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April 30, 2017 | Author: Momo_Murasaki | Category: N/A
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Scritti sull’arte

di Charles Baudelaire

Storia dell’arte Einaudi

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Edizione di riferimento:

Charles Baudelaire, Scritti sull’arte, trad. it. di Giuseppe Guglielmi ed Ezio Raimondi, Einaudi, Torino 1981 e 1992

Storia dell’arte Einaudi

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Indice

Salon del 1846 A che serve la critica? Che cos’è il romanticismo? Del colore Eugène Delacroix Dei soggetti amorosi e di Tassaert Di alcuni coloristi Dell’ideale e del modello Di alcuni disegnatori Del ritratto Dello chic e del banale Di Horace Vernet Dell’eclettismo e del dubbio Di Ary Scheffer e delle scimmie del sentimento xiv. Di alcuni dubbiosi xv. Del paesaggio xvi. Perché la scultura è noiosa xv11. Delle scuole e degli operai xviii. Dell’eroismo della vita moderna 1. ii. iii. iv. v. vi. vii. viii. ix. x. xi. xii. xiii.

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SALON DEL 1846 Ai borghesi Voi siete la maggioranza, – per numero e intelligenza; – e pertanto siete la forza, – che è la giustizia. Scienziati gli uni, proprietari gli altri; – verrà un giorno radioso in cui gli scienziati saranno proprietari, e i proprietari scienziati. Allora la vostra potenza sarà completa, e non vi sarà nessuno a protestare contro di essa. Nell’attesa di questa suprema armonia, è giusto che coloro i quali non sono che proprietari aspirino a diventare scienziati; poiché la scienza è un godimento non meno grande che la proprietà. Voi possedete il governo della città, ed è giusto, giacché siete la forza. Ma occorre che siate capaci di sentire la bellezza; in quanto come nessuno di voi può oggi fare a meno di potenza, cosí nessuno ha il diritto di fare a meno di poesia. Potete vivere tre giorni senza pane; – ma senza poesia, in nessun caso; e quelli di voi che affermano il contrario s’ingannano: non si conoscono. Gli aristocratici del pensiero, i dispensatori dell’elogio e della censura, gli accaparratori dei beni spirituali,

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vi hanno detto che non avevate il diritto di sentire e di godere: – sono dei farisei. Invero, avete il governo di una città ove è presente il pubblico dell’universo, e bisogna che siate degni di tale carico. Godere è una scienza, e l’esercizio dei cinque sensi esige una iniziazione tutta sua, che ha luogo solo con la buona volontà e il bisogno. Ora ciò che vi occorre assolutamente è l’arte. L’arte è un bene infinitamente prezioso, l’arzente che rinfresca e infiamma, che ristora lo stomaco e lo spirito nell’equilibrio nativo dell’ideale. Voi ne concepite l’utilità, oh borghesi, – legislatori o commercianti, – quando allo scoccare della settima o ottava ora vi accade che il capo si chini sulle braci del focolare e sui cuscini della poltrona. Un desiderio più ardente, un’immaginazione più attiva, vi conforterebbero allora dell’azione quotidiana. Senonché gli accaparratori hanno voluto tenervi lontano dall’albero della scienza, perché la scienza è la loro cassa e bottega, di cui restano estremamente gelosi. Se vi avessero negato il potere di produrre opere d’arte o di comprendere i procedimenti in base ai quali si producono, avrebbero affermato un vero di cui non vi sareste offesi, dal momento che gli affari pubblici e il commercio assorbono i tre quarti della vostra giornata. Quanto alle ore libere, esse devono per questo essere dedicate al godimento e alla voluttà. Ma gli accaparratori vi hanno vietato di godere, perché non intendete la tecnica delle arti, come invece intendete le leggi e gli affari. Non per tanto, se i due terzi del vostro tempo sono occupati dalla scienza, è giusto che l’altro terzo sia preso dal sentimento, e solo per mezzo del sentimento dovete giungere all’intelligenza dell’arte; – cosí, per l’ap-

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punto, la vostra anima può trovare l’equilibrio delle forze. In quanto molteplice, la verità non e doppia; e come nella sfera della politica avete concesso i diritti e i vantaggi, cosí nelle arti avete fondato una piú vasta e copiosa comunione. Borghesi, voi – re, legislatori o negozianti, – avete istituito collezioni, musei, gallerie. Alcune di quelle che sedici anni or sono erano aperte solo agli accaparratori hanno aperto le porte alla massa. Vi siete consociati, avete costituito delle compagnie e concesso dei prestiti per realizzare l’idea dell’avvenire in tutte le sue diverse forme, politiche, industriali e artistiche. Mai in alcuna nobile impresa avete lasciato l’iniziativa alla minoranza protestataria e travagliata, che poi è la nemica naturale dell’arte. Lasciarsi sorpassare in arte e in politica, equivale a suicidarsi, e una maggioranza non può volere il suicidio di se stessa. Ciò che avete fatto per la Francia, lo avete fatto anche per altri paesi. Il museo spagnolo1 è venuto ad accrescere il complesso delle idee generali che dovete avere sull’arte; sapete infatti benissimo che, cosí come un museo nazionale è una comunione la cui influenza gentile intenerisce il cuore e affina la volontà, un museo straniero è una comunione internazionale, in cui due popoli, avendo un modo piú libero di osservarsi e studiarsi, si compenetrano reciprocamente, e si affratellano senza contrasti. Voi siete gli amici naturali delle arti giacché siete ricchi per una parte, scienziati per un’altra. Dopo aver dato alla società la vostra scienza, e industria, e lavoro e danaro, pretendete di essere compensati in piaceri del corpo, della ragione e dell’immaginazione. Ora se ricuperate la somma di piaceri necessari per ricostituire l’equilibrio di tutte le parti del vostro essere,

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sarete felici, sazi e amabili, allo stesso modo in cui la società è destinata ad essere felice e amabile allorché avrà trovato il proprio equilibrio generale e assoluto. È naturale, dunque, che questo libro sia dedicato a voi, borghesi; ché ogni libro che non si rivolga alla maggioranza, – numero e intelligenza, – è un libro sciocco. 1° maggio 1846.

1 A che serve la critica? A che serve? – Interrogativo enorme e terribile, che afferra la critica per il collo fin dal primo passo che essa prende a fare nel suo capitolo d’apertura. L’artista rimprovera per prima cosa alla critica di non potere insegnare nulla al borghese, il quale non vuole dipingere né poetare, – né all’arte, in quanto la critica è uscita proprio dalle sue viscere. E tuttavia quanti artisti di questo nostro tempo devono solo a lei la loro misera fama! Qui sta forse il vero rimprovero da muoverle. Si è visto un Gavarni che raffigura un pittore curvo sulla tela; alle sue spalle un signore, grave, rinsecchito, rigido e incravattato di bianco, con in mano l’ultima sua recensione. «Se l’arte è nobile, la critica è santa». – «E chi lo dice?» – «La critica!» Se l’artista fa la sua parte cosí a buon mercato, questo accade perché il critico è inequivocabilmente un critico come ce ne sono tanti. In fatto di mezzi e procedimenti – se non addirittura di opere2, il pubblico e l’artista non hanno nulla da imparare a questo punto. Sono cose che si imparano al cavalletto, facendo, e il pubblico s’interessa solo del risultato.

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Credo in coscienza che la migliore critica sia quella che riesce dilettosa e poetica; non una critica fredda e algebrica, che, col pretesto di tutto spiegare, non sente né odio né amore, e si spoglia deliberatamente di ogni traccia di temperamento; ma, – riflessa dall’occhio di un artista, – quella che ci farà vedere un quadro attraverso lo specchio di uno spirito intelligente e sensibile, se è vero che un bel quadro è la natura riflessa. Cosí la migliore recensione critica di un quadro potrà essere un sonetto o un’elegia. Ma un tal genere di critica e destinato alle raccolte di poesia e ai suoi lettori. Quanto a quella propriamente detta, spero che i filosofi comprenderanno ciò che sto per dire: perché sia giusta, cioè perché abbia la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti. Esaltare la linea a detrimento del colore, o il colore a spese della linea, è fuor di dubbio un punto di vista; ma non è una visuale né ampia né corretta, e rivela una grande ignoranza di ogni destino particolare. Si ignora in quale dose la natura abbia mescolato in ogni ingegno il gusto della linea e il gusto del colore, e per quali misteriosi procedimenti essa natura operi tale fusione il cui esito e un quadro. Pertanto un punto di vista più ampio vuole essere l’individualismo rettamente interpretato: esigere dall’artista l’ingenuità e l’espressione sincera del suo temperamento, soccorsa da tutti i mezzi che gli vengono dal suo mestiere3. Chi non ha temperamento non è degno di fare dei quadri, e allora, – poiché si è stanchi di imitatori, e soprattutto di eclettici, – deve entrare come manovale al servizio di un pittore di temperamento: come dimostrerò in uno degli ultimi capitoli.

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Fornito ormai di un criterio certo, preso dalla natura, il critico deve compiere il proprio dovere con passione, giacché egli non rinuncia ad essere uomo, e la passione avvicina i temperamenti affini, trasporta la ragione a nuove altezze. Stendhal ha detto una volta: «La pittura non è che morale costruita!» – Ove s’intenda questo termine in un senso piú o meno liberale, può affermarsi la stessa cosa per tutte le arti. E poiché esse sono sempre il bello espresso dal sentimento, dalla passione e dall’immaginazione del singolo, vale a dire dalla varietà nell’unità, ovvero dalle diverse facce dell’assoluto, – la critica s’incontra ad ogni momento con la metafisica. Essendo riservata ad ogni secolo e ad ogni popolo l’espressione della propria bellezza e della propria morale, – qualora si voglia intendere il romanticismo come l’espressione piú recente e moderna della bellezza, – il grande artista sarà allora, – per il critico raziocinante e appassionato, – colui che unirà alla condizione sopra richiesta, all’ingenuità, – il massimo romanticismo possibile.

ii Che cos’è il romanticismo? Pochi vorranno oggi attribuire a questo termine un significato reale e positivo; ma avranno lo stesso l’ardire di affermare che una generazione è pronta a sostenere una battaglia di lunghi anni per una bandiera che non è un simbolo? Si ripensi agli scontri di questi ultimi tempi, e si vedrà che, se è rimasto un numero esiguo di romantici, questo è accaduto perché pochi di loro hanno trovato il romanticismo, anche se tutti lo hanno sinceramente e lealmente cercato.

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Alcuni si sono rivolti unicamente alla scelta dei soggetti; ma non ne avevano il temperamento. – Altri, che credevano ancora in una società cattolica, hanno cercato di riprodurre il cattolicesimo nelle loro opere. – Ma dirsi romantico e fissarsi sistematicamente sul passato, è una contraddizione. – Costoro, in nome del romanticismo, hanno insultato i Greci e i Romani: ora si possono rappresentare Romani e Greci romantici, quando si è a propria volta tali. – Molti altri sono stati fuorviati dalla verità nell’arte e nel colore locale. Il realismo aveva già antiche radici prima di questa grande battaglia, e d’altronde, comporre una tragedia o un quadro per Raoul Rochette4, significa correre il rischio di essere smentiti dal primo venuto, se è più colto di Raoul Rochette. Il romanticismo non sta per l’appunto né nella scelta dei soggetti né nella verità esatta, ma nel modo di sentire. I nostri artisti lo hanno cercato al di fuori, mentre solo dal di dentro era possibile scoprirlo. Quanto a me, il romanticismo è l’espressione piú recente e più attuale del bello. Vi sono tante bellezze quanti sono i modi consueti di cercare la felicità5. La filosofia del progresso spiega tutto questo con chiarezza; come ci sono stati tanti ideali quanti furono per i popoli le maniere di comprendere la morale, l’amore, la religione, ecc., cosí il romanticismo non può consistere in una esecuzione perfetta, ma in una concezione simile alla morale del secolo. Proprio perché taluni lo hanno visto come la perfezione del mestiere, abbiamo avuto il rococò del romanticismo, che senz’ombra di smentita è il piú insopportabile di tutti.

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Occorre allora, prima di tutto, conoscere gli aspetti della natura e le situazioni dell’anima, che gli artisti del passato hanno trascurato o non conosciuto. Chi dice romanticismo dice arte moderna, – cioè intimità, spiritualità, colore, aspirazione verso l’infinito, espressi con tutti i mezzi presenti nelle arti. Ne viene che esiste una contraddizione evidente tra il romanticismo e le opere dei suoi principali rappresentanti. Perché stupirsi se il colore ha una parte capitale nell’arte moderna? Il romanticismo è figlio del Nord, e il Nord è colorista; i sogni e gli incantesimi sono creature delle brume. L’Inghilterra, che è la patria dei coloristi piú accesi, le Fiandre, una metà della Francia, sono immerse nelle nebbie; la stessa Venezia affonda nella laguna. E i pittori spagnoli poi, sono più pittori di contrasti che coloristi. In compenso il Mezzogiorno è naturalista, perché quivi la natura è cosí bella e luminosa che l’uomo, non avendo nulla da desiderare, non trova niente di più bello da inventare all’infuori di quello che vede: qui, l’arte sotto la luce del sole, e qualche centinaio di leghe più a nord i sogni profondi nel chiuso del laboratorio e l’occhio della fantasia sperduto nei grigi orizzonti. Il Mezzogiorno è brutale e positivo come uno scultore nelle sue composizioni più delicate; il Nord dolente e inquieto si consola con l’immaginazione, e quando giunge a far scultura, essa sarà più spesso pittorica che classica. Raffaello, nonostante la sua purezza, non è che uno spirito materiale alla ricerca senza sosta del solido; ma quella canaglia di Rembrandt è un potente idealista che fa sognare e vedere al di là. Il primo compone creature allo stato puro e verginale, – Adamo ed Eva; – il secondo agita gli stracci davanti ai nostri occhi e ci racconta le sofferenze dell’uomo.

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Tuttavia Rembrandt non è un colorista puro, ma un armonista; ora come sarà nuovo l’effetto e quanto il romanticismo prestigioso, dove un potente colorista ci renda i nostri sentimenti e sogni più cari con un colore rispondente ai soggetti! Prima di passare all’esame dell’uomo che resta sin ad oggi il più degno rappresentante del romanticismo, penso di scrivere sul colore una serie di riflessioni non inutili alla piena intelligenza di queste nostre pagine.

iii Del colore Si immagini un ampio spazio di natura ove tutto si illumini di verde, di rosso, sfolgorante e liberamente mutevole, e tutte le cose, con diversi colori secondo la propria struttura molecolare, mutate di attimo in attimo allo spostarsi dell’ombra e della luce, agitate dall’interno lavorio dell’energia calorica, si trovino in una vibrazione perenne, la quale fa tremare le linee e porta a fine la legge del movimento eterno e universale. – Un’immensità, talora azzurra e spesso verde, si stende sino ai confini del cielo: il mare. Verdi gli alberi, verde l’erba, verde il muschio; e il verde serpeggia nei tronchi, gli steli acerbi sono verdi; il verde è il fondo della natura perché il verde si unisce senza difficoltà con tutti gli altri toni6. Ciò che subito mi colpisce, è che dappertutto, – rosolacci nei prati, papaveri, pappagalli, ecc., – il rosso intona la gloria del verde; e il nero, quando compare, nullità solitaria e insignificante, invoca l’intervento dell’azzurro e del rosso. L’azzurro, cioè il cielo, è attraversato da lievi bioccoli bianchi o da masse grigie che temperano felicemente la sua spenta crudezza, – e, come il vapore della stagione, – inverno o estate, –

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bagna, ammorbidisce o stinge i contorni, la natura somiglia a una trottola che, mossa da una velocità accelerata, ci appare grigia, quantunque riassuma in sé tutta la gamma dei colori. La linfa sale e, mistura di principî, si spande in toni misti; gli alberi, le rocce, i graniti si specchiano nelle acque e vi depongono i propri riflessi; tutti gli oggetti trasparenti uncinano al passaggio luci e colori prossimi e remoti. Man mano che l’astro del giorno si sposta, i toni mutano di valore, ma sempre fedeli alle proprie simpatie e repulsioni naturali, continuano a vivere in armonia per concessioni reciproche. Le ombre migrano piano piano, e mettono in fuga o spengono i toni via via che la luce, spostandosi a sua volta, prende a concertarli di nuovo. Essi si rimandano i loro riflessi, e, mentre modificano le proprie qualità velandole di altre trasparenti e avventizie, moltiplicano all’infinito i loro connubi melodiosi e li rendono piú fluenti. Quando la grande sfera di fuoco discende tra le acque, rosse fanfare erompono da ogni dove; un’armonia di sangue dilaga all’orizzonte, e il verde s’imporpora dovizioso. Ma subito vaste ombre azzurre ricacciano indietro, come danzando, la schiera dei toni arancione e rosa pallido che sono quasi l’eco lontana e affievolita della luce. Questa grande sinfonia del giorno, eterna variazione della sinfonia di ieri, questa successione di melodie, ove la varietà sgorga sempre dall’infinito, questo inno complicato ha nome colore. Nel colore si trovano l’armonia, la melodia e il contrappunto. Se si vuole esaminare il particolare nel particolare, in un oggetto di media dimensione, – ad esempio, una mano di donna lievemente sanguigna, un po’ magra e di una pelle assai fine, si vedrà che esiste un’armonia perfetta tra il verde delle grosse vene che la solcano e i toni purpurei che segnano le giunture; le unghie rosa spiccano sulla prima falange dai toni grigi e bruni. Quanto al

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palmo, le linee della vita, piú rosee e vinose, sono separate fra loro dal sistema delle vene verdi o azzurre che le attraversano. Sotto una lente, lo studio del medesimo oggetto fornirà in un qualsiasi spazio, per piccolo che sia, un’armonia perfetta di toni grigi, azzurri, bruni, verdi, arancione e bianchi ravvivati da una punta di giallo; – un’armonia, che combinata con le ombre, genera il modellato dei coloristi, cosí radicalmente diverso dal modellato dei disegnatori, le cui difficoltà si riducono, in fondo, a copiare un calco. Il colore è quindi l’accordo di due toni. Il tono caldo e il tono freddo, la cui opposizione costituisce l’intera teoria, non possono definirsi in modo assoluto: esistono solo in rapporto. La lente è l’occhio del colorista. Non intendo di qui concludere che un colorista deve procedere fondandosi sullo studio minuzioso dei toni accozzati in uno spazio assai ristretto. Se si ammette infatti che ogni molecola sia dotata di un tono particolare, occorrerebbe che la materia fosse divisibile all’infinito; e d’altra parte, non essendo l’arte che un’astrazione e un sacrificio del particolare all’insieme, è importante occuparsi soprattutto delle masse. Ma io volevo dimostrare che, ove si desse il caso, i toni per quanto numerosi, e però logicamente giustapposti, finirebbero per fondersi naturalmente in virtú della legge che li governa. Le affinità chimiche sono la ragione per cui la natura non può commettere errori nella concertazione dei suoi toni; che, per essa, forma e colore fanno tutt’uno. Neppure il vero colorista può sbagliare; e tutto gli è concesso, in quanto conosce da sempre la gamma dei toni, la forza del tono, i risultati degli impasti, e tutta la scienza del contrappunto, e può cosí comporre un’armonia di venti rossi differenti.

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Ciò è cosí vero che se un proprietario anticolorista decidesse di ridipingere la propria campagna in un modo assurdo e con un sistema di colori gettati alla rinfusa, la patina spessa e trasparente dell’atmosfera e l’occhio sapiente di un Veronese rimetterebbero in sesto il tutto e formerebbero su una tela un insieme soddisfacente, convenzionale, non v’è dubbio, ma logico. In questo modo si spiega come un colorista può essere paradossale nella sua maniera di esprimere il colore, e come lo studio della natura conduca spesso a un risultato differente del tutto dalla natura. L’aria ha una parte cosí grande nella teoria del colore che, se un paesaggista dipingesse le foglie degli alberi come le vede, egli otterrebbe un tono falso; atteso che vi è uno spazio d’aria assai minore tra lo spettatore e il quadro che non tra lo spettatore e la natura. Le menzogne sono di continuo necessarie, anche per arrivare all’«inganno dell’occhio». L’armonia è la base della teoria del colore. La melodia è l’unità nel colore, o il colore generale. La melodia esige una conclusione; è un insieme dove tutti gli effetti concorrono a un effetto generale. Cosí la melodia lascia nell’animo un ricordo profondo. La maggior parte dei nostri coloristi difettano di melodia. Il modo corretto di sapere se un quadro è melodioso è quello di guardarlo da una distanza sufficiente per non comprenderne né il soggetto né le linee. Se è melodioso, ha già un senso, e si è insediato già nel repertorio dei ricordi. Lo stile e il sentimento nel colore procedono dalla scelta, e la scelta procede dal temperamento. Ci sono toni gai e vivaci, allegri e tristi, ricchi e gai, ricchi e tristi, alcuni comuni e altri originali.

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Cosí il colore del Veronese è pacato e vivace. Il colore di Delacroix è spesso dolente, e il colore di Catlin piú volte terribile. Ho avuto per molto tempo davanti alla mia finestra una taverna pitturata in parte di verde e in parte di rosso, a colori crudi, che per i miei occhi erano una sofferenza deliziosa. Non so se qualche scrittore dell’analogia abbia fondatamente definito una gamma completa dei colori e dei sentimenti, ma ricordo un passo di Hoffmann che esprime appieno il mio pensiero, e che piacerà a quanti amano sinceramente la natura: «Non solo in sogno, e nel delirio lieve che precede il sonno, ma anche da sveglio, quando sento musica, trovo un’analogia e un’intima connessione tra i colori, i suoni e gli odori. Mi sembra che tutte queste cose siano state generate da uno stesso raggio di luce, e che abbiano a riunirsi in un meraviglioso concerto. L’odore delle calendole brune e rosse soprattutto produce un effetto magico su di me. Mi fa cadere in una profonda fantasticheria, e sento allora come in lontananza i suoni gravi e profondi dell’oboe»7. Ci si chiede spesso se lo stesso uomo possa essere a un tempo grande colorista e grande disegnatore. Sí e no; vi sono diverse specie di disegni. La qualità di un disegnatore puro risiede soprattutto nella finezza, e la finezza esclude il tocco: ora vi sono tocchi felici, e il colorista che si propone di esprimere la natura mediante il colore perderebbe spesso di piú a sopprimere certi tocchi felici che a ricercare una maggiore austerità di disegno. Il colore non esclude di certo il grande disegno, quello del Veronese, per fare un esempio, che lavora soprattutto sull’insieme e le masse; bensì il disegno del particolare, il contorno del frammento, ove il tocco assorbirà sempre la linea.

