3 - Guareschi Giovanni No - Tutto Don Camillo Volume
November 21, 2016 | Author: blues188 | Category: N/A
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Giovannino Guareschi
Tutto don Camillo MONDO PICCOLO
Volume 3 di 5
Racconti dal 153 al 218
153 EMPÒRIO PITACIÒ Un tragico destino si accaniva da anni e annorum sui Bigatti, e all'ultimo, all'Anteo, era toccata la sorte peggiore di tutti i Bigatti perché la malignità paesana, oltre al nomignolo, gli aveva appioppato un cognomignolo e lo chiamava Empòrio Pitaciò. Il padre di Anteo, Giosuè Bigatti, fin da ragazzo ce l'aveva messa tutta per far capire alla gente che lui non era un villano quadro come gli altri, ma aveva delle idee dentro il cervello: ce l'aveva messa tutta per non confondersi con la massa e per conquistare il rispetto del paese con la sua serietà e con la sua non indifferente cultura. Niente da fare: gli avevano appiccicato sulle spalle il nomignolo di Pitaciò e gli era rimasto. Il pitaciò non è una porcheria: il pitaciò è un'erba che cresce sulle rive dei fossi e caccia fuori uno strano fiore che pare un candido piumino da cipria, piantato in cima a uno stelo alto poco più di una spanna. Si coglie delicatamente il fiore con tutto lo stelo e si soffia sul piumino che si sfalda in mille pelucchi che volano via come nella marca di fabbrica dell'Enciclopedia Larousse. Con un colpo d'unghia si tronca in due lo stelo buttando via la parte superiore, quella del piu-
mino. Si stringe l'altro troncone fra l'indice e il pollice della sinistra in modo che ne rimanga libero un pezzetto alto due o tre dita. Con l'indice della mano destra si abbatte tutto in avanti e poi tutto all'indietro e di nuovo in avanti e poi all'indietro il pezzetto di tubetto fino a quando non si spezzi. Però, mentre si lavora col dito, bisogna dire ad alta voce una faccenda come questa: «Pitaciò della rorò, fa pi pò» e la magìa consiste nel far sì che il pitaciò si spezzi sul «pò»: allora, soffiandovi dentro, il tubetto suona come una trombettina. Il pitaciò non è una porcheria: però un uomo che si senta chiamare Pitaciò, ci sforma. Del resto, anche il tamarindo è una cosa buona, eppure non c'è uomo che non si offenda a chiamarlo Tamarindo. A venticinque anni Giosuè Bigatti non sopportò più il fatto che al paese tutti lo chiamassero Pitaciò e andò a lavorare in città. Rimase via quindici anni e tornò in paese ben vestito, ben scortato di quattrini e bene ammogliato. «È tornato Pitaciò» disse tranquilla la gente appena lo vide. In città, Giosuè Bigatti aveva lavorato duramente e ora tornava per far vedere a quei villani retrogradi chi fosse lui e come si dovesse fare a stare al mondo. In paese esistevano solo bottegucce vecchie come il cucco, bottegucce umide, buie, anguste, con vetrinette miserabili: comprò una casa in piazza e mise in piedi il pri. mo vero negozio del paese. Un
negozio con grande vetrina, mostrine, insegna e saracinesche come in città. E sull'insegna fece scrivere: GIOSUÈ BIGATTI & FIGLIO EMPORIO ARTICOLI CASALINGHI Questo avveniva un anno e mezzo dopo il ritorno di Giosuè in paese e il figlio di cui parlava l'insegna non aveva ancora raggiunto i dieci mesi: comunque il figlio c'era e si chiamava Anteo Bigatti. Ma la gente non ci stette neppure a pensar sopra un minuto: «Giosuè Bigatti e figlio Emporio», disse la gente. E, siccome Giosuè Bigatti si chiamava Pitaciò, Anteo Bigatti venne chiamato Empòrio Pitaciò. Anteo non ne aveva nessuna colpa, ma quello dei Bigatti era un tragico destino e il nomignolo gli rimase sul groppone. Suo padre e sua madre non tentarono neppure di lottare: e quando un giorno, arrivato Anteo ai sei anni, tornò dalla scuola piangendo perché i suoi compagni lo avevano chiamato Empòrio Pitaciò, il padre gli rispose: «Lasciali dire, Anteo. Quando sarai grande gli farai vedere chi sei tu!». Anteo si piantò dentro il cervello quelle parole e, in seguito, quando lo chiamavano Empòrio o Pitaciò, incassava sempre senza batter ciglio.
A diciassette anni, però, la cosa incominciò a dargli fastidio perché anche le ragazze lo chiamavano Empòrio; allora disse a suo padre: «Mandami a studiare in città». Nessuno in paese sapeva cosa accidente studiasse Empòrio in città. Tornava al paese per le vacanze e, quando gli amici cercavano di andargli sotto, se la cavava dicendo: «Faccio pratica commerciale». Quando Empòrio compì i ventidue anni, in paese scoppiò la bomba. Empòrio studiava canto; stava scritto sul giornale, nella cronaca della provincia: Anteo Bigatti si era particolarmente distinto nel saggio al Conservatorio. E non ci furono dubbi perché nella vetrina dell'emporio d'articoli casalinghi c'era, appiccicato al cristallo, il giornale con un gran frego rosso attorno alla notizia del saggio al Conservatorio. Aspettarono che Empòrio tornasse per le vacanze, ma Empòrio non tornò. «Empòrio si è perso nella nebbia» disse la gente. Cinque anni dopo il vecchio Bigatti morì. La vecchia rimase alcuni mesi a piangere in bottega poi, una mattina, la saracinesca non si levò e rimase sempre abbassata: i coniugi Pitaciò si erano riuniti. «Forse è morto anche lui» commentò la gente non vedendo Empòrio comparire né al funerale del padre né a quello della madre.
Ma Empòrio Pitaciò non era morto, e un giorno tornò a galla dalla terza pagina di un giornale: «Clamoroso successo del tenore Anteo Bigatti in Argentina». La gente, in paese, rimase perplessa: non riusciva ad ammettere che Empòrio Pitaciò potesse aver combinato qualcosa di così grosso. Poi fu costretta ad ammetterlo perché il nome di Anteo Bigatti diventò sempre più famoso e, quando il quotidiano nazionale più importante pubblicò l'intervista che Anteo Bigatti aveva concesso al corrispondente newyorchese, al paese venne la frenesia. Nell'intervista Anteo Bigatti affermava che, una volta finiti i suoi numerosi impegni coi principali teatri d'America, avrebbe cantato in Europa e, quindi, anche in Italia: e questo era bene. Ma, più avanti, si affermava che Anteo Bigatti era nato «a Castelletto, un piccolo paese in riva al Po…». «Porci maledetti!» urlò la gente in paese. «Anteo Bigatti è nato qui, non a Castelletto! Anteo Bigatti è nostro!» Peppone fece fotografare il registro delle nascite e mandò la fotografia al giornale con una lettera di fiera protesta. Il direttore del giornale approfittò dell'occasione per spedire un inviato speciale al paese a raccogliere materiale per un articolo sulla fanciullezza del grande tenore. Risultò che tutti avevano da raccontare qualche episodio sulla straordinaria vocazione per il canto che Anteo Bigatti aveva dimostrato, fin da quando era ragazzino, e risultò che
tutti avevano detto, a suo tempo: «Questo ragazzo farà cose grandi». Soltanto don Camillo, quando il giornalista andò a intervistarlo, spiegò che lui non aveva capito proprio niente: «Era quello che cantava peggio, nel coro. Ricordo che fui costretto a escluderlo per completa mancanza di voce e d'orecchio. Come tipo di ragazzo era taciturno, musone e piuttosto antipatico». Il giornale stampò puntualmente anche le dichiarazioni di don Camillo e la cosa fu tanto grossa, per il paese, che Peppone organizzò un pubblico comizio per deplorare indignato «coloro che, pur vestiti della tonaca dei ministri della religione cristiana, approfittano di ogni occasione per denigrare gli illustri artisti espressi dai virgulti generosi del sano popolo lavoratore». Disse inoltre che «il paese si gloriava di avere come figlio Anteo Bigatti anche se l'oscurantismo medioevale del clericalismo aveva tentato di ostacolarne la radiosa carriera negando la bellezza di quel canto che oggi risuona nei principali teatri del mondo e porta alto il prestigio della Nazione e del paese natio!». Don Camillo non si inquietò. Rispose con estrema semplicità: «Non posso rimproverare il buon Dio perché non mi ha fornito di fine intuito musicale, tanto più che mi ha regalato una virtù ben più importante: quella della sincerità».
Passò del tempo e, ogni volta che qualche giornale parlava di Anteo Bigatti, il ritaglio con la notizia o l'articolo venivano appiccicati alle vetrine di tutti i caffè e di tutti i negozi più importanti. Poi, il giorno in cui la stampa e la radio comunicarono che Anteo Bigatti era arrivato in Italia, il paese fu come sconvolto da una ventata di entusiasmo, tanto è vero che risultò necessario costituire immediatamente un comitato. «Anteo deve venire qui!» disse il paese. «Prima di tutto egli deve venire nel luogo che gli ha dato i natali, che l'ha ispirato, che l'ha sostenuto nelle sue prime dure battaglie. Deve venire qui, fra i suoi amici, fra i suoi compagni di giochi, fra la gente che gelosamente ha conservato i suoi morti! La sua voce è la voce di questa terra: è la nostra voce e noi abbiamo il diritto di sentirla prima degli altri.» Il comitato lavorò giorno e notte e, alla fine, decise: «Qualcuno parta immediatamente per Milano, trovi Anteo, gli porti il vibrante messaggio di benvenuto di tutto il paese e lo convinca a venire qui, almeno per una sera, a cantare per noi. Gli garantiamo una organizzazione perfetta e la presenza di tutte le principali personalità della provincia e della stampa nazionale». Il difficile incominciò quando si trattò di trovare chi andasse a Milano a convincere con la sua parola appassionata il celebre tenore. Peppone obiettò che lui sarebbe andato volentieri, ma, data la sua posizione politica, non voleva che Anteo, il quale
veniva dall'America e, probabilmente, aveva delle errate idee sui comunisti, venisse indotto a equivocare circa le intenzioni del sindaco. Allora, per eliminare ogni equivoco, si stabilì che, assieme al sindaco, sarebbe andato anche il parroco. E don Camillo fu costretto ad accettare. Fu costretto soprattutto dalla sua furibonda curiosità di vedere cosa fosse diventato, dopo tanti anni, quel musone di ragazzino che aveva tanto orecchio quanto una tegola. * Peppone, a vestirlo dalla festa con pantaloni stirati, scarpe lustre, colletto, cravatta e penna stilografica nel taschino, funzionava come se lo avessero inamidato dentro e fuori. Le parole arrivavano fino al bottone del colletto poi ritornavano giù impaurite, a ribollir dentro lo stomaco. «Parlate voi, reverendo» disse quando furono davanti al grande albergo milanese. «Parlate pure anche a mio nome. Cercate magari di non farmi dire delle sciocchezze troppo grosse.» «Non temere, compagno» lo rassicurò don Camillo. «Ti farò dire le stupidaggini solite.» Ci fu da aspettar parecchio prima che don Camillo e Peppone potessero ottenere via libera. E, quando furono davanti alla porta dell'appartamento di Anteo, erano piuttosto agitati tutt'e due.
Li ricevette un personaggio pieno di sussiego. «Sono il segretario» spiegò. «Il commendatore è molto affaticato: li prego di essere brevi.» Anteo, in vestaglia da camera, era sdraiato in una enorme poltrona di velluto rosso. Stava leggendo un giornale e levò lentamente il capo. «Prego» sospirò con voce lontana. «Dicano pure.» Peppone toccò col gomito don Camillo che stava lì in piedi al suo fianco e guardava il celebre tenore a bocca aperta. «Ecco» balbettò don Camillo «noi siamo qui, il sindaco e io, a portarle il benvenuto affettuoso del paese.» Anteo Bigatti fece un sorrisetto: «Del paese?» domandò con calma. «Scusino, di quale paese?» Don Camillo, che fino a quel momento non era riuscito a raccapezzarsi, ingranò decisamente la marcia. «Del nostro paese» rispose. «Del suo, del mio e di quello del signor sindaco. Del paese dove lei è nato, insomma.» Anteo Bigatti fece un sorrisetto tutto tirato da un lato: «Molto interessante e molto carino» rispose. «Un pensiero davvero gentile.» Don Camillo cominciò a vedere della nebbia: per fortuna Peppone era riuscito a vincere il "complesso del colletto" e a dar fiato sufficiente alle sue parole: «Commendatore» disse Peppone «il nostro paese è orgoglioso di lei e ha sempre seguito con ansia i suoi successi
mondiali. E allora tutti, al di sopra delle correnti politiche, siamo qui a chiederle il privilegio di una sua visita». Il celebre tenore sospirò: «Capisco» rispose. «Ma i miei impegni sono tali e tanti che mi è assolutamente impossibile.» Il segretario allargò le braccia e scosse il capo. «Impossibile» disse anche lui. «Assolutamente impossibile.» Don Camillo intervenne: «Ci rendiamo perfettamente conto di quello che lei dice, commendatore. Il celebre tenore deve avere davvero degli impegni straordinariamente gravi se non riesce a concedere al figlio neppure poche ore di permesso per andar a vedere se i suoi vecchi son stati sotterrati in un cimitero oppure lungo la riva di un fosso». Anteo Bigatti impallidì. Poi diventò rosso. Ma don Camillo non se ne accorse neppure. Lanciata la sua freccia avvelenata, aveva voltate le spalle al celebre tenore e veleggiava maestoso verso la porta. Peppone lo seguì. Ma non fecero a tempo a imboccar la scala che sopraggiunse affannato il segretario: «Li prego, signori. Qui c'è un equivoco. Non si preoccupino, lascino fare a me, sistemerò tutto io: troverò il modo di posporre qualche impegno. Domani riceveranno un mio telegramma. Nel frattempo evitino di fare qualsiasi dichiarazione alla stampa. Qui tutto è chiaro e semplice e non bisogna complicare ciò che è chiaro e semplice».
Don Camillo capì che aveva il coltello per il manico e non lo mollò: «Certamente» rispose. «Noi abbiamo organizzato un solenne ricevimento per il commendatore, il quale, la sera, sarà tanto gentile da eseguire qualche pezzo per noi del paese. Tutti sono in grande aspettativa. Oltre al resto lo scopo è benefico. Inviteremo le autorità, la stampa. Una cosa degna del commendatore.» Il segretario mandò giù. «Lascino fare a me» rispose. «Certamente, il commendatore canterà. Però niente stampa, niente autorità… Altrimenti egli dovrebbe pagare grosse penali dati i contratti che ha firmato. Sì, una cosa in famiglia.» Peppone era raggiante: «Certamente» esclamò. «Anteo e noi siamo figli della stessa terra. Una cosa intima, familiare, senza estranei.» Usciti dall'albergo Peppone e don Camillo camminarono in silenzio per un bel pezzo. Poi don Camillo sospirò: «Peppone, io ti dico che avrei agito più da galantuomo se, invece di fargli quel discorso, gli avessi rifilato una sberla. Dio mi avrebbe perdonata la sberla, difficilmente mi perdonerà quelle parole». Ma Peppone schiattava di contentezza e non si preoccupava minimamente del disagio spirituale di don Camillo. *
La mattina seguente arrivò il telegramma. Il commendatore accettava dì venire e di cantare e stabiliva la data. Peppone fece subito sparare un manifesto trionfale e il paese si preparò a ricevere degnamente il suo illustre figlio. Il salone venne rimesso a nuovo: pittura ai muri, vernice alle porte. Vennero installati altoparlanti in modo che anche la gente rimasta fuori potesse sentire. Anteo Bigatti arrivò nel primo pomeriggio del giorno fissato e la gente lo aspettava fin dal mattino. Quando apparve nella piazza la enorme macchina americana del tenore, non rimasero nelle case neppure i gatti. Anteo era di pessimo umore: scese dal macchinone nero che la polvere delle strade della Bassa aveva reso biancastro. Toccò col dito affusolato dall'unghia curatissima un risvolto del suo meraviglioso doppiopetto grigio a righe bianche e fece una smorfia di disgusto: «Un'indecenza: sono pieno di polvere anch'io. Pieno di sudore e di sudiceria! Prego, portatemi alla mia stanza, devo rimettermi a posto». La gente applaudiva e gridava: «Viva Anteo!», ma Anteo aveva premura soltanto di raggiungere la sua stanza. Il fatto di essere arrivato al paese con una macchina stupenda ma che, essendo piena di polvere, non faceva neppure metà dell'effetto che avrebbe potuto fare, lo deprimeva. E poi anche lui era in disordine. Aveva la faccia untuosa, sciupata.
«Presto, presto, la stanza del commendatore!» gemeva intanto il segretario che volteggiava intorno al tenore come un caccia attorno al bombardiere. Poi, quando finalmente vide la stanza, il segretario si coperse il volto con le mani: «Gesù, Gesù! È una cosa impossibile! Almeno la stanza doveva essere qualcosa di decente!». L'albergatore, che aveva tirato fuori dai cassettoni la sua biancheria più candida e aveva messo sui mobili tutte le cose più belle della casa, compresa la coppa d'argento placcato guadagnata nel torneo di bocce, era umiliatissimo. «Presto, il bagno!» esclamò Anteo arrivando e gettandosi su una sedia. «Presto, un bagno caldo e subito o è un disastro.» Tutti erano usciti dalla stanza e stavano lì, davanti alla porta chiusa, come rimbambiti: schizzò fuori il segretario. «Per favore» implorò «il bagno. Il bagno, per favore; il commendatore è in condizioni pietose. Il bagno!» Si guardarono in faccia l'un con l'altro, poi Peppone balbettò: «Il bagno… il bagno non c'è… Capisca, questo è un paese…». Il segretario sbarrò gli occhi. «E come faccio a dirglielo al commendatore? Qui succede una tragedia!»
«Mettiamo subito su dell'acqua e prepariamo la bigoncia del bucato!» propose l'oste. Ma il segretario non gli diede neppure retta. Disse che bisognava trovare un bagno. «Alla palazzina vecchia c'è un bagno!» esclamò lo Smilzo. «Lo mettiamo a posto e vuol dire che il bagno lo andrà a fare là.» Peppone, lo Smilzo e il Bigio corsero alla Palazzina e alla vecchia custode dissero che non rompesse l'anima perché dovevano requisire il bagno per motivi di utilità pubblica. Effettivamente il bagno c'era. L'aveva fatto impiantare nel 1920 quel matto del Trambini, quando gli erano venute le smanie della nobiltà. Lo scaldabagno era a legna, di quei trabiccoli alti di rame. La vasca di ferro smaltato era gialla di sporcizia e piena di patate e di cipolle. Lo Smilzo volò in officina a prendere dell'acido e, mentre il Bigio e la vecchia si affannavano a sgombrare la vasca e il camerino, Peppone si attaccò alla caldaia. Lavorò febbrilmente e riuscì a riempirla d'acqua. Teneva bene e allora Peppone accese il fornello. Quando, un quarto d'ora dopo, ritornò lo Smilzo con l'acido, la caldaia scoppiò. La squadra riprese tristemente la via del ritorno e davanti all'alberghetto trovò il segretario che aspettava cupo. «Abbiamo trovato il bagno» spiegò Peppone. «Ma la caldaia è scoppiata.»
Il segretario lo guardò, poi disse con voce nella quale fremeva l'orrore: «Non importa. Il commendatore sta facendo il bagno dentro un bigoncio!». La gente, adesso, si era tutta raggruppata davanti all'albergo e aspettava. Sapeva che Anteo Bigatti stava facendo il bagno e rispettava la sua pace. Dopo mezz'ora la gente incominciò a battere le mani e a gridare: «Viva Anteo!», «Fuori Anteo!». Arrivò la banda che attaccò il suo pezzo forte e Anteo dovette affacciarsi alla finestra. Aveva una stupenda vestaglia di seta. Sorrise, agitò la bianca mano e l'enorme diamante che aveva al dito sfavillò al sole. Poi il segretario scese pregando la gente di lasciar tranquillo il commendatore che aveva bisogno di riposo e di silenzio. Pareva che tutto fosse finalmente tranquillo e che tutto dovesse procedere bene ma, verso sera, il commendatore chiese qualcosa da mangiare e gli portarono un enorme piatto di salame e culatello, un'anitra arrosto e una plancia di lasagne al forno. Il segretario quasi si metteva a piangere: «Qualcosa da mangiare per un cantante, non per una leonessa!» gemette. «Roba leggera, un piccolo brodo ristretto, una fettina di prosciutto magro, un cetriolo, un dito di vino di Porto…»
L'oste, che aveva tagliato sei culatelli e otto salami prima di trovare due pezzi perfetti, si sentì morire. Il brodino, fatto così alla svelta, risultò una schifezza, il prosciutto sapeva di rancido, il lambrusco non riuscì neppure a ricordare il Porto. Il cetriolo dovette essere sostituito con un orrendo mazzo di ravanelli. Il commendatore pareva Giove al quale, invece di nettare, avessero rifilato una fetta di mortadella. Intanto le ore galoppavano: il salone era zeppo, la piazza gremita. Male anche tutto questo perché, dopo aver dovuto lavorare come un carro armato per fendere la folla nella piazza, Anteo Bigatti trovò la sala zeppa, appunto, come un uovo quando invece avrebbe dovuto essere vuotissima e ciò allo scopo di permettere al commendatore di mettersi d'accordo col maestro di pianoforte e provare qualcosa per via dei toni e dei trasporti. La gente fu costretta a uscire tutta e fu un gas. E poi ci fu la tragedia del maestro di piano che non capiva niente. Alla fine tutto andò a posto e la gente potè ritornare in sala. Peppone, che si era messo un vestito nero nel quale scoppiava perché aveva dovuto prenderlo a prestito, quando la banda ebbe eseguito, dalla piazza, l'inno di Mameli, si avanzò sul palco introducendo con un gesto maestoso Anteo Bigatti che indossava un frac tagliato dal miglior sarto di Piccadilly. L'applauso fu qualcosa di spaventoso. Anteo si inchinò sorridendo come si sarebbe inchinato se fosse stato
non nel salone del suo paese, ma sul palcoscenico del Metropolitan. Peppone snocciolò un discorso formidabile che terminava: «E ora vorremmo che il grande Anteo Bigatti, il nostro grande Anteo, prima di cantare dicesse una parola ai suoi amici». La cosa infastidì spaventosamente Anteo che, dopo aver esitato parecchio, si avanzò al proscenio e disse con voce indifferente: «Canterò per voi "Celeste Aida "». La gente tacque e stette a guardare Anteo Bigatti che lentamente andava assumendo la posa statuaria dell'Ugola Divina che si accinge a regalare al mondo – lurido e pezzente – uno dei gioielli mirabili del suo scrigno. Tutto si svolse in un silenzio assoluto, un silenzio quasi soprannaturale. Anteo Bigatti era oramai pronto: il brillante enorme che aveva al dito esplose in mille barbagli. Il piano preludiò. Le labbra di Anteo si dischiusero. La voce uscì e la gente ne fu come sgomenta. La gente trattenne il fiato per timore di turbare l'aria nella quale si distendeva quell'argenteo filo canoro. E il filo, dopo essersi disteso nel silenzio, prese a salire in lente volute, via via fino a raggiungere le prime stelle del cielo e sostò un istante per prendere lo slancio che l'avrebbe portato al culmine dell'infinito. E qui, implacabile, inequivocabile, esplose una stecca colossale, orrenda.
Una stecca atomica che lasciò atterrito Anteo Bigatti e tolse alla gente quel pochino di fiato che le era rimasto. Ma fu questione di un decimo di secondo. Immediatamente una voce urlò: «Empòrio, va a cantare in Argentina!». E cento altre voci crepitarono: «Pitaciò, vai a letto!». «Pitaciò!. Pitaciò!… Pitaciò!…». Fu qualcosa come una ribellione, una sommossa, una rivoluzione. Fu un grido feroce, spietato. Un sibilare furibondo di cento vapori in pressione. Poi una risata zampillò in mezzo alla sala, e altri zampilli schizzarono un po' dappertutto fino a quando la risata non diventò un fiume vorticoso. Anteo Bigatti impallidì: rimase immobile qualche istante poi infilò la porticina e scomparve. Pochi minuti dopo entrava nell'albergo. «Povero Empòrio Pitaciò, te l'hanno dato il prosciutto magro e il cetriolo!» gli gridò dietro sghignazzando l'oste. Non fece neppure le valigie: aiutato dall'autista e dal segretario, abbrancò la sua roba alla rinfusa e, sceso, la buttò dentro la macchina. L'immensa Buick si mosse e scomparve rapidamente nella notte. Erano le nove. La gente continuò a ridere fino all'una di notte, poi tutti andarono a letto perché non ne potevano più di ridere.
All'una e mezzo crepitò e si spense l'ultimo «Pitaciò!» e, alle due, il paese piombò in un sonno di piombo. La piazza rimase deserta. Le lampade erano immobili perché non soffiava un alito di vento. Alle due e un quarto un enorme fantasma nero scivolò fino al margine della piazza e qui si fermò. Un uomo uscì dall'ombra del fantasma e, arrivato al centro della piazza, ristette. A un tratto la lama di una voce altissima forò quel silenzio. E la voce aumentava sempre più di volume fino a diventare un canto pieno e dispiegato. Un canto che percorse rapido il porticato attorno alla piazza, poi volteggiò nel cielo e riempì la notte. Tutta la gente si svegliò e dischiuse le finestre e dalle fessure rimirò sbigottita Empòrio Pitaciò che era tornato indietro e ora cantava in mezzo alla piazza deserta. Una, due, cinque, dieci arie; l'una dopo l'altra, una più difficile dell'altra, e l'ultima fu proprio quella che Empòrio aveva dovuto interrompere alcune ore prima nel salone: «Celeste Aida». Quando arrivò all'acuto, là dove era esplosa la stecca, la voce balzò sicura all'arrembaggio di quella nota che, forse, nessuno era riuscito mai a sfiorare, e l'agguantò sicura per il lungo gambo e la colse come fosse un fiore e, come fosse un fiore, la depose davanti alla saracinesca polverosa del negozietto che portava scritto sull'insegna scolorita:
GIOSUÈ BIGATTI & FIGLIO EMPORIO ARTICOLI CASALINGHI Poi Empòrio Pitaciò tornò dentro la sua grossa macchina e disparve. Nessuno fiatò, le gelosie si riaccostarono silenziosamente e don Camillo, che anche lui si era levato ad ascoltare, tornò a letto e sussurrò: «Gesù, fate che le anime dei suoi vecchi l'abbiano sentito».
154 LA BUONA TERRA Peppone, ogni volta che gli parlavano del Magnaschi, faceva la smorfia dello schifato e sputava per terra. Il Magnaschi non gli era mai andato giù per un sacco di ragioni e, quando avvenne il ribaltone, il Magnaschi fu il primo a essere chiamato davanti al tribunale del popolo. «Lei è colpevole di aver svolto attività politica contraria agli interessi del popolo e alla libertà e atta a potenziare il tirannico regime dittatoriale» disse Peppone al Magnaschi. «Io non ho fatto della politica» rispose calmo il Magnaschi. «Non ho mai ricoperto cariche. Tutti possono testimoniare che io non mi sono mai mosso dal mio podere.» «Lei non si è mai mosso, ma tutti possono testimoniare che nel suo podere era un continuo viavai di gerarchi con gli stivaloni e col piccione sul berretto. Perché venivano da lei e non andavano dagli altri?» «Perché il mio podere era, allora, quello che è oggi: il podere meglio coltivato della provincia. Il mio podere ha sempre dato il grano migliore di ogni altro. Del resto io sono l'agricoltore che ha avuto i premi più importanti nella battaglia del grano.» Qualcuno saltò su pieno di furore:
«E hai anche la spudoratezza di vantartene! La battaglia del grano era una iniziativa del regime e tu, combattendo per la battaglia del grano e quindi per il trionfo di questa iniziativa, hai potenziato il regime!». Il Magnaschi spalancò le braccia: «In verità io avevo la sola intenzione di potenziare la produzione del grano: non sapevo che fosse un reato politico aver fuori la media normale di quindici quintali di grano per biolca anziché sette o otto». Peppone diventò rosso: «Il valore politico della battaglia del grano era infinitamente superiore al suo valore economico» gridò. Ma il Magnaschi era preparato a tutto. Cavò di saccoccia un foglio arrotolato e lo porse al presidente del tribunale del popolo spiegando: «Questo è il diploma di medaglia d'oro che mio padre ha ricevuto dalla Cattedra Ambulante d'Agricoltura nell'anno 1913, per aver ottenuto, nel podere Santa Lucia, una produzione media di quindici quintali di grano per biolca. Il mio errore, quindi, non è stato quello di aumentare la produzione del grano, ma di non averla diminuita. Io ho continuato stupidamente l'opera di mio padre invece dì distruggerla. Comunque, la mia buona fede è chiara; vuol dire che, adesso, cercherò di diminuire la produzione: mi dispiace per i miei contadini che, oltre al salario normale di spesati, hanno sempre avuto un premio di produzione». Peppone masticò amaro poi disse categorico:
«Per il momento torni a casa e rimanga a nostra disposizione. Verrà chiamato quando sia completata l'inchiesta». Non lo chiamarono più e a Peppone la faccenda rimase sul gozzo: perché, col Magnaschi, ce l'aveva per ragioni personali, più che per la politica. Non era il solo a detestare il Magnaschi, in paese. Il Magnaschi dava fastidio a un sacco di gente a causa di quelle sue arie da Padreterno che s'era sempre dato. Arie ingiustificate, dicevano tutti: perché, se il podere Santa Lucia era quello che era, il merito spettava semplicemente ai quattrini che il vecchio Magnaschi aveva lasciato a suo figlio assieme alla terra. «È facile fare l'agricoltore per sport» borbottavano i contadini. «È facile cavare due raccolti dalla terra quando ci sono tutti i quattrini che si vuole da buttar via. Macchine, concimi, semi selezionati, irrigazione, manodopera, bestiame di razza pregiata, mangimi: è facile cavare cento da un podere spendendo centocinquanta. Ma noi dobbiamo vivere sul prodotto e quindi, arrivati a una certa cifra, non possiamo spendere un centesimo di più. Dateci i quattrini del Magnaschi e faremo rendere i nostri poderi come il suo e anche più del suo!» A un sacco di gente il Magnaschi era simpatico come il fumo negli occhi soprattutto per via della sua superbia, e parecchi avrebbero visto volentieri nei pasticci. Ma il tribunale del popolo finì prima che finisse il Magnaschi e, siccome il Magnaschi da quella volta diventò ancora più riservato e si
tenne ancora più fuori dalla vita degli altri comuni mortali del paese, la gente lo detestò ancora di più. Da parte sua, Peppone, ogni volta che gli parlavano del Magnaschi, faceva la smorfia dello schifato e sputava per terra. E una mattina, in Comune, aveva appena finito di sputar per terra perché avevano dovuto parlargli del Magnaschi a proposito della rettifica della Strada Vecchia, quando lo Smilzo lo venne a chiamare d'urgenza. Peppone scese e trovò, fermo in piazza, un meraviglioso torpedone da gran turismo pieno di giovanotti. Due signori assai distinti si fecero avanti, e il meno attempato, dopo essersi presentato a Peppone e dopo avergli presentato l'altro che, stringendo la mano a Peppone, pronunciò sorridendo qualche parola incomprensibile, spiegò: «Sono gli allievi della scuola agraria più importante della Francia, compiono un giro per i vari Paesi d'Europa guidati dai loro professori. Vogliono studiare sul posto le caratteristiche dei vari tipi d'agricoltura e avere sul posto dei dati statistici effettivi, non i soliti dei libri di scuola. Questa zona li interessa perché, si può dire, è il centro della produzione della salsa di pomodoro, dei salumi, del formaggio grana eccetera: lei può farci da guida in modo da poter accedere a qualche podere, visitare stalle, granai, fienili, colture e via discorrendo?». Peppone non ebbe un istante di perplessità, chiamò lo Smilzo e gli disse:
«Vola alla Torretta e spiega al vecchio Beletti che fra mezz'ora saremo là per visitare il suo podere: digli che bisogna fare buona figura con l'estero e che cerchi di mettere tutto in ordine». Poi Peppone fece dire a quelli del torpedone che il sindaco desiderava offrire loro un rinfresco e porgere loro il benvenuto del paese. Poco dopo, nella sala del Consiglio, Peppone alzava il bicchiere alla salute della comprensione reciproca di tutti i popoli liberi e al trionfo della pace. L'accompagnatore rispose con un adeguato discorsetto e gli studenti sottolinearono le parole del sindaco e del loro professore con grandi applausi. Quando lo Smilzo tornò ad avvertire Peppone che tutto funzionava, Peppone disse che, se gli ospiti lo desideravano, si poteva andare. Giovani e professori ripresero posto nel torpedone e Peppone li precedette in motocicletta. Lo Smilzo era con lui, rannicchiato dentro il carrozzino. «Questa è la volta che quel maiale del Magnaschi crepa di rabbia!» disse Peppone a un tratto. «Quando saprà che ho portato i francesi dal Beletti ci farà una malattia! È finito il bel tempo in cui ogni due giorni capitava in paese la squadraccia dei gerarchi e andava a render omaggio al frumento del Magnaschi! Adesso niente gerarchi e niente Magnaschi! Adesso si vanno a visitare tutti i poderi fuori che quello del Magnaschi!»
