinante testimonianza dell’ultimo Mies in una lettura inesorabilmente riduttiva, considerati con scettica compunzione i «furori» di Le Corbusier e di Wright anni cinquanta-sessanta, «attuali» risultano – come continuatori della giganteggiante ortodossia gropiusiana – Bakema e Van den Broek e Arne Jacobsen. Ma ciò che interessa Benevolo non è la contrapposizione di una lingua a un’altra. Anzi, il suo sforzo è dimostrare che il movimento moderno nasce e si sviluppa come progetto di complessiva ricollocazione delle attività umane in un contesto che ha come obiettivo la riforma della vita associata nelle sue varie espressioni e alle sue diverse scale. In definitiva, la Storia benevoliana si colloca, nel 196o, come una sorta di diga contro i deviazionismi, ma anche come un rappel à l’ordre, oltre che come summa tranquillizzante. Vaghi sono sia il sociologismo che l’interpretazione della politica che informano l’opera di Benevolo. Ciò che per lui conta è che, alle soglie di una nuova fase storica delle trasformazioni del paese, gli architetti possano ritenersi sciolti dalle ipoteche figurative che Zevi, Rogers o i revivalisti fanno pesare su di loro: il metodo benevoliano è assai piú erede del riduzionismo postneorealista di quanto non apparisse al momento. Tuttavia, la revisione storiografica di Benevolo, tesa anch’essa a individuare radici politiche nei

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modelli di lavoro intellettuale, appare decisamente in ritardo. Il suo ottimismo, a distanza di nove anni dalla tormentata lettura compiuta da Argan del Gropius di Weimar, riflette una posizione di difesa. Neanche un’opera indubbiamente di alta qualità, come la nuova sede della Rinascente realizzata da Albini e Franca Helg in piazza Fiume a Roma (196o-61) appare però in sintonia con i nuovi problemi115. Nel passaggio dal primo progetto (1957-59) all’esecuzione, la «macchina» albiniana subisce un sensibile calo di tensione: una struttura in ferro sapientemente denunciata contro un volume totalmente cieco è sostituita da un’increspata cortina di cemento inerte color rosa, incisa dal reticolo strutturale e interrotta, verso la piazza, da un troppo gradevole finestrone. Come oggetto che voglia ostentare la propria reificazione, la Rinascente è eccessivamente colloquiale con l’intorno urbano; come sperimentazione sulla tematica delle «preesistenze», essa si mostra troppo spaesata. L’equilibrio raggiunto con l’edificio dell’Ina parmense si è rotto. La Rinascente di Albini e Helg rende palese che quel tema si è esaurito, insieme alle motivazioni che ad esso facevano da supporto. Ad altre dimensioni il problema del colloquio con le strutture esistenti va ora posto: una linea alternativa inizia a profilarsi dalle analisi sulla forma fisica della città e del territorio che si sviluppano all’interno dell’Inu, senza integrarsi, se non verbalmente, alla consueta attività di denuncia o all’individuazione di canali burocratici di intervento. Si badi bene: spesso tale linea alternativa è battuta dai medesimi protagonisti dell’architettura come autoriflessione, mantenendo come obiettivo di fondo il raggiungimento di «parole piene» nelle tecniche di intervento sulla città e sul territorio inconsciamente parallelo alla ricerca di parole piene nel settore dell’oggetto. Singolare coincidenza, questa, che non tarderà a pro-

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durre i suoi effetti nel tentativo di ricongiungere le due scale operative attraverso l’invenzione di una soluzione di continuità funzionante come magnete ricoagulante forze in divaricazione. Non è certo casuale che nella tavola rotonda del Convegno di Lecce dell’Inu116 (1959), Giancarlo De Carlo, Piero Moroni, Quaroni e Eduardo Vittoria concordino nel ritenere usurato il termine «urbanistica», ma solo per ricomprenderne i significati nel termine «architettura». Eppure, dopo aver in tal modo operato una sintesi artificiale, da essa si riparte per riempirla di senso, travalicando ogni limitazione di scala e ogni tecnica di comunicazione. Protetta da una parola, la volontà di potenza è libera di spaziare nel terreno magico della «città-regione»: coniando termini, il controllo sognato si estende alle nuove dimensioni sollecitate dalla scoperta dell’implosion creata dai mass media, dal «progresso tecnologico, dall’assenza di limiti che i mutamenti di scala nella vita e nella scena urbana» sembrano introdurre. Di nuovo, l’intellettuale tenta di riconoscersi entrando in una stanza dagli specchi ricurvi e descrivendo lo shock provato di fronte all’immagine che ne risulta. Non si tratta più della stanza dolorante della realtà contadina e meridionale, ma del soggiorno metafisico e tecnologicamente iperattrezzato installato in un ipotetico missile: il «paese dei barocchi» viene abbandonato a favore di un viaggio nel territorio delle «città invisibili». Nel medesimo 1959, un volume di Giuseppe Samonà, L’urbanistica e l’avvenire delle città europee, apre anch’esso, con maggior riflessività, il tema della scala extraurbana: gli esempi della Greater London e dei grands ensembles francesi sono assunti a pretesto di una lettura della forma fisica dell’ambiente che allude a profondi ridimensionamenti disciplinari. Due elementi emergono da tale complesso di fermenti: da un lato, l’accen-

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to si sposta sul visibile; dall’altro, ciò che è messo in crisi è l’urbanistica come «modello», con un inconsapevole recupero di tematiche «regionaliste». Crisi del modello, comunque, senza referenti istituzionali: la critica alla «città come forma» o alla poetica del quartiere lascia libera la valenza politica che in qualche modo era contenuta (o compressa) in quegli strumenti operativi. Operazione duplice, dunque, quella che si compie allo scadere degli anni cinquanta. Azzerando, almeno teoricamente, l’usurata relazione piano-istituzioni, si fa emergere il problema di nuovi soggetti e nuove tecniche per nuove istituzioni; riconvogliando immediatamente il tema emerso nell’alveo rassicurante della «volontà di forma», si impedisce al problema stesso di esplodere. Le istanze avanzate nel corso della tavola rotonda di Lecce hanno piuttosto modo di esprimersi in occasione di un ulteriore concorso, destinato, come i molti altri che segnano le tappe della nostra storia, a divenire una pietra miliare per il dibattito culturale, risolvendosi in un nulla di fatto dal punto di vista realizzativo. Nello stesso 1959, infatti, gli urbanisti italiani giungono puntuali all’appuntamento fissato loro dal concorso per un quartiere Cep alle Barene di San Giuliano (Mestre), in una zona prospicente la Venezia lagunare117. È il progetto del gruppo diretto da Quaroni a sollevare un dibattito di ampie ripercussioni. In effetti, quel progetto segna una tappa decisiva per la cultura architettonica internazionale: in esso, Quaroni concentra i risultati positivi desunti dal suo incessante criticismo, l’intuizione di inediti metodi progettuali in sintonia con un design a grande scala, una spregiudicata lettura della morfologia storica lagunare, l’attenzione per una comunicazione visiva destinata a un pubblico di massa e polistratificato. L’aleatorietà informe dello zoning e la rigidità formale della definizione architettonica vengono respinti a favore di un town design precisato nella

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trama delle relazioni fra le sue principali componenti e lasciato indeterminato per quanto riguarda la forma delle singole parti. Ma è proprio un’estetica dell’indeterminato che qui Quaroni ricerca. I grandi edifici semicircolari, che si concatenano specchiandosi nella laguna e formando un’enorme cerniera da cui si diparte un tessuto urbano che esplode a raggera verso l’entroterra, alludono alla lezione urbana del tessuto storico veneziano: un’allusione non perseguita tramite rimandi visuali, bensí percepibile a livello strutturale. La polistratificazione della città, l’intersecarsi delle sue immagini polisense, l’eclettismo che l’informa sono accolti da Quaroni in un’organizzazione di segni a grande scala informati a un vitalismo che influenza anche gli strumenti della progettazione: la scoperta dell’immensa ricchezza comunicativa dell’aleatorio si traduce in un «piano-processo», in un’«opera aperta» a livello urbano. Le molte invenzioni tipologiche che Quaroni abbozza per la configurazione dei tessuti da lui connotati informalmente non sono vincolanti; le configurazioni architettoniche vengono liberate dal disegno urbano: ad esse viene restituita una piena autonomia all’interno di uno schema fissato come puro sistema relazionale. Non sono solo l’ideologia del quartiere e la microsociologia che l’accompagnava ad essere definitivamente sepolte dal progetto di Quaroni per il Cep di San Giuliano. L’intera fase sperimentale attraversata dai complessi del secondo settennio Ina-Casa trova in esso una soluzione e un punto di svolta. Una nuova disciplina si fa qui strada, alla cui origine è certo la riflessione quaroniana sulle metropoli statunitensi, ma anche una critica – ben piú profonda di quella poi espressa da Alexander – ad ogni ipotesi di sviluppo urbano per «addizioni conformi»: il manifesto che si fa leggibile in questo progetto non a caso diverrà fondamentale per ricerche tutt’oggi in corso.

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Eppure, lo stesso Quaroni trova difficile dar immediatamente seguito alla difficile svolta impostata. Negli studi e nella soluzione finale del piano di lottizzazione di Lido di Classe a Ravenna (con D’Olivo, Antonino Manzone e Antonio Quistelli), la ricerca iniziata nel ’59 prosegue con risultati originali; ma nel ’62 il progetto del gruppo Quaroni per il centro direzionale di Torino ricade nell’equivoca identificazione della progettazione urbana con un’architettura dilatata. Per piú versi, comunque, il progetto quaroniano per il Cep di San Giuliano apre al nuovo clima degli anni sessanta. Esso appare infatti in un momento in cui si va profilando una nuova realtà agli occhi degli intellettuali italiani: la rapidità della crescita economica e le profonde trasformazioni nella società e nei comportamenti, indotte dalla convulsa urbanizzazione e dal diffondersi delle comunicazioni di massa, provocano la formazione di modelli interpretativi che ben presto spiazzano quelli del decennio precedente. Ai miti neorealisti si sostituiscono ora quelli tecnologici, magari letti attraverso una riconsiderazione del lascito delle avanguardie storiche: non si tratterà quindi della tecnica celebrata trionfalmente da Pier Luigi Nervi nel Palazzo e nel Palazzetto dello Sport a Roma, o nel Palazzo del Lavoro a Torino, né di una semplice assunzione dei nuovi riti dell’affluent society. Si tratta, piuttosto, di nuove ricerche premute, da un lato, da una realtà che sembra travolgere in una corsa sfrenata ogni modello stabilizzato, dall’altro, da una crisi di strumenti che si riflette nelle inquietudini da cui hanno origine i ripensamenti di Libertini e Panzieri, di Franco Fortini, di Elio Vittorini, del «marxismo eterodosso». Un diffuso clima antiideologico si diffonde a partire dai fermenti che provengono da tale coacervo di riflessioni, mentre dalle tesi di Colombo sulla necessità – anche e principalmente per le aree industrializzate del

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Nord – di investimenti produttivi nelle regioni sottosviluppate, e di Saraceno sull’impiego del capitale pubblico per un sistema economico autopropulsivo e tendente al pieno impiego, dalla tendenza dell’imprenditoria piú avanzata a puntare su una crescita della domanda globale, dalle ipotesi sul controllo del mercato da parte dello Stato tramite la pianificazione degli investimenti (nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, 1962), esce un quadro favorevole all’istituzionalizzazione di una politica di piano. L’Inu, presentando nel 196o il proprio progetto di Codice dell’urbanistica compie, in tal senso, un’azione conclusiva e contemporaneamente di apertura: finiti i tempi delle contrapposizioni astratte, sembra ora il momento di aprire un colloquio più articolato con i partiti, e il quadro perfetto del Codice costituirà, per frammenti, l’occasione per alcuni dei piú significativi scontri politici. Ma è un’intera concezione dell’urbanistica a rinnovarsi agli inizi degli anni sessanta. Piú tecniche debbono ora investire il territorio: non si tratta piú dell’invecchiato mito dell’interdisciplinarità, riflesso a sua volta della «repubblica dell’intelletto» olivettiana. La fondazione di organismi di ricerca come l’Istituto lombardo di scienze economiche e sociali (Eses), in cui sono attivi un urbanista come De Carlo e un economista come Sylos-Labini, sposta i termini del colloquio fra le tecniche, rendendo molto più articolato, fra l’altro, il rapporto fra analisi e interventi. Nel ’62, il convegno organizzato dall’Ilses a Stresa fa il punto sulle esperienze internazionali e individua come precipua la tematica della città-regione118. È la fine del «modello», della forma globale da imporre alla dinamica urbana, che viene decretata al Convegno di Stresa. De Carlo, nel chiudere i lavori del Convegno, parla della città-regione come di un insieme di relazioni dinamiche istituite all’interno di una galassia territoriale di insediamenti

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specializzati, resi omogenei da quello stesso arco di interrelazioni. Ed è chiaro che l’intervento su un insieme in continua mutazione non può pretendere di pervenire a una «forma», a meno di non far compiere un salto concettuale a quest’ultima: l’attacco che De Carlo e Quaroni avevano sferrato nel 1954 contro la tradizione urbanistica italiana si rovescia in positiva ipotesi metodologica. Lo stesso piano di Roma appare, alla luce delle nuove considerazioni, sin troppo preoccupato a imporre un impossibile controllo sulla forma complessiva della città. Gli studi per il piano intercomunale di Milano, che vedono attivo, fra gli altri, lo stesso De Carlo, si appellano ancora a uno scheletro formale – un disegno «a turbina», le cui estremità fungono da teste di ponte territoriali per un organismo policentrico – ma solo come supporto per successivi interventi, non tutti «disegnabili»119. Immediatamente, la «grande scala» entra a far parte del bagaglio mitologico della cultura architettonica italiana. Chi pensa di dover aderire all’invito di Vittorini ad appropriarsi della nuova realtà creata dall’universo industriale si avvicina all’automazione e alla cibernetica, o ai modelli dell’economia spaziale, subendo il fascino dell’incontrollabile e proiettando in immagini futuribili le proprie dissimulate emozioni. Rispetto al populismo e al sociologismo degli anni cinquanta, i riferimenti e i modi di approccio risultano mutati, ma non gli atteggiamenti intellettuali. Avviene, cosí, che le aperture provocate dalle analisi dell’Ilses e dai risultati del Convegno di Stresa si compongono con le suggestioni che provengono dai progetti di Kenzo Tange per la baia di Boston e per Tokyo (196o), pubblicati con grande rilievo: «Casabella» vive una nuova stagione, con un susseguirsi di numeri monografici dedicati alla realtà americana, ai centri direzionali, alla «città-territorio», al piano intercomunale milanese, ai grandi concorsi nazionali e

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internazionali. Gli studi del Lynch sulla struttura dei luoghi urbani e sulla loro riconoscibilità si fondono con immagini che provengono da una cultura che elegge la tecnica a feticcio: importante è sacrificare al nuovo totem, non conoscere la realtà in esso sublimata. La febbre per la «grande dimensione» cerca ancora luoghi ove deporre forme. Disperando di poter investire livelli generali, quei luoghi vengono individuati fra i gangli dell’organismo territoriale, letto come struttura in mutamento incessante: di quel campo magnetico si spera di poter definire almeno lo scheletro portante, l’ossatura infrastrutturale e i suoi cervelli. I centri direzionali appaiono come nuclei dirompenti e di coagulo delle forze interagenti nel territorio: i progetti elaborati dagli studenti della facoltà di architettura di Roma nel 1961-62, nel tentativo di definire la struttura direzionale della capitale120 e quelli di architetti come Aymonino, Canella, Quaroni, Samonà, Aldo Rossi per il concorso per il centro direzionale di Torino (1962) cantano le loro apologie al terziario, relazionandosi, come «macchine» cariche di promesse, a una dimensione regionale. La sintesi fra architettura e urbanistica, preconizzata nel ’59 alla tavola rotonda di Lecce, sembra ora trovare il proprio campo di applicazione. Le megastrutture che popolano le riviste di architettura – subito criticate da Ceccarelli come espressioni di un’«urbanistica opulenta»121 – o che, come nel caso del progetto di Aymonino e P. L. Giordani per il centro direzionale di Bologna, rimangono fra le velleità delle amministrazioni comunali italiane, vanno però valutate in quanto sintomi122. Si tenta di progettare ciò che fuoriesce da possibilità previsionali, si tenta di entrare, con lo strumento del disegno, nella cittadella in cui si suppone troneggiare il Potere, si cerca di sottoporre quel luogo sacrale a una forma, in un inconscio esorcismo compensatorio. Se il realismo aveva tentato di unificare la lingua del

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«popolo» e quella dei colti, ora quegli stessi colti cercano di dare una lingua ai nuclei anonimamente pensanti in cui essi – per semplicità – radunano i centri del dominio. Il fenomeno si verifica in Italia con caratteri particolari, ma è diffuso a livello internazionale123. Esso riflette, fra l’altro, un profondo disagio nei confronti dei limiti propri dell’architettura e il trauma per il profilarsi del planning come disciplina del tutto autonoma. Mentre prende piede la nuova «internazionale dell’utopia», quel disagio si manifesta anche in dimensioni piú tradizionali, con gesti di insofferenza accolti come risposte architettoniche alle provocazioni dell’Action Painting: il caso piú clamoroso è quello della chiesa michelucciana all’imbocco dell’autostrada Firenze-Bologna (progetto 1961-62, inaugurazione 1964)124. Con la Chiesa dell’Autostrada, Michelucci dà vita a un singolare tentativo di forzare la logica architettonica, esponendo una vera e propria battaglia fra la materia, dotata di forze prorompenti, e la struttura, piegata alle piú paradossali deformazioni. Non dai sofferti labirinti autobiografici riposti nelle pieghe della cappella di Ronchamp, proviene tale insofferente coacervo di spazi e di oggetti informali, bensí da una sorta di contestazione permanente, vissuta da Michelucci nei confronti dell’imperativo formale. Ancora un luogo che chiama alla partecipazione, che fa appello all’esperienza vissuta e che disdegna la geometria in quanto costrizione. Persino a contatto con la pista della velocità – o proprio perché a contatto con essa – l’architettura cerca di negare la possibilità di un «comporre». Scomposta, la Chiesa dell’Autostrada sembra voler costituire un monito per l’automobilista disattento: non lo obbliga a fermarsi per contemplare, bensí gli presenta un ammasso di materiali violentati per mostrare l’innaturalità del «falso moderno». Il neoespressionismo michelucciano si fa strada

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sperimentando una intera gamma di variazioni su temi informali: un linguaggio fatto di lacerazioni, di membrane, di scavi fiabeschi o onirici, di avvolgenze e di percorsi intrecciati, di materia e di coaguli strutturali è parlato da Michelucci, con sempre maggior coerenza, nella chiesa di Borgomaggiore a San Marino (1961-66), nella chiesa di Longarone (1966-78), forse il capolavoro della sua ultima fase, in quella di San Giovanni Battista ad Arzignano presso Vicenza (1965-67), mentre in una serie di progetti – per le chiese e i centri parrocchiali di Montalbano Jonico e di Sesto Fiorentino, per un memorial michelangiolesco nelle Alpi Apuane, per un complesso termale presso Massa Carrara, per la sistemazione della limonaia di Villa Strozzi a Firenze125 – la dinamica del segno e l’inviluppo delle forme raggiungono un horror vacui di sapore piranesiano. È nei primi anni del ’6o, comunque, che le nuove ricerche di Michelucci informano largamente la «maniera» della scuola fiorentina126. Nel quartiere di Sorgane presso Firenze (1963-66), che solleva una vasta polemica in merito alla sua localizzazione, Leonardo Ricci e Leonardo Savioli traducono, per vie indipendenti, il «furor» michelucciano in brutalismo strutturale: il lungo blocco residenziale di Ricci scardina con impazienza i nessi sintattici alla ricerca di un rinnovamento tipologico, mentre Savioli, nella casa in via Piagentina a Firenze (1964), progettata con Danilo Santi, gioca su escrescenze materiche, su enfatizzazioni oggettuali, su paradossi formali. Il tutto viene portato all’eccesso da Ricci nel progetto per il Villaggio degli ulivi a Riesi, in Sicilia (1963): qui inospitali caverne si aprono come fossili di animali preistorici, a mimare un «assoluto naturale» memore delle organiche amebe di Finsterlin, ma anche degli habitacles di André Bloc o dell’approdo gestuale di Fredrick Kiesler. Dietro tanta ansia di pienezza semantica sono stimoli culturali diretti: la rimeditazione sulla stagione espres-

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sionista, anzitutto, ma anche la volontà di comunicare un’incertezza e insieme il fastidio che si prova nei confronti di quest’ultima, l’angoscia, infine, per una «perdita» compensata con i sempre piú insistenti tentativi di applicare all’analisi architettonica i risultati della ricerca semiologica. Non è un caso che da tale clima esca, nel 1964, la mostra su «Michelangiolo architetto» (Roma, Palazzo delle Esposizioni), in cui Zevi e Portoghesi fanno del Buonarroti un furente iconoclasta che, al di sopra dei secoli, porge la mano sia a Pollock che a Frank Lloyd Wright127. Con la mostra michelangiolesca, la «critica normativa» tocca forse il suo punto piú basso: la rinvenzione di Michelangelo – sia che si tratti del Michelangelo delle fortificazioni fiorentine, che di un improbabile «Michelangelo urbanista» – è funzionale infatti a un’ipotesi di retroguardia; la stessa che Zevi batterà riproponendo la figura di Erich Mendelsohn, pochi anni piú tardi. Ad intellettuali delusi e frustrati viene infatti proposta una poetica fatta di eroiche sublimazioni: e, quel che piú conta, una poetica che spinge a vestire gli abiti del dolente furore come se fosse in gioco una questione di prêt-à-porter. Il neoespressionismo italiano – interpretato in forme professionalmente smaliziate da Marcello D’Olivo nella Villa Spezzotti a Lignano Pineta (1958) o nella città di vacanze a Manacore del Gargano (1964), oltre che da Guido Canella, per il quale è necessaria una diversa disamina – appare piú che altro come un cosmetico labilmente sovrapposto a un volto disciplinare raggrinzito e consunto. E come ogni cosmetico, anche questo serve a non prender coscienza del perché di quel decadimento, serve ad illudersi di vivere una perenne giovinezza, invece di chiedersi quali siano i ruoli adeguati alle nuove condizioni che si profilano. Gli entusiasmi della critica per la chiesa michelucciana dell’Autostrada si saldano cosí alle proposte che celebrano come attuale l’estetica dell’«ambiguo traditore».

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L’etica che emerge dai modelli che tale tipo di storiografia propone è, significativamente, quella del perdente, di chi ha bisogno di essere sconfitto per cantare il proprio eroismo. E v’era da rimanere perlomeno perplessi quando poi quella critica riteneva suo dovere indicare, nella produzione contemporanea, come esempi di linguaggio «anticlassico» e di anticonformismo, le piatte esercitazioni tecnologiche dell’Habitat di Moshe Safdie a Montreal e le eleganti e rarefatte disarticolazioni dell’edificio in via Campania a Roma, dello studio Passarelli (1963-65)128. Il disorientamento della critica riflette però l’incerto riassestamento dei ruoli di fronte a una piú precisata domanda politica e a una massificazione ancora confusa dei bisogni. Le vecchie ostilità nei confronti delle scienze sociali, da parte comunista, sono svanite; ma insieme risultano miseramente consumati i miti dell’impegno generico e quelli legati ad astratti umanesimi. Nel vuoto creatosi, i partiti di massa chiedono supporti tecnici. In mancanza di progetti di riorganizzazione complessiva del lavoro intellettuale, questi ultimi vengono offerti sulla base di strumenti in disuso. Tipico, al proposito, il compromesso che nel dicembre del ’62 permette al comune di Roma di adottare un piano regolatore redatto da una commissione già composta con l’occhio fisso alla politica di centrosinistra129. Il sovradimensionamento del piano, l’incertezza fra le direttrici di espansione, lo zoning – generico per i settori esistenti o di completamento, basato su inadeguati modelli nucleari per quelli di nuovo impianto – si sommano a una struttura direzionale ereditata dallo schema del Cet: una tecnica incerta viene a soccorso di una politica urbana sostanzialmente statica. L’unico spunto innovativo non era nel disegno, ma nelle norme che lo accompagnavano, là dove era prevista la formazione di un «osservatorio urbanistico», memore dell’Outlook tower ged-

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desiana, atto a seguire la dinamica dello sviluppo territoriale e urbano. Non a caso, quella indicazione rimarrà lettera morta. A confermare che il piano del ’62 è solo un inoperante disegno, una disseminazione di attrezzature, servizi e insediamenti rende sempre meno significativa l’ipotesi del sistema direzionale orientale, compromesso, inoltre, dalla progressiva saturazione dei suoli. È l’Eur, anzitutto, che pesa, a sud, come Business District dal volto efficiente e luogo residenziale dei ceti medio-alti: l’internazionalismo da parata dei grattacieli dell’Eni e del Ministero delle Finanze – quest’ultimo di C. Ligini, G. Marinucci e R. Venturi (1958-62) – nella zona prospicente il lago, insieme al Palazzo dello Sport di Nervi e Piacentini, configura la «porta» urbana da sud, mentre i palazzi per uffici di Luigi Moretti e Vittorio Ballio Morpurgo (1963), nella loro sofisticata astrazione, fungono da propilei sul lato opposto dell’asse mediano. La sicurezza e l’ottimismo dell’Italia che si «modernizza» in pieno miracolo economico trapelano dal nuovo Eur, l’unico reale polo direzionale della capitale: un polo che parla – e non poi tanto sotto metafora – degli elementi di continuità che legano le espressioni ufficiali del ventennio fascista a quelle del regime democristiano130. È ancora Moretti, nel ’62, a confermare, con il suo quartiere Incis presso l’Eur, la direzionalità dell’insediamento polifunzionale che la gestione del commissario straordinario Virgilio Testa riesce a innestare sulle spoglie degli edifici realizzati per l’E 42131. In tono minore, si tratta di modelli linguistici e tipologici affini a quelli del quartiere Olimpico: ma sia l’intervento dell’Incis, che i lunghi blocchi iperrazionalisti di Pietro Barucci per il nucleo direzionale di piazzale del Caravaggio (1968) sostengono un’edilizia speculativa che nessun programma pubblico si incarica di coordinare, fra la Cristoforo Colombo e il dorato suburb di Casal Palocco.

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Non solo l’Eur e l’asse da esso segnato vengono consolidati in palese contrasto con le direttive del piano regolatore. Fra il ’59 e il ’69 vengono realizzate a piazzale Clodio, su progetto del gruppo Perugini-Monteduro, le nuove Preture, la cui pur notevole castigatezza linguistica, in gran parte dovuta alla matita di Vittorio De Feo, non riesce a riscattare l’infelice localizzazione, mentre la realizzazione del progetto Vitellozzi per la Biblioteca Nazionale al Castro Pretorio (1959-67), il palazzo per gli uffici Rai-Tv a viale Mazzini di Berarducci e Fioroni (1963-65), gli sporadici interventi nella zona di piazza Fiume – via Veneto – dalla Rinascente albiniana al puristico prisma per uffici di Montuori e Calini in via Po – punteggiano la fascia contigua al centro storico, rendendo almeno problematica una riconversione di tendenza132. Il sistema orientale, cardine del dibattito che aveva condotto al compromesso del ’62, rimane cosí oggetto di sperimentazioni accademiche, seguite da una singolare iniziativa, che vede architetti del calibro di Quaroni, Zevi, Fiorentino, i Passarelli, Morandi, con la consulenza di Gabriele Scimemi, associati nello studio Asse, costituitosi per la progettazione dell’intero sistema direzionale (1967-70)133. Si tratta, evidentemente, di un’impresa che intende raccogliere l’intero schieramento della cultura architettonica romana con fini promozionali: all’immobilismo delle istituzioni, la cultura risponde con i propri strumenti, offrendo gratuitamente alla città il proprio progetto, nella speranza di rimuovere, con un adeguato battage pubblicitario, le remore che bloccano il rinnovamento dell’organizzazione urbana. Quanto esce da tale ultimo appello alla libertà concessa alla separatezza del laboratorio sperimentale è una «macchina inutile» che cerca di svincolarsi dalla propria condizione reificata tramite appelli a codici geometrici che giacciono muti. L’orrido che scaturisce da una condizione

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di astinenza porta all’eccesso il gioco perverso che era stato impostato in aule universitarie ansiose di nuova purezza. L’animale mostruoso rimane lí come testimonianza di una nevrosi collettiva, di un’impotenza priva di pathos, dell’anacronismo di operazioni ancora partecipi di atmosfere terzaforziste. Pur di non farsi «tecnici» si compete con la tecnica, obbligandola a uno sposalizio sterile con universi metaforici privi di spessore. Eppure, da soli, i Passarelli avevano dimostrato di saper compitare correttamente e con sicura professionalità molteplici lingue, Riccardo Morandi rimaneva il piú valido e inventivo strutturalista italiano. Quaroni proseguiva la sua tormentata ricerca indulgendo a modulazioni kahniane nel centro governativo alla Kasbah di Tunisi (1966-67), elaborando sistemi di controllo per il disegno urbano ricchi di sollecitazioni, come nel piano regolatore di Bari (1965-73) e negli studi per il lungomare della stessa città, tornando a una sofferta riflessione sugli strumenti della configurazione con il progetto per la chiesa di Gibellina (1970), in cui lo scontro fra purezza e impurità persegue una dialettica che rassomiglia a una confessione personale. Solo Fiorentino riuscirà a trarre, dall’esperienza dello studio Asse, un risultato: ma bisognerà attendere l’occasione del complesso al Corviale. Non era piú tempo per forzate koiné, né per riaffermare primati improbabili per un lavoro intellettuale troppo incerto sulle proprie finalità per potersi fare alfiere di messaggi progressivi. Le speranze sollevate dal primo centro-sinistra, d’altronde, erano indirizzate a un rinnovamento degli strumenti legislativi su cui si appuntano sforzi e attenzioni. È in tale periodo che matura la formazione di ruoli direttamente implicati nella gestione dei vari settori dell’edilizia e dello sviluppo urbano, con riferimenti precisi alle strategie dei partiti politici, e di quello socialista in particolare. Non si tratta sola-

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mente di miti tecnocratici. L’esigenza piú sentita è di creare rinnovate impalcature tecnico-istituzionali adeguate a un’efficiente strategia di riforme; solo in seguito, anche sulla base delle nuove delusioni sofferte, la cultura architettonica si porrà il problema di un ripensamento teorico. Ma sin dalla prima metà degli anni sessanta, tecnici come Michele Achilli, Baldo De Rossi, Giuseppe Campos-Venuti, Marcello Vittorini, Edoardo Salzano, Federico Gorio cercano collocazioni all’interno degli enti gestiti piú o meno direttamente dai partiti di sinistra, scavalcando i ruoli tradizionali legati alle figure dell’architetto o dell’urbanista. Tutt’altro che trasparenti i compiti da essi svolti in organismi come la Gescal, l’Ises, le amministrazioni comunali o addirittura in Parlamento. Comunque, il loro impegno è antitetico rispetto a quello di chi attende catarsi dalla manipolazione delle forme e dalla concitata elaborazione di modelli. Anche per loro l’illusione proviene da una lettura del reale ancora ideologicamente distorta. Difficile però ignorarne, al di là dei risultati e di ogni moralistica considerazione, l’apporto concreto, non foss’altro che nella demolizione di discipline consunte o nella delimitazione del loro possibile uso. Tale è il clima che vede la cultura architettonica affrontare il tema posto dalla nuova legge per l’acquisizione pubblica dei suoli per l’edilizia economica e popolare, la «167» del 1962. Rispetto all’esproprio generalizzato caldeggiato dalla sinistra socialista e dal partito comunista, la nuova legge è indubbiamente compromissoria, e non sostituisce certo i progetti di legge che la Democrazia cristiana riuscirà ad accantonare sconfessando il proprio ministro, Fiorentino Sullo, fattosi interprete dei voti dell’Inu e delle istanze di riforma. Anzi, congelando porzioni di aree urbane, piuttosto che da calmiere nel mercato dei suoli la «167» agirà nel senso opposto: ma in un comune come Roma essa appa-

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re un buon punto di appoggio per sferrare una battaglia per riforme a piccola scala. In prima linea vengono posti il coordinamento degli enti operanti nel settore dell’edilizia economica e popolare e l’integrazione del loro intervento con quello dei privati tramite l’inquadramento nei piani regolatori – i programmi «167» sono infatti intesi come piani particolareggiati – mentre la Gescal, formatasi nel ’63, sostituisce l’Ina-Casa inserendosi nei programmi suddetti sulla base di un piano decennale, e l’Ises sostituisce l’Unrra-Casas rivolgendosi all’edilizia sociale con finalità tuttavia indeterminate134. Tutt’altro che facile si rivelerà l’uso di tali nuovi istituti. Gli interventi rimangono inferiori al fabbisogno, il centro studi della Gescal, su cui si appuntano molte speranze di rinnovamento tipologico e produttivo, si rivela una sacca di contenimento per tecnici e non sopravvive a un biennio; il controllo dello sviluppo urbano sfugge ai disegni dell’operatore pubblico. Ciò non toglie che nella progettazione dei quartieri «167» si concentri la rinnovata volontà di forma a scala urbana preannunciata a livello teorico e sperimentale alla fine degli anni cinquanta. Nel progetto per il quartiere a Tor de’ Cenci, Aymonino e Maria Luisa Anversa rivolgono un deferente omaggio al Cep quaroniano di San Giuliano, racchiudendo lo spazio in due semicerchi planimetrici affacciati; nei progetti per il quartiere al Casilino (1964-65), il gruppo guidato da Quaroni sperimenta dapprima una morfologia fatta di segni elastici, per poi attestarsi su forme che sembrano ispirarsi alle ricerche visive della «op art» e giungere infine a una soluzione «a ventaglio», come metaforica esplosione di un nucleo nascosto; nel quartiere di Spinaceto, realizzato fra il ’64 e il ’7o dal gruppo Piero Moroni - Nico di Cagno, domina invece una contaminazione tipologica scambiata per ricchezza, una grafia contrabbandata come forma, un variare non necessario.