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L’amore della luce e dell’aria, la scelta dei soggetti in movimento, esigono l’uso di linee fluttuanti e sfumate. I disegnatori esclusivi agiscono secondo un procedimento inverso e tuttavia analogo. Intenti a seguire e a cogliere la linea nelle sue ondulazioni più recondite, non hanno il tempo di vedere l’aria e la luce, ossia i loro effetti, e si sforzano addirittura di non vederli, per non intaccare il principio della loro scuola. Si può perciò essere a un tempo coloristi e disegnatori, ma in un certo senso. Al modo che un disegnatore può essere colorista con le grandi masse, cosí un colorista può essere disegnatore con una logica piena dell’insieme delle linee; senonché una di queste qualità assorbe sempre il tratto particolare dell’altra. I coloristi disegnano come la natura; le loro figure sono naturalmente definite dal contrasto armonioso delle masse colorate. I disegnatori puri sono filosofi ed estrattori di quintessenze. I coloristi sono poeti epici.

iv Eugène Delacroix Il romanticismo e il colore mi portano direttamente a Eugène Delacroix. Non so se egli vada fiero della propria qualità di romantico; ma qui è il suo posto, perché la maggioranza del pubblico da tempo, e anzi fin dalla sua prima opera, lo ha posto a capo della scuola moderna. Nell’entrare in questo capitolo, il cuore mi si empie di una gioia serena, e scelgo di proposito le penne piú nuove, tanto voglio esser chiaro e limpido, e cosí grande è il piacere di affrontare l’argomento che mi è piú

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caro e congeniale. E per far comprendere appieno le conclusioni di queste mie pagine, bisogna che risalga per un qualche tratto indietro nella storia dei nostri tempi, e ripresenti al pubblico alcuni protocolli del processo, già addotti dai critici e dagli storici che mi hanno preceduto, ma tuttavia necessari all’insieme del mio assunto. Del resto, i veri appassionati di Eugène Delacroix non si negheranno un intenso piacere a rileggere un articolo del «Constitutionnel» del 1822, estratto dal Salon del Thiers giornalista. Nessun quadro, a mio avviso, rivela l’avvenire di un grande pittore, piú di quello di Delacroix che raffigura Dante et Virgile aux enfers [Dante e Virgilio all’inferno]. Qui soprattutto può cogliersi l’erompere del talento, quello slancio della superiorità nascente che rianima le speranze alquanto mortificate dal merito troppo modesto di tutta la mostra. Dante e Virgilio, guidati da Caronte, attraversano il fiume infernale e fendono a fatica la calca che si pigia attorno alla barca per salirvi sopra. Dante, come essere ancora vivente, ha l’incarnato orrido dei luoghi; Virgilio, con una corona di un cupo alloro, ha i colori della morte. Gli sciagurati, dannati in eterno a desiderare l’opposta riva, si aggrappano alla barca: uno l’afferra invano, e, rovesciato dal movimento troppo impetuoso, viene ricacciato nelle acque; un altro vi si allaccia e respinge coi piedi quanti vogliono issarsi come lui; altri due stringono coi denti il legno che gli sfugge. È l’egoismo dell’angoscia, la disperazione dell’inferno. In un soggetto che sfiora l’iperbole, si riscontra tuttavia una severità di gusto, una pertinenza del luogo, in certo senso, che fa risaltare il disegno, a cui giudici severi, ma poco sagaci in questo caso, potrebbero rimproverare un difetto di nobiltà. La pennellata è larga e ferma, il colore semplice e vigoroso, sebbene alquanto crudo.

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L’autore, oltre all’immaginazione poetica che è comune tanto al pittore quanto al poeta, possiede l’immaginazione dell’arte, che si potrebbe chiamare in qualche modo l’immaginazione del disegno, e che è del tutto diversa dall’altra. L’artista sbozza le figure, le raggruppa e le piega a suo volere con l’ardimento di Michelangelo e la fecondità di Rubens. Davanti a questo quadro mi prende non so quale ricordo dei grandi maestri; vi ritrovo quella potenza selvaggia, ardente, ma naturale, che cede senza sforzo al proprio impulso. ............................. ......... Non credo di ingannarmi, Delacroix ha il dono del genio; proceda dunque sicuro, si dia alle opere grandi; come è condizione indispensabile del talento; e a dargli ancora piú fede, ricordo che l’opinione che qui esprimo su di lui è il giudizio di uno tra i grandi maestri della sua scuola. A. T... RS

Queste parole cosí piene di entusiasmo stupiscono davvero non meno per la loro anticipazione che per l’arditezza. Se il redattore-capo del giornale, com’è da supporre, aveva qualche pretesa d’intendersi di pittura, il giovane Thiers dovette sembrargli quasi matto. Per farsi un’idea pertinente del turbamento profondo in cui il quadro di Dante et Virgile dovette gettare allora gli animi, un’idea dello stupore, dello sbalordimento, delle ire, degli applausi, delle ingiurie, dell’entusiasmo e dei cachinni insolenti che circondarono l’opera stupenda, autentico segnale di una rivoluzione, va ricordato che nello studio di Guérin, uomo di grande merito, ma dispotico ed esclusivo come David, suo maestro, c’era solo un ridotto manipolo di paria che pensavano ai vecchi maestri messi in disparte e timidamente si azzardavano a cospirare all’ombra di Raffaello e di Michelangelo. Non si parlava ancora di Rubens.

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Guérin, rude e severo verso il giovane allievo, Guérin vide il quadro solo per il rumore che si era creato intorno. Géricault, reduce dall’Italia, dove, si dice, dinanzi ai grandi affreschi romani e fiorentini aveva rinunciato a molte sue qualità poco meno che originali, si complimentò cosí vivamente col nuovo pittore, che questi, nella sua timidezza, ne rimase quasi confuso. Proprio di fronte a questo dipinto, o poco più tardi, dinanzi ai Pestiférés de Scio [Gli Appestati di Scio]8, accadeva poi a Gérard, che, a quanto sembra, era più uomo d’ingegno che pittore, di esclamare: «Ci è stato rivelato un uomo, ma è un uomo che corre sopra i tetti!» – Ma per correre sopra i tetti, bisogna avere il piede sicuro e l’occhio illuminato da una luce interiore. Siano rese gloria e giustizia a Thiers e a Gérard! Dal quadro di Dante et Virgile alle pitture della Camera dei pari e dei deputati, corre certo un lungo lasso di tempo; ma la biografia di Eugène Delacroix è povera di eventi esterni. Per un uomo della sua tempra, con un coraggio e una passione cosí grandi, i conflitti più interessanti sono quelli che deve sostenere con se stesso; non occorrono i grandi orizzonti perché le battaglie siano importanti; le rivoluzioni e gli eventi piú sorprendenti hanno luogo sotto la volta del cranio, nel laboratorio angusto e misterioso del cervello. Mentre, dunque, l’artista si era rivelato come si conviene e si rivelava progressivamente (quadro allegorico della Grece [La Grecia], il Sardanapale [Sardanapalo], La Liberte [La Libertà], ecc.), il contagio del nuovo vangelo che si diffondeva sempre piú, lo sdegno accademico si vide costretto a propria volta a fare i conti col nuovo genio. Sosthènes de La Rochefoucauld, allora direttore delle belle arti, mandò un giorno a chiamare E. Delacroix, e gli disse, dopo vari complimenti, che era doloroso che un uomo di cosí ricca immaginazione e di

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cosí bell’ingegno, e cosí benvoluto poi dal governo, non volesse versare un po’ d’acqua nel suo vino; chiedendogli in definitiva se non gli fosse possibile mutare la propria maniera. Estremamente stupito da una proposta cosí bizzarra e da quei consigli ministeriali, Eugène Delacroix rispose con un furore quasi comico che evidentemente se dipingeva cosí, era solo perché doveva farlo e non poteva dipingere in altro modo. E cosí cadde in completa disgrazia, e per sette anni fu escluso da qualsiasi genere di lavori. Bisognava aspettare il 183o, quando Thiers scrisse su «Le Globe» un secondo solenne articolo. Un viaggio in Marocco gli lasciò nell’animo, a quanto pare, un’impressione profonda; qui poté a suo agio studiare l’uomo e la donna nell’autonomia e nell’originalità nativa dei loro atti, e comprendere la bellezza antica attraverso le fattezze di una stirpe scevra da ogni incrocio e fiorente della propria salute e del libero, atletico sviluppo del proprio corpo. Risalgono probabilmente a quell’epoca la composizione delle Femmes d’Alger [Donne di Algeri] e una ricca serie di abbozzi. Fin ad oggi si è stati ingiusti verso Eugène Delacroix. La critica è stata con lui amara e ottusa; se si tolgono alcune nobili eccezioni, persino la lode dovette spesso sembrargli ingiuriosa. In generale, e per la maggior parte delle persone, fare il nome di Eugène Delacroix, è come introdurre nel loro animo non so quali idee vaghe di foga incontrollata, di turbolenza, d’ispirazione avventurosa, se non di disordine; e per tutti costoro che costituiscono il grosso del pubblico, il caso, onesto e compiacente servitore del genio, ha una gran parte nelle sue composizioni piú felici. Nel tempo doloroso di rivoluzione cui mi riferivo poc’anzi, e di cui ho registrato le molte sciocchezze, Eugène Delacroix è stato spesso paragonato a Victor Hugo. C’era il poeta romantico, ci voleva il pittore. Questo bisogno di trovare ad ogni costo

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corrispondenze e analogie nelle varie arti porta spesso a strani abbagli, e dimostra inoltre, per giunta, come si capisse poco. C’è da scommettere che il paragone suonasse spiacevole a Eugène Delacroix, e forse anzi a tutti e due gli interessati; che se la mia definizione del romanticismo (interiorità, spiritualità, ecc.) pone Delacroix alla testa del movimento romantico, ne esclude per forza Victor Hugo. E parallelo è rimasto nel campo banale delle idee convenzionali, e questi due pregiudizi hanno ancora un grosso peso nelle menti non abbastanza forti. Bisogna farla finita una volta per tutte con queste insulsaggini da retore. Invito tutti coloro che hanno sentito il bisogno di crearsi una certa estetica, e dedurre le cause dagli effetti, di confrontare con qualche attenzione le opere dei due artisti. Victor Hugo, di cui non voglio certo diminuire la nobiltà e la maestà, è un artefice molto piú abile che inventivo, meno un creatore che un mestierante di gusto sicuro. Delacroix talvolta non è elegante, ma è essenzialmente un creatore. Victor Hugo lascia intravvedere in tutti i suoi quadri, lirici e drammatici, un sistema di giustapposizione e di contrasti uniformi. Anche l’eccentricità assume in lui forme simmetriche. Egli possiede a fondo e usa freddamente tutti i toni della rima, le risorse dell’antitesi, i trucchi dell’apposizione. È un compositore di decadenza o di transizione che si serve dei propri strumenti con una destrezza davvero mirabile e sorprendente. Prima ancora di nascere, Hugo era già accademico, e se fossimo ancora al tempo delle fiabe e dei miracoli, sarei prontissimo a credere che i verdi leoni dell’Institut, allorché il poeta passava davanti al santuario, corrucciato, gli abbiano piú volte sussurrato con voce profetica: «Tu sarai all’Accademia!» Per Delacroix, la giustizia e più tardiva. Ma, di contro, le sue opere sono poemi, e grandi poemi di una concezione ingenua9, eseguiti con l’insolenza consueta del

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genio. – Nei poemi dello scrittore, non v’è nulla da immaginare; egli prova un tale piacere nel fare mostra della propria destrezza, che non trascura un filo d’erba né un riflesso di riverbero. – Il pittore apre con i suoi, corsi sterminati all’immaginazione piú vogliosa di viaggiare. – Il primo gode di una certa tranquillità, o per dir meglio, di un certo egoismo di spettatore, che distende su tutta la sua poesia non so che freddezza e moderazione, – che la passione tenace e irosa del secondo, alle prese con i giochi pazienti del mestiere, non sempre consente a quest’ultimo di mantenere. – L’uno incomincia dal dettaglio, l’altro dall’intelligenza interna del soggetto; e di qui deriva che lo scrittore arriva solo alla pelle, mentre il pittore ne strappa le viscere. Troppo concreto, troppo attento alle superfici della natura, Victor Hugo è diventato un pittore in poesia; ma Delacroix, rispettoso sempre del proprio ideale, è spesso, senza saperlo, un poeta in pittura. Quanto al secondo pregiudizio, quello del caso, esso ha lo stesso valore del primo. – Nulla è più scorretto e piú grossolano che parlare a un grande artista, dotto e meditativo come Delacroix, degli obblighi che può avere verso il dio del caso. Viene solo da alzar le spalle di compassione. Non meno che nella meccanica, non esiste nell’arte il caso. Una cosa felicemente trovata è la mera conseguenza di un buon ragionamento, di cui talvolta si sono saltate le deduzioni intermedie, cosí come un errore è la conseguenza di un falso principio. Un quadro è una macchina in cui tutti gli ingranaggi sono intellegibili a un occhio esercitato; dove tutto ha la sua ragione d’essere, se il quadro è un vero quadro; dove un tono è sempre chiamato a fame risaltare un altro; dove un errore occasionale di disegno è talora necessario per non sacrificare qualcosa di piú importante. L’intervento del caso nei fatti pittorici di Delacroix è tanto più inverosimile in quanto egli è uno di quegli

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uomini rari che restano originali dopo avere attinto a tutte le vere sorgenti, e la cui indomabile individualità è passata sotto il giogo alterno, sempre poi rimosso, di tutti i grandi maestri. – Più d’uno proverebbe un certo stupore nel vedere un suo studio da Raffaello, che è un capolavoro paziente e laborioso di imitazione, e pochi ricordano oggi alcune litografie ricavate da medaglie e da pietre incise. Ma ecco un frammento di Heinrich Heine che illumina convenientemente il metodo di Delacroix, un metodo che, come accade a tutti gli uomini di robusta struttura, è il risultato del suo temperamento: «In materia d’arte, io sono sopranaturalista. Credo che l’artista non possa trovare in natura tutti i propri archetipi, ma che i piú notabili gli siano rivelati nella sua anima, al pari della simbolica innata delle idee innate, e tutto questo nel medesimo istante. Un moderno professore di estetica, autore di alcune Ricerche sull’Italia, ha voluto riprendere il vecchio principio dell’imitazione della natura, e sostenere che l’artista plastico deve trovare nella natura tutti i suoi modelli. Questo professore, esibendo cosí il suo principio supremo delle arti plastiche, aveva solo dimenticato una di quelle arti, una tra le piú primitive, intendo dire l’architettura, della quale si è cercato di ritrovare a posteriori i modelli nel fogliame delle foreste, nelle grotte delle scogliere: tali modelli non erano nella natura esterna, bensí nell’anima umana». Delacroix parte dunque dal principio che un quadro deve innanzitutto riprodurre il pensiero intimo dell’artista, il quale domina il modello, cosí come il creatore la creazione; e da questo principio ne nasce un secondo che a prima vista sembra contraddirlo, – cioè, che occorre portare la massima attenzione ai mezzi materiali di esecuzione. – Egli professa un fanatico rispetto per la proprietà degli strumenti e la preparazione dei materiali dell’opera. – In effetti, siccome la pittura è un’arte di argo-

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mentare profonda e tale da richiedere il concorso immediato di un vasto complesso di qualità, importa che la mano, quando si mette all’opera, incontri il minor numero possibile di ostacoli, ed esegua con una docile rapidità gli ordini divini del cervello: altrimenti l’ideale dilegua. Quanto è lenta, severa, coscienziosa la concezione del grande artista, tanto è rapida la sua esecuzione. Del resto, questa è una qualità che egli condivide con Ingres, che per l’opinione pubblica rappresenta il suo antipodo. Sgravarsi non è partorire, e questi grandi signori della pittura, con tutta la loro apparente indolenza, dispiegano un’agilità stupefacente nel ricoprire una tela. Il Saint Symphorien [San Sinforio] è stato rifatto completamente varie volte, e in origine conteneva molto meno figure. Per E. Delacroix, la natura è un vasto dizionario di cui egli sfoglia e consulta le pagine con occhio sicuro e profondo; e la sua pittura, che procede soprattutto dal ricordo, parla soprattutto al ricordo. L’effetto prodotto sull’animo dello spettatore è simile ai mezzi dell’artista. Un quadro di Delacroix, Dante et Virgile, a esempio, lascia sempre un’impressione profonda, la cui intensità cresce con la distanza. Sacrificando di continuo il particolare all’insieme, e temendo di diminuire la vitalità del pensiero con la fatica di un’esecuzione piú netta e calligrafica, egli ricorre largamente a un’inarrivabile originalità, che è l’interiorità del soggetto. L’uso di una dominante è possibile in linea di principio solo a scapito del resto. Un gusto iperbolico vuole sacrifici, e i capolavori non sono altro che estratti diversi della natura. Ecco allora perché bisogna subire le conseguenze di una grande passione, qualunque essa sia, e accettare la fatalità di un talento, e non commerciare col genio. Ma di questo non si sono per nulla resi conto quelli che hanno tanto preso in giro il disegno di Delacroix; in particolare gli scultori, individui parziali e miopi oltre ogni limite, il cui giudizio vale tutt’al piú

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metà di un giudizio di architetto. – La scultura, a cui il colore non è consentito e il movimento risulta difficile, non ha nulla da spartire con un artista a cui interessa soprattutto il movimento, il colore e l’atmosfera. Questi tre elementi richiedono di necessità un contorno appena indeciso, linee leggere e fluttuanti, e l’audacia del tocco. – Delacroix è il solo al giorno d’oggi la cui originalità non sia stata sopraffatta dal sistema delle linee rette; i suoi personaggi sono sempre mossi, e i suoi panneggi impennanti. Dal punto di vista di Delacroix, la linea non esiste; poiché, per quanto sottile essa sia, un geometra rigoroso può sempre supporla abbastanza spessa da contenerne infinite altre; e per i coloristi, che vogliono imitare i palpiti eterni della natura, le linee non sono altro, come nell’arcobaleno, se non l’intima fusione di due colori. D’altronde esistono diversi disegni, come esistono diversi colori: – esatti o spenti, fisionomici e immaginati. Il primo è negativo, scorretto a forza di realtà, naturale, ma stravagante; il secondo è un disegno naturalistico, e però idealizzato, di un genio che sa scegliere, comporre, correggere, intuire e assaporare la natura; il terzo infine, il più nobile e singolare, può mettere da parte la natura, perché ne rappresenta un’altra, in tutto simile allo spirito e al temperamento dell’autore. Il disegno fisionomico è dato in genere agli appassionati, come Ingres; il disegno creativo è invece il privilegio del genio10. La grande qualità del disegno degli artisti sommi è la verità del movimento, e Delacroix non trasgredisce mai questa legge di natura. Ma veniamo all’esame di qualità ancora più generali. – Fra i caratteri principali del grande pittore vi è quello dell’universalità, per cui il poeta epico, Omero o Dante, compone altrettanto bene un idillio, un racconto, un discorso, una descrizione, un’ode, ecc.