Lo Smilzo sopirò: «Giusto, capo: peccato però che l'unico podere veramente in gamba sia ancora quello del Magnaschi». «Non diciamo stupidaggini!» urlò Peppone. «Santa Lucia non è un podere in gamba. Non è il podere normale della zona! È una specie di baraccone delle meraviglie organizzato col concetto fascista del generale che, durante l'ispezione, gli fan vedere un magnifico cannone vero e lui risponde: "Benissimo!" e non sa che tutti gli altri sono cannoni finti, sagome di legno! In democrazia si guarda alla sostanza!» Lo Smilzo disse che il capo aveva ragione. Però aveva un'obiezione da fare: «Noi dobbiamo guardare in faccia la nostra realtà per non crearci delle illusioni, e sta bene. Ma è utile che gli stranieri guardino in faccia la nostra realtà? E poi penseranno che se noi gli facciamo visitare il podere del Beletti quello sarà il migliore di tutti. E siccome il podere del Beletti non è un gran che, considereranno che noi abbiamo una agricoltura piuttosto depressa». «Questo è un ragionamento fascista!» urlò Peppone mentre lo Smilzo si cacciava tutto dentro il carrozzino. Erano arrivati al bivio del Pioppo: a sinistra la strada che conduceva al podere del Beletti, a destra la strada che conduceva al podere del Magnaschi. Peppone prese la strada di destra e, quando se ne accorse, era troppo tardi per ritornare indietro perché aveva svolta-
to anche il torpedone. Allora Peppone, furibondo, urlò allo Smilzo: «Porco maledetto, mi hai fatto sbagliare! Quando torniamo a casa facciamo i conti!». Il Magnaschi si comportò da signore e ignorò completamente Peppone. Solamente alla fine, quando, terminata la visita ai campi, gli stranieri vennero ricevuti nell'ombroso giardino della signora Magnaschi, il Magnaschi concedette al sindaco la grazia di considerarlo presente. Uno degli accompagnatori domandò al Magnaschi quanti quintali di frumento riuscisse a ottenere come produzione media normale per ettaro. Allora il Magnaschi si volse verso Peppone e gli disse: «Signor sindaco, posso dirgli la verità o debbo dire di meno?». Peppone non gli diede retta. «Quarantacinque quintali per ettaro» spiegò agli ospiti. I professori fecero un sorrisetto incredulo che non piacque a Peppone. E Peppone allora si indirizzò al Magnaschi: «Gli faccia vedere i diplomi, le medaglie eccetera! Così si convincono che non raccontiamo balle!». Il Magnaschi lo guardò incuriosito: «Anche quelli con il fascio?» si informò cautamente. Fu allora che Peppone pronunciò una delle sue storiche frasi: «Qui non si fa della politica, qui si fa della statistica!».
* Questo Magnaschi aveva un solo figlio, Gigino, che al tempo, appunto, della visita degli studenti francesi toccava i venticinque anni. Aveva un diploma di scuola media, ma se l'era dimenticato da un sacco di tempo perché, da un sacco di tempo, si occupava esclusivamente di far prosperare, assieme al padre, le cento biolche del podere Santa Lucia. Aveva imparato tutto quello che c'era da imparare da suo padre e, in casa, lo trattavano da uomo. Gigino aveva un segreto: non s'era confidato con nessuno, neanche con sua madre, la signora Virginia, perché era un tipo riservato, orso più ancora di suo padre. Ma un giorno, a tavola, vuotò il sacco. «Ho conosciuto una ragazza che va bene per me» disse Gigino «e ho deciso di sposarla.» Gigino diceva solo le cose essenziali e parlava sempre a ragion veduta; se aveva detto: «Ho conosciuto una ragazza che va bene per me» significava che egli aveva studiato il tipo arrivando a quella conclusione. Se aveva detto: «Ho deciso di sposarla» ciò significava che, se anche suo padre e sua madre o chiunque altro non avessero trovata di loro gradimento la ragazza, egli l'avrebbe sposata ugualmente. La signora Virginia rimase come fulminata. Il padre si limitò ad allargare le braccia dicendo: «Ognuno segue la strada che crede quella buona. E questa ragazza chi sarebbe?».
«La figlia di Bigoni.» Allora fu Magnaschi padre a rimanere a bocca aperta. «Bigoni?» domandò sbalordita la signora Virginia. «Bigoni di Fiumetto?» «Sì» rispose il figlio. «Ma Bigoni era un nostro vaccaro!» esclamò angosciata la signora Virginia. «È un ignorante, un uomo grossolano.» «Io non debbo sposare lui» spiegò con calma il giovanotto. «io sposo sua figlia. È una bella e brava ragazza, ha studiato un po', sa il fatto suo.» Il padre non disse niente, era una cosa enorme per lui: Gigino sposava la figlia di un suo ex vaccaro! «Se non avete niente in contrario, stasera la vado a domandare» annunciò Gigino. Il Magnaschi padre si strinse nelle spalle: «Vedi tu». La signora Virginia pianse tutta la notte e il Magnaschi non riuscì a chiudere occhio. Alla mattina poi ci fu l'altro colpo, il più grosso. Arrivò in macchina il vecchio Bigoni e la signora Virginia, appena lo vide, andò a chiudersi in camera sua. Il Bigoni era sempre quello di un tempo e, vestito della festa, pareva ancora più brutto e volgare. Entrò subito in argomento: «Vostro figlio è venuto a dirmi che vuol sposare la mia Paolina: se per voi va bene, per me va bene». Il Magnaschi borbottò:
«Se mio figlio ha deciso così… È lui che deve sposarsi, non io». «Bene!» esclamò il Bigoni. «Stando così le cose si conclude alla svelta. Io ho quattro figli e una figlia: a ognuno dei quattro figli lascio un podere. A mia figlia do una dote in contanti di venti milioni. Voi ne cacciate altri venti che fan quaranta e son proprio quelli che ci vogliono per concludere un buon affare. Vendono la tenuta di Camporosso che è di cento biolche con rustico in ordine e un bel palazzo. I due ragazzi si trasferiscono là e conducono il podere così come voi lo conducete qui. Mi pare che sia una cosa ben fatta.» Il Magnaschi approvò l'idea: «Mi pare una buona cosa». «Allora vediamo di sbrigarci perché c'è un sacco di gente che fa la posta a Camporosso e non bisogna lasciarsi scappare l'occasione.» Il vecchio Bigoni se ne andò tronfio e sudante, e la signora Virginia venne giù a sentire le novità. E tutto fu presto detto. «Non riesco ancora a crederci» gemette la signora Virginia. «A ogni modo sia fatta la volontà di Dio.» Il Magnaschi strinse i pugni: «È venuto per umiliarmi coi suoi quattrini!» esclamò. «Sporco villano!» La signora Virginia si fece più accomodante: «Venti milioni di dote non sono da buttar via. E Camporosso e un ottimo affare. Hai sempre detto anche tu che è un
podere in gamba. Dagli i quattrini e che vivano la loro vita. L'importante è che qui, a Santa Lucia, i Bigoni non mettano mai piede! Occhio non vede, cuore non sente». Il Magnaschi guardò la moglie. «Virginia» disse con angoscia «come si fa?» «Come si fa che cosa?» «Come si fa a dargli venti milioni? Tutto quello che possediamo oggi è il podere di Santa Lucia e tre milioni in banca.» La signora Virginia cadde a sedere su una poltrona. Era la prima volta che suo marito le parlava di questioni finanziarie: mai le aveva detto niente, mai aveva permesso che altri, all'infuori di lui, si occupasse di affari. La rivelazione la colse di sorpresa e la lasciò sgomenta. «Non posso cercare venti milioni in prestito qui: anche se li trovassi non li prenderei. Questa soddisfazione non la darò mai a questi pezzenti. Nelle banche chiedono il dieci, il quindici per cento di interesse, adesso. Non riuscirei mai a pagare. Per dare venti milioni a Gigino non c'è che un sistema: vendere Santa Lucia.» «Mai!» gridò la donna. «Sarebbe la peggior cosa. Significherebbe distruggere tutto irrimediabilmente. Significherebbe aver vissuto inutilmente. Tu non puoi tradire tuo padre! Santa Lucia è sempre stato l'orgoglio dei Magnaschi e lo deve rimanere. C'è un altro sistema: opporsi al matrimonio. Se Gigino se la vuol sposare, la sposi senza avere un soldo da noi.»
Il Magnaschi scosse il capo: «Gigino ha diritto di sposare chi vuole e noi non possiamo opporci. Inoltre i Bigoni e tutti gli altri direbbero che noi abbiamo trovato questa scusa perché non abbiamo i venti milioni. Sarebbe un trionfo per questa gentaglia». La signora Virginia era ritornata la solita signora Magnaschi, impassibile e impenetrabile. «Decidi quel che vuoi» disse. «Io sono pronta a tutto.» Il giorno dopo il Magnaschi mandò a chiamare il Bigoni: «Ho pensato tutta notte alla faccenda» spiegò al Bigoni. «L'affare di Camporosso è buono ma non se ne fa niente», Il Bigoni lo guardò: «Per venti milioni voi rinunciate a un colpo grosso!». «Non me ne importa niente» rispose duro il Magnaschi. «Mio nonno ha creato il nucleo di Santa Lucia, mio padre lo ha reso il podere più bello della regione e lo ha passato a me che l'ho reso il podere più bello d'Italia. Santa Lucia deve passare a mio figlio che lo renderà il podere più bello d'Europa.» Il Bigoni sghignazzò: «Non esageriamo! Qui giochiamo ai campionati del mondo!». «Con voi non accetto neppure di discutere su questo tema. Io sono il miglior agricoltore d'Italia e vi ho cacciato via perché eravate il peggior vaccaro dell'universo! Ricordatevelo.»
«Intanto però oggi sono in grado di dare un podere a ognuno dei miei quattro figli e venti milioni di dote a mia figlia!» gridò il Bigoni. «I soldi guadagnati col mercato nero non nobilitano la vostra bassa origine e non diminuiscono la vostra ignoranza!» affermò il Magnaschi. «Io non darò un centesimo a mio figlio. Io sono malato e debbo ritirarmi in riviera. Non ce la faccio più: se continuo crepo. Io mi ritiro e lascio Santa Lucia, così come si trova, a mio figlio perché non posso ammettere che un altro che non sia un Magnaschi possa condurre questo podere. Coi vostri venti milioni i ragazzi potranno comprare altre cinquanta biolche e ingrandire il podere: Pattini è disposto a cedere tutta la parte del suo fondo che confina con Santa Lucia. O così, o niente!» Il Bigoni allargò le braccia: «Per me va bene: fate vobis». * Celebrato il matrimonio fra Gigino e la figlia del Bigoni, concluso l'affare delle cinquanta biolche, il Magnaschi e la moglie fecero le valigie e partirono. Arrivati a Roma, andarono a trovare Giorgio, l'unico e grande amico di famiglia che avessero: «Giorgio» spiegò il Magnaschi. «Ho lasciato tutto a mio figlio. Non domandarmi perché ho fatto questo. L'ho fatto perché lo dovevo fare. Non abbiamo più niente e ho bisogno
di lavorare. Mandaci da qualche parte. Sai che io conosco il mio mestiere.» «Ho comprato una grande tenuta in Sudafrica. Non c'è niente e bisogna creare tutto: un uomo come te è quello che ci vuole.» «Quando dobbiamo partire?» rispose la signora Virginia. * Appoggiati al parapetto di poppa, il Magnaschi e la signora Virginia guardavano verso la terra che piano piano si allontanava. Quando fu scomparsa e si trovarono fra cielo e mare, il Magnaschi sospirò: «Tutto è finito. È il viaggio senza ritorno. Pare di essere come morti e di guardare il mondo dei vivi allontanarsi, mentre si vola in cielo. E, in pratica, siamo morti…». «Ma siamo morti bene!» esclamò la signora Virginia. E c'era, nella sua voce, un orgoglio smisurato.
155 COMUNQUE Don Camillo era di bocca buona e, più d'una volta, aveva ingoiato roba durissima da digerire: ma Comunque non riusciva proprio a mandarlo giù. Fra tutti quelli della banda di Peppone, Comunque era l'unico che mettesse paura a don Camillo: e non perché si trattasse di un forzuto o d'un violento, ma per tutt'altra ragione. Fino a quando Comunque era stato semplicemente Cesarino Delfosso, don Camillo non aveva mai avuto motivo di preoccuparsi particolarmente di lui. Poi, un bel giorno, Cesarino s'era trasferito non si sa dove per frequentare la scuola di Partito. Possedeva una memoria formidabile e, ritornando in paese dopo parecchi mesi, non era più un uomo, ma un perfetto fonografo automatico corredato di una completa collezione di dischi. Per ogni obiezione aveva il suo bravo disco pronto: e ogni disco era inciso con diabolica abilità perché per alcuni giri seguiva fedelmente il filo logico della discussione, poi lentamente, dolcemente, senza che gli ascoltatori potessero rendersi conto del trapasso, mollava il tema della discussione per svicolare in un altro tema. Cosicché l'oppositore si trova-
va alla fine nella situazione del pugile che si chiude nella più ermetica guardia per parare e controbattere il pugno dell'avversario che gli sta dinanzi e, a un tratto, riceve una pedata nella schiena da un compare dell'avversario. Oltre alla provvista di dischi, Cesarino s'era portato dalla città anche il «comunque»: una parola che aveva scoperto alla scuola di Partito e che gli era piaciuta tanto e poi tanto da sentire il bisogno di ficcarla un inverosimile numero di volte nei suoi discorsi. E, così, in paese l'avevano soprannominato «Comunque». Don Camillo era stato il primo a esperimentare la slealtà delle armi di Comunque. E si trattò di una esperienza particolarmente dolorosa perché il fatto accadde sulla pubblica piazza, durante un comizio. Comunque stava parlando già da un bel pezzo e, a un certo punto, don Camillo non seppe trattenersi e lo rimbeccò. Comunque non batté ciglio: mise sul fonografo il disco ad hoc e seppellì don Camillo sotto una valanga di parole. «Questa non è una risposta all'obiezione che ho fatto io!» protestò alla fine don Camillo. «Questa è un'altra questione!» Comunque sorrise: «Una volta, in guerra, un generale andò a fare un'ispezione agli avamposti e s'imbattè in un soldato che stava sdraiato per terra. "Perché non ti alzi e non saluti?" domandò il generale. "Sono otto giorni che sto qui di guardia e nessuno
mi ha mai portato né da mangiare né da bere" rispose il soldato. "Questa è una faccenda che non riguarda il regolamento di disciplina bensì la Sussistenza! Questo è un altro discorso!" urlò il generale. Comunque, reverendo, la questione era sempre la stessa, invece, per la semplice ragione che il soldato stava crepando di fame e non aveva neanche la forza di tirarsi su per salutare il generale». Don Camillo aveva dovuto lottare come un leone per cavarsi fuori da quel pasticcio e ne era uscito malconcio, in verità, perché è impossibile discutere con un fonografo. Comunque diventò il numero uno della propaganda, e siccome ogni occasione era buona per offrirgli il pretesto di impiantare una discussione, dopo un certo tempo tutti scopersero il segreto del giochetto ed evitarono di attaccar discorso con lui. Tutti, eccettuati i «rossi» per i quali Comunque rappresentava la più rigorosa logica, quella logica inflessibile davanti alla quale non c'era obiezione degli avversari che potesse rimanere in piedi. Ed erano i «rossi» che interessavano a Comunque e al Partito. * Don Camillo era di bocca buona, ma questo dannato Comunque non riusciva a mandarlo giù. Peppone, invece, aveva dovuto mandarlo giù perché, il primo giorno che, in sede, entrò in discussione con Comunque perché non si tro-
vava d'accordo su certe sue affermazioni, Comunque gli disse: «Compagno, le tue obiezioni sono quelle classiche che mi farebbe un reazionario. Debbo risponderti come risponderei a un reazionario, o mi basta ricordarti che questo che ho esposto è il punto di vista del Partito?». «Il punto di vista del Partito, se non sbaglio» replicò Peppone «è che nell'interno del Partito è permessa la discussione democratica.» «È permessa la discussione democratica ma non con argomentazioni antidemocratiche» affermò Comunque. Peppone non ritenne opportuno continuare la discussione perché capiva che l'idea di prendere a calci Comunque difficilmente avrebbe potuto essere interpretata come una argomentazione democratica. Mandò giù e non tornò più in argomento. Anzi, il giorno in cui incontrò don Camillo, si dimostrò tutt'altro che insoddisfatto del lavoro di Comunque: «Reverendo, se non sbaglio, ho l'idea che sia arrivato il tipo capace di mettervi i fichi a due la lira!» esclamò. «Mi pare che risulti piuttosto difficile mettere nel sacco quel giovanotto!» «Impossibile» rispose calmo don Camillo. «Nel sacco c'è già. Ce l'hanno messo alla scuola del Partito.» «Facile cavarsi d'impiccio con una battuta spiritosa» replicò Peppone. «Meno facile discutere col mio giovanotto.»
«Impossibile addirittura» affermò don Camillo. «Perché tu gli domandi cosa fa due più due e lui ti risponde: "Domani è venerdì".» Peppone sghignazzò: «Comunque mi pare che fino a oggi la cosa funziona». «Hai imparato anche tu a dir "comunque"?» si informò don Camillo. «Adesso il comunismo è forse diventato comunquismo?» «Reverendo, mi pare che anche voi, quando vi domandano cosa fa due più due, rispondiate: "Domani è venerdì".» «Può darsi: con la semplice differenza che io lo dico il giovedì, mentre il tuo campione lo dice il martedì o il sabato.» «Bisognerebbe che voi lo poteste dimostrare!» esclamò Peppone. «Impossibile, compagno sindaco: il calendario del tuo partito non va d'accordo col calendario dei galantuomini.» Peppone si fece aggressivo: «Reverendo, vi è rimasta nel gozzo la figura da cioccolatino che avete fatto quando avete tentato di mettere nel sacco Cesarino?». «Può anche darsi: però tu non ci sei mai riuscito.» Peppone accusò il colpo: «E cosa c'entra questo?». «C'entra perché io non capisco come mai nella tua sezione il capo rimani sempre tu quando avete uno che ragiona meglio di te.»
«Ci sono molte cose che voi non capite!» replicò Peppone. «Sappiate comunque…» «Ricominciamo a comunquare?» lo interruppe con un sorrisetto cattivo don Camillo. «Andate all'inferno voi e i pronomi!» gridò Peppone volgendogli le spalle e allontanandosi furibondo. * Comunque, dopo un anno di intensa attività oratoria, venne chiamato in città per la revisione del fonografo e l'aggiornamento del repertorio. Tornò con ogni congegno perfettamente lubrificato e con una serie completa di dischi nuovi tutti dedicati alla Russia: progresso straordinario della Russia, ferma volontà di pace della Russia, necessità di amare la Russia anche a costo di odiare tutti gli altri popoli del mondo, urgenza di denunciare il patto atlantico per stringere importanti rapporti commerciali e scambi culturali con la Russia e via discorrendo. Comunque si gettò a capofitto alla sovietizzazione delle masse e faceva delle sparate oratorie da togliere il fiato. E, quando proprio ebbe raggiunto la vetta dell'esaltazione, accadde il fatto. I carabinieri mandarono a chiamare Comunque per comunicazioni personali urgenti e Comunque andò. Peppone se lo vide ricomparire davanti a sera tarda e con aria cupa.
«Cosa volevano?» si informò preoccupato Peppone. «È un guaio grosso» rispose Comunque. «Manda via tutti perché si tratta di una cosa molto delicata.» Rimasti soli alla Casa del Popolo, Peppone si rivolse a Comunque: «Parla!». Comunque allargò le braccia: «Capo, è una cosa che riguarda me personalmente ma, impegnato come sono in questo momento, può tornare, in un certo senso, a danno del Partito». «Spiegati! Cos'hai combinato?» «Niente, è una storia vecchia. Tu lo sai che anche io, come tanti altri, ho dovuto fare la guerra. Anche io ho dovuto combattere contro gente che non conoscevo, anche io ho dovuto servire la causa sbagliata e diventare strumento della violenza dei dittatori. Anche io faccio parte di quella generazione tradita che ha aperto gli occhi quando era troppo tardi, anche io, come tanti altri, ho inconsciamente servito gli interessi dei mercanti di cannoni e dei tiranni…» «Taglia corto» lo interruppe Peppone. «Io non ti ho chiesto di fare l'autocritica. Inoltre nella tua scheda c'è scritto tutto: eri caporale di Sussistenza in Grecia.» Comunque scosse il capo: «Nella scheda c'è scritto cosi, ma in realtà io non facevo parte della Sussistenza in Grecia, ma ho combattuto come bersagliere in Russia». Peppone levò il capo di scatto.
«Ti sei comportato come un cretino. Dovevi dire la verità. Questi sono sistemi da ragazzini e da donnette. A ogni modo non vedo dove stia il pasticcio grosso e cosa c'entrino i carabinieri. Che porcheria hai combinato in Russia?» «Questa» sussurrò Comunque porgendo a Peppone un grosso rotolo. «Me l'hanno consegnato i carabinieri stasera.» Peppone distese sulla scrivania il foglio. Era il decreto di concessione di medaglia d'argento al valor militare al caporale dei bersaglieri Cesare Delfosso: e la motivazione era lunga e significativa. Peppone lesse attentamente il foglio poi sollevò il capo: «Volontario?» disse con voce cupa. «Sì» rispose assai umiliato Comunque. «Promosso caporale per ardimentosa impresa di guerra!» «Sì.» «Poi, da solo, con bombe a mano sei andato a snidare e a eliminare tre soldati russi che con la loro mitragliatrice pesante battevano un valico infliggendo gravi perdite ai reparti italiani in avanzata!» Comunque allargò le braccia: «Quando ho visto cadere fulminato al mio fianco Gigi, il mio più caro amico, non ho capito più niente». «E quando hai fatto l'altra azione di guerra che ti ha fruttato i galloni da caporale?»
«L'esaltazione della battaglia… Eravamo un po' tutti come pazzi…» «E quando sei andato volontario nel corpo di spedizione contro la Russia che esaltazione avevi?» «Non lo so» rispose Comunque. «Ero tanto giovane… Ci avevano avvelenato il sangue a scuola… Io appartengo a quella infelice generazione…» «Me l'hai già spiegato!» affermò bruscamente Peppone. «Adesso mi devi spiegare come te la caverai quando, mentre tu parlerai in comizio dei fratelli russi eccetera, quel maledetto di don Camillo ti sventolerà sotto il naso il giornale con la notizia della medaglia d'argento, la motivazione e tutto il resto.» «Nessun giornale stamperà questo!» protestò Comunque. «Se il corrispondente effettivo del giornale degli agrari non fosse don Camillo, e se don Camillo non fosse l'uomo capace di ficcare il naso dappertutto, forse te la caveresti. Ma stando come stanno le cose, gioco diecimila lire contro un bottone che dopodomani c'è sul giornale la notizia su tre colonne. Vuoi dirmi come te la caverai?» Comunque strinse i denti e rimase a pensarci sopra un bel pezzo inutilmente. Allora intervenne in suo aiuto Peppone. «C'è soltanto un sistema: appena ti sventolano sotto il naso il giornale, tu rispondi: "Non mi cogliete di sorpresa: aspettavo questo. Ecco difatti il decreto". Cacci di tasca il de-
creto, lo fai vedere, poi lo stracci in mille pezzi e spieghi: "Rifiuto sdegnosamente questa medaglia che mi ricorda un vergognoso passato che io disprezzo. Ho sbagliato come centomila giovani della mia età hanno sbagliato, vittime della delittuosa propaganda della dittatura. È alla dittatura e a voi che l'avete creata e sostenuta che io getto in faccia i brandelli di questo passato di vergogna che non tornerà mai più…". Eccetera. Ti prepari il discorsetto e poi, domattina, vieni qui e me lo fai sentire così concordiamo i particolari.» «Va bene, capo» disse Comunque rimettendosi in tasca il suo rotolo e andandosene. «Li farò crepare di rabbia, quei maledetti.» ■ ■■■'.■'■ * Peppone non aveva sbagliato: in quel momento don Camillo girava in su e in giù per la canonica in preda alla più viva agitazione. Sapeva già tutto. Gli avevano portato la copia completa del decreto e una foto, la foto di un gruppetto di bersaglieri che mostravano allegramente un cartello sul quale stava scritto: «Quando saremo a Mosca ci pianterem la giostra diremo ai bolscevichi che siamo in casa nostra».
E in prima fila, proprio col cartello in mano, stava il bersagliere Cesarino Delfosso detto Comunque. Don Camillo non riusciva a trovare la calma necessaria per sedersi a tavolino e buttar giù la notizia da inviare al giornale. Oltre al resto era incerto: inviare foto e notizia al giornale oppure far stampare dei manifestini da distribuire durante il primo comizio di Comunque? Finalmente si sedette al tavolino e impugnò la penna: aveva deciso per il giornale. Intinse la penna, la provò su un fogliaccio e, quando fu sicuro che funzionava perfettamente bene, scaraventò la penna lontano. L'asticciola andò a conficcarsi sul fianco di un armadietto e lì rimase assieme a tutte le tentazioni sconfitte da don Camillo. * L'indomani mattina Peppone ricevette la visita di Comunque. «Hai preparato il discorsetto?» s'informò bruscamente Peppone. «Sì» rispose Comunque. «Sentiamo.» Comunque rimase qualche istante a testa bassa come per rimeditare le parole che aveva architettato di pronunciare, poi disse: «Sventolino tutti i giornali che vogliono: io non straccerò niente. Io la medaglia me la sono guadagnata e me la tengo».
Peppone tentennò il testone: «Ti rendi conto esattamente di quello che dici?». «Sì: ci ho pensato e ripensato tutta la notte. Io non posso vergognarmi di essere stato un bravo soldato. Io allora ero convinto di servire il mio Paese e quelli contro i quali combattevo erano per me i nemici del mio Paese.» Peppone lo guardò severamente: «Tu dunque non ti vergogni, oggi che hai aperto gli occhi e sai come stavano e stanno le cose, non ti vergogni di aver fatto fuori quei tre poveretti che difendevano il loro Paese invaso?». «Me ne dispiace, ma non posso vergognarmene» spiegò Comunque. «Ciò è gravissimo.» «Sarebbe più grave se mi vantassi di essere stato disertore.» «Se tu fossi stato disertore oggi non ti sentiresti la colpa di aver partecipato attivamente a una guerra ingiusta.» «Se una guerra è giusta o ingiusta lo si sa soltanto quando è finita. Se la si perde è ingiusta, se la si vince è giusta. Io allora sapevo soltanto che il mio dovere era quello di andare a combattere come gli altri.» «Bene» concluse Peppone. «Se tu mi fossi venuto a dire che accettavi di stracciare il brevetto della medaglia ti avrei cacciato via a calci.» «Non c'era pericolo: piuttosto di stracciare quel foglio straccio la tessera del Partito.»
«Puoi tenere tranquillamente l'uno e l'altra» lo rassicurò Peppone. «Vedrò io di mettere a posto ogni cosa per il resto.» Appena entrato in canonica, Peppone mise senza tante storie la faccenda sul tappeto: «Reverendo, caso mai non lo sapeste ancora, vi avverto che il cosiddetto Comunque, quello che adesso fa la réclame alla Russia, ha preso una medaglia d'argento per un eroico fatto d'arme compiuto combattendo contro i russi». «Lo so già» rispose don Camillo. «Lo immaginavo. Sono quindi certo che, se non l'avete già fatto, provvederete a mandare la notizia al giornale in modo da poter in un certo senso mettere in imbarazzo lo stesso Comunque.» «Me ne guardo bene» replicò don Camillo. «Gli affari interni del vostro partito non m'interessano.» Peppone arrossì di rabbia: «Capisco, reverendo, a voi interessano soltanto i fatti disonorevoli che accadono nel mio Partito. Se a uno dei miei riconoscono il merito di essere stato un bravo soldato, questo non vi interessa. È uno strano modo di fare il corrispondente del cosiddetto "giornale indipendente". Se foste un uomo onesto, mettereste sul giornale non soltanto il brutto ma anche il bello». Don Camillo si alzò, andò nell'angolo dello stipo, cavò la penna infissa nel legno, rabberciò il pennino e, sedutosi al tavolo vergò rapidamente alcune righe: «A riconoscimento di
una eroica azione di guerra nel corso della quale, da solo, riusciva a raggiungere e a distruggere un nido di mitragliatrici tenuto saldamente da tre soldati nemici, è stata concessa al caporale dei bersaglieri Cesare Delfosso la Medaglia d'argento al Valor Militare». Mostrò il foglietto a Peppone che lesse attentamente la notizietta. «Se si trattasse di uno dei vostri, avreste fatto un romanzo!» commentò alla fine. Don Camillo allargò le braccia: «Se Dio ti porge un dito non afferrarGli la mano» sentenziò. «Non sapevo che adesso vi avessero promosso addirittura Padreterno» commentò Peppone. «Volete che vi paghi subito il disturbo o aspetto che mi mandiate la nota a casa?» «Aspetta la nota: ma non te la manderò io. Te la presenterà il Padreterno quando sarà ora.» «Speriamo che sarete tanto gentile da farmi fare uno sconto.» Peppone uscì ed era molto soddisfatto.
156 MENELIK Giarón il carrettiere era conosciuto come la betonica e, in paese, si sapeva tutto su Giarón eccettuata una cosa soltanto: se fosse più bestia lui o il suo cavallo. In generale, alla gente grossolana scappa, quando parla, qualche bestemmia: Giarón, al contrario, era un tipo al quale, nel parlare, scappava qualche parola perché il suo vocabolario era composto esclusivamente di bestemmie, e le bestemmie non sono parole. Giarón aveva conosciuto tempi splendidi e s'era trovato ad avere nove magnifiche bestie da tiro: sei cavalli e tre figli. Allora, quando uno del paese o dei dintorni si metteva in strada con un barroccio, una bicicletta, una moto o una automobile, doveva ogni volta pregare il Padreterno che non lo facesse incocciare in qualche Giarón. Salvo la provinciale, le strade della Bassa erano tutte poco più di grossi sentieri e ogni Giarón ragionava così: «Se la strada basta appena appena per me, perché pretenderesti di servirtene anche tu? Lasciami dormire e arrangiati!». Brutto affare svegliare un Giarón quando dormiva bocconi sul colmo del carico di ghiaia o sabbia del suo barroccio. Brutto affare perché tutti i Giarón erano fabbricati della
stessa stramaledetta pasta e non ci mettevano niente a tirar giù legnate col manico della frusta o sventole col badile. Del resto, a quei tempi, non soltanto i Giarón la pensavano così: la faccenda di andar giù di strada e cedere il passo a qualcuno era una questione d'onore per tutti i carrettieri in genere. E non si trattava neanche di cattiveria o di prepotenza; quando il carrettiere tornava su dal fiume dopo aver caricato un cassone di roba, si sentiva in diritto d'esser lasciato tranquillo: si buttava con la pancia sulla sabbia fresca e, mentre il sole gli arrostiva la schiena, si addormentava e lasciava che il cavallo se la sbrigasse. E il cavallo tirava avanti e si arrangiava da solo fin dove poteva. I cavalli dei carrettieri erano brave bestie, le più brave bestie del mondo, e la gente si trovava d'accordo nel dire che erano meno bestie dei loro padroni. Salvo nel caso del cavallo di Giarón padre la gente aveva qualche perplessità. Perché il cavallo di Giarón padre non si limitava a tirare avanti per la sua strada quando il padrone dormiva: ma, ogni volta che passava davanti a una osteria, si fermava e rimaneva lì fino a quando Giarón non si fosse svegliato. «No» diceva sempre don Camillo «per me Giarón è più bestia del suo cavallo perché è stato lui ad abituare il cavallo a fermarsi davanti a ogni osteria. Il cavallo si limita a fare quello che gli hanno insegnato.» «Per me, invece, è più bestia il cavallo che Giarón» replicava qualcuno. «Perché un cavallo, bestia che sia, avrebbe il dovere morale di ragionare lui quando il ragionamento del
suo padrone non funziona. Un cavallo che non fosse più bestia di Giarón non si fermerebbe davanti alle osterie costringendo il padrone a svegliarsi e a scendere per riempirsi di vino.» Discussioni peregrine, baggianate se si vuole, ma che servono a spiegare che arnese fosse Giarón e che razza di arnesi potessero essere i figli di uno stramaledetto del genere. Giarón, dunque, aveva conosciuto tempi splendidi poi, una bella volta, era scoppiato il guaio grosso. Rincasando, una sera, Giarón trovò che i suoi tre figli avevano un'aria differente dal solito. Mangiarono in silenzio, poi il più vecchio dei figli vuotò il sacco: «Qui non si va più avanti» disse. «Qui bisogna venire a una decisione o si crepa di fame.» Giarón sfoderò una bestemmia con intonazione interrogativa. «È inutile che vi scaldiate» esclamò cupo il figlio. «Guardatevi d'attorno e vedrete che noi siamo gli unici in tutta la plaga a insistere nel nostro mestiere. Tutti gli altri hanno capito già da un pezzo che coi cavalli non si può fare concorrenza ai camion. Il camion carica dieci volte tanto e fa dieci volte più strada di un cavallo. E mentre al cavallo bisogna dar da mangiare anche quando non c'è lavoro, il camion, quando sta fermo, non consuma niente.» Giarón domandò dove il figlio volesse arrivare con questo suo discorso. E il figlio glielo spiegò:
«Abbiamo sei bestie e un po' di quattrini da parte: vendiamo le bestie e compriamo un camion. C'è un'occasione buona e non bisogna lasciarla perdere». Giarón si guardò attorno e si accorse che tutt'e tre i figli erano d'accordo: allora la sua ira esplose e ne saltò fuori una scena spaventosa. Alla fine Giarón urlò: «Chi vuol cambiare, se ne vada. La roba è mia e ne faccio quel che voglio io!». «La roba è nostra!» replicò il figlio più vecchio «perché anche noi abbiamo lavorato come voi. I diritti sono uguali.» Giarón sparò la sua più orrenda bestemmia poi concluse: «Voi fate come volete: io mi tengo Menelik e la Bionda e continuo il mio mestiere». Tre sere dopo, rincasando carico di vino, Giarón trovò sotto il portico un grosso camion. Era una bella macchina, e i tre figli di Giarón se la stavano rimirando come se fosse il panorama di Napoli. Giarón lo guardò con odio e sputò per terra. «Gli passerà!» borbottò ridacchiando il figlio più vecchio rivolto agli altri due. Non gli passò e anche quando, un mese dopo, i figli gli mostrarono i conti e gli spiegarono il guadagno di trenta giorni di lavoro, Giarón non si smosse. «I conti non si fanno dopo un mese» affermò. «I conti si fanno in ultimo.»