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Solo con i quartieri del Corviale e di Vigne Nuove135 a Roma e Gallaratese a Milano, la «167» sarà interpretata con risultati degni di nota: ma allora le illusioni sull’efficacia del nuovo strumento legislativo si saranno del tutto volatilizzate. Al confronto con la realtà, il dibattito sollevato dalla scoperta della «nuova dimensione» e dall’individuazione del town design come autonomo strumento di configurazione è destinato a ripiegare su se stesso, entrando ben presto in crisi. Man mano, inoltre, che le illusioni sul primo centro-sinistra vengono a cadere, anche i nuovi rimedi tecnico-politici si rivelano affetti da sindrome demiurgica. Come è stato scritto, in quegli anni «l’architetto che vuole sfuggire al cliché dell’artista cade in un nuovo e definitivo ruolo pagliaccesco [...] il suo livre de chevet diventa l’ultimo numero del “Journal of the A.I.P.”, diserta le mostre d’arte e il bollettino dell’Istat lo appassiona piú di Gadda o Montale»136. Forse ingeneroso un cosí reciso giudizio su un gruppo intellettuale che, in qualche modo, tentava di spostare su terreni poco esplorati il dibattito sulla progettazione. Da «intellettuali organici» essi tentavano di passare a «tecnici organici»; ma la teoria era ancora un’astrazione indeterminata e il campo di battaglia conteso dalle forze politiche cosparso di mine. Ve n’era abbastanza per dar luogo a uno smembramento degli stessi termini del dibattito, che si riflette anche nell’opera dei piú impegnati progettisti. I «maestri», anzitutto: queste «muse inquietanti» che avevano incatenato intere generazioni ai loro dubbi e ai loro incessanti ripensamenti perdono pian piano il loro ruolo di punti centrali di riferimento137. Sia Gardella che Albini appaiono proteggersi dietro scritture empiriche dall’assalto di problemi considerati scetticamente: l’eleganza rarefatta della metropolitana milanese (1962-63), della Villa Corini a Parma (1967-70), delle Terme Luigi Zoja a Salsomaggiore (pro-

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getto 1963, realizzazione 1969-1970), o del palazzo degli uffici Snam a San Donato Milanese (1970-72), ben poco aggiunge alla poetica albiniana, così come i risultati raggiunti da Gardella nel complesso turistico di Punta Ala (1962-65) o piú tardi nella chiesa di Sant’Enrico a Metanopoli (1963-66) parlano di uno spaesamento che verrà smentito solo dalle opere più recenti138. Dal canto loro, i Bpr non oltrepassano la soglia di un afono professionismo nel quartiere Iacp di Gratosoglio a Milano (1963 sgg.), e anche in opere «di esportazione», come la sede Olivetti di Barcellona (1965), dànno evidenti segni di stanchezza. Le tematiche che li avevano portati al centro del dibattito internazionale risultano palesemente esaurite: l’edificio da essi realizzato in piazza Meda a Milano, nel suo tentativo di colloquiare allusivamente e caricandosi di ambiguità con il tamburo cilindrico della cupola pellegriniana del San Fedele e con le opere adiacenti di Figini e Pollini e di CacciaDominioni, vive come specchio deformante del sistema immobiliare milanese139. Né la ricerca di una linea di coerenza, come quella perseguita da Ridolfi nelle sue opere ternane degli anni sessanta – case Staderini (196o), Briganti (1962), Pallotta (1961-63), Franconi (196o), o il complesso polifunzionale fratelli Fontana (196o-64) – oltrepassa limiti scontati: il «ben fare» ridolfiano, specie nelle operazioni di ricucitura del tessuto urbano della città di Terni, eletta a luogo di mediazione fra i mondi diversi che convivono nella poetica di questo sempre più appartato artigiano della forma, perde ogni tonalità barocca, per ricaricarsi di improvviso «furor» espressivo in un progetto singolare, che in qualche modo segna per Ridolfi l’addio definitivo alla battaglia culturale; quello per un motel Agip in località Settebagni a Roma, nei pressi dell’Autostrada del Sole (1968)140. Come ripercorrendo i propri inizi, la torre disarticolata e sottomessa a violen-

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ta torsione del motel Agip cita esplicitamente – ignorandone le valenze novecentiste – la «torre dei ristoranti» progettata da Ridolfi nel ’28: a contatto con i risultati di un «miracolo economico» fittizio, l’architetto violenta le proprie forme, le rappresenta come squassate da un vento impetuoso, rappresenta se stesso nel momento in cui domina una geometria difficile, reagendo, stupefatto, a un universo superindividuale da cui è attratto e respinto al contempo. Non è forse un caso che la torre ridolfiana per l’Agip, con la sua planimetria di base a forma di stella a dieci punte, ricordi uno dei grattacieli che appaiono in Metropolis di Fritz Lang. Anche per Ridolfi il cerchio si chiude. Il «realismo», qui, lascia parlare la «passione per la notte» che si era annidata nelle sue pieghe; la stessa che conduce lo stesso Ridolfi a concentrarsi con sospetta frenesia nei progetti per la Casa Lina alle Marmore (1966), per la Casa De Bonis (1971-75) a Terni, o per l’ampliamento di una casa d’abitazione a Norcia (1976-77), testimonianze estreme di un volontario esilio141. Infatti, nella concitazione iperartigianale di quei progetti, a piante stellari, poligonali ed ovali si uniscono citazioni ed allusioni che con «l’onestà professionale» non hanno nulla a che fare: tanto, da far pensare che qui Ridolfi si sia impegnato a consumare materiali compositivi e a macerare tecnologie, in continuità con uno dei filoni della sua poetica espresso sin dalle torri di viale Etiopia e palese nella Scuola media di Terni. L’immagine del crollo imminente, cristallizzata nella torre dell’Agip, si rivela cosí decisamente allegorica. Tuttavia, né la coerenza ridolfiana, né quella di Carlo Scarpa – un altro esiliato, ma con diverse finalità – costituiscono «lezioni» per le nuove generazioni negli anni sessanta. A loro modo, «maestri» rimangono per la loro didattica socratica e spesso piú per il non-detto che per il detto, Samonà e Quaroni; ma il loro insegnamen-

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to fatto di ermetici suggerimenti si chiude sempre piú nell’ambito delle loro aule universitarie, alimentando spinte sempre meno controllate e ben presto rese aleatorie dai processi di trasformazione disciplinare e istituzionale. È però significativo che il loro contributo piú produttivo non provenga, nel corso degli anni sessanta, dai loro progetti, quanto da intenzioni che da questi ultimi solo raramente traspaiono: il design a grande scala che caratterizza le ricerche degli allievi di Quaroni vive la sua stagione come esperimento da coniugare alle piú disparate sollecitazioni linguistiche, per ricavarne effetti boomerang da sottoporre a piú attenti vagli. Ugualmente, la «maniera grande» dispiegata da Samonà nella sede della Sges-Enel a Palermo (1961-63) o nelle ammiccanti aggettivazioni del progetto di concorso per la sede dell’Istituto nazionale di previdenza e credito delle comunicazioni nella stessa città (1963), persegue un comporre che ben poco ha a che fare con le sperimentazioni da lui stesso condotte in occasione dei concorsi per il centro direzionale di Torino, per il Tronchetto di Venezia, per la «metropoli dello stretto»142. Fatto sta, che l’ansia di porsi alla testa di trasformazioni strutturali nell’ambito della società e del territorio si scinde da declinazioni critiche di lingue sicure, compiute magari per riframmentarle ed esaurirne le possibilità, come nella cooperativa in via Palmanova a Milano, di Gregotti, Meneghetti e Stoppino (1962-67), nelle concitate articolazioni della casa in via Conservatorio a Milano di Magistretti (1966), nelle geometrie scomposte in giochi affabulatori di Nino Dardi143, nella sapiente reinterpretazione del lessico brutalista dei Collegi universitari di Urbino di Giancarlo De Carlo (1963-66), nell’espressionismo addolcito di Carlo Aymonino (edificio pluriuso a Savona, 1963-66, progetto di concorso per il Teatro Paganini a Parma, 1964), o in quello, ben piú angry, di Canella, Achilli, Brigidini e Lazzari, come

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si esprime nel centro civico di Segrate (1965). Ma si tratta di opere che lasciano insoddisfatti i loro stessi autori: le intenzioni prevalgono di continuo sulle capacità o le possibilità di dar loro sostanza. Per valutare correttamente la sperimentazione architettonica della metà degli anni sessanta è necessario rifarsi al convulso dibattito aperto dalle neoavanguardie letterarie, musicali e pittoriche – con il sostegno di editori come Feltrinelli e di riviste come «Il Verri», «Quindici», «Marcatré», ecc. – che a loro modo rispondono alle esortazioni lanciate da Vittorini dalle pagine del «Menabò». In ballo, è la funzionalità del linguaggio, la sua capacità ad emettere informazioni attraverso lo strumento dello scarto, della trasgressione, della «distorsione semantica». Il rinnovato interesse per la semiologia e per la linguistica ha infatti al suo fondo un’interpretazione del materiale formale come plesso disponibile di relazioni: la teoria dell’informazione, divulgata da Umberto Eco, offre per suo conto un sostegno alla poetica dell’aleatorio, dell’«opera aperta», del magma lasciato in perenne attesa di completamenti operati dai fruitori. Per un’arte che ha smarrito significati e che per significanti aggrovigliati non è in grado di proporre organizzazioni privilegiate, la vague neoavanguardista apparirà un approdo in certo modo rassicurante. La polemica nei confronti dell’opera, inoltre, rimette in gioco una relazione del tutto fossilizzata tra ideologia e scrittura; ne emerge, dominante, il tema della lingua depurata da scorie sovrastrutturali: anche se non facile appare la scelta fra i due versanti degli «apocalittici» e degli «integrati». Con un risultato fondamentale: parlando di musica, di letteratura o di arti figurative, si stava riconoscendo uno dei caratteri precipui del progetto moderno, quello di costituirsi come dominio-previsione del caso, come tecnica che si apre al divenire, come insieme di strate-

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gie che cattura l’imprevisto. Nel ripensamento sulle avanguardie non v’era nostalgia per l’irrazionale, ma riconoscimento delle nuove forme in cui si dà il progetto (politico e quindi tecnico, anzitutto). Non v’è traccia però di una qualche coscienza di ciò nel dibattito architettonico di quegli anni. I numeri della rivista «Edilizia moderna» diretti da Gregotti esplorano l’area della polisemia in un ampio ventaglio di forme, mentre un progetto come quello di Maurizio Sacripanti per il nuovo teatro di Cagliari (1965) partecipa sia della poetica dell’aleatorio che di quella dell’evento programmato144. D’altronde, le ricerche di Aymonino e Canella non erano già pienamente immerse in un’atmosfera polisensa, ambigua, contraddittoria? Senza gli ammiccamenti di Bob Venturi, gli architetti italiani avevano assorbito la lezione dei Seven Types of Ambiguity. Anche questa era una forma di realismo: polisensa è la realtà non piú sintetizzabile esperita in un territorio letto come continuo flusso di sovrapposte informazioni. Assorbire quell’inquietante contraddittorietà in oggetti che contestino il loro carattere finito significa tentare un controllo su quanto un’interpretazione riduttiva della razionalità sembrava essersi lasciato sfuggire. Alla Triennale del ’64, dedicata al «tempo libero», tutto ciò ha modo di esprimersi superando i confini segnati dal tema. Specie nel «caleidoscopio» introduttivo, organizzato da Gregotti, Meneghetti, Stoppino, Peppo Brivio e Umberto Eco, in una serie di percorsi dominati dall’Omaggio a Joyce di Luciano Berio, da film di Tinto Brass riflessi sei volte da specchi, da una banda sonora composta da Balestrini e da immagini di Achille Perilli, le tecniche di comunicazione travalicano l’una nell’altra: ma anche nel settore italiano, curato da un gruppo coordinato da Gae Aulenti e Aymonino, viene usata senza parsimonia la tecnica del collage, dello shock a effetti multipli, dello happening145.

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Lo spaesamento artificiale che domina gli antri magici della XIII Triennale proietta nelle sfere dell’immaginario – magari con l’aiuto della Corsa al mare di Picasso ingigantita e replicata – alcuni dei problemi cardine dell’Italia del «miracolo». Ma ora l’indagine sulle capacità informative delle tecniche di comunicazione non verbale batte una strada che si divarica sempre piú da quella della conoscenza analitica, anche se su «Casabella» i temi che si susseguono sono quelli delle coste italiane, delle infrastrutture terziarie, del verde attrezzato a scala urbana. Quella medesima Triennale, tuttavia, era introdotta da un enigmatico ponte in ferro a sezione triangolare e spezzato in due tronconi slittati fra loro: in tal modo Aldo Rossi collega ieraticamente l’edificio di Muzio al parco. Contro gli sprechi linguistici che si consumano all’interno della mostra, il ponte di Rossi parla solo dei confini della visione. La contrapposizione è significativa, e a suo modo profetica rispetto agli sviluppi delle ricerche che si stavano consolidando: né il suo senso sfugge a Polesello, che, commentando il ponte di Rossi, fa riferimento al «mistico» di Wittgenstein146. L’intravista possibilità di superare la poetica dell’oggetto per dar vita a un’architettura fatta di sole relazioni ha un ulteriore sbocco: nel 1965-1966 prima al X Convegno Inu di Trieste, poi in un numero monografico di «Edilizia moderna» dedicato alla geografia del territorio, si pone il problema di un intervento sul paesaggio capace di colloquiare con i suoi segni divenuti parlanti147. La trasformazione della natura in cultura, qui auspicata, non ha nulla a che fare con l’utopismo che aveva vissuto la sua stagione felice fra il ’62 e il ’64, né è carica di messaggi ideologici. Anche questo è un segno dei mutamenti vissuti dagli intellettuali: le analisi sulla storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni e le

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indagini di Lévi-Strauss sulla forma conseguente a particolari strutture antropologiche sostengono ricerche sulla leggibilità del territorio e degli insediamenti che intendono superare lo psicologismo naïf di Kevin Lynch. Da esse usciranno sia i progetti di Luciano Semerani e Gigetta Tamaro per Trieste (1969 sgg.), che i progetti a grande scala di Gregotti e Purini148. L’effetto provocato da tale accavallarsi di tematiche e di suggestioni, con sempre piú frequenti scambi con ricerche provenienti da aree esterne a quelle dell’architettura, allarga all’infinito il ventaglio delle ipotesi: se da un lato il «bla-bla-bla» denunciato da De Carlo al Convegno Inu del ’65 era una pesante realtà non certo superata a tutt’oggi, l’elevamento della qualità complessiva della current architecture sostiene le esperienze di punta, mentre l’indagine storiografica inizia a porsi in modo nuovo il problema del proprio rapporto con l’attività dei progettisti. Ancora una volta, sono i risultati di un concorso a permettere un bilancio del nuovo clima culturale e una verifica della vischiosità delle istituzioni. Nel 1967, il concorso per i nuovi uffici della Camera dei Deputati a Roma, sfociato in un risultato nullo, offre un’ulteriore occasione sbagliata di confronto per l’architettura italiana, colta dai migliori «per parlare d’altro»149. La localizzazione dei nuovi uffici in pieno centro storico e accanto al corpo realizzato da Ernesto Basile, infatti, è indice di una sostanziale incapacità da parte dell’operatore pubblico di programmare in modo semplicemente «conveniente» i servizi di base della comunità. Solo Italo Insolera rifiuta il tema dato e presenta una proposta di interventi e destinazioni d’uso estesa a un vasto settore del tridente: un’ulteriore supplenza volontaristica, tuttavia. Le carenze del bando di concorso non provocano invece «scandalo» a Quaroni, a Samonà, ad Aymonino, a Portoghesi, a Sacripanti, deci-

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si a sfruttare l’occasione con un atteggiamento «al di là del bene e del male»: il loro problema è come saggiare i limiti della rinnovata fiducia nello strumento specifico della forma. Certo, tutto ciò avviene avant le déluge: e d’altra parte, per presentarsi come atti di fede nella catarticità della scrittura architettonica, quei progetti appaiono troppo scossi da incontrollati incubi. Fatto è, che il disincanto con cui l’intelligencija italiana affronta tale concorso è indice di una neutralità ideologica ormai generalizzata, conseguente al nuovo clima cui si è sopra accennato, e di cui l’impegno disciplinare copre a malapena le radici. Ciò non toglie – anzi permette – ad architetti come Quaroni e Samonà di offrire saggi fra i piú elevati della loro produzione. Perfettamente a suo agio nel cuore dell’odiata-amata Roma, Quaroni non esita ad informare il proprio progetto a un faticoso e variato accumularsi di episodi e frammenti, alla ricerca di una lingua monumentale, capace di commentare un contraddittorio rapporto con il genius loci. Un telaio geometrico formato da quattro assi agganciati al contesto urbano penetra la chiusa massa dell’edificio, che si staglia tuttavia come solenne e polivalente cerniera, sintesi neobarocca di istanze razionalizzatrici e informali affabulazioni. Rispetto ai grovigli geometrici quaroniani, simboli scontrosi di una figuratività onnivora, il progetto di Giuseppe e Alberto Samonà appare piú riflesso e mediato. Se gli antecedenti quaroniani sono in Poelzig e nei grattacieli miesiani del ’19 e del ’21, quelli di Samonà sono in Le Corbusier, citato esplicitamente nella main ouverte che si staglia alla sommità del progetto: in particolare il Musée de la Ville et de l’Etat, del 1935, sembra essere stato oggetto di meditazione per i progettisti. Ma la trama aerea dei sostegni in ferro che sostengono volumi slittati a varie quote, l’inversione paradossale delle funzioni fra pesi e sostegni, il gioco delle trasparenze,

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caricano di ironia appena trattenuta la proposta di Samonà: un’ironia che sembra memore sia di atmosfere «alla Klee», che delle rarefatte artificiosità della pittura pompeiana del «terzo stile». L’elaborato di Samonà aveva un precedente, il progetto per la nuova sede compartimentale dell’Anas di Palermo; ma la nuova disinvoltura della sua scrittura architettonica prelude alle sue prove piú impegnative degli anni settanta, e in particolare ai progetti per la Banca d’Italia a Padova e per il teatro di Sciacca. Piú scontate le prove di Aymonino, di Nino Dardi o di Luigi Pellegrin: «ludi geometrici», declinati con varie inflessioni, i loro progetti – come del resto, quello di Portoghesi – costituiscono solo tappe di avvicinamento a «maniere» in via di consolidamento. D’altronde, nella ridda delle ipotesi linguistiche che traspaiono dai molti progetti presentati al concorso, risulta evidente l’assimilazione delle lezioni di Louis Kahn, di Giurgola, di Paul Rudolph: non foss’altro, la cultura architettonica italiana appare ora informata e scaltrita sul piano formale. Con due estremi: i progetti di Maurizio Sacripanti e del gruppo romano Grau. Sacripanti aveva già sperimentato, come si è visto, un linguaggio architettonico ampiamente partecipe della poetica dell’aleatorio con il progetto per il teatro di Cagliari, oltre che con il progetto vincente al concorso per il grattacielo Peugeot150. Il motto con cui egli si presenta al concorso per gli uffici della Camera è «omaggio a Mafai»; ma per esso sarebbe stato piú appropriato il motto «omaggio a Rauschenberg», con il sottotitolo: «e un fiore per Sant’Elia». Infatti, il progetto di Sacripanti si presenta come un’orgia di spazi esplosi, di oggetti ammassati e violentati, di vuoti allucinati: l’architettura è ridotta a rappresentazione di uno sfasciume che ha del morboso, di una nausea provocata da oggetti osceni puntualmente esibiti. Su quello sfacelo si innesta l’esaltazione del mito

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macchinista: Sant’Elia si ricongiunge a Rauschenberg. Sacripanti proseguirà la sua ritrattistica dell’angoscia contemporanea nel progetto per il padiglione di Osaka, mentre piega a struttura fruibile il polo macchinista della sua poetica nel progetto per il nuovo Museo Civico di Padova: le sue junk sculptures battono una strada che si ammorbidirà appena nei progetti piú recenti151. Puntualmente, alla «rabbia» di Sacripanti risponde l’apollinea astrazione del gruppo Grau. Seguendo una poetica già precedentemente sperimentata – pensiamo al progetto di concorso per il nuovo Palazzo dello Sport di Firenze – il Grau rende iperbolica la ricerca di una logica formale chiusa nel suo sforzo di autoverifica. Sintomatica di una generazione che con sdegno rifiuta ideologismi sovrapposti alla specificità dell’architettura, la ricerca del Grau esibisce in modo provocatorio un atteggiamento le cui radici sono nella «verifica dei poteri» preconizzata nei primi anni sessanta da Fortini, anche se, nel caso particolare, le sue neoumanistiche astrazioni salutano come fonte teorica l’estetica dellavolpiana. La forma si ritira nel suo mondo e non colloquia con l’«altro». Il Grau non reggerà a lungo tale posizione – si veda il suo progetto di concorso per l’Archivio di Stato di Firenze (1972), inquinato da velleità simboliche152 –; ma nel ’67, le ermetiche tavole in cui manipola le sue geometrie hanno il merito di evidenziare una tendenza al recupero di un’autonomia assoluta dell’oggetto, che serpeggia nel clima italiano: pensiamo, ad esempio, ai progetti del gruppo Manieri - De Feo e di Gian Ugo Polesello, presentati al medesimo concorso. Lo spaccato sulla consistenza della cultura architettonica italiana alle soglie del ’68, permessa dall’analisi degli elaborati del concorso romano, ci riconduce a un diffuso stato di ansia, non coperto certo dalle ricerche piú apparentemente sicure di se stesse. Una fase di «attesa», dunque, per un’architettura che vaga alla ricerca di

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nuovi ruoli dopo aver constatato l’usura di miti vecchi e recenti: né convince nessuno la disinvolta soddisfazione con cui l’autorispecchiamento viene ostentato153.

5. Nuove crisi e nuove strategie (1968-1975). Alle soglie del ’68, peraltro, le incertezze del lavoro intellettuale si scontrano con pesanti dati emergenti dalla realtà, relativi alla struttura stessa della professione. Un’inchiesta condotta presso la facoltà di architettura del Politecnico di Milano, relativa agli anni 1963-69, rivela che solo il 36 per cento dei laureati in architettura svolge realmente la professione: il 57,5 per cento di loro risulta impiegato in lavoro salariato e il 6,5 per cento risulta disoccupato o impiegato in lavori estranei. Si aggiunga a ciò che, nei primi anni settanta, circa il 6o per cento dei laureati in architettura sopravvive con l’insegnamento nelle scuole primarie e secondarie, in un quadro generale che registra, per il 1968, un totale di disoccupazione giovanile pari a seicentomila persone circa, pari al 1o per cento sul totale della forza-lavoro. La situazione è ben lungi da «livelli frizionali»: essa appare piuttosto patologica. E non basta. Un calcolo approssimativo dei metri cubi realizzati in Italia da architetti dava, nel ’74, una cifra oscillante fra il 2 e il 3 per cento sul totale: e non sarà inutile far osservare che la storia che stiamo tracciando si fonda su una selezione all’interno di tale percentuale minima di opere in qualche modo qualificate. Inoltre, la genericità del titolo di architetto, specie dopo gli eventi degli anni sessanta, appare un anacronismo caro solo a inguaribili nostalgici: né l’apertura di corsi di laurea di urbanistica – nel 197o a Venezia, su iniziativa di Astengo, nel ’75 a Reggio Calabria – risponde a un’articolazione fondata su analisi della situazione con-

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creta della disciplina. Anzi, mentre quest’ultima si smembra e si aprono nuovi settori di intervento, l’ipotesi del town planning celebrata da quei corsi di laurea fossilizza un’area disciplinare da coinvolgere piuttosto in una impietosa discussione critica, mentre gli sbocchi professionali ad essa connessi rimangono compromessi dalla mancanza di un riconoscimento professionale del titolo di studio. Se si valuta che nel frattempo la percentuale dell’edilizia pubblica, rispetto a quella privata, passa dal 25 per cento del 1951 al 6 per cento del ’68 – per toccare punte minime del 2 per cento dal ’73 in poi – si è in grado di completare un abbozzo della struttura del settore, da porre a confronto sia con le contorsioni formali degli architetti «che progettano per non pensare», sia con l’esplosione contestativa del ’68. Esplosione che, per quanto riguarda le facoltà di architettura o le istituzioni culturali all’architettura connesse, non comporta che modifiche di superficie, ripensamenti frettolosi, atteggiamenti demagogici che si risolvono in débâcles collettive. Gli effetti delle contestazioni dirette contro l’Inu o la Triennale di Milano o il blocco delle attività didattiche rivelano solo la fragilità di quegli istituti e delle loro funzioni. Il tentativo di far partecipare lo «studente-militante» alle lotte che si svolgono nei cantieri edili e nelle borgate porterà da un lato alla formazione dei comitati di quartiere, ma dall’altro darà luogo a un’accademizzazione dell’analisi del «disagio urbano», in un’accezione in definitiva misera dell’intervento politico e in un distorto tentativo di estrarsi soggettivamente dall’area degli «sfruttatori». Le analisi piú spregiudicate del «marxismo degli anni sessanta», le nuove ondate di lotta del movimento operaio, le inedite forme assunte da quelle stesse lotte percorrono tracciati che con il verbalismo demagogico imperante nelle facoltà di architettura hanno ben poco a che fare. Eppure, sulla scia del ’68 e dei suoi slogan piú con-

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sumabili prendono piede movimenti già delineatisi negli anni precedenti, pronti ad occupare gli spazi lasciati vuoti dalla cultura oggetto di piú immediata contestazione. Di nuovo, si fa appello all’avanguardia, e questa volta per il suo potere dissacrante. Il gruppo fiorentino Archizoom, nato da un corso tenuto da Savioli e Santi sullo «Spazio di coinvolgimento» in cui – grazie anche agli interventi di Ugo La Pietra e Ettore Sottsass – si tenta un uso propositivo delle acquisizioni della pop art, punta su un’arte come terapia psicofisica-liberatoria, priva di codici, rivolta a un’utenza chiamata a partecipare a un’orgia nullificante e catartica. Le tesi dell’«architettura radicale» sono cosí defini154 te . Da un lato, esse ereditano le velleità eversive vive sin dai primi anni sessanta nell’ambiente fiorentino; dall’altro, esse si fregiano di intenti antistituzionali, appellandosi al ceppo «negativo» delle avanguardie storiche. Non piú lo sperimentalismo del Gruppo ’63, bensí teatri per azioni psichedeliche, in cui si spera di trascinare un mitico proletariato. La No Stop City del gruppo Archizoom o il Monumento continuo (1969) del Superstudio fanno del progetto una registrazione di materiale onirico trascritto con un’ironia «che non fa ridere»: nelle vignette che illustrano la No Stop City, struttura urbana continua priva di architetture, i neoprimitivi che nell’assoluta nudità dell’ambiente usufruiscono di macchine microclimatizzanti sembrano messi lí ad esplicitare un mostruoso connubio fra un anarchismo populista e istanze liberatorie attinte dal Maggio francese. Per questa via non era difficile avviarsi a un luddismo intellettuale tanto piú irresponsabile quanto piú verbalmente dedotto dalla frettolosa lettura delle riviste della «nuova sinistra», dai «Quaderni rossi», a «Classe operaia», a «Contropiano»: ma se Strum e 9999 rifiuteranno del tutto il progetto, i gruppi Archizoom e Superstudio, o Ettore Sottsass riversano nel design la

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loro carica ironica: i loro prodotti riescono a conquistare il mercato rimasto precluso ai piú lambiccati oggetti neoliberty; le loro dissacrazioni, a giustificare le quali viene addirittura evocata la figura di Duchamp, vengono alla fine riconosciute internazionalmente dalla mostra organizzata da Emilio Ambasz al Museum of Modern Art di New York (1972), «Italy. The new Domestic Landscape». Per qualche anno, la bandiera dell’antidesign, dietro cui si fa strada un’astuta operazione di mercato, conquista anche la testata di «Casabella» – nel ’64, la direzione era stata tolta a Rogers dall’editore, che inconsapevolmente segnava cosí la conclusione di un ciclo culturale – mentre critici come Menna o Restany profetizzano «civiltà estetiche» e «arti totali». All’estremo opposto, si collocano tendenze che con queste hanno in comune l’atteggiamento iniziale di sfida alla società dei consumi. L’interesse con cui, sin dai primi anni sessanta, è seguita in Italia l’opera di Louis Kahn si compone con una lettura tendenziosa dell’estetica di Galvano Dalla Volpe. Se l’aleatorio è la forma estrema di un universo che sacrifica se stesso alle merci cosí come esse governano, il recupero del concetto di «opera», della sua «organicità semantica», della totalità di esperienza che essa presuppone sembra costituire l’unico contributo specifico offerto alla conoscenza dall’attività di progettazione. In Kahn, inoltre, si crede di vedere un recupero del tempo storico libero da romanticismi: le allusioni kahniane al tardo antico o a Piranesi appaiono scelte di «antecedenti logici», frutti di «astrazioni determinate». In realtà, ciò che permette di guardare a Kahn subito dopo aver chiuso la Critica del gusto è l’istanza di «ordine» che traspare sia dalla sua opera di architetto che da quella di teorico. Trascurabile sembra l’afflato mistico che si accompagna a quell’istanza; la pienezza del segno e dell’organizzazione formale che proviene dalle opere kahniane fa di queste ulti-

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me dei teoremi estrapolabili dal contesto che tuttavia ne condiziona l’esistenza. Accolto con diffidenza prima, con deciso atteggiamento di ripulsa poi da Zevi, che si attesta in una linea di difesa dei codici «anticlassici», l’opera di Kahn diviene immediatamente familiare nelle facoltà di architettura. Fra il ’63 e il ’65 si ripete il fenomeno che negli anni cinquanta aveva attirato l’attenzione sui «giovani delle colonne» milanesi: studenti di vocazione marxista elaborano progetti stigmatizzati come «accademici» da accademici ravveduti, esprimendo cosí la loro inappagabile esigenza di chiarezza. Il rigorismo della composizione come «recupero della tonalità» era già stato di Muratori, negli stessi anni veniva perseguito dalle prime opere di respiro di Aldo Rossi e Giorgio Grassi e si colora di diverse intonazioni nelle opere e nei progetti del gruppo Grau, dallo studio Stass, di Vittorio De Feo. E se le esasperazioni geometriche del Grau rimangono nella sfera del puro programma, opere come l’unità residenziale alla Serpentara a Roma e il progetto per il centro direzionale di Grosseto dello Stass, o l’Istituto tecnico per geometri a Terni (1968), di De Feo e Errico Ascione, fanno dell’autoverifica motivo di orgoglio. De Feo, in particolare, dimostra che è possibile assumere contemporaneamente le lezioni di Ridolfi, di Kahn e di Venturi, nel suo Istituto ternano, e che Complexity and Contradiction in Architecture possono essere assunte senza cadere nei trabocchetti in cui rimarranno impigliati i fautori recenti del «Post-Modern». Ne usciranno la composizione serrata del progetto per insediamento turistico ad Abbadia San Salvatore (1970), l’immagine pop della stazione tipo della Esso (1971), il laconico omaggio a De Chirico (ma anche a Malevi™) del progetto di concorso per il Palazzo Municipale di Legnago (1974)155. In tali opere – ma anche nelle prime esperienze progettuali di Franco Purini e Laura Thermes, stimolate sia