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Allo stesso modo, Rubens, nel dipingere dei frutti, li deve raffigurare piú belli di qualsiasi altro specialista. E. Delacroix è universale; ci ha dato quadri di genere pervasi di interiorità, scene storiche piene di grandezza. Forse solo lui, nel nostro secolo di poca fede, ha concepito quadri religiosi che non fossero né vuoti né freddi come certe opere da concorso, né pedanteschi, mistici o neocristiani, come quelli di tutti i filosofi dell’arte che fanno adesso della religione una scienza dell’arcaico, e credono necessario possedere innanzitutto la simbolica e le tradizioni primitive per muovere ancora e far vibrare la corda religiosa. La cosa si comprende facilmente, se si tiene presente che, come tutti i grandi maestri, Delacroix è un meraviglioso incrocio di scienza, – ossia un pittore completo, – e di ingenuità, che significa a sua volta un uomo completo. Si veda a Saint-Louis nel Marais la Pietà, in cui la regina maestosa dei dolori tiene sulle ginocchia il corpo del figlio morto, le braccia tese orizzontalmente in un impeto di disperazione, in una crisi di pianto materna. Una delle due figure che soccorre e lenisce il suo dolore è in lacrime come i personaggi piú desolati dell’Hamlet [Amleto] con cui, del resto, la nostra Pietà ha più di una somiglianza. – Delle due sante donne, la prima si storce convulsa al suolo, ancora ricoperta dei gioielli e dei simboli dello sfarzo; mentre l’altra, bionda e dorata, si accascia piú mollemente sotto il peso enorme della propria disperazione. Il gruppo è tutto scaglionato e disposto su uno sfondo di un verde cupo e uniforme, che somiglia a una massa di scogliere quanto a un mare sconvolto dalla tempesta. Lo sfondo è di una semplicità favolosa, E. Delacroix, proprio come Michelangelo, ha soppresso l’accessorio per non offuscare la chiarezza della sua idea originaria. È un’opera suprema che lascia nello spirito un solco profondo di malinconia. – Ma non era poi la

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prima volta che il nostro pittore affrontava i soggetti religiosi. Il Christ aux Oliviers [Cristo nell’Oliveto] e il Saint Sebastien [San Sebastiano], avevano già dato una prova della gravità e dell’intima sincerità di cui riesce a suggellarli. Ora però, per chiarire la mia posizione di poc’anzi – secondo cui Delacroix è il solo capace di darci una pittura religiosa, – farò notare all’osservatore che, se i suoi quadri piú interessanti sono quasi sempre quelli di cui sceglie i soggetti, cioè i quadri di fantasia, – nondimeno la severa tristezza del suo talento si addice perfettamente alla nostra religione, che è religione profondamente triste, religione del dolore universale, e che, in forza della sua stessa cattolicità, lascia piena libertà all’individuo e non domanda altro che essere celebrata nel linguaggio di ognuno, – se questi conosce la sofferenza ed e pittore. Ricordo che uno dei miei amici, giovane peraltro di merito, e colorista già affermato, – uno di quegli adolescenti precoci che sono di belle speranze per tutta la loro vita, assai più accademico di quanto lui stesso non supponga, – definiva questa pittura: una pittura da cannibale! Si può star certi che il nostro giovane amico non riuscirà a trovare nelle curiosità di una tavolozza sovraccarica, o nel dizionario delle regole, quella cruenta e selvaggia desolazione, appena mitigata dal verde cupo della speranza! Questo inno terribile al dolore produceva sulla sua immaginazione di classico l’effetto dei vini traditori dell’Angiò, dell’Alvernia o del Reno, in uno stomaco avvezzo alle pallide violette del Médoc. Cosí, da una universalità di sentimento a una universalità di scienza! Da parecchio tempo i pittori avevano, per cosí dire, disimparato il genere detto decorativo. L’emiciclo delle

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Belle Arti11 è un’opera puerile e impacciata, ove le intenzioni si contraddicono, e simile a una collezione di ritratti storici. Il Plafond d’Homère [Soffitto di Omero]12 è un bel quadro che fa da cattivo soffitto. Le cappelle eseguite negli ultimi anni, e assegnate agli allievi di Ingres, sono realizzate per la maggioranza nel sistema dei primitivi italiani, nel senso che mirano all’unità sopprimendo gli effetti luminosi, e mediante un complesso sistema di tenui velature cromatiche. Un tale sistema, senza dubbio piú logico, evita le difficoltà. Sotto Luigi XIV, Luigi XV e Luigi XVI, i pittori eseguirono decorazioni di grande parata, ma povere di unità nel colore e nella composizione. E. Delacroix ebbe l’incarico di alcune decorazioni, e risolse il grande problema. Scoprí l’unità nella figurazione senza recare pregiudizio al suo mestiere di colorista. La Camera dei deputati sta ad attestare questo straordinario esercizio di alta scuola. La luce, sobriamente distribuita, circola attraverso tutte le figure, ma non coinvolge l’occhio con prepotenza tirannica. Il soffitto circolare della biblioteca del Luxembourg è un’opera ancora più stupefacente, in cui il pittore giunge, – non solo a un effetto ancora più tenero e piú fuso, senza nulla sacrificare delle qualità di colore e di luce, che contraddistinguono tutti i suoi quadri, – ma si rivela inoltre sotto un aspetto del tutto nuovo: Delacroix paesaggista! Anziché dipingere Apollo e le Muse, costante decorativa di tutte le biblioteche, E. Delacroix ha ceduto al suo amore incontenibile per Dante, a cui forse sta alla pari per lui solo Shakespeare, e ha scelto il passo in cui Dante e Virgilio incontrano in un luogo misterioso i piú grandi poeti dell’antichità: «Non lasciavam d’andare, mentre diceva, ma passavamo la selva tuttavia, la selva, dico, di spiriti spessa.

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Non eravamo molto lontani dall’entrata dell’abisso, quando vidi un fuoco che un emisfero di tenebre trapassava. Pochi passi ancora ci separavano, ma già potevo discernere che spiriti illustri abitavano quel luogo. «– Oh tu, che onori ogni scienza ed arte, questi chi sono a cui fanno tanto onore da separarli dalla sorte degli altri? «E quegli mi rispose: – La bella fama che di loro suona lassù nella tua vita, grazia acquista nel cielo, che li distingue dagli altri. «Intanto una voce fu da me udita: “Onorate l’altissimo poeta; l’ombra sua torna, che era partita”. «La voce tacque, ed io vidi venire a noi quattro grandi ombre; che sembianza avevano né triste né lieta. «Il buon maestro cominciò a dire: – Guarda colui che viene, con la spada in mano, dinanzi ai tre, sì come sire: quegli è Omero, poeta sovrano; l’altro che lo segue è Orazio satirico, Ovidio è il terzo, e l’ultimo è Lucano. Poiché ciascuno di loro divide con me il nome che ha fatto risuonare la voce umana, essi mi fanno onore e, di ciò, fanno bene. «Cosí vidi adunar la bella scuola di quel signore dell’altissimo canto che sopra gli altri come aquila vola. Da che ebbero ragionato insieme alquanto, si volsero a me con salutevol cenno, e il mio maestro sorrise di questo. E mi fecero ancora più onore, poiché mi accolsero nella loro schiera; sí che io fui sesto fra tanto senno13 . . . . . ....................................... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .» Non intendo fare a E. Delacroix il torto di un elogio eccessivo avendo egli superato cosí perfettamente la concavità della tela da costruirvi figure ortogonali. Il suo talento è al di sopra di cose del genere. Ciò che m’interessa soprattutto è lo spirito della sua pittura. È impossibile esprimere in prosa tutta la felice pacatezza che vi alita, e l’armonia profonda che fluisce in questa atmo-

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sfera. Si pensa alle pagine più rigogliose del Telémaque, e tornano alla mente tutti i ricordi che lo spirito si porta con se dai racconti edenici. Il paesaggio, che pure è soltanto un accessorio, costituisce, dal punto di vista che assumevo poc’anzi, – l’universalità dei grandi maestri, – una delle cose più rilevanti. E questo paesaggio circolare, che abbraccia un cosí vasto spazio, è dipinto con la fermezza di un pittore di scene storiche, e con la finezza e l’amore di un paesaggista. Boschetti di lauro, corposi fogliami lo dividono armoniosamente; lembi di sole dolce e uniforme si posano sui prati; montagne azzurre o coronate di boschi tracciano un orizzonte a fantasia per il piacere degli occhi. Il cielo, poi, è azzurro e bianco, come è raro in Delacroix; le nuvole, stemperate e tratte in diverse direzioni come una garza che si strappa, riescono di una levità somma; e la volta dell’azzurro, profonda e colma di luce, si allontana a una prodigiosa altezza. Gli acquerelli di Bonington sono meno trasparenti. Penso che questo suo capolavoro supera i piú bei Veronese, ma che per essere compreso, richieda una grande tranquillità d’animo e una luce dolcissima. Disgraziatamente, il lume sfolgorante che piomberà dal finestrone della facciata, non appena sarà liberata dai teloni e dalle impalcature, ne renderà la lettura piú difficile. Quest’anno i quadri di Delacroix sono l’Enlevement de Rèbecca [Ratto di Rebecca], dall’Ivanhoe, gli Adieux de Romeo et Juliette [Addii di Romeo e Giulietta], Marguerite à l’église [Margherita in chiesa] e Un lion [Un leone], all’acquerello. Suscita stupore nell’Enlèvement de Rèbecca, una perfetta partitura dei toni, intensi, fitti, serrati e coerenti, che dànno luogo a una figurazione penetrante. In quasi tutti i pittori non coloristi, si avvertono immancabilmente dei vuoti, come dire delle grandi lacune prodot-

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te da toni fuori registro, per cosí dire; ma la pittura di Delacroix è come la natura, ha orrore del vuoto. Roméo et Juliette, – sul balcone, – nelle chiarità fredde del mattino, si tengono religiosamente abbracciati alla vita. Nella stretta violenta dell’addio, Giulietta, mentre le sue mani si posano sulle spalle dell’amato, getta indietro la testa, quasi per respirare o per un moto di orgoglio e di passione gioiosa. La posizione inconsueta, – giacché quasi tutti i pittori incollano le bocche degli amanti l’una contro l’altra, – è nondimeno estremamente naturale; – la torsione vigorosa della nuca è tipica dei cani e dei gatti beati di ricevere una carezza. – I vapori violacei del crepuscolo avvolgono la scena e il paesaggio romantico che la suggella. L’unanime successo che il quadro riscuote e la curiosità che suscita provano perfettamente quanto mi è già occorso di dire – che Delacroix è popolare, qualunque cosa ne dicano i pittori, e basta non tenere lontano il pubblico dalle sue opere perché gli arrida una popolarità pari a quella dei pittori che non sono alla sua altezza. Marguerite a l’église rientra in quel gruppo già numeroso di deliziosi quadri di genere, coi quali Delacroix sembra voler spiegare al pubblico le sue litografie, accolte con critiche cosí aspre. Il leone all’acquerello ha ai miei occhi una grande virtú, che si aggiunge alla bellezza del disegno e dell’atteggiamento: quella di essere eseguito con grande semplicità. L’acquerello è ricondotto al suo ruolo modesto, e non pretende di avere la dimensione di un olio. Per concludere la mia analisi, mi resta solo da rilevare un’ultima qualità, quella di maggiore spicco, che fa di Delacroix il vero pittore del xix secolo: una malinconia unica e pertinace che esala da ogni sua opera, e si esprime con la scelta dei soggetti, con l’espressione delle figure, col gesto, e con lo stile del colore. Delacroix predilige Dante e Shakespeare, due altri grandi pittori del

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dolore umano; li conosce a fondo, e sa tradurli con libera intelligenza. Quando si guarda la serie dei suoi quadri, sembra di assistere, si direbbe, alla celebrazione di un mistero doloroso: Dante et Virgile, Le Massacre de Scio, il Sardanapale, il Christ aux Oliviers, il Saint Sébastien, la Médée [Medea], Les Naufrages [I Naufraghi], e l’Hamlet, che si è tanto deriso e cosí poco compreso. In molti di essi, per non so quale ripetersi del caso, vi è sempre una figura più desolata, piú affranta delle altre, nella quale si riassumono tutti i dolori che la circondano; cosí la donna inginocchiata, dai capelli disciolti, in primo piano nei Croises a Constantinople [Crociati a Costantinopoli]; la vecchia, triste e rugosa, nel Massacre de Scio. Una tale malinconia penetra sin nelle Femmes d’Alger, il quadro piú brillante e piú fiorito di Delacroix. Questo poemetto d’interno, pieno di quiete e di silenzio, saturo di preziose stoffe e di ninnoli da toeletta, esala non so che acre profumo di luogo equivoco che ci trasporta di colpo verso i limbi insondati della tristezza. In genere, l’artista non dipinge donne avvenenti, almeno secondo il giudizio del bel mondo. Quasi tutte sono malate, e si illuminano di una certa bellezza interiore. Delacroix non esprime la forza con l’ampiezza dei muscoli, ma con la tensione dei nervi. Ciò che gli riesce, si badi, di esprimere meglio non è soltanto il dolore, ma più ancora, – prodigioso mistero della sua pittura, – il dolore morale! Questa alta e severa malinconia rifulge di un cupo splendore, anche nel colore, che è largo, semplice, copioso nelle sue masse armoniche, al pari di quello di tutti i grandi coloristi, e però lugubre e profondo come una melodia di Weber. Gli antichi maestri hanno ciascuno il proprio dominio, il proprio feudo, – che spesso sono obbligati a condividere con illustri rivali. Raffaello possiede la forma, Rubens e il Veronese il colore Rubens e Michelangelo l’immaginazione del disegno. Restava ancora una parte

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del territorio, in cui solo Rembrandt aveva compiuto qualche incursione, – il dramma, – il dramma naturale e vivente, terribile e malinconico, espresso spesso dal colore, ma sempre dal gesto. In materia di gesti sublimi, Delacroix ha rivali solo al di fuori della propria arte. Non conosco altri che Frederick Lemaître e Macready14. Per tale qualità cosí interamente nuova e moderna, Delacroix è l’ultima espressione del progresso dell’arte. Erede della grande tradizione, voglio dire della magnificenza, della nobiltà e del fasto nella composizione, e degno successore dei vecchi maestri, egli ha piú di loro l’arte di manovrare il dolore, la passione, il gesto! E proprio questo dà spicco alla sua grandezza. – In effetti, supponendo che vada perduto il patrimonio di uno dei grandi antichi, si troverà quasi sempre un suo equivalente in grado di spiegarlo e farlo intuire al pensiero dello storico. Ma se si sopprime Delacroix, allora la grande catena della storia si spezza e rovina infranta a terra. In un articolo che arieggia più una profezia che non una critica, non serve a nulla individuare errori di dettaglio e mende microscopiche. L’insieme è cosí bello da togliermene l’ardire. E d’altronde è una cosa cosí facile, tanti altri hanno potuto farlo! – Non è piú nuovo fissare la gente dalla loro faccia positiva? I difetti di Delacroix sono a volte cosí appariscenti che anche l’occhio meno esercitato li scorge immediatamente. Basta aprire a caso il primo foglio che capita, dove per troppo tempo ci si è ostinati, al contrario di quanto propone il mio sistema, a non vedere le qualità radiose che fanno la sua originalità. È noto che i grandi geni non si sbagliano mai a metà, e hanno il privilegio dell’enorme in ogni senso. Fra gli allievi di Delacroix, alcuni si sono felicemente impadroniti di quanto si può captare del suo talento, cioè alcune parti del suo metodo, e si sono già fatti un

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qualche nome. Tuttavia, nel loro caso, il colore ha generalmente il torto di mirare solo al pittoresco e all’effetto; l’ideale non è affatto la loro partita, quantunque facciano di buon grado a meno della natura, senza averne acquisito il diritto attraverso gli studi arditissimi del maestro. Quest’anno si è notata l’assenza di Planet, la cui Sainte Therèse [Santa Teresa] aveva attirato l’attenzione degli studiosi all’ultimo Salon, – e di Riesener, che spesso ha fatto quadri di un colore spazioso, e di cui si possono ammirare con piacere alcuni soffitti alla Camera dei pari, nonostante la terribile vicinanza di Delacroix. Léger Chérelle ha mandato Le Martyre de sainte Irène [Il Martirio di sant’Irene]. Il quadro è composto di una sola figura e di una lancia dall’effetto piuttosto sgradevole. Peraltro, il colore e il modellato del torso sono complessivamente buoni. Ma ho l’impressione che Léger Chérelle abbia già mostrato al pubblico lo stesso quadro con lievi varianti. Colpisce ne La Mort de Cléopâtre [La Morte di Cleopatra] di Lassalle-Bordes, il fatto che non vi si trovi una preoccupazione esclusiva del colore, e probabilmente è un merito. I toni sono, per cosí dire, ambigui, di una cupezza non priva di fascino. Cleopatra spira sul trono, e l’inviato di Ottavio si china a guardarla. Una delle sue schiave e appena morta ai suoi piedi. La composizione non manca di maestà, la pittura è condotta con una probità in certa misura audace; la testa di Cleopatra ha una sua bellezza, e la tunica verde e rosa della negra contrasta felicemente con il colore della pelle. In questa grande tela portata a buon termine senza intento di imitazione, vi è senza dubbio qualcosa che piace e attrae lo sfaccendato contemplativo.

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v Dei soggetti amorosi e di Tassaert Vi è mai capitato, come a me, di cadere in profonde malinconie, dopo aver trascorso ore e ore a sfogliare delle stampe libertine? Vi siete mai chiesti il motivo del fascino che a volte si prova passando tra le mani questi annali della lussuria, sepolti nelle biblioteche o finiti nelle cartelle degli antiquari, e talvolta anche dello scontento che vi lasciano? Piacere misto a dolore, amarezza di cui le labbra sempre hanno sete! – Il piacere nasce dal vedere raffigurato, in tutte le sue forme il sentimento dominante della natura, – e la bile, dal trovarlo spesso cosí mal riprodotto o tanto stupidamente calunniato. Sia nelle interminabili sere d’inverno accanto al fuoco, sia negli ozi opprimenti della canicola, all’angolo dei negozi di vetraio, la vista di questi disegni mi ha sospinto sulla china immensa del fantasticare, quasi quanto un libro osceno ci precipita verso i mistici oceani dell’azzurro. Quante volte, davanti a quegli innumerevoli esemplari del sentimento che è di ognuno, mi sono sorpreso a desiderare che il poeta, il curioso, il filosofo, potessero procurarsi il godimento di un museo dell’amore, ove tutto trovasse il suo posto, dalla tenerezza senza oggetto di santa Teresa fino alle dissolutezze corpose dei secoli di tedio. Non vi ha dubbio che immensa è la distanza che separa Le Départ pour l’île de Cythère [La Partenza per l’isola di Citera]15 dalle povere oleografie appese nelle stanze delle prostitute, sopra un vaso incrinato e una mensola traballante; ma in un tema cosí importante nulla può essere trascurato. E per di più il genio santifica qualsiasi cosa, e se questi soggetti fossero trattati con la cura e la meditazione necessarie, non sarebbero punto lordati da quell’oscenità rivoltante, che piú ancora che una verità, è una millanteria.

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Non si spaventi troppo il moralista; saprò rispettare le giuste misure, e in fondo il mio sogno si limitava a desiderare questo poema immenso dell’amore disegnato dalle mani più pure, da Ingres, da Watteau, da Rubens, da Delacroix! Le principesse folli ed eleganti di Watteau, accanto alle Veneri composte e pacate di Ingres; gli splendenti candori di Rubens e di Jordaens, e le cupe bellezze di Delacroix, quali possiamo figurarcele: grandi donne pallide che affondano nel raso16! Ma per finire di rassicurare la pudicizia sgomenta del lettore, dirò che includerei tra i soggetti amorosi, non solo tutti i quadri che trattano in particolare l’amore, ma anche ogni quadro che spira un’aria d’amore, fosse pure un ritratto17. In questo sterminato museo, mi fingo la bellezza e l’amore di tutte le latitudini, raffigurati dai grandi maestri; dalle vaporose, stravaganti e fiabesche creature che ci ha lasciato Watteau figlio nelle incisioni di moda, sino alle Veneri di Rembrandt che si fanno fare le unghie, come semplici mortali, e pettinare con un gran pettine di bosso. I soggetti di questo genere sono cosí importanti, che non c’è artista, piccolo o grande, che non vi si sia cimentato, in segreto o in pubblico, da Giulio Romano sino a Devéria e Gavarni. Il loro vero difetto, in genere, è la mancanza di ingenuità e sincerità. Ricordo nondimeno una litografia che esprime, – purtroppo senza molta finezza, – una delle grandi verità dell’amore libertino. Un giovane travestito da donna e la sua amante in abiti maschili sono seduti l’uno accanto all’altra sopra un sofà, – il sofà che conoscete, il sofà delle camere ammobiliate e dei salotti riservati. La giovane donna vuole sollevare le sottane del compagno18. – Nel nostro museo ideale questa pagina di lussuria troverebbe compenso in tante altre dove

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l’amore non si mostrerebbe se non nel suo volto più delicato. Tali riflessioni mi sono tornate alla mente dinanzi a due quadri di Tassaert, Érigone [Erigone] e Le Marchand d’esclaves [Il Mercante di schiave]. Tassaert, di cui ho avuto la colpa di non parlare come si conviene l’anno scorso, è un pittore del massimo merito, il cui talento potrebbe dedicarsi con la più grande fortuna ai soggetti amorosi. Erigone è semiriversa su un poggio ombreggiato di viti, – in una posa provocante, una gamba quasi piegata, l’altra diritta e il corpo proteso in avanti; il disegno è fine, le linee sinuose e accordate in modo sapiente. Ma vorrei rimproverare a Tassaert, che è colorista, di avere dipinto il torso con un tono troppo uniforme. L’altro quadro raffigura un mercato di donne in attesa di essere vendute. Sono donne vere, donne della nostra civiltà, dai piedi arrossati per le calzature, un poco comuni, un poco troppo rosee, che un turco ottuso e sensuale si accinge a comprare quali bellezze superlative. Quella che si vede di dorso, le natiche avvolte in un velo trasparente, ha ancora sul capo un cappellino di modista, acquistato in Rue Vivienne o al Temple. La povera ragazza è stata sicuramente rapita dai pirati. Il colore del quadro s’impone per la finezza e la trasparenza dei toni. Si direbbe che Tassaert abbia voluto seguire la maniera di Delacroix; e nondimeno conserva alla fine un colore originale. Si tratta di un artista eminente che apprezzano solo gli eccentrici perdigiorno e che il pubblico non conosce abbastanza; il suo talento è andato sempre crescendo, e quando si pensa donde sia partito e dove sia arrivato, c’e ragione di aspettarsi da lui suggestive composizioni.

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vi Di alcuni coloristi Vi sono al Salon due curiosità di qualche rilievo: i ritratti di Petit Loup [Piccolo Lupo] e di Graisse du dos de buffle [Grasso di dorso di bufalo], dipinti da Catlin, la guida dei selvaggi. Quando Catlin sbarcò a Parigi, con i suoi uomini dello Iowa e il suo museo, si sparse la voce che fosse un brav’uomo che non sapeva né dipingere né disegnare, e che se aveva fatto qualche bozzetto passabile, lo doveva al suo coraggio e alla sua pazienza. Era astuzia innocente di Catlin o stupidità dei giornalisti? – È oggi accertato che Catlin sa dipingere e disegnare quanto mai bene. Basterebbero questi due ritratti a darmene la prova, se la memoria non mi facesse sovvenire di molti altri lavori altrettanto belli. Soprattutto mi avevano colpito i suoi cieli per la loro levità e la loro trasparenza. Catlin ha reso in modo supremo il carattere libero e fiero, l’espressione nobile di questa stirpe coraggiosa; la struttura delle teste è di un’intelligenza perfetta. Con le loro pose decorose e la scioltezza dei movimenti, questi selvaggi rendono comprensibile la scultura antica. E il colore ha qualcosa di misterioso che mi piace più di quanto non sappia dire. Il rosso, il colore che è del sangue, il colore della vita, bulicava a tal punto nel fosco museo di Catlin, da dare una vertigine di ebrezza; i paesaggi poi, – montagne boscose, immense savane, fiumi solitari, – erano di un verde monotono, eterno; il rosso, colore cosí scuro e così denso, più difficile da penetrare che gli occhi di un serpente, – il verde, colore pacato e gaio e ridente della natura, li ritrovo a cantare la loro antitesi melodica dritto sul volto dei due eroi. – Sta di fatto che i loro tatuaggi e le loro striature risultavano eseguite in modo conforme alle gamme naturali e armoniche.