Non volle neppure toccare quei soldi. «Puzzano di petrolio» disse. «È il petrolio che ha rovinato il mondo. Da quando in questa casa si sente puzzo di petrolio non va più bene niente.» Il figlio maggiore saltò su imbestialito: «In questa casa non va bene niente quando voi puzzate di vino come adesso!» replicò. Giarón si scagliò su di lui per picchiarlo ma il figlio lo respinse con una manata. Giarón era gonfio di vino fino agli occhi e finì per terra lungo disteso. Si rialzò faticosamente e la sua ira era diventata furore perché sentiva che riusciva a malapena a reggersi in piedi. «Avete avuto tutto quello che vi spettava e anche di più!» urlò ai figli. «Andatevene via di qui e portatevi via quel canchero perché se io me lo trovo domani ancora fra i piedi gli do fuoco! Via tutti, porci vigliacchi!» I tre se ne andarono la notte stessa: caricarono le loro carabattole sul camion e partirono senza dir niente. In casa rimasero soltanto Giarón e la vecchia e fu una vita schifosa perché tutti i discorsi fra i due erano costituiti dalle furibonde bestemmie di Giarón e dal silenzio cupo di sua moglie. Giarón continuò a fare il carrettiere: non aveva rinunciato a niente. Era l'unico di tutta la Bassa che continuasse a portare la fascia di lana rossa e verde attorno alla vita, le camicie a quadroni, il gilè a doppiopetto col catenone del gros-
so Roskoff d'argento, il cappello alla socialista buttato in testa alla diotifulmini. Giarón continuò a fare il carrettiere senza rinunciare a niente anche se a un bel momento dovette rinunciare alla Bionda e accontentarsi di tirare avanti alla bell'e meglio con Menelik. Non rinunciò alla sua fascia rossa e verde, non rinunciò al suo vino, non rinunciò alle sue orrende bestemmie. E la volta in cui in una stradetta solitaria don Camillo gli arrivò alle spalle in bicicletta e gli gridò che si facesse da parte perché la strada non era sua e anche gli altri avevano diritto di passare, Giarón urlò con voce roca cose da far drizzare i capelli a un ateo calvo. Don Camillo, abbandonata la bicicletta, lo agguantò per una gamba e lo tirò giù dal barroccio. «Giarón» ruggì don Camillo sbatacchiando il carrettiere contro una sponda del barroccio. «Questa volta io te le faccio pagare tutte.» «Siete un vigliacco uguale a mio figlio che mi ha messo le mani addosso approfittando che avevo bevuto un po'» rispose Giarón afflosciandosi come uno straccio tra le mani di don Camillo. «Picchiatemi quando sono giusto, se avete il coraggio!» Don Camillo mollò il carrettiere e risalì sulla sua bicicletta.
«Giarón» disse don Camillo «chi semina vento raccoglie tempesta. Tutti ti abbandoneranno se continui questa tua porca vita. Un giorno sarai solo come un cane.» «Non me ne importa un accidente» replicò Giarón. «A me basta che non mi abbandoni il mio cavallo.» «Ti abbandonerà anche lui!» «I cavalli sono più galantuomini dei cristiani!» urlò Giarón. «I cavalli non tradiscono.» Fu la stessa sera che, rincasando, Giarón non trovò più sua moglie. Trovò un bigliettino sulla tavola apparecchiata: «Vado coi miei figli: ho sopportato anche troppo». Giarón spaccò tutto quello che gli capitò sottomano, ma quello sfogo non gli bastava e allora andò nella stalla e, urlando come un pazzo, si scagliò su Menelik. «Tu no, porco maledetto!» urlava mentre furibondo riempiva di pugni la testa del cavallo. «Tu non mi pianterai come gli altri! Tu non mi tradirai! Tu non ti ribellerai!» Giarón era pieno di vino e le sue mani non riuscivano a colpire bene la bestia: allora afferrò la corta frusta per la parte sottile e incominciò a menar legnate a Menelik. Sulla testa, sulla schiena, sul ventre: legnate feroci come se, invece di picchiare un cavallo, stesse picchiando un uomo. Menelik nitrì e prese ad agitarsi atterrito ma Giarón continuò a pestarlo sempre più ferocemente. A un tratto la cavezza si spezzò e, con un balzo, il cavallo si scagliò verso la porta della stalla.
Giarón fu travolto e cadde. Quando si rialzò il cavallo era già scomparso in mezzo ai campi. «Ti abbandonerà anche lui!…» Giarón sì ricordò le parole di don Camillo e gridò ancora una orrenda bestemmia. Poi si sentì spossato e con la testa vuota e andò a buttarsi sul letto. Si svegliò che il sole era già alto: si trovò ancora vestito e con le ossa peste. Nel fuggire Menelik col ferro di uno zoccolo gli aveva ferito uno stinco. Scese zoppicando e la casa era silenziosa e deserta: in cucina i cocci delle stoviglie che nel suo furore Giarón aveva spaccato occupavano il pavimento. Sulla tavola devastata c'era ancora il bigliettino della donna: «Vado coi miei figli…». Poco male se gli fosse rimasto Menelik: ma anche il cavallo se ne era andato. Giarón entrò nella stalla vuota. Guardò la cavezza spezzata. Il furore lo riprese e voleva urlare chi sa cosa: ma per la prima volta nella sua vita non ebbe la forza di bestemmiare. Uscì a testa bassa dalla stalla e andò dietro la casa per dare un'occhiata al barroccio sotto il portico. Il barroccio era là e, fra le stanghe, stava fermo, ad aspettare pazientemente, Menelik. Giarón rimase un istante perplesso, poi si avvicinò lentamente al cavallo e, buttatigli addosso i finimenti che erano appesi al muro, glieli affibbiò. Nel mettergli il sottopancia si
accorse che Menelik aveva una scorticatura. Chi sa quante altre ne aveva sulla schiena e sul muso. «Hiup!» gridò Giarón mettendo un piede su un raggio di una delle due alte ruote del cassone e aggrappandosi con le mani alla fiancata. «Hiup!» Il cassone si mosse, la ruota girò sollevando il carrettiere che saltò al momento giusto dentro il cassone. * Giarón rivide due dei suoi figli un anno dopo. Era un pomeriggio pieno di sole e il cassone di Giarón stava rollando sui sassi della Strada Quarta mentre Giarón dormiva con la pancia sul colmo del carico di sabbia fresca. Un suono prepotente di clacson lo svegliò: si volse e vide che un grosso camion era dietro il biroccio e domandava il passo. Riconobbe nei due uomini che stavano dentro la cabina i primi due dei suoi tre figli, i più anziani. Non disse bai. Riprese a dormire e lasciò che Menelik continuasse a camminare nel bel mezzo della strada. Quelli del camion non insistettero col clacson: avevano riconosciuto Giarón e seguirono zitti zitti il barroccio per sei chilometri, fino al quadrivio della Pioppaccia: qui il cassone svoltò a destra e il camion tirò diritto. Passarono altri due anni e Giarón ricevette la notizia che sua moglie era morta. Non andò al funerale perché non vole-
va incontrarsi coi figli. Ma con due dei figli doveva incontrarsi sette od otto mesi più tardi. Fu sulla provinciale vicino al bivio del Molinetto. Giarón dormiva come al solito in cima al suo cassone carico di sabbia e, a un tratto, qualcuno fermò il cavallo e urlò qualcosa. Giarón si trovò davanti a un gruppo di gente che stava discutendo. C'erano anche i carabinieri. Giarón scese e andò a curiosare anche lui. Niente di straordinario. «Un camion è finito dentro il canale» gli spiegò qualcuno. «Uno degli autisti dormiva nella cuccetta della cabina, l'altro deve aver preso sonno per il caldo e la stanchezza. Sono morti tutt'e due sul colpo.» I due cadaveri stavano sul ciglio della strada coperti da un telone: Giarón si appressò e, chinatosi, sollevò un lembo della tela. Lo sapeva anche prima di sollevare la tela: erano Diego e Marco, i suoi due ragazzi più vecchi. Allora Giarón bestemmiò come non aveva mai bestemmiato: «Era meglio se lo bruciavo!» urlava. «Maledetti stupidi, ve l'avevo detto che il petrolio è la rovina.» Scese nel canale per sputare sui rottami del camion. Voleva incendiare tutto e dovettero tirarlo via per forza. Risalì sul cassone e riprese la sua strada. E la gente lo vide agitarsi e lo sentì bestemmiare fino a quando Menelik non svoltò per la stradetta del Mulino Vecchio.
Gli rimaneva il terzo figlio e gli dissero che adesso abitava a Fiumetto dove faceva servizio di corriere con un motocarro veloce. Un anno dopo lo vennero ad avvertire che anche il terzo figlio aveva raggiunto gli altri due. Un autotreno lo aveva appiccicato a un muro assieme al motocarro. Giarón bestemmiò come un pazzo e il giorno in cui incontrò don Camillo e don Camillo scese dalla bicicletta per venirgli a parlare e fargli animo e convincerlo a sopportare con animo sereno le sue disgrazie, Giarón agguantò la frusta per la parte sottile e urlò: «Prete maledetto: se hai il coraggio di parlare ti ammazzo a legnate!». Le bestemmie del vecchio fecero impallidire don Camillo che non ebbe la forza di farlo tacere. Una volta che il vecchio tacque perché il fiato gli mancava, don Camillo gli parlò con dolcezza: «Giarón, il dolore vi rende pazzo: che Dio vi faccia rinsavire e vi protegga». «Dio!» urlò Giarón. «Non voglio aver niente a che fare col tuo Dio! Il tuo Dio mi ha tradito! Tutti mi hanno tradito: soltanto il mio cavallo non mi ha tradito e non mi tradirà!» * Continuò mesi e anni a girare per le stradette della Bassa il biroccio di Giarón e, quando la gente lo incontrava, aveva l'idea di veder passare la carretta del Demonio perché
Giarón era tanto gonfio di odio verso Dio e verso il suo prossimo che le sue bestemmie non soltanto orrore facevano, ma paura. Continuò mesi e anni a navigare tra i campi della Bassa la carretta del Demonio e a incontrarla veniva fatto alla gente di segnarsi. Giarón non parlava più con nessuno, parlava soltanto con Menelik: sdraiato sulla sabbia del cassone, Giarón parlava con Menelik e ci fu una ragazza che, un giorno, arrivò spaventata da don Camillo e gli giurò di aver sentito lei, con le sue orecchie, che Menelik rispondeva a Giarón. «Ho sentito un cavallo parlare come un cristiano!» gemette la ragazza. «Io ho sentito di peggio» replicò don Camillo. «Ho sentito adesso una ragazza parlare come una gallina. Cerca di dire delle cose meno stupide!» Menelik continuò a trascinare il biroccio del vecchio Giarón per un sacco di tempo ancora, e il vecchio Giarón continuò a parlare con Menelik: o urlava come un ossesso, o parlava sottovoce con Menelik. Ma una sera d'autunno accadde qualcosa che fece rimanere perplesso Menelik. Il vecchio Giarón, dopo aver parlato a lungo con Menelik, tacque e non prese a urlare: incominciò a gemere e quel lamento appunto fece drizzare le orecchie a Menelik. Era oramai buio e le strade deserte e silenziose: Menelik si fermò e lanciò un nitrito. Ma gli rispose soltanto il gemito di Giarón. Allora Menelik riprese il cammino e, arrivato al
fontanile, là dove la strada si allargava, lentamente girò e ritornò indietro, verso il paese. Don Camillo s'era appena messo a tavola per cenare quando udì il rumore e, siccome il rumore non finiva, andò a dare un'occhiata per vedere cosa stesse succedendo davanti alla canonica e si trovò davanti a Menelik che scalpitava fermo davanti alla porta. Udì il gemito venire dall'alto del biroccio e, fattosi scaletta della ruota, salì. Si trovò con la faccia a pochi centimetri dalla faccia dell'uomo sdraiato sul colmo del carico di sabbia. «Giarón!» esclamò don Camillo «sono io, don Camillo!» «Che Dio mi perdoni…» sussurrò con un filo tenue di voce il vecchio Giarón. Poi il vecchio Giarón non disse più niente di niente. Non gemette più. Ma oramai Dio l'aveva perdonato. Don Camillo si trovò giù, e sentì il fiato caldo di Menelik. «Menelik» sussurrò don Camillo accarezzando il muso del cavallo. «Non può averti guidato lui fino a qui. Le redini non le teneva più lui: gli sono scappate di mano fin da quando s'è sentito male e questo deve essere successo tanto tempo fa perché si vede che le redini hanno strusciato a lungo per terra e ti son finite sotto gli zoccoli e tu le hai spezzate. Menelik, come hai fatto per arrivare fin qui?» Don Camillo ebbe paura del silenzio e del buio.
«Menelik» implorò ancora con angoscia. «Te l'ha detto lui di venire qui o l'hai portato tu di tua ispirazione?» Menelik non rispose perché i cavalli non possono parlare e allora don Camillo si accorse della cosa pazza che stava facendo. «Gesù» gemette. «Illuminate la mia mente perché ho la testa piena di nebbia, tanto è vero che adesso io sto parlando con un cavallo!» «Don Camillo» rispose la voce del Cristo «un uomo è venuto qui per morire nella grazia di Dio. Perché di questo fatto vuoi essere grato a un cavallo mentre tu devi esserne semplicemente grato a Dio?» Don Camillo trasse un sospiro: «Gesù, perdonatemi: ma non so come sia successo. M'è venuta in mente la poesia della cavallina storna, quella che risponde col nitrito…». «Don Camillo, non confondere la fede con la poesia.» Menelik era nero come la notte e immobile come fosse di marmo. A un tratto nitrì e, più che un nitrito, pareva un singhiozzo. Ma era poesia, solo poesia e don Camillo scoppiò a piangere come s'era messo a piangere quando, ragazzo, aveva letto l'ultimo verso della «Cavallina storna». Poesia, solo poesia.
157 NEL PAESE DEL MELODRAMMA Le galline aspettavano che la campana suonasse il mezzogiorno e, intanto, provavano la voce per il solito coro. Quell'estate, il sole ce l'aveva messa tutta e spesso si sentiva dire o si leggeva di gente che, mentre traversava una piazza o camminava per la strada, era cascata per terra – come una pera cotta – ammazzata dal caldo. Tutti si tenevano lontani il più possibile dall'asfalto e, sulla provinciale, si vedeva soltanto un disgraziato che viaggiava a cavalcioni di una scassata motoleggera. A mezzo chilometro dal paese il motore smise di ronzare: starnutì e si fermò. L'uomo scese di sella e continuò la strada a piedi, spingendo il suo motociclo. Non si chinò neppure a guardare il motore perché sapeva perfettamente dov'era il guasto. Guasto grosso, il più grosso dei guasti: mancava la benzina e pur se il distributore fosse stato a lato della strada, il motociclista avrebbe dovuto continuare pedibus calcantibus ugualmente in quanto non aveva un ghello in saccoccia. Mentre sudando procedeva per la strada deserta, l'uomo si guardava attorno per veder di trovare un'ombra: ma non c'erano piante, ai lati della strada. E anche a poter scavalcare
il fosso per entrare nei campi, di là si sarebbero trovate soltanto stoppie bruciate. Era un tratto di strada maledetto, quello lì, e, più avanti, dove cominciavano i campi alberati, avevano messo le siepi di rete metallica. L'uomo continuò; si sentiva una gran confusione dentro la testa (forse debolezza per via delle febbri dei due giorni precedenti, forse debolezza per via che non aveva mangiato da quindici ore) e aveva paura che il sole gli azzeccasse una botta sul cervello. Arrancò disperatamente e allorché, finalmente, riuscì a raggiungere la Maestà che sorgeva a cinquanta metri dalle prime case del paese, gli parve di essere scampato miracolosamente a un grosso pericolo. La cappelletta dava un minimo d'ombra e, per goderla, bisognava rimanere appiccicati al muro tanto era stretta: l'uomo si addossò al muro e gli venne in mente di essere un naufrago aggrappato a una magra zattera. Una zattera verticale. Oramai il mezzogiorno stava per suonare e incominciava a passar gente per la strada: l'uomo pensò che non poteva rimanere lì, non poteva farsi vedere dalla gente in quella strana situazione. Perfino i ragazzini dell'asilo la sapevano lunga, in fatto di motoleggere, e, poco che fosse rimasto lì, qualcuno si sarebbe fermato a domandare che accidente avesse la motoleggera e a dar consigli e a offrire aiuto.
Si tolse dall'ombra, tirò su la moto e riprese deciso la strada. Ma, fatti pochi passi, si rese conto che, scassato com'era, non doveva neanche sognarselo di arrivare a piedi fino a casa sua. Abitava in città a trentacinque chilometri di distanza. Si trattava di guadagnar tempo e, soprattutto, si trattava di riuscire a sbarazzarsi della moto. Allentò la valvola del pneumatico anteriore e, quando la copertura fu afflosciata, si rimise in viaggio. Suonava la campana del mezzogiorno allorché l'uomo arrivava davanti all'officina di Peppone. Peppone stava ancora smartellando: l'uomo entrò con la moto nel grande stanzone affumicato. «Per cortesia» disse «gliela lascio qui. Con comodo mi guardi il pneumatico dietro. Non so se sia bucato o se si tratti della valvola che perde. Tornerò nel pomeriggio, sul tardi perché ho da fare in paese.» Tirò fuori dalla borsa del portapacchi una busta di cuoio molto spelacchiata e se ne andò. Gli pareva di aver fatto un grosso colpo: "Intanto, fino a stasera alle cinque o alle sei, sono a posto. La moto è al sicuro, non m'impiccia, non mi mette in imbarazzo e io posso pensare tranquillamente al modo di rimediare i quattrini che mi occorrono". In realtà aveva aggravato la faccenda perché, se prima occorrevano solo i quattrini per la benzina, adesso occorrevano anche i quattrini che bisognava dare al meccanico per il
disturbo di aver tenuta mezza giornata la moto e di aver controllato il pneumatico. A ogni modo si trattava di poca roba. L'importante, la cosa urgente e necessaria era, adesso, di riuscire a sottrarsi alla curiosità della gente. Il forestiero, in un paese piccolo, fa spicco, specialmente quando lo si veda gironzolare in su e in gita proprio nell'ora in cui tutti vanno a mangiare. Uscì dall'abitato e, alla prima carrareccia, svoltò deciso e si buttò a sedere all'ombra della siepe. C'era un fossetto con un po' d'acqua ferma: si lavò le mani e inumidito il fazzoletto, si ripulì la faccia. Si ravviò i capelli e, strappato un ciuffo d'erba, si tolse la polvere dalle scarpe. La barba se l'era fatta la mattina col rasoio che portava sempre con sé, dentro la borsa della moto: adesso era di nuovo a posto e poteva presentarsi dignitosamente dovunque avesse voluto. Quand'era ancora impolverato, spettinato, pieno di sudore e con quella dannata moto da trascinarsi dietro come una croce, era sicuro che il guaio stava tutto nel disordine della sua persona e nell'impiccio che gli dava la macchina: rimediato al disordine e scomparso l'impiccio, ogni cosa avrebbe ripreso a funzionare perfettamente. Adesso si accorgeva che la situazione era peggiorata. A chi presentarsi di bel mezzogiorno? A chi andare a offrire lucido da scarpe e saponette?
E poi, anche ammettendo che fosse riuscito a far firmare qualche ordinazione, chi gli avrebbe dato dei quattrini d'anticipo su merce di cui aveva visto soltanto il campione? Già da quattro anni faceva quel mestiere. La guerra l'aveva portato via dalla vita a ventidue anni e quando, dopo cinque anni, egli era ritornato, non aveva più trovato nessuno a casa sua. Non aveva più trovato nessuno e niente: neanche la casa. Un mucchio di calcinacci nudi e crudi perché la gente aveva rubato tutto quello che non era calcinaccio, perfino i mattoni rimasti interi. Gli avevano dato quattro soldi di danni di guerra, e con questi e con gli altri quattro soldi che aveva avuto dal distretto come liquidazione dei due anni di prigionìa in Germania si era comprato qualche vestito, un po' di biancheria e le carabattole necessarie per poter abitare una stanzaccia rimediata Dio sa come. La motoleggera non era sua; la noleggiava di volta in volta, e gli facevano un buon prezzo: una ditta di quint'ordine lo aveva assunto come produttore. Batteva le piazze attorno alla città, per un raggio di quaranta chilometri. Da quattro anni andava in giro a offrire cattivo sapone e pessimo lucido da scarpe a gente che aveva quasi sempre le botteghe piene zeppe di sapone finissimo e di lucido eccellente: faceva dei trattamenti di favore mangiandosi metà della provvigione,
pur di riuscire a vendere qualcosa. In principio disponeva di una piccola scorta e allora il gioco gli riusciva. «Se lei fa questa ordinazione» diceva «riceverà una fattura di milleottocento lire. È già un ottimo affare ma io, siccome voglio farmi una solida clientela, intendo lavorare soltanto per la pubblicità. Così, per dimostrare coi fatti che lei incomincia a guadagnare prima ancora di vendere la merce, io le do subito trecento lire in contanti e lei verrà a pagare non milleotto ma millecinque.» L'idea di ricevere dei quattrini da chi le vende roba è, per una certa categoria di persone, piuttosto simpatica, e in principio la faccenda funzionò. Poi, quando fu finita la scorta, il lavoro diventò ancora più duro e adesso, ogni volta che fermava il macinino davanti a una botteguccia di campagna, l'uomo si sentiva mancare il cuore. E quando spingeva la maniglia di un uscio a vetri e il campanello suonava, gli veniva la voglia di saltar sulla macchina e di scappar via. E mentre attendeva che qualcuno arrivasse in bottega pensava: "Questa volta non mi andrà liscia. Quando sapranno chi sono e quello che voglio mi cacceranno fuori a calci". Nessuno invece lo aveva mai preso a calci: nessuno lo aveva mai maltrattato. Forse perché era un bell'uomo e con un portamento da signore anche se i suoi abiti non valevano che pochi soldi. Forse perché tutti i bottegai erano oramai abituati a ricevere visite di produttori, e rispondevano di no con l'indiffe-
renza data dalla lunga abitudine. Ma egli avrebbe quasi desiderato che lo insultassero, che gli rispondessero di mangiarseli lui il suo schifoso sapone e il suo ripugnante fango per scarpe. Forse allora avrebbe trovato la forza di piantar lì e di darsi da fare da qualche altra parte. Invece il tran tran era continuato: ma adesso qualcosa di eccezionale stava succedendo. A Castelletto, tre giorni prima, una febbre da cavallo lo aveva costretto a rimanere a letto in un alberguccio, e quando si era alzato i pochi quattrini che aveva in saccoccia gli erano appena appena bastati per pagare la camera e il mangiare. Il conto faceva duemilasettanta ed egli ne aveva duemila soltanto: ma la padrona, visti i due biglietti da mille, aveva detto che bastava così. Un miracolo. Che però non si era ripetuto quando, a dieci chilometri da Castelletto, il serbatoio della motoleggera era rimasto vuoto. E adesso egli era lì, seduto all'ombra della siepe, in riva al fossatello pieno di acqua morta, a pensare al modo di riempire il serbatoio e di tornare a casa. Di tornare a casa senza una lira e senza aver guadagnato un centesimo di provvigione. Vendere qualcosa? Non possedeva niente: la moto apparteneva al noleggiatore e, anche a impegnarla soltanto, c'era da andare in galera. Un rimedio peggiore del male. Ripensò ai giorni della guerra e della prigionìa: come era bella la vita, allora, ancora piena di speranze.
Guardò l'acqua morta del fossatello; levò gli occhi e si ricordò di una cosa molto importante: oltre l'argine c'era il fiume. Il fiume che lì si allargava e pareva immenso. Pensò a quell'acqua e gli parve che l'aspettasse. Provò quasi una gioia. Il fiume ampio e profondo. Si alzò e la testa prese a girargli. Si incamminò verso l'argine lontano, ma c'era qualcosa che l'aveva uncinato allo stomaco e lo teneva lì. Era fame. Fame disperata. E la fame lo teneva agganciato alla vita. "Fin che desidererò di mangiare come lo desidero adesso non troverò mai la forza di buttarmi nel fiume. Voglio mangiare, inzepparmi lo stomaco di cibo e di vino." Aveva bisogno di mangiare ma soprattutto di bere. Riempirsi di vino. Rientrò nella strada e si avviò verso il paese. L'osteria della Frasca era lì a duecento metri, una casetta isolata col pergolato davanti. "Mangiare e bere va bene, ma pagare?" Quel pensiero lo fece ridere: un uomo che, fra un'ora al massimo, sarà morto, deve proprio preoccuparsi di una cosa del genere. Un moribondo che si angustia: "Chi pagherà i miei funerali se sono solo al mondo?". E poi l'avventura lo divertiva: non aveva mai fatto una cosa così, non era mai partito allo sbaraglio in questo modo. Tanta gente aveva avuto mille avventure di tal genere nella
vita e se ne gloriava. Anche lui l'avrebbe avuta la sua avventura e si sarebbe accontentato di raccontarla a se stesso, prima di buttarsi nell'acqua. Entrò nell'osteria pieno di allegria: lo interessava straordinariamente sapere come sarebbe finita la storia del desinare a sbafo. Si sedette ma non si tolse la giacca. Ci teneva a non perdere quota neppure all'ultimo giro. «Vorrei mangiare» disse con voce sicura all'oste. «Datemi tutto quel che c'è di pronto.» L'oste della Frasca era un omaccio sgraziato dal principio alla fine. Un uomo che non aveva mai riso, in vita sua, perché anche se l'avesse voluto, non ci sarebbe mai riuscito tanto aveva duri e tirati i muscoli delle mascelle. Lo chiamavano Ganassa, per dir ganascia, e i suoi movimenti erano lenti e tardi. Le volte che lo tiravano a cimento e doveva mettere in moto le mani, non dava cazzotti come fanno tutti gli altri cristiani: levava il pugno e lo mollava giù come una martellata. «Minestra col lardo, salame e frittata con le cipolle» spiegò Ganassa con voce cupa. «Va bene. Portate subito del vino.» Arrivò la minestra e, più che mangiarla, il giovanotto la fumò, poi si buttò sulla frittata e sul salame. Faceva un caldo da crepare e il vino era fresco: lo bevve come fosse gazzosa e la sbornia gli scoppiò tutta d'un colpo.
Per un momento parve all'uomo che la testa gli si spaccasse e gli venne il terrore di non potersi più muovere di lì: poi dolcemente sentì mancarsi il cuore e si addormentò. * «Passata?» La voce aspra di Ganassa lo risvegliò. La testa non gli girava più ma aveva la bocca arida. Mandò giù mezza caraffa d'acqua. «Che ore sono?» domandò all'oste. «Le sette.» L'angoscia lo prese: pensò alla motocicletta senza benzina, pensò al desinare e al vino da pagare. La faccia cupa di Ganassa e le sue mani enormi gli fecero paura. Poi pensò al fiume, al grande fiume che aspettava e, improvvisamente, si sentì tranquillo. Tutto a posto. Si fece portare un grosso bicchiere di grappa e lo cacciò giù e Ganassa lo stette a guardare. «Conto» disse l'uomo. Ganassa prese un pezzetto di gesso e scarabocchiò qualcosa su di un tavolo. Il giovanotto vedeva muoversi quella manaccia dalle dita grosse come bastoni. Ma cosa importava? Tutto sarebbe finito nell'acqua del grande fiume. «Seicentodieci» disse alla fine Ganassa tirando su la testa. Il giovanotto esitò un momento poi disse:
«Mi dispiace molto». Ganassa non capì. «Non è né molto né poco» replicò con tono minaccioso. «È il prezzo giusto. Se vuol controllare controlli.» Il giovanotto sospirò. «Non parlo del prezzo. Dico che mi dispiace molto per il fatto che io non ho le seicentodieci lire.» Ganassa si avvicinò lentamente e, arrivato al tavolo, appoggiò i pugni micidiali sulla tovaglia e si protese verso il giovanotto. «Non avete le seicentodieci lire?» «No.» «E quanto avete?» «Niente» spiegò il giovane. La cosa sembrò enorme a Ganassa che rimase qualche istante come sbalordito. «E senza un centesimo in tasca voi siete entrato qui e vi siete fatto servire tutto quel che vi ho dato!» ruggì mentre gli occhi gli diventavano sempre più piccoli. Il giovanotto allargò le braccia. Ganassa ansimava, adesso. «A me non mi ha mai preso per il bavero nessuno» disse Ganassa scostando con una zampata la tavola. Il giovanotto non si levò neppure in piedi. La cosa non gli in. teressava e attese. Ganassa avanzò d'un passo, agguantò con la sinistra il giovanotto per gli stracci del petto e lo tirò su.
Il giovanotto attese che la mano destra si mettesse in moto ma in quell'istante, una voce si levò: «Ganassa, non ti mettere nei guai per seicento lire». Ganassa allentò le dita e si volse: «lo gli ho dato da mangiare» disse. «Io non sono che un disgraziato e tu lo sai. Perché, se non aveva neanche un centesimo, è venuto proprio a imbrogliare me?» «Sono entrato nella prima osteria che ho incontrato» spiegò il giovanotto e Ganassa strinse i pugni: «Perché, quando siete entrato, non avete detto che eravate senza soldi e che avevate fame? Qualcosa ve l'avrei data lo stesso». «Non ho mai chiesto la carità in vita mia» spiegò il giovanotto. «E poi avevo bisogno di vino, molto vino.» Ganassa aveva finito tutto il suo repertorio di argomentazioni. «Basta!» ruggì. «Non uscite di qui se non mi date qualcosa per rifarmi il danno.» In un angolo della stanzaccia tre o quattro uomini stavano seduti a un tavolo giocando alle carte. Smisero definitivamente di giocare e stettero ad aspettare. Ganassa era lanciato e di sicuro sarebbe saltato fuori un macello. Il giovanotto pensò al grande fiume che lo aspettava e sentì quasi un malvagio piacere per quel che gli stava accadendo. Come se succedesse a un altro. Si frugò in tasca poi mostrò a Ganassa le poche cianfrusaglie racimolate.
«Non c'è niente di buono» spiegò. «Se volete che vi lasci la giacca!» «Non voglio stracci!» grugnì Ganassa. «Ho questa borsa, la matita stilografica…» «Non voglio stupidaggini!» grugnì ancora più feroce Ganassa. Il giovanotto si guardò addosso poi allargò le braccia: «Non so cosa darvi» disse. «Per quanto io pensi non so cosa darvi. Non posso neanche farvi una cambiale perché so che non potrei pagare mai…» Gli occhi gli caddero sulla parete di fianco e vide i quadretti con le solite vecchie oleografie da osteria di campagna: Otello che sta per strozzare Desdemona, Rigoletto che col braccio levato urla «Cortigiani vil razza dannata» e via discorrendo. Allora si ricordò di una vecchia storia di prigionìa, di quando cioè, per avere dai tedeschi un paio di zoccoli di legno, aveva dovuto cantare 0 sole mio, e si volse verso Ganassa: «Sentite» disse «io non so cosa darvi. Se volete posso farvi una cantata». Quando gli venne in mente che, a dire una cosa del genere, significava dare il via all'oste per il macello, era troppo tardi: Ganassa aveva già stretto i pugni e già si avanzava implacabile. «Volete pagarmi con una cantata?» domandò Ganassa giunto a un passo da lui.