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dallo sperimentalismo di Sacripanti che dal dubbio sistematico di Quaroni – l’architettura tenta di riconoscersi. Bruciate tutte le ideologie cui aveva sino ad allora fatto appello, ad essa rimane l’esercizio autoriflessivo. Dall’abbraccio populista al ripiegamento nell’autobiografia, all’esplosione utopica, al «segno in quanto tale»: un percorso a scatti marca le tappe di una ricerca somigliante ai frustrati sforzi compiuti dall’agrimensore per raggiungere l’ineffabile Castello. Non a questi intellettuali, comunque, era possibile rivolgersi, alla fine degli anni sessanta, per tentare di dare una sostanza tecnica di respiro alla strategia socialista delle riforme logorata dal compromesso quotidiano, dall’abilità dell’avversario, dalla crescente divaricazione fra l’incerta marcia all’interno delle istituzioni e i movimenti della «nuova» classe operaia. Dietro le serene autocontemplazioni formali del Grau, dello Stass, di De Feo, ma anche di Quaroni e Samonà, è lecito scorgere l’accoglimento dell’invito a farsi «candidi come serpenti». Non essi, bensì Giorgio Ruffolo, Marcello Vittorini, Giovanni Astengo, Baldo De Rossi sembrano ora i tecnici in grado di dare veste politica a un programma di ampiezza nazionale, la cui urgenza è sottolineata dal paradossale degrado idro-geologico e delle risorse storico-ambientali. Nel luglio del 1966, sotto il peso di migliaia di vani abusivamente costruiti di fronte alla Valle dei Templi, crolla un’intera porzione della città di Agrigento; nel novembre dello stesso anno le acque dell’Arno sommergono Firenze, distruggendo un incalcolabile patrimonio artistico e documentario, mentre i Bastioni della Serenissima si rivelano insufficienti a salvaguardare la Venezia lagunare e l’opinione pubblica è scossa dal disastro del Vajont. La risposta tecnico-politica proveniente dall’area socialista prende il nome di Progetto 8o. Chi nel ’70, tuttavia, all’apparire del Progetto 8o, prodotto da un gruppo di lavoro presso il ministero del

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bilancio, pensò di trovarsi di fronte a una piena esplicitazione di un «piano del capitale», dimostrò solo di confondere un astratto exploit con una strategia reale. Le analisi e le proposte del Progetto 8o sono in sostanza frutto di un’esercitazione che, dietro l’ambizione e la velleità dei programmi, nasconde una situazione di stallo e un ottimismo tecnologico intrinseco alla neutralità politica del progetto. Nessuna modifica di fondo del sistema produttivo nazionale è in esso prevista, né l’ossatura istituzionale e la gestione delle leve economiche erano state modificate per permettere operanti modifiche strutturali. Non rimaneva che proteggersi dietro cortine fumogene: attraverso la parola d’ordine delle «vocazioni territoriali» viene aggiornata quella facente capo al mito dell’equilibrio. Ancora una volta, a un sistema che si fonda su squilibri vengono proposte «correzioni» impraticabili. Il che non significa che la «progettualità deserta» di quel documento (Asor Rosa) sia del tutto inutile. Essa serve, perlomeno, a polarizzare un dibattito e a tenere occupati intellettuali, in un momento politicamente incerto. Comunque, gli strumenti che il Progetto 8o finalizza al controllo del territorio e al riassetto produttivo si estendono a livello nazionale: il «riequilibrio» è perseguito attraverso la riorganizzazione di sistemi metropolitani, di un sistema infrastrutturale nazionale e di un sistema, anch’esso nazionale, per il tempo libero156. L’«invenzione» urbanistica fondamentale che dovrebbe permettere di raggiungere gli obiettivi è appunto quella dei «sistemi metropolitani». Il Progetto 8o assume su di sé l’intera mitologia della città-regione, distinguendo in sistemi di riequilibrio, sistemi basati sulle grandi conurbazioni esistenti, sistemi alternativi: le «ceneri di Geddes» possono cosí essere utilizzate per un ultimo infuso offerto a un malato di cui si dispera la guarigione.

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Lo sforzo della cultura socialista concentrato nell’elaborazione del Progetto 8o non può neppure essere tacciato di tecnocrazia. Più ideologico che tecnico, questo documento rimane, fra le aspirazioni frustrate della programmazione italiana, a testimoniare i limiti soggettivi degli intellettuali che avevano sentito come nuovo dovere ricollocare le proprie competenze in un quadro di concreto intervento politico. Esso, caso mai, testimonia l’assenza di una tecnica effettuale, di un diverso rapporto fra tecniche rinnovate e strategie di massa. I nuovi modi di lotta del movimento operaio organizzato, cosí come si esprimono nelle grandi controversie sindacali del ’68-69, giungono invece per altra via a porre il problema della casa e dell’assetto territoriale. Il 19 novembre 1969 gli operai italiani seguono l’invito dei sindacati e dichiarano uno sciopero generale di ventiquattr’ore i cui obiettivi rivendicativi insistono direttamente sull’organizzazione della città e del territorio: la fabbrica si proietta sul sociale, la variabile salariale annette a sé aree prima impensate. Si tratta di una svolta fondamentale del movimento di classe: i partiti sono costretti a prendere in considerazione in modo nuovo la politica edilizia. Sono le istituzioni base che ora vengono attaccate; né gli antichi strumenti, né astratte razionalizzazioni possono essere invocati per offrire adeguate risposte. Anzi, la pressione di un soggetto sociale che usa armi prima utilizzate per raggiungere obiettivi settoriali spiazza le fossilizzazioni disciplinari: mentre il Parlamento si impegna in un’estenuante discussione che condurrà alla nuova legge per la casa del ’71, le lotte proseguono, dando origine a organizzazioni mobili e leggere, come le unioni inquilini o i comitati di quartiere. L’effetto immediato di queste ultime è un calo di tensione sugli obiettivi generali e la settorializzazione degli obiettivi stessi; ma ormai è dimostrato che il nesso fra cultura e movimenti di massa non può essere piú assi-

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curato dalle «grandi sintesi» o dal ricorso a modelli di simulazione. Si apre, per gli intellettuali, un nuovo capitolo nella loro ricerca d’identità al cospetto del sociale: una ricerca destinata ad ampliarsi dopo i risultati delle elezioni del ’75 e del ’76, che pongono ai partiti della classe operaia il problema della gestione di città o regioni su cui pesano disastrosi precedenti e un assetto legislativo difficilmente utilizzabile. La risposta alle lotte operaie del ’68-69 passa intanto attraverso l’istituzione delle regioni, agli inizi del 1970, e l’approvazione della nuova legge sull’edilizia del 22 ottobre 1971: quest’ultima ha come scopo il freno della speculazione fondiaria, l’attribuzione al potere pubblico di compiti relativi all’assetto urbano e territoriale estesi a ventaglio – edilizia popolare, installazioni produttive, attrezzature turistiche, ecc. – la democratizzazione e il decentramento degli organismi di gestione, il coordinamento delle iniziative. Naturalmente, tale riforma amministrativa deve fare i conti con la tradizionale struttura accentrata dello Stato: la regione appare, nel disegno che emerge dal complesso dei provvedimenti suddetti, come interlocutoria rispetto alla base e mediatrice rispetto ai luoghi decisionali che detengono il monopolio dei servizi pubblici, ma anche come possibile luogo arbitrale – quando non un cuscinetto – dei conflitti sociali157. D’altra parte, la fine del boom speculativo è solo sancita dalla legge del ’71: ormai, forme arcaiche di accumulazione, come la rendita fondiaria urbana, sono riconosciute anche dai ceti capitalistici piú attenti come motivi di freno allo sviluppo, per non parlare degli sprechi indotti dal mercato liberistico dei suoli, con effetti gravanti anche sui settori trainanti. Fatto sta, che ora la grande industria non ha solo bisogno di strutture amministrative in grado di canalizzare i conflitti fuori dei luoghi di lavoro – le regioni si istituiscono, non a caso, rispettando il dato costituzionale solo quando l’e-

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sigenza di tale canalizzazione emerge con forza – ma anche di una ristrutturazione del settore edilizio che permetta di superare definitivamente la sua utilizzazione in chiave esclusivamente «congiunturale». Una ristrutturazione, per giunta, che deve agire assicurando la continuità del processo produttivo, toccando quindi sia il mercato dei materiali che la formazione della domanda. È significativo però che la legge n. 865 – approvata dal Parlamento dopo un lungo iter che sbocca in un compromesso che ne riduce la portata o ne rende difficile l’applicazione – non si preoccupi di modificare i meccanismi finanziari e creditizi che presiedono al settore158. Contraddittorio è quindi il segno della nuova legge. Da un lato, essa tende a far ragione della concezione previdenziale e mutualistica seguita in Italia dall’Ina-Casa e dalla Gescal. D’altro lato, essa risponde all’esigenza di dar corso a una nuova concezione degli impieghi sociali del reddito, vale a dire a una politica di investimenti sociali pianificata. Ciò non contrasta la linea delle grandi forze imprenditoriali. Queste ultime, organizzate nell’ambito dell’Ance e della Confindustria – le «imprese edili integrate» – nel corso del dibattito parlamentare operano giocando la carta della crisi e del ricatto occupazionale; ma solo perché il loro disegno tende a riversare sulla legge l’esigenza di un salto di scala: il nuovo metro produttivo ha dimensioni territoriali, infatti, e il problema di quelle forze è come utilizzare i nuovi poteri regionali. Le leve gestite dal capitale finanziario – rimaste intoccate – costituiscono a tal fine una valida garanzia. Una nuova armatura istituzionale e una nuova strategia capitalistica si profilano cosí, agli inizi degli anni settanta, a servizio di una politica di razionalizzazione che ha perso le motivazioni etiche e illuministe dei decenni precedenti, per abbracciare una logica produttiva a grande dimensione. Di nuovo, l’ideologia sembra

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essere scavalcata dalla realtà e con tempi dettati dalle esigenze incrociate della risposta politica e della dinamica dello sviluppo. Non è certo un caso che, ancora agli inizi degli anni settanta, sia alcune grandi industrie private, come la Fiat e la Montedison, che industrie a partecipazione statale – Iri, Eni – si impegnino nel settore delle costruzioni. L’era che aveva visto l’edilizia ancella dei settori trainanti sembra definitivamente chiusa. Il problema ora di fronte alle industrie nazionalizzate è l’introduzione di una situazione di monopolio nella produzione dei servizi sociali – alloggi, scuole, ospedali, ecc. – intervenendo sul mercato dei suoli, sulla fornitura dei materiali, sull’organizzazione della domanda e dell’offerta. È un intero ciclo l’oggetto della pianificazione. La formula che sembra in grado di tradurre quell’ipotesi di salto produttivo in dimensioni territoriali era stata introdotta dal presidente del Consiglio Colombo accettando alcune indicazioni del Progetto 8o: i «nuovi sistemi urbani», da realizzare attraverso interventi pubblici e imprese controllate dallo Stato, riassumono l’intero arco delle nuove istanze. I documenti della Fiat e della Isvet concordano nel proporre «sistemi» in cui il tema residenziale si connetta indissolubilmente alla riorganizzazione delle strutture commerciali e dei servizi urbani: le economie di scala, i salti tecnologici resisi indispensabili, la gestione dei nuovi poli di sviluppo all’interno delle regioni economiche, la gestione delle infrastrutture sociali formano un tutt’uno, e in tale quadro persino il colloquio tra iniziativa capitalistica e istituzioni democratiche è programmato. Le regioni si vedono confidare ruoli promozionali, dove è da leggere il sottile intento di ridurle a organismi di gestione del consenso. L’ingresso trionfale del grande capitale nell’area del sociale ha bisogno di un uso anticonflittuale delle istituzioni democratiche.

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Il progetto piú clamoroso conseguente a tale strategia è quello per la cosiddetta «città Nolana» (1969): un intervento promosso dalla Sicir, società finanziata dalla Fiat e dall’Iri, per una nuova struttura integrata presso Napoli e inizialmente dimensionata sull’unico grande complesso industriale esistente, l’Alfa-Sud159. Le zone residenziali per cinquantamila abitanti, con possibilità di ampliamento fino a duecentomila, si agganciano a un asse autostradale che lega il nuovo complesso a Napoli, alla regione e a una nuova struttura di servizi a raggio territoriale, comprendente, fra l’altro, un ospedale per cinquemila posti letto e una università per diecimila studenti. L’immagine è quella ormai di prammatica assunta dalle megastrutture urbanistiche: in un territorio cronicamente sottosviluppato e congestionato, la proposta tende a creare un asse ipertecnologico, superiore, come qualità e quantità di servizi, alle piú recenti New Town inglesi. Non sostanzialmente diversa è la concezione che guida il progetto di intervento nella regione di Ottana, in Sardegna, ad opera dell’Eni e della Sir: ancora una volta, capitale pubblico e capitale privato risultano associati in un’ipotesi di ristrutturazione regionale a supporto di una catena di nuovi insediamenti chimici. La politica dell’intervento nel Meridione tramite «cattedrali nel deserto» è però finita solo teoricamente. Il progetto di Ottana segue ancora la logica di una forte concentrazione di capitali per impianti destinati a una forza-lavoro limitata, mentre al nulla di fatto per quanto riguarda la «città Nolana» risponde lo scandalo del nuovo impianto siderurgico di Gioia Tauro: un’ulteriore risposta politica alla jacquerie esplosa con i moti sottoproletari di Reggio Calabria, abilmente manovrati dalle destre, che costringe lo Stato a spendere centinaia di milioni per una impresa destinata al fallimento. Fatto sta, comunque, che agli inizi degli anni settanta l’emergere del problema territoriale e urbano come

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terreno di intervento capitalistico comporta la creazione, da parte delle grandi imprese, di nuove strutture finanziarie e operative: la Fiat crea la Fiat Engineering e la Siteco, per la progettazione e la realizzazione di complessi industriali, commerciali, residenziali, turistici; l’Eni opera tramite la Tecneco e Issvet; la Montedison crea la Montedil; la Sir lancia un sistema di industrializzazione edilizia in materiali plastici; l’Iri crea l’Italstat, società finanziaria che nel ’71 assorbe la Società condotte d’acqua, la maggiore impresa edilizia italiana che realizza opere come il tunnel del Monte Bianco, il viadotto del Polcevera a Genova, su progetto di Riccardo Morandi, il parcheggio sotterraneo di Villa Borghese a Roma, il Palazzo dello Sport di Milano. Nel frattempo, appaiono organismi di ricerca a capitale misto, come la Tecnocasa, con capitali dell’Italstat, dell’Eni, della Montedison e della Fiat, mentre nel 1973 la regione toscana stipula un contratto con la Svei, società a partecipazione paritaria dell’Italstat, dell’Eni e della Montedison, per la costruzione di venticinquemila alloggi a carattere popolare160. A fronte di tale rilancio dell’iniziativa capitalistica, che rende di colpo anacronistico il bagaglio propositivo dell’intelligencija anni sessanta utilizzandone in proprio i margini, è il tentativo del movimento cooperativo – ma in particolare della Lega nazionale, in cui confluiscono le cooperative «rosse» – di legare la propria produzione di alloggi e le proprie rivendicazioni alla politica sindacale. Difficile colloquio, questo, fra un organismo produttivo e un organismo rivendicativo: cui sono da aggiungere le difficoltà interne alle stesse cooperative, il cui principale obiettivo – la priorità data alla proprietà indivisa – viene ostacolato in ogni modo dalle condizioni creditizie, che puntano, al contrario, sul tradizionale obiettivo politico della casa di proprietà individuale161. Inoltre, solo in regioni come l’Emilia, la Lombardia e la Liguria operano forti impre-

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se aderenti alle cooperative di produzione e lavoro; per le altre regioni, è necessario ricorrere a imprese private. Ma anche nelle regioni «rosse» le contraddizioni non mancano. Soggette a un mercato competitivo, le imprese cooperative di produzione e lavoro sono costrette ad attestarsi su prezzi spesso inaccessibili alle cooperative di abitazione, cosí che i prodotti politicamente indirizzati alla classe operaia risultano alla fine destinati ai ceti medi. Comunque, dalla fine degli anni sessanta in poi, l’edilizia cooperativa ha avuto modo di realizzare complessi di notevole qualità, per l’articolazione tipologica e la ricerca di immagini urbane significative, come i quartieri della Federcop Verbena ad Ancona (1972-75) e Astra a Terni (entrambi dello studio Coper), i quartieri Barca e Steccone a Bologna, città in cui il 40 per cento degli edifici residenziali è di tipo cooperativo, il complesso nell’intervento «167» di Casal dei Pazzi a Roma dello studio Coper (terminato nel 1977). Ma il quadro sinora tracciato rimane teorico. Sia le strategie padronali che il movimento cooperativo, specie dal 1973 in poi, sono costretti a uno stallo dalla crisi economica incalzante: i grandi progetti a scala regionale rimangono sulla carta, la riconversione tecnologica nel settore edilizio resta una semplice ipotesi, l’Italstat sembra girare a vuoto. L’edilizia è di nuovo relegata ai margini delle considerazioni economiche. Chi aveva sperato – o temuto – una clamorosa ripresa dell’iniziativa capitalistica è costretto a riconoscere una volta di piú il carattere illuministico dei suoi sogni. Gli scioperi generali per la casa attendono ancora una risposta, a piú di dieci anni di distanza. Rimane, certo, una nuova qualità residenziale nelle articolazioni di un quartiere come quello di Verbena: la riflessione sulle esperienze internazionali e l’impegno a risolvere contemporaneamente problemi tecnici, produttivi e politici agiscono positivamente, in questo caso.

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Ma è anche dato assistere ad involuzioni che denunciano un impatto violento di artigiani della qualità con la nuova domanda: la Nizzoli associati, costituitasi nel ’65, si cimenta nella progettazione di strutture urbane complesse nell’area del nuovo polo industriale di Taranto, con deludenti risultati sia nella fascia residenziale realizzata nel ’72 che nel progetto per la direzione dello stabilimento Italsider. Il luogo dell’industria non ispira piú le soluzioni totalizzanti che l’antico collaboratore di Edoardo Persico era stato capace di riversare nei suoi prodotti per la Olivetti. Ma anche un architetto cosí puntigliosamente concentrato sull’indagine di specifiche aree linguistiche, come Luigi Pellegrin, appare spaesato agli inizi degli anni settanta: l’eco della lezione wrightiana risulta assente nei progetti di concorso per il quartiere Zen a Palermo (197o) e per l’Università di Barcellona (1970, con Ciro Cicconcelli), informati, come anche il Liceo scientifico ed Istituto per geometri da lui realizzato a Pisa nel ’72-76, a una tecnolottizzazione tanto professionalmente controllata quanto abbracciata con distacco. Il risultato di tale ibrido incontro fra abilità di scrittura e programmi produttivi è nelle cellule prefabbricate progettate da Pellegrin per la Sir (1974), all’interno del piano di intervento sopra accennato. I suoi elementi tubolari, accoppiabili, moltiplicabili e sovrapponibili non mancano di ironia; ma essi vanno valutati alla luce dei contemporanei disegni di città utopiche insofferentemente schizzati da Pellegrin: ancora una volta, il pendant della tecnica è l’incubo onirico, la rievocazione aggiornata della megalomania decadente dell’Alpine Architektur. Se il coinvolgimento di Pellegrin nei programmi della Sir mette in gioco il ruolo del progetto all’interno della logica produttiva, quello che vede i Bpr impegnati nella sistemazione degli svincoli autostradali della Milano Nord o della tangenziale di Napoli (1970-71) riduce il

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design a semplice decorazione a livello paesistico: là dove si precisano gli obiettivi del grande capitale pubblico o privato, il lavoro intellettuale viene utilizzato o come supporto tecnico o come sovrastruttura esornativa. Chi, con il Museo del Castello Sforzesco o la Torre Velasca, aveva potuto assumersi il ruolo di custode di coscienze e memorie collettive, accetta ora senza traumi di nobilitare, apponendovi un marchio di qualità, programmi di intervento territoriale incontrollabili con gli strumenti conoscitivi propri a quella «qualità». Nel frattempo, all’interno delle amministrazioni comunali democratiche matura un nuovo progetto che investe il destino dei cosiddetti «centri storici». Ci si interroga, in sostanza, sulla produttività economica e culturale di un ribaltamento di tendenza a favore del patrimonio esistente: si tratta di combattere l’espulsione degli abitanti meno abbienti dai centri e i processi di trasformazione dei centri stessi in organismi terziari o in distretti residenziali di alta classe, e di utilizzare in favore del risanamento conservativo gli strumenti nelle mani dell’operatore pubblico. Con le iniziative prese dal comune di Bologna, che affronta operativamente il restauro di comparti esemplari sulla base di attente analisi tipologiche e di una sperimentale utilizzazione dei dispositivi di legge per il controllo degli effetti indotti dall’operazione, la tematica compie un salto di qualità. Da astratta istanza culturale, come essa ancora si presenta al Convegno di Gubbio del 196o, quella tematica si fa ora politica e tecnica: i successi e gli insuccessi dell’impresa bolognese – cui seguono i tentativi compiuti a Pesaro, Rimini, Brescia – pongono con forza il problema del riuso delle strutture esistenti come alternativo a quello della creazione di nuovi tessuti, facendo toccare con mano i limiti e gli ostacoli da rimuovere a monte per la riuscita delle operazioni decise a livello locale. Operazioni, peraltro, che corrono

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costantemente il pericolo di cadere nel vizio ideologico. Il recupero dei tessuti antichi come ritorno ad ambienti che permettano di vivere in equilibrate comunità aleggia ancora come tema di fondo, lasciando trapelare ambigue tonalità antiurbane. Rimane però aperta la questione del riciclaggio dell’edilizia usata, certo determinante per città come Venezia, che nonostante la legge speciale (o a causa di essa) permane in una grave crisi di identità, ma che investe anche il destino dei quartieri ottocenteschi e del magma periferico di Torino, Milano o Roma. Si tratta comunque di processi aperti, che dopo le sperimentazioni bolognesi segnano il passo, malgrado il mutato segno politico di molte amministrazioni comunali. Le relazioni fra decisioni decentrate e apparati istituzionali emergono in tutta la loro drammaticità proprio da tali spostamenti degli equilibri politici. L’elezione a sindaco di Roma di uno storico dell’arte come Giulio Carlo Argan (1976-1979) sembra realizzare in ritardo il sogno vittoriniano di un potere gestito in proprio dagli intellettuali: ma la buona volontà e la dedizione personale si rivelano strumenti non sufficienti per influire visibilmente su un organismo metropolitano cosí composito e compromesso. Di nuovo si profila come prioritaria la ricerca di un nuovo rapporto fra tecniche e strutture di potere: un rapporto su cui si giocherà gran parte del futuro della società italiana.

6. Due «maestri»: Carlo Scarpa e Giuseppe Samonà. Al cospetto dei nuovi problemi esplosi nei primi anni settanta, gli architetti appaiono armati solo di rinnovate capacità di autoverifica. Le loro organizzazioni corporative non offrono strumenti di azione o conoscenza, i loro organi culturali sono disseminati, l’editoria specialistica è inflazionata, mentre l’«ideologia del rifiuto»

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mostra la sua povertà e la boria tecnocratica la sua inefficienza. I migliori «scrivono testi». Per molti di loro, si tratta di una dolorosa autolimitazione, per altri, si tratta solo di coerenza con un atteggiamento di separatezza da sempre sostenuto. Per i piú giovani, di un momento che si vorrebbe di attesa, e di cui si constata, con angoscia, l’indefinito perpetuarsi. Non a caso, è proprio nelle opere di chi si apparta, di chi si protegge dai rimbombi, che è dato trovare il massimo livello di coerenza linguistica. Il distacco dell’«inattuale» illumina su situazioni soggettive e collettive che permettono ancora (o stimolano?), «il coraggio di parlare delle rose». Per tali aurei isolati anche la trattazione storiografica deve sospendersi, per assumere l’aspetto «classico» della monografia. Del resto, non v’è altro modo corretto per trattare di un’opera come quella di Carlo Scarpa (1906-78), cosí orgogliosamente attestata in difesa del cerchio magico entro cui l’architetto appare rinchiuso insieme ai propri codici: un’opera che va trattata nella sua interezza e che affrontiamo solo ora per sottolinearne l’isolamento e la particolarità162. Nessuna «decadenza», tuttavia, è nella Venezia cantata e vissuta da Scarpa. Da Venezia, piuttosto, Scarpa trae un insegnamento in qualche modo perverso: quello che proviene dalla dialettica fra celebrazione della forma e disseminazione labirintica, tra volontà di rappresentazione ed evanescenza del rappresentato, tra ricerca di certezze e consapevolezza della loro relatività. Negli anni trenta, la ricerca scarpiana era iniziata con una serie di vetri per la Venini di Murano e con la ristrutturazione interna di Ca’ Foscari (1936-37), con l’occhio attento sia alla scultura di Arturo Martini che a temi di Braque e di Léger: già in quei primi saggi, un ironico sorriso traspare dalla sua opera di «sapiente arti-

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giano». Che prosegue, nel dopoguerra, del tutto estranea ad ogni trauma ideologico, perseguendo una poetica dell’oggetto ricca di compiacimenti formali, attenta alla lezione wrightiana ma attenta anche a non cadere in maniera alcuna, accanita ad elaborare una materia fatta di preziosità, di evocazioni e di contrasti. Depurata di ogni utopismo, la sintassi wrightiana diviene, nelle sue mani, flessibile strumento di meditazione, capace di dar vita a narrazioni convulse e interrotte. Frasi che alludono ad altre frasi, in un’infinita catena di rimandi, caratterizzano già i suoi progetti per una casa di appartamenti a Feltre (1949), per un cinema a San Donà di Piave, per Villa Zoppas a Conegliano (1953), per la Casa Taddei a Venezia (1957), per Villa Veritti a Udine (1956-61). Puntigliosamente concentrato nel segreto del suo mestiere, Scarpa scompone i pezzi della sua lingua, per trascinare lo spettatore in un aggrovigliato universo di segni la cui difficoltà di decifrazione è ammorbidita da un edonismo ingannevole. Edonistica è infatti la sua scrittura per frasi staccate. Nel padiglione del Venezuela ai Giardini della Biennale (1954-56), ma ancor piú nei frazionati e preziosi spazi del negozio Olivetti alle Procuratie Vecchie (19571958), del negozio Gavina a Bologna (196o)163, della Querini-Stampalia a Venezia (1961-63)164 la frase è tutto. Angoli spezzati e «figurati», piani slittati, acqua introdotta a diluire ulteriormente forme instabili: una vera arte della manipolazione informa i singoli frammenti di tali parole «troppo piene». In qualche modo, il linguaggio è per Scarpa un pre-testo, come pre-testi sono i monumenti su cui ha modo di intervenire con la sua indiscussa competenza di restauratore o di allestitore. Nella sistemazione di Palazzo Abatellis a Palermo (1953-54), nella Gipsoteca di Possagno (1956-57), nel restauro del Museo di Castelvecchio a Verona (1964)165, Scarpa intesse con la storia un colloquio privato ricco di

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metafore: la surreale collocazione della statua equestre di Cangrande della Scala, a Castelvecchio, è tipica di tale rapporto divertito e pensoso ad un tempo con l’antico. Ciò differenzia notevolmente l’atteggiamento di Scarpa dallo «storicismo renitente» o ambiguamente sofferto tipico di Rogers, di Gardella, di Quaroni o dei loro piú diretti allievi. L’ironia investe anche la storia, considerata come materiale di progettazione. Si tratta, per Scarpa, di un’ironia cui certo non è estraneo l’incontro con Paul Klee, in occasione della mostra allestita nel 1947. Dalla confluenza fra le oniriche rievocazioni della «fanciullezza crudele» di Klee, l’ascetismo di Mondrian – anch’esso commentato da Scarpa nell’allestimento della mostra romana del ’56166 – e i «ludi geometrici» wrightiani scaturisce un comico impertinente e disincantato. Insegnare a sorridere di ciò che rischia di divenire troppo serio: anche questo è un insegnamento che proviene dall’opera di Scarpa, il cui riserbo aristocratico può persino permettersi di tingersi di impudicizia. E certo «impudica» è l’ultima grande opera realizzata da Scarpa, la sistemazione del cimitero di San Vito presso Asolo per la tomba di G. Brion (1970 sgg.). «Necropoli ludens» è stata definita questa tormentata sequenza di episodi formali rappresi e iperprogettati – il disegno, del resto, non è mai stato un mero strumento, per Scarpa – cunicolari e metafisici, disposti secondo un piano dalle direttrici nascoste. Omaggio reso all’«arte del cimento e dell’invenzione», il cimitero di San Vito assume l’aspetto di un campo di battaglia, dove le forme – il «tempietto» evocante lezioni orientali, il «padiglioncino» e la passeggiata coperta che guida fino al portico di ingresso, l’ermetico arco tombale che copre i sarcofagi dei familiari – giocano fra di loro una serena partita con la morte. Piú che nei progetti per il teatro di Vicenza (1968), per la Banca Popolare di Verona o per il rifacimento del Teatro Carlo Felice a Genova, è nel

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cimitero di San Vito e nella Casa Ottolenghi a Bardolino (1975) che è dato cogliere il nucleo segreto della poetica di Scarpa. Chiuse in loro stesse, tali opere si rivolgono agli «intendenti» per testimoniare l’ostinata volontà di comunicazione di un maestro di età bizantina casualmente vissuto nel xx secolo, e che conseguentemente usa scritture attuali per far parlare verità antiche. E a ben vedere, ancora di verità antiche è intessuta l’opera piú recente di un altro «maestro» isolato, Giuseppe Samonà. Troppo spesso, analizzando l’opera di Samonà, si è dato credito al tema da lui stesso teorizzato: l’indissolubile unità delle diverse scale di intervento, dal territorio all’architettura167. Ma si tratta di un assunto datato, legato alle condizioni del dibattito degli anni cinquanta, che va verificato nel concreto dei suoi progetti recenti, frutto di una stagione creativa eccezionalmente felice. La fase aperta con i progetti per la Biblioteca Nazionale di Roma e con i nuovi uffici del Parlamento prosegue infatti con alcuni progetti di concorso per temi a grande scala, come la «metropoli dello Stretto» (1969) e principalmente per le Università di Cagliari (1971) e di Cosenza (1972)168. Una complessa «macchina» lineare si inserisce – nel progetto per Cagliari – fra i centri urbani esistenti, affossandosi nel suolo; un gioco «epico» di forme si installa, di converso, nelle corti interne. Samonà lavora ancora per paradossi: il suo «comporre», ora piú che mai, procede assoggettando frammenti e affermando, con dignità d’altri tempi, che suo compito è rinnovare la memoria di un’ars antiqua con termini attuali. Cosí, fra storicismo e antistoricismo, matericità e immaterialità, volontà di forma e disintegrazione sintattiche, si struttura una delle sue opere più notevoli, la nuova sede della Banca d’Italia a Padova (1968-74), fatta di citazioni deformate nel fronte su via Roma – gli archi di base enfatizzati o contratti, i merli ghibellini riu-

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niti fra loro alla sommità – e di campi neutri tormentati da oggetti surrealisticamente isolati nella fronte su via Tito Livio. Il «comporre» mostra qui i propri limiti, incontrando l’arte della «decomposizione». Diverso il discorso relativo al centro civico, culturale e commerciale di Gibellina (1970-71), caso esemplare dei ritardi e delle tutt’altro che innocenti vischiosità della burocrazia italiana, oltre che delle conseguenze degli interessi che si accumulano persino su un caso, come questo, di ricostruzione – nelle intenzioni «esemplare» – di una comunità terremotata. Interessante comunque è rilevare che, nel loro progetto, Samonà, Quaroni, Gregotti e G. Pirrone si sentono in dovere di abbandonare ogni inibizione per immaginare un insediamento fatto di objets trouvés: la loro Gibellina appare come frutto di un colloquio impossibile fra interlocutori che ricorrono all’ermetismo per reciproca diffidenza. Anche qui, un sintomo: la tragedia naturale non è interpretata con lo sguardo di un Verga o di un Pasolini, ma solo come occasione per confrontare vie di approccio diverse all’autonomia della lingua. Per quanto riguarda Samonà, va notato che a Gibellina appare, in scala ridotta, una prima idea di quello che sarà il progetto per il teatro popolare di Sciacca (1975 e 1979, in via di realizzazione). Un assemblaggio di tre segni perentori da forma all’organismo del teatro di Sciacca: un tronco di cono e un tronco di piramide si attestano sui lati opposti di un enorme parallelepipedo, che ospita le scene mobili e i servizi delle due sale contrapposte. Come nella banca patavina, ma qui con una piú accentuata volontà espressionista, la perentorietà dell’impianto è mascherata da una ridda di riferimenti a Poelzig, a Van de Velde, a Le Corbusier, mentre l’ingresso evocante un arcaico trilite, le lunghe scalinate esterne ispirate ai templi maya, il bucranio che corona il vertice del piccolo teatro introducono caustiche interferenze narrative.