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Credo che a indurre in errore il pubblico e i giornalisti nei riguardi di Catlin, sia il fatto che egli non ci dà una pittura fanfarona, quale quella a cui tutti i nostri giovani artisti li hanno cosí bene abituati che adesso risulta la pittura classica. Già l’anno scorso ho protestato contro l’unanime De profundis, contro la congiura degli ingrati, a proposito dei Devéria. E il nuovo anno mi ha dato ragione. Molte fame precoci che gli sono state sostituite non valgono ancora la loro. Achille Deveria soprattutto si è fatto notare al Salon del 1864 per un quadro, Le Repos de la sainte famille [Il Riposo della sacra famiglia], che non solo conserva tutta la grazia propria di questi ingegni affascinanti e fraterni, ma ricorda anche le severe virtú delle scuole di un tempo; – delle scuole di second’ordine forse, che non si affermano per l’appunto né per il disegno né per il colore, ma che l’intavolatura e la bella tradizione collocano tuttavia tanto al di sopra degli eccessi tipici delle epoche di transizione. Nella grande battaglia romantica, i Devéria militarono nel battaglione santo dei coloristi; perciò qui era il loro posto. – Va aggiunto che il quadro di Achille Devéria, la cui composizione è eccellente, colpisce poi lo spirito con un aspetto dolce e armonioso. Boissard, i cui esordi furono altrettanto brillanti e ricchi di promesse, è uno di quegli spiriti che eccellono e trovano nutrimento negli antichi maestri; la sua Madeleine au desert [Maddalena nel deserto] è un dipinto di robusto e buon colore, – fatta eccezione per i toni delle carni un poco tristi. L’atteggiarsi delle figure viene da un’invenzione felice. In questo Salon senza fine, dove più che mai scompaiono le differenze, e ognuno disegna e dipinge la sua parte, ma non abbastanza da meritare neppure d’essere classificato, – è una vera gioia incontrare un pittore schietto e autentico come Debon. Forse il suo Concert

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dans l’atelier [Concerto nello studio] è un quadro un po’ troppo artistico, in cui si sentono Valentin, Jordaens e altri ancora; ma perlomeno si tratta di bella e solida pittura, da indicare nell’autore un uomo interamente sicuro di sé. Duveau ha all’attivo Le Lendemain d’une tempête [Il Giorno dopo una tempesta]. Non so se egli possa diventare uno schietto colorista, ma alcune parti del quadro lo fanno sperare. – Al primo contatto, si cerca nella memoria quale possa essere la scena storica che vi è rappresentata. In effetti, solo gli Inglesi hanno il coraggio di dare proporzioni cosí vaste al quadro di genere. – D’altro canto, quello di Duveau è di bella partitura complessivamente. – Il tono un po’ troppo uniforme, che dapprincipio urta l’occhio, è senz’ombra di dubbio un effetto della natura, i cui aspetti appaiono tutti di una strana crudezza dopo il lavacro della pioggia. La Charité [La Carità] di Laemlein è una donna stupenda, che tiene per mano, e porta attaccati al seno, dei marmocchi di tutti i continenti, bianchi, gialli, neri, ecc... Certo Laemlein ha il senso del colore pieno; ma nel quadro vi è un grave difetto, in quanto il Cinesino è cosí grazioso, e la sua veste cosí piacevole alla vista da assorbire quasi esclusivamente l’occhio dello spettatore. Il piccolo mandarino continua a sgambettare nella memoria, ed è destinato a far dimenticare a parecchi tutto il resto. Decamps è di quegli artisti che da più anni hanno catturato dispoticamente la curiosità del pubblico, e nulla era piú legittimo. In possesso di una mirabile facoltà di analisi, egli giungeva spesso, per un felice concorso di piccoli mezzi, a risultati di un effetto potente. – Se evitava più del dovuto il particolare della linea, e si accontentava molte volte del movimento o del contorno generale, se talora il suo disegno rasentava il prezioso, – il gusto minuto

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della natura, studiata soprattutto nei suoi effetti luminosi, lo aveva sempre salvato e tenuto in una regione piú alta. Se Decamps non era propriamente un disegnatore, nel senso che in genere si dà al termine, tuttavia lo era alla sua maniera e in una forma particolare. Nessuno ha visto grandi figure che egli abbia disegnate; ma è certo che il disegno, cioè la geometria fluida dei suoi figurini, era accentuata e colta con un’arditezza e una felicità di forte evidenza. Il carattere e gli atti abituali dei corpi risultavano sempre visibili; poiché Decamps sa far capire un personaggio con alcuni tratti. I suoi schizzi erano divertenti e profondamente comici, disegno di un uomo di spirito, quasi di un caricaturista; possedeva infatti non so quale buon umore o fantasia beffarda, che si legava perfettamente alle ironie della natura: cosí i suoi personaggi erano sempre atteggiati, drappeggiati o vestiti secondo la verità e le convenienze e gli usi eterni del loro essere individuale. Solo che v’era nel suo disegno una certa immobilità, non spiacevole del resto e tale da completare il suo orientalismo. Di solito egli riprendeva i suoi modelli da fermi, e quando correvano, somigliavano spesso a ombre sospese o a sagome arrestate di colpo nella propria corsa; e correvano come in un bassorilievo. Ma il colore era la sua parte migliore, la sua grande e unica partita. Non vi è dubbio che Delacroix sia un grande colorista, ma senza accanimenti. Ha ben altri problemi, e cosí vuole la dimensione delle sue tele; per Decamps invece il colore era la cosa suprema, il suo pensiero favorito, per cosí dire. Il colore splendido e sfavillante aveva inoltre uno stile del tutto particolare. Era, per usare parole della sfera morale, sanguinario e mordente. I piatti piú appetitosi, le stramberie cucinate con il massimo di riflessione, i prodotti culinari più fortemente speziati avevano meno sugo e condimento, esalavano meno voluttà istintiva per l’odorato e le papil-

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le di un goloso, di quanto non facessero i quadri di Decamps per un amatore di pittura. La stranezza del loro aspetto bloccava e incatenava ispirando un’invincibile curiosità. Forse dipendeva dai procedimenti singolari e minuziosi di cui si serve spesso l’artista, il quale strologa, si dice, la sua pittura con la volontà instancabile di un alchimista. L’impressione che si produceva quindi sull’animo dello spettatore era cosí improvvisa e nuova, che riusciva difficile immaginare da chi quella pittura fosse nata, chi avesse tenuto a battesimo un artista cosí unico, e da quale bottega fosse venuto fuori il suo talento inedito e solitario. – Si può star certi che di qui a cento anni, gli storici avranno il loro da fare a risalire al maestro di Decamps. – Egli muoveva in alcuni casi dai vecchi maestri piú intrepidamente coloristi della scuola fiamminga; ma aveva piú stile di loro e ordinava le figure con maggiore armonia; in altri casi, il suo pensiero fisso erano il fasto e la volgarità di Rembrandt; e in altri ancora, si riscopriva nei suoi cieli un ricordo amoroso di quelli del Lorrain. Decamps, infatti, era pure un paesaggista, e paesaggista di grandissimo valore: i suoi paesaggi e le sue figure formavano sempre un’unità e si sostenevano a vicenda. I paesaggi non contavano piú delle figure, e nulla riusciva accessorio, tanto ogni parte della tela era elaborata con attenzione e ogni particolare chiamato a concorrere all’effetto dell’insieme! – Niente era inutile, né il topo che attraversa a nuoto una vasca in non ricordo quale quadro di soggetto turco, indolente e pieno di fatalismo, né gli uccelli rapaci che si librano sullo sfondo di quel capolavoro che è Le Supplice des crochets [Il Supplizio dei ganci]. Il sole e la luce avevano allora una notevole parte nella pittura di Decamps. Nessuno come lui studiava con pari cura gli effetti dell’atmosfera. Amava sopra ogni cosa i giochi piú bizzarri e più inverosimili dell’ombra e della luce. In un quadro di Decamps, il sole bruciava sul

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serio i muri bianchi e le sabbie gessose, e tutti gli oggetti colorati possedevano una trasparenza viva e raggiante. Le acque erano di una profondità indicibile; le grandi ombre che tagliano gli angoli delle case e dormono stese sul suolo o sull’acqua avevano un’indolenza e un’accidia di ombre indefinite. Nell’incanto di questa natura sorprendente si agitava o sognava una povera umanità, tutto un piccolo mondo con il suo vero, nativo e comico. I quadri di Decamps erano dunque pervasi di poesia e spesso d’immaginazione sognante; ma quello che altri, come Delacroix, avrebbero concepito con un grande disegno, con la scelta di un modello originale o un colore largo e fluente, Decamps lo otteneva con la forza intima del particolare. Il solo appunto, in effetti, che gli si poteva muovere, era di studiare troppo l’esecuzione materiale degli oggetti; le sue case erano proprio di gesso, legno, come i suoi muri di vera malta di calce; e dinanzi a questi capolavori si restava spesso rattristati nell’animo all’idea dolorosa del tempo e della fatica che avevano richiesti. Quanto sarebbero stati più belli se eseguiti con un’altra semplicità! L’anno scorso, quando Decamps, munito d’una matita, scese in gara con Raffaello e Poussin, – gli sfaccendati entusiasti del piano e dell’alpe, quelli che hanno un cuore grande come il mondo, ma non vogliono appendere le zucche ai rami delle querce, gli sfaccendati che avevano tutti una passione per Decamps come uno degli esseri piú singolari della creazione, si sono detti: «Se Raffaello toglie il sonno a Decamps, addio ai nostri Decamps! Chi li farà d’ora in poi? – Ahime! Guignet e Chacaton». Eppure Decamps è ricomparso quest’anno con figurazioni di ambiente turco, paesaggi, quadri di genere e un Effet de pluie [Effetto di pioggia]; ma bisognava proprio cercarli: non saltavano piú agli occhi.

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Decamps, il quale sa cosí ben dipingere il sole, non vi è riuscito con la pioggia; e in piú ha fatto nuotare delle anatre nella pietra. L’École turque [La Scuola turca], tuttavia, ha l’aria dei suoi quadri migliori; ritornano i bei fanciulli che conosciamo, e l’atmosfera assolata e polverosa di una stanza dove il sole vuole entrare in tutta la sua luce. Mi sembra cosí facile consolarci con i superbi Decamps che adornano le gallerie, che rinuncio a un’analisi dei difetti degli altri. Sarebbe un’impresa puerile, che tutti del resto possono fare benissimo. Fra i quadri di Penguilly-L’Haridon, che sono tutti di buona fattura – piccoli quadri eseguiti con un tocco largo, e tuttavia con finezza, – uno soprattutto si lascia guardare e attira lo sguardo: Pierrot présente à l’assemblée ses compagnons Arlequin et Polichinelle [Pierrot presenta al pubblico i suoi compagni Arlecchino e Pulcinella]. Pierrot, con un occhio aperto e l’altro chiuso, nella sua tradizionale aria sorniona, mostra al pubblico Arlecchino che avanza sbracciandosi in salamelecchi d’obbligo, una gamba protesa spavaldamente in avanti. Lo segue Pulcinella, – il volto leggermente avvinazzato, l’occhio piú che fatuo, e due povere gracili gambe in grandi zoccoli. Una figura ridicola, di naso enorme, grandi occhiali e gran mustacchi all’insù, spunta tra due quinte. – Il complesso è di uno splendido colore, raffinato e semplice, e i tre personaggi spiccano perfettamente su un fondo grigio. La suggestione del quadro viene assai meno dall’aspetto che non dalla composizione, la quale è di una semplicità portata all’estremo. – Il Pulcinella, che è essenzialmente comico, ricorda quello dello «Charivari» inglese, che accosta l’indice della mano alla punta del naso, per esprimere quanto ne sia fiero o imbarazzato. Il rimprovero che faccio a Penguilly è di non aver adottato il tipo di Deburau, che è il vero Pierrot di oggi, il Pierrot della storia moderna, a

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cui spetta di diritto un posto in tutti i quadri di scene mimiche. Ma eccoci ora a un’altra fantasia molto meno abile e meno sapiente, tanto piú bella in quanto è forse involontaria: La Rixe des mendiants [La Rissa dei mendicanti] di Manzoni. Non ho mai visto nulla di cosí poeticamente brutale, neppure nelle orge più fiamminghe. – Elenco in sei punti le differenti impressioni del visitatore al cospetto di questo quadro: 1° viva curiosità; 2° che orrore! 3° è dipinto male, ma è una composizione singolare, non priva di fascino; 4° non è poi dipinto cosí male come si penserebbe alla prima vista; 5° riguardiamoci dunque il quadro; 6° ricordo durevole. Vi si coglie una ferocia e una brutalità di maniera quanto mai appropriate al soggetto, da far ricordare la violenza di certi bozzetti di Goya. – Sono invero le facce più patibolari che sia dato vedere: un miscuglio strano di cappelli sfondati, di gambe di legno, di bicchieri infranti, di bevitori distrutti; e la lussuria, la ferocia e l’ubriachezza mettono sottosopra i loro stracci. La bellezza rubiconda che incendia i desideri di questa umanità è di un buon tocco, e tale da piacere agli intenditori. Di rado ho visto qualcosa di cosí comico come quel poveraccio schiacciato contro il muro, che il compare con un forcone inchioda senza scampo. Il secondo quadro L’Assassinat nocturne [L’Assassinio notturno], invece, ha una figurazione meno inconsueta. Il colore è spento e sciatto, e il fantastico si affida solo alla maniera in cui la scena viene rappresentata. Un mendicante alza un coltello sopra un disgraziato che, perquisito, sembra morire di paura. I loro mascheroni gessosi, dominati da nasi giganteschi, di un buffo intenso, dànno alla scena di terrore un’impronta delle piú singolari. Villa-Amil ha dipinto la Salle du trône [Sala del trono] a Madrid. A prima vista si direbbe che il quadro sia but-

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tato giù molto alla brava; ma guardando piú attentamente, si riconosce una grande abilità nella composizione e nel colore dell’insieme. È una pittura decorativa di un tono forse meno fine, ma di un colore più solido dei quadri dello stesso genere che predilige Roberts. Il male è tuttavia che il soffitto somiglia meno a un soffitto che non a un vero cielo. Wattier e Pérèse trattano generalmente soggetti quasi simili, delle splendide dame in antichi costumi nei parchi, sotto piante secolari; ma Pérèse ha dalla sua il merito di dipingere con semplicità assai maggiore, e di non essere destinato dal nome a fare la scimmia di Watteau. Nonostante la studiata finezza delle figure di Wattier, Pérèse gli è superiore nell’invenzione. D’altronde tra le loro composizioni corre la stessa differenza che distingue la galanteria dolciastra del tempo di Luigi XV dalla schietta galanteria del secolo di Luigi XIII. La scuola Couture, – ché bisogna chiamarla col suo nome, – ha dato sin troppo quest’anno. Diaz de la Peña, che è in piccolo l’espressione iperbolica di questa piccola scuola, parte dal principio che una tavolozza è un quadro. Quanto all’armonia complessiva, Diaz è convinto che la si trovi sempre. Per il disegno, – il disegno del movimento, il disegno dei coloristi, – non c’è neanche da parlarne; le membra di tutte queste figurine stanno su all’incirca come certi fagotti di stracci o come braccia e gambe disseminate dall’esplosione di una locomotiva. – Preferisco il caleidoscopio, perché non produce Les Délaissées [Le Abbandonate] o Le jardin des Amours [Il Giardino degli Amori], ma fornisce disegni per scialli e tappeti, secondo il proprio ruolo modesto. – Diaz è un colorista, è vero; ma prova ad allargare di un palmo il suo quadro, allora le forze gli vengono meno poiché egli ignora la necessità di un colore d’insieme. E per questo i suoi quadri non lasciano ombra di ricordo.

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A ciascuno la sua parte, dici. La grande pittura non è da tutti. Un buon pranzo ha i suoi piatti forti e i suoi antipasti. Vorresti storcere il naso davanti alla salsiccia di Arles, ai peperoncini, alle acciughe, alla maionese all’aglio, ecc.? – Antipasti appetitosi, dici? – Ma no, confetture e dolciumi stomachevoli. – Chi amerebbe nutrirsi di dolce? Un piccolo assaggio è già abbastanza quando si è soddisfatti del proprio pranzo. Célestin Nanteuil sa disporre una pennellata, ma non stabilire le proporzioni e l’armonia di un quadro. Verdier dipinge con ragionevolezza, ma per me è nel fondo nemico del pensiero. Müller, l’uomo dei Sylphes [Silfi], il grande appassionato dei soggetti poetici, – dei soggetti grondanti di poesia, – ha composto un quadro dal titolo Primavera. Chi non sa l’italiano crederà che questo nome voglia dire Decameron. Il colore di Faustin Besson perde molto a non essere piú alterato e riflesso dai vetri della bottega Deforge. Quanto a Fontaine, è evidente che è un uomo serio; ci ha dipinto Béranger attorniato di marmocchi dei due sessi, in atto di iniziarli ai misteri della pittura Couture. Grandi misteri, parola mia! – una luce rosa o color pesca e un’ombra verde, ecco in cosa consiste la difficoltà di tutta l’operazione. – L’atroce di tale pittura è che si fa vedere: la si scorge da molto lontano. Dell’intero gruppo, il piú sfortunato è senza fallo Couture, a cui tocca in tutto questo il ruolo interessante di una vittima. – Un imitatore è un indiscreto che mette in vendita una sorpresa. Nelle differenti specialità dei soggetti basso-bretoni, catalani, svizzeri, normanni, ecc., Armand e Adolphe Leleux sono superati da Guillemin, che è inferiore a Hédouin, il quale a sua volta sta dietro ad Haffner.

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Più di una volta ho sentito rivolgere ai Leleux questo curioso rimprovero: svizzeri e spagnoli o bretoni, tutti i loro personaggi hanno l’aria di Bretagna. Hédouin è sicuramente un pittore di merito, che possiede una solida pennellata e capisce il colore; non ho dubbi che egli riuscirà a costruirsi un’originalità tutta sua. Quanto a Haffner, non gli posso perdonare di averci dato in altri tempi un ritratto in uno stile romantico e superbo, e di non averne fatti altri; credevo che fosse un grande artista ricco di poesia e soprattutto d’invenzione, un ritrattista di prim’ordine, che si lasciava andare a qualche crosta nelle ore morte; ma sembra che egli sia solo un pittore.

vii Dell’ideale e del modello Siccome il colore è la cosa più naturale e visibile, il partito dei coloristi è il piú numeroso e importante. L’analisi, che facilita i mezzi di esecuzione, ha sdoppiato la natura in colore e linea, e prima di procedere allo scrutinio degli uomini che formano il secondo partito, credo ora utile spiegare alcuni dei principî che li guidano, a volte persino a loro insaputa. Il titolo di questo capitolo è una contraddizione o meglio un accordo di contrari; in quanto il disegno del grande disegnatore deve riassumere l’ideale e il modello. Il colore è fatto di masse cromatiche, costituite da un’infinità di toni, la cui armonia crea l’unità: cosí la linea, che ha le sue masse e le sue generalità, si suddivide in un gran numero di linee particolari, ciascuna delle quali è un carattere del modello.