«Quand'ero in prigionìa, un tedesco per una cantata mi ha dato un paio di zoccoli, una trancia di pane così, e una sigaretta.» Ganassa rimase un istante perplesso poi indietreggiò e andò a infilarsi dietro il banco. «Avanti» disse Ganassa. Il giovanotto fece di sì con la testa e si schiarì la gola. Intanto si guardava attorno e scoperse, appeso sopra la porta, un quadro con dentro la faccia malgarbata del Peppino di quelle parti. Guardò intensamente, disperatamente quell'immagine cercandone gli occhi e, alla fine, li trovò e non li mollò più. Erano due occhi piccoli ma che sfavillavano nell'ombra come due diamanti. Il giovanotto attese il cenno e quando l'ebbe da un barbaglio guizzato fuor dall'ombra, attaccò qualcosa di Verdi. Continuò a cantare mai abbandonando quegli occhi e sentì uscirsi di bocca una voce che non gli pareva neppure la sua e, negli acuti, il fiato che non trovava nei polmoni lo cacciava fuori dal cuore. Il vino? La grappa? Il miraggio del grande fiume che aspettava? Cantò e, quando vide spegnersi le due. gemme dell'ombra, capì che aveva finito di cantare. Ganassa era lì, coi gomiti sul banco, il testone stretto tra le manacce pelose e non tirava neanche il fiato. E i tre o
quattro del gruppetto in fondo alla sala pareva si fossero messi d'accordo con Ganassa. Il giovanotto si mosse e si avviò verso la porta perché il fiume lo aspettava. Quando passò davanti al banco, Ganassa si riscosse: si levò su, aperse il cassetto e vi frugò dentro e depose sul marmo trecentonovanta lire. «Signore, il resto delle mille lire» disse con voce cupa Ganassa. Il giovanotto si volse e rimase come incantato da quel gesto straordinario. Poi l'atmosfera del melodramma prese anche lui e sorridendo rispose: «Resto mancia». «Grazie, signore» rispose Ganassa. E nei suoi occhi brillò un lampo di meraviglia perché non aveva mai ricevuto in vita sua una mancia così grossa. Fuori, il sole aveva finito di assassinare i campi e ora si apprestava lentamente a mettere in scena un tramonto degno del cielo lirico della Forza del destino. Il giovanotto arrivò in riva all'acqua. Ma l'acqua lo respingeva. Tutto era uguale, ma tutto era cambiato, adesso. «Ecco la macchina.» Il giovanotto si volse: Peppone stava dietro lui e teneva la motoleggera per il manubrio. Il giovane voleva dir qualcosa ma Peppone non gliene lasciò il tempo. «Tutto a posto» spiegò. «La gomma e la benzina.» Il giovane allargò le braccia ma Peppone scosse il capo:
«Stia comodo, sono già pagato di tutto: ero all'osteria anch'io». Si incamminarono verso la discesa che portava alla strada provinciale. «Come ho cantato?» domandò il giovanotto. «Non lo so» rispose Peppone. «Non pareva neanche una voce. Non ho un'idea di che accidenti sembrasse. Sono cose che si sentono ma non si capiscono.» Il giovanotto sospirò: «Ero pieno zeppo di vino…». «Ma che vino!» borbottò Peppone. «Non diciamo stupidaggini. So ben io la roba che può venir fuori da sotto il vino.» Il giovanotto notò qualcosa nella forcella anteriore della motoleggera e si chinò. «Non ho fatto a tempo a riverniciarla» spiegò Peppone. «Era incrinata da tutt'e due le parti e l'ho saldata. Se aveste fatto ancora cinquecento metri, vi sareste accoppato. Vi è mancata la benzina al momento giusto.» Il giovanotto impallidì e incominciarono a tremargli le mani: «È impossibile!» esclamò. «Sì, ma oggi è destino che succedano soltanto cose impossibili» replicò Peppone. Poi tacque un istante e concluse: «Giovanotto, dicano quel che vogliono, ma, politica a parte, il Padreterno è sempre il Padreterno».
Il giovanotto saltò sulla macchina e, percorsi i primi tre metri della discesa, il motore già ronzava. Peppone stette lì a sentire il ronzìo del motore e gli pareva un poema sinfonico che, lentamente, si sciogliesse e svanisse nell'aria.
158 COMMERCIO Il Nero stava smartellando già da tre ore, ma ancora non era riuscito a concludere niente di buono perché quel muro stramaledetto pareva un unico masso di pietra e bisognava cavar via i mattoni pezzettino per pezzettino. Il Nero interruppe il suo lavoro per asciugarsi il sudore della fronte e, guardando la piccola nicchia che era riuscito a scavare dopo tanta fatica, lanciò una imprecazione. «Bisogna aver pazienza» disse una voce. Ed era il padrone di casa, il vecchio Molotti, che era entrato già da qualche minuto e s'era fermato vicino alla porta a osservare il muratore. «La pazienza non basta!» esclamò di malumore il Nero. «Questo non è un muro, è un blocco di ghisa. Per aprire una porta in un canchero così ci vuol altro che la pazienza!» Il Nero riprese a smartellare rabbiosamente ma, poco dopo, lasciava cadere martello e scalpello assieme a una bestemmia. Il colpo era stato forte e l'indice della mano sinistra gli sanguinava. «Te l'avevo detto che bisogna aver pazienza!» esclamò il vecchio Molotti. «Quando uno ha pazienza, non perde la calma e non si pesta le martellate sulle mani.»
Il Nero bestemmiò ancora e allora il vecchio Molotti scosse il capo: «Il Padreterno non c'entra se ti sei pestato un dito» esclamò. «Prenditela non con Lui ma con quello che ti ha dato la martellata. E ricordati che per guadagnarsi il Paradiso bisogna soffrire.» Il Nero si mise a sghignazzare: «Bisogna soffrire per guadagnarsi un pezzo di pane!» disse. «Altro che Paradiso! Ci faccio la birra, io, col vostro Paradiso!» Il Nero era rosso come il fuoco e uno dei più scalmanati della banda di Peppone, ma il vecchio Molotti, per quanto avesse passati i novant'anni, non era tipo da lasciarsi impressionare: «Già» disse «col nostro Paradiso tu ci fai la birra. Dimenticavo che sei comunista, uno di quelli che promettono il Paradiso in terra!». Il Nero si volse: «Molto più onesti di chi promette il Paradiso in cielo. Perché, mentre noi promettiamo delle cose che si possono vedere e controllare, voi promettete delle cose che nessuno può vedere né controllare». «Non temere» replicò il vecchio Molotti levando il dito ammonitore. «Verrà il tuo turno e allora vedrai e controllerai.» Il Nero rise di gusto:
«Morto io, morto il mondo. Una volta che uno è crepato, tutto è finito. Di là ci sono soltanto le chiacchiere dei preti». Il vecchio Molotti sospirò: «Dio salvi la tua anima!». Il Nero si rimise a smartellare. «Roba da matti!» borbottò. «Si deve ancora sentir parlare di simili baggianate! L'anima! L'anima che vola in cielo con le ali e va a prendere il premio! Questa gente ci prende proprio per dei cretini!» Il vecchio Molotti si appressò: «Se non fossi sicuro che parli così per fare il bullo e che, di dentro, pensi in maniera tutta diversa, ti risponderei che tu sei un povero pazzo». «Pazzi siete voi della borghesia e del clero che credete di riuscire ancora a darcela a bere!» urlò il Nero. «Io sono ben sicuro di quello che dico, e la penso come dico.» Il vecchio Molotti tentennò il capo: «Allora tu sei proprio sicuro che l'anima muore assieme al corpo?». «Sicuro come sono sicuro di essere vivo. L'anima non esiste!» «Addirittura! E se l'anima non esiste, cos'è che hai di dentro?» «Polmoni, fegato, milza, cervello, cuore, stomaco, budella. Siamo delle macchine di carne che funzionano fino a quando tutti gli organi funzionano. Quando un organo si gua-
sta, la macchina si ferma e, se il dottore non riesce a riparare il guasto, la macchina muore.» Il vecchio Molotti allargò le braccia indignato: «Ma l'anima» gridò «è il soffio della vita!». «Balle» replicò il Nero. «Provate a tirar via i polmoni a un uomo e poi vedrete cosa succede. Se l'anima fosse il soffio della vita e via discorrendo, un corpo umano dovrebbe funzionare anche senza qualche organo interno!» «Tu bestemmi!» «Io ragiono. Io vedo che la vita dell'uomo è legata ai suoi organi interni. Io non ho mai visto un uomo morire perché gli hanno tolto l'anima. E poi, se, come dite voi, l'anima è il soffio della vita, dato che le galline vive sono vive, hanno l'anima anche le galline e, quindi, ci sarà l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso anche per le galline.» Il vecchio Molotti capì che era inutile continuare la discussione e si allontanò. Ma non rinunciò alla lotta e, quando a mezzogiorno il Nero smise di smartellare e andò a sedersi sotto il portico per mangiare la roba che s'era portato da casa, lo raggiunse. «Sentite, Molotti» l'ammonì il Nero appena se lo vide davanti. «Se venite per ricominciare la solfa, è fiato sprecato.» «Non ho nessuna voglia di discutere» spiegò il vecchio Molotti. «Vengo a proporti un affare. Sei proprio sicuro di non avercela, l'anima?»
Il Nero si rabbuiò, ma il vecchio non gli diede tempo di parlare: «Se sei proprio sicuro di non avere l'anima, perché non me la vendi? Ti do cinquecento lire». Il Nero guardò il biglietto di banca che il vecchio gli porgeva e scoppiò a ridere. «Bella davvero! E come faccio a vendervi una cosa che non ho?» Il vecchio Molotti non disarmò: «Non te ne incaricare: tu mi vendi la tua anima. Vuol dire che, se proprio non ce l'hai, io ci rimetto le cinquecento lire. Se invece tu l'hai, l'anima diventa mia proprietà». Il Nero stava divertendosi come non s'era divertito mai. Pensò che il Molotti doveva essere rimbambito a causa dell'età. «Cinquecento lire sono poche» replicò allegramente il Nero. «Almeno dovete darmi un biglietto da mille.» «No» rispose il vecchio Molotti. «Un'anima come la tua non vale più di cinquecento lire.» «O mille o niente!» affermò il Nero. Il Molotti cedette: «Sta bene mille lire. Prima di andare a casa concluderemo l'affare». Il Nero smartellò allegramente fino alla sera: allora il vecchio ricomparve. Aveva in mano un foglio di carta bollata e una penna stilografica. «Sei ancora del parere?» domandò al Nero.
«Certamente.» «Bene, siediti lì e scrivi. Sono poche parole.» Il Nero si sedette al tavolo e il vecchio prese a dettare: «Io sottoscritto Francesco Colini detto "Nero" con la presente privata scritta valevole a tutti gli effetti di legge dichiaro di vendere la mia anima al signor Giuseppe Molotti per la somma di lire mille. Il signor Molotti entra oggi stesso in possesso dell'anima di cui sopra avendo versato in mie mani la pattuita somma di lire mille, e di essa anima può disporre come meglio crede. Letto e sottoscritto…». Il vecchio Molotti porse le mille lire al Nero che segnò sotto il contratto la sua più bella firma. «Perfetto!» disse soddisfatto il vecchio riponendo con cura il contratto dentro il portafogli. «Affare fatto e non se ne parli più.» Il Nero se ne andò ridendo: evidentemente il vecchio era completamente rimbambito. Si rammaricò di non aver chiesto di più. Comunque era sempre un bigliettone da mille che pioveva dal cielo. Però, mentre pigiava sui pedali del suo scalcagnato biciclo, il Nero continuò a pensare allo strano contratto: "E se il Molotti non è rincretinito come pare, perché mi ha regalato mille lire?". Il Molotti era tanto danaroso quanto tirchio, e se aveva fatto questo a mente lucida uno scopo doveva esserci.
A un tratto una luce brillò nel cervello del Nero che lanciò una imprecazione e tornò indietro deciso a rimediare alla stupidaggine commessa. Trovò il vecchio Molotti nell'aia e subito entrò in argomento: «Sentite» disse con aria cupa «sono stato uno stupido a non pensarci prima. Comunque meglio tardi che mai. Conosco gli sporchi sistemi di propaganda politica di voi reazionari; voi mi avete carpito quella dichiarazione per pubblicarla e cavarne fuori uno scandalo e danneggiare il mio Partito: "Ecco cosa sono i comunisti: gente che vende l'anima per mille lire"». Il vecchio scosse il capo. «Questo è un affare tra me e te e lo dobbiamo sapere soltanto noi due» rispose. «Comunque sono disposto a mettere in calce al contratto una clausola di garanzia: "Giuro sul mio onore che non mostrerò mai a nessuno il presente documento". Ti basta?» Il Molotti era un uomo d'onore: se giurava c'era da fidarsi. Il Molotti, entrato in tinello, scrisse in calce al contratto la clausola di garanzia e la firmò. «Adesso puoi star tranquillo» disse il Molotti. «Ma potevi star tranquillo anche prima perché io la tua anima l'ho comprata non per farne commercio più o meno politico, ma per tenermela io.»
«Sempre ammesso che la troviate!» esclamò allegramente il Nero. «Naturalmente» replicò calmo il Molotti. «A ogni modo, per conto mio l'affare è ottimo perché io sono sicuro che tu l'anima ce l'hai. Sarebbe la prima volta, in vita mia, che sbaglio un affare.» Il Nero tornò a casa soddisfatto; oramai non aveva più alcun dubbio: il vecchio Molotti era completamente rimbambito. Aveva una voglia matta di raccontare la faccenda almeno ai suoi più intimi della banda: poi lo trattenne il timore che la storia andasse in giro e servisse ai reazionari per far inorridire le vecchie bigotte. * I lavori in casa del Molotti durarono una settimana e, ogni giorno, il Nero ebbe modo di incontrarsi col vecchio: ma il vecchio non tornò mai sull'argomento del contratto né impiantò più discussioni a sfondo politico. Pareva addirittura che non si ricordasse più di niente. Poi, quando ebbe lasciata la casa del Molotti, anche il Nero si dimenticò del famoso contratto e passò un anno prima che la cosa gli si riaffacciasse alla mente. Questo accadde una sera, nell'officina di Peppone. Peppone doveva fare un lavoro urgente e aveva bisogno di qualcuno che gli desse una mano: c'era da mettere insieme un
cancelletto di ferro battuto di cui Peppone aveva già forgiato tutti gli elementi. «È del vecchio Molotti» spiegò Peppone «e lo vuole a ogni costo per domattina. Gli serve per la tomba di famiglia: dice che, prima di morire, vuol vederlo lui perché gli altri non capiscono niente.» «È malato?» si informò il Nero. «Ha novantatré anni» rispose Peppone. «Si è messo a letto da una settimana con un accidente ai polmoni e si sa che, a quell'età, anche un raffreddore può mandare all'altro mondo.» Il Nero si mise a girare la manetta della ventola. «Un vecchio maiale reazionario di meno» borbottò il Nero. «Una fortuna per tutti, anche per lui perché da un bel pezzo era diventato completamente rimbambito.» Peppone scosse il capo: «Non mi pare: un mese fa ha combinato l'affare del fondo di Trespiano guadagnandoci almeno quindici milioni». «Un semplice caso di fortuna schifosa!» replicò il Nero. «Ti assicuro che da un pezzo era diventato completamente cretino. Capo, ti dico un fatto che non ho mai detto a nessuno.» Il Nero sghignazzando raccontò la storia del contratto dell'anima e Peppone lo stette ad ascoltare attentamente. «Non è cretino un uomo che compra un'anima per mille lire?» concluse il Nero.
«Certamente» osservò Peppone. «Però è più cretino chi vende l'anima per mille lire.» Il Nero si strinse nelle spalle: «Lo so, potevo cavarci molti quattrini di più» riconobbe. «Non è questione di soldi in più o in meno» disse Peppone. «È il fatto in sé che è cretino.» Il Nero smise di girare la manetta della fucina. «Capo» esclamò «mi stai diventando una figlia di Maria anche tu? Che storie sono queste? Lascia stare l'opportunità politica di non prendere di petto la religione e la Chiesa, lascia stare la posizione ufficiale del Partito: ma detto qui fra noi, non sei forse d'accordo che l'anima, il Paradiso, l'Inferno e compagnia bella sono soltanto delle invenzioni dei preti?» Peppone continuò a pestar martellate sul ferro rovente. «Nero» disse dopo una lunga pausa di silenzio «tutto questo non c'entra. Io dico che vendere l'anima per mille lire è controproducente.» Il Nero si rasserenò: «Capo, adesso, sì, capisco. Però hai torto: per evitare ogni speculazione politica ho fatto aggiungere sul contratto la clausola che il Molotti mai parlerà di quel contratto con nessuno». «Be', allora se c'è la clausola è un'altra cosa» affermò Peppone. «Diventa un fatto tuo personale che non ha niente a che vedere col Partito. Col Partito sei a posto.» Poi prese a parlare d'altro.
Il Nero tornò a casa verso mezzanotte ed era allegrissimo. "L'importante è di essere a posto col Partito" disse fra sé prima di addormentarsi. "Quando uno è a posto col Partito è a posto con tutto il resto." Il Molotti andò peggiorando di giorno in giorno e don Camillo, ritornando una sera in canonica dopo aver trascorso lunghe ore al capezzale del vecchio, si imbatté nel Nero. «Buonasera» disse il Nero. E la cosa fu tanto grossa che don Camillo ritenne necessario fermare la bicicletta, scendere e andare a guardare in faccia, da vicino, il Nero. «Straordinario» disse alla fine. «Tu sei effettivamente il Nero in carne e ossa e mi hai salutato. Ti sei forse sbagliato? Mi hai forse preso per una guardia del dazio? Ti sei accorto che sono il parroco?» Il Nero si strinse nelle spalle: «Con lei non si sa mai come regolarsi. Se non la salutiamo dice che noi "rossi" siamo dei senzadio. Se la salutiamo dice che siamo matti». Don Camillo allargò le braccia: «In un certo senso hai ragione. In un certo altro però hai torto. Comunque, buonasera a te». Il Nero rimase qualche istante a guardare il manubrio della bicicletta di don Camillo poi domandò: «Come sta il vecchio Molotti?». «Si spegne lentamente.» «Ha perso conoscenza?»
«No: è sempre stato ed è ancora lucidissimo.» Il Nero esitò, poi domandò aggressivo: «Le ha detto niente?». Don Camillo spalancò gli occhi stupito. «Nero, non capisco» affermò. «Che cosa avrebbe dovuto dirmi?» «Non le ha mai parlato di me? Di un contratto fra me e lui?» «No» disse con estrema sicurezza don Camillo. «Abbiamo parlato di tutto fuorché di te. D'altra parte io non vado al capezzale dei moribondi per parlare di affari: io non amministro beni terreni, io amministro anime.» Il Nero ebbe uno scatto e don Camillo tentennò sorridendo la testa: «Nero, non ho nessuna intenzione di farti delle prediche. Quello che dovevo dirti te l'ho già detto quando tu eri ancora ragazzo e venivi ad ascoltarmi. Adesso mi limito a rispondere alle tue domande: non ho parlato d'affari col Molotti. Non mi sono interessato di nessun contratto. Né posso interessarmene. Se hai bisogno di un aiuto, rivolgiti a un avvocato. Ma fai presto perché il Molo tu è più di là che di qua». Il Nero si strinse nelle spalle: «Se ho fermato lei e non un avvocato significa che la cosa riguarda un prete e non un avvocato. Si tratta di una sciocchezzuola, uno scherzo: a ogni modo lei dovrebbe dare al Molotti queste mille lire e dirgli di restituirmi quella carta bollata».
«Danaro? Carta bollata? Mercanzia da avvocati, non da preti!» ribatté don Camillo. Erano oramai arrivati davanti alla canonica: don Camillo entrò e il Nero, data un'occhiata intorno, lo seguì. Don Camillo andò a sedersi dietro il tavolino in tinello e, indicando una sedia al Nero, gli disse: «Se credi che io possa esserti utile, parla». Il Nero rigirò il cappello fra le mani per un bel po' quindi disse: «Reverendo, il fatto è questo: un anno fa io ho venduto al Molotti la mia anima per mille lire». Don Camillo fece un piccolo balzo sulla sedia, poi disse minaccioso: «Senti: se tu vuoi divertirti hai sbagliato porta. Fila!». «Non scherzo!» esclamò il Nero. «Io lavoravo in casa sua e ci siamo messi a discutere dell'anima. Io sostenevo che l'anima non esiste, allora lui mi ha detto: "Se per te l'anima non esiste, perché non me la vendi? Ti do mille lire". Io ho accettato l'affare e ho firmato il contratto.» «Il contratto?» «Sì: scritto di mio pugno, in carta bollata.» Il Nero ripetè a memoria il testo del contratto: lo ricordava alla perfezione. E don Camillo si convinse che il Nero diceva l'esatta verità. Allora allargò le braccia:
«Ho capito perfettamente. Quello che non capisco è il perché tu rivoglia quella carta. Se per te l'anima non esiste, che cosa ti importa di averla venduta?». «Non è per l'anima» spiegò il Nero. «Non vorrei che gli eredi trovassero quella carta e ne facessero una speculazione politica a danno del mio Partito.» Don Camillo si levò e si piantò davanti al Nero, con le mani sui fianchi. «Dimmi un po'» muggì a denti stretti. «Secondo te io dovrei dunque aiutarti per fare l'interesse del tuo partito! Allora questo significa che tu mi giudichi il prete più cretino dell'universo! Prendi la porta e fila!» Il Nero si levò e si avviò lentamente verso la porta. Ma, fatti pochi passi, tornò indietro: «Non me ne importa niente del Partito!» gridò. «Io rivoglio quella carta!» Don Camillo era sempre lì fermo, coi pugni sui fianchi e la mascella serrata. «Rivoglio quella carta!» gridò il Nero. «Sono sei mesi che io non dormo più!» Don Camillo guardò quel viso sconvolto, quegli occhi sgomenti, quella fronte piena di sudore. «La carta!» ansimò il Nero. «Se quel porco vuol guadagnare anche in punto di morte, gli darò di più. Gli darò quello che chiede. Io non posso andare da lui. Non mi lascerebbero entrare. E poi non saprei come impostare la faccenda.» Don Camillo intervenne:
«Calmati: se non è per una questione di partito, cosa ti importa quella carta? Tanto l'anima e l'aldilà sono balle inventate da noi preti…». «Sono affari che non vi riguardano!» urlò il Nero. «Io rivoglio la mia carta!» Don Camillo si strinse nelle spalle: «Domani mattina proverò». «No! Subito!» disse il Nero. «Domattina può essere morto. Subito, intanto che è vivo. Prenda le mille lire e vada. Io l'aspetto lì fuori… Vada, reverendo. Si spicci!» Don Camillo aveva capito, ma, nonostante tutto, non riusciva a mandar giù il tono perentorio di quel dannato senzadio. E perciò stava ancora lì fermo coi pugni sui fianchi a guardare il viso sconvolto del Nero. «Reverendo, faccia il suo dovere!» urlò il Nero esasperato. Allora don Camillo si sentì improvvisamente la smania addosso: corse fuori senza neppure mettersi il cappello e saltato sulla bicicletta scomparve nel buio. * Ritornò dopo circa un'ora: entrò in canonica e il Nero lo seguì. «Ecco» disse al Nero porgendogli una grossa busta suggellata.
Dentro la busta grande c'era un foglietto con poche righe e un'altra busta con suggelli di ceralacca. Il foglietto diceva: «Con la presente il sottoscritto Molotti Giuseppe dichiara annullato il contratto stipulato col signor Colini Francesco detto "Nero" e glielo restituisce. In fede Molotti Giuseppe». Nella busta piccola c'era il contratto famoso in carta bollata. Don Camillo porse al Nero qualcosa d'altro: «Le mille lire non le ha volute» spiegò «dice che tu ne faccia quello che credi. Buonasera». Il Nero non disse una parola. Uscì con tutta la sua mercanzia fra le mani. Pensò che doveva lacerare subito il contratto, ma poi pensò che sarebbe stato meglio bruciarlo. La porta piccola della chiesa era ancora aperta e si vedevano brillare alcuni ceri. Entrò e si fermò davanti al cero che ardeva subito dietro la balaustra dell'aitar maggiore. Appressò alla fiamma il foglio di carta bollata e lo guardò bruciare. Poi strinse fra le grosse dita il foglio contorto e carbonizzato e lo ridusse in cenere. Aperse la mano e soffiò via la cenere. Si avviò per uscire, ma si ricordò delle mille lire che aveva messo dentro la busta, assieme al foglietto del Molotti. Cavò il biglietto da mille e, appressatosi alla cassettina delle elemosine, lo infilò nella fessura.
Poi cavò di tasca un altro biglietto da mille e anche questo infilò nella fessura. "Per grazia ricevuta" pensò. Uscì e tornò a casa. Aveva gli occhi pieni di sonno e sapeva che, quella notte, avrebbe dormito. Don Camillo, poco dopo, andò a chiudere la chiesa e a salutare il Cristo dell'aitar maggiore. «Gesù» disse «chi riesce a capirla, questa gente?» «Io» rispose sorridendo il Cristo Crocifisso.
159 IL "FRANCESE" Non s'erano mai visti tanti stranieri come quell'estate. Arrivavano da tutte le parti, con tutti i mezzi. Parecchi arrivavano addirittura senza nessun mezzo, pedibus calcantibus: però, con un po' di pazienza e di faccia di tolla, riuscivano ugualmente – mendicando passaggi agli automobilisti – a girare mezza Italia. Naturalmente i turisti forestieri dell'autostop lavoravano soltanto nelle strade di grande traffico, e il fatto di trovarsi improvvisamente davanti uno di questi tipi, proprio nella più squallida suddetta della Bassa, era davvero qualcosa di talmente straordinario da lasciar perplesso chiunque. Peppone si trovò davanti il tipo all'imbocco della strada del Crociletto e, preso così alla sprovvista, pestò sul freno una zampata che bloccò il camion e fece sbattere contro il parabrise la zucca dello Smilzo. Peppone masticò qualche parolaccia poi, aperta la portiera, si sporse e urlò irato: «Cosa succede?». L'uomo balbettò qualcosa di incomprensibile e allora Peppone si calmò e lo considerò con curiosità.
Era un ometto grassoccio sui quarant'anni, coi capelli color paglia, vestito di un paio di brache corte fin sopra il ginocchio e d'una camiciola senza maniche. Ai piedi portava sandali e, in testa, una specie di basco. Sulle spalle aveva uno zaino affardellato. «Roba forestiera» spiegò lo Smilzo mentre continuava a massaggiarsi la fronte. «Merce turistica.» L'ometto si appressò e sorridendo spiegò: «Escusate me… Se voi potete prendre me sur votre auto… Io diretto Rome…». Peppone scoppiò a ridere e rispose: «Nix Roma! Noi andare paese! Roma bisogna prendere Via Emilia e poi Bologna. Voi dietro-front e avanti march! Capito?» L'ometto con molto stento e con l'italiano più strampalato dell'universo spiegò che lui non riusciva a parlare italiano, però lo capiva. Che parlasse pure nella sua lingua. Un po' adagio, per favore. Peppone gli spiegò, aiutandosi coi gesti, come fosse spaventosamente fuori strada e come dovesse raggiungere la Via Emilia. Gli fece, con l'aiuto dello Smilzo, uno schizzo topografico su un pezzetto di carta e scrisse il totale dei chilometri: 35. L'ometto, con aria di sgomento, si coperse il viso con le mani.
«Trente-cinq kilometres!» esclamò. «Quello malvagio autista che mi preso su camion a Piacenza poi messo a terra qui e detto: "Vingt-cinq minutes et puis Bologne!".» Spiegò che oramai era tardi e che, almeno, doveva raggiungere un centro abitato per poter dormire. Peppone fece salire l'ometto e rimise in moto il camion. «Di dove viene?» si informò strada facendo. «Paris. Io francese» rispose l'ometto. Peppone fece un fischio di meraviglia: «Venite da Parigi e andate a Roma!» esclamò. «E sempre con questo sistema!» «Oui monsieur!» «È una cosa da matti!» disse Peppone. «Ma come è possibile viaggiare così?» L'ometto allargò le braccia: «Pour voyager il faut de l'argent, beaucoup d'argenti! Je n'ai pas d'argenti Io poco argento e allora bisogna trovare sistema per viaggiare con poco argento.» Peppone sbuffò: «Balle! Si può stare anche a casa sua!». L'ometto sospirò poi sorrise mestamente: «Tutta l'année travailler, toujours travailler, e allora bisogna qualche giorno fuggire… Vedere belle cose… Cose nuove… Com-pris, monsieur?». Peppone aveva capito perfettamente e scosse il capo. Cambiò discorso: «E allora, vi piace l'Italia?».
«Formidable!» esclamò l'ometto. «Formidable!» Peppone trovò la cosa molto lusinghiera e continuò nell'indagine: «E della nostra regione, dell'Emilia, cosa ve ne pare?». L'ometto si strinse nelle spalle. «Non avete capito?» insistè Peppone. «Dicevo come vi piace l'Emilia.» L'ometto parve imbarazzato: «Capito. Emilia molto bello… Molto agricultura… Buono mangiare…». Evidentemente l'ometto trovava che qualcosa non andava, in Emilia, ma non osava dirlo. «Parlate liberamente!» esclamò Peppone. «Cos'è che non vi piace?» «Io piace tutto!» esclamò l'ometto. «Però io molto paura.» Peppone bloccò la macchina e si volse all'ometto. «Voi avete paura? E perché?» «Prego, signore» balbettò molto impressionato il francese. «Io non offendere! Emilia molto benissimo, però io paura per politica! Io non fare politica, signore. Io soltanto travailler.» Peppone piantò gli occhi in faccia al francese: «Cosa vi hanno fatto di male in Emilia a voi?» urlò. «Niente, monsieur. Niente male! Solo benissimo, molto gentile e amabile tout le monde… Io sentito dire, io letto
giornale, molto terribile politique nella Emilia.. Tutti comunisti, in Emilia, e se uno non comunista, tuer!» «"Tué"?» domandò Peppone. «"Tué"? Cosa significa?» «Pam! Pam!» rispose il francese simulando il gesto di chi spara il fucile. «Les communistes di Emilia pam pam tous les prétres, tutto i prete, bruciare chiese… Molto terribile, spaventevole.» Peppone si volse verso lo Smilzo: «Hai sentito?» disse con voce cupa. «Hai sentito cosa son riusciti a far credere all'estero i nostri porci giornalisti reazionari? Hai visto come questo disgraziato è terrorizzato? Non vede l'ora di andarsene! Gli pare di essere cascato in mezzo a una banda di assassini». Lo Smilzo allargò le braccia: «E cosa vuoi farci, capo? Se credono che sia così non c'è niente da fare». «C'è qualcosa da fare, invece!» rispose Peppone. «Stai attento come mi lavoro io questo mammalucco! Quando tornerà avrà cambiato del tutto parere!» Peppone aveva parlato in fretta e in dialetto: il francese non aveva capito una parola e i suoi occhi erano pieni di apprensione. Peppone si volse verso il francese: «Vedete questo affarino rosso qui sul bavero della giacca?» esclamò. «Ebbene, è il distintivo del Partito comunista! Io comunista, mio compagno comunista! Io capo di tutti i comunisti!»
Trasse dal portafogli la tessera e la mise sotto il naso del francese: «Capito?». Il poveretto era terrorizzato. «Prego, signore» balbettò. «Io scendere… Molte grazie… Merci bien… Io non offendere… Io niente politica… Io niente partito… Io semplicemente travailler… Io duo figlio e un moglie… Prego non fare del male…» Peppone rimise in moto il camion: «Non abbiate timore» lo rassicurò. «Voi siete male informato! Tutta falsa propaganda reazionaria. Io vi farò vedere la verità.» Il francese non pareva molto convinto e quando vide, poco dopo, apparire nella strada un prete in bicicletta, impallidì. Peppone se ne accorse e strizzò l'occhio allo Smilzo. Allorché il prete stava per incrociare il camion, fermò la macchina e scese. Quando il prete gli fu a qualche passo, Peppone si tolse il cappello, fece un leggero inchino, indi porse al prete un foglio che aveva tratto di tasca. Il prete fermò la bicicletta e scese: «Che accidenti ti piglia, compagno sindaco?» domandò don Camillo con la faccia piuttosto scura. «Niente, reverendo» rispose con un bel sorriso Peppone. «Le sarei grato se, con comodo, desse un'occhiata a questo appunto. Buona sera.»
Salutò con una grande scappellata, risalì sul camion e ripartì mentre don Camillo rimaneva lì a guardarlo. «Da quando comandano i preti in Emilia» spiegò con un sospiro Peppone al francese «la vita è diventata dura. Per far viaggiare il camion c'è bisogno del foglio di via. Controllano tutto. Controllano tutto per conto del governo.» Il francese aveva sbarrato gli occhi: «Mais c'est incroyable!» balbettò. «Ve ne accorgerete!» sospirò Peppone. Giunto in paese Peppone puntò diritto sulla Casa del Popolo. «Questa è la nostra sede, la sede del Partito comunista» spiegò Peppone al francese. «Entrate tranquillamente come se foste in casa vostra. C'è al primo piano una bella stanza da letto: siete nostro ospite.» Il francese non capiva più un accidente e si lasciò rimorchiare. «Mettetevi pure in ordine» gli disse Peppone introducendolo nella stanza. «Il lavandino è nello stanzino lì a sinistra. Riposatevi: verrò a riprendervi fra un'oretta.» Trascorsa l'ora, Peppone bussò alla porta della stanza: il francese s'era fatto la barba e s'era ripulito per quel poco che poteva ripulirsi. «Lasciate pure il vostro bagaglio» gli disse Peppone. «Qui è sicurissimo. Scendiamo.» La sala delle adunanze era piena di gente: lo Smilzo aveva funzionato bene.