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Con aristocratico distacco, Samonà espone, scritti in codice cifrato i frammenti della propria autobiografia culturale. La passione per l’autobiografia non si nasconde piú, né, come nell’opera di Quaroni, assume toni accorati. Al massimo, essa testimonia di un ritorno a un universo di «totalità» perdute, rievocate in un clima spoglio di nostalgia.

7. Il frammento e la città. Ricerche e «exempla» degli anni ’70. Il ciclo chiuso che, nel loro insieme, è tracciato dalle opere di Scarpa e Samonà esprime chiaramente lo spreco di energie che caratterizza il dibattersi della disciplina fra compiti inconfrontabili fra loro. La capacità di far scaturire poesie dalle contraddizioni vissute in prima persona è l’altra faccia della medaglia di una situazione che non ha piú punti di appoggio, né nelle università, che sopravvivono quasi per scommessa a una crisi cronica, né nelle istituzioni, né nelle organizzazioni di categoria o di cultura. Specializzata la funzione dell’Inu, divenuta esornativa quella dell’Inarch, problematico il rapporto fra università ed enti locali: elaborata in solitudine, o all’interno di piccoli gruppi consci della propria aleatorietà, la ricerca non trova luoghi in cui depositarsi. Ciò può provocare gesti tanto altisonanti quanto superflui – come la richiesta di pensionamento anticipato di Zevi in segno di protesta contro l’incuria governativa che contribuisce a incancrenire le strutture universitarie (1979) – o spinge a chiudersi nel limbo di spazi fittizi, consegnati alla carta come testimonianze estranee. In entrambi i casi, viene accuratamente messa da parte la ricerca delle ragioni prime della crisi: una ricerca che potrebbe rivelare quanto i «piccoli no», pronunciati magari con veemenza, siano in sostanza dei

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«grandi sì» offerti senza contropartite a un nemico in fondo accettato perché sconosciuto. Ciò spiega la ragione del fallimento degli Zevi, dei Quaroni, dei Samonà, nei confronti dei compiti soggettivi richiesti dalla didattica, dalla metà degli anni sessanta in poi. Rimangono certo, per Quaroni, i risultati ottenuti presso schiere di eletti, e per Samonà il merito di aver permesso, a Venezia, l’innesco di processi di trasformazione tuttora in fieri. Ma si tratta sempre di «premesse». Al di là di esse, i nostri Socrati non si sono mai inoltrati. Né Quaroni, il piú tormentato e problematico dei protagonisti dell’architettura italiana del dopoguerra, maestro del dubbio e dell’autocritica, può vantare, come Samonà, realizzazioni che sublimino le sconfitte subite o autoimpostesi. Il dubbio, del resto, obbliga a un percorso fatto di imprevisti e di improvvisi cedimenti, di svolte subitanee e inspiegabili. Un sottile legame congiunge la magistrale ipotesi tracciata nel ’59 nel progetto per il Cep di San Giuliano alla macchina sovrabbondante del ’67 per gli uffici del Parlamento a Roma; ma nel design a grande scala, che Quaroni sperimenta negli anni settanta in collaborazione con Salvatore Dierna e altri giovani allievi, l’indifferenza nei confronti dei materiali imbocca una strada che sembra non aver nulla a che fare con le macerazioni linguistiche della chiesa di Gibellina o della succursale romana del Banco di Roma (1970 sgg.). Un’insolita olimpicità domina i progetti quaroniani per le Università di Cosenza, di Mogadiscio (1973), di Lecce (1974): la «torre di Babele» sembra in essi definitivamente esorcizzata169. In realtà, si tratta di un farsi da parte senza clamori, di un diverso modo di porsi in posizione di scettico osservatore, da parte di chi ha dato fondo a un intero arco di ipotesi e di disilluse speranze. Altri sono, fra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta, i portatori di nuovi strumenti di lavoro:

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per tutti loro o quasi l’utopia è arma spuntata, e giungere a risultati eloquenti è essenziale. Se i vecchi maestri avevano elaborato strategie, i nuovi privilegiano sperimentazioni esemplari; se quelli erano intrisi di moralismo e di miti, questi usano l’ideologia come arma leggera e problematizzano, piuttosto, sistemi di analisi depurati dalle scorie del futuribile. Fra il colpo di freno provocato dalla crisi posteriore al ’73, le incerte prospettive degli operatori pubblici e l’attesa in cui vive il settore edilizio, la cultura architettonica italiana ha potuto cosí produrre quattro esempi di intervento residenziale di respiro internazionale – i quartieri Matteotti a Terni di Giancarlo De Carlo (1969-75), Monte Amiata al Gallaratese a Milano di Carlo Aymonino e collaboratori (1967-73), Corviale a Roma del gruppo Fiorentino (1973 sgg.) e Zen a Palermo del gruppo Gregotti (1970 sgg.) – utilmente confrontabili fra di loro, anche per il loro valore di modelli, non foss’altro che di metodo. Del bagaglio consumato nel corso dell’esperienza dei vari programmi per l’edilizia pubblica, quasi nulla trapela da questi quattro exempla, ben consci del loro ruolo dirompente rispetto al dibattito relativo alla collocazione del manufatto in seno allo sviluppo della città contemporanea. Le ipotesi che essi hanno l’indubbio merito di rendere concrete e verificabili chiudono storicamente un’epoca per segnare una svolta che ammette molteplici sbocchi. Il villaggio Matteotti, anzitutto. È impossibile prendere in considerazione quest’opera senza rifarsi alla complessa ricerca di De Carlo e alle sue ramificazioni. Impegnato a ridefinire strumenti concreti per il farsi politico dell’architettura e del planning, aperto alle sollecitazioni metodologiche delle tecniche di analisi statunitensi ma pronto a farle reagire al confronto con la realtà italiana, conscio della diversa qualità imposta alle tecniche dalle differenti scale di progettazione, De Carlo

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accompagna l’opera da lui svolta in organismi collettivi come l’Eses o il piano intercomunale milanese con approcci al design urbano, come nel progetto di concorso per l’Università di Dublino (1964), svolge un’esemplare opera di pianificazione continua ad Urbino, approfondisce e depura il linguaggio sperimentato nei dormitori dell’Università urbinate nell’insieme residenziale La Pineta (1968), nel nuovo Ospedale Civile di Mirano (1967 sgg.), nei nuovi collegi universitari di Urbino (1973 sgg.), nel progetto per la nuova Università di Pavia (1970-75). L’approccio di De Carlo alla forma è duttile: un’assenza di pregiudizi gli permette di vagliare un arco di ipotesi palesemente aderenti al clima del Team X, piú orientato verso lo sperimentalismo degli Smithson, tuttavia, che verso le troppe serene certezze di Bakema. Né il brutalismo dei dormitori di Urbino, né l’elegante geometrismo del quartiere La Pineta o della Scuola Normale sono comunque, per lui, riducibili a un formulario. Ciò che conta è la ricerca di un metodo e, soprattutto, di un rigore capaci di restituire credibilità all’approccio disciplinare170. È quindi necessario valutare sia i residui utopici del piano elaborato da De Carlo per Rimini, sia gli scarti linguistici presenti nella sua opera alla luce del tema predominante che li informa: la ricerca di una sicurezza progettuale che comprenda in sé le molteplici sollecitazioni provenienti dall’utenza, di una tecnica, in definitiva, «aperta», capace di colloquiare con linguaggi ad essa estranei. Che su tutto ciò pesi l’origine «anarchica» di De Carlo e il contatto con l’esperienza dell’Advocacy Planning statunitense è indubbio171. Ma anche della mitologia della partecipazione De Carlo è capace di fare uno strumento sperimentale e flessibile. Il risultato del villaggio Matteotti diverrebbe incomprensibile fermandosi a una sin troppo facile contestazione delle ideologie che ne sono alla base.

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Infatti, esso vale non solo o non tanto per il suo risultato, quanto per il processo che lo ha reso possibile. Nel ’69, quando De Carlo è chiamato dalle Acciaierie Terni a dar forma a un insediamento nell’area del vecchio villaggio costruito nel ’39 per i dipendenti della società, egli si trova al centro di un conflitto che ha per protagonisti l’amministrazione comunale, la Terni, le organizzazioni operaie172. Scegliendo fra le cinque alternative proposte da De Carlo la piú coraggiosa e innovativa, la Terni intende rendere visibile un cambiamento di rotta nella sua politica sociale, prima pressoché inesistente. De Carlo impone però un processo progettuale basato sul continuo scambio con gli operai delle Acciaierie al di fuori di ogni controllo della società e in orari di lavoro. Iniziando con una mostra documentaria su casi esemplari di edilizia residenziale, De Carlo dà il via a un’operazione dagli effetti imprevisti. La partecipazione alla progettazione da parte dei futuri utenti è certo guidata dall’architetto: sullo schema da lui proposto – una piastra scavata, con elementi paralleli a tre piani, spazi per accessi veicolari e aree private all’aperto, servizi di prima necessità lungo percorsi trasversali a due livelli – la variabilità tipologica e la frequenza delle singole cellule vengono fissate dall’utenza. La griglia tridimensionale definita da De Carlo funge cosí da maglia di riferimento su cui si depositano i desiderata di utenti le cui vecchie abitudini vengono modificate nel corso di un rapporto con l’architetto – cui si affiancano un tecnico della Terni e un sociologo – dagli effetti indubbiamente didattici. L’immagine che prende forma da tale colloquio fra intellettuale e utenza riflette la ricchezza delle scelte acquisite. La chiarezza della griglia di base si compone con la mutevolezza delle tipologie, con il digradare dei volumi cementizi, con i tetti giardino e i percorsi variati: la severità del linguaggio è addolcita da modulazioni

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e particolari che inclinano verso un picturesque urbano non sempre controllato. Ma è proprio nel corso dell’esecuzione che esplodono conflitti che compromettono l’operazione: la Terni sceglie per l’appalto una consociata Iri, l’Italedil, e la conduzione dei lavori è affidata all’Italstat malgrado le offerte minori avanzate da imprese locali; la realizzazione si rivela onerosa; gli esecutori entrano in contrasto con i progettisti e De Carlo è considerato ospite sgradito in cantiere. Nel 1975, le duecentocinquanta famiglie assegnatarie entrano nei nuovi alloggi, ma la Terni, che da una gestione socialista, nel frattempo, è passata in mani fanfaniane, non è piú interessata a un’operazione «illuminata» e la realizzazione delle attrezzature e del secondo lotto di alloggi viene rimandata sine die. Dal canto loro, gli effetti del processo partecipativo innescato da De Carlo si diramano in piú direzioni. Il comitato di quartiere, insieme al movimento cooperativo, propone un risanamento autogestito delle vecchie abitazioni in alternativa al nuovo complesso, raccogliendo l’adesione del 98 per cento dei residenti ma con l’opposizione dei sindacati e del consiglio di fabbrica; l’amministrazione comunale, nel preparare nel ’75 il suo piano triennale per l’edilizia economica e popolare, si ispira ai metodi di De Carlo; nel ’74, il comitato di fabbrica e i sindacati rivendicano la loro presenza alle decisioni relative alla ristrutturazione degli impianti. L’azione di De Carlo aveva puntato su una ridefinizione della relazione intellettuale-produzione agendo su un solo settore di un singolo «caso»; le ripercussioni di quell’azione riportano la tematica ai modi di produzione e alla loro gestione globale. Se il villaggio Matteotti obbliga all’esame di un processo, il complesso Monte Amiata al Gallaratese si impone nella sua pregnanza di oggetto. Al risultato del quartiere Monte Amiata Aymonino giunge attraversando la

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tematica della «nuova dimensione», elaborando ipotesi operative sulla formazione della città «per parti finite»173, approfondendo le tematiche linguistiche aperte con il progetto per la Biblioteca Nazionale di Roma: e ci riferiamo, in particolare, all’edificio residenziale di via Anagni a Roma (1962-63), e ai progetti di concorso per il Teatro Paganini di Parma e per l’Ospedale Psichiatrico di Mirano (1967, in collaborazione con Nino Dardi)174. D’altronde, la lunga gestazione del quartiere – progettato fra il 1967 e il 1970, realizzato fra il ’7o e il ’73175 – non illumina solamente sulle sue caratteristiche strutturali: attraversando gli anni della «grande illusione» e quelli dell’incertezza, esso assume il valore di un saggio riassuntivo. Troppo aperto all’intorno, dominato dalle professionali torri di Vico Magistretti, per essere realmente brandello autosufficiente; troppo «disegnato», per assumere valore metodologico: il complesso sembra enunciare dolorosamente la propria condizione di lacerto infinitesimale, impotente a «metter ordine» nell’oceano periferico della metropoli lombarda, eppure ancora teso a prefigurare modi piú complessi di vita. Solo, che la vita intensa qui preconizzata è vissuta solo dalle forme: i quattro blocchi disposti a ventaglio e incernierati sulla soluzione di continuità del teatro all’aperto sono ricchi di affabulazioni tipologiche e formali, da cui trapela lo strumento principe del «saggio», la memoria. Le solenni cadenze del Karl Marx-Hof vengono evocate insieme a residui informali e all’onirica stupefazione dell’Andrew Melville Hall stirlinghiana: fatto di materiali deformati che alludono a ordini diversi che si sanno irraggiungibili, il quartiere, onnicomprensivo come un film felliniano, è realmente l’erede dell’ideologia piú profonda della «scuola romana». Non a caso, la sua sicurezza si stempera nelle soluzioni angolari, svuotate, distorte, convulse. Sono esse a rendere palese che la lacerazione è il soggetto di tale irripetibile coacervo di

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ipotesi, di parole accatastate, di immagini polivalenti. Né un discorso «lineare» sarebbe lecito per far parlare una condizione intellettuale costretta a gettarsi sull’occasione fortuita con l’ansia di chi intende erigere un monumento alle contingenti contraddizioni in cui è immerso. Un monumento, prima di tutto, al «rumore», all’inesauribile ricchezza del frastuono: esiliato dalla metropoli, il frammento si carica di un eccesso di valori metropolitani. Serve tuttavia uno specchio per esaltare l’affabulazione, una cassa di risonanza per far echeggiare quel frastuono: non a caso, uno dei blocchi del quartiere viene affidato da Aymonino a Aldo Rossi. Ieratico e contegnoso, il lungo corpo realizzato da Rossi gioca il proprio ruolo di testimone silenzioso al cospetto della messa in scena aymoniniana. Ma esso non disdegna la ricerca tipologica: la rue intérieure che attraversa l’edificio di Aymonino penetra quello di Rossi, che la assume come memoria dei ballatoi delle antiche case lombarde, pur accettando suggerimenti dall’unité lecorbusieriana. Dialogo come contaminazione reciproca quello fra Aymonino e Rossi: le polarità che essi incarnano si rivelano entrambe bisognose del loro opposto. Non a caso, i due collaboreranno per il progetto di concorso per il centro direzionale di Firenze176, come non a caso le scarnificazioni cui Aymonino si costringe nel campus scolastico di Pesaro (1970 sgg.) sono un omaggio alle affinità elettive che lo legano all’amico, al «diverso»177. Se il Gallaratese segna nel non-luogo della conurbazione milanese un punto interrogativo raggrumato, il Corviale a Roma si distende per circa un chilometro nel tentativo di costituirsi come magnete riorganizzativo di un sito urbano disgregato e come modello di integrazione fra residenze e servizi. Il Gallaratese e il Corviale; Aymonino da un lato e Fiorentino, Gorio, Michele Valori e Piero Maria Lugli dall’altro: a piú di venti anni

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di distanza dal Tiburtino, che aveva visto gli stessi architetti compresenti accanto a Ridolfi e Quaroni, gli esempi che stiamo accostando mostrano l’ampiezza della divaricazione che ha fatto esplodere la «scuola romana». Professionista cui sono estranee le molteplici tentazioni intellettuali di Aymonino, Fiorentino si stacca ben presto dal ridolfismo «educato» delle prime torri residenziali in viale Etiopia, congelando il suo lessico sia nel secondo gruppo di case a torre nel medesimo viale Etiopia (1962), che nel progetto di concorso risultato vincente ex aequo al concorso per la nuova sede dei tribunali a Roma (1969). Può quindi sorprendere trovarlo impegnato nell’impresa già ricordata dello studio Asse: l’enfasi strutturale suggestiona anche chi persegue una correttezza progettuale sostanzialmente aproblematica. Anzi, nei progetti di Roma-mare e Ostiamare del ’7o e per la zona Flaminio - Tor di Quinto (1971), Fiorentino mostra di aderire in toto al frammentismo esteso a scala territoriale e al clima da metafora ipertecnologica che imperversa nelle sedi universitarie in quegli anni. In ciò, almeno, egli sembra vicino ad Aymonino, e al comune «maestro» Quaroni178. Ma nel Corviale la protezione dell’utopia non regge piú. Dovendo dar risposta a una domanda dell’operatore pubblico, Fiorentino recupera per intero le sue capacità di abile mediatore. Un unico sistema di 200 metri di spessore, con originali tipi edilizi e realizzato con avanzate tecniche di prefabbricazione: eppure, in quanto modello, questa città compressa in un solo volume lineare solo teoricamente si presenta riproducibile; la sua qualità coincide con l’esplicitarsi delle sue dimensioni produttive. L’autentico risultato è nell’aver persuaso l’Iacp della validità della proposta: priva di profezie, questa decantazione dei canti al futuro si realizza trionfalmente come limite della periferia romana, senza alcuna certezza di poterne condizionare gli sviluppi.

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Didascalico, quindi, il Corviale. La sua perentorietà si staglia contro lo sfascio urbano circostante, la sua proposta impegna la committenza a una sperimentazione inabituale, l’allaccio fra la lunga struttura residenziale e i servizi indica possibili modi di articolazione del complesso. Riflettiamo ancora. Da San Basilio al Corviale: due opere «di decantazione», rinunciataria e artigianale la prima, disincantata ma propositiva la seconda. In mezzo, un «vuoto di valori», essenziale. Tuttavia né Aymonino né Fiorentino sono «autori» benjaminiani, e certo nessuno dei due si è fatto «astuto come colomba». Ma l’esito storico che, insieme, il Gallaratese e il Corviale designano per le atmosfere dell’età della ricostruzione è troppo parlante per non ammettere la produttività del décalage ideologico vissuto dalla cultura italiana. Le ambiguità di tali opere sono appunto in quell’aver «vissuto» e non guidato la crisi: anche questo è leggibile in esse. È forse un caso che, dopo il Corviale, Fiorentino senta il bisogno di rivisitare – tradotti però in lingua ascetica – gli etimi del neorealismo, nel progetto per un insediamento residenziale nell’alto Lazio (1979-81)? Il difficile rapporto con l’insieme urbano, che in modo diverso è alla base delle soluzioni del Gallaratese e del Corviale, diviene, nel progetto del gruppo Gregotti per il quartiere Zen a Palermo, colloquio con una natura sentita troppo ricca di valenze emozionali e con la stratificazione storica del tessuto cittadino179. Poste sul prolungamento dell’asse via Maqueda - via della Libertà, le compatte insulae di Gregotti scandiscono solennemente le fasi di un rito: è l’atto del «fondare», che la griglia rigorosa, appena variata alle estremità e aperta ad accogliere i servizi in posizione asimmetrica rispetto all’asse di simmetria virtuale, intende celebrare. I blocchi alti che fanno da testata alle singole insulae accentuano, fungendo da discreti richiami visivi a distanza, tale esaltazione della «città murata»; una città che si

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difende, principalmente, dall’assalto della natura come da quello, prevedibile, della disgregazione periferica. Il «troppo costruito» del quartiere Zen si rapprende nell’unità tipologica costitutiva del complesso: perentoria, l’insula si presenta come struttura finita ma articolata da percorsi e incidenti, che ha come antecedenti il superblocco di Michiel Brinkman a Spangen e il Lindenhof di Ehn, e come obiettivo la costituzione di un «catalogo di negazioni delle idee correnti intorno al tema della residenza», come è scritto nella relazione al progetto. Dopo le calibrate distorsioni della Rinascente di Torino, Gregotti risponde cosí, a quattro anni di distanza, alle istanze avanzate nel numero monografico di «Edilizia moderna» dedicato alla forma del territorio. Se il Corviale è un grande segno che si staglia come diga, alle soglie dello sviluppo urbano, il quartiere Zen è una meteora che si stacca dalla costellazione cittadina e si condensa sotto l’incombere di forze minacciose. Mutano le morfologie e i modi di produzione proposti; permane la volontà di proteggersi da minacce. Sempre piú astratta – l’ombra del Worringer si proietta su tali dispositivi formali carichi di allusioni arcaiche – è la scrittura che caratterizza la ricerca di nuovi equilibri fra l’artificiale e il naturale. Quell’astrazione è peraltro indice di una volontà di controllo sul frammento finito assunto come testimonianza: per il Corviale e per il quartiere Zen, ma anche per i successivi progetti del gruppo Gregotti, o per le ricerche a grande scala di Franco Purini e Laura Thermes180 – la grande croce del centro direzionale di Latina (1972), il lungo muro percorribile del progetto per la sistemazione delle cave di Montericco, il piano particolareggiato della zona archeologica e portuale di Terracina (1975) – è lecito parlare di un eccesso geometrico, di un eloquente riduzionismo, di un processo di straniamento ostentato come espediente retorico malgré soi. De

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Carlo è ancora fiducioso in un’architettura capace di radicarsi in «luoghi» e di fornire «dimore»; Aymonino narra le vicende che hanno messo alle corde i facili sogni di rigenerazione, anche se si ostina a confabulare con un incerto futuro; Fiorentino ribalta in realismo l’utopia; Gregotti e Purini accettano i confini della forma finita e nello spazio geografico configgono strutture che conoscono la propria artificialità. Naviganti in mari extraterritoriali, i frammenti che dànno forma alle nuove ipotesi non cessano di fare i conti con la storia che incombe su di loro. Il che è tanto piú vero per gli ultimi progetti della Gregotti associati: non piú il tema residenziale è qui in gioco, bensí quello di infrastrutture che permettano di proseguire il discorso sul patologico rapporto architettura-paesaggio. Si noti: proprio Gregotti, uno degli architetti rimasti piú silenziosi durante la breve stagione della febbre megastrutturale, sta oggi realizzando una delle poche operazioni territoriali in cui la dimensione gioca da protagonista, l’Università della Calabria. Ma a tale risultato Gregotti perviene dopo aver approfondito, con Purini, il tema del quartiere Zen nel progetto di concorso per la nuova Università di Firenze (1971)181. Ancora un sistema di dighe – cinque blocchi scarnificati, sedi dei nuclei didattici e di ricerca – contiene le forze del sito e si installa, con funzione nodale rispetto ai nuclei storici di Firenze, Prato e Pistoia, come misterioso reperto. Di nuovo, il comporre assume veste rituale: solennemente la fondazione del nuovo organismo urbano ha luogo. I segni che colloquiano con il paesaggio si caricano di valenze ieratiche: l’architettura riflette gravemente su se stessa e si preserva da contaminazioni esterne. Ma nel progetto risultato vincitore al concorso per la nuova Università di Cosenza e attualmente in via di realizzazione, l’orchestrazione dei segni appare del tutto mutata182. Due diversi siste-

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mi aggrediscono la successione collinare che scende verso la vallata del Crati dalla catena paolana: una serie di blocchi a pianta quadrata per le attività dipartimentali si aggancia a un pontile attrezzato lungo 3200 metri e posto a una quota costante che scavalca le accidentalità orografiche; tessuti residenziali a gradoni si sfrangiano sul versante settentrionale, innestandosi nei nodi di collimazione fra la struttura lineare e i colmi collinari. Il paesaggio viene in tal modo scomposto e ricomposto. Nel conflitto fra il percorso artificiale – il pontile, teso come segno sicuro e filiforme – e i percorsi naturali – le strade di colmo – è riposto il significato ultimo dell’intera operazione: il filo di Arianna sospeso nel vuoto, indifferente a ogni incidente, è l’unico riferimento per un’architettura che tende ad esaurirsi in un fascio di pure «relazioni», e che in quanto tale nell’ambiente che l’accoglie «non abita». Dietro l’ottimismo progettuale di Gregotti – come si esprime anche nel progetto per il centro turistico Manilva a Malaga (1974, con Oriol Bohigas, Martorell e Mackay) o nel centro di ricerche della Montedison a Portici (1978), ricco di citazioni da Stirling e da Terragni – vive una feconda inquietudine.

8. Architettura come colloquio e architettura come «invettiva civile». Non può non dar da pensare il parallelismo dei tragitti segnati, su rotte indipendenti, da alcuni dei piú radicali «revisionisti» italiani degli anni cinquanta. Come per Gregotti, anche per Gabetti e Isola il «neoliberty» non aveva avuto il significato né di un movimento né di una corrente: il loro tenace radicamento nella specificità della loro regione – un Piemonte letto nella sua doppia caratteristica, provinciale e cosmopolita – e nella specificità delle singole condizio-

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ni produttive permette loro di proseguire senza clamori ma con sicurezza la strada iniziata con la Bottega d’Erasmo. Un realismo, cioè, in cui la carica introspettiva è potenziata a contatto con il genius loci, e in cui il gusto artigiano per il «buon prodotto» fa i conti con una spregiudicatezza formale che deriva ancora dal diretto rapporto con le cose, ma in assenza della «disperata tensione esistenziale» che motivava la loro ricerca. La quale, partita dalla celebrazione dell’oggetto, giunge a toccare, come per Gregotti, il tema del rapporto manufatto-ambiente. Eppure, nulla sembra piú lontano di quel tema dalle opere di Gabetti e Isola dei primi anni sessanta 183. Nella chiesa parrocchiale di Montoso (Cuneo), del 1963, i due architetti contaminano motivi eruditi e strutture tradizionali, in omaggio a un’esigenza partecipativa (la chiesa viene costruita dal parroco e dalla comunità religiosa locale); una smaliziata misura domina gli scatti geometrici del monumento alla Resistenza a Prarostino (1964); un realismo colto, raffinato e divertito, attento agli stilemi tradizionali dell’architettura padana e rurale, ma anche a sedimentate memorie e a suggestioni letterarie, informa opere come l’edificio per abitazioni in corso Montevecchio a Torino (1964), la casa-albergo Eca a Le Vallette (1965, con Giorgio Raineri), l’oratorio Farina a Cortanze (1966), le Ville Pero (1965)184 e Furlotti (1973), il progetto per la Casa del Gallo a Pinerolo (1967). Rispetto a tali esperienze di alto artigianato professionale, affettuosamente radicate nei centri storici e nelle campagne piemontesi come cifre cariche di allusioni, il centro residenziale realizzato a Ivrea per i dipendenti della Olivetti (1969-70) sembra voler aprire un nuovo capitolo185. Il complesso fa parte di un piano finanziario che comprende un analogo intervento localizzato ai margini del centro storico di Ivrea e opera di Igino Cappai e Piero Mainardis. Due nuove «architet-

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ture da collezione» vengono cosí ad arricchire l’eclettica raccolta olivettiana: in città, un pezzo macchinistico che gioca sull’impatto fra un’ammorbidita futurologia e l’antico tessuto urbano; all’esterno, in un terreno boscoso prossimo al quartiere Castellamonte, l’arcadia severa delle residenze di Gabetti e Isola. Attraversando la Dora, e installandosi per la prima volta in città, la Olivetti – con il centro dei servizi sociali e residenziali di Cappai e Mainardis – si presenta come «macchina» astrale ingentilita da un design di intonazione anglosassone; verso la campagna, un crescent ben memore dei suoi antenati settecenteschi commenta il volto sociale della ditta. Significativo, il «confidente distacco» dalla natura del crescent in curtain-wall di Gabetti e Isola. Le cellule residenziali minime hanno un solo affaccio all’esterno, definito dalla griglia infittita della facciata ricurva: per metà interrato, questo esempio di «land-architecture» ha cura di non interrompere la struttura del sito, inserendosi in esso con un unico gesto sicuro, con un riconoscibile segno di commento. Terminato nel ’70, il centro residenziale di Ivrea è, per Gabetti e Isola, la premessa di irrealizzati progetti che ne riprendono e ne ampliano la tematica: il progetto di concorso per il centro direzionale della Fiat a Candiolo, presso Torino (1973), quelli per un complesso residenziale a Volterrano, all’isola d’Elba (1975), per un albergo, servizi e attrezzature per il Club Méditerranée a Sestrière (1973), per un complesso residenziale in alta montagna (1975). Piú vicini al progetto del gruppo Gregotti per l’Università di Cosenza che a quelli per il quartiere Zen o per l’Università di Firenze, il rapporto manufatto-ambiente è in essi mantenuto al livello di un sottile ed aristocratico colloquio: il centro direzionale della Fiat si riduce a una doppia scarpata di terra, erba e superfici vetrate inclinate, che descrive un enorme

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cerchio, dominato alla sommità da un enigmatico lucernario fatto di tre tubi accostati. Un esile ma perentorio segno si raggruma cosí nel paesaggio piemontese. Testimonianza di un educato farsi avanti della volontà di forma, esso è lí per far riflettere, non per violentare. La sua compiutezza non vuol altro che «lasciar essere» il sito che lo ospita: non a caso, rispetto al complesso di Stupinigi, poco distante, esso si situa in posizione appena defilata, a rendere evidente la sua qualità di eco della forma circolare del giardino settecentesco. Anche per Gabetti e Isola, dunque, la grande scala non comporta necessariamente utopie o enfasi strutturali. Anche per loro l’incontro con il paesaggio è inserimento in una storia in fieri, da leggere con gli stessi occhi che erano stati capaci di cogliere i valori intimi dei centri di Torino o di Pinerolo. È l’intimismo, piuttosto, che con questi progetti ha compiuto un salto di scala, dimostrando la propria capacità di tradurre la memoria in forme che travalicano i limiti del semplice oggetto186. Ben diverso è il percorso compiuto dai protagonisti milanesi della vicenda neoliberty come Canella, Achilli e Brigidini, o Gae Aulenti. Abbiamo già avuto occasione di parlare, per l’opera di Canella, di una «angry architecture»187. I motivi presenti nel progetto di concorso per il centro direzionale di Torino e nel centro civico di Segrate si appoggiano, tuttavia, a una teorizzazione che ha al suo attivo un originale impegno didattico e di ricerca sul ruolo delle attrezzature nella struttura urbana: per Canella, servizi e infrastrutture sono sigilli di un’intenzionalità capace di opporsi all’ambiguità dispersa della città attuale, alla dissoluzione dei nessi provocata dalla perdita di valori contestuali188. La ricerca tipologica si concentra cosí su gangli vitali, investendo la loro organizzazione e contestando ogni modello lineare di localizzazione. Si tratta, per Canella, di