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La circonferenza, ideale della linea curva, è comparabile a una figura analoga composta da un’infinità di linee rette, che deve confondersi con essa, mentre gli angoli interni divengono sempre piú ottusi. Ma poiché non si dà circonferenza perfetta, l’ideale assoluto è un’idiozia. Il gusto esclusivo del semplice porta l’artista inetto all’imitazione dello stesso tipo. I poeti, gli artisti e tutto il genere umano sarebbero proprio infelici, se fosse dato di trovare l’ideale, questo assurdo, questo impossibile. Che cosa ne farebbe il singolo del suo povero io, – della sua linea spezzata? Ho già osservato che il ricordo è la pietra di paragone dell’arte; l’arte è una mnemotecnica del bello: ora, l’imitazione esatta guasta il ricordo. Esistono poveri pittori, per i quali la piú piccola verruca è una vera fortuna; non solo si guardano bene dal dimenticarla, ma devono renderla quattro volte piú grande: in tal modo mettono alla disperazione gli amanti; e un popolo che commissiona il ritratto del proprio re è sempre un amante. Procedere troppo nel particolare o procedere troppo nel generale impedisce parimenti il ricordo; all’Apollo del Belvedere e al Gladiatore preferisco l’Antinoo; perché l’Antinoo è l’ideale del bellissimo Antinoo. Benché uno sia il principio universale, la natura non offre nulla di assoluto, e neppure di completo19; non mi riesce di vedere che individui. Ogni animale, di una stessa specie, differisce in qualche parte dal proprio simile, e fra le migliaia di frutti che può dare un albero, è impossibile trovarne due identici, in quanto sarebbero la medesima cosa: e la dualità, che è la contraddizione dell’unità, ne è pure la conseguenza20. Massime nel genere umano l’infinito della varietà si manifesta in una forma che sgomenta. Escludendo i grandi tipi che la natura ha distribuito sotto i diversi climi, vedo ogni giorno passare sotto la mia finestra un certo numero di Calmucchi, di Osage, di Indiani, di Cinesi e di Greci anti-

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chi, tutti più o meno fatti parigini. Ogni individuo costituisce un’armonia; e infatti è capitato più volte a tutti di voltarsi a una cadenza nota di voce, e di restare stupefatti davanti a una creatura sconosciuta, vivente ricordo di un altro essere che ha voce e gesti analoghi. Ciò è cosí vero che Lavater ha steso una nomenclatura dei nasi e delle bocche che cozzano tra loro nel figurare insieme, e ha accertato vari errori del genere negli artisti antichi, che talvolta hanno rivestito personaggi religiosi o storici di forme contrarie al loro carattere. Può essere che Lavater si sia ingannato nel particolare; ma aveva colto l’idea del principio. Una data mano richiede un dato piede; ogni epidermide genera il proprio pelo. Ogni individuo ha quindi il proprio ideale. Non sostengo che ci siano tanti ideali originari quanti sono gli individui, poiché uno stampo dà luogo a parecchie copie; ma nell’animo del pittore si dànno tanti ideali quanti individui, dal momento che un ritratto è un modello complesso di un artista. Cosí l’ideale non è quella cosa vaga, quel sogno grigio e impalpabile che aleggia sul soffitto delle accademie; un ideale non è che l’individuo modificato dall’individuo, ricostruito e reso dal pennello o dallo scalpello alla raggiante verità della sua armonia nativa. La qualità prima di un disegnatore è perciò lo studio assiduo e sincero del proprio modello. Occorre non solo che l’artista abbia un’intuizione penetrante del carattere del modello, ma anche che v’infonda un qualche senso piú generale, e esageri volutamente alcuni particolari per accentuare la fisionomia e renderne più chiara l’espressione. È curioso notare che, guidata da questo principio, – secondo cui il sublime deve rifuggire dai particolari, – l’arte per muovere verso la perfezione torna alla propria infanzia. – I primi artisti infatti non esprimevano i particolari. Tutta la differenza stava nel fatto che model-

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lando con una linea continua le braccia e le gambe delle figure, non erano loro a rifuggire dai particolari, ma i particolari che gli sfuggivano; per scegliere, infatti, occorre possedere. Il disegno è un conflitto tra la natura e l’artista, in cui l’artista può trionfare tanto piú agevolmente quanto sa intendere meglio le intenzioni della natura. Il problema non è quello di copiare, ma di interpretare in una lingua piú semplice e luminosa. L’introduzione del ritratto, cioè del modello idealizzato, nei soggetti storici, religiosi, o di fantasia, richiede per prima cosa una scelta sottile del modello, e può indubbiamente svecchiare e rivitalizzare la pittura moderna, troppo portata, al pari di tutte le nostre arti, ad appagarsi dell’imitazione degli antichi. Tutto quello che potrei aggiungere sugli ideali mi pare sia contenuto in un capitolo di Stendhal, dal titolo tanto chiaro quanto insolente: come avere la meglio su raffaello? Nelle scene patetiche generate dalle passioni, il grande pittore dei tempi moderni, se mai farà la sua comparsa, darà a ciascuna delle sue figure la bellezza ideale tratta dal temperamento adatto a sentire piú vivamente l’effetto di tale passione. Werther non sarà indifferentemente sanguigno o melanconico, né Lovelace, flemmatico o bilioso. Il buon curato Primerose21 e l’amabile Cassio non avranno il temperamento bilioso; ma l’ebreo Shylock sì, e allo stesso modo il cupo Iago, lady Macbeth, Riccardo III; l’amabile e casta Imogene sarà un poco flemmatica. Sul fondamento delle prime sue osservazioni, l’artista ha creato l’Apollo del Belvedere. Ma si ridurrà a dare freddamente delle copie di questo Apollo ogni volta che vorrà figurare un dio giovane e bello? No, egli stabilirà un rapporto tra l’azione e il genere di bellezza. L’Apollo, che libera la

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terra dal serpente Pitone, sarà piú forte; ma l’Apollo, che cerca di piacere a Dafne, avrà tratti piú delicati.

viii Di alcuni disegnatori Nel capitolo precedente, non ho parlato del disegno creativo o di immaginazione, in quanto di solito esso è prerogativa dei coloristi. Michelangelo, il quale da un certo punto di vista è l’inventore dell’ideale fra i moderni, è l’unico ad avere avuto in misura suprema l’immaginazione del disegno senza essere colorista. I disegnatori puri sono dei naturalisti dotati di un senso straordinario; ma disegnano per ragionamento, mentre i coloristi, i coloristi grandi, disegnano per temperamento, quasi senza che lo sappiano. Il loro metodo è analogo alla natura: disegnano perché coloriscono, e i disegnatori puri, se volessero essere conseguenti e fedeli alla propria professione di fede, dovrebbero limitarsi alla matita. Invece, si danno al colore con un trasporto inaudito, e non si accorgono affatto delle proprie contraddizioni. Cominciano col delimitare le forme in maniera aggressiva e assoluta, e poi pretendono di riempire quegli spazi. È un duplice metodo che intralcia di continuo i loro sforzi, e conferisce a tutte le loro opere un non so che di amaro, di spiacevole e di contrastato. Ogni loro opera è un processo senza fine, una dualità logorante. Un disegnatore è un colorista mancato. Il fatto è cosí vero che Ingres, il rappresentante piú illustre della scuola naturalistica nel disegno, è sempre teso alla ricerca del colore. Mirabile e infelice pertinacia! È l’eterna storia di quanti baratterebbero la fama che meritano con quella che non possono raggiungere. Ingres adora il colore come una modista. Si prova a un

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tempo rammarico e piacere osservando gli sforzi che deve sostenere per scegliere e accoppiare i propri toni. L’esito, non sempre contraddittorio, ma amaro e violento, attrae spesso i poeti corrotti; ma il loro spirito stanco, dopo che si è a lungo compiaciuto di questi scontri pericolosi, ha bisogno ad ogni costo di acquietarsi in un Velásquez o in un Lawrence. Se Ingres occupa il posto piú importante dopo Delacroix, lo deve a questo disegno cosí personale, di cui ho appena scrutato i misteri, e che meglio di ogni altro riassume, sino ad oggi, l’ideale e il modello. Ingres disegna meravigliosamente bene, e disegna rapido. Nei suoi schizzi gli viene spontaneo l’ideale; il suo disegno, spesso poco carico non contiene molti tratti; ma ciascuno di essi rende un contorno che conta. Si vedano a confronto i disegni di tutti questi lavoranti della pittura, – spesso allievi di Ingres; – costoro rendono soprattutto le minuzie, e in tal modo incantano il volgo, il cui occhio in tutte le cose si apre soltanto a ciò che è piccolo. In un certo senso, Ingres disegna meglio di Raffaello, il principe universalmente riconosciuto del disegno. Raffaello ha decorato sterminate pareti; ma non sarebbe riuscito a uguagliare il pittore moderno nel ritratto di vostra madre, di un amico o di un’amante. L’audacia di Ingres è tutta particolare, fusa con una tale astuzia da non arretrare dinanzi al brutto e allo stravagante: egli ritrae la redingote di Molé; il carrick di Cherubini; mette nel soffitto di Omero, – per quanto tenda all’ideale come nessun altro – un cieco, un guercio, un monco e un gobbo. La natura lo ricompensa generosa di questa sua pagana adorazione. Ingres potrebbe fare di Mayeux22 una cosa sublime. Anche la bella Musa di Cherubini è un ritratto. È lecito affermare che se Ingres, a cui manca l’immaginazione del disegno, non sa fare un quadro, per lo meno

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di grandi dimensioni, i suoi ritratti sono come quadri, ossia poemi interiori. Talento avaro, crudele, collerico e dolente, miscuglio strano di qualità contrarie, interamente al servizio della natura, e la cui anomalia non ne costituisce l’ultimo fascino; – fiammingo nell’esecuzione, individualista e naturalista nel disegno, antico per i suoi amori e idealista per l’intelletto. Mettere armonia tra tali e tante tensioni non è fatica da poco: e cosí, non senza ragione, per disvelare i misteri sacri del suo disegno egli ha scelto una luce artificiale, che giova a rendere il suo pensiero piú chiaro, – simile all’albore in cui la natura non ancora desta ci appare livida e cruda, e la campagna si manifesta sotto un aspetto fantastico e penetrante. Un fatto piuttosto singolare e, come credo, ancora non osservato nel talento di Ingres, è la sua preferenza per i ritratti femminili; egli dipinge le donne come le vede, quasi che le amasse troppo per essere disposto a mutarle, si ferma su ogni loro bellezza, anche secondaria, con una inflessibilità da chirurgo; segue le ondulazioni più lievi delle loro linee con una soggezione da innamorato. L’Angélique, le due Odalisques, il ritratto della d’Haussonville sono opere di una voluttà profonda. Ma tutto questo non ci appare se non sotto una luce quasi terrificante; non si ha l’atmosfera dorata che inonda i campi dell’ideale, né il lume calmo e misurato delle regioni sublunari. Effetto di un’attenzione portata all’estremo, le opere di Ingres esigono, per essere comprese, un’attenzione altrettanto intensa. Sono figlie del dolore, e generano dolore. Ciò dipende, come ho già spiegato, dal fatto che il suo metodo non è un’unità, una e semplice, sí piuttosto la pratica di metodi sovrapposti.

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Attorno a Ingres, il cui insegnamento ha non so quale autorità di fanatismo, si sono raccolti alcuni artisti, i più noti dei quali sono Flandrin, Lehmann e Amaury-Duval. Ma che distanza tra il maestro e i suoi allievi! Ingres resta ancora l’unico della propria scuola. Il suo metodo è il prodotto della sua natura, la quale, per quanto possa essere bizzarra e pertinace, è poi schietta e come dire involontaria. Amante appassionato dell’antico e del suo paradigma, rispettoso esecutore della natura, Ingres dipinge ritratti che possono competere con le migliori sculture romane. Quelli della sua scuola, invece, hanno tradotto in sistema, freddamente, con determinazione, da pedanti, la parte sgradevole e impopolare del suo genio; che quello che li distingue sopra ogni altra cosa è la pedanteria. Nel maestro hanno visto e studiato solo la curiosità e l’erudizione. Di qui, le loro ricerche di esilità, di pallore e tutte quelle convenzioni ridicole, adottate senza riflessione e buona fede. Si sono calati nel passato, lontano e lontano, a copiare con un candore servile errori mortificanti, privandosi volontariamente di tutti i mezzi di esecuzione e di riuscita apprestati dall’esperienza dei secoli anche per loro. Tutti ricordano ancora La Fille de Jephté pleurant sa virginité [La figlia di Jefte che piange la perduta verginità]; – la lunghezza smisurata delle mani e dei piedi, gli ovali iperbolici delle teste, le affettazioni ridicole, – convenzioni e abitudini del pennello che hanno un’aria passabile di raffinatezza, e sono degli strani difetti in un fervido adoratore della forma. Dopo il ritratto della principessa Belgiojoso, Lehmann non fa altro che occhi troppo grandi, in cui la pupilla nuota come un’ostrica in una zuppiera. – Quest’anno, ha mandato alcuni ritratti e quadri. I quadri sono Les Oceanides [Le Oceanidi], Hamlet e Ophélie. Les Oceanides sono una specie di Flaxman, cosí brutte a vedersi da levar la voglia di esaminare il disegno. Nei ritratti di Hamlet e di Ophélie, appare evidente la pre-

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tesa del colore, – il chiodo fisso della scuola! È un’infelice imitazione del colore che rattrista e affligge come un Veronese o un Rubens copiato da un uomo della luna. Quanto all’idea e alla costruzione, le due figure mi fanno pensare all’enfasi degli attori dell’antico Bobino, quando vi si dava il melodramma. Oh certo, la mano di Amleto è bella; ma una mano di perfetta esecuzione non fa un disegnatore, e si gioca troppo sul frammento, anche per uno scudiero di Ingres. Penso che anche la Calamatta sia iscritta al partito dei nemici della luce del sole; tuttavia compone a volte i suoi quadri con una certa felicità, con qualcosa di quell’aria sovrana che le donne, anche le più letterate e artiste, prendono dagli uomini piú raramente dei loro aspetti comici. Janmot ha dipinto una Station [Stazione]: Le Christ portant sa croix [Il Cristo che porta la croce], – la cui struttura mostra carattere e severità; ma il suo colore, che non è piú misterioso o per meglio dire mistico, come nelle sue ultime opere, ricorda purtroppo il colore di tutte le viae crucis possibili. Quando si guarda questo quadro violento e vitreo, si capisce in un lampo che Janmot e di Lione. Difatti, è proprio questa la pittura che si addice a una città di banche, bigotta e scrupolosa, ove tutto, anche la religione, ha per forza la nettezza calligrafica di un registro. L’intelligenza del pubblico ha già associato piú volte i nomi di Curzon e di Brillouin: per quanto i loro esordi promettessero tutt’altra originalità. Quest’anno, Brillouin, – À quoi rêvent les jeunes filles [A che cosa sognano le fanciulle] – è riuscito diverso da se stesso, e Curzon si è accontentato di fare dei Brillouin. La loro maniera ricorda la scuola di Metz, scuola letteraria, mistica e tedesca. Curzon, cui si devono a volte dei bei paesaggi di un colore dovizioso, potrebbe esprimere Hoffmann in una forma meno dotta, – meno conven-

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zionale. Benché egli sia chiaramente un uomo d’ingegno, – e basta a provarlo la scelta dei suoi soggetti, – si sente che il soffio hoffmanniano non è passato nel suo studio. L’antica fattura degli artisti tedeschi non somiglia in nulla allo stile di questo grande poeta, le cui opere hanno un carattere tanto piú moderno e romantico. Inutilmente il pittore, per rimuovere un difetto cosí di fondo, ha scelto fra i racconti quello meno fantastico, Maître Martin et ses apprentis [Mastro Martino e i suoi apprendisti], del quale lo stesso Hoffmann diceva: «È la piú mediocre delle mie opere, senza l’orrido e il grottesco, che sono le due cose nelle quali mi trovo a piú agio!» E ciò nonostante, persino nel Maître Martin, le linee sono più fluide e l’atmosfera più satura di spiriti di quanto non abbia fatto Curzon. A voler essere precisi, il posto di Vidal non è qui, giacché egli non è un vero disegnatore. Tuttavia non è scelto poi troppo male, in quanto l’artista possiede alcuni difetti e debolezze dei seguaci di Ingres, cioè il fanatismo del minuto e del grazioso, l’entusiasmo per la bella carta e le tele fini. Ma questo non è l’ordine che regna e aleggia intorno a un ingegno veramente vigoroso, e neppure la giusta precisione di un uomo di buon senso: è la forma maniacale della precisione. Il mito Vidal è cominciato, credo, tre o quattro anni fa, quando però i suoi disegni erano meno pedanteschi e manierati di oggi. Leggevo stamani un articolo di Théophile Gautier, nel quale egli elogia grandemente Vidal di saper rendere la bellezza moderna. – Non so perché Théophile Gautier abbia indossato quest’anno il carrick e la pellegrina del benefattore, dato che ha lodato tutti, e non c’è disgraziato imbrattatele di cui non abbia citato i lavori. O forse che non sia suonata per lui, che è già cosí buono, l’ora dell’Accademia, l’ora solenne e soporifera; e che il successo letterario produca conseguenze cosí funeste da

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costringere il pubblico a richiamarci all’ordine e a rimetterci sotto gli occhi i nostri antichi certificati di romanticismo? La natura ha donato a Gautier uno spirito eccellente, ampio e poetico; e tutti sanno quale furiosa ammirazione egli abbia sempre mostrato per le opere autentiche e forti. Quale filtro allora hanno versato quest’anno i pittori nel suo vino, o quale occhiale egli ha scelto per questo suo ufficio? Vidal, che conosce la bellezza moderna! Ma via! Grazie alla natura, le nostre donne non hanno tanto spirito né sono cosí preziose; ma sono poi ben altrimenti romantiche. – Guardi la natura, signor Vidal; la pittura non si fa con lo spirito e le matite meticolosamente temperate; visto che taluni la pongono, non so bene perché, nella nobile famiglia dei pittori. Lei ha un bel chiamare le sue donne Fatinitza, Stella, Vanessa, Stagione delle rose, – quanti nomi per pomate! – ma non basta a fare delle creature poetiche. Una volta lei si è provato con L’Amour de soi-même [L’Amore di sé], – un’idea grande e bellissima, un’idea femminile come poche altre, – ma non ha saputo renderne l’avidità golosa, l’egoismo glorioso. Lei ha saputo essere solo candido e oscuro. Del resto, tutte queste affettazioni passeranno come unguenti rancidi. Basta un raggio di sole per liberarne tutto il fetore. Preferisco lasciare che il tempo faccia il suo corso che non perdere il mio a spiegarle tutte le piccinerie di questo suo misero genere.

ix Del ritratto Due sono i modi di concepire il ritratto: la storia e il romanzo. Il primo rende con fedeltà, con rigore, minuziosamente, il contorno e il modellato del soggetto,

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senza che questo escluda l’idealizzazione, la quale può consistere per i naturalisti illuminati nello scegliere l’atteggiamento piú caratteristico, quello che esprime più compiutamente le abitudini interiori; e in aggiunta sa dare ad ogni particolare importante un’enfasi conveniente, mettendo in luce tutto ciò che in natura è rilevato, risentito e primario, e trascurando o fondendo nell’insieme quanto è insignificante, o effetto di un degradarsi fortuito. I maestri della scuola storica sono David e Ingres; i migliori esempi sono i ritratti di David che si è avuto modo di vedere alla mostra Bonne-Nouvelle, e quelli di Ingres, quali a esempio il Bertin e il Cherubini. L’altro metodo, che è proprio dei coloristi, tende a fare del ritratto un quadro, un poema con ogni suo elemento, di uno spazio pari all’ampiezza dell’immaginazione. Qui l’arte è piú difficile, in quanto piú ambiziosa. Si deve saper distendere intorno a una testa i morbidi vapori di una calda atmosfera, o farla emergere dalle profondità di un crepuscolo. Qui l’immaginazione ha una parte più alta, e tuttavia, come spesso accade che il romanzo sia piú vero della storia, accade anche che un modello sia più chiaramente espresso dal pennello dovizioso e duttile di un colorista che non dalla matita di un disegnatore. I maestri della scuola romantica sono Rembrandt, Reynolds, Lawrence, e gli esempi piú noti La Dama dal cappello di paglia e il giovane Lambton. In genere, Flandrin, Amaury-Duval e Lehmann eccellono nella qualità del modellato che è vero e finissimo. Il particolare è ben concepito, di un’esecuzione fluida e tutta di getto; ma i loro ritratti sono spesso insidiati da un’affettazione goffa e pretenziosa. Il gusto esasperato della distinzione riserva loro ad ogni tratto le peggiori insidie. È noto con che onesto e incredibile candore perseguano i toni distinti, toni cioè che, se fossero intensi,

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striderebbero come il diavolo e l’acqua santa, il marmo e l’aceto; ma siccome sono oltremodo esangui, somministrati in dosi omeopatiche, l’effetto è piú sorprendente che doloroso: ed ecco il loro grande successo! La distinzione nel disegno consiste nel far propri i pregiudizi di certe smaniose, infarinate di letterature scadenti, che hanno in orrore gli occhi piccoli, i piedi grossi, le mani grandi, le fronti basse e le guance rosse di gioia e di salute, – tutti elementi che possono essere di grande bellezza. Tale pedanteria nel colore e nel disegno nuoce immancabilmente alle opere di questi pittori, benché non siano prive di qualche merito. Cosí, davanti al ritratto blu di Amaury-Duval e a tanti altri ritratti femminili di confezione e trattamento «Ingres», ho sentito risuonare nella mente, per non so quale associazione di idee, le sagge parole del cane Berganza23, che fuggiva le bla-bla-blu con la stessa furia con cui le ricercano i nostri galantuomini: «Corinna non ti è mai sembrata insopportabile?... All’idea di vederla avvicinarsi a me, animata di una vita vera, mi sentivo come oppresso da una sensazione penosa, e incapace di conservare vicino a lei la mia serenità e la mia libertà di spirito . . . . . . . . . . . . . . . . Per quanto belle possano essere le sue braccia e la sua mano, mai avrei potuto sopportare le sue carezze senza una certa ripugnanza, un certo fremito interiore che mi toglie di solito l’appetito. – Non parlo qui che nella mia qualità di cane!» Ho provato la stessa sensazione dell’arguto Berganza davanti a quasi tutti i ritratti di donne, passati o presenti, di Flandrin, Lehmann e Amaury-Duval, nonostante le belle mani, dipinte proprio bene, che vi sanno fare, e la galanteria di certi particolari. La stessa Dulcinea del Toboso, passando per la bottega di questi signori, ne uscirebbe diafana e pudibonda come un’elegia, e smagrita dal tè e dal burro estetici.

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Eppure non è cosí, – non ci stanchiamo di ripeterlo, – che Ingres intende le cose: Ingres, il grande maestro! Nel ritratto secondo l’altro metodo, Dubufe padre, Winterhalter, Lépaulle e Frederica O’Connell, con un gusto più sincero della natura e un colore piú severo, avrebbero potuto conseguire una fama legittima. Dubufe avrà per molto tempo ancora il privilegio dei ritratti eleganti; il suo gusto naturale e quasi poetico serve a nascondere i suoi difetti innumerevoli. È poi da notare che la gente che si scaglia tanto contro il borghese, a proposito di Dubufe, è la stessa che si è lasciata incantare dalle teste di legno di Pérignon. Quante cose si sarebbero perdonate a Delaroche, se fosse stato possibile prevedere la fabbrica Pérignon! Winterhalter attraversa veramente un periodo di decadenza. –Lépaulle è sempre lo stesso, pittore eccellente a volte, sempre nudo di gusto e di buon senso. – Occhi e bocche deliziosi, braccia ben tornite, – con certe acconciature da far fuggire la gente per bene! La O’Connell sa dipingere con libertà e vivacità; ma il suo colore manca di consistenza. È l’infausto difetto della pittura inglese, trasparente sino all’eccesso, e con una fluidità, sempre, oltre misura. Un esempio eccellente del genere di ritratti di cui intendevo poc’anzi delineare lo spirito informatore è la figura di donna di Haffner, – immersa nel grigio e splendente di mistero, – che all’ultimo Salon aveva mobilitato le speranze di tutti gli intenditori. Ma Haffner non era ancora un pittore di genere, mentre cercava di alleare e fondere Diaz, Decamps e Troyon. Si direbbe che la Gautier cerchi di ammorbidire un po’ la sua maniera. Ma sbaglia. Tissier e Guignet hanno conservato una pennellata e un colore solidi e sicuri. In generale, i loro ritratti hanno il pregio di piacere soprattutto per l’aspetto, che è la prima impressione e la più importante.