«Compagni» disse Peppone «abbiamo qui un gradito ospite straniero, un lavoratore francese, la quale sono lieto di dargli il nostro benvenuto!» Scoppiò un applauso che fece impallidire l'ometto. Vennero tutti a stringergli la mano e tutti gli sorrisero. Poi Peppone fece un cenno e tutti tacquero e si disposero in bell'ordine davanti al palcoscenico del teatrino. «Siete cattolico?» si informò Peppone rivolto al francese. «Oh, oui!» rispose il francese. «Allora potete rimanere» lo rassicurò Peppone. Squillò un campanello e tutti si misero sull'attenti. Il sipario si aperse e comparve un Crocifisso troneggiante in cima a un altarino addobbato di bianco, rosso e verde. Peppone attaccò il Pater Noster e tutti gli fecero coro. Poi attaccò l'Avemaria. Alla fine tutti si segnarono e il sipario si richiuse. «Dobbiamo fare così» spiegò Peppone al francese. «I preti, per renderci sgraditi agli ambienti cattolici, ci hanno scomunicati e ci impediscono di entrare in chiesa. E noi, che siamo ottimi cattolici praticanti, dobbiamo dire le nostre preghiere clandestinamente. Ma Dio sa, e darà il giusto castigo a chi lo merita.» Il francese aveva le lacrime agli occhi: «C'est incroyable!» continuava a balbettare. Cenarono a casa di Peppone e c'erano tutti i pezzi grossi dello stato maggiore.
«Mi dispiace di non potervi offrire che uova, pesce, minestra al burro e verdure perché oggi è venerdì e se l'autorità ecclesiastica sa che noi non mangiamo di magro potrebbe farci arrestare. Sono implacabili!» esclamò Peppone. «C'est incroyable!» balbettò ancora il francese. Fu davvero un pranzo assai allegro e sereno. Verso le nove, i figli di Peppone vennero tutti a prendere dal babbo il bacio sulla fronte: anche il più grande, quello che era di leva. «Mi raccomando le preghiere della sera!» li ammonì Peppone mentre la masnada si allontanava. Si discussero questioni locali: e fu una discussione davvero straordinaria, di quelle da mettere nei manuali di democrazia. Lo Smilzo parlò dello sciopero agricolo: «I compagni» disse «hanno tutti unanimemente risposto di no! Nessuno vuole lo sciopero perché danneggerebbe gravemente il raccolto. Se, per ragioni politiche, il clero vuole che si faccia sciopero allo scopo di dimostrare all'America che il pericolo comunista è sempre vivo, noi ci opporremo democraticamente, ma fermamente. Lavoreremo!». «Viva!» risposero gli altri. Verso la mezzanotte, dopo lieti cori campestri, la seduta venne chiusa e il francese riprese la strada della Casa del Popolo. «È una cosa meraviglioso!» esclamò l'ometto. «È teribilo come il propaganda dipinge al contrario. Io finalmente comprendo la situazione de Emilia, di questo extraordinario regione agricolo e generoso! Io quando ritorno a Paris dirò come stanno la verità. Molto grazie. Merci bien!»
Il francese dormì come non aveva mai dormito e, la mattina dopo, quando scese col suo zaino in spalla, trovò la colazione già pronta. E fuori c'era il side-car che lo aspettava. «Il capo ha dato ordine di portarvi fino al punto buono» spiegò lo Smilzo. Il francese prese posto sul carrozzino e, lasciando il paese, aveva le lacrime agli occhi. Lo Smilzo marciò a tutta manetta, ma si fermò dopo tre soli chilometri. «Ecco» spiegò lo Smilzo «questa è la stazione. I lavoratori comunisti del paese non vogliono che voi vi sacrifichiate camminando a piedi. Prendete il treno. Buona fortuna, compagno!» Lo Smilzo porse al francese una busta e, risalito in sella, partì a saetta. «C'est incroyable!» balbettò il francese. Si avviò verso la stazione ma non riuscì a fare neppur due passi che qualcuno lo bloccò. Era don Camillo: aveva seguito in moto lo Smilzo e quando lo Smilzo s'era fermato aveva svicolato aspettando di aver via libera. «Bonjour» disse sorridendo don Camillo. «Ho saputo che siete stato ospite della Casa del Popolo e, prima che ve ne andiate, desideravo accertarmi che vi abbiano trattato con ogni riguardo.» «Formìdable! Molto benissimo!» rispose con entusiasmo il francese. Molti bravo gentiluomini! Je suis tres heu-
reux de les avoir con-nus! Io avevo paura de comunisti quando arrivato, mais io non più paura. Tutto propaganda malvagia. Io mi permetto, monsieur l'archipréte, de vous dire que aujourd'hui io crede che più da avere paura del clencato.» «Gradirei fare quattro chiacchiere con voi» disse don Camillo. «Pranzeremo assieme in quella trattoria laggiù. Saremo tranquillissimi e mangerete ottimamente.» Prima di entrare in argomento, don Camillo aspettò che il francese fosse carburato al punto giusto e, quando lo vide – gonfio di cibo e vino – diventare più espansivo e loquace, attaccò. Non ci volle molto a far cantare l'ometto: il francese raccontò per filo e per segno come fossero andate le cose, concludendo che non aveva mai trovata gente più generosa, gentile, pia, democratica e mite di quella. «C'est incroyable!» esclamò alla fine. «Vi hanno giocato come un bambino!» replicò don Camillo. «Hanno recitato una miserabile commedia e ora stanno divertendosi alle vostre spalle!» Il francese sbarrò gli occhi: «Io non comprende… Io visto con mio occhio…». Don Camillo scosse il capo. «Voi non conoscete dunque i loro metodi! Voi vi illudete che essi siano come li avete visti! Oh, uomo ingenuo!» Don Camillo parlò con veemenza: parlò in italiano, in francese, in latino. Parlò con le mani, con gli occhi, e l'omet-
to lo stette a sentire e il suo turbamento cresceva di minuto in minuto; alla fine si coperse gli occhi con le mani: «C'est terrible!» esclamò con angoscia. «Io mai immagino che il perfidia umano giunge a questo limiti! C'est épouvantable! Io vorrei domani essere Rome per poter inginocchiare davanti San Pietro e chiedere Dio perdono dei peccati di questi criminale! Io vorrei essere subito nella città santa per purificarmi. E poi tornare a Parigi! Rivedere mia casa, miei fanciulli.» Don Camillo consolò il povero ometto. Gli spiegò che, poi, il Diavolo non è così brutto come lo si dipinge. Che c'è il prò e il contro. Sì: gli avevano recitato una commedia, ma non si trattava di criminali. Gente che è su una cattiva strada ma che potrà riprendersi. Ecco tutto. Non doveva andar via con quella impressione. Quello che si diceva e si scriveva in Francia a proposito dell'Emilia era falso, era una denigrazione. Gli uomini che lo avevano giocato si erano, sì comportati in modo riprovevolissimo, però non si trattava di briganti o di belve travestite. Rimanesse suo ospite un paio di giorni, in modo da potersi rendere conto di come stessero realmente le cose. Il francese scosse il capo: «C'est impossible!» Come avrebbe fatto a ritornare in paese? Lo avrebbero riconosciuto e, vedendolo ospite del prete, cosa gli avrebbero combinato? «Non vi preoccupate» lo rassicurò don Camillo. «Vi troverò un abito da persona civile. Girerete col cappello e con
gli occhiali. Non potrà riconoscervi nessuno. Dovete farlo: bisogna che voi ritorniate a casa con le idee chiare sulla nostra regione. Così, a un tavolo d'osteria, non si può spiegare niente.» * Una volta rimesso all'onore del mondo, il francese non assomigliava neppure lontanamente al turista scalcinato di qualche giorno prima. Era un uomo simpatico e fece compagnia a don Camillo per quasi una settimana. Si rese conto della reale situazione dell'Emilia e del carattere degli emiliani. Quando ripartì, don Camillo non gli permise di riprendere la vecchia divisa di globetrotter. Gli mise i suoi stracci in una valigia e gli diede anche i quattrini per il viaggio fino a Roma. Don Camillo lo portò con la moto fino alla stazione. Poi entrò con lui e lo aiutò a salire. Poi aspettò sotto la pensilina che il treno partisse. E quando il treno fischiò, il francese si sporse dal finestrino e disse a don Camillo: «Au revoir Monseigneur… Non sono di Parigi: sono di Napoli— Ho fatto il giro d'Italia travestito da turista e ora torno a casa… Faccio ancora a tempo a scendere e a venire con voi dai carabinieri». Don Camillo sospirò:
«Buon viaggio… Meglio che un uomo così in gamba sia italiano piuttosto che straniero. Au revoir, monsieur!» «Au revoir Monseigneur!…»
160 IL SANGUE NON È ACQUA Alle Ghiaie tutto funzionava bene fino a quando c'era abbondanza d'acqua: appena arrivava l'asciutto, ogni cosa intristiva rapidamente e, se il Bacchi non riusciva a comprare l'acqua, il guaio diveniva irreparabile. Il Bacchi possedeva altra terra, disponeva di quattrini ed era stato, nella zona, il primo a pensare di scavare un pozzo per l'irrigazione: ma, per quanto avesse seppellito soldi e tubi di ferro nella terra delle Ghiaie, d'acqua non se n'era vista un goccio. Alle Ghiaie non c'era acqua: lo sapevano anche i gatti. E il pozzo che serviva per gli uomini e per le bestie, nel pieno dell'estate si asciugava. Il Bacchi, però, non aveva mollato: il pozzo d'irrigazione era diventato il suo pallino, e alle Ghiaie era un continuo viavai di tecnici e di praticoni. Appena il Bacchi sentiva parlare di qualche rabdomante, lo mandava a chiamare subito, e, oramai, si poteva dire che le Ghiaie fossero state saggiate centimetro per centimetro. Il Bacchi non badava a spese ed era disposto a tutto.
«Se mi dicessero che l'acqua è sotto il pavimento della cucina o della stalla» affermava «ci sto a buttar giù la casa e a rifarla da un'altra parte!» Ma alle Ghiaie d'acqua non ce n'era; i rabdomanti più famosi, quelli che a colpo sicuro dicevano: «L'acqua è qui sotto a tanti metri di profondità», dopo aver girato in su e in giù le Ghiaie, concludevano tutti che, all'infuori della vena del pozzo di casa – una vena superficiale da quattro soldi –, alle Ghiaie non avevano sentito niente di niente. Mai capitato un caso simile. Quell'anno il secco fu tremendo e alle Ghiaie la roba bruciò tutta nei campi: il Bacchi era fuori dalla grazia di Dio e così, quando qualcuno gli mostrò un giornale illustrato nel quale si parlava di un rabdomante straordinario che abitava nei pressi di Roma e che aveva trovato l'acqua dove nessuno era mai riuscito a trovarla, non ci pensò sopra neanche un minuto e si mise in viaggio. Trovò un signore sui cinquant'anni molto serio e molto occupato nei suoi studi e nei suoi affari, e si sentì rispondere garbatamente ma recisamente di no. Troppo lontano, troppo tempo da perdere. Il Bacchi offrì quattrini, ma non si trattava d'una questione di quattrini: il rabdomante non aveva bisogno di quattrini e non aveva mai accettato quattrini per le sue ricerche. «Quando cerco l'acqua» spiegò «io non faccio un lavoro. Io non ci metto niente di mio. Dio mi ha fornito di un sesto senso non perché io ne faccia una speculazione, ma per-
ché lo usi a favore degli uomini che questo sesto senso non posseggono. Sarebbe come se io capitassi in un paese di ciechi e volessi approfittare del fatto che ho gli occhi buoni per cavare quattrini da chi ha la disgrazia di non potere usare degli occhi suoi.» Il Bacchi raccontò la sua storia e concluse con le lagrime agli occhi: «Sono vecchio, oramai: fatemi vedere l'acqua alle Ghiaie, prima di morire. Ve lo chiedo come una grazia. Non è una questione di quattrini neanche la mia: le Ghiaie le ho create io, e, a vederle così, è come se avessi tirato su faticosamente un figlio e poi mi diventasse paralitico nelle gambe». Il professore sospirò e rispose: «Non si può negare una consolazione a un vecchio che ha lavorato tutta la vita. Verrò». * Il professore arrivò la settimana dopo e il Bacchi, quando lo vide, quasi lo abbracciava. Il professore andò a tagliare da un salice il rametto che faceva al caso suo e si mise subito al lavoro. Aveva un metodo di ricerca più organico degli altri rabdomanti, lo si capiva facilmente. E si capiva pure che era un uomo molto istruito, un vero signore il quale, pur senza darsi arie, incuteva soggezione.
Volle che gli indicassero i confini precisi del podere, poi fece un lungo interrogatorio a Peppone. Peppone era lì perché alle Ghiaie gli assaggi dei pozzi li aveva fatti tutti lui e perché, nella zona, era l'unico che avesse l'attrezzatura e la competenza necessarie per impiantare un pozzo d'irrigazione. Peppone riferì i risultati di tutte le esperienze alle Ghiaie e nei poderi della plaga concludendo: «Alle Ghiaie l'acqua non c'è: sono pronto a giocarmi il collo». Il professore guardò il collo taurino di Peppone e scosse il capo: «Se lei mette a repentaglio un collo così, significa proprio che è sicuro. Comunque, nella vita non si può mai essere troppo sicuri». In verità i fatti diedero ragione a Peppone perché, dopo ore e ore di ricerche, il professore si arrese. «Escludo, per quel tanto che può valere il mio giudizio, che esistano vene d'acqua di qualche importanza in questo podere.» Il Bacchi aveva una faccia così triste che metteva nel cuore la malinconia; il professore lo guardò, poi disse: «Adesso sono stanco e non posso più continuare. Riprenderemo le ricerche domattina». * Peppone fu il primo ad arrivare: c'era in ballo, sia pur soltanto simbolicamente, il suo collo, e la cosa lo appassio-
nava. E poi il professore, quell'uomo di poche parole, lo affascinava perché aveva negli occhi qualcosa di speciale. Le ricerche ripresero metodiche, quasi ossessionanti tanto erano pignole. Ma, quando al campanile stava per suonare il mezzogiorno, il professore non aveva trovato niente di più del giorno prima. Il sole picchiava come un maledetto e, prima di tornare alla fattoria, il professore sentì il bisogno di riposarsi un po' all'ombra. Erano arrivati al limite ovest delle Ghiaie, dove il podere aveva, come linea di confine, un canalaccio sassoso, più una pietraia che un canale, e, proprio sulla riva del canalaccio, lì a far la sentinella, levava le sue antiche fronde un olmo secolare. Il Bacchi e Peppone si avviarono verso l'ombra precedendo il professore. Ma il professore non li raggiunse perché, arrivato al limite dell'ombra, si fermò come se gli avessero inchiodato d'improvviso i piedi per terra. Pareva in preda a una sofferenza acuta che gli faceva serrare la mascella e tendere tutti i muscoli. Il rametto di salice, di cui teneva strette fra le mani le estremità, pareva diventato vivo e s'era messo a girare. Il professore si allontanò, ritornò indietro e, arrivato di nuovo al punto di prima, si fermò di scatto coi piedi incollati per terra. Ripetè la prova cinque, sei volte, partendo sempre da luoghi diversi, e sempre, arrivato al punto famoso, rimaneva coi freni bloccati.
Allora segnò il punto con un sasso e vi fece tutt'attorno dei giri sempre più stretti: ma il bastoncello non dava più segno di vita. Riprese a muoversi quando il professore tornò sul punto segnato col sasso. «Qui l'acqua c'è» disse il professore. «C'è e non molto profonda.» Peppone scosse il capo: «Non è possibile: qui saranno passati trenta rabdomanti e non hanno mai sentito niente di niente!» esclamò. «Proprio qui in questo punto?» si informò il professore indicando il sasso. «Proprio in questo punto non lo posso dire» rispose Peppone. «Però vicini ci sono passati di sicuro. E, se ci fosse stata la vena, l'avrebbero sentita di sicuro. Era gente in gamba: li ho visti io trovare l'acqua anche nei posti più diffìcili.» Il professore guardò il sasso: «Il fatto è che qui non c'è nessuna vena: ho girato tutt'attorno. Però lì, in quel punto, l'acqua c'è!». Peppone allargò le braccia: «Allora significa che l'acqua non proviene dalla terra ma dallo Spirito Santo. Perché, se venisse dalla terra, da qualche vena dovrebbe pure arrivare». «Qui, in questo punto, l'acqua c'è» affermò il professore. «Può darsi che io non senta la vena perché passa profondissima. Può darsi che si tratti di una vena d'acqua saliente che qui, in questo punto, ha trovato terreno poroso ed è filtrata
verso l'alto. Fate conto che una tubatura dell'acquedotto passi a tre o quattrocento metri sottoterra e qui, in questo punto, abbiano innestato un tubetto che porta l'acqua in su, fino a pochi metri dalla superficie. Comunque, sia quel che sia, io dico che qui sotto, a pochi metri, l'acqua c'è.» Il Bacchi, che fino a quel momento s'era limitato a guardare a bocca spalancata ora il professore ora Peppone, si levò e incominciò a gridare: «L'acqua! L'acqua! Presto! Presto!». Peppone lo calmò: «Se c'è, nessuno ve la porta via, quindi possiamo fare le cose con grande calma. Tanto più che non è proprio il caso di gridare che l'acqua c'è prima d'averla vista. Oggi, verso le quattro, io vengo con gli arnesi e si incomincia. Poi continuiamo anche tutta notte. Per il momento state zitto: se incominciate a urlare che l'acqua c'è e poi non la si trova, sarà peggio delle altre volte perché vi prenderanno anche in giro». Il Bacchi si allontanò malvolentieri: e prima di andarsene voleva piantare un fittone al posto del sasso per essere più sicuro, ma il professore non glielo permise. Anzi, buttò via pure il sasso. «Oggi, tornando, ritroverò il punto. Se non lo ritrovo, significa che adesso ho sbagliato.» *
Alle quattro si trovarono in parecchi attorno all'olmo. Il Bacchi coi figli, Peppone coi suoi tre aiutanti, gli spesati del podere, gli affittuari dei poderi confinanti. Quando il professore apparve si ritirarono al margine del canalaccio per non impicciare. Il professore si avvicinò, camminando rapidamente, all'olmo e a un tratto eccolo inchiodato. «È proprio qui» disse. «Potete incominciare.» Il terreno era sassoso: grossi ciottoli affioravano e, prima di far lavorare il mazzapicchio, fu necessario togliere lo strato di sassi. Gli uomini si misero all'opera e, per un buon metro e mezzo di profondità, continuarono sempre a cavar ciottoli. Poi si incominciò a trovare terra ghiaiosa. Ma qui il lavoro venne subito interrotto. «Nessuno si muova e nessuno tocchi niente fin che non è arrivato il maresciallo» ordinò con voce tonante Peppone. E la gente si ritrasse. Arrivò il maresciallo con due carabinieri e il medico. Un secondo dopo arrivò pure don Camillo assieme al resto del paese. Il maresciallo e il medico discesero nella buca. «Un mucchietto d'ossa con un po' di stracci grigioverdi» spiegò il maresciallo a Peppone e a don Camillo, ritornando su dalla buca. «Foro alla nuca» aggiunse il medico sopraggiungendo. «Roba del 1945, probabilmente.» «Politica!» commentò don Camillo. «Guerra!» replicò a denti stretti Peppone.
Ci fu qualche istante di silenzio. Poi il Bacchi scosse il capo e disse: «Chi sa chi è, poveretto!». «Gli abbiamo trovato addosso soltanto questo» rispose il maresciallo mostrando una sottile catenella d'oro con medaglia. Sfregò la medaglietta fra l'indice e il pollice per ripulirla dal terriccio. «Pare ci sia inciso qualcosa» disse il maresciallo: «8 febbraio 1929». «Sedici anni!» esclamò don Camillo. «Maresciallo, mi pare ci sia inciso anche un nome.» Il maresciallo trasse di tasca una piccola lente e considerò la medaglietta: «Cesare Deppi» spiegò. «Chi sa mai di dov'è!». «Borgodeste» disse la voce del professore. E tutti volsero gli occhi verso di lui. «Scusi, come fa a saperlo?» balbettò il maresciallo. Il professore allargò le braccia e scosse malinconicamente il capo. «Non ho dimenticato le generalità di mio figlio» rispose. «Tanto più che era figlio unico. Io stavo in guerra e al principio del 1945 il ragazzo scappò di casa per arruolarsi. Non se n'è più saputo niente. L'avevano mandato al Nord e non è più tornato. Sua madre lo aspetta ancora.» «Dovrà poi passare da me per l'inchiesta» disse il maresciallo al professore.
«Inchiesta?» sospirò il professore. «È morto. Ecco tutto. Ora potrà riposare in terra benedetta e sua madre saprà dove inginocchiarsi per piangere.» Il professore rimase al paese due giorni e, prima di andarsene, volle rivedere la buca vicino all'olmo. Peppone e il Bacchi lo accompagnarono e stettero a guardare in silenzio. «Tutti i rabdomanti son passati di qui e nessuno ha sentito niente» disse a un tratto il professore. «Ma io ho sentito qualcosa perché questa terra era bagnata del sangue di mio figlio.» Scosse il capo mestamente, poi aggiunse: «Il sangue non è acqua». La parola gli ricordò il Bacchi: il professore si volse verso il vecchio. «Non ha importanza, non ha importanza» balbettò il Bacchi. «Invece ha importanza» replicò il professore. E, strappato un rametto di salice, lo impugnò e discese nella buca. «Non sento più quello che sentivo prima» spiegò. «Non era l'acqua, era lui che io sentivo…» Peppone non ebbe neppure il coraggio di pensare: "Avevo o no ragione io?". Il professore continuò: «Era lui che sentivo così violentemente. Però l'acqua c'è. Non a pochi metri come dicevo. A pochi metri c'era
lui… L'acqua c'è verso i duecento metri… Chi ha fede la trova». * Il Bacchi aveva fede: tutti gli dissero che era un pazzo scatenato quando incominciò a far conficcare tubi nella terra, vicino all'olmo. Aveva fede e poi capiva che era necessario trovare l'acqua: non per l'irrigazione, ma per qualcosa d'altro che egli non riusciva a spiegarsi ma che era molto importante. L'acqua fu trovata a centonovanta metri e, quando il Bacchi vide uscire quel torrente tumultuoso dal tubo da venti centimetri di diametro, gli venne la febbre e dovette mettersi a letto. Gli operai lavorarono giorno e notte ma, dieci giorni dopo, il pozzo era pronto con tutta la sua casetta dei comandi elettrici. Una casetta in mattoni a faccia vista, che pareva un piccolo fortino. E un cannone pareva il grosso tubo che sbucava fuori dal muro ai piedi del quale incominciava il canale di cemento che avrebbe portata l'acqua al fosso grande del sistema d'irrigazione. Il Bacchi volle che alla inaugurazione del pozzo ci fossero tutti e, prima di tutti, il professore. Il professore venne accompagnato dalla moglie, e fu la moglie del professore ad abbassare il coltello del motore.
L'acqua uscì con violenza. Un torrente di acqua limpida e fresca e, appena la vide, il Bacchi capì qual era la cosa importante e fece il discorso inaugurale: «Ecco l'acqua che purifica tutto e lava la terra dalle macchie di sangue e, assieme alle macchie di sangue della terra, va via l'odio dagli animi. Amen». Si fece avanti don Camillo che benedisse l'acqua. Allora la moglie del professore bagnò la punta delle dita della mano destra nell'acqua che sgorgava dal tubo e si segnò. Anche il professore toccò l'acqua e si segnò. La gente – e c'era tutto il paese – stava lì a guardare trattenendo il fiato, e si udiva soltanto lo scrosciare dell'acqua, ma pareva una musica. * Don Camillo andava spesso a guardare lo spettacolo dell'acqua che sgorgava dal pozzo del Bacchi. E ogni volta, tornandosene, si portava una borraccia d'acqua fresca e, prima di rincasare, andava al cimitero a innaffiare con quell'acqua i fiori dell'aiuola sotto la quale riposava in pace il ragazzo assassinato dalla guerra civile. «È la tua acqua» mormorava don Camillo. «Acqua benedetta.» E un pomeriggio d'agosto, arrivato al pozzo, trovò un uomo che, seduto su una sponda del canale di cemento, stava immobile a guardare l'acqua.
Don Camillo lo riconobbe: era uno della banda di Peppone, un giovanotto di venticinque o ventisei anni. Guardava l'acqua e, quando don Camillo gli apparve davanti dall'altra parte del condotto di cemento, levò per un momento lo sguardo e subito lo riabbassò. Ma bastò quell'istante perché don Camillo si accorgesse che quegli occhi non erano i soliti occhi della solita gente. Don Camillo si sedette sulla sponda del condotto e stette ad aspettare. Voi non conoscete i pomeriggi d'agosto della Bassa. Là, in mezzo ai campi deserti, pieni di sole, ogni cosa sa di favola e, se il Demonio apparisse scarlatto e ghignante in mezzo a una piana di stoppia bruciata, sembrerebbe la cosa più naturale del mondo. Don Camillo aspettava e, a un tratto, il giovanotto disse come parlando a se stesso: «Sangue! Questa non è acqua ma sangue». «Acqua» replicò sottovoce don Camillo. «Sangue!» ripetè il giovanotto sempre a occhi bassi. «Sangue. Lo so ben io perché è il suo sangue…» «Acqua» sussurrò mite don Camillo. «Sangue!» ansimò il giovanotto guardando con orrore il canale gonfio d'acqua. «Il suo sangue. Lo so ben io che l'ho toccato quando quel sangue era ancora caldo… Ho eseguito un ordine… Credevamo che fosse una spia… Io sono a posto perché ho eseguito un ordine… Io ho sentito quello che ha
detto suo padre… Ho visto quel che ha fatto sua madre qui… Sangue. Questa non è acqua, è sangue.» «Acqua» insistè dolcemente don Camillo. «Prova a toccarla.» Il giovane ritrasse inorridito la mano. Ma don Camillo ancora insistè con voce suadente. E il giovane, lentamente, esitando, appressò la mano all'acqua. «Immergila tutta la mano» sussurrò don Camillo. «Il Bacchi aveva ragione: l'acqua purifica, lava le macchie di sangue, cancella l'odio.» Il giovane immerse la mano nell'acqua gelata. E aveva tutti i nervi tesi da spezzarsi. A un tratto gli occhi gli si riempirono di pianto e due lagrime gli scivolarono sulle guance e andarono a cadere nell'acqua. Il giovane ritrasse la mano e la guardò gocciolare. Poi, d'un tratto, si riscosse come se si fosse svegliato da un sogno e guardò con gli occhi sbalorditi don Camillo. «Stai tranquillo» lo rassicurò don Camillo. «Dio soltanto sa quel che è successo. Se pure è successo qualcosa.» Il giovane si alzò e se ne andò. Fatti pochi passi si volse a guardare il tubo del pozzo. «Acqua» gli disse don Camillo. «Non sangue. Acqua benedetta.» Il giovane riprese il cammino, passò fra i ciottoli roventi del canalaccio, scomparve fra le gaggìe. Don Camillo riempì d'acqua fresca la solita borraccia per innaffiare l'aiuola fiorita
sotto la quale riposava in pace il ragazzo assassinato dalla guerra civile. E, mentre riempiva la borraccia, mormorava: «Chi sa mai dove sono andate a finire quelle due lagrime che io poco fa ho visto scivolare nell'acqua!». Ma Dio lo sapeva e fece entrare le due lagrime nella borraccia, assieme all'acqua.
161 «MISS VIE NUOVE» S'erano incontrati cento volte alla Casa del Popolo, avevano marciato fianco a fianco in ogni corteo, avevano girato in coppia per la raccolta delle firme della pace e per le altre diavolerie: così, una sera d'estate, la cosa nacque spontanea. «Mi pare che noi due funzioniamo bene, insieme!» osservò il Falchette mentre usciva con la ragazza dalla Casa del Popolo. «Pare anche a me» ammise la Giulietta. Non aggiunsero niente altro: ma, la sera seguente, il Falchette fece una passeggiatina fin davanti alla casa del Brusco, e Giulietta era lì ad aspettarlo, seduta sulla spalletta del ponte. Da quella volta incominciò la storia e la gente l'accettò come la più logica del mondo. In verità la figlia del Brusco e il Falchetto parevano fatti l'una per l'altro perché avevano la stessa età e le stesse idee sballate dentro il cervello; e se la Giulietta era la più bella ragazza del paese, il Falchetto era un rispettabilissimo pezzo di giovanotto. E tutt'e due erano rovinati dalla stessa malattia della politica: rovinati a un punto tale da dimenticare tutto il resto.
«Falco» diceva la Giulietta «mi piaci perché sei diverso da tutti gli altri e parli con me come se io non avessi la disgrazia di essere una donna.» «Giulia» rispondeva il Falchetto «che importanza può avere la differenza di sesso quando la fede che ci anima è la stessa?» Continuarono a trovarsi quattro volte la settimana sul ponte anche in autunno; ma, una sera di pioggia, venne fuori la madre della Giulietta e disse che potevano almeno ripararsi sotto il portico. Quando incominciò l'inverno, la madre della Giulietta intervenne ancora per dire che, invece di star lì sotto il portico a prendersi dei malanni, potevano anche entrare in casa. La moglie del Brusco era una donna all'antica; pensava soltanto alle sue faccende: per lei, al di là del ponte, c'era l'estero. Quello che succedeva passato il ponte non l'interessava. E, al di qua del ponte, per la moglie del Brusco tutto era rimasto e doveva rimanere com'era venti o trent'anni prima. Perciò, quando il Falchetto, accogliendo l'invito, entrò in cucina, la donnetta gli indicò una sedia a fianco della credenza e gli disse: «Accomodatevi!». Poi fece cenno alla figlia che si sedesse nella sedia che faceva pendant alla prima, dall'altro lato della credenza, e lei tornò a sedersi davanti al fuoco a far la calza.
La Giulietta e il Falchetto continuarono tranquilli il discorso iniziato sotto il portico e rimasero lì due buone ore. Uscito il Falchetto, la Giulietta salì subito in camera sua e la madre non le disse una sola parola. Ma aveva il gozzo pieno e, quando il Brusco tornò, vuotò il sacco. «È venuto in casa quel giovinotto» disse la donna. «Ah!» borbottò il Brusco. «Cosa te ne pare?» «È un disgraziato!» esclamò la donna. «È un bravo ragazzo. Un ragazzo serio, equilibrato» replicò il Brusco. «Lo conosco bene.» «È un disgraziato» ripetè la donna. «Per due ore non ha fatto che parlare di politica, di partito, di giornali, di Russia, d'America e altre stupidaggini. E lei come ci stava! Disgraziati l'uno più dell'altra.» Il Brusco si strinse nelle spalle. «E di che cosa vuoi che parlino? Sono questi i problemi che oggi interessano la gioventù.» «Fin che si parla di politica, non ci si sposa» affermò categorica la donna. «Qui si tratta di fondare una famiglia, non di fondare dei partiti. Quel tipo non mi va.» Il Brusco si avviò verso la scala: «Non lo devi sposare tu» disse. «L'importante è che sia un bravo ragazzo.» «Non può essere un bravo ragazzo un giovane che appartiene a un partito di scomunicati come il tuo» replicò la donna.
«Anche tua figlia appartiene al mio stesso Partito di scomunicati» esclamò il Brusco. «Allora, secondo te, non è una brava ragazza neanche tua figlia!» La donna allargò le braccia e sospirò: «Quella non è mia figlia. È figlia tua.» Durante la notte, mentre si rigirava tra le lenzuola cercando invano di trovar sonno, alla donna venne un sospetto. Forse avevano parlato di quelle stupidaggini perché lei li stava ad ascoltare. Magari, da soli, i due parlavano in modo diverso. Volle fare la prova e, la sera seguente, appena il Falchette fu entrato e si fu seduto sulla solita sedia a fianco della credenza, la donna disse che era stanca morta e che andava su a dormire. Invece non andò a letto: togliendo un mattone aveva preparato, durante il giorno, un buon buco nel pavimento sopra la cucina e di lì, non vista, poteva tranquillamente vedere e ascoltare. Il Falchette e la Giulietta rimasero per una decina di minuti a conversare col solito tono; poi il Falchette esclamò: «Adesso che tua madre è andata a letto possiamo parlare liberamente. Io ti dico che se qui si continua con la tattica dei molli tipo Peppone e tuo padre, non si conclude niente. Bisogna mostrare i denti a questi maiali d'agrari se vuoi ottenere qualcosa». «Sono perfettamente d'accordo con te» rispose la Giulietta con aria molto grave. «Alla prima riunione in sede bi-
sogna parlar chiaro con Peppone. In quanto a mio padre, ti assicuro, Falco, che io sto cercando di fargliela capire da un sacco di tempo, ma è inutile. Sono vecchi, oramai. Mentalità superata.» La donna tratteneva il respiro e non perdeva un millesimo di parola. Ma si trattava di stupidaggini ancora più grosse di quelle della sera prima. Si annoiò e il Brusco, entrando in camera da letto, la trovò addormentata per terra, con l'orecchio sopra il buco del pavimento. «Bella mercanzia!» esclamò la donna tirandosi su. «Se ti interessa, tua figlia ha detto a quel disgraziato che tu e Peppone siete dei vecchi rimbambiti che si fanno prendere in giro dagli agrari.» Il Brusco scosse il capo: «Sono bravi ragazzi pieni di entusiasmo, ma hanno la malattia dell'estremismo. Comunque, noi siamo perfettamente a posto col Partito». * La storia continuò senza alcuna variante ancora per un bel pezzetto: la moglie del Brusco non si interessava oramai più né di Giulietta né del Falchette. Quando appariva il giovanotto, si limitava ad andarsene borbottando: «Arriva il comizio!».