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coniugare in modo integrato i servizi relativi all’amministrazione, all’istruzione, allo scambio, alla cultura: veri e propri plessi a funzioni multiple vengono da lui proposti come strutture consolidate ed emergenti, atte a triangolare polemicamente organismi urbani. L’aggressività delle immagini canelliane è conseguente a tale impostazione programmatica. Nel centro civico del quartiere Incis a Pieve Emanuele (1968-81), – meteora che si introduce nel complesso spiazzandone la compostezza – la complessità delle funzioni è calata in un linguaggio provocatoriamente «sporco», contaminato, fatto di disarmonici assemblaggi. Le eleganze inquiete degli arredi della fase neoliberty si trasformano nell’antigrazioso cui si ispira il grande guscio cementizio montato su cilindri e coronato da un frontone ricurvo memore dei pastiches di Gaudì, che caratterizza la scuola elementare di quel centro civico. La provocazione e il montaggio esasperato, qui come nel progetto del ’72 per una scuola secondaria a Saronno, e nel Palazzo Municipale e scuola media inferiore a Pieve Emanuele (1971-81), informano sia la ricerca di consolidamento funzionale che i modi del linguaggio. Lo sfacciato eclettismo di Canella, Achilli e Brigidini distorce forme finite, ricorre a memorie lacerate, inquina volumi troppo definiti, fa cozzare in modo stridente immagini difficilmente accostabili. Ma anche questo è un esito in qualche modo implicito nell’atteggiamento polemico dei «giovani di Casabella» alla fine degli anni cinquanta: il messaggio che dovrebbe conquistare a nuovi comportamenti collettivi è affidato a un «rimar petroso», in bilico fra la costrizione alla dissonanza, l’evocazione e l’amore per classiche compostezze, come dimostra anche la scuola elementare e materna di Noverasco (1971-76). Le distorsioni formali di Canella assegnano cosí all’architettura un compito preciso: quello di pronunciare

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«invettive civili», ricaricandosi di un pathos erede a suo modo degli insegnamenti dei padri contestati. Nulla di tale ansiosa evocazione è invece nell’opera di Gae Aulenti, l’unica del gruppo neoliberty a proseguire sulla via di rarefatte eleganze destinate a un preciso ceto, anche culturalmente caratterizzato189. Il geometrismo estenuato della Aulenti può cosí entrare in sintonia perfetta con gli oggetti e le immagini «pop» che abitano la sua Casa di un Collezionista a Milano (1968-69), si presenta ermeticamente monumentale nei volumi componibili progettati per la mostra del design italiano al Museum of Modern Art di New York del ’72190, si piega a un geniale effetto di «straniamento» dell’oggetto-automobile nei saloni d’esposizione Fiat a Torino, Buenos Aires (1967), Bruxelles e Zurigo (1970), percorsi da una galleria artificiale che crea un’ambigua sospensione dello spazio. Il design della Aulenti non intende però rimanere nel suo ambito specifico: suo obiettivo è raggiungere la città, porsi come sua componente interna. A scale variabili, ciò è perseguito sia nel progetto di concorso per il centro direzionale di Perugia (1971, con Sandra Sarfatti e Giovanni Da Rios), che con il complesso scolastico a Cinisello Balsamo (1973), che con l’originale proposta di «arredo globale» di Milano progettata nel 1972-74. L’operazione non oltrepassa i limiti di un’elaborata scenografia per un’improbabile città come teatro collettivo: l’abilità della Aulenti non casualmente si rivela compiutamente negli allestimenti scenici realizzati per la regia di Luca Ronconi191. 9. Il «caso» Aldo Rossi. Gabetti e Isola, Canella, Gae Aulenti portano cosí, per vie diverse, ad estenuazione i materiali del linguaggio, toccando gli estremi della sgradevolezza e dell’intellettualistica sensiblerie. Fra le strade lasciate aperte

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dalle tematiche agitate nell’ambito rogersiano rimane la ricerca sugli elementi primi del fare architettura: una ricerca che obbliga a svincolarsi da definiti contesti e a trasmigrare verso una linea di orizzonte in cui il passato privato e quello collettivo si fondono. È Aldo Rossi il protagonista di una simile ricerca: un architetto che si pone oggi come il «caso» italiano e internazionale piú seguito e discusso, l’unico «caposcuola» capace di alimentare di continuo, intorno alla propria opera e alla propria figura, una polemica e un interesse che investono, alla fine, lo stesso concetto di architettura. Abbiamo già incontrato Rossi fra gli allievi di Rogers, attivo nel gruppo redazionale di «Casabella continuità» e autore di uno dei più polemici progetti presentati al concorso per il centro direzionale di Torino. Ma la complessità e l’eccezionale coerenza della sua ricerca lo pongono ben presto al di fuori delle polemiche contingenti: con esse Rossi non intende sporcarsi; la sua poiesis resiste ad ogni compromesso con il reale, poiché il ritorno alla «antica casa del linguaggio» è possibile solo con un’affermazione di scontrosa indifferenza192. Che tuttavia nella poetica di Rossi esista una segreta reazione al desengaño subito dagli architetti italiani negli anni sessanta è indubbio: anche questo significa il suo interesse per temi e figure rimosse dalla ventata moralistica dei primi anni del dopoguerra193. Alla XII Triennale di Milano, insieme a Polesello e Tentori, Rossi espone un progetto per la ristrutturazione della zona di via Farini: si tratta di un progetto ottimistico, di un’ipotesi tesa a ricomporre un volto per la periferia194. Ma siamo nel 196o: quell’ottimismo si rivela ben presto ingiustificato. Nello stesso anno, la sua villa ai Ronchi, in Versilia, appare come una conseguenza della «scoperta» di Adolf Loos, da lui celebrato in un articolo del ’59 su «Casabella»195. Inizia cosí, per Rossi, una ricerca di forme primarie cui non è estranea la riflessione sul-

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l’opera di Adolf Loos ma anche su quella di Max Bill; di forme, comunque, esiliate dal luogo urbano, ma che di tale esilio intendono parlare, per proporre una teoria della città come locus della memoria collettiva. Nel ’64 il progetto di concorso per il Teatro Paganini a Parma, nel ’65 il monumento ai Partigiani a Segrate, nel ’66 il progetto di concorso per un complesso residenziale a San Rocco (Monza), in collaborazione con Giorgio Grassi, e un libro, L’architettura della città: da un lato, il tentativo di ridefinire la scienza urbana incontrandosi con la geografia della scuola francese; dall’altro, l’essicazione dell’immagine alla ricerca del punto nevralgico in cui dalla memoria si riesca a far scaturire una vera e propria epifania dei segni. Il triangolo, il cubo, il cono: ossessive, queste figure scarnificate ricompaiono, sempre e di nuovo, nel progetti rossiani; ma non finalizzate a un’astratta ricerca elementarista, bensí per accerchiare, con giri sempre piú stretti, la scaturigine della forma. Il desengaño è divenuto eloquente. Ai «rumori del mondo» sarà necessario voltare le spalle, per contemplare i luoghi di un’estraneazione divenuta sacrale – le periferie auratiche, memori di quelle di Sironi, che appaiono nei disegni di Rossi – o quelli in cui la vita appare sospesa – il progetto per il nuovo cimitero di Modena (1971)196, ma anche il metafisico cortile della scuola De Amicis a Broni (1970). Eppure, i progetti di Rossi affondano in un nuovo immaginario che ha come radici lo sguardo immoto di De Chirico su spazi abbandonati dal tempo e la «visione infelice» di Böcklin. Il blocco del Gallaratese, la scuola elementare a Fagnano Olona (1972), i progetti per il Municipio di Muggiò (1972) e per Villa Bay a Borgo Ticino (1972) vanno confrontati con i disegni, i collages, e gli oli degli anni settanta. Le forme che si aggregano rimandano alla stupita fissità degli oggetti di Giorgio Morandi: un occhio nascosto esplora l’atto che dà forma, spia la mano e la mente dell’artista, e non

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incontra, nella profondità dei ricordi, che parole già dette, allineate sinistramente o accatastate alla rinfusa. Né ha importanza che la ricerca di un’essenza primigenia venga costantemente frustrata. Anzi, ciò spinge a rinnovare senza posa il gioco di trasformazione dei materiali ridotti al loro grado zero: lo dimostrano le successive rielaborazioni del progetto per il cimitero di Modena, il tornare di Rossi sulle forme già sperimentate per farle colloquiare fra loro, le diverse edizioni della sua «città analoga»197, l’insistenza con cui assemblaggi architettonici – con o senza «oggetti domestici» – sono minacciati dalla spettrale presenza di San Carlo Borromeo. L’immaginario è nuovo bisogno collettivo di un universo che tende ad espropriare il fare individuale di qualità fantastiche. Ma chi oggi si immerge in esso – ben lo aveva avvertito Blanchot – è costretto ad annullare spazio e tempo, a farli sprofondare nel nulla dello «spazio letterario». Indecente e provocatorio, tale annullamento. Esso non ha nulla a che fare con l’Entsagung classica; il suo principio è quello, amorale, dell’astensione. Non a caso, l’opera di Rossi provoca cori di proteste indignate, insieme ad amori irriflessi. Eppure, Rossi ha il coraggio di contemplare quel «nulla», proiettandone i segni impalpabili in un’urna magica, specchio di un sogno raccontato in pubblico. La mémoire di Rossi è erede dell’autobiografismo straripante dalla cultura italiana degli anni cinquanta; ma all’opulenza delle affabulazioni di Gadda essa preferisce un’arcaica silenziosità. Per questo, la sua introspezione si esprime in un’opera divertita e pensosa, il Teatrino scientifico (1978). Il Teatrino, il cui orologio installato sul frontone triangolare è fisso alle ore cinque (della sera?), è un tempietto in forma di «piccola casa» l’unica che possa accogliere le architetture di Rossi, lí disposte come scene stabili o mutevoli. Lo spazio della rappresentazione coincide con la rappresentazione dello spa-

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zio: di questo Rossi vuole convincerci con il suo metafisico teatrino. Ma tale coincidenza non era stata già annunciata nel «concitato silenzio» della corte interna della scuola di Fagnano Olona, o nel «museo in forma di battistero» che appare nel progetto di concorso per il centro direzionale di Firenze (1977)? La rappresentazione è tutto: inutile affannarsi a cercarne significati secondi in regioni ad essa precluse. La città – malgrado ogni affermazione in contrario del Nostro – si rivela come semplice pretesto. Ma anche: la rappresentazione presuppone modelli, archetipi, figure di riferimento. La ricerca tipologica di Rossi confina non a caso con una autodescrizione: il tipo, immoto, non fa storia, il suo ripetere e il suo ripetersi appartengono alla medesima volontà di naïveté che era stata di Tessenow. In tal modo, l’universo rossiano può essere percorso come un labirintico paesaggio, in cui orme ingannevoli – impresse dalla memoria dell’artista – confondono il visitatore. L’architettura è posta paurosamente in bilico: la sua realtà, mai negata, viene perversamente coniugata all’irreale. Il Proun di Lisickij ha invertito la sua direzione di marcia, ma in un universo ineffabile continua a fluttuare. Specie negli ultimi progetti, disegni e incisioni, le parole rossiane assumono la dignità di segni alchemici. Nella Cabine dell’Elba (1973), nella Città copernicana, nel Souvenirs de Florence, un alfabeto esoterico viene manipolato da un mago ostinato nel suo rifiuto di guardare nel cannocchiale galileiano. Il rigorismo di Rossi è condizione del suo immaginario: esso vuol mostrare che l’estraneazione è raccontabile, che la condanna all’afasia è scongiurabile da chi sappia tornare bambino. Appunto: un sublime irresponsabile. Ciò spiega il ricorso rossiano ad infantili grafie o a un’elementarietà geometrica che rimanda alle tavole del Durand: tipici, al proposito, il progetto per il Palazzo della Regione di

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Trieste (1974), omaggio a un’Aufklärung senza tempo, o il Teatro del mondo attraccato come fugace apparizione accanto alla punta della Dogana a Venezia (1979)198. Eppure: Dieses ist lange her | Ora questo è perduto. Questo il titolo di un’incisione di Rossi del ’75, in cui, come nell’acquarello L’architecture assassinée, egli presenta i suoi segni in sfacelo. Si tratta di uno sfacelo congelato, tuttavia; immobili sono i frammenti pencolanti o proiettati nel vuoto. La perdita non è dolorosa: ad essa il viandante era preparato. Il «ponte», figura metafisica sovrasignificante, che dal progetto per la Triennale del ’64 al monumento di Segrate, al blocco del Gallaratese si proponeva come connessione di estremi indicibili – memoria e storia, segno e senso, soggetto e alterità – ora si spezza e vola nello spazio, portandovi i frammenti di una dolorante volontà di conoscenza.

1o. Il rigorismo e l’astinenza. Verso gli anni ’8o. Declinare l’alfabeto alchemico proposto da Aldo Rossi come se si trattasse di un normale dizionario è possibile solo bloccando la sua ricerca alle soglie della tautologia. «Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa...»: la «costruzione logica dell’architettura» di Giorgio Grassi si costringe alla pura reiterazione199. Se Rossi rappresenta la sua accorata esplorazione di «origini» non rinunciando a confessare il rinnovarsi dell’insuccesso, Grassi si acquieta nella ricerca di «essenze», di noumeni estratti a forza da un’immobile catena di forme primarie. La logica coincide per lui con il classico: ma non si tratta del classico come rinuncia inappagante di Goethe, bensí della perfezione atemporale di Winckelmann, identificata con le spettrali reiterazioni della Langestrasse di Weinbrenner a Karlsruhe e con le immagi-

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ni laconiche di Hilberseimer. Tangente ai suoi inizi con la ricerca di Rossi, quella di Grassi, dopo alcuni progetti in collaborazione con questi – per un albergo al passo Monte Croce Comelico (1963), per un quartiere Ises a Napoli (1968), per il quartiere San Rocco a Monza (1966) – se ne distacca per una volontà di conoscenza ripiegata su se stessa. I progetti per un laboratorio per la fabbricazione di apparecchiature per ricerche biologiche a Paullo (1968), per il restauro del castello visconteo di Abbiategrasso (1970), per un’unità residenziale ancora ad Abbiategrasso (1972), per residenze sul fiume a Pavia (1970-73), per la scuola media di Tollo, interrogano, senza ricevere risposta, moduli tipologici ed elementi primi quali la corte, il portico, la simmetria, la costanza ritmica: l’aspirazione sembra essere quella alla pagina bianca; la polemica contro ciò che Grassi chiama lo «sconnesso parodismo» si risolve in una ostentazione di depauperate certezze. Il fatto che ipotesi come quelle di Grassi possano essere giudicate in contrasto con la cattiva città contemporanea è significativo. Certo, il silenzio può essere fragoroso là dove domina il frastuono: rimane da vedere se quel silenzio riesce a far veramente conoscere qualcos’altro che non sia la semplice volontà di conoscere, e se la testimonianza che esso offre è capace di oltrepassare il semplice valore di sintomo. Che il metodo di Aldo Rossi e quello di Grassi riescano a fare «scuola» non può meravigliare. Chi ad essi si appella è in genere ansioso di ritrovare una grande madre, di riposarsi tornando al ventre dell’Architettura, di isolarsi dalle miserie del contingente. Il successo didattico dei due va quindi considerato come cartina di tornasole dell’angoscia e dei «vuoti di valori» che stringono dappresso le giovani generazioni, ma non giustifica il tentativo di costruire una «tendenza» accomunando i vaganti segni rossiani alle ricerche di Leon Krier,

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all’eclettismo di Aymonino, alle eloquenze di Dardi, al macchinismo di Ludwig Leo o ai «monumenti continui» di Adolfo Natalini, come si è avuto modo di fare, sotto la formula «Architettura razionale», alla XV Triennale di Milano del ’73200. Per Rossi, responsabile del settore internazionale di architettura di quella Triennale, si trattava di un grande collage virtuale, nei cui frammenti era letta la presenza di un surreale tecnicamente organizzato; per i facili esegeti, di una nuova chiesa in cui bruciare incensi; per gli oppositori, di una «mostra modello Starace», di un ritorno a etimi pericolosamente memori della retorica dei regimi totalitari. In realtà, non solo a Rossi, a Grassi o alle loro cerchie immediate appartiene il tentativo di far parlare l’architettura con i soli suoi strumenti e solo di essi. Se gli sviluppi degli aderenti al Grau, dopo il progetto per gli Archivi fiorentini, appaiono deludenti201, le ricerche di Purini e Thermes, del gruppo romano Labirinto e di Paolo Martellotti in particolare, o di alcuni allievi di Quaroni si rivelano perlomeno parallele nello sforzo di definire un universo che si specchi nei limiti della forma, per raggiungere, nei casi migliori, una autonomia della lingua dialetticamente rapportata all’altro da sé, nei casi peggiori, a una segregazione presuntuosamente paga della propria immobilità202. Un’istanza inappagata di rigore, compensata da improvvisi abbandoni lirici, si deposita nelle montagne di carta disegnata prodotte da questi nuovi puristi. E sia che essi – come Purini – si concentrino nella configurazione di «eventi» che saggiano la consistenza dei materiali del comporre, con l’occhio fisso a quanto da quest’ultimo non è controllabile, o che – come il Labirinto nella ristrutturazione della Calcografia Nazionale a Roma (1973-75)203 – sperimentino le valenze insite nella calcolata distorsione delle strutture visive, quell’istanza si rivela espressione di un «contegno» autoim-

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postosi, al limite del moralismo. «Per mettere fuori gioco una generazione – hanno scritto Purini e Thermes204 – basta fare in modo che i giovani coltivino il mito di una totale «integrità» morale: così non sapranno accettare e praticare il compromesso, non certo quello spicciolo, ma quello nel quale si realizza la definizione della politica come arte del possibile, come dialettica del reale». Rituale diviene la puntigliosa indagine delle leggi costitutive della forma. Del resto, un’«integrità» senza scopo, e per di piú senza sbocchi sociali, non può non colorarsi di mistico. Il rigore delle «parole» confina con il «frivolo»: solo al disegno esso fa appello. L’astinenza professionale cui, per ragioni oggettive e soggettive, tale generazione sembra condannata, sollecita viaggi della ragione ai confini del lecito: nell’«architettura disegnata» – approdo e prigione di chi vorrebbe poter esclamare «e anch’io son Piranesi» – si ammassano pratiche narcisiste ma anche appelli a una totalità di valori altrimenti inattingibile. Le atmosfere kafkiane di questi talvolta raffinati universi grafici hanno qualcosa di coerente (di troppo coerente): nel vuoto, si fanno risuonare parole e si enunciano superflue leggi. Che tutto ciò, tuttavia, sia capace di creare un clima atto alla riproduzione e alla vita autonoma di quei rituali è dimostrato dall’impostazione di progetti come il piano particolareggiato della nuova Università di Cagliari (1977-78), del gruppo coordinato da M. Luisa Anversa e Marcello Rebecchini, o dal risultato di concorsi come quelli per il centro direzionale di Firenze (1977) e per la realizzazione di una piazza nell’area dell’ex panificio militare di Ancona (1978). L’occasione fiorentina non dà piú luogo a filosofemi sul destino del «terziario» o ad organismi preoccupati di comprimere in sé nuclei di ristrutturazione territoriale. Marco Porta, insieme a Purini, Emilio Battisti, Cesare Macchi Cassia e collaboratori, tenta con il suo progetto di entrare in

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sintonia sia con il sistema universitario di Gregotti, adiacente all’area del nuovo centro direzionale, sia con le tracce incise nel territorio dalla memoria. Ne emerge una sommatoria di temi: la rotazione degli assi, la variazione del confine murato, i caposaldi emergenti da un ideale centuriatio. E che gli etimi desumibili dalle ricerche di Rossi, di Gregotti, di Purini possano essere connessi a formare un lessico lo dimostrano i progetti del gruppo Vernuccio, del gruppo Rosa - Cornoldi - Sajeva - Manlio Savi, del gruppo Polesello, e in qualche modo anche del gruppo Angelini-Dierna-Mortola-Orlandi. Rispetto ai grandi concorsi italiani del dopoguerra, in definitiva, quello per il centro direzionale di Firenze – caratterizzato da un bando che sembra redatto appositamente per consigliare ai concorrenti la via dell’astrazione205 – non dà luogo a un dibattito fra ipotesi divergenti, né a significativi ripensamenti metodologici o linguistici: alla «maniera» di se stessi ricorrono i concorrenti piú prestigiosi, come Giuseppe e Alberto Samonà, Aymonino e Rossi, Fiorentino e Anversa, e persino James Stirling, che appare qui associato al gruppo Castore. Invero, persino l’architettura disegnata è un abito troppo stretto per contenere gli universi della totalità della forma cui mira un umanesimo nato dalla forzata accettazione della marginalità della lingua206. Si può certo andare piú in là con la coerenza rispetto ai propri assunti, si può fare delle forme architettoniche un paesaggio immaginario libero dal peso della materia, si può esprimere con gli strumenti tradizionali dell’incisione, dell’acquarello, dell’olio, la segreta aspirazione a rivivere – necessariamente nel sogno – mitiche stagioni governate dalle parole degli dèi. Ed ecco che con indubbia maestria Massimo Scolari mette in scena le proprie sublimazioni207, mentre con maggior o minore abilità grafica una schiera di giovani invade di fogli

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onirici le gallerie private italiane, subito ad essi aperte nella speranza di formare un nuovo circuito di mercato. A Roma, a Bologna, a Milano (ma anche a New York), le mostre di disegni e incisioni di Rossi, Purini, Scolari, Martellotti, Dario Passi si susseguono, mentre gli «Incontri d’Arte» possono addirittura giungere, nel 1977-78, a indire un concorso – «Roma interrotta» – con cui si invita la nuova internazionale dell’immaginario a misurare le proprie disseminazioni fantastiche con i luoghi memorizzati dalla pianta del Nolli208. Il «bisogno di architettura» sopravvive cosí in un vuoto pneumatico, stimolando abili collages (pensiamo a un Nicola Pagliara), sperimentalismi impazienti, inni a contegni «classici», canti all’effimero, «postume» disinibizioni209. Costretti ad «azioni parallele», i protagonisti della recente vicenda architettonica rimangono cosí in bilico sul crinale che separa il «locus solus» destinato all’autoriflessione dall’agorà risonante di frastuoni. Ma il risultato del loro suddividere, del loro estenuare o del loro aggredire i materiali della forma e della storia non è senza conseguenze. L’antica disciplina chiamata «architettura» vede disporre i propri frantumi su un tavolo da gioco intorno al quale nuovi giocatori si accingono a dare concretezza, con quei lacerti disseminati, a «nuove tecniche». Nessuna disperazione, di fronte al cumulo di macerie che rimane dopo la dissoluzione delle certezze che avevano aiutato a mantenere insieme modi di intervento capaci solo di riprodurre se stessi. Il problema è come controllare le divaricazioni che spezzano quella disciplina, evitando di considerarle baratri da osservare con occhi allucinati o in cui sprofondare con angoscia. Di fronte a un «potere» che si articola parlando più dialetti, nessuna «sintesi» tiene piú; tanto meno quella che dal tema della forma punta direttamente al problema della riforma. Non «rifondando», quindi, né confondendo il piacere con il gioco, la domus

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aurea del Bauen è recuperabile. «Senza casa» è necessario procedere. Giunti agli inizi degli anni ottanta, tutto ciò che ha costituito l’oggetto di questa storia appare, rispetto ai nuovi compiti che si profilano, come un prologo «in negativo», di cui è necessario spezzare le resistenze. Le «costruzioni deliranti» di cui abbiamo tentato di narrare la vicenda si sono diffratte in piú linguaggi – gestione urbana, tecniche di riuso, economia edilizia, modellistica alle varie scale, giochi linguistici. L’enfasi inizialmente posta sul «progetto» si è mutata in «critica del progetto», in crisi dei modelli, in ineffettualità delle parole d’ordine: anche questo è un risultato non trascurabile dei travagli intellettuali della cultura architettonica italiana degli ultimi decenni.

Il ciclo storico che ci apprestiamo ad analizzare non è stato ancora fatto oggetto di costruzioni critiche di sufficiente ampiezza. Limitandoci ai testi di carattere generale apparsi dopo il 1968, ricordiamo comunque l’agile e orientata sintesi di v. gregotti, Orientamenti nuovi nell’architettura italiana, Milano 1969; il volume di aa.vv., Il dibattito architettonico in Italia 1945-1975, Roma 1977; il saggio di a. belluzzi, Il percorso dell’architettura, in aa.vv., L’arte in Italia nel secondo dopoguerra, Bologna 1979; il catalogo ’28-’78 Architettura. 5o anni di architettura italiana, Milano 1979; il saggio di g. canella, Figura e funzione nell’architettura italiana dal dopoguerra agli anni Sessanta, in «Hinterland», 198o, n. 13-14, pp. 48 sgg.; il volume di C. de seta, L’architettura del Novecento, Torino 1981. Cfr. inoltre aa.vv., Architettura italiana anni sessanta, Roma 1972 e il numero monografico Italie ’75 della rivista «L’architecture d’aujourd’hui», 1975, n. 181. Esistono peraltro bilanci e cataloghi relativi a singole città o regioni, come, per Milano, il catalogo Milano 70/70, Milano 1972; m. grandi e a. pracchi, Milano. Guida all’architettura moderna, Bologna 198o, e il volume di e. bonfanti e m. porta, Città, museo e architettura. Il gruppo BBPR nella cultura architettonica italiana 1932-1970, Firenze 1973, che, pur essendo una monografia sul gruppo milanese, costituisce un notevole sforzo di connessione critica dell’opera dei Bpr al contesto italiano e internazionale. Per Roma, cfr. g. accasto, v. fraticelli e r. nicoli1

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 ni, L’architettura di Roma capitale, 1870-1970, Roma 1971 e i. de guittry, Guida di Roma moderna, Roma 1978. Sulla situazione toscana, cfr. g. k. könig, Architettura in Toscana 1931-1968, Torino 1968 e Itinerario di Firenze moderna, Firenze 1976. Per Venezia cfr. p. maretto, L’architettura a Venezia nel xx secolo, Genova 1969. Una storia del dibattito urbanistico è nel volume di m. fabbri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra, Bari 1975. 2 Cfr. Sistemazione delle Cave Ardeatine, in «Metron», 1974, n. 18 (progetto finale, dopo il concorso del 1944 e il concorso di secondo grado); ivi, 1952, n. 45, pp. 17-23, e l. quaroni, Il mausoleo delle Ardeatine, in «Il cittadino», 2o aprile 1949. La cancellata d’ingresso è di Mirko Basaldella, il gruppo scultoreo di Francesco Coccia. Sul monumento dei Bpr, cfr. e. peressutti, Dedica, in «Casabella», 1946, n. 193, p. 3, e bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp. 1o9 sgg. Il monumento dei Bpr del ’46, deteriorato, viene sostituito nel ’50 con una struttura bronzea e basamento in marmo di Carrara: nel 1955 il monumento viene reintegrato nei suoi caratteri originari. 3 Ibid. 4 Al Convegno (14-16 dicembre 1945) sono presenti l’Apao, il gruppo Pagano di Torino, l’Msa di Milano, l’Inu. Fra le relazioni lette ricordiamo m. ridolfi, Appunti sui provvedimenti urgenti per la ricostruzione e sull’orientamento della unificazione e tipizzazione nell’edilizia; p. l. nervi, Per gli studi e la sperimentazione nell’edilizia; b. zevi, L’insegnamento delle costruzioni di guerra americane per l’Italia, in Atti, fasc. 3. Nello stesso fascicolo è l’intervento del cattolico f. vito La demanializzazione delle aree fabbricabili, che avanza un’ipotesi tesa all’eliminazione della rendita edilizia urbana. Cfr. anche, a cura dell’Inu, Relazione a cura della Commissione per lo studio dei problemi del piano regionale, ibid., fasc. 1, pp. 30 sgg. Cfr. inoltre e. n. rogers, Introduzione al tema «Provvedimenti urgenti per la ricostruzione», ibid., pp. 1 sgg. ora in Esperienza dell’architettura, Torino 1958, pp. 109 sgg. 5 g. de finetti, Della proprietà delle aree nei riflessi delle costruzioni, in Atti, fasc. 6, pp. 9 sgg. De Finetti si mostra qui coerente con le proprie riflessioni sulla città e su Milano iniziate negli anni venti. Era però difficile, nel ’45-50, seguire gli studi di De Finetti sulla fisiologia urbana, specie quando questa si esprimeva nel progetto della «Strada Lombarda» (vedila in «La città. Architettura e politica», 1946, n. 2), o in quelli per la Fiera e per le piazze Beccaria e Fontana a Milano, piú volte rielaborati fra il ’46 e il ’51. (Cfr. la raccolta della rivista cit., dal n. 1 del 1945 al n. 3-4 del 1946, e il testo di di g. de finetti, Milano risorge, scritto fra il 1942 e il 1951, ora in Milano. Costruzione di una città, Milano 1969). Cfr. aa.vv., Giuseppe de Finetti. Progetti 192o-1951, Milano 1981 e renato airoldi, «Forma urbis Mediolani»: una illusione ari-

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 stocratica, in «Casabella», 1981, n. 468, pp. 34-43. De Finetti, che non risparmia le sue ironie né a Le Corbusier né a Bottoni, non poteva comunque essere accusato, per il suo gusto «neoclassico», di connivenze con il passato regime: antifascista già negli anni trenta, è iscritto, insieme alla moglie Thelma, al Partito d’Azione. Cfr., oltre allo Zibaldone di De Finetti (Archivio De Finetti, Triennale di Milano), l’intervista a Thelma Hauss del 29 ottobre 1981 di Marisa Macchietto (Dipartimento di Storia dell’Architettura, Venezia). Si noti che fra gli scritti di Loos tradotti in italiano da De Finetti è Gli inutili (in «Paese libero», 2 giugno 1947), contenente, com’è noto, un violento attacco al Werkbund; e si cfr., dello stesso De Finetti, La Triennale e l’utilità, in «24 ore», 23 e 26 giugno 1951. 6 Cfr. a. della rocca, s. muratori, l. piccinato, m. ridolfi, p. rossi de paoli, s. tadolini, e. tedeschi e m. zocca, Aspetti urbanistici ed edilizi della ricostruzione, Roma 1944-45. 7 p. gazzola, Le vicende urbanistiche di Milano e il piano A.R., in «Costruzioni-Casabella», 1946, n. 194, pp. 2 sgg.; c. perelli, Studi per il nuovo piano regolatore di Milano, in «Metron», 1946, n. 1o, pp. 1849). Vedi anche bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp. 104-5 e scheda 72. Del gruppo ar fanno parte Albini, Bottoni, i Bpr, Gardella e Mucchi. 8 Per il centro direzionale di Milano viene bandito un concorso nel 1946, cui partecipa anche il gruppo italiano dei Ciam. cfr. «Metron», 1948, n. 30, pp. 15 sgg., con articoli dell’assessore all’urbanistica, M. Venanzi (p. 15), e di l. piccinato, il concorso di idee per il centro direzionale di Milano, pp. 14-17. 9 Cfr. ivi, n. 23-24 e i. insolera, Roma moderna, Torino 19763, p. 18o, nota 3. 10 Cfr. m. visentini, Presentazione del Piano Piemontese e g. astengo, m. bianco, n. renacco e a. rizzotti, Piano Regionale Piemontese, nel fascicolo monografico di «Metron», 1947, n. 14. 11 Cfr. könig, Architettura in Toscana cit., pp. 50 sgg. 12 b. zevi, Saper vedere l’architettura, Torino 1948. La rivista «Metron» inizia le sue pubblicazioni nell’agosto 1945 con la direzione di Luigi Piccinato e Mario Ridolfi. Nello stesso 1945 esce il volume di L. piccinato, Urbanistica, per le edizioni di «Metron», mentre nel 1946 Carlo Pagani, Lina Bò e Zevi dànno vita a un rotocalco di divulgazione, «A-Attualità, Architettura, Abitazione, Arte». Per le posizioni di Zevi in quegli anni, si veda anche il suo articolo L’architettura organica di fronte ai suoi critici, in «Metron», 1947, n. 23-24. Cfr. inoltre, per il dibattito fra il ’43 e il ’46, d. borradori e m. porta, Architettura e politica italiana 1943-46, Milano 1966. 13 Cfr. b. zevi, Architettura e storiografia, Milano 1951; Benedetto Croce e la riforma architettonica della storia architettonica, in «Metron»,