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Victor Robert, autore di un’immensa allegoria dell’Europa, è certamente un buon pittore, dotato di una mano sicura; ma l’artista che fa il ritratto di un uomo celebre non deve accontentarsi di un impasto felice e superficiale, dal momento che il suo è anche un ritratto interiore. Granier de Cassagnac è molto più brutto, o, se si preferisce, molto piú bello. Intanto il naso è piú largo, e la bocca, mobile e irritabile, e di una malizia e di una finezza che sono sfuggite al pittore. Granier de Cassagnac ha l’aria più minuta e atletica, anche visto di fronte. La posa esagera piuttosto che esprimere la forza autentica che ne viene dal suo carattere. Qui non vi è traccia di quel portamento marziale e altero col quale egli affronta la vita e tutti i suoi problemi. Basta averlo visto esplodere fulmineo nei suoi accessi di collera, con scatti di penna o rovesciamento di sedie, o semplicemente averli letti, per capire che egli non è qui nella sua interezza. «Le Globe», che sfuma nella mezzatinta, è una cosa puerile, – oppure lo si doveva collocare in piena luce! Ho sempre avuto l’idea che Boulanger sarebbe divenuto un ottimo incisore; ma è un artigiano ingenuo e privo di invenzione che guadagna molto a lavorare sull’opera altrui. I suoi quadri romantici sono pessimi, i suoi ritratti buoni, – chiari, solidi, di una pittura sciolta e semplice; e, fatto singolare, hanno spesso l’aria delle buone incisioni eseguite dai ritratti di Van Dyck: con le ombre dense e le luci bianche delle acqueforti vigorose. Ogni volta che Boulanger ha voluto andare piú in su, è caduto nel pathos. Credo che la sua sia un’intelligenza onesta, posata e ferma, che solo le lodi sperticate dei poeti hanno potuto mettere fuori strada. Che dire di Cogniet, questo amabile eclettico, questo pittore di tanta buona volontà e di un’intelligenza cosí inquieta che, per rendere perfettamente il ritratto di Granet, ha escogitato di impiegare il colore che appar-

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tiene alla pittura di Granet, – il quale è generalmente scuro, come tutti sanno da tanto tempo? La Mirbel è la sola artista che sappia trarsi d’impaccio nel risibile problema del gusto e del vero. Questa sincerità particolare, oltre che il fascino della presentazione, fa sí che le sue miniature abbiano intera l’importanza della pittura.

x Dello chic e del banale Lo chic, questa parola orrenda e stravagante di formazione moderna, di cui ignoro persino l’ortografia24, ma che sono costretto a usare, giacché viene consacrata dagli artisti per esprimere un mostro moderno, significa: assenza di modello e di natura. Lo chic è l’abuso della memoria; anzi è piuttosto una memoria della mano che non una memoria del cervello; e vi sono degli artisti dotati di una memoria profonda dei caratteri e delle forme, – Delacroix o Daumier, – i quali non hanno nulla da spartire con lo chic. Lo si può anche paragonare al lavoro di quei maestri calligrafi, in possesso di una bella mano e d’una buona penna appuntita per il carattere inglese o corsivo, che sanno tracciare senza paura, ad occhi chiusi, a guisa di paraffo, una testa del Cristo o il cappello dell’imperatore. Il significato della parola poncif, che è il banale, ha più d’una analogia con il termine chic. Comunque, la parola si riferisce piú in particolare alle espressioni del volto e agli atteggiamenti. Vi sono rabbie banali, stupori banali, come a esempio lo stupore espresso da un braccio orizzontale col pollice divaricato.

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Nella vita e nella natura s’incontrano cose e esseri banali, che sono cioè il compendio delle idee volgari e correnti che ci facciamo di tali esseri e cose: ecco perché i grandi artisti ne hanno orrore. Tutto ciò che è convenzionale e tradizionale ha che fare con lo chic e il banale. Quando un cantante si porta la mano sul cuore, il suo gesto di solito vuol dire: io l’amerò per sempre! – Ma se stringe i pugni con lo sguardo al suggeritore o al piancito, il senso è: deve morire, il traditore! – Questo è il banale.

xi Di Horace Vernet Sono questi i severi principî che guidano nella ricerca del bello questo artista cosí nostro e nazionale, le cui composizioni adornano la capanna del povero contadino e la soffitta dello studente spensierato, la sala dei più miserabili bordelli e i palazzi dei nostri re. So bene che quest’uomo è un Francese, e che un Francese in Francia è cosa santa e sacra, – e anche all’estero, a quanto mi dicono; ma appunto per questo io lo detesto. Nel senso più corrente, Francese vuol dire operettista, e operetta significa un uomo a cui Michelangelo dà la vertigine e Delacroix ispira uno stupore animale, come fa il tuono con certe bestie. Tutto ciò che sa di abisso, sia in alto che in basso, lo fa fuggire per prudenza. Il sublime gli fa sempre l’effetto di una sommossa, e non si accosta neppure a Molière se non tremando e solo perché lo hanno persuaso che era un autore comico. Cosí, con l’eccezione di Horace Vernet, tutte le persone serie di Francia detestano il Francese. A questo popolo turbolento non occorrono idee ma fatti, racconti storici, canzonette e il «Moniteur»25! Tutto qui: mai

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che abbia bisogno di astrazioni. Ha fatto cose grandi, ma senza intenzione. Gliele hanno fatte fare. H. Vernet è un militare che si è messo a fare pittura. – Detesto questa sua arte improvvisata al rullo del tamburo, le sue tele spennellate al galoppo, la sua pittura buttata giú a colpi di pistola, come odio l’esercito, la forza armata, e tutto quello che porta il clamore delle armi in un luogo di pace. La sua straordinaria popolarità, che non è destinata a durare piú a lungo della guerra, per diminuire a mano a mano che i popoli sapranno crearsi altri diletti, – questa popolarità, ripeto, questa vox populi, vox Dei, per me è un’oppressione. Odio quest’uomo perché i suoi quadri non sono per niente pittura, bensí una masturbazione svelta e frequente, un’irritazione dell’epidermide francese; – così come odio l’altro grand’uomo la cui ipocrisia austera è venuta sognando il consolato e ha risarcito il popolo del suo amore soltanto con brutti versi, – versi che non sono poesia, versi storti e mal costruiti, zeppi di barbarismi e di solecismi, ma anche di spirito civico e di patriottismo. Lo odio perché è nato con la camicia26, e perché l’arte per lui è cosa chiara e facile. – Ma lui vi racconta la vostra gloria, ed è questo che conta più di tutto. – Via! che cosa importa tutto questo al viaggiatore appassionato, allo spirito cosmopolita che preferisce il bello alla gloria? Per definire Horace Vernet in modo chiaro, diremo che egli è l’antitesi assoluta dell’artista; egli sostituisce lo chic al disegno, la grancassa al colore e gli episodi all’unità; fa dei Meissonier grandi come l’universo. D’altro canto, per adempiere alla sua missione ufficiale, Horace Vernet possiede due qualità eccellenti, l’una in difetto, l’altra in eccesso: assenza di passione e memoria da almanacco27! Chi meglio di lui sa quanti bottoni ci sono in un’uniforme, la piega che assume una ghetta o una scarpa sformata da molte marce; il punto

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delle buffetterie in cui il bronzo delle armi lascia un’ombra di verderame? Di qui un pubblico sterminato e la sua soddisfazione! Tanti pubblici quanti sono i diversi mestieri necessari per fabbricare abiti, giubbe, sciabole, fucili e cannoni! E tutte codeste corporazioni raccolte dinanzi a un Horace Vernet per l’amore comune della gloria! Quale spettacolo! Siccome mi capitò di rimproverare una volta ad alcuni tedeschi di avere un debole per Scribe e Horace Vernet, questi mi risposero: «Noi ammiriamo profondamente Horace Vernet perché è il rappresentante piú completo del suo secolo». – Alla salute! Si dice che Horace Vernet andasse a trovare Peter Cornelius, e lo colmasse di complimenti. Ma attese a lungo d’essere ricambiato; giacché Peter Cornelius si congratulò con lui una sola volta durante tutta la visita, – sulle molte coppe di champagne che riusciva a mandar giú senza risentirne. – Vera o falsa, la storia ha una sua verosimiglianza poetica. E poi si dice che i tedeschi sono un popolo ingenuo! Molti che sostengono la maniera indiretta in fatto di stroncature, e che non amano piú di me Horace Vernet, mi possono rimproverare di essere poco abile. Tuttavia non è imprudente essere brutali e andar dritti al fatto, quando in ogni frase l’io adombra un noi, un noi immenso, un noi silenzioso e invisibile, – quello di tutta una nuova generazione, nemica della guerra e delle imbecillità nazionali; una generazione vigorosa di salute, perché giovane, e che già spinge in coda, gioca di gomito e si fa largo, – seria, beffarda e minacciosa28! Due altri illustratori e grandi innamorati dello chic sono Granet e Alfred Dedreux; ma essi esercitano le loro doti di improvvisazione in generi molto diversi: Granet nella religione, Dedreux nella vita della moda. Il primo raffigura il monaco e il secondo il cavallo; ma l’uno è

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scuro, l’altro chiaro e brillante. Alfred Dedreux ha il vantaggio di saper dipingere, e le sue pitture hanno l’aspetto vivo e fresco delle decorazioni teatrali. È da supporre che egli si occupi maggiormente della natura nei soggetti che sono la sua specialità, visto che i suoi studi di cani in corsa sono piú solidi e reali. Quanto alle sue Chasses [Cacce], ciò che è comico in loro è che i cani dominano tutto e potrebbero mangiare ognuno quattro cavalli. Tornano in mente i famosi montoni dei Vendeurs du Temple [I Mercanti del Tempio], l’opera di Jouvenet, dietro ai quali scompare Gesù Cristo.

xii Dell’eclettismo e del dubbio Siamo, come si vede, nell’ospedale della pittura. Tocchiamo piaghe e malattie; e questa non è una delle meno strane e contagiose. Nel nostro secolo come in quelli passati, oggi come ieri, gli uomini forti e valenti si dividono, ciascuno in rapporto al proprio gusto e al proprio temperamento, le diverse regioni dell’arte, e vi operano in assoluta libertà secondo la legge necessaria del lavoro come piacere. Gli uni vendemmiano facilmente e a piene mani nelle vigne dorate e autunnali del colore; gli altri arano con pazienza e scavano con fatica il solco profondo del disegno. Ognuno di loro ha compreso che il proprio dominio era un sacrificio, e che solo a questa condizione egli poteva regnare con sicurezza sino ai confini che lo delimitano. E ciascuno reca sulla propria corona un’insegna le cui parole sono leggibili a tutti. Non c’è uno che dubiti della propria sovranità, e in questa convinzione incrollabile risiede la loro serenità, la loro gloria.

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Lo stesso Horace Vernet, il campione detestabile dello chic, ha il merito di non essere un cultore del dubbio. È un uomo dal temperamento felice e giocoso, che vive in un paese artificiale ove attori e quinte sono fatti dello stesso cartone; ma regna da padrone nel suo regno di parate e di balocchi. Il dubbio, che è oggi nel mondo morale la causa prima di tutte le affezioni morbose, e le cui devastazioni sono più grandi che mai, dipende da cause maggiori che mi propongo di esaminare nel penultimo capitolo, sotto il titolo Delle scuole e degli operai. Il dubbio ha generato l’eclettismo, perché solo negli uomini del dubbio era il buon volere della salvazione. In ogni tempo, l’eclettismo si è sempre creduto superiore alle dottrine del passato, perché essendo l’ultimo venuto poteva ripercorrere gli orizzonti piú lontani. Ma proprio questa imparzialità dimostra l’impotenza degli eclettici. Gli uomini che con tanta larghezza si concedono alla riflessione, non sono esseri completi: gli manca una passione. Gli eclettici non hanno pensato che l’attenzione umana è tanto più intensa quanto piú si restringe e circoscrive da se stessa il proprio campo di osservazione. Un abbraccio troppo ampio non stringe nulla. Sono le arti quelle dove l’eclettismo ha avuto le conseguenze piú manifeste e tangibili, in quanto l’arte, per essere profonda, esige una idealizzazione costante che non si ottiene se non in virtú del sacrificio, – ed è un sacrificio involontario. Per quanto possa essere abile, un eclettico è un uomo debole; poiché egli è senza amore. Non ha quindi un ideale né un’intenzione risoluta: né stella né bussola. Egli mette insieme quattro procedimenti diversi che producono solo un effetto nero, una negazione. È un bastimento che si vorrebbe sospinto da quattro venti.

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Ma un’opera realizzata da un punto di vista esclusivo, con tutti i suoi difetti, esercita sempre un fascino acuto su chi ha una natura simile a quella dell’artista. L’opera di un eclettico non lascia invece memoria. Un eclettico non sa che compito principale di un artista è quello di sostituire l’uomo alla natura e di portare una protesta contro di essa. Non è una protesta calcolata, fredda, come un codice o una retorica, ma è violenta e istintiva, come il vizio, la passione, il desiderio. Per questo un eclettico non è un uomo. Il dubbio ha spinto alcuni artisti a invocare l’ausilio delle altre arti. Gli esperimenti di mezzi contraddittori, l’inserto di un’arte in un’altra, l’immissione della poesia, dello spirito e del sentimento nella pittura, tutte queste miserie moderne costituiscono i difetti propri degli eclettici.

xiii Di Ary Scheffer e delle scimmie del sentimento Un esempio disastroso di tale metodo, se cosí si può chiamare l’assenza di metodo, è Ary Scheffer. Dopo avere imitato Delacroix e avere scimiottato i coloristi, i disegnatori francesi e la scuola neo-cristiana di Overbeck, Ary Scheffer si rese conto, – certo un po’ tardi, – di non essere nato pittore. Da allora dovette ricorrere ad altri mezzi; e chiese aiuto e tutela alla poesia. Ma è un errore ridicolo per due ragioni: per cominciare la poesia non è il fine immediato del pittore; e quando essa viene a mescolarsi con la pittura, l’opera, certo, acquista maggior valore, ma non può celarne le debolezze. Cercare la poesia preordinata nella conce-

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zione di un quadro è il mezzo piú sicuro per non trovarla. Essa deve emergere all’insaputa dell’artista, come risultato della pittura stessa, in quanto risiede nell’anima dello spettatore, e il genio consiste nel risvegliarla. La pittura interessa solo per il colore e la forma, e non somiglia alla poesia se non in quanto la poesia suscita nel lettore idee di pittura. In secondo luogo, ed è una conseguenza di quanto si è detto, va notato che i grandi artisti, sotto la guida infallibile del loro istinto, hanno tratto dai poeti solo soggetti di colori molto vivaci e appariscenti. E cosí preferiscono Shakespeare all’Ariosto. Ora, volendo scegliere un esempio clamoroso della stupidità di Ary Scheffer, si esamini il soggetto del quadro che ha per titolo Saint Augustin et sainte Monique [Sant’Agostino, e santa Monica]. Un onesto pittore spagnolo avrebbe naturalmente, assistito dalla duplice devozione dell’arte e della religione, dipinto come meglio poteva l’idea generale che si era fatta di sant’Agostino e di santa Monica. Ma qui il caso è diverso; giacché si deve soprattutto esprimere, – con pennelli e colori – il testo seguente: «Cercavamo tra noi quale potrà essere questa vita eterna che l’occhio non ha visto e l’orecchio non ha inteso, dove non giunge il cuore dell’uomo!» È il colmo dell’assurdo. Sembra di vedere un ballerino che esegua un assioma matematico! In altri tempi, il pubblico aveva qualche simpatia per Ary Scheffer; nei suoi quadri poetici ritrovava i ricordi più cari dei grandi poeti, e questo gli bastava. Il successo effimero di Ary Scheffer fu un omaggio alla memoria di Goethe. Ma gli artisti, anche quelli che non vanno oltre un’originalità mediocre, da anni vengono mostrando al pubblico una pittura vera, eseguita con mano sicura e secondo le regole piú semplici dell’arte: cosí è accaduto che a poco a poco gli spettatori si siano stancati della pittura invisibile, ed oggi nei riguardi di Scheffer si mostra-

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no crudeli e ingrati, come ogni pubblico. E, accidenti, non gli si può dar torto. D’altro canto, la sua pittura è cosí infelice, cosí triste, indecisa e sporca, che molti hanno scambiato i quadri di Ary Scheffer con quelli di Henry Scheffer, un altro Girondino dell’arte. Quanto a me, essi mi fanno l’effetto delle tele di Delaroche, dilavate dagli acquazzoni. Un metodo semplice per conoscere la misura di un artista sta nell’esaminare il suo pubblico. E. Delacroix può contare sui pittori e i poeti; Decamps, sui pittori; Horace Vernet sui militari delle caserme, e Ary Scheffer, sulle donne estetiche, che si vendicano delle loro perdite bianche dandosi alla musica religiosa29. Le scimmie del sentimento sono, in genere, pessimi artisti. Se non fosse cosí, farebbero qualcosa di diverso dal sentimento. I piú validi tra loro sono quelli che intendono solo il piacevole. E siccome il sentimento è cosa infinitamente variabile e molteplice, al pari della moda, vi sono scimmie sentimentali di vario genere. La scimmia del sentimento punta soprattutto sul catalogo. Si tenga presente che il titolo del quadro non ne spiega mai il soggetto, massime in quei pittori che, con un gradevole amalgama di orrori, mescolano il sentimento allo spirito. Allargando il metodo, si può allora giungere al rebus sentimentale. A modo di esempio, quando si legge nel catalogo: Pauvre fileuse! [Povera filatrice!], può darsi benissimo che il quadro rappresenti la femmina di un baco da seta o di un bruco schiacciato da un bambino. L’infanzia è spietata. Aujourd’hui et demain [Oggi e domani]. – Che cos’è mai? Forse la bandiera bianca e il tricolore; forse anche un deputato eletto e poi trombato. No, – si tratta di una

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vergine promossa al rango di cortigiana, – che si trastulla con i gioielli e le rose, e che adesso, avvizzita ed emaciata, soffre sulla paglia le conseguenze della sua leggerezza. L’Indiscret [L’Indiscreto]. – Vi prego di cercare. – Ecco la rappresentazione di un signore mentre sorprende un album libertino tra le mani di due fanciulle che arrossiscono. L’ultimo della serie rientra nella categoria dei quadri di sentimento stile Luigi XV, che, a quanto credo, si sono infilati nel Salon sulla scia de La Permission de dix heures [Il Permesso delle dieci]30. Come si vede, siamo a un tutt’altro ordine di sentimenti: meno mistici. Di norma, i quadri sentimentali sono ricavati dalle ultime poesie di un mezzacalza qualsiasi, sul genere malinconico e lugubre; oppure sono una traduzione pittorica dei piagnistei del povero contro il ricco, sul genere recriminatorio; o infine vengono mutuati dalla saggezza dei popoli, sul genere spirituale; ricorrendo qualche volta ai testi di Bouilly, o di Bernardin de Saint-Pierre, ed è il genere moralistico. Ma ritorniamo intanto a qualche esempio di quadro sentimentale: L’Amour à la campagne [L’Amore in campagna], piacere, tranquillità, riposo, e L’Amour à la ville [L’Amore in città], grida, disordine, sedie e libri rovesciati: una metafisica alla portata dei semplici. La Vie d’une jeune fille en quatre compartiments [La Vita di una fanciulla in quattro riquadri]. – Avvertimento per le donne che hanno un’inclinazione alla maternità. L’Aumône d’une vierge folle [L’Elemosina di una vergine folle]. – La ragazza da un soldo guadagnato col sudore della fronte al solito savoiardo che monta la guardia all’entrata di Felix31. Dentro, i ricchi del momento si rimpinzano di ghiottonerie. – Tutto questo proviene chiaramente dalla letteratura Marion

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Delorme32, che consiste nel predicare le virtù degli assassini e delle prostitute. Che uomini d’ingegno sono i francesi e come si danno da fare per credere l’incredibile! Libri, quadri, romanze, niente è inutile, nessun mezzo è lasciato cadere da questo popolo pieno di fascino, allorché ha bisogno d’inventarsi delle panzane.

xiv Di alcuni dubbiosi Il dubbio assume un’infinità di forme: un Proteo che il più delle volte non conosce se stesso. Cosí gli uomini del dubbio variano all’infinito, obbligandomi a mettere nello stesso fascio individui diversi che non hanno in comune che l’assenza di un’individualità ben definita. Ve ne sono di seri e pieni di tanta buona volontà: sono proprio da compiangere. Cosí Papety, che taluni, specie gli amici, al suo ritorno da Roma avevano preso per un colorista, ha composto un quadro di aspetto orridamente spiacevole, – Solon dictant ses lois [Solone in atto di dettare le leggi]; – e che ricorda, – forse perché collocato troppo in alto perché se ne possano studiare i particolari, – l’appendice grottesca della scuola imperiale. Sono ormai due anni che Papety presenta nello stesso Salon quadri di un tenore radicalmente diverso. Glaize compromette i suoi esordi con opere di uno stile comune e di una composizione confusa. Ogniqualvolta deve fare qualcosa che non sia uno studio di donna, finisce per perdersi. Egli crede che si possa divenire coloristi attraverso la scelta esclusiva di certi toni. Anche i commessi vetrinisti e i costumisti teatrali hanno

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l’amore dei toni ricchi; ma ciò no basta a creare il gusto dell’armonia. In Le Sang de Vénus [Il Sangue di Venere], la Venere è piacevole, delicata e di giusta movenza; la ninfa accovacciata che le sta di fronte è invece di un banale orrendo. Le stesse riserve circa il colore si possono muovere a Matout. Bisogna poi aggiungere che un artista il quale si è presentato in passato come disegnatore, e il cui ingegno si applicava soprattutto alla concertata armonia delle linee, deve evitare di dare a una figura movenze di collo e di braccia improbabili. Se la natura lo impone, il pittore idealista, che voglia essere fedele ai propri principî, non deve aderire al suo invito. Chenavard è un artista oltremodo sapiente e meticoloso, del quale si è notato, qualche anno fa, Le Martyre de saint Polycarpe [Il Martirio di san Policarpo], dipinto in collaborazione con Comairas. Il quadro rivelava una vera scienza della composizione, e una approfondita conoscenza di tutti i maestri italiani. Anche quest’anno, Chenavard ha dato prova di gusto nella scelta del soggetto e di abilità nel disegno; ma quando ci si misura con Michelangelo, non sarebbe opportuno fare meglio almeno nel colore? Guignet si porta costantemente due uomini in testa, Salvator Rosa e Decamps. Salvator Guignet dipinge al nero di seppia. Guignet Decamps è un’entità a cui la dualità sottrae qualcosa. – Les Condottières après un pillage [I Condottieri dopo un saccheggio] sono eseguiti secondo la prima maniera; Xerxès [Serse] si avvicina alla seconda. – D’altro canto, il quadro è composto abbastanza bene, se non fosse per il gusto dell’erudizione e della curiosità, che imbarazza e diverte lo spettatore distogliendolo dal pensiero principale; era lo stesso difetto dei Pharaons [Faraoni].