Ma, finalmente, la novità arrivò. La portò una sera la Giulietta stessa. Il Brusco e la moglie stavano a tavola da mezz'ora e la ragazza non era ancora tornata. Arrivò di corsa, molto agitata, sventolando una rivista. «Guarda un po'!» esclamò trionfante spalancando il fascicolo davanti al padre. «Devo partecipare alla finalissima!» Il Brusco studiò in silenzio la faccenda poi passò la rivista alla moglie: «La conosci?» domandò indicandole una fotografia. La donna guardò la foto poi disse: «Assomiglia a lei». «Assomiglia tanto che sono io!» ridacchiò la Giulietta. «E c'è anche scritto sotto il nome.» La donna non capiva: «Perché c'è la tua fotografia?». «È il concorso per "Miss Vie Nuove". Io sono ammessa per la finalissima.» La madre guardò il giornale poi scosse il capo. Buio completo. La Giulietta sbuffò: «Ci vuol poco a capire! Vie Nuove è la rivista del nostro Partito e tutti gli anni fa il concorso di "Miss Vie Nuove". Le ragazze delle varie sezioni di tutta l'Italia mandano la loro fotografia e una commissione fa la scelta. Alla fine, le poche ragazze che restano in gara vengono chiamate a Roma dove la commissione le esamina e sceglie la ragazza da proclama-
re "Miss Vie Nuove". Io sarò tra le otto che andranno a Roma e che saranno le candidate al titolo». La madre aveva capito tutto meno una cosa: «Ma perché le scelgono? Per che cosa? Che concorso è?». «Un concorso di bellezza!» esclamò Giulietta. «La ragazza che risulta la più bella di tutte conquista il titolo e anche dei bellissimi premi. È una cosa seria: nella commissione ci sono dei registi, degli artisti, dei giornalisti, eccetera. E poi basta dire che è una iniziativa della nostra rivista. C'è di mezzo il Partito.» La donna si volse al marito: «E tu» disse «lasci che tua figlia si faccia pubblicare sul giornale e vada a Roma a fare la sfida di bellezza?». Il Brusco scrollò le spalle: «Non caviamoci fuori una tragedia! Ce ne sono centomila di questi concorsi. Cosa c'è di male? Le reginette non ci sono sempre state anche prima?». «Anche le ragazze poco serie c'erano anche prima» replicò dura la donna. «Con questo non è bene che le ragazze poco serie ci siano anche oggi.» La Giulietta saltò come una vipera: «Mamma!» urlò minacciosa «non dite stupidaggini!». La donna guardò il marito che non si mosse ma continuò a mangiare. Allora si levò e si avviò rapidamente verso la scala.
Il Brusco mandò giù in fretta il boccone e uscì: borbottò che aveva una riunione in sede. La Giulietta rimase sola. Sparecchiò e si sedette vicino alla credenza ad aspettare il Falchette Era la sua sera e arrivò puntuale. «Falco, hai visto?» gli domandò la Giulietta mostrandogli la rivista. Il Falchette aveva visto. «È venuta bene la fotografia» disse. «Non sapevo che tu l'avessi mandata…» La Giulietta era sempre molto agitata. Spalancò la rivista e la sciorinò sulla tavola. «Guarda le altre ammesse alla finalissima e giudica tu» disse. Il Falchette guardò le fotografie. «Sai, è difficile giudicare da una fotografia stampata su un giornale» concluse dopo attento esame. «Per questo ci chiamano a Roma!» esclamò la ragazza. «Lì ci guarderanno in faccia e nel resto! E, modestia a parte…!» Il Falchette continuò a guardare le fotografie. «E quand'è che dovresti andare a Roma?» si informò. «C'è scritto il giorno ventisei. Fra quattro giorni.» «È un viaggio lungo» osservò il Falchette. «Figurati! Settecento chilometri. E poi non ho mai visto Roma. Viaggio, alloggio e vitto, tutto è pagato: vale la pena di approfittarne.»
Il Falchetto convenne che l'occasione era ottima. «Comunque» concluse «a me questa faccenda delle Miss dà un po' l'idea di roba, diciamo, piuttosto borghese.» La Giulietta si mise a ridere: «La bellezza non è una cosa borghese» affermò. «La bellezza è un bene universale.» «D'accordo, Giulia» ribatté il Falchetto. «Però in Russia questi concorsi di bellezza non si fanno.» «In Russia è un'altra cosa!» protestò la ragazza. «In Russia non si fanno neppure scioperi né occupazioni di fabbriche. Perché in Russia tutto funziona a favore del popolo. Non c'è, in Russia, una borghesia maledetta che attraverso la sua propaganda cerca di presentare i comunisti come brutta gente, come mostri con tre buchi nel naso e via discorrendo. Il concorso di Vie Nuove serve per dimostrare che nel Partito ci sono ragazze bellissime. Più belle mille volte delle ragazze borghesi. Del resto, se non ci fosse uno scopo, il Partito non lo permetterebbe. Il Partito sa quel che fa.» Il Falchetto convenne che l'osservazione era giusta: il Partito ha sempre ragione. «Però, ti confesso che a me personalmente dispiace che tu abbia mandato la foto» affermò. «Falco» disse con voce dura «che storie sono queste? Cominci anche tu a tirare in ballo le baggianate degli altri uomini?» «Giulia, non mi hai capito» rispose il Falchetto. «Io ti ho sempre apprezzata e ammirata come una donna diversa da
tutte le altre: senza vanità, senza le solite ambizioni… Ecco: il fatto di partecipare a un concorso di bellezza mi dà l'idea che tu ti sia lasciata vincere appunto da un po' di vanità, di ambizioncella.» La Giulietta si drizzò in tutta la sua fierezza: «Se l'iniziativa è del Partito, ciò significa che essa giova alla causa del Partito. E se io posso giovare all'iniziativa che giova alla causa del Partito, non faccio che il mio dovere di compagna!». Il Falchetto arrossì: «Ti domando scusa, Giulia: il fatto è che mi succede qualcosa che non capisco bene. Mi dà fastidio che ti abbiano pubblicata la foto e mi dà fastidio che tu vada a Roma». La Giulietta rise sarcastica: «Controllati, compagno, o diventerai uno dei soliti imbecilli che perdono la testa quando vedono una qualsiasi ragazza! Non mi deludere. Non mi fare il solito scherzo dell'uomo diverso da tutti gli altri, dell'uomo che sa coltivare un'amicizia pura e poi, tirate le somme, si rivela un miserabile sporcaccione che cerca di fare il solito colpo». Il Falchetto diventò pallidissimo: «Giulia» gridò «tu mi offendi!». «Falco» replicò la Giulietta. «Sei tu che offendi me! E non solo offendi me ma offendi anche mio padre! Perché, ricordatelo bene, mio padre non ha trovato proprio niente da ridire, su questo fatto.» Il Falchetto allargò le braccia:
«Non ti inquietare, Giulia: io non voglio offendere nessuno. Io ti chiedo soltanto se, per favore, puoi rinunciare ad andare a Roma. Cosa ti importa di diventare la reginetta di Vie Nuove quando sei la mia regina!». Il Falchetto aveva parlato con una strana voce, insolitamente sommessa e dolce: la Giulietta lo considerò con disgusto e poi gli gridò: «Cretino!». Il Falchetto impallidì ancora di più e si avanzò verso la ragazza prendendole una mano. Giulietta lo respinse rudemente: «Vattene e non farti vedere mai più, imbecille smidollato!» urlò indicandogli la porta. Il Falchetto accusò il colpo: abbassò il capo e si avviò verso la porta. In verità il Falchetto non era un imbecille e possedeva una spina dorsale. Tanto è vero che si volse di scatto e disse con voce aspra: «Giulia, ti proibisco di andare a Roma! Non voglio che tu partecipi a concorsi di bellezza e porcherie del genere. Se tuo padre è stupido io non lo sono». La Giulietta si piantò davanti al Falchetto coi pugni sui fianchi: «Proibire?» urlò. «Con quale diritto tu mi proibisci di fare qualcosa? Chi sei tu?»
«Io sono uno che ti vuol bene!» rispose perdendo la calma il Falchetto. «Io non sono uno di quelli che mettono in vetrina sua moglie!» La Giulietta prese a sghignazzare e il Falchetto la lasciò fare un po', quindi strinse i pugni e le disse: «Tu a Roma non ci andrai!». La Giulietta smise di ridere e lo guardò negli occhi: «Non fra quattro giorni, partirò: ma domani mattina!» affermò. «E mi presenterò alla commissione in costume da bagno! Ce l'ho qui: guardalo!» Aperse un cassetto e ne trasse un involto di cui lacerò la carta. «Ecco, Falco: costume da bagno a due pezzi: slip e…» Il Falchetto non la lasciò finire perché, con un balzo, le strappò via di mano la roba e la buttò per terra calpestandola sotto i piedi. «Ne vendono degli altri!» ansimò furibonda la Giulietta. «Vedrai la mia foto in costume da bagno… La vedrai sui giornali… E adesso vattene fuori di casa mia! Ti manderò una bella cartolina da Roma.» Il Falchetto era tanto gonfio di rabbia disperata che pareva dovesse scoppiare. Ma non c'era niente da fare. Si guardò attorno come per cercare un qualcosa che non sapeva neppure lui: vide appesa al muro, a fianco del camino, la doppietta col carniere e le cartucce. E c'era qualcosa che brillava sinistramente anche sul ripiano del camino.
La Giulietta non fece a tempo ad accorgersene: il Falchetto già aveva uncinata l'arma e già, con l'altra mano, aveva agguantato per il collo la Giulietta. Il Falchetto aveva delle mani d'acciaio e Giulietta riusciva a malapena a respirare. Il Falchetto levò l'arma e vibrò il primo colpo alla testa della ragazza. La disgraziata non ebbe neppure il tempo di lanciare un urlo perché l'orrore le fece perdere i sensi. Quando rinvenne, si ritrovò seduta per terra e, levando gli occhi, scorse il Falchetto che la rimirava. La Giulietta non capiva ancora: si sentiva la testa vuota, spaventosamente vuota. E, più vuota di così, non poteva essere perché il Falchetto le aveva rapato i capelli a zero. Quei magnifici capelli lunghi, ondulati e morbidi come la seta, che ora giacevano, recisi, per terra, in mezzo alla polvere. Il Falchetto lanciò ai piedi della Giulietta la macchinetta per tosare e allora la Giulietta capì. «E adesso vai a Roma!» disse il Falchetto con ferocia. Poi infilò la porta e scomparve. Sdraiata sul pavimento del primo piano, la moglie del Brusco aveva seguito dal buco tutta la scena. «Te l'avevo detto che è un bravo ragazzo» le sussurrò all'orecchio il Brusco che era arrivato a casa già da un bel pezzo e, entrato dalla porta dell'orto, era salito e anche lui, sdraiato a fianco della moglie, aveva assistito alla tragedia.
* Il giorno dopo tutto il paese sapeva della rapatura; come la gente lo avesse saputo e da chi è inutile spiegarlo: nei paesi della Bassa si sa tutto di tutti. E, naturalmente, la Giulietta nel pomeriggio ricevette la visita di un'amica che le spiegò come tutto il paese sapesse ogni cosa. «Giulietta» concluse l'amica che le aveva parlato attraverso la fessura della porta «nessuno ha ancora visto niente. Ti conviene tagliar la corda per due o tre mesi e andare in montagna da tuo zio. Là basta un parrucchino leggero e un fazzoletto in testa e tutto è a posto. Intanto i capelli ricrescono.» «Grazie» rispose la Giulietta. Rimase chiusa in casa tutto il giorno poi, dopo cena, andò a sedersi sulla spalletta del ponte. Era una magnifica sera d'agosto con una luna enorme: ci si vedeva come di giorno e il primo che passò davanti al ponte del Brusco e scoperse la zucca pelata della Giulietta diede l'allarme in paese. Incominciò il viavai davanti al ponte del Brusco: poi, a un bel momento, arrivò anche il Falchetta. Rimase lì fermo e titubante e la Giulietta gli disse: «Be'? Non entri?». Il Falchetta inghiottì poi le rispose:
«Giulia, se hai intenzione di fare qualcosa, fallo subito. Però non rovinarmi col vetriolo: piuttosto sparami». «Spararti?» si stupì la Giulietta. «E se ammazzo te dove lo trovo, così conciata come sono, un altro cretino che mi sposa subito?» * Per il matrimonio, la Giulietta si mise il suo tailleur grigio con cravatta e don Camillo, quando si trovò davanti quella faccenda, rimase perplesso; guardò il Falchetta, guardò la testa pelata della Giulietta e poi domandò burbero: «Chi dei due è l'uomo?». «Lui!» rispose sospirando la Giulietta coprendosi la zucca rapata con un velo nero.
162 LA MEDICINA La gente non riusciva a perdonare a don Camillo d'essersi ridotto così per causa di Ful. «Andiamo!» diceva la gente quasi indignata. «Un cane è sempre un cane!» Anche un passero è sempre un passero: però se un passero si» posa su una trave di cemento che può portare, come massimo, tremila quintali e sette grammi e che ha un carico di tremila quintali e sette grammi, la trave si spacca. Quando accadde la storia del cane, don Camillo si trovava appunto nella stessa situazione della trave di cemento: ecco tutto. Il giorno prima che si riaprisse la caccia, Ful uscì di casa verso il mezzodì e la sera non tornò. Non si fece vivo neppure il mattino seguente e don Camillo girò come un pazzo per rintracciare il cane. Girò fino a notte e, rincasando a mani vuote, aveva un tal magone che non toccò niente della cena. "Me l'hanno rubato!" pensava. "Me l'hanno rubato e, adesso, magari, è già in Piemonte o in Toscana!" Sentì a un tratto cigolare la porta e, voltatosi, vide Ful. Ful, lo si capiva dal suo sguardo dimesso, sapeva di aver combinato una porcheria grossa e non trovava neanche il co-
raggio di entrare del tutto, ma rimaneva lì, fermo sulla soglia, mostrando soltanto un pezzo di muso. «Entra!» disse don Camillo. Il cane non si mosse. «Ful, qui!» gridò don Camillo. L'ordine era categorico e Ful entrò e si fece avanti lentamente a testa bassa. Giunto ai piedi di don Camillo si fermò e attese. Fu in quel momento preciso che il passero si posò sulla trave di cemento, perché fu allora che don Camillo scoperse che qualcuno aveva pitturato di rosso il treno posteriore di Ful. Non toccate il cane a un cacciatore. Per fare un affronto al cacciatore non fate un affronto al suo cane. È una cosa enorme, è la vigliaccata più nera. Don Camillo sentì come uno scricchiolìo, di dentro, e dovette alzarsi e andare a respirare davanti alla finestra. L'ira gli era passata subito e ora provava soltanto una grande malinconia. Tornò a sedersi: si asciugò la faccia piena di sudore. Toccò la schiena di Ful: il minio era oramai seccato. Si trattava di una faccenda del giorno prima. Ful non era rientrato perché si vergognava. «Povero Ful» disse ansimando don Camillo. «Ti sei lasciato accalappiare come un cagnetto da quattro soldi…» Poi gli venne in mente che Ful non era il tipo di cane che si lasciasse avvicinare dagli estranei o che cedesse all'allettamento di un pezzo di carne. Ful non si fidava di nessuno,
era un cane di razza. Si fidava soltanto di due persone: e una era don Camillo. La faccenda diventava chiara: don Camillo si alzò e uscì. Volle che Ful lo seguisse e Ful lo seguì pieno di vergogna. Peppone stava ancora lavorando in officina e don Camillo gli comparve davanti come un fantasma. Peppone continuò a smartellare e don Camillo si pose dall'altra parte dell'incudine. «Peppone» disse don Camillo «hai un'idea di come Ful si sia conciato in questo modo?» Peppone diede un'occhiata a Ful, poi si strinse nelle spalle. «E cosa ne so io? Si sarà seduto su qualche panchina verniciata di fresco!» borbottò. «Può anche darsi» rispose calmo don Camillo. «Però, secondo me, è una faccenda che riguarda invece direttamente te. Per questo l'ho portato a te.» Peppone sghignazzò: «Io faccio il meccanico: la smacchiatrice a secco è dall'altra parte della piazza, sotto i portici». «Ma il tipo che l'altro giorno mi ha chiesto il cane in prestito e che, per vendicarsi del rifiuto, ha pitturato il cane di rosso è qui!» affermò don Camillo. Peppone mollò il martello e si mise i pugni sui fianchi piantando gli occhi addosso a don Camillo. «Reverendo, cosa vorreste dire?»
«Che tu hai commesso la più grande vigliaccata che uomo possa commettere!» rispose don Camillo. Don Camillo ansimava: sentiva Peppone urlare ma non capiva cosa dicesse. Gli girava la testa. Dovette aggrapparsi alla ruota del trapano per non cadere. «Se siete ubriaco andate a smaltire la sbornia in sagrestia dove c'è più fresco di qui!» Adesso capiva le parole di Peppone: si riprese e si avviò verso la porta. Si ritrovò in canonica senza sapere come ci fosse arrivato. Mezz'ora dopo, richiamato dall'abbaiare disperato di Ful, il campanaro venne giù: la finestra del pianterreno della canonica era aperta e la luce era accesa e il campanaro appressatosi diede un urlo, perché scoperse don Camillo, abbandonato sul pavimento, come morto, con Ful che ululava vicino. Don Camillo fu caricato sulla autoambulanza e portato subito all'ospedale in città e la gente, prima di andare a letto, aspettò il ritorno degli infermieri dell'autoambulanza per sapere qualche notizia. «Non si sa che roba abbia» dissero gli infermieri. «È un pasticcio di cuore, fegato, sistema nervoso. Deve aver picchiato anche la testa quando è caduto. Durante il viaggio vaneggiava: continuava a lamentarsi perché gli hanno pitturato di rosso il cane.» La gente andò a letto molto triste borbottando: «Povero don Camillo!». Poi, il giorno dopo, quando seppe che il cane
glielo avevano pitturato davvero di rosso, e che le parole di don Camillo non erano i vaneggiamenti di un uomo in delirio, la gente osservo che, a farsi venire un accidente per un cane, è roba da matti: «Un cane è sempre un cane, perbacco!». Ma era, invece, la storia del passero che fa crollare la trave di cemento. * Ogni sera qualcuno portava il bollettino dalla città, e il bollettino era sempre lo stesso: «Sta male. Non vogliono che veda nessuno e parli con nessuno». E ogni mattina, puntualmente, Ful arrivava davanti all'officina di Peppone, si accucciava sulla soglia, e rimaneva lì, fermo, a guardare Peppone. Rimaneva lì almeno due ore ogni mattina: alle otto, quando incominciava ad arrivare gente, Ful se ne andava. Peppone non gli aveva mai dato retta ma una volta, dopo che questa bella storia si era ripetuta per circa venticinque giorni, Peppone perdette la pazienza e, appena vide arrivare Ful, gli urlò: «Piantala di rompermi l'anima! Sta male, ecco tutto. Se vuoi saperne di più vallo a trovare!». Il cane non si mosse di un millimetro e Peppone riprese il lavoro, ma quei due occhi maledetti se li sentiva addosso.
Alle sette non ne potè più e corse in casa. Si ripulì, si mise il vestito della festa e, saltato sul side-car, partì. Dopo due chilometri bloccò la macchina perché voleva vedere come stesse a benzina. Il serbatoio era pieno zeppo. Controllò l'olio e le gomme. Poi scrisse alcuni appunti nel notes perché gli era venuta in mente una cosa importante. Poi, finalmente, arrivò Ful con mezzo metro di lingua fuori e saltò sul carrozzino. «Crepa te e il tuo padrone!» gli disse con rabbia Peppone ripartendo. Alle otto fermava davanti all'ospedale e ordinava a Ful di rimanere a far la guardia alla macchina. In portineria gli spiegarono che era troppo presto per le visite agli ammalati. Quando poi seppero di che malato si trattasse, gli spiegarono pure che era inutile che aspettasse. Era estremamente grave e non poteva vedere nessuno né parlare con nessuno. Peppone non insistette: risalì sulla macchina e marciò diritto sul vescovado. Non lo volevano fare entrare a nessun costo neppure qui: ma poi rimasero impressionati dalla sua decisione e dalle sue enormi mani e gli dissero di aspettare un momentino. Il vecchio Vescovo, sempre più vecchio, sempre più piccolo e sempre più bianco e minuto, stava girando nel giardino rallegrandosi dei vivaci colori dei fiori.
«C'è un energumeno il quale dice di essere amico personale di Vostra Eccellenza» gli spiegò il segretario arrivando tutto affannato. «Debbo avvertire la polizia?» Il vecchio Vescovo allargò le braccia: «Figlio mio» «rispose «perché avvertire la polizia? Hai così poca stima del tuo Vescovo da credere che egli scelga i suoi amici personali fra i criminali ricercati dalla polizia? Fallo passare». Un minuto dopo Peppone arrivava come un bolide e il vecchio Vescovo, facendo capolino di dietro un cespuglio, lo bloccava puntandogli contro il petto il bastoncello. «Eccellenza!» balbettò Peppone frenando. «Scusi se la disturbo, ma la cosa è grave.» «Parli, signor sindaco. Cosa le succede?» «A me niente, Eccellenza: è successo qualcosa a don Camillo. Da oltre venti giorni…» «Lo so, so tutto, son già andato a visitarlo, povero don Camillo» lo interruppe con un sospiro il vecchio Vescovo. Peppone rigirò il cappello tra le mani. «Bisogna fare qualcosa, Eccellenza.» «Qualcosa?» disse il Vescovo allargando le braccia. «Solo Dio può fare qualcosa per don Camillo.» Peppone aveva la sua idea: «Anche Lei, Eccellenza, può fare qualcosa! Una Messa speciale, per esempio!». Il vecchio Vescovo lo guardò incuriosito.
«Eccellenza» balbettò Peppone «cerchi di capirmi. Il cane l'ho pitturato io di rosso!» Il vecchio Vescovo non rispose e si incamminò lungo il viale del giardino. Sopraggiunse il segretario a dire che la colazione era pronta. «No, no!» rispose brusco il Vescovo. «Via! Via!» In fondo al viale c'era la cappella. Qui giunto, il Vescovo si fermò: «Vada fin laggiù e dica che mi mandino un chierichetto» disse il Vescovo a Peppone. Peppone allargò le braccia: «Eccellenza» balbettò «se vuole posso fare io… Da ragazzo, insomma, me la cavavo bene…». «Messa speciale con chierichetto speciale» commentò il Vescovo. «Entri e chiuda la porta col catenaccio. Queste son cose che dobbiamo sapere soltanto io e lei. E il buon Dio, naturalmente.» * Uscendo dal vescovado, Peppone ritrovò Ful al suo posto di guardia, dentro il carrozzino della moto. Risalì, partì e poco dopo fermava davanti all'ospedale. Non volevano farlo passare a nessun costo, ma Peppone passò ugualmente. «Noi decliniamo ogni responsabilità» gli dissero. «Qualunque cosa accada il responsabile è lei.»
Lo accompagnarono al primo piano di un padiglione e, arrivati davanti alla porta, lo abbandonarono: «Per noi lei è entrato per forza». La cameretta era piena di luce e, aperta la porta, Peppone ebbe un sobbalzo perché vide subito il viso di don Camillo. Peppone non avrebbe mai potuto immaginare che un uomo come don Camillo potesse, dopo venticinque giorni di malattia, ridursi così. Entrò in punta di piedi e si fermò al capezzale. Don Camillo aveva gli occhi chiusi e pareva morto. Quando riaprì gli occhi pareva vivo. La sua voce era un soffio: «Sei venuto per raccogliere l'eredità?… Non ho che Ful… Te lo lascio… Tutte le volte che lo vedrai così sporco di rosso, ti ricorderai di me…». Peppone abbassò il capo: «Il rosso è quasi andato via del tutto» spiegò a bassa voce. «Tutti i giorni lo faccio lavare con l'acqua ragia.» Don Camillo sorrise: «Avevo ragione di portarlo a te e non dalla smacchiatrice…». «Lasciate perdere, reverendo… Ful è giù: ha voluto venire anche lui a trovarvi. Non l'hanno lasciato entrare.» Don Camillo sospirò: «Strana questa gente: lasciano entrare te e non lasciano entrare Ful che è tanto meno cane di te!…».
Peppone fece un cenno di approvazione. «Vedo che incominciate a migliorare, reverendo. Vi sento molto risollevato.» «Fra pochi giorni mi vedrai sollevato fin sopra le nuvole. È finita. Non ho più forza… Non ho più neanche la forza di essere arrabbiato con te.» Entrò un'infermiera con una tazzina di roba. «Grazie» sussurrò don Camillo. «Non ho fame.» «Ma è roba da bere!» «Non ho sete.» «Dovete sforzarvi e mandarla giù.» Don Camillo bevve a piccoli sorsi. Poi, uscita l'infermiera, fece Una smorfia: «Brodini, pappine, creme: da venticinque giorni sempre così. Mi pare d'essere diventato un canarino…». Si guardò le mani scarne e bianche. «Vuoi che proviamo a fare il braccio di ferro?» domandò a Peppone. Peppone abbassò il capo: «Non statevi ad angustiare» disse. Don Camillo chiuse lentamente gli occhi e parve riaddormentarsi. Peppone rimase qualche minuto ad attendere, poi si mosse per andarsene. Ma una mano gli toccò il braccio. «Peppone» sussurrò don Camillo «sei un galantuomo o sei l'ultimo dei vigliacchi?» «Sono un galantuomo» rispose Peppone.
Don Camillo gli fece cenno di abbassarsi e gli parlò all'orecchio. Gli dovette dire cose spaventose perché Peppone si levò di scatto esclamando: «Reverendo! Ma è un delitto!». Don Camillo lo fissò negli occhi: «Anche tu, dunque» ansimò «anche tu mi tradisci?». «Io non tradisco nessuno» replicò Peppone. «Voi me lo chiedete o me lo ordinate?» «Te lo ordino!» ansimò don Camillo. «Sia fatta la volontà vostra» sussurrò Peppone uscendo. * La moto di Peppone poteva, spinta al massimo, viaggiare a centodieci: quella volta marciò a centotrenta. Non fu una corsa, il ritorno: fu un volo. Alle tre del pomeriggio, Peppone era di nuovo davanti all'ospedale. Si era fatto accompagnare dallo Smilzo e, quando in portineria lo vollero bloccare, spiegò: «È una questione grave, una questione d'eredità. Mi sono portato anche il notaio!». Riuscì a salire e, appena fu davanti alla porta della stanzetta di don Camillo, ordinò allo Smilzo: «Tu fermati qui e non fare entrare nessuno: di che sta confessandosi».
Don Camillo dormiva ma il suo sonno era leggerissimo e spalancò subito gli occhi. «E allora?» ansimò. «Tutto come avete voluto voi» rispose Peppone. «Però è un delitto.» «Hai paura dunque?» disse don Camillo. «No.» Peppone cavò di sotto la giacca un involto e l'aperse. Depose ogni cosa sul comodino e tirò su don Camillo accomodandogli i cuscini sotto la schiena. Poi distese in grembo al malato un tovagliolo e vi depose la roba: una micca di pane fresco e un piatto di culatello affettato. E don Camillo incominciò a mangiare pane e culatello. Poi Peppone stappò la bottiglia del lambrusco e il malato bevve il lambrusco. Mangiò e bevve lentamente e non era per ghiottoneria, ma per sentire meglio il sapore della sua terra. E ogni boccone e ogni sorso gli portavano un'onda di acuta nostalgia: i suoi campi, i suoi filari, il suo fiume, la sua nebbia, il suo cielo. I muggiti delle bestie nella stalla, il picchiettare lontano dei trattori intenti all'aratura, l'ululare della trebbiatrice. Tutto questo gli pareva lontano, come appartenesse a un altro mondo: ed erano i sapori falsi delle pappine e delle creme e i veleni delle medicine che gli avevano fatto perdere il contatto con la sua terra.
Mangiò e bevve lentamente. Quand'ebbe finito disse a Peppone: «Mezzo toscano!». Peppone sudava ed era pieno di paura e guardava don Camillo come se dovesse vederlo, da un momento all'altro, rimaner lì, secco come un chiodo. «No!» rispose. «Il sigaro no!» Poi dovette cedere ma, dopo due o tre boccate, don Camillo lasciava cadere per terra il sigaro e piombava nel sonno. Tre giorni dopo don Camillo lasciava l'ospedale, ma in paese tornò soltanto due mesi dopo: voleva che lo rivedessero perfettamente a posto. Ful gli fece un'accoglienza strepitosa e continuava a girar su se stesso perché don Camillo si rendesse conto che oramai era perfettamente a posto anche nella parte posteriore. Peppone, che quasi per caso era passato davanti alla canonica e si era avvicinato richiamato dal putiferio di Ful, fece notare a don Camillo che il cane non aveva più neppure una macchiolina di rosso, addosso. «Già» rispose don Camillo «lui è a posto. Adesso si tratta di ripulire dal rosso gli altri cani che circolano per il paese.» «Siete guarito completamente» borbottò Peppone. «Forse anche troppo.»
163 IL BUSTO DEL RE «Il Re!» esclamò lo Smilzo molto agitato, entrando a saetta nell'ufficio del sindaco. Peppone levò gli occhi dai suoi scartafacci e guardò stupito lo Smilzo: «Il Re?» domandò. «Quale Re?» «Quello morto!» balbettò lo Smilzo uscendo e facendo cenno a Peppone di seguirlo. Il solaio del municipio serviva da archivio ma si trattava, più che altro, di un immenso magazzino di polvere e ragnatele. Peppone v'era entrato una volta sola rimanendovi il tempo strettamente necessario a borbottare: Che porcaio!»; quindi si incamminò con scarsissimo entusiasmo dietro lo Smilzo che stava salendo, tre gradini per volta, la scala stretta e buia, e poi, con palese disgusto, varcò la soglia del regno delle scartoffie comunali. Lo Smilzo traversò rapidamente la stanzaccia e, arrivato davanti al grande scaffale della parete di fondo, si fermò. «Ecco» disse lo Smilzo indicando lo scaffale i cui ripiani erano zeppi di pacchi di cartaccia neri di polvere. Peppone guardò quella porcheria poi guardò lo Smilzo. «Sei diventato stupido?» si informò.
«Capo» rispose lo Smilzo «prova a spingere questa piantana. Non è uno scherzo!» Peppone appoggiò diffidente una zampa al legno e tutta una sezione dello scaffale si aperse come fosse il battente d'una porta. Ed effettivamente si trattava di un pezzo di scaffale che era fissato su cardini e funzionava da porta. Peppone rimase perplesso: questo tipo di faccende da romanzo giallo non gli piaceva. Ma lo Smilzo si era infilato nell'angusto pertugio e anch'egli entrò. Si trovò in una stanzetta illuminata da una finestra bassa, a fior di pavimento. Una stanzetta pulitissima e senza scartoffie, con le pareti che parevano essere state imbiancate da pochi giorni. «Capo, guarda un po'!» esclamò lo Smilzo. Peppone si volse: il Re era là. Era là, nel bel mezzo della parete più alta della soffitta: un enorme busto di gesso candido, appoggiato su una colonna di legno pitturato a finto marmo, con la sua brava targa: «Bah» borbottò Peppone. «Che questa roba non sia stata distrutta tutta è una porcheria. Però non ci vedo niente di straordinario.» Lo Smilzo sogghignò: «Capo, non ti pare straordinario il fatto di questa porta segreta? Non ti pare straordinario il fatto di questa stanzetta dove non c'è un granello di polvere? Capo, parliamoci chiaro: qui c'è qualcuno che ogni tanto viene a scopare il pavi-
mento e a spolverare il Re! E se non ci credi dai un'occhiata lì». Peppone si appressò al piedistallo e, sul capitello che sopravanzava di quattro dita tutt'attorno il basamento del busto di gesso, scorse delle margherite. «Non possono essere state messe lì da più di due giorni» osservò lo Smilzo. «Capo, non ci sono dubbi: questo è un covo monarchico!» Peppone strinse i pugni: «Tu resta qui e non muoverti per nessuna ragione!» gridò. «Adesso me lo cucino io! Questa volta lo liquido!» * Il segretario comunale entrò nell'ufficio del sindaco e subito disse: «La relazione sullo stato del ponte del Molinetto sarà pronta fra mezz'ora. La sto battendo a macchina». «Lasci perdere il ponte del Molinetto» rispose con voce dura Peppone. «Parliamo di qualcosa di più importante.» Il segretario comunale allargò le braccia e aspettò paziente. Era un uomo oramai anziano, un uomo mite abituato a dire signorsì sin da quando aveva fatto il servizio di leva. «Qui» affermò Peppone «c'era una volta il busto del Re, se non sbaglio.» «Sissignore» rispose il segretario. «In tutti i Comuni c'era un busto del Re.»