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 e in Pretesti di critica architettonica, Torino 196o; Uno storico ancora vitale: Franz Wickhoff, in «Annuario dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia» e in Pretesti cit.; Il rinnovamento della storiografia architettonica, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», vol. XXII, serie II, 1954, fasc. 1-2. Cfr. inoltre il volume autobiografico Zevi su Zevi, Milano 1977. 14 Dichiarazione programmatica dell’Associazione per l’architettura organica, in «Metron», 1945, n. 2, pp-75-76. 15 L’indice della «Domus» di Rogers (redattore capo Marco Zanuso) è significativo: vi si legge uno sforzo costante di legare l’attualità alla storia e l’architettura ai temi piú complessi della cultura in tutti i campi. In essa appaiono articoli di Lionello Venturi (1946, n. 205) sull’arte astratta, di Dino Risi sul cinema, di Malipiero sulla musica, di Dorfles sulla pittura contemporanea, di Ballo, di Ragghianti, di Elio Vittorini, di Starobinski (Le rêve architecte, les intérieurs de Franz Kafka, 1947, n. 217), di Roberto Rebora, di Sergio Solmi. Nel 1948, con il n. 226, la direzione passa a Gio Ponti, che non annulla la curiosità culturale della rivista, pur procedendo a renderla piú salottiera. 16 Un’autentica storia del neorealismo architettonico italiano non è ancora stata scritta. Cfr. comunque, oltre alla bibliografia su Ridolfi e Quaroni, che diamo a parte, l. quaroni, Il paese dei barocchi, in «Casabella», 1957, n. 215 (autocritica a proposito del Tiburtino); p. portoghesi, Dal neorealismo al neoliberty, in «Comunità», 1958, n. 65; id., La scuola romana, ivi, 1959, n. 75; m. manieri-elia, Il dibattito architettonico degli ultimi venti anni, I: Il primo decennio dalla Liberazione, in «Rassegna dell’Istituto di Architettura e Urbanistica», 1965, n. I, pp. 76-96; accasto-fraticelli-nicolini, L’architettura di Roma capitale cit., pp. 523 sgg.; g. de giorgi, Breve profilo del dopoguerra: dagli anni della ricostruzione al «miracolo economico», in aa.vv., Il dibattito architettonico in Italia cit., pp. 23 sgg.; g. massobrio e p. portoghesi, Album degli anni Cinquanta, Roma-Bari 1977, pp. 201 sgg.; canella, Figura e funzione cit. 17 Sul concorso per la stazione di Roma e il progetto Quaroni-Ridolfi, cfr. giuseppe samonà, I progetti per il completamento frontale della stazione Termini, in «Metron», 1947, n. 21 (nello stesso fascicolo, l. piccinato, La stazione di Roma); v. fasolo, Il concorso per la nuova stazione di Roma, in «L’Urbe», 1947, n. 2 (interessante come voce di un esponente della cultura accademica); s. muratori, Concorso per il completamento del fabbricato viaggiatori della nuova stazione di Roma-Termini-Motto: UR, in «Strutture», 1947-48, n. 3-4, pp. 56-61 (analisi del progetto Quaroni-Ridolfi: in esso appaiono già i motivi di «critica al moderno» che caratterizzeranno le successive posizioni di Muratori); m. tafuri, Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell’architettura moderna in Italia, Milano 1964, pp. 87-89; accasto-fraticelli-nicolini, L’archi-

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 tettura di Roma capitale cit., pp. 521-23; r. nicolini, Il concorso per stazione Termini, in «Controspazio», 1974, n. 1, p. 93. 18 Cfr. l. quaroni, Perché ho progettato questa chiesa, in «Metron», 1949, n. 31-32. 19 Cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 83-85 e a. de carm, La chiesa di Francavilla a Mare, in «L’architettura cronache e storia», 196o, n-52. 20 Il concorso (di primo e secondo grado) per l’Auditorium di via Flaminia a Roma (cfr. «Metron», 1951, n. 43, e «Architetti», 1952, n. 12-13), costituisce un’ulteriore occasione di confronto fra gli architetti italiani, anche se con esiti assai meno clamorosi di quello per la Stazione Termini. L’esibizionismo strutturale dei progetti del gruppo Morandi-Carrara-Maruffi e del gruppo Favini-Pallottini (primo grado) è certo superato dall’elaborato di Muratori, la cui organicità si stempera nel progetto di secondo grado. Va notato che i due progetti di Muratori appartengono al medesimo clima di ricerche documentato dal progetto quaroniano per la chiesa di Francavilla: la vecchia collaborazione fra Quaroni e Muratori dà qui ancora i suoi frutti. Come testimonianza di una scolastica fedeltà agli etimi elementaristi, vanno piuttosto letti i progetti di Pio Montesi presentati al medesimo concorso. 21 Cfr. g. muratore, L’esperienza del Manuale, in «Controspazio», 1974, n. 1, pp. 82-92. 22 A cura di M. Ridolfi, M. Fiorentino, B. Zevi, C. Calcaprina, A. Cardelli. Cfr. anche m. ridolfi, Il «Manuale dell’architetto», in «Metron», 1946, n. 8, pp. 35 sgg. 23 i. diotallevi e f. marescotti, Il problema sociale costruttivo ed economico dell’abitazione, Milano 1948, su cui vedi g. ciucci, Dalla casa dell’uomo alla casa popolare, in g. ciucci e m. casciato, Franco Marescotti e la casa civile, 1934-1956, Roma 198o, pp. 7-20. 24 c. ceccucci, i. diotallevi e f. marescotti, Relazione sui problemi dell’edilizia, in aa.vv., Il Piano del Lavoro, Conferenza economica nazionale della Cgil, Roma 1950, pp. 3-35. 25 Sull’opera di Marescotti, cfr. e. tadini, Storia e realtà del primo Centro Sociale Cooperativo «Grandi e Bertacchi», in «L’architettura cronache e storia», 1956, n. 13, pp. 482-89; il Quaderno 9, 1979, dell’Istituto dipartimentale di architettura e urbanistica dell’Università di Catania; ciucci-casciato, Franco Marescotti cit., con la bibliografia precedente. Cfr. anche il resoconto dell’incontro con Marescotti tenuto nel maggio 1976 al Politecnico di Milano in «Hinterland», 198o, n. 13-14, pp. 10-19. 26 La prima idea del qt8 è già in un progetto del 1934 di Bottoni, Pagano e Pucci per un quartiere sperimentale della VI Triennale di Milano. L’intera vicenda del qt8 viene seguita costantemente da

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 «Metron»: cfr. QT8: un quartiere modello, ivi, 1946, n. 6, pp. 76-79; il numero speciale del 1948, n. 26-27; Il quartiere sperimentale della Triennale di Milano, ivi, 1951, n. 43, pp. 56-61. Cfr. inoltre e. n. rogers, Esperienza dell’ottava Triennale, in «Domus», 1947, n. 221. Cfr. anche gli articoli di g. canella e v. vercelloni, Cronache di 1o Triennali, in «Comunità», 1956, n. 38, pp. 44-52 e di f. buzzi ceriani e v. gregotti, Contributo alla storia delle Triennali, 2: Dall’VIII Triennale del 1947 alla XI del 1957, in «Casabella», 1957, n. 216, pp. 7-12. Sull’opera di Piero Bottoni si veda il fascicolo monografico di «Controspazio», 1973, n. 4. 27 Per comprendere la politica urbanistica e edilizia dell’Ina-Casa è importante risalire ai due fascicoli Ina-Casa. Suggerimenti, norme e schemi per la elaborazione e presentazione dei progetti. Bandi di concorso, Roma 1949, e Ina-Casa. Suggerimenti, esempi e norme per la progettazione urbanistica. Progetti tipo, Roma 195o. L’azione di Arnaldo Foschini, alla presidenza dell’ente, è determinante. Le opere di Foschini nel dopoguerra – progetti per la sede della Banca d’Italia a Napoli (1949-55), per la chiesa dell’Immacolata all’Eur (1955), ecc. – rimangono legate a formule accademiche, ma nella sua gestione dell’Ina-Casa è determinante un’ideologia paternalista che si salda al riscatto degli etimi popolari rivendicato dal neorealismo. (Cfr. aa.vv., Arnaldo Foschini. Didattica e gestione dell’architettura in Italia nella prima metà del Novecento, Faenza 1979). Adalberto Libera dirige l’ufficio tecnico dell’Ina-Casa, e Foschini incarica Mario De Renzi, Cesare Ligini e Ridolfi di elaborare progetti-tipo sulla base degli schemi prescelti. Il quartiere Italia a Terni (1948-49), di Ridolfi e Frankl, è fra i primi modelli compiuti. Sull’Ina-Casa cfr. l. beretta anguissola, I 14 anni del piano Ina-Casa, Roma 1963; Ina-Casa, in Per l’Italia. Atti e documenti della ricostruzione italiana, vol. IV: Politica sociale, a cura della Democrazia cristiana, Roma 1953, pp. 87-118; f. gorio, Un parere sul Piano Fanfani, in «Urbanistica», 1950, n. 3, ora in Il mestiere di architetto, Roma 1968; f. tentori, Dieci anni della gestione Ina-Casa: necessità di un dibattito costruttivo, in «Casabella», 1961, n. 248, pp. 52 sgg.; l. benevolo, L’architettura dell’Ina-Casa, in «Centro sociale», 196o, n. 30-31, pp. 59 sgg., ora in L’architettura delle città nell’Italia contemporanea, Bari 1968. 28 Sull’opera di Quaroni, dagli anni trenta fino al ’64, cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., dove si prendono in esame anche i progetti elaborati insieme a Ridolfi, e a. bandera, s. benedetti, e. crispolti e p. portoghesi, Omaggio a Cagli. Omaggio a Fontana. Omaggio a Quaroni, catalogo della mostra (l’Aquila), Roma 1962. Scritti di Quaroni sono stati raccolti nel volume La città fisica, a cura di A. Terranova, Roma-Bari 1981. Sull’attività di Fiorentino negli anni quaranta e cinquanta, cfr. f. gorio, Dieci anni di produzione coerente: opere dell’ar-

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 chitetto romano Mario Fiorentino, in «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 45. Su Ridolfi, cfr. i numeri 1 e 3, 1974, della rivista «Controspazio», a lui dedicati, e il catalogo Le architetture di Ridolfi e Frankl, a cura di Francesco Cellini, Claudio D’Amato e Enrico Valeriani, Roma 1979. Cfr. inoltre g. canella e a. rossi, Architetti italiani: Mario Ridolfi, in «Comunità», 1956, n. 41, pp. 50-55; g. de carlo, Architetture italiane, in «Casabella», 1957, n. 199, pp. 19-33; portoghesi, Dal neorealismo cit.; Una mostra e un convegno su Ridolfi e Frankl (relazioni al convegno del novembre ’79), in «Contropazio», 1979, n. 5-6, pp. 63 sgg.; f. cellini e c. d’amato, Il mestiere di Ridolfi, in La presenza del passato, La Biennale di Venezia, Milano 198o, pp. 68-71. L’interesse per l’opera di Ridolfi ha ripreso solo recentemente quota, fino a vederlo incluso fra i «padri» del Post-Modernism nella mostra organizzata dalla Biennale di Venezia nel 198o alle Corderie dell’Arsenale. Citeremo piú in là gli articoli dedicati alla sua produzione piú recente. Sugli anni del Tiburtino, cfr. g. muratore, Gli anni della ricostruzione, in «Controspazio», 1974, n. 3, pp. 6-25, e g. monti, Le palazzine romane, ivi, pp. 2635. Sul Tiburtino, oltre all’articolo di quaroni, Il paese dei barocchi cit., cfr., sullo stesso n. 215, 1957, di «Casabella», c. aymonino, Storia e cronaca del quartiere Tiburtino; c. chiarini, Aspetti urbanistici del quartiere Tiburtino; f. gorio, Esperienze d’architettura al Tiburtino. Cfr. anche, per le conseguenze di quell’opera, m. girelli, Dal Tiburtino a Matera, ivi, 1959, n. 231 e c. conforti, Carlo Aymonino: l’architettura non è un mito, Roma 198o, pp. 15 sgg. 29 È importante ricordare che Ridolfi e Frankl avevano progettato in ogni blocco di viale Etiopia ambienti, ricavati a metà altezza, per attrezzature scolastiche e nidi d’infanzia. Le logge continue che interrompono le prime tre torri costituiscono la sola traccia di tale intento progettuale. 30 Cfr. de giorgi, Breve profilo del dopoguerra cit., p. 33. 31 Cfr. v. gregotti, Alcune opere di Mario Ridolfi: case Ina a Cerignola, case Ina a Terni, casa di città a Terni, palazzina in via Vetulonia a Roma, in «Casabella», 1956, n. 21o. 32 Cfr. m. coppa, Il piano regolatore di Terni: parte seconda, in «Urbanistica», 1962, n. 35, pp. 59 sgg.; v. fraticelli, Terni: progetto e città, in «Controspazio», 1974, n. 3, pp. 74-79. 33 Cfr . g. muratore, Le nuove carceri di Nuoro, ivi, pp. 44-49. 34 L’attività di Carlo Mollino costituisce indubbiamente un «caso» unico dell’architettura italiana. Aviatore acrobatico, disegnatore di aerei e di auto, appassionato di automobilismo e di fotografia, autore di «invenzioni» brevettate, designer, Mollino ha di continuo contaminato fra loro i suoi svariati interessi, compiacendosi di un ruolo di enfant terrible dell’architettura. Nei suoi arredi, nei suoi mobili, nei suoi oggetti, nelle sue foto, sperimenta una lingua che assorbe la lezio-

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 ne surrealista – quella di Man Ray ma anche quella di Mirò – insieme a suggestioni da Gaudì, Mackintosh, Eames. Come architetto, dopo la Stazione per slittovia, progetta a Torino il nuovo Teatro Regio, la Camera di Commercio e la sala da ballo Lutrario, dove l’omaggio all’immaginario non disdegna l’incontro con il Kitsch. Su Mollino, negli anni cinquanta, cfr. massobrio-portoghesi, Album degli anni Cinquanta cit. e c. borngräber, Stilnovo. Design in den 5oer Jahren. Phantasie und Phantastik, Frankfurt 1979, pp. 14 sgg. Un rapido excursus dell’archivio Mollino è negli articoli di g. brino, Architettura a tempo perso. Hobby a tempo pieno, in «Modo», 1977, n. 4, pp. 43 sgg., e Carlo Mollino, in «Lotus», 1977, n. 16, pp. 122 sgg. 35 g. c. argan, Progetto e destino, Milano 1965, p. 90. 36 Cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 1oo sgg. Prima di aderire al movimento di Comunità, Quaroni collabora ad organizzazioni quali il Movimento di collaborazione civica e la Scuola per assistenti sociali, con l’obiettivo di integrare la sociologia all’analisi urbana. Cfr. l. quaroni, Le indagini urbanistiche del centro di ricerche sociali, relazione al I Convegno nazionale dei tecnici socialisti, Milano, giugno 1947 (inedito). Sull’atteggiamento negativo della sinistra italiana nei confronti della sociologia, almeno fino al convegno su «Marxismo e sociologia», organizzato nel 1959 dall’Istituto Gramsci, vedi l. balbo e v. rieser, La sinistra e lo sviluppo della sociologia, in «Problemi del socialismo», 1962, n. 3. Cfr. inoltre l. quaroni, m. l. anversa e altri, Indagine edilizia su Grassano, in Inchiesta parlamentare sulla miseria, Roma 1954, vol. XIII. Sintomatici, rispetto alle posizioni di Quaroni in questi anni, i suoi scritti, L’urbanistica per l’unità della cultura, in «Comunità», 1952, n. 13; La città, ivi, 1954, n. 26; L’architetto e l’urbanistica, in aa.vv., L’architetto d’oggi, Firenze 1954. 37 Sulle relazioni fra le ideologie olivettiane e l’architettura, cfr. fabbri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra cit.; Politique industrielle et architecture, numero monografico di «L’architecture d’aujourd’hui», 1976, n. 188. Cfr. inoltre b. caizzi, Gli Olivetti, Torino 1962 e le due testimonianze, rese a distanza di sedici anni di tempo l’una dall’altra, di c. l. ragghianti, Adriano Olivetti, in «Zodiac», 196o, n. 6, e di l. quaroni, L’expérience de la Martella, in Politique industrielle cit., pp. 46-47. Cfr. inoltre g. berta, Le idee al potere. Adriano Olivetti tra la fabbrica e la Comunità, Milano 198o. 38 Cfr. a. restucci, La dynastie Olivetti, ibid., pp. 2-6; id., Un rêve américain dans le Mezzogiorno, ibid., pp. 42-45. Cfr. inoltre, come documento di idee meridionalistiche vicine a quelle di Olivetti, r. musatti, La via del Sud, Milano 1955. 39 Cfr. f. g. friedmann, Osservazioni sul mondo contadino nell’Italia meridionale, in «Quaderni di sociologia», 1952, n-3, e Un incontro: Matera, Untra-Casas, Roma 1953, oltre ai fascicoli della Commissione

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 per lo studio della città e dell’Agro di Matera pubblicati nel 1956 a cura dell’Unrra-Casas: f. friedmann, r. musatti e g. isnardi, Saggi introduttivi; r. tentori, Il sistema di vita nella comunità materana; f. nitti, Una città del Sud. 40 g. baglieri, La controriforma fondiaria, in «Comunità», 1959, n. 6o. 41 Sul «caso» dei Sassi di Matera, cfr. n. mazzocchi alemanni e e. calia, Il problema dei Sassi di Matera, relazione per il Consorzio della media valle del Bradano, 1950; f. aiello, Dai Sassi alla borgata, in «Nord e Sud», 955, n. 5, pp. 62-88; r. giura longo, Sassi e secoli, Matera 1966; m. fabbri, Matera, dal sottosviluppo alla nuova città, Matera 1971; gruppo «il politecnico», Rapporto su Matera. Una città meridionale fra sviluppo e sottosviluppo, Matera 1971; m. tafuri e a. restucci, Un contributo alla comprensione della vicenda storica dei Sassi, Ministero dei Lavori Pubblici, Matera 1974; a. restucci, Città e Mezzogiorno: Matera dagli anni ’5o al concorso sui «Sassi», in «Casabella», 1977, n. 428, pp. 36-43; id., Gli intricati destini di Matera, in «Spazio e Società», 1978, n. 4, pp. 93 sgg.; fascicolo monografico di «Storia della città», 1978, n. 6. 42 Sulla Martella, cfr. g. de carlo, A proposito di La Martella, in «Casabella», 1954, n. 200; f. gorio, Il villaggio La Martella, autocritica, ivi; tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 105-16; quaroni, L’expérience de la Martella cit. 43 Cfr. l. piccinato, Matera: i Sassi, i nuovi borghi e il piano regolatore, in «Urbanistica», 1955, n. 15-16. Sui progetti per i nuovi quartieri materani, che in vario modo si collegano alla linea neorealista, cfr. l. quaroni, I concorsi nazionali per il quartiere Piccianello a Matera e per il Borgo di Torre Spagnola, in «L’architettura cronache e storia», 1955, n. 2. Il quartiere Spine Bianche, realizzato nel 1954-57 da Aymonino, Chiarini, Girelli, Lenci e M. Ottolenghi rappresenta un tentativo di razionalizzazione degli etimi populisti, che avrà conseguenze sull’opera dello stesso Aymonino: insieme ad altre opere contemporanee della «scuola romana», esso è indice di una maniera largamente diffusa negli anni cinquanta. Cfr. anche conforti, Carlo Aymonino cit., pp. 19-22. 44 Sul tema della «palazzina» romana cfr. i. insolera, Lo spazio sociale della periferia romana, in «Centro sociale», 1959-6o, n. 30-31, pp. 33-34; id., Roma moderna cit., pp. 98-99; p. portoghesi, Palazzina romana, in «Casabella», 1975, n. 407. 45 Sull’opera di Ugo Luccichenti, che esemplifica un’intera stagione del professionismo romano, si veda m. manieri-elia, Ugo Luccichenti architetto, Roma 198o. 46 Su Moretti, cfr. g. ungaretti, 50 immagini di architettura di Luigi Moretti, Roma 1968; r. bonelli, Moretti, Roma 1975. Non è un caso che l’opera morettiana venga oggi rivalutata dagli ambienti statunitensi

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 piú intellettualistici ed europeizzanti. Cfr. r. stevens, Introduction to l. moretti, The Values of Profiles and Structures and Sequences of Spaces, in «Oppositions», 1974, n. 4, pp. 110-11 (con la traduzione dei due testi di Moretti sulla modanatura e la struttura spaziale pubblicati originariamente in «Spazio», 1951-52, n. 6 e 1952-53, n. 7). 47 Cfr. g. c. argan, Gardella, Milano 1956, poi in Progetto e destino cit., pp. 353-73. Sull’opera di Samonà negli anni quaranta e cinquanta cfr. g. ciucci, La ricerca impaziente: 1945-.r96o, in aa.vv., Giuseppe Samonà. Cinquant’anni di architetture, Roma 198o2, pp. 57 sgg. 48 Sul palazzo dell’Ina a Parma cfr. e. gentili, La sede dell’Ina a Parma, in «Casabella», 1954, n. 2oo e gio ponti, Lezione di una architettura, in «Domus», 1952, n. 266. Sull’opera di Albini in generale , si veda e. gentili, Franco Albini, in «Comunità», 1954, n. 28; g. samonà, Franco Albini e la cultura architettonica in Italia, in «Zodiac», 1958, n. 3, pp. 83-115; v. viganò, Franco Albini. Trente ans d’architecture italienne, in «Aujourd’hui», 1961, n. 33; f. menna, Albini o l’architettura della memoria, in La regola e il caso, Roma 1970; m. fagiolo, L’astrattismo magico di Albini, in «Ottagono», 1975, n. 37, pp. 20-53; Testimonianza su Franco Albini, a cura di F. Helg, in «L’architettura cronache e storia», 1979, n. 288, pp. 551 sgg.; aa.vv., Franco Albini. Architettura e design 1930-1970, Firenze 1979 (con bibliografia completa). 49 La bibliografia sull’opera di Michelucci è vasta. Limitandosi alle sole opere del dopoguerra di carattere generale, vedi almeno e. detti, Giovanni Michelucci, in «Comunità», 1954, n. 23, pp. 38-42; l. ricci, L’uomo Michelucci, dalla casa Valiani alla chiesa dell’autostrada, in «L’architettura cronache e storia», 1962, n. 76, pp. 664-89; Giovanni Michelucci, a cura di Franco Borsi, Firenze 1966; l. lugli, Giovanni Michelucci. Il pensiero e le opere, con introduzione di Fernando Clemente e selezione di scritti, Firenze 1966; m. cerasi, Michelucci, Roma 1968; könig, L’architettura in Toscana cit.; «Quaderni dell’Istituto di Elementi di Architettura», Facoltà di Architettura di Genova, 1969, n. 2; Michelucci, il linguaggio dell’architettura, a cura di M. C. Buscioni, Roma 1979, con testi di Michelucci, regesto e bibliografia. Oltre alle antologie di scritti michelucciani citate, vedi g. michelucci, La nuova città, a cura di R. Risaloti, Pistoia 1975. 50 Interessanti, al proposito, gli articoli pubblicati da Michelucci nel 1946 in «La nuova città»: Architettura vivente, n. 1-2, pp. 4-8; Architettura vivente. Della collaborazione, n. 3, pp. 5-13; Architettura vivente. Della città, n. 4-5, pp. 4-12; La nuova città?, n. 8, pp. 1-4; Troppa arte, n. 9-10, pp. 5-9. 51 Cfr. id., Come ho progettato la chiesa della Vergine, in «L’architettura cronache e storia», 1957, n. 16, pp. 709-13, e l. lugli, La chiesa della Vergine (SS. Maria e Tecla) a Pistoia nel quadro della tradizione creativa di Giovanni Michelucci, ivi, pp. 704 sgg.

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 Cfr. g. michelucci, Considerazioni sull’architettura. La nuova sede della Cassa di Risparmio di Firenze, in «Il Ponte», 1957, n. 11, pp. 1663-73 e l. lugli, La Cassa di Risparmio a Firenze, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 31, pp. 8-16. 53 Cfr. g. samonà, Premesse alla nuova urbanistica, in «Accademia», 1945, n. 1, pp. 35-38, in cui è pubblicato il progetto per il quartiere del Lavinaio, e ciucci, La ricerca impaziente cit., pp. 59-6o. 54 Cfr. «Casabella», 1957, n. 216, pp. 16--35 e r. bonelli, Edilizia economica: politica dei quartieri, in «Comunità», 1959, n. 70, pp. 52-54, con una critica sostanzialmente negativa. 55 Cfr. g. astengo, Falchera, in «Metron», 1954, n. 53-54, pp. 13-63. 56 Si veda, per tali due quartieri, e. gentili, Unità residenziale «Villa Bernabò Brea» a Genova, in «Casabella», 1955, n. 204, pp. 49 sgg.; M. zanuso, Unità d’abitazione orizzontale nel quartiere Tuscolano a Roma, ivi, n. 207, p. 30; a. libera, Il quartiere Tuscolano a Roma, in «Comunità», 1955, n. 31, pp. 46-49. 57 Cfr., ancora, gli articoli cit. di A. Restucci; tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 116 sgg.; r. olivetti, La Società Olivetti nel Canavese, in «Urbanistica», 1961, n. 33; e. n. rogers, L’unità di Adriano Olivetti, in «Casabella», 1962, n. 270, pp. 1-9; g. ciucci, Ivrea ou la communauté des clercs, in «L’architecture d’aujourd’hui», 1976, n. 18, pp. 7-12; berta, Le idee al potere cit. 58 Sull’opera di Figini e Pollini, cfr. e. gentili tedeschi, Figini e Pollini, Milano 1959; c. blasi, Figini e Pollini, Milano 1963; j. rykwert, Figini and Pollini, in «Architectural Design», 1967, n-7, pp. 369-78; Luigi Figini e Gino Pollini / architetti, a cura di Vittorio Savi, Milano 198o (con la bibliografia precedente). Sui due architetti a Ivrea cfr. anche ciucci, Ivrea ou la communauté des clercs cit. e l. quaroni, Due opere di Luigi Figini e Gino Pollini, in «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 48, pp. 390 sgg. 59 Cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 15o-51. 60 Cfr. g. accasto, L’asilo di Canton Vesco, in «Controspazio», 1974, n. 3, pp. 51-52. 61 Sul programma di Adriano Olivetti, cfr. la testimonianza di Aldo Garosci, in Ricordo di Adriano Olivetti, Milano 196o e restucci, Un rêve américain cit. Sulla fabbrica e il quartiere di Cosenza cfr. m. labò, Lo stabilimento e il quartiere Olivetti a Pozzuoli dell’ing. L. Cosenza, in «Casabella», 1955, n. 2o6; r. guiducci, Appunti dal giornale del direttore dei lavori, ivi; ciucci, Ivrea ou la communauté des clercs cit., p. 12. 62 p. fossati, Les translormations de l’image du produit, in «L’architecture d’aujourd’hui», 1976, n. 188, p. 50. 63 b. huet, Des magasins pour ne rien vendre, ivi, p. 54. 64 Si noti che anche la succursale Olivetti di Barcellona è affidata ai Bpr (196o-64), che colgono l’occasione per dar vita ad un edificio a suo modo simbolico, mentre per gli edifici industriali in Argentina – a 52

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 Buenos Aires, 1954-62 – e in Brasile – a San Paolo, 1954-59 – la ditta si affida alla sicura competenza di Marco Zanuso. Zanuso ed Edoardo Vittoria realizzeranno poi anche le officine Olivetti a Marcianise (1969) e Crema (1970). Cfr. m. zanuso, Les machines à travailler, ivi, p. 66 65 Solo sei dei dodici fascicoli programmati vengono pubblicati dal gruppo tecnico per il coordinamento urbanistico del Canavese. Sul piano di Ivrea cfr. n. renacco, Il piano regolatore generale di Ivrea, in «Urbanistica» 1955, n. 15-16; olivetti, La Società Olivetti cit.; c. doglio, Il piano della vita, in «Comunità», 1963, n. 109; tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 116 sgg. 66 Produzione: La Meridiana Film. I soggetti dei tre cortometraggi sono di G. De Carlo, C. Doglio, M. Gandin, M. L. Pedroni, L. Quaroni e E. Vittorini. 67 g. de carlo, Intenzioni e risultati della mostra di urbanistica, in «Casabella», 1954, n. 203, p. 24. 68 Cfr. fabbri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra cit., pp. 64 sgg. e m. allione, L’esperienza italiana di pianificazione, in Atti del Seminario sulla programmazione economica e l’assetto territoriale, in «Quaderni dell’Istituto di Architettura e Urbanistica», Facoltà di Ingegneria, Bologna 1968. 69 Per il quartiere di Quaroni, cfr. r. bonelli, Quartiere residenziale di S. Giusto presso Prato, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 3, e tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 152-54. Cfr., inoltre, l. quaroni, Politica del quartiere, in «La casa», 1957, n. 4. Si noti che tale saggio è contemporaneo a quello, autocritico anch’esso, Il paese dei barocchi cit. 70 Cfr. id., Due chiese per Genova, in «Architettura cantiere», 1957, n. 15; e. n. rogers, Architetti laici per le chiese, in «Casabella», 196o, n. 238; tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 138-42. 71 Cfr. f. gorio, Idee in margine a via Cavedone, in «Casabella», 1962, n. 267, pp. 24 sgg., ora in Il mestiere di architetto cit., pp. 59 sgg. e m. vittorini, Produttività edilizia nello studio del progetto, in «Casabella», 1962, n. 267. Per l’atteggiamento di Benevolo, cfr. benevolo, L’architettura dell’Ina-Casa cit. 72 Cfr. h. selem, Opere dell’architetto Luigi Carlo Daneri: 1931196o, in «L’architettura cronache e storia», 196o, n. 56, che, oltre ai quartieri Villa Bernabò Brea e Forte di Quezzi, pubblica le principali opere di Daneri, mostrandone la coerenza con i lavori dell’anteguerra. Fra queste, notevoli appaiono, per rigore linguistico, le case a gradoni sulla collina di Quinto (1952), il complesso condominiale al Lido (1952), il complesso La Foce (1934-58), il Palazzo Fassio, tutti in Genova. 73 Già nel ’49 Argan, facendo propri i temi espressi da Dewey in Art as Experience, indicava come strada da percorrere quella che pone

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 a contatto museo e mondo della produzione. Cfr. g. c. argan, Il museo come scuola, in «Comunità», 1949, n. 3. Cfr. anche, sul tema, bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp. 150 sgg. Cfr. inoltre a. piva, La fabbrica di cultura. La questione dei musei in Italia dal 1945 ad oggi, Milano 1978. 74 Cfr. g. c. argan, La Galleria di Palazzo Bianco a Genova, in «Metron», n. 45, pp. 25 sgg.; c. marcenaro, The museum Concept and the Restauration of the Palazzo Bianco, Genova, in «Museum», 1954, n. 4. 75 m. labò, Il Museo del Tesoro di San Lorenzo in Genova, in «Casabella», 1956, n. 213, p. 6; g, c. argan, Il Museo del Tesoro di S. Lorenzo a Genova, in «L’architettura cronache e storia», 1956, n. 14, pp. 557 sgg.; p. a. chessa, Il Museo del Tesoro di S. Lorenzo, in «Comunità», 1957, n. 47; b. zevi, Museo di S. Lorenzo a Genova. Quattro tholos moderne per un tesoro antico, in Cronache di architettura, Bari 1971, vol. II, n. 109; Franco Albini, architettura per un museo, Roma 198o. 76 Cfr. fagiolo, L’astrattismo magico di Albini cit., p. 52. 77 Cfr. f. calandra, Uffici comunali a Genova, in «L’architettura cronache e storia», 1956, n. 11; r. viviani e g. k. könig, Gli uffici comunali di Genova di Franco Albini, in «Comunità», 1958, n. 64. Un piccolo capolavoro albiniano a Genova è la sistemazione della valletta Cambiaso (1955-61), mentre piú di maniera appare il progetto di concorso (in collaborazione con Mario Labò) per il Palazzo dell’Arte genovese (1957). 78 Cfr. g. mariacher, Il nuovo allestimento del Museo Correr, in «Comunità», 1953, n. 21, pp. 62 sgg., che sottolinea il carattere provocatorio della sistemazione di Scarpa e g. mazzariol, Opere di Carlo Scarpa, in «L’architettura cronache e storia», 1955, n. 3, pp. 340 sgg., che rimprovera a Scarpa l’eccessiva raffinatezza dispiegata al Correr. 79 Fra gli articoli a favore dell’opera dei Bpr al Castello, m. labò, A favore del Museo, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 33, p. 154 e g. samonà, Un contributo alla museografia, in «Casabella», 1956, n. 211, pp. 51-53. Critico è l’articolo di r. pane, Riserve sul Museo, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 33, pp. 162-63, violentemente polemico è a. cederna, Il regista invadente, in «Il Mondo», 9 ottobre 1956. Cfr., per gli intenti degli autori, belgiojoso, peressutti e rogers, Carattere stilistico del Museo del Castello, in «Casabella» cit., pp. 63 sgg. Cfr. inoltre le acute pagine critiche di bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp. 15o sgg. 80 e. n. rogers, Le preesistenze ambientali e i temi pratici contemporanei, in «Casabella», 1954, n. 204, ora in Esperienza dell’architettura cit., pp. 304 sgg.; id., Il problema del costruire nelle preesistenze ambientali, relazione al Comitato nazionale di studi dell’Inu, marzo 1957, ibid. 81 Sulla Velasca, cfr. g. samonà, Il grattacielo piú discusso d’Europa, la Torre Velasca, in «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 40, pp.