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Brune e Gigoux sono ormai delle vecchie affermate conoscenze. Persino ai suoi tempi buoni, Gigoux non è stato che un illustratore di buon respiro. Dopo numerosi insuccessi, ci ha fatto vedere alla fine un quadro che, se non è originalissimo, ha perlomeno una sua bellezza di lineamento. Le Mariage de la sainte Vierge [Il Matrimonio della Vergine] sembra l’opera di uno di quei tanti maestri della decadenza fiorentina, preso all’improvviso dal problema del colore. Brune ricorda i Carracci e i pittori eclettici del secondo periodo: una maniera solida, ma quasi senza vita; – nessun difetto vistoso, senza d’altro canto alcuna qualità grande. Se vi sono pittori dubbiosi che suscitano interesse, ve ne sono anche di grotteschi che il pubblico rivede ogni anno con la gioia maligna, propria dei perdigiorno annoiati a cui il brutto in eccesso procura qualche momento di distrazione. Bard, l’uomo dalle follie fredde, sembra decisamente soccombere sotto il peso che si era imposto. Torna di tanto in tanto alla sua maniera naturale, che è quella di tutti. Mi è stato detto che l’autore de La Barque de Caron [La Barca di Caronte] sia stato allievo di Horace Vernet. Biard è un uomo universale. Il che sembrerebbe indicare che egli non dubita di niente al mondo, e che nessuno piú di lui è sicuro di quel che fa; ma si noti che in questa orrifica produzione, – quadri storici, quadri di viaggi, quadri di sentimento, quadri spirituali, – manca un genere. Biard ha fatto marcia indietro dinanzi al quadro sacro. Non è ancora abbastanza convinto della sua validità.

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xv Del paesaggio Nel paesaggio, come nel ritratto e nel quadro storico, si possono fare talune classificazioni sulla base dei diversi metodi: vi sono paesaggisti coloristi, paesaggisti disegnatori e immaginativi; naturalisti che idealizzano senza saperlo, e fanatici del banale, che si dedicano a un genere particolare e strano, chiamato paesaggio storico. Al tempo della rivoluzione romantica, i paesaggisti, sull’esempio dei piú celebri Fiamminghi, si dedicarono unicamente allo studio della natura; e fu questo a salvarli, a conferire un particolare splendore alla scuola del paesaggio moderno. La loro abilità consisteva soprattutto in un’adorazione senza limiti dell’opera visibile, sotto tutti i suoi aspetti e in ogni suo particolare. Più filosofi e intellettuali, altri attesero soprattutto allo stile, cioè all’armonia delle linee fondamentali, all’architettonica della natura. Quanto al paesaggio di fantasia, che è l’espressione dell’immaginativa umana, l’egoismo dell’uomo che si sostituisce alla natura, esso ricevette poca attenzione. Questo genere inconfondibile, di cui Rembrandt, Rubens, Watteau, e alcuni libri di strenne inglesi forniscono i piú cospicui esempi, e che è in piccolo l’analogo delle stupende decorazioni dell’Opéra, rappresenta il bisogno naturale del meraviglioso. È l’immaginazione del disegno introdotta nel paesaggio: giardini favolosi, orizzonti immensi, corsi d’acqua piú limpidi di quelli veri, che scorrono contro le leggi della topografia, rocce gigantesche costruite in proporzioni ideali, nebbie fluttuanti come un sogno. Il paesaggio di fantasia, o perché era un prodotto poco francese, o perché la scuola aveva anzitutto bisogno di ritemprarsi alle sorgenti puramente naturali, ha avuto da noi pochi cultori.

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Circa il paesaggio storico, di cui voglio dire qualche parola a mo’ d’ufficio funebre, esso non è né la libera fantasia, né la mirabile soggezione dei naturalisti, giacché è la morale applicata alla natura. Quale mostruosità e contraddizione! La natura non ha altra etica che il fatto, in quanto è essa stessa l’etica; e nondimeno il problema è di ricostruirla e ordinarla secondo regole piú sane e piú pure, che non si trovano nel mero entusiasmo dell’ideale, ma in codici bizzarri che gli iniziati nascondono a tutti. Cosí la tragedia, – un genere dimenticato dagli uomini, e di cui si ritrova qualche segno superstite solo alla Comédie-Française, il teatro piú deserto del mondo, – la tragedia consiste nel ritagliare alcuni modelli eterni, che sono l’amore, l’odio, l’amore filiale, l’ambizione, ecc., e, sospendendoli a dei fili, farli camminare, salutare, sedere e parlare secondo un protocollo misterioso e sacro. Mai, nemmeno a forza di cunei e martelli, farete entrare nel cervello di un poeta tragico l’idea dell’infinita varietà, e neanche se lo percuotete o lo ammazzate, vi riuscirà di persuaderlo che ci vogliono morali diverse. Avete mai visto dei personaggi tragici che mangiano e bevono? È evidente che costoro si sono costruiti la morale a fronte dei bisogni naturali e si sono creati il proprio temperamento, laddove la maggior parte degli uomini si trova a subirlo. Ho sentito dire da un poeta che ha il suo posto alla Comédie-Française che i romanzi di Balzac gli davano una stretta al cuore e gli provocavano disgusto; e che, per parte sua, non concepiva come degli innamorati potessero vivere d’altro se non del profumo dei fiori e delle lacrime dell’aurora. Sarebbe tempo, credo, che intervenisse a questo punto il governo; in quanto se gli uomini di lettere, che, ognuno con il suo ideale e il suo lavoro, e per i quali non esiste la domenica, sfuggono per natura alla tragedia, vi è un certo numero di persone a cui si è fatto credere che

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la Comedie-Française era il santuario dell’arte, che nella loro commovente buona volontà risultano truffati un giorno su sette. Non è forse ingiusto permettere ad alcuni cittadini di abbrutirsi e di covare idee false? Ma sembra che la tragedia e il paesaggio storico siano piú forti degli Dei. Ora si può capire che cosa sia un buon paesaggio tragico. È una manipolazione di modelli d’alberi, fontane, tombe e urne cinerarie. I cani sono ritagliati su un certo modello di cane storico; un pastore storico non può concedersene altri se non vuole essere disonorato. Ogni albero immorale che si è permesso di crescere da solo e a modo suo viene immancabilmente abbattuto; ogni stagno di rospi o girini viene prosciugato senza pietà. I paesaggisti storici che provano dei rimorsi per qualche peccato naturale di poco conto, s’immaginano l’inferno sotto forma di un paesaggio vero, di un cielo puro e di una natura libera e ricca: una savana o una foresta vergine, per fare un esempio. Paul Flandrin, Desgoffe, Chevandier e Teytaud sono quelli che hanno assunto il carico glorioso di lottare contro il gusto di una nazione. Ignoro quale sia l’origine del paesaggio storico. Ma è certo che non va ricercata in Poussin, il quale, agli occhi di costoro, è uno spirito pervertito e degenerato. Aligny, Corot e Cabat hanno cura grande dello stile. Ma ciò che in Aligny è una premeditazione violenta e filosofica, diventa in Corot un’abitudine spontanea, un gesto naturale dell’intelletto. È un peccato che quest’anno Corot abbia esposto unicamente un paesaggio con alcune vacche che vanno ad abbeverarsi presso uno stagno nella foresta di Fontainebleau. Ma Corot è più un armonista che un colorista; e le sue composizioni, lontane da ogni pedanteria, hanno un aspetto che seduce per la stessa semplicità del colore. In quasi tutte le sue

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opere è il dono particolare dell’unità, di cui ha sempre bisogno la memoria. Aligny ha inciso all’acquaforte alcune vedute bellissime di Corinto e di Atene, che esprimono perfettamente l’idea corrente di questi soggetti. Del resto, quegli armoniosi poemi di pietra si adattavano benissimo al talento serio e idealista di Aligny, non meno che al metodo usato per trasporli. Cabat ha abbandonato del tutto la via nella quale aveva raggiunto un prestigio cosí notevole. Senza associarsi alle fanfaronate tipiche di certi paesaggisti naturalisti, egli era in passato molto più spontaneo e brillante. Ma è davvero fuori strada quando non si fida più della natura, come una volta. Cabat è artista di un talento troppo grande perché ogni sua composizione non abbia un carattere speciale; ma questo giansenismo dell’ultima ora, questa riduzione di mezzi, questa privazione volontaria, non aggiungono nulla alla sua gloria. In genere, l’influenza di Ingres non può produrre nel paesaggio risultati positivi. La linea e lo stile non sostituiscono la luce, l’ombra, i riflessi e l’atmosfera cromatica, – elementi tutti che sostengono una parte troppo importante nella poesia della natura perché questa si sottometta a tale metodo. Nella fazione contraria, i naturalisti e i coloristi, sono di gran lunga piú popolari e hanno suscitato molto più scalpore. Un colore ricco e copioso, cieli tersi e luminosi, una sincerità particolare che gli fa accettare tutto ciò che viene dalla natura, costituiscono le loro qualità principali: solo che alcuni di essi, come Troyon, si compiacciono oltre misura nei giochi e nelle piroette del pennello. Conosciuti sempre in anticipo, e acquisiti laboriosamente, finendo poi in un monotono trionfo, questi espedienti interessano a volte lo spettatore più dello stesso paesaggio. Accade allora persino che un allievo imprevisto, come Charles Le Roux, spinga ancora piú

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oltre la sicurezza e l’audacia; giacché vi è solo una cosa inimitabile: la cordiale semplicità. Coignard ha dipinto un grande paesaggio di una bella figuratività, che ha suscitato molto interesse nel pubblico; – in primo piano, un branco di vacche, e sullo sfondo, gli inizi di una foresta. Gli animali hanno una loro bellezza e risultano ben dipinti, l’insieme del quadro mostra una buona tenuta; ma, a mio avviso, gli alberi non sono abbastanza robusti da sopportare un cielo di quel genere. Viene da supporre che se si sopprimessero le vacche, il paesaggio diverrebbe veramente brutto. Français è uno dei paesaggisti più notevoli. Sa studiare la natura e infondervi un profumo romantico di buona tempera. La sua Étude de Saint-Cloud [Studio di Saint-Cloud] è una cosa deliziosa e piena di gusto se si tolgono le pulci di Meissonier che sono invece un errore di gusto e richiamano troppo l’attenzione come un divertimento per gli sciocchi. Del resto sono dipinte con quella particolare perfezione che l’artista pone in tutte queste minuzie33. Flers purtroppo ha mandato solo pastelli. Una perdita, sia per lui che per il pubblico. Heroult è di quei pittori che hanno soprattutto il problema della luce e dell’atmosfera. Egli sa rendere assai bene i cieli chiari e ridenti e le mobili brume squarciate da un raggio di sole. Nulla gli è ignoto della poesia che nasce dai paesi nordici. Ma il suo colore, alquanto molle e fluido, risente la pratica dell’acquarello: così, mentre ha saputo evitare le spavalderie degli altri paesaggisti, egli non sempre peraltro possiede una fermezza di tocco conveniente. Joyant, Chacaton, Lottier e Borget vanno in genere a cercare i propri soggetti nei paesi lontani, e i loro quadri hanno il fascino delle letture di viaggi.

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Non sono contrario agli specialismi: ma non vorrei però che se ne abusasse come fa Joyant, il quale non è mai uscito da Piazza San Marco, né ha mai oltrepassato il Lido. Se la specialità di Joyant richiama l’attenzione piú di altre, si deve certo alla perfezione monotona che vi infonde, e che nasce sempre dagli stessi procedimenti. Ho l’impressione che Joyant non sia riuscito mai a fare progressi. Borget ha varcato le frontiere della Cina, e ci ha ammannito paesaggi messicani, peruviani e indiani. Senza essere un pittore di prim’ordine, egli dispone tuttavia di un colore brillante e facile. I suoi toni sono freschi e puri. Con minor arte, e pensando meno ai paesaggisti e dipingendo di piú da viaggiatore, Borget otterrebbe forse risultati più interessanti. Chacaton, che si è votato esclusivamente all’Oriente, è da un pezzo un pittore dei piú abili con quadri allegri e luminosi. Peccato però che sembrino quasi sempre dei Decamps e dei Marilhat ridotti e sbiaditi. Lottier, anziché cercare il grigio e la nebbia dei climi caldi, preferisce rilevarne la crudezza e lo sfavillio incandescente. I suoi panorami inondati di sole sono di una verità mirabilmente crudele. Si direbbero fatti col dagherrotipo del colore. Vi è un artista che, piú di tutti costoro, e anche degli assenti piú famosi, soddisfa, a mio giudizio, le condizioni del bello nel paesaggio, un artista poco noto al grande pubblico, e che antichi insuccessi e sorde angherie hanno tenuto lontano dal Salon. Sarebbe tempo, mi sembra, che Rousseau, – si è già intuito che mi riferisco proprio a lui, – si presentasse di nuovo al pubblico, ora che altri paesaggisti lo hanno a poco a poco abituato a nuove forme. È difficile far intendere attraverso le parole il talento di Rousseau come quello di Delacroix, col quale egli ha d’altra parte piú di un rapporto. Rousseau è un pae-

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saggista nordico. La sua pittura emana una profonda malinconia. Ama le campagne dominate dall’azzurro, i crepuscoli, i tramonti strani e umidi, le grandi piante tra cui si stendono le brezze, i giochi vasti di ombre e di luce. Il suo colore è splendido, ma non squillante. I suoi cieli sono unici per la loro mollezza lanosa. Se si prendono certi paesaggi di Rubens e di Rembrandt, e vi si innesta qualche reminiscenza di pittura inglese, immaginando che unifichi e armonizzi tutto questo un amore serio e profondo della natura, si riesce ad avere forse un’idea della magia di questi quadri. In essi Rousseau trasferisce molta parte della sua anima, allo stesso modo di Delacroix, da naturalista che sente il richiamo costante dell’ideale. Gudin compromette sempre di piú la sua fama. Man mano che il pubblico fa esperienza di buona pittura, si distacca dagli artisti piú popolari, quando essi non possono piú dargli la stessa dose di piacere. Senonché Gudin appartiene alla categoria di coloro che ricoprono le proprie ferite con una carne artificiale, alla schiera dei cattivi cantanti di cui si dice che sono dei grandi attori, e dei pittori poetici. Jules Noël ha dipinto una bellissima marina, di un colore chiaro e stupendo, raggiante e festoso. Una grande feluca, strana di forme e di colori, posa all’ancora in un grande porto, dove si accoglie e si muove tutta la luce dell’Oriente, forse con un eccesso di coloritura e un difetto di unita. – Ma Jules Noël ha certamente troppo talento per non averne ancora di piú, ed è senza dubbio uno di quelli che si propongono di progredire ogni giorno. – D’altronde, il successo che riscuote la sua tela dimostra che, in tutti i generi, il pubblico oggi è pronto a fare buona accoglienza a ogni nome nuovo. Kiörboë è uno di quei vecchi e fastosi pittori che sapevano decorare cosí magistralmente le nobili sale da

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pranzo, che immaginiamo gremite di cacciatori affamati e superbi. La pittura di Kiörboë è gioiosa e possente, il suo colore fluido e armonioso. – Il dramma del Piège à loup [La tagliola per i lupi] non si capisce tanto facilmente, forse perché la tagliola non è interamente in luce. E la parte posteriore del cane che arretra abbaiando non è dipinta con adeguato vigore. Saint-Jean, che fa le delizie e la gloria, dicono, della città di Lione, non otterrà mai se non un mediocre successo in un paese di pittori. La sua minuzia eccessiva è di una pedanteria esagerata. – Ogni qualvolta vi parleranno della spontaneità di un pittore lionese, non lasciatevi ingannare. – Da un pezzo il colore generale dei quadri di Saint-Jean è giallo e piscioso. Si direbbe che Saint-Jean non ha mai visto dei frutti veri, e che non se ne preoccupa, perché li fa molto meglio a macchina: non soltanto i frutti della natura hanno un altro aspetto, ma sono anche meno rifiniti e meno elaborati dei suoi. Non è questo il caso di Arondel, il cui merito principale è una onesta e autentica spontaneità. Nondimeno la sua pittura contiene qualche difetto evidente; senonché le parti felici sono perfettamente riuscite; altre sono troppo scure, da far pensare che l’autore non si renda conto, quando dipinge, di tutti gli inevitabili inconvenienti del Salon, dalla pittura circostante, alla distanza dello spettatore, e alla modificazione nel reciproco effetto dei toni a causa di tale distanza. Per di più, non basta dipingere bene. Tutti quei fiamminghi cosí famosi sapevano disporre la selvaggina e lavorarci sopra a lungo come si lavora un modello; il punto era di trovare linee felici e armonie di toni ricche e chiare. P. Rousseau, del quale si sono notati piú volte i quadri coloratissimi e sfarzosi, è veramente cresciuto. Era un eccellente pittore, non vi ha dubbio; ma adesso guarda la natura con maggiore attenzione, e si studia di rendere le fisionomie. Ho visto di recente, da Durand-

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Ruel, alcune anatre di Rousseau di una stupenda bellezza, proprio con i caratteri e gli atteggiamenti di questi volatili.

xvi Perché la scultura è noiosa L’origine della scultura si perde nella notte dei tempi; questo ne fa un’arte da Caraibi. Infatti, vediamo che tutti i popoli erano abilissimi nell’intagliare feticci assai prima di accostarsi alla pittura, la quale e un’arte di ragionamento profondo, il cui godimento richiede per sé un’iniziazione particolare. La scultura si avvicina assai piú alla natura, e per questo anche i nostri contadini, mentre provano piacere alla vista di un pezzo di legno o di pietra ingegnosamente tornito, restano poi istupiditi davanti alla pittura piú bella. È uno strano mistero inafferrabile alla mano. La scultura presenta varie difficoltà che derivano per una logica necessaria dai suoi mezzi di esecuzione. Brutale e positiva al pari della natura, essa è insieme vaga e intangibile, in quanto mostra troppe facce in una volta. Invano lo scultore si sforza di porsi da un punto di vista unico; girando attorno alla figura, lo spettatore può scegliere cento punti di vista differenti, meno quello buono, e accade spesso, cosa umiliante per l’artista, che un movimento di luce, un effetto di lume, rivelino una bellezza diversa da quella a cui egli aveva pensato. Un quadro è solo e unicamente ciò che vuole essere; non è possibile guardarlo se non nella sua luce. La pittura ha un solo punto di vista, esclusiva e dispotica: e per questo l’espressione pittorica è tanto piú forte. Ecco perché è cosí difficile intendersi di scultura quanto farla malamente. Ho sentito dire da Préault, lo

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scultore: «Capisco Michelangelo, Jean Goujon, Germain Pilon; ma di scultura non ci capisco niente». – È chiaro che egli voleva parlare della scultura degli scalpellatori, quella che usiamo dire dei Caraibi. Uscita dai tempi primitivi, la scultura, nel suo più rigoglioso sviluppo, altro non è che un’arte complementare. Non si chiede più di sbozzare ingegnosamente delle figure che si possono spostare, ma di associarsi con umiltà alla pittura e all’architettura, e assecondare le loro intenzioni. Le cattedrali s’innalzano verso il cielo, e colmano le infinite profondità dei propri abissi con sculture che fanno carne e corpo col monumento; – sculture dipinte, si noti bene, – i cui colori puri e semplici, ma distribuiti in una gamma tutta particolare, si armonizzano col resto completando l’effetto poetico dell’opera sovrana. Versailles accoglie il suo popolo di statue sotto le ombre che le fanno da sfondo, o sotto boschetti d’acque vive che riversano su di esse i mille diamanti della luce. In tutte le grandi epoche, la scultura è un complemento; al principio e alla fine, è un’arte isolata. Non appena la scultura si fa guardare da vicino, non vi sono minuzie né inezie a cui lo scultore non si conceda, le quali vincono largamente il confronto con tutti i calumè e i feticci. Da quando è divenuta un’arte da salotto e da camera da letto, si vedono farsi avanti i Caraibi del merletto, come Gayrard, e i Caraibi della ruga, del pelo e della verruca, come David. Poi ecco i Caraibi dell’alare, della pendola, del calamaio, ecc., come Cumberworth, la cui Marie è una donna tutto fare, al Louvre e da Susse34, statua o candelabro; – come Feuchère, che possiede il dono di una disperante universalità: figure colossali, portafiammiferi, motivi di oreficeria, busti e bassorilievi, quello è capace di tutto. – Il busto che ha scolpito quest’anno di un attore assai noto non è piú somigliante di quello dell’anno scorso; siamo sempre nel campo delle approssi-

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mazioni. L’uno somigliava a Gesù Cristo e l’altro, ora, secco e meschino, non rende affatto la fisionomia originale, angolosa, beffarda e mutevole del modello. – D’altro canto, non è da credere che a questi scultori faccia difetto la sapienza. Sono eruditi come degli autori di operette e degli accademici; e si giovano di tutte le epoche e di tutti i generi, essendo versati in tutte le scuole. Trasformerebbero volentieri le tombe di Saint-Denis in scatole per sigari o per cachemire, e tutti i bronzi fiorentini in monete da due soldi. Ma chi volesse avere piú ampi ragguagli sui principî di questa scuola ilare e sfarfallona, dovrebbe rivolgersi a Klagmann, il quale è, credo, il maestro di questo laboratorio sterminato. La prova più lampante dello stato pietoso della scultura, è che ne esce sovrano il Pradier. Costui in ogni caso sa fare la carne, e possiede delicatezze particolari di cesello; ma non l’immaginazione necessaria alle grandi composizioni, né la fantasia del disegno. Pradier è un talento freddo e accademico. Ha passato la vita a impinguare torsi antichi, e a sistemarvi sul collo pettinature da mantenute. La Poesie légère [La Poesia leggera] sembra tanto più fredda quanto piú è manierata; ma l’esecuzione non è cosí doviziosa come nelle prime sue opere, e da tergo, è uno spavento da vedere. Pradier ha eseguito inoltre due figure di bronzo – Anacreon [Anacreontel e la Sagesse [Sapienza] –, che sono imitazioni impudenti dell’antico, a prova che senza questa nobile stampella il nostro scultore incespicherebbe ad ogni passo. Il busto è un genere che richiede minore immaginazione e facoltà meno alte della grande scultura, ma non già meno delicate. È un’arte più intima e riposta, con un successo di un’evidenza meno pubblica. Come accade nel ritratto condotto alla maniera dei naturalisti, occorre comprendere perfettamente il carattere primario del modello ed esprimerne la poesia, dal momento che sono pochi i modelli che ne siano del tutto privi.