«D'accordo: però allora in tutti i Comuni c'era la monarchia, mentre adesso, in questo Comune, come negli altri, c'è la repubblica. Lei se ne è accorto?» «Certamente.» «Pare di no» esclamò Peppone. «Altrimenti lei non avrebbe fatto quel che ha fatto e continua a fare.» «Non capisco, signor sindaco» balbettò il segretario. «L'ho capito perfettamente io vedendo quel che c'è nella stanzetta segreta dell'archivio!» urlò Peppone. Il segretario allargò le braccia: «Io non so niente. Io non ho la minima idea di che stanza segreta lei parli». Peppone pestò un pugno sulla scrivania: «Sta bene: aprirò un'inchiesta immediatamente» gridò. «In archivio ci vanno soltanto due persone: lei e il custode. Vedremo di chi è la responsabilità. Vedremo chi è che ha portato il busto del Re nella stanza segreta! Vedremo chi è che lo spolvera e gli porta i fiori!» Il segretario scosse il capo. «Il busto l'ho fatto portar io lassù nel 1943 quando è venuta la repubblica sociale. Nessuno può rimproverarmi di aver fatto questo. Poi me ne sono dimenticato. Nessuno può rimproverarmi d'essermi dimenticato del Re.» «E le pulizie? E gli omaggi floreali?» urlò Peppone. Ma in quel momento entrò lo Smilzo che si trascinava dietro il vecchio custode:
«L'ho pescato» spiegò lo Smilzo. «È entrato nella stanza segreta con la spolverina in mano.» Il vecchio custode si strinse nelle spalle. «Ebbene?» borbottò. «Cosa c'è di male se tiro giù la polvere a un monumento che è nei locali del municipio? Se è nei locali del municipio significa che va tenuto pulito come tutte le altre cose.» Peppone pestò un pugno tremendo sulla scrivania: «Locali del municipio un corno! Qui si tratta di un nascondiglio segreto che conoscete soltanto voi due!». Il segretario intervenne con molta calma: «Signor sindaco, lì appeso al muro, dietro la sua scrivania, c'è il quadro con la pianta completa del palazzo municipale e, come può controllare, la stanzetta annessa all'archivio vi è segnata e porta anche la qualifica: Numero 27: alloggio per l'eventuale guardia notturna prevenzione incendi e sorveglianza archivio». Peppone schiumava di rabbia: «E i fiori?» urlò. «C'erano dei fiori freschi davanti al monumento!» «Li ha messi la mia nipotina l'altro giorno» spiegò con naturalezza il custode. «Era con me quando facevo la pulizia. Ha visto quella statua tutta bianca e l'ha presa per il monumento a un morto. Ha tre anni: non capisce.» «E voi, che non avete tre anni, non avete capito che quel monumento era un reato contro la repubblica?» gridò lo Smilzo.
«Io ho capito soltanto che si tratta di un Re morto» replicò il custode. «Credevo che fosse roba storica.» «I Re non fanno storia né vivi né morti!» affermò lo Smilzo. Il custode allargò le braccia: «Non mi interesso di politica. Io so che in piazza grande, a Milano, c'è il monumento di un Re a cavallo e ce l'hanno lasciato anche se adesso siamo in repubblica». «Ce l'hanno lasciato non per il Re, ma per il cavallo!» urlo Peppone. Peppone era furibondo: neanche quella volta aveva potuto pizzicare il segretario comunale. Si sfogò col custode: «Siete un vecchio rimbambito!» affermò. «Adesso procuratevi un martello, andate su, spaccate quella porcheria e buttate nella spazzatura i calcinacci!». Il custode scosse il capo: «Chi è morto giace e pace all'anima sua» disse. «Io coi morti non me la piglio. E poi quello là mi fa soggezione.» «Soggezione?» gridò Peppone. «Soggezione la statua di un pipetta così?» «Pipetta o no» replicò il custode «un Re è sempre un Re… Spaccatelo voi, se avete il coraggio.» Peppone fece un cenno allo Smilzo poi uscì dopo aver ordinato al segretario e al custode di seguirlo. Salirono in solaio e, quando entrarono nella stanzetta, lo Smilzo li raggiunse. Aveva in mano un grosso martello e lo porse a Peppone.
Peppone si piantò a gambe larghe davanti al grosso busto di gesso e, dopo aver guardato negli occhi il segretario e il custode, levò il martello e menò un colpo tremendo. Ma allora accadde qualcosa che gli gelò il sangue: sotto il colpo il busto del Re non si sbriciolò. Rimase intatto e diede un suono come di campana sommersa. Il martello sfuggì dalle mani di Peppone e parve a Peppone che quel suono fosse come una voce possente che venisse d'oltretomba. Come un richiamo che percorresse immensi, sconfinati pianori deserti e oppressi da un cielo tempestoso. E, a quel richiamo, morti sorgevano dalla terra nuda e devastata e si componevano in ranghi compatti. E, ben presto, i ranghi si disposero a quadrato e luccicavano le baionette e gli elmetti e, al centro del quadrato, c'era il piccolo Re a cavallo, il piccolo Re vestito di grigioverde (come Peppone l'aveva visto quand'era ancora ragazzo) e, nel pugno, stringeva l'asta della bandiera. La voce del segretario lo riscosse: «È di bronzo» spiegava il segretario. «Non avevo gente per spostarlo e allora lo pitturai di bianco per far credere che fosse gesso. Mi andò bene perché quando arrivarono i tedeschi dissero: "Fate scomparire quella porcheria". Se si fossero accorti che era di bronzo me l'avrebbero requisito e se lo sarebbero portato via. Ciò avrebbe aumentato il loro potenziale bellico.»
Il custode raccolse il martello e lo porse a Peppone: e allora Peppone venne preso dal furore. Respinse il martello e stretto fra le braccia il busto lo divelse dal piedistallo. Era spaventosamente pesante ma ciò non aveva importanza. La finestra a fior di pavimento dava in un orto; lo Smilzo si affacciò poi disse: «Capo, non c'è nessuno: sgancia!». Il busto precipitò nel vuoto e si udì un tonfo. Peppone discese e corse nell'orto: il busto era intatto e messo per il verso giusto, come se lo avessero sistemato così appositamente. «Caricatelo su un carretto e portatemelo in officina!» urlò Peppone. «Stasera me lo sistemo io con l'ossigeno!» * Quand'ebbe finito di cenare Peppone si avviò alla distruzione scientifica della monarchia. Il busto del Re era stato scaricato nel cortiletto, in mezzo ai rottami, e, poiché aveva piovuto a scroscio per tutta la giornata, l'impiastricciatura di gesso e colla se n'era andata. Peppone agguantò il busto del Re e lo trascinò in officina. Poi preparò la bombola e gli altri arnesi. Impugnò il cannello, si tirò davanti agli occhi la visiera di mica affumicata. Si inginocchiò davanti alla vittima.
Il cannello scoppiettò. La fiamma ossidrica si appressò al petto del Re e lo trafisse. Peppone spense il cannello e guardò il buco nero che ora si apriva sul petto del Re, dalla parte del cuore. Nel rialzarsi, Peppone fece cadere un grosso martello che stava sull'incudine. Il martello cadde sul busto di bronzo ed ecco che, ancora, si udì quel richiamo d'oltretomba e ancora Peppone vide levarsi i morti nell'immenso pianoro squallido e oppresso dal cielo tempestoso. Ancora vide il grande quadrato e, al centro, stava il piccolo Re, sul suo cavallo bianco. Ma il piccolo Re, adesso, aveva il petto pieno di sangue. Peppone corse a far girare la ventola della fucina. Quando tutto fu pronto, Peppone coricò sul dorso il busto del Re e, con un dischetto d'ottone e un po' di stagno, tappò il buco che la fiamma ossidrica aveva aperto nel petto del Re. Lisciò la saldatura con una limetta fine, poi la ripassò con la pomice. Perfetto: ma adesso pareva che il Re avesse una medaglia d'oro appuntata sul petto. * Don Camillo s'era appena alzato dal letto quando Peppone venne a bussare alla porta della canonica. Peppone aveva una carriola con sopra un grosso arnese coperto da un telone. Entrò direttamente con la carriola nell'androne, poi tolse la tela e mostrò a don Camillo il busto del Re.
«Reverendo, io non so cosa fare di questo cadavere» disse Peppone asciugandosi il sudore. «Voi preti e frati siete specializzati in cadaveri del passato regime. Ve lo regalo. Io ho provato a spaccarlo ma non sono riuscito.» «Non sei riuscito?» domandò don Camillo. «E come mai?» «Difficile da spiegare.» «Ci penso io» disse don Camillo. «Io so come vanno trattati i Re.» Quand'ebbe celebrata la Messa, don Camillo andò nella rimessa dove aveva nascosto il busto del Re e chiuse la porta col catenaccio. Tolse di sopra il busto la paglia che lo copriva e col fazzoletto lo nettò dalla polvere. «Maestà» disse con voce sommessa don Camillo. «Io non vi giudico. Io rivolgo semplicemente questa ardente preghiera a Dio: "Fa che egli sia stato un buon Re". Maestà, non è il rancore che m'ispira: se io vi odiassi vi terrei qui nascosto tra le fascine o tra le ragnatele su in solaio. Se vi ho rispettato da vivo, non vi mancherò di rispetto da morto. Non lascerò che clandestinamente si adori la vostra immagine come quella d'una divinità, non lascerò che la si disprezzi pubblicamente. Faccio il mio dovere di ministro del Re dei Re e di vecchio soldato del Re d'Italia.» Una grossa mazza era lì presso: don Camillo l'impugnò e vibrò un colpo tremendo al busto del Re.
E il busto del Re andò in frantumi come se, anziché di bronzo, fosse stato di gesso. Don Camillo raccolse i pezzi e li ripose con cura in una cassetta. * Passarono alcune settimane ed ecco che, un giorno, Peppone mentre rincasava udì qualcosa che gli diede come un piccolo brivido. Le campane suonavano a distesa e pareva che fossero sempre le solite campane che Peppone ben conosceva ma, ogni tanto, un tocco inconsueto si aggiungeva al coro. Peppone tese l'orecchio e presto fu ben sicuro: c'era una voce nuova. Una voce sottile e squillante che andava a stanare echi mai prima stanati. Mentre Peppone era lì fermo col naso all'aria, sopraggiunse lo Smilzo. «Ciao, capo» disse lo Smilzo «il clero aumenta il suo potenziale acustico!» «Una campana nuova?» «Una campanella» spiegò lo Smilzo. «L'han messa su stamattina e adesso la provano.» Si incamminarono in silenzio poi, a un tratto, lo Smilzo si volse verso Peppone e gli disse a voce bassa: «È la campana del Re».
Al crocicchio si lasciarono e Peppone proseguì da solo. Quando fu giunto davanti alla porta di casa il concerto di campane si spense poco a poco e pareva, a un certo momento, che fosse finito del tutto ma, dopo un rintocco grave del campanone, la campanella nuova squillò ancora nitida e imperiosa. E, a quello squillo, Peppone si volse di soprassalto come se qualcuno l'avesse chiamato. Il fatto di essere stato colto così, di sorpresa, seccò Peppone che, borbottando, infilò la porta di cucina. «Hai sentito che bella la campana del Re?» gli domandò la moglie. «Stupidaggini!» rispose Peppone. «Se ne accorgeranno quando suonerà la campana di Stalin!» Intanto però pensava al buco fatto nel petto del Re con la fiamma ossidrica e non era per niente malcontento di averlo saldato con lo stagno e col coriandolo d'ottone che, poi, pareva una medaglia.
164 LA DIRETTISSIMA Peppone aveva il pallino della direttissima: un pallino che, a ragionare un momento sulla singolare mappa del Comune, non poteva neanche essere chiamato un pallino. Il territorio del Comune, infatti, era come una fettaccia di torta: un triangolo con la base appoggiata all'argine maestro del fiume grande. Il capoluogo si trovava circa a metà della base del triangolo, rannicchiato al piede dell'argine come altre sei frazioni – tre a monte e tre a valle – alle quali era collegato dalla strada che correva sull'argine. Ma il Comune possedeva sette frazioni e la settima, Castelletto, stava piantata proprio al vertice del triangolo, unita al capoluogo dalla strada della Rovaccia. La strada sull'argine era ampia e bellissima, ma quelli del Comune che volevano recarsi in città senza buttar via una ventina di chilometri e più dovevano arrivare al capoluogo, poi dal capoluogo a Castelletto dove sboccavano sulla provinciale. Dal capoluogo a Castelletto c'erano, in linea d'aria, circa sei chilometri, però bisognava farne undici abbondanti a causa della Rovaccia, un corso d'acqua che, prima di sfociare nel
grande fiume, faceva un'ansa e si intrufolava tra Castelletto e il capoluogo. Insomma, questo stramaledetto fiumiciattolo passava, nei riguardi della linea retta capoluogo-Castelletto, un chilometro dopo Castelletto, e un chilometro prima del capoluogo, e così, se qualcuno avesse voluto unire i due paesi con una strada diritta, sarebbe stato costretto a costruire due ponti. Come mai la strada della Rovaccia fosse riuscita tanto strampalata e sbilenca da diventare lunga più di undici chilometri, non si sa. Forse per non passare in mezzo al bosco, forse per seguire i confini di qualche antica enorme tenuta: inutile indagare. Se volete trovare delle strade strampalate dovete girare nella Bassa. Oltre a essere lunga undici chilometri, la strada della Rovaccia era una delle più scomode dell'universo: piena di curve e controcurve, stretta, fangosa o polverosa a seconda delle stagioni, pareva fatta per invogliare la gente a trascurare i propri affari e a starsene a casa. Quindi chiamare pallino l'idea di costruire una direttissima dal capoluogo a Castelletto significava essere per lo meno ingiusti. Ma, quando c'è di mezzo la politica, ogni ragionamento sensato va a farsi benedire e così, se il tuo avversario politico ti avverte che piove, tu, per fargli dispetto, esci di casa senza l'ombrello.
E poi l'errore di Peppone era quello di insistere continuamente sulla faccenda della direttissima: di trovare sempre e dovunque il pretesto per parlare della direttissima. «Ha la mania della direttissima!» borbottava la gente. E lo diceva col tono e con lo spirito coi quali si dice: «Ha la mania di persecuzione». Ma Peppone aveva la zucca dura come la ghisa e, a forza di darsi da fare, un bel giorno riuscì a mettere il progetto della direttissima sul piano della attuazione pratica. Ne saltò fuori un mezzo finimondo: c'erano centomila lavori più urgenti e più importanti, secondo il parere della gente, e il voler seppellire un sacco di quattrini in quell'impresa significava tradire la comunità. «È un sopruso!» urlavano i proprietari attraverso i poderi dei quali sarebbe passata la direttissima. La battaglia fu lunga, ma Peppone la spuntò e, un bel giorno, i lavori incominciarono. I due ponti sulla Rovaccia vennero costruiti rapidamente, gli operai incominciarono a fare la massicciata. La gente friggeva, ma taceva: però, quando arrivò la carovana del catrame, la gente non seppe più contenere la propria bile. Asfalto! Faceva addirittura un'autostrada! Invece di adoperare i quattrini, a esempio, per sistemare il problema dell'acquedotto e della fognatura, costruiva il monumento alla sua megalomania!
Peppone non si smosse di un millimetro: si limitò a far rizzare all'inizio della strada un cartello con la scritta «Noi tireremo dirittissimo!». Verso la fine dei lavori ebbe un momento di sconforto e, durante una discussione in piazza, distribuì un certo numero di sberle. Ma la fede nell'importanza della sua impresa e la sicurezza che, in seguito, il paese gli sarebbe stato riconoscente, gli fecero superare la crisi. Il giorno dell'inaugurazione c'erano soltanto quelli della sua banda, ma Peppone non se ne dolse. «Il rospo è duro da mandar giù» osservò. «Ma lo manderanno giù.» La mattina seguente la corriera che dal capoluogo portava a Castelletto, caricata la gente in piazza, invece di imboccare la vecchia dannata strada della Rovaccia, imboccò allegramente la direttissima. «Alto là» disse la gente della corriera al guidatore «o prendi la vecchia strada o scendiamo e non ci serviremo mai più della corriera.» L'autista prese la strada della Rovaccia: era centomila volte più scomoda ma anche lui la preferiva alla nuova. Peppone, la sera, lo chiamò in Comune: «O ti servi della direttissima o ti faccio togliere la licenza!» gli disse. La mattina seguente la corriera fece la direttissima: però completamente vuota. E completamente vuota ritornò.
Dopo cinque giorni di questa solfa, l'autista andò da Peppone a domandargli cosa doveva fare: «Va all'inferno tu e quei disgraziati!» gli rispose Peppone. Ma dovevano essere disgraziati forte perché nessuno passava mai per la direttissima: anche quando diluviava e la strada della Rovaccia era un fiume di fango. Anche quelli che da Castelletto dovevano venire al capoluogo usavano esclusivamente la strada della Rovaccia. E Peppone dovette distaccare a Castelletto un servizio speciale perché, al bivio del ponte nuovo, c'era sempre qualche maledetto che faceva trovare davanti all'imbocco della direttissima dei cartelli con diciture di questo genere: «Attenzione: strada pericolosa»; «Lavori in corso»; «Strada interrotta». I forestieri trovavano sempre a Castelletto qualcuno che li dirottava per la strada della Rovaccia: un rappresentante di oli e saponi che se ne infischiò degli avvertimenti e arrivò al capoluogo per la direttissima non riuscì a fare mai più un centesimo d'affari. Peppone non poteva prendere la gente per il collo e obbligarla a camminare per la direttissima. Lo avrebbe fatto volentieri, in verità. Però capiva che l'unico sistema era quello di incassare col sorriso sulle labbra. «Non bisogna aver fretta!» osservava Peppone fingendo di essere molto tranquillo. «Passeranno! Passeranno!» Una mattina trovò tutto il paese pieno di scritte murali «No pasaran!».
Continuò a incassare: ma un giorno, finalmente, pestò un pugno sul tavolo e disse: «Questa volta no!». * A Castelletto era morto un certo Brichetti e, come i morti di tutte le altre frazioni, doveva essere portato al cimitero comunale del capoluogo. Ora, considerando che il servizio del trasporto defunti lo faceva il Comune, non c'era neppur da pensare che l'autofurgone funebre potesse passare da altra strada che non fosse la direttissima. Così, quando il capo dei beccamorti motorizzati venne a dire a Peppone che l'autofurgone avrebbe percorso la strada della Rovaccia, fu quanto mai logico che Peppone facesse un salto sulla sedia. «Sei diventato stupido anche tu?» urlò Peppone al capo dei beccamorti. «Io sono qui semplicemente per ricevere degli ordini» rispose l'ometto allargando le braccia. «Non c'è bisogno di ordini!» replicò Peppone. «È logico che tu devi fare la direttissima!» «Logico fino a un certo punto» spiegò l'ometto. «Il fatto è che i parenti del morto non vogliono.» «Siccome non possono tenersi il morto in casa» gridò Peppone «e siccome il servizio è del Comune, o portano il
morto qui, passando per la direttissima, o se lo portano in un altro cimitero! Tu puoi e devi fare soltanto la direttissima.» Un'ora dopo arrivarono i parenti del morto: «Noi non possiamo portarlo in un altro cimitero» dissero i parenti. «Noi dobbiamo portarlo qui e passando per la strada della Rovaccia.» «E perché?» domandò Peppone. «Che cosa c'è nella direttissima che non vi va?» «A noi niente» rispose il figlio più vecchio del morto. «Per noi direttissima o non direttissima è la stessa cosa. Il fatto è che mio padre ha lasciato scritto nel testamento che vuole essere sepolto qui e che il carro deve passare per la strada della Rovaccia. Se no ci toglie l'eredità.» I parenti esibirono il testamento e c'era proprio una clausola così. Peppone rispose che non gliene importava niente: o per la direttissima o in un altro cimitero. «Come volete!» esclamò il figlio del morto. «Però questo ce lo dovete mettere per iscritto perché se perdiamo l'eredità noi faremo causa al Comune.» Il morto passò per la strada della Rovaccia. Peppone ci mise quindici giorni per ritrovare la sua calma. Ma la ritrovò e una sera, entrato nel caffè che funzionava come covo dei reazionari, prese a chiacchierare allegramente del più e del meno, poi, a un tratto, guardò l'orologio: «È tardi!» disse. «Domattina devo alzarmi presto. Devo cambiar posto al distributore.»
Peppone aveva un distributore di benzina davanti alla sua officina: tutti lo sapevano e nessuno riusciva a capire dove diavolo volesse spostarlo. «Qui va a finire che se non si mettono le mani avanti si resta a piedi» spiegò Peppone. «Adesso che il traffico si indirizza tutto sulla direttissima, andrà a finire che nessuno passerà più davanti alla mia officina e siccome, per quanto uno abbia poca benzina in serbatoio, ne avrà sempre a sufficienza per fare sei chilometri di strada diritta e asfaltata, si corre il rischio che tutti aspettino di far rifornimento a Castelletto. Prima era diversa: in undici chilometri di strada schifosa piena di curve e di frenate, se ne consuma di benzina! Allora io sposto il distributore al ponte della direttissima. Ci metto qualcuno dei miei ragazzi nell'attesa di spostare anche l'officina.» Mettere il distributore al ponte, a quasi un chilometro dall'imbocco della strada della Rovaccia, quando tutto il traffico era sulla strada della Rovaccia e dal ponte della direttissima non passava anima viva né morta, significava esser diventati pazzi da legare. Nessuno prese la cosa sul serio e, appena Peppone se ne fu andato, tutti dissero che evidentemente si trattava d'una smargiassata qualsiasi. Invece non era una smargiassata e il distributore di benzina due giorni dopo faceva la sentinella al deserto ponte della direttissima. Un mese dopo la cisterna del distributore era ancora piena zeppa.
* La Madonna Pellegrina era arrivata a Castelletto e da Castelletto doveva poi passare al capoluogo. Quelli del Castelletto l'avrebbero scortata fino al confine e quelli del capoluogo sarebbero andati al confine a riceverla. Don Camillo si recò a far visita al parroco di Castelletto per prendere gli accordi. «C'è poco da prendere accordi» gli rispose il parroco di Castelletto. «Il confine è quello che è. Il confine segue il corso della Rovaccia cominciando due chilometri prima del ponte nuovo e proseguendo fino a metà della strada della Rovaccia. Al Mulino Vecchio il confine taglia la strada. Io ti aspetto quindi al ponte nuovo.» Don Camillo scosse il capo: «Non è giusto» osservò. «Tu sai come stanno le cose e mi metti nei pastìcci.» «Nessun pasticcio» replicò il parroco. «Io mi fermo davanti al bivio dove la strada della Rovaccia si innesta, passato il ponte, alla direttìssima. Io ti metterei nei pasticci se ti aspettassi all'altro punto accessibile di confine, sulla strada della Rovaccia. Perché tu, per esempio, potresti arrivare non dalla strada della Rovaccia ma dalla direttissima. Quando io mi fermo davanti al bivio, da qualunque parte tu arrivi siamo a posto. Inoltre, se io prendessi la strada della Rovaccia verrei ad assumere una posizione che non posso assumere.» «E io, allora?» borbottò don Camillo.
«Ognuno per sé e Dio per tutti» rispose il vecchio parroco. Don Camillo ritornò a casa per la strada che aveva percorso nell'andata: ed era quella della Rovaccia, e poco prima di giungere in paese si trovò davanti Peppone. «Reverendo» disse Peppone «perché, per andare Castelletto, non usate la strada più breve e più bella?» «Abitudine» rispose don Camillo. «Forza dell'abitudine.» «Giusto» replicò Peppone. «La forza dell'abitudine fa fare le cose contrarie alla logica. A ogni modo, se voi siete abituato a fare la strada della Rovaccia, la Madonna Pellegrina non è abituata. Secondo voi, reverendo, che strada farà per venire da Castelletto al paese?» «Non ne ho idea» disse don Camillo. «Comunque non mi pare che la Madonna Pellegrina abbia bisogno di permessi di circolazione rilasciati dal tuo partito.» «Il Partito non c'entra. Come sindaco desidererei sapere da che parte arriverà. I sindaci si debbono preoccupare sempre quando e di dove arriveranno le autorità.» «La Madonna è diventata un'autorità anche per te? Strana cosa la politica!» «La politica non c'entra e non deve entrarci. La Madonna non fa politica. State attento, reverendo, a non indirizzarla su una strada sbagliata.» «Non capisco cosa vuoi dire.»
«Voglio dire che la strada diritta è la più breve e la meno pericolosa.» Don Camillo allargò le braccia: «Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che perde e non sa quel che trova». Peppone si strinse nelle spalle: «Fate vobis, reverendo. Prete avvisato, mezzo salvato». * Si formò il corteo sul sagrato e c'erano tutti gli avversari dei «rossi» ma a nessuno passava neppure per l'anticamera del cervello che si potesse andare incontro alla Madonna Pellegrina per altra via che non fosse la vecchia della Rovaccia. Erano undici chilometri ma ne avrebbero fatto trenta pur di non passare per la direttissima: e il lunghissimo corteo percorse la strada tortuosa e polverosa e finalmente arrivò allo sbocco nella strada grande, subito dopo il ponte. L'autocarro infiorato sul quale troneggiava la sacra immagine era lì pronto ad attendere attorniato dalla gente di Castelletto. Si compose, davanti, attorno e dietro l'autocarro, il nuovo corteggio. E don Camillo si mise prima di tutti: «Quando saremo sulla strada della Rovaccia» disse ai suoi più fidi «lasciate un bel distacco fra me e gli altri. So io il perché». Il corteggio si mosse e percorse i trecento metri di strada prima del ponte. Ed ecco il bivio, lì a pochi passi.
"Gesù" disse fra sé don Camillo "perdonatemi, ma io mi riterrei un Vostro indegno soldato se cedessi davanti a una oscura minaccia. Fate che, se qualcosa di doloroso deve succedere, ogni danno si riversi su di me." Dalla strada della Rovaccia sbucò una macchina che si fece a lato e si fermò. Ne scese il maresciallo dei carabinieri: «Reverendo, so che qualcuno ha in mente di combinarle qualche putiferio» disse sottovoce il maresciallo a don Camillo. «Ma lei vada tranquillissimo. Abbiamo ottenuto dei rinforzi e la strada della Rovaccia è tutta controllata…» Ecco il bivio: a sinistra la strada della Rovaccia tutta controllata, a destra il ponte della direttissima: e sul ponte Peppone solo. Peppone vestito dalla festa con la sciarpa tricolore da sindaco e il cappello in mano. Si udì un mormorio dietro, ma oramai don Camillo aveva infilato il ponte e camminava sull'asfalto della direttissima. Camminava a testa alta con passo deciso e qualcuno tentò di raggiungerlo ma Peppone si era messo tra don Camillo e la testa del corteo e le immense spalle del sindaco parevano una barriera insormontabile. La marcia continuò e, poiché la distanza fra la testa del corteo e don Camillo era parecchia e poiché i canti ancora non avevano ripreso, don Camillo sentì il cuore pieno di sgomento e disse con angoscia: «Gesù, fate che essi mi seguano!».
In quell'istante il canto riprese e don Camillo sussurrò: «Gesù, fatemi la grazia che io sempre li possa precedere». L'asfalto, pulito e intatto, pareva un grande tappeto di velluto nero. Oramai i sei chilometri erano stati percorsi e oramai l'autocarro infiorato della Madonna stava varcando il ponte, quando si udì un brusìo e don Camillo, volgendosi, si accorse che il corteo s'era fermato. «Niente, reverendo» gli sussurrò all'orecchio sopravvenendo Peppone «il camion s'è fermato semplicemente perché non ha più benzina. Lo sistemiamo in un momento.» Il distributore era lì a due passi e il figlio di Peppone stava già pronto, con la canna tra le mani. Fu questione di pochi istanti e il motore riprese a borbottare e il corteo si rimise in marcia. «Come primo cliente, non posso lagnarmi» osservò una voce sommessa. Don Camillo si volse e con uno sguardo atomico fulminò Peppone. * Don Camillo e Peppone si incontrarono soltanto un mese dopo, a metà della vecchia strada della Rovaccia, e c'era fango a mezza gamba. «Pare di essere in una strada russa!» osservò don Camillo.
«In Russia ci sono anche strade magnifiche, asfaltate come la direttissima!» replicò Peppone. «Ma non ci può mai passare la Madonna Pellegrina.» Peppone allargò le braccia poi borbottò: «Se ci fossero là dei preti come voi, credo che passerebbe». «Anche se ci fossero dei sindaci come te, compagno.» Peppone accese un mezzo toscano poi sentenziò: «I preti come voi sono pericolosi per il trionfo della causa del popolo: bisognerà impiccarli tutti». «Giusto» rispose don Camillo.
165 DIARIO DI UN PARROCO DI CAMPAGNA Il Brusco guardò il muro, poi si strinse nelle spalle. «E allora?» domandò don Camillo. «Non so» rispose il Brusco. «Un capomastro che non sa se in un muro si può aprire o no una porta è meglio che cambi mestiere!» esclamò don Camillo. «Si tratta di muro vecchio come il cucco» spiegò il Brusco. «E i muri vecchi giocano dei brutti scherzi. Se prima non mi lasciate togliere l'intonaco e fare un assaggio, io non vi posso dire né sì né no.» Don Camillo disse al Brusco che facesse pure l'assaggio. «Tieni presente che sei in una sagrestia» gli raccomandò. «Vedi di lavorare con garbo e d'insudiciare il meno possibile.» Il Brusco trasse martello e scalpello dalla sporta che s'era portato e incominciò a scalcinare il muro. «Brutto affare, reverendo» borbottò dopo due o tre martellate. «L'intonaco è di calcina buona, ma il muro è di sassi e terra. Se era di mattone, bastava fare uno scasso per l'archi-
trave di cemento armato e poi tagliare le spalle e tirar fuori la porta. Così è un guaio grosso.» Don Camillo si fece dare il martello e tolse l'intonaco in un altro punto, ma anche qui trovò subito sassi tenuti assieme da malta di fango. «Straordinario!» esclamò. «Fuori, i muri della chiesa sono tutti di mattoni. Possibile che abbiano fatto la parte interna di sassi?» Il Brusco allargò le braccia. «Possono aver fatto di mattoni i pilastri e una foglia esterna e aver riempito con sassi» disse. «Comunque, proviamo con calma a fare un buco d'assaggio.» Con un grosso chiodo incominciò a togliere la terra attorno al sasso che aveva scoperto e ben presto potè cavare il sasso. Grattò la terra in fondo al buco lasciato dal sasso e apparve un altro sasso. Il Brusco lo scalzò tutt'attorno e, a un tratto, il sasso scomparve. «Dietro il muro di sassi c'è il vuoto» spiegò il Brusco. «Questa è una faccenda che non capisco. I sassi dovrebbero, almeno, essere appoggiati al muro di mattoni.» Il Brusco guardò il soffitto che non era a volta, ma sostenuto da una robusta travatura di rovere, e i tre enormi travi maestri poggiavano, da un capo, sul muro di sassi. Il Brusco scrollò la testa e, tirato fuori di saccoccia il metro, misurò la distanza tra il muro di sassi e il muro opposto.
Poi, con una scala a pioli, salì nella soffitta soprastante la sagrestia, alla quale si accedeva attraverso una botola. E don Camillo lo seguì. Arrivato su, il Brusco misurò il pavimento della soffitta fra i due muri opposti e ottenne circa un metro e venti in più di quel che aveva trovato al piano di sotto. Allora, fattosi sotto il muro della parte esterna, là dove lo spiovente del tetto toccava quasi il pavimento, cavò un paio di mattoni del pavimento e, acceso un cerino, guardò nel buco. «Per forza doveva essere così» borbottò ritraendosi per lasciar posto a don Camillo. «Il muro portante è di mattoni e le travi maestre poggiano sul muro portante. Il muro di sassi è stato fatto dopo per nascondere qualcosa.» Don Camillo allargò il buco del pavimento: effettivamente il muro di sassi era stato tirato su per nascondere un enorme armadio. Naturalmente a don Camillo venne la febbre e, ridisceso in sagrestia, disse al Brusco: «Grazie, per il momento non ho più bisogno di te». «Credo invece che ne abbiate bisogno» replicò calmo il Brusco. «Un muro di cinque metri di lunghezza, tre d'altezza e cinquanta centimetri di spessore, fa sette metri cubi e mezzo di sassi e malta. E bisogna tirarlo giù tutto se si vogliono aprire gli sportelli dell'armadio.» «E chi ti dice che io voglio tirar giù il muro?» esclamò don Camillo. «Mica sono matto.»
«Peggio: siete don Camillo» rispose il Brusco. Don Camillo pensò ai sette metri cubi e mezzo di sassi e malta e riconobbe che erano troppi anche per lui. «Sta bene» disse. «Porta qui gli uomini che occorrono per tirar giù il muro, e gli scariolanti per portar fuori, mano a mano, il materiale. Però, sia ben chiaro che, una volta fatto il vostro lavoro, voi ve ne andate. Per aprire l'armadio basto io.» Dieci minuti dopo, l'intero paese era sul sagrato e tutti avevano un'idea precisissima della faccenda: «Don Camillo ha trovato un tesoro murato in sagrestia». Si incominciò subito a entrare nei dettagli e a parlar di pentole piene di marenghi d'oro, di quadri e oggetti preziosi, e non ci fu più modo di mantener calma la gente: ognuno voleva vedere. Gli otto uomini del Brusco diventarono ben presto ottanta. Si formò una lunghissima catena di volontari che si passavano le secchie piene di sassi e di malta. Il muro calava rapidamente e, via via che il muro diminuiva, l'enorme armadio di noce si faceva sempre più alto, maestoso e affascinante. Oramai era notte, ma nessuno pensava di piantar lì e, finalmente, l'ultimo sasso e l'ultima secchia di calcinacci vennero portati fuori. Don Camillo si piantò davanti all'armadione e, rivoltosi alla folla che stipava la sagrestia, disse: «Grazie tante del vostro aiuto e buona notte».