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 659-74; p. c. santini, Deux gratte-ciel à Milan, in «Zodiac», 1957, n. 1, pp. 200-5; g. m. kallmann, Modern Tower in old Milan, in «Architectural Forum», 1958, n. 2, pp. 109-11; r. gardner-medwin, A flight from Functionalism, in «The Journal of the Riba», 1958, n. 12, pp. 408-14; CIAM ’59 in Otterlo, a cura di O. Newman, Stuttgart 1961, pp. 92-97, per la presentazione di Rogers della Torre a Otterlo e per la polemica lí sollevata; bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., pp. 156 sgg. Sull’opera dei Bpr cfr. anche l. belgiojoso, Intervista sul mestiere d’architetto, a cura di C. De Seta, Roma-Bari 1978. 82 A tali opere va aggiunto il padiglione italiano all’Expo di Bruxelles del 1958, per il quale i Bpr collaborano con Quaroni, A. De Carlo, Gardella e Perugini: in esso, il tema del «villaggio» viene razionalizzato in un’interpretazione polemica del tema e con intenti critici rispetto agli stilemi dell’International Style dominanti a Bruxelles. L’opera è importante perché segna un momento di convergenza degli architetti italiani proprio quando le diverse ricerche stanno per divergere irrimediabilmente. Sul padiglione di Bruxelles cfr. Inchiesta sul Padiglione italiano a Bruxelles, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 36, pp. 399 sgg.; r. pedio, La crisi del linguaggio moderno all’Esposizione Universale di Bruxelles, ivi, pp. 384-95; b. zevi, Successo dell’ultimo minuto, in «L’Espresso», 1o giugno 1958; tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 154-58. 83 Sulla devozione di Rogers per Scotellaro è testimonianza l’editoriale Le responsabilità verso la tradizione, in «Casabella», 1954, n. 202, pp. 2-3. È in esso che Rogers parla della saldatura in un’unica tradizione della cultura popolare (spontanea) e di quella di élite, come di un «dovere»: autenticità e capacità critica, in tale ipotesi, verrebbero a fondersi. L’articolo è di grande importanza: esso esplicita tendenze già vive nell’architettura italiana dando ad esse fondamenta teoriche, ed è indice dei modi in cui la cultura settentrionale vive l’afflato populista. Dentro tale ottica – populismo come garanzia di autenticità per un linguaggio teso all’interpretazione critica – opere come quelle di Gardella, di Bpr, di G. De Carlo negli anni cinquanta divengono assai piú comprensibili. 84 Cfr. g. samonà, Una casa di Gardella a Venezia, in «Casabella», 1958, n. 220, p. 7; g. mazzariol, Umanesimo di Gardella, in «Zodiac», 1958, n. 2, pp. 91-110; r. pedio, Due nuove opere di Ignazio Gardella, in «L’architettura cronache e storia», 1958, n. 29, pp. 729-41. 85 argan, Progetto e destino cit., p. 370. 86 e. n. rogers, Continuità 0 crisi, in «Casabella», 1957, n. 215. Nello stesso fascicolo, insieme alla lettera a Gregotti che accompagna i grafici e le foto della Bottega di Erasmo (r. gabetti e a. iso la, L’impegno della tradizione), viene pubblicato l’articolo di risposta di v. gregotti, L’impegno della tradizione. In una lettera al direttore, interven-

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 gono Gabetti e Isola («Casabella», 1957, n. 217), cui risponde Rogers nella stessa rivista (Risposte ai giovani), che invita a una «vigile modestia» e a «una chiara delimitazione dei nostri atti», prendendo comunque le distanze dai difensori del «formalismo modernistico». Tutti questi testi sono stati ripubblicati in «Controspazio», 1977, n. 4-5, pp. 84 sgg., insieme agli articoli di c. d’amato, La «ritirata» italiana dal Movimento Moderno: memoria, storia e questioni di stile nell’esperienza del neoliberty, pp. 50-51 e di f. cellini, La polemica sul neoliberty, pp. 52-53. Per l’opera del gruppo torinese, fino al 1971, cfr. Gabetti, Isola, Raineri, Chiasso 1971. 87 È ancora interessante, al proposito, l’articolo di m. bellini, r. orefice e l. zanon dal bo, I baroni rampanti del movimento moderno. 3 generazioni di architetti nel dopoguerra italiano, in «Superfici», 196o, numero speciale, pp. 23-30; poi ivi, 1961, n. 1, pp. 7-9. L’articolo e la rivista, oscillanti fra il pensiero di Adorno, quello fenomenologico, e quello del cattolicesimo progressista, sono indici del nuovo clima che informa i giovani milanesi, oltre che di un’impazienza nei confronti del cenacolo di «Casabella». È comunque interessante che in quel saggio si parli di «tonalità manomessa» e di «inimitabile perfidia» per le recenti esperienze milanesi, novaresi e torinesi. 88 e. n. rogers, Ortodossia dell’eterodossia, in «Casabella», 1957, n. 216, pp. 2 sgg. 89 Cfr. a. rossi, Il passato e il presente della nuova architettura, ivi, 1958, n. 219, in cui si ilIustra la casa a Superga di Giorgio Raineri, un’abitazione con scuderia a Milano di Gae Aulenti e le case in duplex a Cameri di Gregotti, Meneghetti e Stoppino. 90 Cfr. e. n. rogers, Auguste Perret, Milano 1955, e v. gregotti, Classicità e razionalismo di Auguste Perret, in «Casabella», 1959, n. 229, pp. 6-11. 91 Va però notato che una prima lettura dell’apporto di Muzio è nel saggio di canella-rossi, Architetti italiani: Mario Ridolfi cit. La produzione di Muzio nel dopoguerra non raggiunge piú i risultati conseguiti nelle opere degli anni venti e trenta: il maestro della Ca’ brüta sopravvive a se stesso nella Basilica dell’Annunciazione a Nazareth (1959-69) e nell’Albergo Casa Nova a Betlemme (198o). Ma nell’edificio della Banca Commerciale in via Borgonuovo a Milano (1959-69) si assiste a un exploit singolare: nella facciata del corpo aggiunto su via dei Giardini, una leggera struttura metallica, sovrapposta al prospetto in pietra, viene modulata con soluzioni che sembrano fare il verso a motivi ridolfiani. Cfr. Giovanni Muzio, opere e scritti, a cura di G. Gambirasio e B. Minardi, Milano 1982. Fra gli scritti di Muzio del dopoguerra particolarmente interessante è Ricostruzione e architettura (discorso inaugurale tenuto il 5 novembre 1947 al Politecnico di Torino), ora in Giovanni Muzio cit., pp. 261-81.

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 r. banham, Neoliberty. The Retreat from Modern Architecture, in «The Architectural Review», 1959, n. 747. Contro Banham insorge Rogers con l’editoriale L’evoluzione dell’architettura, risposta al custode dei frigidaires, in «Casabella», 1959, n. 228, mentre a piú riprese interviene Zevi (L’andropausa degli architetti moderni italiani, editoriale di «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 46, e Torniamo al Liberty, in «L’Espresso», 24 maggio 1959), contro le ricerche del nuovo ambiente settentrionale. A Banham rispondono anche Portoghesi, in «Comunità», 1959, n. 72 e i giovani della rivista «Superfici». Cfr. m. bellini, r. orefice e l. zanon dal bo, Cavalieri, libertini e Frères Maçons sulla scena milanese, ivi, 1961, n. 1, pp. 39-40; r. orefice, Parabola di intermezzo su Cavalieri e Baroni, ivi, pp. 40-41; id., Trucchi e galateo di un «Aufklärung» milanese, ivi, pp. 41-46. I tre articoli citati erano raccolti sotto un unico, significativo titolo: Un inquisitore da passeggio. Sul fenomeno neoliberty cfr. anche il dibattito pubblicato in «Casabella», 1967, n. 318. 93 Cfr. Nuovi disegni per il mobile italiano, catalogo della mostra, Milano 196o, con articoli di Gregotti, Rossi, Gabetti, Isola e Canella. Il piú significativo è quello di g. canella, La prova del nove, in cui si rivendica il poter «curiosare nel mondo poetico dei novecentisti» e si osserva che i «padri» che avanzano rimproveri di ateismo sono gli stessi che avevano praticato la via della rappresentazione, in questo solo «sopravanzati» da «figli amorevoli, riconoscenti e comprensivi». 94 portoghesi, Dal neorealismo al neoliberty cit., ma anche id., L’impegno delle nuove generazioni, in Aspetti dell’arte contemporanea, catalogo della mostra (L’Aquila), Roma 1963. All’articolo di Portoghesi del ’58 risponde quello di c. melograni, Dal neoliberty al neopiacentinismo?, in «Il Contemporaneo», 1959, n. 13. Cfr. anche f. tentori, D’où venons nous? qui sommes nous, où allons nous?, in Aspetti dell’arte contemporanea cit. 95 Cfr. p. portoghesi, Architettura e ambiente tecnico, in «Zodiac», 196o, n. 7. 96 Si veda il volume autobiografico di p. portoghesi, Le inibizioni dell’architettura moderna, Roma-Bari 1979. L’opera architettonica portoghesiana, concentrata su una ricerca di modulazioni geometriche variamente intrecciate, punta su una semantica della ridondanza che ha i suoi vertici in casa Papanice a Roma (1964-67), nella chiesa della Sacra Famiglia a Salerno (1968-73), nella biblioteca e centro culturale di Avezzano (1970), fino a sposarsi con il Kitsch nel progetto per la Moschea e il Centro islamico a Roma (1977). Per tutte tali opere, è collaboratore di Portoghesi Vittorio Gigliotti (per la Moschea ha collaborato Sami Mousawi). Se ha senso parlare di neobarocco per Portoghesi, esso va letto come gusto dell’eccesso privo di tensioni: nelle sue architetture, la fluenza dei vortici o delle affabulazioni è comunque 92

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 spoglia di storicismi ostentati, e si risolve in una labirinticità controllata e accattivante di segni reificati malgré soi. Le opere di Portoghesi sono raccolte nel volume, ricco di sconsiderati richiami al pensiero di Heidegger, di c. norberg-schulz, Alla ricerca dell’architettura perduta. Le opere di Paolo Portoghesi e Vittorio Gigliotti, 1959-1975, Roma 1975 e nel catalogo Paolo Portoghesi. Progetti e disegni 1962-1979, Firenze 1979. 97 Cfr. s. muratori, Architettura e civiltà in crisi, Roma 1963. 98 Cfr. id., Studi per un’operante storia urbana di Venezia, Roma 196o; s. muratori, r. e s. bollati, g. marinucci, Studi per un’operante storia urbana di Roma, Roma 1963; s. muratori, Civiltà e territorio, Roma 1967. Cfr., come esempio di estrapolazione muratoriana dall’analisi urbana, i progetti presentati al concorso per il quartiere Cep alle Barene di San Giuliano, Venezia. Ma si vedano anche i progetti della scuola muratoriana: l’edificio alla Trinità dei Pellegrini in Roma, di Gianfranco Caniggia, o i progetti dello stesso Caniggia e del gruppo Bollati per i nuovi uffici della Camera dei Deputati a Roma (cfr. m. tafuri, Il concorso per i nuovi uffici della Camera dei Deputati, Venezia 1968, pp. 69-72). Il metodo analitico di Muratori è stato approfondito nei volumi di g. caniggia, Lettura di una città: Como, Roma 1963 e Strutture dello spazio antropico, Firenze 1976. Cfr. inoltre g. caniggia e g. l. maffei, Composizione architettonica e tipologia edilizia, vol. I, Venezia 1979. 99 Cfr. I piani regionali. Criteri di indirizzo per lo studio dei piani territoriali di coordinamento in Italia, Ministero dei lavori pubblici, Roma 1952, e La pianificazione regionale, Inu, Venezia 1952. Cfr. inoltre fabbri, Le ideologie degli urbanisti nel dopoguerra cit., pp. 55 sgg. 100 La storia del piano regolatore di Roma è stata tracciata con estrema minuzia nel n. 28-29, 1959, di «Urbanistica», e in particolare nei saggi di l. benevolo, Le discussioni e gli studi preparatori al nuovo Piano Regolatore, di l. piccinato, L’esperienza del Piano di Roma, e di m. valori, Fare del proprio peggio. Cfr. inoltre l. benevolo, Osservazioni sui lavori per il P.R.G. di Roma, in «Casabella», 1958, n. 21o e insolera, Roma moderna cit. Un’antologia degli interventi del gruppo comunista al consiglio comunale è in p. della seta, c. melograni e a. natoli, Il Piano regolatore di Roma, Roma 1963. Cfr. inoltre, per gli eventi fra il ’59 e il ’63, il n. 40, 1964, di «Urbanistica», e in particolare gli articoli di m. coppa, La lunga strada per il piano di Roma, di i. insolera e m. manieri-elia, Tre anni di cronaca romana e di m. girelli, Il piano per l’attuazione della 167 a Roma. 101 Il Cet è formato da E. Lenti, R. Marino, L. Piccinato, V. Monaco, L. Quaroni, S. Muratori, G. Nicolosi ed E. Del Debbio. 102 In «Urbanistica», 1959, n. 27. Vedilo ora in l. quaroni, Immagine di Roma, Bari 1969.

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 Cfr. i. insoltra, Il concorso per la Biblioteca Nazionale di Roma, in «Casabella», 1960, n. 239, pp. 35-36; r. giura-longo, Una biblioteca per Roma, in «Il Contemporaneo», 196o, n. 23; b. zevi, Biblioteca Nazionale a Roma. Tutti hanno superato tutto, in «L’Espresso», 6 marzo 1970, ora in Cronache di architettura cit., vol. III, n. 304, pp. 486-89. 104 Cfr. v. gregotti, La nuova sede dell’Inail a Venezia, in «Casabella», 196o, n. 244, pp. 4-13. 105 Cfr. conforti, Carlo Aymonino cit., pp. 30 sgg. 106 Cfr. r. pedio, «Brutalismo» in lorma di libertà; il nuovo Istituto Marchiondi a Milano, in «L’architettura cronache e storia», 1959, n. 40, e «The Architectural Review», 1961, n. 771, pp. 304 sgg. Un breve profilo di Viganò è in p. c. santini, Incontri con i protagonisti: Vittoriano Viganò, in «Ottagono», 1975, n. 39, pp. 72-77. 107 Cfr. id., L’architettura «milanese» di Caccia-Dominioni, in «Ottagono», 1967, n. 6, pp. 91-94. 108 Sull’opera di Zanuso fino al ’57 cfr. v. gregotti, Marco Zanuso un architetto della seconda generazione, in «Casabella», 1957, n. 216, pp. 59 sgg. e r. guiducci, Appunti sulla fabbrica di São Paulo in Brasile, ivi, pp. 66 sgg., che analizza uno dei piú notevoli progetti elaborati da Zanuso per la Olivetti. Su Mangiarotti, vedi e. d. bona, Angelo Mangiarotti: il processo del costruire, Milano 198o, con ampia rassegna della sua opera, dalla chiesa di Baranzate (1957) alla mensa Snaidero a Maiano (1978). 109 Cfr. j. rykwert, Tbe Work of Gino Valle, in «Architectural Design», 1964, n. 3, pp. 112 sgg.; f. dal co, Gino Valle, la necessità dell’architettura, in «Lotus», 1976, n. 11, pp. 172 sgg,; Gino Valle architetto, 1950-1978, Milano 1979 (con bibliografia). 110 L’opera di Libera, nel dopoguerra, rimane coerente alle premesse tracciate negli anni precedenti il conflitto, segnate da una tendenza all’«astrazione magica»: pensiamo al cinema Airone a Roma, al progetto di concorso per la sede della Dc all’Eur, al Palazzo della Regione a Trento (in collaborazione con Sergio Musmeci). Il purismo di Libera mantiene comunque qualcosa di inattuale, in bilico fra una distaccata raffinatezza e il «troppo semplice». Libera e De Renzi non a caso rimangono fra i maestri romani meno ascoltati, negli anni cinquanta, dalle nuove generazioni, e su cui solo di recente è iniziata un’opera di ripensamento. Su Libera cfr. Adalberto Libera (1903-1963), a cura di A. Alieri, M. Clerici, F. Palpacelli e G. Vaccaro, in «L’architettura cronache e storia», 1966, nn. 123-26 e 128-33; g. c. argan, Libera, Roma 1975; v. quilici, Adalberto Libera. L’architettura come ideale, Roma 1981. 111 Il ruolo svolto da Pier Luigi Nervi nella cultura architettonica italiana rientra solo parzialmente nella linea storica qui costruita. Il suo 103

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 strutturalismo andrebbe studiato alla luce dei modi di produzione condizionati dai monopoli del cemento e del ferro, e in un ambito di considerazioni capace di connettere all’uso politico del ritardo tecnologico, cui si aggancia l’edilizia di massa, l’esibizione tecnologica di «eccezione» nelle attrezzature pubbliche. Comunque, è da sottolineare la capacità inventiva rivelata da Nervi per strutture di grandi dimensioni: l’intuizione tecnologica prevale sempre in lui su ogni pretesa di oggettività. I suoi saloni al Palazzo delle Esposizioni di Torino (1948-50), il Lanificio Gatti a Roma (1951-53), la via Olimpica sopraelevata (1959), il Palazzo del Lavoro di Torino (196o) riscattano a livello di «invenzione» una staticità che rimaneafona nelle opere in collaborazione, come il grattacielo Pirelli, il Palazzetto dello Sport (1956-57, con Annibale Vitellozzi), il Palazzo dello Sport all’Eur (1958-59, con Piacentini). Si veda, di p. l. nervi, Arte o scienza del costruire?, Roma 1954; Costruire correttamente, Milano 1955; Nuove strutture, Milano 1963. Cfr. inoltre g. c. argan, P. L. Nervi, Milano 1955; j. joedicke, P. L. Nervi, Milano 1957; a. l. huxtable, P. L. Nervi, Milano 196o; Pier Luigi Nervi, a cura di P. Desideri, P. L. Nervi jr e G. Positano, Bologna 198o. Lo strutturalismo italiano ha inoltre offerto con la ricerca di Riccardo Morandi un contributo di eccezionale interesse, specie per le applicazioni del cemento precompresso, che, in opere come le autorimesse e i cinema a Roma, le aviorimesse a Fiumicino, e principalmente una serie di ponti e cavalcavia, raggiunge livelli di notevole suggestione formale. Cfr. g. boaga e b. boni, Riccardo Morandi, Milano 1962; l. vinca masini, Riccardo Morandi, Roma 1974. 112 Cfr. m. manieri-elia, Roma: Olimpiadi e miliardi, in «Urbanistica», 196o, n. 32, pp. 105-19. 113 Cfr. sau, Una discussione sui problemi di architettura e di urbanistica, Roma 196o, che raccoglie molti scritti dei membri dell’associazione. 114 Cfr. b. zevi, La morte del Ciam e la nascita dell’Istituto Nazionale di Architettura, in «L’architettura cronache e storia», 196o, n. 51; id., Prospettive In/Arch anno II, ivi, 196o, n. .58; id., Sul «corporativismo» dell’In/Arch, ivi, 1961, n. 72. 115 Il primo progetto per La Rinascente di Roma viene pubblicato in «Casabella», 1959, n. 233. Si veda, per la realizzazione, e. n. rogers, Un grande magazzino a Roma, in «Casabella», 1961, n. 257; p. portoghesi, La Rinascente in piazza Fiume a Roma, in «L’architettura cronache e storia», 1962, n. 75, pp. 602-18; b. zevi, La Rinascente romana di Albini, in Cronache di architettura cit., vol. IV, n-386; r. banham, The Architecture of the Well-Tempered Environment, London 1969, trad. it. Roma-Bari 1978, pp. 252-56; f. menna, La Rinascente di piazza Fiume, in «Palatino», 1963, n. 1-4, ora in La regola e il caso cit., pp. 101-12.

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 Cfr. i testi della tavola rotonda di Lecce in «Urbanistica», 196o, n. 32, pp. 6-8. 117 Cfr. b. zevi, La figlia di Venezia, in «L’Espresso», 17 aprile 196o; id., Viatico alle psicopatie lagunari, in «L’architettura cronache e storia», 196o, n. 57; l. benevolo, Un consuntivo delle recenti esperienze urbanistiche italiane, in «Casabella», 196o, n. 242; f. tentori, Un piano urbanistico per Mestre, in «Il Contemporaneo», 196o, n. 27-28, pp. 124-37. Sul progetto di Quaroni (la cui relazione è in «L’architettura cronache e storia», 196o, n. 57), cfr. tafuri, Ludovico Quaroni cit., pp. 158-69. Cfr. inoltre i. insolera, L’insegnamento delle città: la periferia di Venezia, in «Comunità», 196o, n. 83. Sono i tre progetti del gruppo Muratori a presentare un’alternativa al progetto del gruppo Quaroni. I due vecchi collaboratori si trovano ora in antitesi. Eppure, sia Muratori che Quaroni si appellano a letture della struttura urbana di Venezia: Pertagli sincronici, Muratori; per sintesi diacronica Quaroni. Il progetto del gruppo Muratori venne preso seriamente in considerazione quasi solo da tentori, Un piano urbanistico per Mestre cit., pp. 132 sgg. 118 Cfr. ilses, Nuova dimensione della città. La città-regione, atti del Convegno di Stresa, Milano 1962. Il punto della cultura urbanistica di quegli anni viene fatto al IX Congresso nazionale dell’Inu (Milano 1962), specie nelle relazioni di G. De Carlo e S. Lombardini. Cfr. g. de carlo, Proposte operative, in «Urbanistica», 1963, n. 38 (che contiene anche le altre relazioni) e in «Casabella», 1962, n. 270. Cfr. anche l. semerani, Il IX Congresso Inu a Milano, ivi. Tra i commenti e le reazioni al Convegno di Stresa, cfr. b. zevi, Neotecnico a posteriori o progetto dinamico?, in «L’Espresso», 1961, ora in Cronache di architettura cit., vol. IV, n. 405, pp. 363-65; f. tentori, Stasi e dinamica nel panorama italiano 1962, in «Casabella», 1962, n. 268; portoghesi, L’impegno delle nuove generazioni cit.; g. piccinato, v. quilici e m. tapuri, La città-territorio, verso una nuova dimensione, in «Casabella», 1962, n. 270. 119 Cfr. ivi, 1963, n. 282, con gli articoli di s. tintori, Lo stato attuale degli studi, e di g. de carlo, Realtà e prospettive del primo schema; id., La pianificazione territoriale urbanistica nell’area milanese, Padova 1966; v. vercelloni, Dal piano del ’53 al piano intercomunale, in «Casabella», 1979, n. 451-52, pp. 52-55. 120 Cfr. La città territorio. Un esperimento didattico sul Centro direzionale di Centocelle in Roma, a cura di C. Aymonino, Bari 1964, e la recensione di f. tentori, in «Casabella», 1964, n. 289. Per il clima di quegli anni, cfr. a. samonà, Alla ricerca di un metodo per la nuova dimensione, in «Casabella», 1963, n. 277; id., Il dibattito architettonico-urbanistico oggi in Italia, in «Comunità», 1963, n. 115, pp. 68 sgg.; il fascicolo n. 82-83, 1964, di «Edilizia moderna», dedicato a Architettura ita116

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 liana 1963; i numeri 289 e 291, 1964, di «Casabella», dedicati alle tendenze delle nuove generazioni. Come testimonianza del clima di speranza dei primi anni sessanta, si veda l’appello del consiglio direttivo dell’Inarch del 15 aprile 1962 e b. zevi, L’alienazione e la politica di centrosinistra, in «L’architettura cronache e storia», 1962, n. 81, pp. 146-47, e id., Gli architetti e la programmazione economica, ivi, 1962, n. 86, pp. 505-7. Sul tema dei centri direzionali, cfr. anche «Casabella», 1962, n. 264, con gli articoli di A. Rossi, G. Amorosi, C. Aymonino, M. Tafuri, L. Calcagni e C. Carozzi; e g. canella, Vecchie e nuove ipotesi per i Centri Direzionali, ivi, 1963, n. 275. 121 p. ceccarelli, Urbanistica opulenta, ivi, n. 278, pp. 5 sgg. Nel medesimo fascicolo sono i progetti presentati al concorso per il centro direzionale di Torino. 122 Cfr. c. aymonino e p. l. giordani, I centri direzionali, Bari 1967, e m. de michelis e m. venturi, Il centro direzionale di Bologna: la gestione del problema urbano nel PCI, in «Contropiano», 1968, n. 3. 123 Cfr. r. banham, Megastructures. Urban futures of the recent past, London 1976, trad. it. Roma-Bari 198o. 124 Cfr., oltre alla bibliografia generale di cui a p. 451, nota 49, aa.vv., La chiesa dell’Autostrada del Sole, Roma 1964; p. portoghesi, La chiesa dell’Autostrada del Sole, in «L’architettura cronache e storia», 1964, n. 101, pp. 198-8o9; j. m. fitch, Church of the Autostrada, in «Architectural Forum», 1964, n. 1, pp. 101-9; b. zevi, Un compromesso tra Medioevo e Wright, in «L’Espresso», 5 aprile 1964; «Chiesa e quartiere», 1964, n. 30-31, con articoli di L. Figini, G. Trebbi, G. Gresleri e G. Michelucci. 125 Per le ultime opere di Michelucci, cfr. aa.vv., La chiesa di Longarone, Firenze 1978, e Michelucci, il linguaggio dell’architettura cit. 126 Cfr. könig, Architettura in Toscana cit. 127 Cfr. b. zevi, Michelangiolo in prosa, in «L’architettura cronache e storia», 1964, n. 99, p. 651; p. portoghesi, Mostra critica delle opere michelangiolesche al Palazzo delle Esposizioni in Roma, ivi, 1964, n. 104, pp. 90-91; r. bonelli, La mostra delle opere michelangiolesche, in «Comunità», 1964, n. 122, pp. 22 sgg.; aa.vv., Michelangelo Pop, in «Marcatré», n. 6-7, pp. 125 sgg. Sul significato e i limiti della «critica operativa», cfr. m. tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Roma-Bari 198o5, pp. 161 sgg. 128 b. zevi, Architettura e comunicazione, in «L’architettura cronache e storia», 1965, n. 122, p. 493 e cfr. r. pedio, Edificio per abitazioni, uffici e negozi in via Campania a Roma, ivi, pp. 496-522. 129 I cinque esperti nominati nel novembre 1961 sono M. Fiorentino, P. M. Lugli, V. Passarelli, L. Piccinato e M. Valori. 130 Sull’Eur sono interessant, le analisi compiute nei primi anni sessanta negli articoli di g. piccinato, Luci e ombre dell’Eur, in «Super-

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 fici», 1963, n. 6, pp. 30-41 e L’Eur: una struttura direzionale in una vecchia dimensione, in La città territorio cit., pp. 34-38. 131 Cfr. l. moretti, Nuovo quartiere Incis, nella zona Eur, in «La Casa», 1962, n. 7, pp. 109-22. 132 Cfr. m. petrignani, Le cento città d’Italia: Roma, 2: Gli edifici pubblici: la lunga attesa del compromesso, in «Controspazio», 1970, n. 1-2, pp. 27-33. 133 Le ricerche e gli elaborati dello studio Asse sono raccolti in «L’architettura cronache e storia», 1975, n. 4-5, con saggi di L. Quaroni, L. Passarelli, G. Scimemi, e un Itinerario cronologico urbanistico dal 1962 al 1975, di Edgardo Tonca, oltre alle relazioni tecniche e descrittive. 134 Una sintesi storica di tali avvenimenti è in l. bortolotti, Storia della politica edilizia in Italia. Proprietà, imprese edili e lavori pubblici dal primo dopoguerra ad oggi (1919-197o), Roma 1978. Cfr. anche a. acocella, L’edilizia residenziale pubblica in Italia dal 1945 ad oggi, Padova 198o. 135 Il quartiere Vigne nuove (piano di zona n. 7, Iacp), di Lucio Passarelli (capogruppo), Fausto e Vincenzo Passarelli, Alfredo Lambertucci, Paolo Cercato, Enrico Censon, Valerio Moretti, Emilio Labianca e Claudio Saratti (1972-8o) è uno dei complessi piú riusciti della «nuova Roma» anche se con soluzioni figurativamente «facili». Da segnalare, anche, il manieristico complesso di Vigna Murata a Roma, di Gianfranco Moneta e collaboratori (su una primitiva idea dello studio Aua). Sull’attuazione della «167» a Roma, cfr. p. samperi, Il piano per l’attuazione della legge 167 a Roma, in «Urbanistica», 1964, n. 40, ma si veda anche piú avanti e sopra, p-48o, nota 28. Cfr. inoltre gli articoli Il problema edilizio a Roma, in «Parametro», 1979, n. 76-77, pp. 16 sgg., e, nello stesso fascicolo, la relazione del quartiere Laurentino, di Pietro Barucci, Alessandro De Rossi, Luciano Giovannini, Camillo Nucci e Americo Sostegni, pp. 36 sgg. 136 bonfanti-porta, Città, museo e architettura cit., p. 177. 137 m. tafuri, Les «muses inquiétantes», ou le destin d’une génération de «Maîtres», in «L’architecture d’aujourd’hui», 1975, n. 181, pp. 14-33. 138 Le opere di Gardella degli ultimi anni sessanta e degli anni settanta sembrano voler recuperare l’olimpicità con cui le sue «revisioni» si erano confrontate con le lingue del costruttivismo e del surreale nella mensa Olivetti. Assai piú degli edifici per la Kartell a Binasco (1971-75), sono indicativi al proposito il progetto di concorso per il Teatro Comunale di Vicenza (1968) e l’edificio per gli uffici tecnici dell’Alfa Romeo ad Arese (1968-72) in cui Gardella colloquia con finezza con un ulteriore pre-testo, la lingua dell’assolutismo geometrico. La maestria dell’organizzazione tipologica e la raffinatezza del dettaglio