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Quasi tutti i busti di Dantan sono eseguiti secondo i migliori precetti, con un timbro singolare, dove il particolare non esclude un’esecuzione ampia e agevole. Il primo difetto di Lenglet, invece, è una certa timidezza, un’ingenuità, una sincerità fuor di misura nel lavoro, che da alla sua opera un’apparenza di secchezza; ma, in compenso, è impossibile prestare a una figura umana un carattere piú autentico e vero. Questo piccolo busto, raccolto, severo e accigliato, ha il tratto superbo delle grandi opere romane, l’idealizzazione conseguita nella stessa natura. Aggiungo che nel busto di Lenglet si riconosce un altro segno tipico delle figure antiche, vale a dire un’attenzione profonda.

xvii Delle scuole e degli operai Avete mai provato, voi che con la vostra curiosità da perdigiorno vi siete spesso cacciati in una sommossa, la stessa mia gioia nel vedere un tutore della pubblica quiete, – vigile o guardia, quelli del vero esercito, – picchiare un repubblicano? E al pari di me, vi siete detti fra voi: «Picchia, picchia un po’ piú forte, picchia ancora, guardia del mio cuore; perché in questa picchiatura divina, io ti adoro e ti giudico simile a Giove, il grande giustiziere. L’uomo che picchi è un nemico delle rose e dei profumi, un fanatico degli utensili: un nemico di Watteau, un avversario di Raffaello, un nemico accanito del lusso, delle arti e delle lettere, un iconoclasta giurato, carnefice di Venere e di Apollo! Non vuole più lavorare, lui, umile, anonimo operaio, alle rose e ai profumi di tutti; vuole essere libero, l’ignorante, ed è incapace di impiantare un laboratorio di fiori e di nuove essenze. Picchia di santa religione sulle scapole dell’anarchico35!»

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Cosí, i filosofi e i critici devono percuotere senza pietà le scimmie artistiche, operai emancipati che odiano la forza e la sovranità del genio. Si confronti il presente con il passato; e uscendo dal Salon o da una chiesa decorata di fresco, si vada a riposare gli occhi in un museo antico per considerarne subito le differenze. Da una parte, disordine, mesci-mesci di stili e di colori, cacofonia di toni, trivialità smisurate, una prosa di gesti e di atteggiamenti, una nobiltà di convenzione, banalità allineate di ogni sorta, e tutto questo chiaro e visibile, non soltanto nei quadri che si succedono via via, ma persino dentro lo stesso quadro: in poche parole, – un’assenza completa di unità, col risultato di una fatica spaventosa per la mente e per gli occhi. Dall’altra, invece, il rispetto che fa togliere il berretto ai bambini, e ti prende il cuore, come la polvere delle tombe e dei sotterranei prende alla gola, è l’effetto, non della vernice ingiallita e della patina del tempo, ma dell’unità, di una unità profonda. Una grande pittura veneziana stona meno accanto a un Giulio Romano, di quanto non accada a certi nostri quadri, e non dei peggiori, quando figurano l’uno accanto all’altro. Questa magnificenza di costumi, questa nobiltà di gesti, una nobiltà spesso manierata, ma grande e altera, questa assenza di espedienti e di procedimenti contraddittori, sono tutte qualità implicite in una parola: la grande tradizione. Alle scuole si contrappongono cosí gli operai emancipati. Vi erano ancora delle scuole sotto Luigi XV, e ve n’era una sotto l’Impero, – una scuola, come dire una fede, ossia l’impossibilità del dubbio. Vi erano allievi legati da principî comuni, che obbedivano a un capo che dettava legge e lo aiutavano sempre nei suoi lavori.

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Il dubbio, l’assenza di fede e di ingenuità, è un vizio proprio di questo secolo in cui nessuno obbedisce; e l’ingenuità, per cui il temperamento prevale sulla maniera, è un privilegio divino negato a quasi tutti. Pochi sono gli uomini che hanno il diritto di regnare, giacché sono pochi gli uomini con una grande passione. E siccome oggi tutti vogliono regnare, nessuno sa governarsi. Oggi che ognuno è lasciato a se stesso, un maestro si trova ad avere molti allievi sconosciuti di cui non è responsabile, e il suo dominio, inconsapevole e involontario, si estende molto al di là della sua bottega, sino a regioni dove il suo pensiero non può essere compreso. Coloro che sono più vicini alla parola e al verbo del maestro conservano la purezza della dottrina, e fanno, per obbedienza e per tradizione, ciò che il maestro fa per il destino della sua struttura mentale. Ma al di fuori di questa cerchia familiare, si forma una vasta comunità di mediocri, scimmie di razze diverse e incrociate, popolo fluttuante di meticci che passano ogni giorno da un paese all’altro, arraffando da ogni parte gli usi che gli tornano comodi, e cercando di formarsi un carattere con un sistema di imprestiti contraddittori. Vi sono di quelli che ruberanno un frammento di un quadro di Rembrandt, e lo mescoleranno a un’opera composta secondo un significato diverso senza modificarlo, senza digerirlo e senza trovare il mastice per incollarlo. Ve ne sono che cambiano in poche ore dal bianco al nero: ieri, coloristi di chic, coloristi senza amore né originalità; domani, empi imitatori di Ingres, senza trovarvi più gusto né fede. Chi rientra oggi nella classe delle scimmie, anche se abilissimo, non è e non sarà mai che un pittore mediocre, mentre una volta sarebbe stato un eccellente operaio. Ne viene che egli è perduto per sé e per gli altri.

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Per questo sarebbe stato meglio nell’interesse della loro salvezza, e persino della loro fortuna, che i deboli fossero sottomessi alla ferula di una fede vigorosa; visto che i forti sono rari, e bisogna essere nel tempo presente Delacroix o Ingres per stare a galla ed emergere dal caos di una libertà sfibrante e sterile. Le scimmie sono i repubblicani dell’arte, e lo stato attuale della pittura è il risultato di una libertà anarchica che esalta l’individuo, per debole che sia, a detrimento delle associazioni, cioè delle scuole. Nelle scuole, che altro non sono se non la forza d’invenzione organizzata, gli individui veramente degni di questo nome assorbono i deboli; e questo è veramente giusto, se una larga produzione equivale a un pensiero con mille braccia. Questa glorificazione dell’individuo ha comportato una divisione inarrestabile del territorio dell’arte. La libertà assoluta e divergente del singolo, la divisione degli sforzi e la frantumazione della volontà umana hanno prodotto questa debolezza, dubbio e povertà d’invenzione; alcuni eccentrici, sublimi e angosciati, non riescono a compensare questo disordine in cui pullulano tante mediocrità. L’individualità, – che è una piccola proprietà, – ha divorato l’originalità collettiva; e, come si è dimostrato, in un celebre capitolo di un romanzo romantico36, che il libro ha ucciso il monumento, si può dire che oggi il pittore ha soppresso la pittura.

xviii Dell’eroismo della vita moderna Molti vogliono attribuire la decadenza della pittura alla decadenza dei costumi37. Questo pregiudizio di artisti, che si è diffuso tra il pubblico, è una pessima giu-

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stificazione invocata dagli stessi pittori, interessati come erano a rappresentare fedelmente il passato, essendo il compito più facile, e avendovi una sua parte anche la pigrizia. È vero che la grande tradizione è andata perduta, e la nuova non è ancora nata. Che altro era la grande tradizione, se non l’idealizzazione normale e consueta della vita antica; vita maschia e guerriera, stato di difesa di ogni individuo che vi portava l’abito dei gesti severi, degli atteggiamenti maestosi o violenti. Si aggiunga lo sfarzo pubblico che si rifletteva nella vita privata. La vita antica, costituita soprattutto per il piacere degli occhi, rappresentava quasi ogni cosa; e questo paganesimo del quotidiano ha contribuito in modo mirabile alle arti. Ma prima di ricercare quale possa essere il lato epico della vita moderna, e dimostrare con qualche esempio come la nostra epoca non sia meno fertile delle antiche di motivi sublimi, si può sostenere che siccome ogni secolo e ogni popolo ha avuto la propria bellezza, noi dobbiamo avere per forza la nostra. E ciò è nell’ordine delle cose. Ogni bellezza ha in sé, come qualsiasi fenomeno possibile, qualcosa di eterno e qualcosa di transitorio, – di assoluto e di particolare. La bellezza assoluta ed eterna non esiste, o meglio non è che un’astrazione distillata dall’intera superficie delle diverse bellezze. L’elemento specifico di ogni bellezza viene dalle passioni, e come noi abbiamo le nostre passioni, cosí abbiamo la nostra bellezza. Se si escludono Ercole sul monte Eta, Catone l’Uticense e Cleopatra, i cui suicidi non sono suicidi moderni38, quali suicidi si vedono nei quadri antichi? In tutte le esistenze pagane, votate al desiderio, non è possibile trovare il suicidio di Jean-Jacques, e neppure lo strano e meraviglioso suicidio di Raphaël de Valentin.

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Quanto all’abito, al tegumento dell’eroe moderno, – benché sia passato il tempo in cui gli imbrattatele si vestivano da mamamusci e fumavano in spingarde, – gli studi dei pittori e la società sono ancora pieni di gente che vorrebbe rendere poetico Antony39 con un mantello greco o una tunica di due colori. Eppure, non ha una sua bellezza e un suo fascino nativo, quest’abito cosí vilipeso? Non è l’abito ineluttabile della nostra epoca, un’epoca sofferente che porta anche sulle spalle magre e nere il simbolo di un lutto senza fine? Si noti bene che l’abito nero e la finanziera non possiedono soltanto una loro bellezza politica, espressione dell’uguaglianza universale, ma anche una loro bellezza poetica, in cui si esprime l’anima collettiva; – un’immensa sfilata di beccamorti, beccamorti politici, beccamorti innamorati, beccamorti borghesi. Tutti noi celebriamo un qualche funerale. Una livrea uniforme di desolazione è il segno dell’uguaglianza; e agli eccentrici, che con i loro colori crudi e violenti davano subito nell’occhio, bastano oggi certe sfumature nel disegno, nel taglio, ancor più che nel colore. Non hanno forse una propria grazia misteriosa le pieghe arricciate che si attorcigliano come serpenti intorno a una carne mortificata? Eugène Lami e Gavarni, che pure non sono artisti supremi, lo hanno capito perfettamente: – l’uno, poeta del dandismo ufficiale; l’altro, poeta del dandismo avventuroso e d’occasione! Rileggendo i capitoli du Dandysme di Jules Barbey d’Aurevilly, il lettore può chiaramente vedere che il dandismo è un fenomeno moderno, dovuto a cause altrettanto nuove. Che la turba dei coloristi contenga la sua protesta: poiché, quanto piú difficile è un’impresa, tanto più è gloriosa. I grandi coloristi sanno fare del colore con un abito nero, una cravatta bianca e un fondo grigio.

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Per tornare alla questione principale ed essenziale, che è quella di sapere se possediamo una bellezza particolare, inerente a passioni nuove, osservo che la maggior parte degli artisti che hanno affrontato i soggetti moderni si sono limitati ai temi pubblici e ufficiali, alle nostre vittorie e al nostro eroismo politico. Ma bisogna aggiungere poi che essi lo fanno di contraggenio, e comandati dal governo che li paga. Eppure non mancano soggetti privati, con ben altro eroismo. Lo spettacolo della vita elegante e delle innumeri esistenze vaganti che si aggirano negli ipogei di una grande città, – criminali e puttane mantenute, – «La Gazette des tribunaux» e «Le Moniteur» dimostrano che bisogna solo aprire gli occhi per conoscere il nostro eroismo. Un ministro, perseguitato dalla curiosità impertinente dell’opposizione, con quella superba e sovrana eloquenza che gli è propria, ha dichiarato, una volta per tutte, il suo disprezzo e il suo disgusto per tutte le opposizioni ottuse e importune, – la sera sul Boulevard des Italiens si sentono in giro discorsi del genere: «Eri alla Camera oggi? hai visto il ministro? Per D... ! era stupendo! non ho mai visto niente di piú fiero!» Esiste dunque una bellezza e un eroismo moderno! E poco più in là: «È K... – o F... – che ha avuto l’incarico di fare questa medaglia; ma non saprà farla; non può capire certe cose!» Vi sono dunque artisti piú o meno capaci di comprendere la bellezza moderna. Oppure: «Il sublime B...! I pirati di Byron sono meno grandi e meno sdegnosi. Ci crederai se ti dico che ha dato uno spintone all’abate Montès, ed è corso sulla ghigliottina gridando: “Lasciatemi tutto il mio coraggio!”» Questa frase allude alla macabra bravata di un criminale, gran protestatario, vigoroso e ben piantato, il cui

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feroce coraggio non ha chinato la testa neppure davanti alla macchina suprema! Tutte queste parole, che vi vengono alle labbra, dimostrano che credete in una bellezza nuova e particolare, che non è né quella di Achille né quella di Agamennone. La vita parigina è fertile di soggetti poetici e meravigliosi. Il meraviglioso ci avvolge e ci bagna come l’atmosfera; ma non lo vediamo. Il nudo, cosa cosí cara agli artisti è tanto necessario al successo, è frequente e indispensabile non meno che nel mondo antico: – a letto, nel bagno, nell’anfiteatro. I mezzi e i motivi della pittura sono del pari vari e copiosi: ma c’è un elemento nuovo, che è la bellezza moderna. In effetto gli eroi dell’Iliade non vi arrivano che alla caviglia, o Vautrin, Rastignac, Birotteau, – e tu, Fontanarès, che non hai osato raccontare al pubblico i tuoi dolori sotto il frac funebre e spiegazzato che tutti indossiamo; – e tu, Honoré de Balzac, tu il più eroico, il piú singolare, il piú romantico e il più poetico di tutti i personaggi che hai tratto dalla tua carne.

[La collezione di Luigi Filippo che sarà esposta al Louvre fino al 1848, Particolarmente ricca di pitture spagnole]. 2 So bene che la critica attuale ha altre pretese; e per questo raccomanderà sempre il disegno ai coloristi e il colore ai disegnatori. Che gusto oltremodo ragionevole e sublime! 3 A proposito dell’individualismo rettamente interpretato, si veda nel Salon del 1845 l’articolo su William Haussoullier. Nonostante tutti i rimproveri che mi sono stati fatti al riguardo, non rinuncio al mio convincimento; ma bisogna capire l’articolo. 4 [Raoul Rochette (1789-1854) archeologo ufficiale, segretario perpetuo dell’Académie des Beaux-Arts]. 5 Stendhal. 6 Fatta eccezione per il giallo e l’azzurro da cui deriva; ma io qui mi riferisco soltanto ai toni puri. Infatti questa regola non vale per i 1

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Charles Baudelaire - Scritti sull’arte coloristi trascendenti che conoscono a fondo la scienza del contrappunto. 7 Kreisleriana. 8 Metto appestati invece di massacro, per spiegare ai critici disattenti i toni dell’incarnato, che cosí spesso sono stati oggetto di censura. 9 Per ingenuità del genio bisogna intendere la scienza del mestiere combinata con lo gnóthi seautón, ma la scienza modesta, che lascia la parte migliore al temperamento. 10 È quello che Thiers chiamava l’immaginazione del disegno. 11 [Dipinto da Paul Delaroche tra il 1838 e il 184]. 12 [Dipinto da Ingres nel 1827]. 13 Inferno, Dante, canto IV, traduzione di Pier Angelo Fiorentino, la sola buona per i poeti e i letterati che non sanno l’italiano. 14 [Frédérick Lemaître (18oo-1876) attore drammatico e comico, sarcastico e cinico, creò il personaggio di Robert Macaire (cfr. p. 14o e p. 166). William Charles Macready (1793-1873) attore tragico inglese che recitò a Parigi nel 1844-45]. 15 [Di Watteau]. 16 Mi è stato detto che Delacroix ha fatto in passato per il suo Sardanapale un grosso numero di meravigliosi studi di donne, nelle pose piú voluttuose. 17 Due quadri essenzialmente d’amore, del resto mirabili, di questi ultimi tempi, sono la grande Odalisque e la petite Odalisque di Ingres. 18 Sedebant in fornicibus pueri puellaeve sub titulis et lychnis, illi femineo compti mundo sub stola, hae parum comptae sub puerorum veste, ore ad puerilem formam Composito. Alter venibat sexus sub altero sexu. Corruperat omnis caro viam suam. – Meursius. 19 Niente di assoluto: – cosí, l’ideale del compasso è la peggiore delle sciocchezze; – né di completo: – cosí occorre tutto completare, e ritrovare ogni singolo ideale. Dico la contraddizione e non il contrario, perché la contraddizione è invenzione dell’uomo. 21 Histoire de la peinture en Italie, cap. ci. Queste cose si stampavano nel 1817! [Personaggio del Vicario di Wakefield di Goldsmith]. 22 [Cfr. Alcuni caricaturisti francesi, p. 172]. 23 [Nelle Fantasie alla maniera di Callot di Hoffmann]. 24 H. de Balzac ha scritto una volta: le chique. 25 [Cioè il giornale ufficiale]. 26 Espressione di Marc Fournier, che può valere per quasi tutti i romanzieri e gli storici alla moda, che non sono altro che gazzettieri, come Horace Vernet. 20

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Charles Baudelaire - Scritti sull’arte La vera memoria, considerata da un punto di vista filosofico, non consiste, a mio avviso, che in un’immaginazione vivissima, facile all’emozione, e perciò suscettibile di evocare a sostegno di ogni sensazione le scene del passato, infondendovi, come per incantesimo, la vita e il carattere propri di ciascuna di esse; tale è almeno la tesi che ho sentito sostenere da uno dei miei antichi maestri, che aveva una memoria prodigiosa, benché non riuscisse a ritenere né una data né un nome proprio. – Quel maestro aveva ragione, e certo ben diversa è l’incidenza delle parole e dei discorsi che sono penetrati profondi nell’anima e di cui si è potuto cogliere il senso intimo e misterioso, che non quella di parole imparate a memoria. – Hoffmann. 28 Cosí si può cantare davanti a tutte le tele di Horace Vernet: Vous n’avez qu’un temps à vivre, Amis, passez-le gaiement. [Amici che una sola vita avete | su con la gioia, via piú che potete]. Allegria squisitamente francese. 29 A coloro che possono essere rimasti scandalizzati dalle mie pie collere, raccomando la lettura dei Salons di Diderot. Tra vari esempi di carità rettamente intesa, troveranno che il grande filosofo, a proposito di un pittore che gli era stato raccomandato, perché aveva da sfamare parecchie bocche, sostiene che bisogna abolire o i quadri o la famiglia. 30 [Di Eugène Giraud, che conobbe larga diffusione attraverso le riproduzioni]. 31 [Pasticceria parigina della rue Vivienne]. 32 [Dramma di Victor Hugo]. 33 Ho finalmente trovato un uomo che ha saputo esprimere la sua ammirazione per i Meissonier nel modo piú ragionevole, e con un entusiasmo del tutto simile al mio. Si tratta di Hippolyte Babou. E sono d’accordo con lui che bisognerebbe appenderli tutti ai fregi del Gymnase. – «Geneviève o la jalousie paternelle [Genoveffa, o la Gelosia paterna] è uno stupendo piccolo Meissonier che Scribe ha attaccato ai fregi del Gymnase». – «Courrier français», appendice del 6 aprile. – Il fatto mi è parso tanto sublime da farmi ritenere che Scribe, Meissonier e Babou non potevano che trarre uguale profitto da questa mia citazione. 34 [Notissima bottega parigina, in Place de la Bourse, che vendeva colori, cornici, ma anche oggetti vari, piccole sculture, ecc.]. 35 Sento spesso la gente lamentarsi del teatro moderno; manca di originalità, dicono, perché non ci sono piú tipi. E il repubblicano! dove lo mettete? Non è una necessità di ogni commedia che vuol essere allegra, e non è forse un personaggio che ha preso il posto del marchese? 36 [Ceci tuera cela, nel libro V di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo]. 27

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Charles Baudelaire - Scritti sull’arte È un errore confondere questa decadenza con la prima: l’una concerne il pubblico e i suoi sentimenti, mentre l’altra non riguarda che i pittori. 38 Il primo si uccide perché le bruciature delle vesti gli divengono intollerabili; il secondo perché non può fare piú nulla per la libertà, e la voluttuosa regina perché perde il trono e l’amante; ma nessuno si sopprime per cambiare pelle in vista della metempsicosi. 39 [Personaggio del dramma omonimo di Alexandre Dumas]. 37

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