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 rimangono, insieme all’ascolto delle sollecitazioni della memoria, i «materiali» di Gardella, che si impegna anche in un progetto di ristrutturazione dell’antico tessuto genovese con un piano particolareggiato per i nuovi insediamenti universitari. Cfr. i. gardella e s. larini, Genova: un progetto per la città antica, in «Controspazio», 1974, n. 2, pp. 5 sgg.; p. c. santini, Incontri con i protagonisti: Ignazio Gardella, in «Ottagono», 1977, n. 46, pp. 42-49; g. c. argan, Il teatro di Gardella. Un progetto monumentale per Vicenza; in «Lotus», 1979, n. 25, pp. 92 sgg.; Gardella (testo di un incontro del 1976 al Politecnico di Milano), in «Hinterland», 198o, n. 13-14, pp. 20 sgg.; p. farina, Il lascino del presente, in aa.vv., La presenza del passato cit., pp. 50-57; samonà, Ignazio Gardella cit. 139 Cfr. r. pedio, Edificio in piazza Meda a Milano, in «L’architettura cronache e storia», 1970, n. 176, pp. 76-85. Sul clima milanese cfr. anche v. vercelloni, L’autoritratto di una classe dirigente: Milano 186o-1970, in «Controspazio», 1969, n. 2-3, pp. 11-28. 140 Si veda il commento fattone nell’articolo di p. portoghesi, Presenza di Ridolfi, ivi, 1974, n. 1, pp. 6-8. Può essere interessante ricordare che Ridolfi afferma di aver tratto ispirazione, per questo progetto, da una colonna tortile del Tempio di Salomone. 141 È proprio a partire dai lavori ridolfiani successivi all’incidente automobilistico del 1961, che costituisce per l’architetto l’occasione per il suo ritiro a Terni, che la critica italiana ha iniziato un recupero di questo maestro, anche se in vario modo strumentalizzato. Cfr. v. vercelloni, L’occasione di una ricerca: l’ultimo lavoro di Mario Ridolfi, in «Controspazio», 1969, n. 1, pp. 38-43 (Casa Lina alle Marmore); numeri monografici di «Controspazio», 1974, cit.; a. anselmi, Logos ed Eros, ivi, 1977, n. 3, p. 16 (a p. 2 dello stesso fascicolo una lettera di Ridolfi, alle pp. 3-15, il progetto per la casa a Norcia); Le architetture di Ridolfi e Frankl cit.; cellini-damato, Il mestiere di Ridolfi cit.; Ridolfi (testo di un incontro tenutosi nel febbraio 1977 al Politecnico di Milano), in «Hinterland», 198o, n. 13-14, pp. 30-35. 142 Cfr. ciucci, La ricerca impaziente cit. 143 Sull’opera di Costantino Dardi, cfr. il volume Semplice, lineare, complesso, Roma 1967. Vedi inoltre il saggio dello stesso c. dardi, Il gioco sapiente. Tendenze della nuova architettura, Padova 1971. 144 Cfr. m. sacripanti, Il Totalteatro, in «I problemi di Ulisse», luglio 1969, pp. 32-34. Per una valutazione del teatro di Sacripanti all’interno delle poetiche teatrali contemporanee, cfr. Architettura e teatro, numero monografico di «Sipario», 1966, n. 242, e m. manieri-elia, Il teatro moderno, in «Bollettino del Cisa Andrea Palladio», 1975, pp. 379-89. 145 Si veda «Casabella», 1964, n. 290, con gli articoli di e. n. rogers, La Triennale uscita dal coma (p. 1), di g. dorfles, La XIII Trien-

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 nale (pp. 2-17), di g. u. polesello, Questa Triennale e l’architettura discoperta (pp. 33-42), di g. canella, e. mantero e l. semerani, La Triennale dei giovani e «L’ora della verità» (pp. 45-46), di f. tentori, Unità delle arti (pp. 48-50). 146 polesello,Questa Triennale cit., pp. 40-42. 147 Il tema del Convegno Inu di Trieste è «Città e territorio negli aspetti funzionali e figurativi della pianificazione continua», il n. 87-88, 1966, di «Edilizia moderna» è dedicato alla «forma del territorio», con saggi di V. Gregotti, P. Caruso, R. Orefice, P. L. Crosta, E. Battisti e S. Crotti, C. Norberg-Schulz, C. Guarda, D. Borradori, C. Pellegrini, V. Di Battista, S. Bisogni e A. Renna, G. Piccinato. Molti dei temi lí dibattuti trovano una sistemazione nel volume di v. gregotti, Il territorio dell’architettura, Milano 1966. 148 L’opera di Semerani e Tamaro comprende peraltro progetti di notevole interesse, come l’Ospedale Generale di Trieste (Luciano Semerani e Gigetta Tamaro, con Carlo e Luciano Celli e Dario Tognon (1965 sgg.), progetto definitivo di Semerani e Tamaro) o l’unità residenziale in collina a Trieste, 1969 e 1970. Cfr. c. aymonino, Progetti dello studio Semerani-Tamaro 1965-1971, in «Controspazio», 1971, n. 7-8, pp. 18 sgg. Cfr. inoltre, di l. semerani, Progetti per una città, Milano 198o. 149 Cfr. g. k. könig, Montecitorio valle di lacrime, in «Casabella», 1967, n. 301; b. zevi, Dodici Parlamenti per una Repubblica, in «L’Espresso», 1967, n. 33, pp. 29 sgg.; tafuri, Il concorso per i nuovi uffici della Camera dei Deputati cit.; l. benevolo, Una linea piú precisa nella ricerca architettonica, in «Rinascita», 26 aprile 1968. 150 Cfr. g. chiari, Il grattacielo Peugeot, architetto Maurizio Sacripanti, in «L’architettura cronache e storia», 1963, n. 87, pp. 602-7. 151 Fra i progetti piú recenti di Sacripanti, ricordiamo quello per il nuovo teatro di Forlì, risultato vincitore nel 1977 al concorso nazionale – oggetto mutante che funge da ermetico foro per la città – e quello per l’aggressiva scuola secondaria a Sant’Arcangelo di Romagna, terminata per un terzo nel 198o. Cfr. m. tafuri, Un teatro per Forlì, in «Paese Sera / Arte», 5 febbraio 1978, p. 20, e r. pedio, Scuola a Sant’Arcangelo di Romagna, in «L’architettura cronache e storia», 198o, n. 302, pp. 678-89. Fra gli scritti di Sacripanti, cfr. Città di frontiera, in «L’architettura cronache e storia», 1971 n. 187. Si veda, inoltre, m. garimberti e g. susani, Sacripanti-architettura, Venezia 1967. 152 Cfr. grau, «Isti Mirant Stella». Un progetto per il Concorso Nazionale per l’Archivio di Stato di Firenze, in «Controspazio», 1974, n. 2, pp. 52-61. 153 Un bilancio dei concorsi di architettura italiani, che coinvolge anche quello per i nuovi uffici del Parlamento, è nell’articolo di v. de feo, Les concours d’Architecture. L’arme ultime de l’intellectuel?, in «L’architecture d’aujourd’hui», n. 181, pp. 57-62.

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 Cfr. p. navone e b. orlandoni, Architettura radicale, Segrate 1974. Cfr. v. de feo, Il piacere dell’architettura, Roma 1976. 156 Un’acuta critica del Progetto 8o e dei progetti politico-economici degli anni settanta è nel saggio di a. asor rosa, La felicità e la politica, in «Laboratorio politico», 1981, n. 2, pp. 5 sgg. 157 Cfr. e. salzano, Potere politico e tecno-struttura nella politica della casa, in «Servizio sociale», 1972, n. 3, pp. 74-84. 158 Sulle vicende dell’edilizia e sul problema della casa in Italia, cfr., fra la vasta pubblicistica specializzata, f. sullo, Lo scandalo urbanistico, Firenze 1964; a. carrassi, Casa e urbanistica, bilancio e prospettive, in «Critica marxista», 1971, n. 1; aa.vv., Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Padova 1972; p. cacciari e s. potenza, Il ciclo edilizio, Roma 1973; b. secchi, Il Settore edilizio e fondiario in una prospetttiva storica, in «Archivio di studi urbani e regionali», 1975, n. 1-2, p. ceri, Casa, città e struttura sociale, Roma 1975; r. stefanelli, La questione delle abitazioni in Italia, Firenze 1976; Il secondo ciclo edilizio, a cura di A. Barp, Milano 1976; aa.vv., La situazione della casa in Italia, Milano 1976; bortolotti, Storia della politica edilizia in Italia cit.; acocella, L’edilizia residenziale pubblica cit. 159 Cfr. b. cillo, L’uso capitalistico del territorio e la nuova città nolana, in «Parametro», 1972, n. 12-13; e La «città nolana» nell’area metropolitana di Napoli, intervista con F. Di Salvo, di R. Pedio, in «L’architettura cronache e storia», 1971, n. 190. 160 Cfr. m. de michelis e a. restucci, Le Bâtiment: hypothèses sur la transformation de la commande, in «L’architecture d’aujourd’hui», 1975, n. 181, pp. 7-10. 161 Cfr. s. bracco, Les coopératives et la construction de logements en Italie, ivi, pp. 11-13. 162 Su Scarpa manca una monografia completa e un catalogo dei suoi disegni, fra i piú autonomamente significativi nella storia dell’architettura contemporanea italiana. Si veda almeno, su di lui, mazzariol, Opere dell’architetto Carlo Scarpa cit.; f. tentori, Progetti di Carlo Scarpa, in «Casabella», 1958, n. 222, pp. 9-14; c. l. ragghianti, La «Crosera de Piazza» di Carlo Scarpa, in «Zodiac», 1959, n. 84, pp. 128-50; s. bettini, L’architettura di Carlo Scarpa, ivi, 196o, n. 6, pp. 140-187; m. bottero, Carlo Scarpa il veneziano, in «The Architectural Review», 1965, n. 2; S. los, Carlo Scarpa architetto poeta, Venezia 1967; m. brusatin, Carlo Scarpa architetto veneziano, in «Controspazio», 1972, n. 3-4, pp. 2-85; s. cantacuzino, Carlo Scarpa architetto poeta, catalogo della mostra Riba, London 1974; Carlo Scarpa, catalogo della mostra di Vicenza, 1974; fascicolo monografico di «sd», Tokyo 1977, n. 153; fascicolo monografico della rivista «Architecture, mouvement, continuité», 1979, n. 50; p. portoghesi, In ricordo di Carlo Scarpa, in «Controspazio», 1979, n. 3, 154

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 pp. 1-5; fascicolo monografico di «Rassegna», 1981, n. 7, a cura di A. Rudi. 163 Cfr. p. c. santini, Il nuovo negozio di Carlo Scarpa a Bologna, in «Zodiac», 1962, n. 1o. 164 Cfr. g. mazzariol, Un’opera di Carlo Scarpa: il riordino di un antico patazzo veneziano, in «Zodiac», 1964, n. 13. 165 Cfr. l. magagnato, La nuova sistemazione del Museo di Castelvecchio, in «Marmo», 1965, n. 4; p. c. santini, Il restauro di Casielvecchio a Verona, in «Comunità», 1965, n. 126, pp. 70-78. 166 Cfr. p. bucarelli, Mostra di Piet Mondrian a Roma, in «L’architettura cronache e storia», 1957, n. 17. 167 Si veda il volume di g. samonà, L’unità architettura urbanistica. Scritti e progetti 1929-1973, a cura di P. Lovero, Milano 1975. 168 Sulla piú recente attività di Samonà, cfr. p. lovero, Progetti dello studio Giuseppe e Alberto Samonà 1968-1972, in «Controspazio», 1973, n. 2, pp. 43-53; f. dal co, Il gioco della memoria: 1961-1975, in aa.vv., Giuseppe Samonà cit., pp. 105 599.; tafuri, Les «muses inquiétantes» cit. 169 Cfr. a. quistelli, Progetti dello studio Quaroni: dieci anni di esperienze didattiche e prolessionali, in «Controspazio», 1973, n. 2, pp. 8 sgg. Quaroni ha raccolto le sue recenti riflessioni, oltre che in La città fisica cit., nei volumi La torre di Babele, Padova 1967 e Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura, Milano 1977, ma il suo saggio piú significativo degli anni settanta rimane Le muse inquietanti: riflessioni su trenta anni di architettura in Italia, in «Parametro», 1978, n. 64-65, pp. 44-57, che costituisce, a suo modo, una storia dell’architettura dal Medioevo ad oggi, una confessione autocritica, un «memento» per le giovani generazioni, e un progetto naïf per il futuro. 170 Sull’opera di De Carlo, cfr. aa.vv , Giancarlo de Carlo, Milano 1964; il numero monografico di «Forum», 1972, n. 1; G. De Carlo. La Réconciliation de l’architecture et de la politique, in «L’architecture d’aujourd’hui», 1975, n. 177, pp. 32 sgg. (numero dedicato al Team X). Sull’opera di De Carlo come membro del Team X, si veda k. frampton, Les vicissitudes de l’idéologie, ivi, pp. 62 sgg. Per il piano di Urbino, cfr. g. de carlo, Urbino, Padova 1970; per il piano di Rimini, cfr. «Parametro», 1975, n. 39-40. Cfr. inoltre f. brunetti e f. gesi, Giancarlo De Carlo, Firenze 1981 (con bibliografia). Fra gli scritti di De Carlo, segnaliamo, oltre ai volumi Questioni di architettura e urbanistica, Urbino 19652 e La piramide rovesciata, Bari 1968, il recente saggio Corpo, memoria e fiasco, in «Spazio e società», 1978, n. 4, pp. 3-16, come uno dei piú rappresentativi del suo pensiero. Va inoltre segnalata la linea della rivista «Spazio e società» diretta da De Carlo, che inizia nel ’78 le sue pubblicazioni con non comune coerenza. Nello stesso anno, G. Canella inizia a dirigere la rivista «Hinterland», mentre «Controspazio», diretta da Portoghesi dal ’69, dirada sempre piú le sue uscite.

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 Cfr. g. de carlo, An Architecture of Participation, Melboume 1972 e L’architettura della partecipazione, in L’architettura degli anni ’70, Milano 1973. 172 Cfr. s. bracco, Un banco di prova nella conduzione della città, in «Casabella», 1977, n. 421, pp. 13-16, e g. de carlo, Alla ricerca di un diverso modo di progettare, ivi, pp. 17-19. 173 Fra la vasta pubblicistica di Aymonino sul tema, si veda almeno La città di Padova, a cura di C. Aymonino, Roma 1970; Origini e sviluppo della città moderna, Padova 1971; L’abitazione razionale. Atti dei congressi Ciam 1929-1930, Padova 1971; Il significato delle città, Bari 1975; Lo studio dei fenomeni urbani, Roma 1977. 174 Su tale fase dell’attività di Aymonino, cfr. conforti, C. Aymonino cit., pp. 41 sgg. 175 Cfr. c. dardi, Abitazioni nel quartiere Gallaratese a Milano, in «L’architettura cronache e storia», 1974, n. 226; Monte Amiata Housing, in «A + U», 1974, n. 7. 176 Cfr. 1977: Un progetto per Firenze, Roma 1978; c. conforti, 1977: un progetto per Firenze, in «Casabella», 1979, p. 444, e i testi citati oltre, p. 548, nota 7. 177 Cfr. c. aymonino, Materia e materiali, in «Lotus», 1977, n. 15, e Campus scolastico a Pesaro, a cura di F. Moschini, Roma 198o. 178 Collaboratore di Fiorentino, per tali progetti, è Gabriele De Giorgi già collaboratore dello studio Asse: non a caso essi mostrano una qualche affinità con quelli del gruppo romano Metamorph. Nei progetti del gruppo – concorsi per motel Agip (1968), per le Università di Firenze e Cosenza – il «pittoresco macchinista» celebra una tecnica invocata come daimon. Cfr. c. conforto, g. de giorgi, a. muntoni e m. pazzaglini, Città come sistema di servizi, Roma 1976, con introduzione di C. Dardi. Sull’opera di Fiorentino fino al 1970, cfr. l. quaroni, Itinerario dell’architetto Mario Fiorentino, 1958-1970, in «L’architettura cronache e storia», 1970, n. 182. Cfr. inoltre il volume autobiografico di m. fiorentino, La casa, Roma 1982. Per un inquadramento del Corviale, di Vigne nuove e degli altri quartieri della nuova periferia romana nell’attuale politica edilizia, cfr. v. fraticelli, I piani di zona: 1964-1978, in «Casabella», 1978, n. 438, pp. 22-24 e g. rebecchini, La progettazione dei piani di zona, ivi, pp. 25 sgg. con critiche da noi pienamente condivise. 179 Cfr. v. gregotti, Quartiere Zen a Palermo, in «Lotus», 1975, n. 9. Sull’opera recente di Gregotti cfr. m. scolari, Tre progetti di Vittorio Gregotti, in «Controspazio», 1971, n. 3, pp. 2-6; 0. bohigas, Vittorio Gregotti, in Once Arquitectos, Barcelona 1976, pp. 67-82; numero monografico di «A + U», 1978, n. 77; m. tafuri, Le avventure dell’oggetto: architetture e progetti di Vittorio Gregotti, e e. battisti, Architettura come problema, in Il progetto per l’Università della Calabria e altre 171

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 architetture di Vittorio Gregotti, Milano 1979. Fra gli scritti teorici di Gregotti, ricordiamo Avanguardia come professione (firmato insieme a Oriol Bohigas e Gae Aulenti), in «Lotus», 198o, n. 25. 180 Il lavoro di Franco Purini appare fra i piú interessanti e promettenti delle giovani generazioni anche se ancora costretto a rimanere teorico. Su Purini cfr. p. melis, Il «timore» e il «bisogno» dell’architettura. Una nota sulle incisioni di Franco Purini, in «Controspazio», 1977, n. 4-5, pp. 61-63 e m. tafuri, Natural-Artificial. The Architecture of Franco Purini, in «A + U», 198o, n. 8, pp. 35-40. I testi di Purini sono fra i piú lucidi prodotti dagli architetti operanti nell’ultimo decennio. Cfr. i volumi, Luogo e progetto, Roma 1976 e il recente L’architettura didattica, Reggio Calabria 198o. Quest’ultimo, che raccoglie riflessioni e lezioni dal ’77 in poi, mostra un esemplare equilibrio nel distinguere motivi della poiesis e analisi sul corpo storico dell’architettura, ricongiunti poi nei disegni e nei paesaggi teorici dell’autore. 181 Sui problemi relativi alla localizzazione dell’Università fiorentina e sul concorso, cfr. a. montemagni e p. sica, La politica urbanistica fiorentina e il concorso internazionale per la nuova Università, in «Urbanistica», 1974, n. 62. 182 Cfr. j. rykwert, La nuova università della Calabria, in «Domus», 1974, n. 540, pp. 13 sgg. e Il progetto per l’Università delle Calabrie cit. 183 L’attività di Gabetti e Isola non ha goduto, dopo le polemiche sul «neoliberty», dei favori della critica: all’atteggiamento schivo dei due torinesi ha corrisposto una distrazione generalizzata, rotta solo da alcune «cronache» di Zevi (Cronache di architettura cit., nn. 451, 481, 610, 780, 933), e da occasionali presentazioni di opere. Giustamente Portoghesi nel ’77 richiama l’attenzione su Gabetti e Isola con un numero di «Controspazio» (n. 4-5), che documenta la loro opera dal 1965 al 1976. Cfr. p. portoghesi, Dentro la storia e fuori delle «storie», ivi, pp. 16 sgg. e g. accasto, La complessità dell’essenziale: riflessioni sugli ultimi lavori di Gabetti e Isola, ivi, pp. 34 sgg., che tuttavia lasciano in diverso modo insoddisfatti. Nello stesso fascicolo, cfr. r. gabetti e a. isola, «Sulla schiena del drago», p. 2, e gli articoli di D’Amato e Cellini già citati sul fenomeno neoliberty. Cfr. anche Gabetti, Isola, Raineri cit. 184 Cfr. p. portoghesi, Oggettività e contraddizione: una casa sulla collina torinese, in «Controspazio», 1969, n. 3, p. 30. 185 Cfr. zevi, Cronache di architettura cit., n. 933; r. pedio, Residenziale ovest a Ivrea, in «L’architettura cronache e storia», 1973, n. 212-13; accasto, La complessità dell’essenziale cit. 186 Vicina a quella di Gabetti e Isola è la poetica di Giorgio Raineri, come s’è visto, associato ad essi per alcuni lavori. Anche Raineri trae una sicurezza sintattica da un «mestiere» forbito e da un’attenta esplorazione del contesto storico che forma il paesaggio piemontese: un raffinato trattamento della materia si integra, in lui, a un’altrettanto raf-

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 finata manipolazione della geometria, cosí da fare del «parlar sommesso» un pretesto linguistico ricco di infiniti sviluppi. Opere come la scuola materna di Mondoví (con Lorenzo Mamino, 1969-72), la casa sulla collina torinese del 1968-72, il restauro e la ristrutturazione del castello neogotico di Miradolo (1975-78), la scuola materna di Collegno (1975-77) si pongono come episodi di alta sapienza formale, proporzionale all’attenzione che Raineri dedica al «dettaglio». Cfr., oltre a Gabetti, Isola, Raineri cit., r. cabetti, Intimismo, dieci opere in dieci anni, in «Casabella», 1969, n. 338, pp. 7-21; v. gregotti, 1954-1979: Architetture di Giorgio Raineri. La strategia dell’invenzione e la poesia del mestiere, in «Controspazio», 1979, n. 3, pp. 26-3o, e r. gabetti, Una lettera a Giorgio Raineri, ivi, p. 46. 187 La critica non ha ancora affrontato l’opera di Canella con la serietà che le è dovuta. La bibliografia al proposito è cosí sparsa in articoli di presentazione di opere: cfr. b. zevi, in «L’Espresso», 1967, n. 50; l. berni, in «Panorama», 1977, nn. 561 e 6o6, 1979, n. 668; a. cristofellis, Scuole materne come case del popolo, in «L’architettura cronache e storia», 1976, n. 252, pp. 294-307. 188 Fra le ricerche tipologiche canelliane, ricordiamo i volumi Il sistema teatrale a Milano, Bari 1966; Il carcere come modello di decongestione, Milano 1967; Università. Ragione, contesto, tipo (con Lucio D’Angiolini), Bari 1975. Cfr. anche, di g. canella, Dal laboratorio della composizione, in aa.vv., Teoria della progettazione architettonica, Bari 1958 e Critica di alcune correnti ideologie, in «Controspazio», 1970, n. 1-2, pp. 34-41. 189 Su Gae Aulenti, cfr. g. drudi, The Design of Gae Aulenti, in «Craft Horizons», febbraio 1976; p. c. santini, Gae Aulenti: Architettura, scene, design, in «Ottagono», 1977, n. 47; Gae Aulenti, Milano 1979, catalogo della mostra al Pac, con introduzione di V. Gregotti, il saggio di e. battisti, Architettura è donna (pp. 7-11), quello di f. quadri, Teatro come trasgressione (p. 12), e frammenti di conversazione della Aulenti con Quadri (pubblicata in Il Patalogo uno, Milano 1979, pp. 317-30). 190 Cfr. Italy: The New Domestic Landscape, a cura di E. Ambasz, New York 1972, pp. 150-59. 191 Cfr. g. aulenti, Teatro e Territorio. Il laboratorio di Prato, in «Lotus», 1977, n. 17, pp. 4 sgg. 192 La bibliografia su Aldo Rossi è sin troppo vasta: di questo maestro del segno trattenuto, del confine, della «laconica eloquenza», si tenta di fare un fenomeno alla moda, di pronta assimilazione. Cfr., comunque, e. bonfanti, Elementi e costruzione. Note sull’architettura di Aldo Rossi, in «Controspazio», 1970, n. 1o, pp. 19 sgg.; m. steinmann, Architektur, in Aldo Rossi, Bauten Projekte, Zürich 1973, pp. 3-5; r. nicolini, Note su Aldo Rossi, in «Controspazio», 1974, n. 4, pp. 48-49;

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 numero monografico di «Construcción de la ciudad 2c», 1975, n. 2; v. savi, L’architettura di Aldo Rossi, Milano 1976; «A + U», 1976, n. 65, pp. 55 sgg. (numero monografico); f. dal co, Criticism and Design. For Vittorio Savi and Aldo Rossi, in «Oppositions», 1978, n. 13, pp. 2-16; Aldo Rossi progetti e disegni 1962-1979, Firenze 1979; p. eisenman, Preface, e The House of the Dead as the City of Survival, in Aldo Rossi in America: 1976 to 1979, cat. 2, Iaus, New York 1979; numero monografico di «Construcción de la Ciudad 2c», 1979, n. 4; m. tafuri, La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70, Torino 198o, pp. 330 sgg.; d. vitale, Ritrovamenti, traslazioni, analogie. Progetti e frammenti di Aldo Rossi, in «Lotus», 198o, n. 25, pp. 55-58; p. portoghesi, Dopo l’architettura moderna, Roma-Bari 198o, pp. 182 sgg. Come voce contraria, cfr. b. zevi, Con Piacentini in nome di Lenin, in «L’Espresso», 14 ottobre 1973. Fra gli scritti di Rossi, ricordiamo L’architettura della città, Padova 19733, e Scritti scelti sull’architettura e la città 1965-1972, a cura di R. Bonicalzi, Milano 19752 193 E si tratterà della «metafisica», con i suoi debiti a Max Klinger e Arnold Böcklin, del «novecentismo», del neoclassicismo lombardo, di Giovanni Muzio, di Loos, e persino di alcuni aspetti di Marcello Piacentini: tutti i temi, in sostanza, censurati dalla cultura «progressista» degli anni quaranta e cinquanta. Di qui anche l’apprezzamento dell’architettura cosiddetta «stalinista» o della Stalinallee a Berlino. Un apprezzamento, quest’ultimo, avanzato in un articolo scritto da Rossi insieme a Canella e rimasto inedito: nessuna rivista di sinistra si sentí di pubblicarlo agli inizi della destalinizzazione. 194 Cfr. g. u. polesello, a. rossi e f. tentori, Il problema della periferia nella città moderna, in «Casabella», 196o, n. 241, pp. 39-55. 195 a. rossi, Adolf Loos 1870-1933, ivi, 1959, n. 233, pp. 5-12. 196 Cfr. id., L’azzurro del cielo, ivi, 1972, n. 372 e in «Controspazio», 1972, n. 10; r. moneo, Aldo Rossi: the idea of architecture and the Modena cemetery, in «Oppositions», 1976, n. 15, pp. 1-30 e vitale, Ritrovamenti, traslazioni, analogie cit. 197 Cfr. a. rossi, La arquitectura análoga, in «Construcción de la ciudad 2c», 1975, n. 2, pp. 8-11, e m. tafuri, Ceci n’est pas une ville, in «Lotus», 1976, n. 13, pp. 10-13. 198 Cfr. id., L’éphémère est éternel. Aldo Rossi a Venezia, in «Domus», 198o, n. 602, pp. 7-8; f. dal co, Ora questo è perduto, in «Lotus», 198o, n. 25, pp. 66 sgg.; p. portoghesi, Il teatro del mondo, in «Controspazio», 1979, n. 5-6, pp. 2 e 9-1o; s. planas, El Teatro del Mondo de Aldo Rossi, o el «lenguaie de las cosas mudas», in «Carrer de la Ciudat», 198o, n. 12, pp. 5-15; j. j. lahuerta, Personajes de Aldo Rossi, ivi, pp. 16-27. 199 Su Grassi, cfr. a. monestiroli, Teoria e progetto. Considerazioni sull’architettura di Giorgio Grassi, in «Controspazio», 1974, n. 2, pp.

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 72-91. Si veda, anche, g. grassi, La costruzione logica dell’architettura, Padova 1967, e L’architettura come mestiere e altri scritti, Milano 198o. 200 aa.vv., Architettura razionale. XV Triennale di Milano. Sezione internazionale di architettura, Milano 1973. Fra gli articoli pesantemente critici contro l’iniziativa, vedi g. gresleri, Alla XV Triennale di Milano, in «Parametro», 1973, n. 21-22, pp. 6 sgg., e j. rykwert, XV Triennale, in «Domus», 1974, n. 530, pp. 1-15. A favore, cfr. r. nicolini, Per un nuovo realismo in architettura, in «Controspazio», 1973, n. 6, pp. 12-15. Un demerito di quella mostra comunque, è stato quello di aver artificiosamente unificato nello sciagurato termine della «tendenza» architetture di opposte tendenze: in questo, quella mostra e quella di Portoghesi per la Biennale di Venezia 198o concordano perfettamente. Segnaliamo pertanto a chi mostra di aver ancora caro il termine «tendenza», che Massimo Scolari, responsabile di essa, interrogato oggi, afferma di aver compiuto, nel 1973, un ironico «gesto» dadaista. 201 Sul gruppo Grau, cfr. p. portoghesi, Architettura del Grau, in «Controspazio», 1979, n. 1-2, pp. 2 e 96; c. d’amato, 1964-78: Storia e logica nella progettazione del Grau, ivi, pp. 4 sgg.; grau, Isti mirant stella. Architetture 1964-198o, Roma 1981. 202 Sulle ricerche dei giovani romani, cfr. g. muratore, I gruppi romani tra neoavanguardia e neomanierismo, in «Casabella», 1979, n. 449, pp. 10-17, e Architetti romani: un dibattito, ivi, pp. 18 sgg. 203 Cfr. Progetti dello studio Labirinto, in «Controspazio», 1975, n. 4, pp. 8o sgg. 204 f. purini e l. thermes, La ricerca dei giovani architetti italiani. Una generazione ritrovata, ivi, 1978, n. 5-6, p. 8. 205 Cfr. m. mattei, Crisi dell’urbanistica, urbanistica della crisi. Note in margine al concorso per l’area direzionale di Firenze, ivi, 1977, n. 6, pp. 23-28, che affronta la carenza di impostazione delle scelte di localizzazione e delle ipotesi funzionali. Sui risultati del concorso, vedi, nello stesso fascicolo, la nota di p. portoghesi, Ancora paura dell’architettura, p. 2. Cfr. g. gresleri, Depressione su un concorso di architettura moderna, in «Parametro», 1978, n. 63, pp. 11-12 (alle pp. 15 sgg. i progetti e stralci delle relazioni). 206 In tale ambito, tentativi di definire tendenze in base a formule rischiano di confondere piú che di illuminare: cosí è accaduto alla mostra organizzata nel 1977-78 a Bologna dal titolo – mediato da un’ipotesi critica di Renato Barilli, ma di ascendenza heideggeriana – «Assenza-Presenza», in cui alle neoavanguardie «radicali» si contrapponevano, come «assenti», figure eterogenee come Dardi, Isozaki, Moore, Scolari, Purini, Rossi, Sartogo, Heiduk, ecc. Cfr. il catalogo Assenza/Presenza, un’ipotesi di lettura per l’architettura, Ascoli Piceno 1979, e l’articolo, puntualmente critico, di l. thermes, Bologna: una mostra e un convegno, in «Controspazio», 1977, n. 6, p. 58.

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Manfredo Tafuri - Architettura italiana 1944-1981 Cfr. m. gandelsonas, Massimo Scolari. Paesaggi teorici, in «Lotus», 1976, n. 11, pp. 57-63; m. tafuri, The Watercolors of Massimo Scolari, in Massimo Scolari: Architecture between Memory and Hope, Iaus, New York 1980, pp. 2 sgg.; Massimo Scolari, acquarelli e disegni 1965-198o, a cura di F. Moschini, Firenze 1981. 208 Cfr. il catalogo Roma interrotta, Roma 1978; l. thermes, Il Nolli, dodici architetti e una città, in «Controspazio», 1978, n. 4, pp. 4-24; p. ceccarelli, La Messa per Moro, la Pianta del Nolli e l’immaginazione ibernata, in «Spazio e società», 1978, n. 4, pp. 89-92. 209 Cfr. n. pagliara, Architetture e progetti, 196o-1979, in «Controspazio», 1979, n. 3, pp. 6 sgg., con il commento di p. portoghesi, Materia e spazio: il lavoro di Nicola Pagliara, ivi, p. 19 e g. k. könig, Italian ecleticism, quant’è wunderbar, in «Modo», 1979, n. 17, pp. 29-33. Interessante, come testimonianza degli stati d’animo degli anni sessanta in relazione alle «lingue paterrie», il volumetto di n. pagliara, Appunti su Otto Wagner, Napoli 1968. Che poi il percorso di Pagliara – dal costruttivismo esasperato delle prime opere, alla matericità esuberante della chiesa di Tursi (1967), agli ironici montaggi di Casa Crispino a Melito (1978) e dei progetti piú recenti – sia tutt’altro che segnato dai maestri viennesi del linguaggio non deve meravigliare. Va piuttosto segnalata la «perversità» con cui molti dei nati all’architettura negli anni sessanta guardano alle loro fonti di elezione. Non rende omaggio, comunque, ai fermenti vivi nelle nuove tendenze, l’azione promozionale svolta da Portoghesi nell’organizzare la mostra della Biennale di Venezia del 198o Presenza del passato (vedine il catalogo cit., ma anche, come sua base teorica, il volume di portoghesi, Dopo l’architettura moderna cit.). Non a caso, critiche penetranti all’ideologia «post-moderna» sono state pronunciate da Purini, pur presente alla mostra di Venezia (cfr. purini, L’architettura didattica cit., p. 41, nota 14, e pp. 93 e 120). 207

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