«Aprire! Aprire! Vogliamo vedere anche noi!» urlò la gente. «Mica è roba vostra!» gridò inviperita una donna. «I tesori sono di proprietà pubblica!» «Ricordatevi che qui non siete in piazza! Qui siete in chiesa!» disse don Camillo. «E tutto quel che è dentro in chiesa appartiene alla chiesa; e di tutto quello che è della chiesa, io devo rispondere alle autorità ecclesiastiche.» Il maresciallo e i carabinieri si misero ai fianchi di don Camillo, davanti all'armadio del tesoro: ma si capiva che la gente era stata presa dalla frenesia e nessuno poteva tenerla più. E poi la marea di folla rimasta fuori premeva perché voleva entrare a ogni costo. «Sta bene» disse don Camillo. «Fatevi indietro di due passi e io aprirò.» La gente arretrò e don Camillo aprì il primo sportello. Lo scomparto era zeppo di grossi libri, ognuno dei quali recava sulla costola un numero. Aprì il secondo sportello e risultò la stessa faccenda. E di libracci erano zeppi anche tutti gli altri scomparti. Don Camillo trasse uno dei libroni e lo sfogliò: «È un tesoro» spiegò ad alta voce «ma non come pensavate voi. Sono i registri delle nascite, delle morti e dei matrimoni di due secoli e mezzo, fino al 1751. Non so cosa sia successo nel 1751: il fatto è che il parroco d'allora deve aver avuto ragione di credere che i documenti potessero andar distrutti e allora li ha fatti murare qui».
Fu necessario organizzare le cose in modo tale che tutti potessero constatare coi propri occhi la verità di quanto aveva detto don Camillo e, quando tutto il paese ebbe finito di sfilare davanti all'armadio, don Camillo potè finalmente concludere la sua turbinosa giornata. «Gesù» disse quando rimase solo in chiesa «perdonatemi se, per colpa mia, la Vostra casa è stata trasformata in un sacrilego accampamento di frenetici cercatori d'oro. Non prendetevela con gli altri, la colpa è tutta mia. Io sono stato il primo a lasciarmi vincere dalla frenesia. E quando il pastore diventa matto, come può comportarsi saviamente il gregge?» Nei giorni seguenti un'altra frenesia si impadronì di don Camillo: egli avrebbe voluto avere mille occhi per poter sfogliare subito tutti quei volumi e così incominciò a scegliere i registri a caso. Ma non fu un'idea sbagliata perché, arrivato al fascicolo del 1650, trovò, allegato al registro degli atti ufficiali della parrocchia, un quadernetto nel quale il parroco d'allora aveva puntualmente annotati, di suo pugno, giorno per giorno, tutti i fatti di qualche rilievo accaduti nel paese e nei dintorni. Don Camillo si buttò avidamente sulle cronachette del parroco e trovò un sacco di cose curiose. Ma, arrivato alle note del giorno 6 maggio 1647, fece due scoperte straordinarie. E la prima riguardava Giosuè Scozza. Bisogna sapere che Giosuè Scozza era l'orgoglio di Torricella, il capoluogo del Comune vicino. E, nel bel mezzo
della piazza di Torricella, Giosuè Scozza in marmo troneggiava su un alto piedistallo recante questa lapide: Giosuè Scozza divino creatore di armonie figlio prediletto di Torricella scrisse il nome suo e quello di Torricella negli albi immortali della Gloria 1647-1746 Torricella aveva dedicato al nome di Giosuè Scozza, oltre al monumento, la piazza, il teatrino, la via principale, la banda musicale, l'asilo infantile e la scuola elementare. E il nome di Giosuè Scozza saltava fuori immancabilmente in tutti i discorsi tenuti da torricellesi, in tutti gli articoli scritti da torricellesi, e la stampa nazionale, quando parlava di Giosuè Scozza, lo chiamava il cigno di Torricella. La gente del paese di Peppone e di don Camillo si tramandava da secoli una fiera antipatia per quelli di Torricella e, quando leggeva o sentiva parlare di Giosuè Scozza e del cigno di Torricella, soffriva atrocemente. Ebbene, nel diario del parroco, don Camillo trovò una faccenda che, in parlar corrente, diceva così: Oggi, Geremia Scozza, maniscalco, ha trasferito la sua abitazione da qui a Torricella, nel palazzo dei conti di Sanvito dei quali Signori entra al servizio, e lo accompagnano la moglie Geltrude Bandelli e il figlio Giosuè, nato qui il dì 8 giugno 1644. Il fascicolo del 1644 confermò e documentò che Giosuè Scozza non era di Torricella, ma era un parrocchiano di don Camillo. E i volumi precedenti dimostrarono che gli Scozza
erano originari della parrocchia di don Camillo. Torricella aveva perso il suo cigno preso in forza solo tre anni dopo la sua nascita. Ma la notizia del trasferimento degli Scozza era preceduta dall'altra notizia straordinaria: Oggi, giorno 6 maggio 1647, è stato decapitato nella pubblica piazza Giuseppe Bottazzi di anni 48, fabbro, per avere il dì 8 aprile aggredito con armi il Rettore di Vigolenzo don Patini e feritolo profondamente alla testa e rubatagli una borsa piena d' oro. Il Giuseppe Bottazzi, buon fabbro ma di idee sacrileghe, non è di qui, ma venne qui venti anni fa e tolse in moglie una del paese, di nome Gambazzi Maria dalla quale ebbe un figlio battezzato Antonio e che adesso conta quindici anni. Il Giuseppe Bottazzi è risultato il capo di una banda di briganti che compiva ammazzamenti e rapine nel territorio del Marchese di Sanvito e, nel dicembre dell'anno scorso aveva anche assalito e trucidato la guarnigione del Castello della Piana dove lo stesso Marchese di Sanvito aveva dimora, salvandosi il detto Signore con la fuga attraverso il sotterraneo segreto. Don Camillo controllò le annate seguenti e la faccenda si presentò chiara e pulita: il fabbro Giuseppe Bottazzi, detto Peppone, sindaco e capobanda dei «rossi», derivava dritto dritto dal fabbro Giuseppe Bottazzi giustiziato nel 1647
come feritore di un prete e come capo di una banda di briganti. "Per le prossime elezioni ti arrangio io!" pensò don Camillo. "Faccio riprodurre la pagina del registro e la appiccico come manifesto a tutte le cantonate. E sotto ci scrivo: 'Buon sangue non mente: la storia si ripete'." Si trattava di una faccenda da accantonare in attesa che diventasse matura; avrebbe colto due piccioni con una fava: rivendicazioni dei diritti del paese sul cosiddetto cigno di Torricella, e colpo gobbo a Peppone. Però l'affare di Giosuè Scozza era così grosso e appassionante che a don Camillo qualcosina scappò detto e così, una bella volta, Peppone gli capitò davanti in canonica. «Reverendo» disse Peppone «in giro si fa un gran parlare di certe notizie che lei avrebbe trovato nei libracci dell'armadio. Siccome non è merce politica ma c'è in ballo l'onore del paese, potrei sapere cos'è questa storia?» Don Camillo allargò le braccia: «Cos'è questa storia?» rispose don Camillo. «Storia.» «Storia in che senso?» «Storia nel senso di geografia» spiegò don Camillo. «È sempre la geografia che fa la storia.» Peppone si grattò la pera. «Non ho capito un accidente!» esclamò. «Volete spiegarvi?» «Non so se sia il caso.»
«Ho capito, le solite balle della propaganda reazionaria» concluse Peppone. «Si cerca di toccare la gente nell'amor proprio.» Don Camillo diventò rosso: «Io non racconto balle!» gridò. «Io ho in mano i documenti che dimostrano che il cigno di Torricella non è nato a Torricella nel 1647, ma è nato qui nel 1644!» Peppone si protese verso don Camillo: «Reverendo, qui i casi sono due: o voi raccontate balle, e siete un disonesto. O voi non raccontate balle e siete ancora più disonesto perché, se potete dimostrare che Scozza non è di Torricella ma di qui e non lo dimostrate, derubate un intero paese dei suoi sacrosanti diritti». Don Camillo tirò fuori dal cassetto della sua scrivania il registro con la cronaca famosa e lo mostrò a Peppone. «La verità è qui dentro. E non soltanto qui!» «E perché non piantate la grana?» Don Camillo accese il suo mezzo toscano e buttò contro il soffitto qualche grossa boccata di fumo. «Per piantare la grana c'è un sistema: pubblicare sui giornali e sui manifesti la riproduzione fotografica di una intera pagina di questo registro. O non pubblicare l'intera pagina ma essere pronti a presentare il registro a chiunque chieda di controllare le mie affermazioni.» «E perché non lo fate?» «Non me la sento di prendere questa decisione. La nota che riguarda Scozza è preceduta da un'altra nota che bisogna
pubblicare in quanto è proprio questa che porta la data precisa. Siccome è una nota che riguarda direttamente la tua famiglia, l'unico che può decidere sei tu.» Peppone guardò sbalordito don Camillo. «La mia famiglia?» «Sì: il Giuseppe Bottazzi di cui leggerai nella nota del 6 maggio 1647 è il disgraziato che ha portato in questo paese la razza dei Pepponi. Ho seguito tutta la trafila e non ci son dubbi.» Don Camillo mise davanti a Peppone il libraccio aperto e segnò col dito la nota che interessava. Peppone lesse, rilesse, poi fissò don Camillo. «Ebbene? Cosa c'entro io con un Bottazzi del 1647?» Don Camillo allargò le braccia. «Sai com'è la gente: capostipite dei Bottazzi locali, Giuseppe come te, fabbro come te, brigante mangiapreti come te e capobanda come te. La propaganda dei tuoi avversari se ne può servire magnificamente per far ridere la gente alle tue spalle e danneggiarti moralmente. Sai, le elezioni si avvicinano. Comunque vedi tu.» Peppone rilesse due o tre volte la nota riguardante Scozza e il capostipite dei Pepponi locali. Poi restituì il libraccio a don Camillo: «Non me ne importa niente di quel che possono dire quei maiali della reazione. L'importante è ricuperare Giosuè Scozza gloria del paese. Prima del bene mio sta il bene del paese. Procedete!».
Peppone si volse per uscire. Poi fece un rapido dietrofront e si avvicinò al tavolino dietro il quale sedeva don Camillo: «E poi» esclamò «sapete cosa vi dico? Che sono orgoglioso di avere come capostipite il Bottazzi che sta scritto lì. Perché questo significa che i Bottazzi avevano le idee chiare fin dal 1647: far fuori preti e signori. Anche a costo di rimetterci la testa. Ed è inutile che facciate il risolino, reverendo: state tranquillo che verrà anche il vostro turno». «Guarda che io mi chiamo don Camillo e non don Patini» lo ammonì don Camillo. Peppone levò solennemente il dito: «La politica ci divide ma il bene del paese deve unirci» affermò. «Se ne riparlerà al momento giusto: adesso bisogna riconquistare Giosuè Scozza.» * Don Camillo si buttò come un leone all'arrembaggio del cigno di Torricella: aveva documenti fin che voleva e, senza aver bisogno di tirare in ballo il capostipite dei Pepponi, sparò sul giornale provinciale articoli che tolsero il fiato ai torricellesi. Intervenne poi la stampa nazionale: la faccenda ingolosiva i giornalisti perché c'era di mezzo l'avventuroso ritrovamento dell'archivio murato e Torricella, dopo una disperata quanto vana difesa, dovette capitolare.
Anzi, quando i torricellesi furono sicuri che Giosuè Scozza apparteneva alla gente che essi detestavano, furono presi da furore anti-scozzano. Si formò una specie di Comitato di Salute Pubblica che fissò un programma radicale: purificare Torricella contaminata distruggendo il monumento dello pseudotorricellese e facendo sorgere al suo posto una fontana. Lavare la macchia. Peppone allora intervenne presso i «rossi» di Torricella e si arrivò a un accordo: il paese di Peppone avrebbe offerto a Torricella la fontana in marmo e Torricella avrebbe ceduto in cambio il monumento marmoreo di Giosuè Scozza. Fu stabilito che lo scambio dei doni marmorei si sarebbe svolto con grande solennità. Un carro tirato da buoi avrebbe recato la fontana al confine e qui si sarebbe incontrato col carro torricellese recante il monumento. Avvenuto lo scambio dei carri, ognuno avrebbe pensato ai fatti suoi. I soldi per la fontana saltarono fuori subito e, un mese dopo, i carri si misero in moto: Giosuè Scozza arrivò al confine in piedi sul suo piedistallo. Legato e puntellato ma fiero: c'era tutto il paese ad aspettarlo con la banda e le autorità e le bandiere. Peppone pronunciò un discorso che incominciava: «Salute, illustre fratello che ritorni tra i fratelli dopo secolare assenza…». Fu una cosa commovente e quando i torricellesi ebbero preso in consegna il carro con la loro fontana e si furono allontanati, Peppone tirò fuori di tasca un martello e uno scal-
pello e cavò dal piedistallo la lapide che descriveva Giosuè Scozza come «figlio prediletto di Torricella». La lapide infranta venne gettata oltre confine e il corteo prese allegramente la strada del paese. Tutto era già pronto: muratori, marmisti, argani, fondazioni: il monumento a Giosuè Scozza venne calato nell'apposito alloggiamento al centro della piazza. Sul piedistallo venne immediatamente murata la nuova lapide. Un telone fu gettato sopra il monumento e poi, al momento opportuno, venne tolto. Don Camillo benedisse il monumento e pronunciò un breve e toccante discorso in cui parlava di «figliol prodigo». Il comitato, un comitato veramente apolitico, aveva fatto ogni cosa per bene e la sera in piazza si svolse l'ultimo e il più solenne numero del programma di onoranze. Peppone prese la parola per spiegare il significato dell'avvenimento: «Noi abbiamo visto le tue sembianze, o fratello ritornato tra le braccia della madre, ma ancora non abbiamo udito la tua voce. Quella voce melodiosa e divina che tu levasti nei cieli dell'immortalità e della gloria, o Giosuè Scozza, creatore di melodie senza pari! Questa sera quindi un valentissimo complesso d'archi eseguirà un completo programma di musica scozzana. E ognuno potrà rendersi conto della straordinaria bellezza delle composizioni più celebri del nostro Giosuè Scozza…».
La piazza era zeppa come un uovo e, quando Peppone ebbe finito il suo discorsetto, scoppiò un colossale applauso e poi cadde un religioso silenzio. Il complesso d'archi era veramente in gamba: i migliori orchestrali della città. E il primo dei dodici pezzi scozzani in programma, 1 '«Andantino numero sei», fu un ricamo. L'applauso che coronò l'esecuzione fu colossale. Seguì Y«Aria in do diesis» minore con pari successo e poi fu la volta della «Sonata in re maggiore». La gente applaudì ma, quando incominciò il quarto numero, «Ballata in fa», si levarono tra il pubblico delle voci: «Verdi! Verdi!». I suonatori smisero e il direttore si volse a guardare la gente. «Verdi! Verdi!» urlarono cinquecento voci. «Verdi!» Peppone e don Camillo erano nelle poltrone di centro in primissima fila: il maestro guardò sgomento Peppone. Peppone guardò don Camillo. Don Camillo fece cenno di sì. «Verdi!» gridò perentorio Peppone. La gente pareva impazzita per la contentezza. Il maestro parlottò coi suonatori poi picchiò la bacchetta sul leggìo e tutti tacquero. Si levarono le note del preludio della Traviata e la gente pareva incantata. Alla fine l'applauso fu così violento che maestro e suonatori impallidirono. «Questa è musica!» urlò Peppone.
«Verdi è sempre Verdi!» rispose don Camillo. Il programma continuò a base esclusivamente di musica di Verdi e, alla fine, il direttore d'orchestra venne portato in trionfo. Passando davanti al monumento di Giosuè Scozza lo Smilzo guardò il divino creatore di melodie e poi disse: «Si vede che l'aria di Torricella gli ha fatto male». «Se fosse rimasto qui avrebbe fatto della musica molto più in gamba» aggiunse il Bigio. «La roba storica è sempre bella anche se è brutta!» affermò severamente Peppone. «Qui siamo nel campo storico e il valore di Giosuè Scozza è sempre grandissimo. Non le pare, reverendo?» «Naturalmente» rispose don Camillo. «Bisogna sempre inquadrare gli artisti nel loro tempo.» «Però Verdi…» tentò di obiettare lo Smilzo. Ma Peppone gli saltò sulla voce: «Cosa c'entra Verdi? Verdi non è mica un artista, Verdi è un uomo con un cuore grande così». Allargando le braccia fece il vuoto attorno a sé. Don Camillo non fu svelto a scansarsi e si prese una tremenda pacca sullo stomaco. Ma non disse niente per rispetto a Verdi.
166 LA STRADA DEL BENE D 'improvviso l'aria si scaldò. Succedeva sempre così da quelle parti: per mesi e mesi tutto filava liscio come un olio e pareva che dovesse durare in eterno: ed ecco che, di botto, Peppone andava su di pressione e incominciavano i guai. Peppone era stato chiamato dai capi di città e, al suo ritorno, aveva una grinta che segnava tempesta. Evidentemente gli avevano dato la carica per la campagna elettorale: riprendeva la solfa di cinque anni prima. Il primo comizio venne preparato con cura e, il pomeriggio del sabato, la piazza era zeppa di «rossi» piovuti da tutte le parti. Don Camillo capitò in mezzo a quella baraonda proprio per un caso disgraziato: doveva ritirare un sacco di farina di granturco a Castelletto e, così, aveva attaccato alla pistoiese il suo vecchio brocco. Il quale brocco si chiamava Peppo: e anche questo era un caso, perché don Camillo gli aveva appiccicato quel nome senza la minima intenzione allusiva e – come andava dicendo in giro – adesso gli dispiaceva se, a causa del dialetto che non permetteva di far distinzione fra Pèpo cavallo e Pèpo Peppone, si potesse pensare a Dio sa mai quali mire nascoste.
Spiegava che aveva provato cento volte a cambiar nome alla bestia, ma che il cavallo, se non lo si chiamava Pèpo, non si muoveva. «Bisognerebbe che il signor sindaco cambiasse nome lui» concludeva ogni volta don Camillo. Don Camillo, dunque, attaccò il brocco alla pistoiese, buttò sullo schienale la regolamentare pelle di pecora e poi uscì dal cortile della canonica con la onesta intenzione di traversare la piazza e imboccare la strada per Castelletto. Ma si trovò davanti una marea di gente che, quando don Camillo diceva «Permesso?» si voltava a guardare con l'espressione di uno che pensa: "Chi è questo stramaledetto che pretenderebbe di farmi spostare?". E poi, immediatamente, apparve lo Smilzo che funzionava da servizio d'ordine. «Alt» disse lo Smilzo. «Devo andare a Castelletto» spiegò don Camillo. «Se mi sai indicare come posso arrivarci senza attraversare la piazza…» «Aspettate che il comizio sia finito e poi passerete!» replicò categorico lo Smilzo. Don Camillo allargò le braccia e se ne stette buono buono a fumare il suo mezzo toscano nell'attesa che gli dessero via libera. Peppone prese la parola: si capiva benissimo che aveva visto don Camillo bloccato là in mezzo e che non voleva la-
sciarsi scappare l'occasione di fargli intendere che aria tirasse. «Anche se qualche reazionario con le orecchie foderate di prosciutto non se ne è accorto, è più che mai vicino il momento della riscossa proletaria! Molti si illudono vedendo che il proletariato per un certo periodo non si agita e non fa baccano. Il proletariato è come un cannone che spara non per il gusto di sparare, ma soltanto quando ha individuato l'obiettivo da battere. Sentirete presto il rombo del cannone! La cosiddetta classe dirigente che sfrutta e tiranneggia il proletariato sta per finire il suo comodo gioco. La classe dirigente è il popolo che lavora e produce, e che deve avere il posto che gli spetta…» Peppone continuò per un bel pezzo su questo tono e, a un certo momento, urlò: «Nessuno potrà mai fermare la marcia trionfale dell'idea proletaria: nessuno. Neanche se sa pensare in americano e parlare in latino! Chi ha buon orecchio intenda!». Tutti si volsero sogghignando verso don Camillo e don Camillo domandò ad alta voce rivolto verso la tribuna: «Dice a me?». «No, parlo al suo cavallo che ha orecchie migliori e intende meglio!» esclamò Peppone. Don Camillo ritornò a disinteressarsi di ogni cosa dopo aver osservato: «È logico, fra cavalli ci si capisce…».
Dopo Peppone prese la parola qualcun altro e allora don Camillo, vedendo che la faccenda minacciava di non finire più, rimise in moto Peppo e tornò nel cortile della canonica. Passato un quarto d'ora, i discorsi erano finiti, ma la gente rimase a chiacchierare in piazza e Peppone e il suo stato maggiore tenevano un supplemento di comizio all'ombra del palco. Ed ecco riapparire don Camillo: però non aveva più il biroccino ma una carretta a sponda alta e, fra le stanghe, non c'era il cavallo, bensì don Camillo. Il cavallo stava sul barroccio e portava attorno al collo un grande fazzoletto rosso. La gente rimase a rimirare a bocca spalancata quello spettacolo e don Camillo, sempre trascinando il suo barroccio, incominciò l'attraversamento della piazza. Arrivato davanti al palco, si fermò e si sedette su una stanga della carretta, cavando di saccoccia il fazzoletto per asciugarsi il sudore. Incontrò lo sguardo di Peppone: «Vede?» spiegò sbuffando don Camillo «quale potenza ha la propaganda quando è fatta bene come la fa lei? Dopo aver sentito il suo discorso, il cavallo che ha buone orecchie non ne ha più voluto sapere di tirare il barroccio: "Adesso tocca a noi!" ha detto il cavallo. E così mi sono dovuto mettere io fra le stanghe. Bisogna proprio convincersi che il mondo va fatalmente a sinistra». Peppone avanzò di qualche passo e si piantò davanti a don Camillo, coi pugni piantati sui fianchi e la faccia feroce.
«Proprio così» disse sorridendo don Camillo. «Il guaio è che, adesso, per me è difficile capire dove voglia andare il cavallo.» Peppone si buttò il cappello all'indietro: «Cosicché per lei i proletari sono delle bestie!» disse con voce cupa. «Non saprei» rispose don Camillo. «Provi a domandarlo al cavallo che ha orecchie migliori delle mie e capisce più di me.» Per fortuna in quel momento arrivò il maresciallo dei carabinieri e non successe quel che stava per succedere. Quando vide don Camillo combinato in quel modo, il maresciallo rimase senza fiato. «Che pasticcio è questo?» domandò il maresciallo. «Niente» rispose don Camillo rimettendosi fra le stanghe e facendo manovra per ritornare al cortile della canonica. «È la rivoluzione proletaria che, salita sul barroccio e preso il posto della vecchia classe dirigente, guida il paese verso radiose mete.» Rimesso nella stalla il cavallo, don Camillo andò a dare un'occhiatina in chiesa e, passando davanti all'aitar maggiore, udì la voce del Cristo Crocifisso: «Don Camillo, perché hai fatto quella stramberia?». «Non è una stramberia» rispose don Camillo «ma un apologo figurato, per dimostrare la balordaggine della tesi di Peppone.»
«È un apologo che non quadra; tu, così facendo, hai esasperato ancor di più l'animo di quella gente. Tu hai provocato quella gente.» «No» affermò don Camillo. «Il provocato sono io. È stato Peppone a tirare in ballo la faccenda del cavallo. Egli ha detto che non parlava a me ma al cavallo che sa intendere meglio di me. E allora io sulla carretta ho messo il cavallo e ho preso il suo posto fra le stanghe.» «Meriteresti di rimanerci, don Camillo. Tu non rappresenti la fazione opposta a quella di Peppone: tu devi rappresentare la saggezza che interviene fra le due fazioni opposte e le riconduce al rispetto della Legge eterna. Se tu ti metti sotto la bandiera d'una fazione, come potrai mostrare le Tavole della Legge eterna agli uomini dell'altra fazione e dire: "Queste sono le Leggi di Dio?". Essi ti risponderanno: "No: sono le leggi della fazione a noi nemica!".» Don Camillo allargò le braccia: «Gesù, le fazioni sono due: quella di Cristo e quella dell'Anticristo. Io non posso starmene in mezzo fra le due, ma debbo combattere nelle file di Cristo». «Don Camillo: tu bestemmi facendo del tuo Dio il capo di un partito. Tu bestemmi doppiamente sia perché poni la sorte di Dio alla mercé del risultato finale della lotta fra due fazioni, sia perché ritieni che il tuo Dio possa schierarsi a favore d'una fazione e contro un'altra fazione. Nei confronti della legge creata dagli uomini, esistono uomini ossequienti alla legge, uomini violatori della legge e uomini che tutelano
la legge. Ma l'uomo giusto non dice: io sono con la legge quindi debbo militare nelle file dei tutori della legge. L'uomo giusto è semplicemente con la legge e vigila sulla integrità della legge per evitare che i tutori della legge tutelino la legge con atti contrari alla legge. Esiste la Legge divina ed esistono uomini che operano contro la Legge divina e uomini che combattono in nome del trionfo della Legge divina. Ma il tuo posto è fuori dalle fazioni, di guardia alla Legge divina affinché nessuno possa toccarla, affinché essa conservi la sua integrità; e pura, immacolata, splendente, possa essere mostrata come supremo monito ai contendenti dell'una e dell'altra parte.» Don Camillo sollevò gli occhi al cielo. «Gesù, cosa posso fare, allora? Rimanere fermo mentre gli altri camminano?» «Cammina, don Camillo: cammina diritto per la strada del Signore. E se troverai che altri cammina per la tua stessa strada, rallegrati nel più profondo del cuore. E se, a un tratto, ti trovi solo perché gli altri che camminavano al tuo fianco sono usciti dalla strada del Signore per prendere una scorciatoia, rattristati, ma rimani nella strada del Signore. Richiamali a gran voce, implorali di rientrare nella via giusta, ma non uscire dalla strada del Signore. Mai, don Camillo, mai! Non ti spinga il fatto di vedere che la scorciatoia presa da chi camminava con te si ricongiunge poco dopo con la strada del Signore e abbrevia il cammino. La strada del Signore non ha scorciatoie. Chi, pur per un istante, esce dalla strada del
Bene, cammina nelle vie del Male. Se sempre camminerai per la strada del Bene, tu sarai la voce che richiamerà sulla retta via i viandanti che ne sono usciti.» Don Camillo chinò il capo. «Gesù» sussurrò «fate che io mai perda l'orientamento.» «Se sempre terrai l'occhio fisso al Segno che indica il culmine del monte là dove termina la terrena via del Bene e dove incomincia la via dei Cieli, non sbaglierai mai, don Camillo. Se questo Segno tu, a un tratto, non vedi più, significa che sei fuori strada perché chi cammina nella via giusta a ogni istante vede quel Segno. Rientra nella via giusta e rivedrai quel Segno. "In hoc sigilo vinces."» «Vinceremo» sussurrò don Camillo con umiltà. * L'aria continuò a scaldarsi perché la storia del proletariato-Pè-po trascinato dalla pseudo-classe-dirigente-don-Camillo aveva avuto un grande successo nel paese e nei dintorni. Ma don Camillo voleva rimanere nella strada giusta e perciò, pur soffrendo pene d'inferno, rifiutò a se stesso il permesso di uscir di casa e di immischiarsi nella faccenda. Ma un giorno non resistette più, e fu quando accadde il pasticcio della lapide. La lapide l'avevano murata in via Castelletto, allo sbocco nella piazza grande, nel 1942, e, da allora, via Castelletto aveva cambiato nome, in quanto sulla lapide stava scritto:
Via LUIGI BRAMBELLI Medaglia d'oro caduto eroicamente sul fronte russo Questo Luigi Brambelli era l'unico figliolo della vedova Brambelli, la Desolina del Crocilone. Quando Luigi Brambelli cadde combattendo in Russia, lasciò un bambinello d'un paio d'anni e la moglie sulle spalle della Desolina. Due spalle buone, perché la Desolina aveva sempre lavorato sodo nella sua vita. La Desolina andava di rado in paese e, ogni volta che ci andava, prendeva la strada più lunga, quella di Castelletto, perché lo scopo principale del viaggio era quello di passare davanti alla lapide che ricordava il nome del suo ragazzo. Intanto il ragazzino cresceva e incominciò anche lui ad andare a scuola in paese. La Desolina aspettò che finisse la prima classe poi, un giorno, lo accompagnò davanti alla lapide e gli ordinò: «Leggi». Il ragazzino, compitando, lesse ad alta voce quel che stava inciso sul rettangoletto di marmo. «Ecco» gli spiegò allora la Desolina. «Quello è tuo padre.»
La cosa rimase molto impressa nella mente del ragazzino. E il ragazzino tornò da solo e spesso davanti alla lapide, sempre rileggendo quel che stava inciso sul marmo. Poi, quando riprese la scuola, adottò sistematicamente la strada del Castelletto, così passava in via Luigi Brambelli due volte al giorno. Cosa ci passasse per fare non si sa: roba da ragazzi. Comunque ci passava prima a piedi e poi, quando fu arrivato in quarta classe, in bicicletta. E, un mezzogiorno, il ragazzino rincasò molto triste e, siccome sua madre e la Desolina insistevano per sapere cosa gli fosse successo, si mise a piangere e spiegò che la targa stradale col nome del papà non c'era più. La Desolina arrotolò il grembiale legandolo alla cintura e andò in paese a controllare. Il ragazzino aveva ragione: al posto della lapide col nome di Luigi Brambelli ne era stata murata un'altra. Corse su in Comune e il segretario si limitò ad allargare le braccia: «È stata una decisione del Consiglio: ecco qui il verbale. Hanno cambiato anche altri nomi di strade e piazze. Non so niente di più». La Desolina non insistette: tornò a casa, si mise il vestito della festa e partì per la città. Ritornò a notte fatta con un grosso involto legato al manubrio.
La Desolina era una donna spiccia, di quelle abituate a far di tutto: la mattina seguente, col suo fagotto sotto il braccio, si avviò verso il paese accompagnata dal ragazzino. In paese trovò in prestito una scaletta, l'appoggiò al muro sotto la lapide e, tirati fuori di saccoccia un martello e uno scalpello, salì sulla scaletta e si mise tranquillamente a scalzare l'intonaco attorno alla targa nuova. Dopo pochi minuti arrivava il capoguardia urlando: ma la Desolina non aveva la minima intenzione di scendere. Si formò attorno alla scaletta un gran cerchio di gente, poi subito apparve Peppone. «Si può sapere cosa state facendo?» gridò Peppone. «Tiro via questa lapide e ci metto quella di mio figlio» rispose la Desolina. «Sono andata in città a farla rifare.» Il ragazzino, ai piedi della scala, stava di guardia alla lapide che aveva tolto dall'imballo e appoggiata al muro. «Venite giù, smettetela di fare stupidaggini!» gridò Peppone. La Desolina si volse verso Peppone: «Non faccio stupidaggini» rispose. «Il nome di mio figlio era qui e deve ritornare al suo posto. Una stupidaggine l'ha fatta chi ha cambiato la lapide.» «È una decisione del Consiglio» replicò Peppone. «È il Consiglio che ha stabilito di cambiarla.» «E perché? Cos'ha fatto di male mio figlio?» Peppone si strinse nelle spalle.
«Per favore, venite giù e lasciate perdere» disse. «Voi siete sua madre e a una madre si perdona tutto: però voi sapete benissimo chi era vostro figlio.» «Mio figlio è uno che è morto in guerra.» «Sì, è morto in guerra» replicò Peppone. «Però è stato anche uno di quegli scalmanati che l'hanno voluta, la guerra. Ce lo ricordiamo.» «Mio figlio era un ragazzo quando è andato a fare il fantaccino in Russia. E la guerra non l'ha voluta lui. Era un ragazzo come centomila altri e, come centomila altri, ha combattuto e ha fatto onore al suo Paese.» Peppone fece un gesto d'impazienza. «Onore! Onore una guerra persa! Una guerra sbagliata!» «Mio figlio la guerra l'ha vinta. Non si dà la medaglia d'oro a uno che perde. Voi l'avete persa, la guerra, non mio figlio. E ha combattuto una guerra giusta, tanto è vero che il Re gli ha dato la medaglia. I Re non danno medaglie se un soldato non è nel giusto.» «I Re giusti!» esclamò Peppone. «Il guaio è che quello era un Re sbagliato, tanto è vero che adesso non c'è più perché l'hanno cacciato via.» «Però l'Italia è sempre quella. Non è cambiata.» «È cambiata sì!» gridò Peppone. «Per fortuna è cambiata. Adesso è finita la frenesia guerrafondaia e si fanno le cose ragionando, non sragionando.» La Desolina guardò la lapide ancora fissata al muro.
«Ma chi sarebbe questo Gramsci che ha preso il posto di mio figlio? In che guerra è morto se mio figlio è caduto in quella sbagliata?» «In quella giusta! Nella guerra che il popolo combatte per la libertà e il progresso» gridò Peppone. «Per la libertà, per il progresso e per la pace!» «Non me ne intendo» replicò la Desolina. «Io so che questo Gramsci non è un nome di qui.» «Gramsci è un nome mondiale, universale!» gridò Peppone. «E in tutta l'Italia non c'è città o paese che non gli abbiano dedicato una via o una piazza.» «E non ne aveva abbastanza?» protestò la Desolina. «Proprio al mio ragazzo doveva venire a portar via il posto?» Peppone tirò il fiato lungo perché voleva dire una roba grossa poi sentenziò: «È triste per voi, ma è così. È la nemesi storica, cara la mia brava donna. È l'ordine che subentra al disordine. È la storia vera che si sostituisce alla storia falsa». La Desolina non seppe cosa rispondere. Sospirò, allargò le braccia e disse con voce piena di angoscia: «E allora, se tutto è cambiato, il mio ragazzo è come se fosse morto cadendo giù dal fienile. Una disgrazia. Ma, almeno, quelli che muoiono cadendo dal fienile, li seppelliscono qui. Mio figlio è rimasto chi sa dove: qui c'era soltanto il suo nome. Adesso è proprio perso del tutto». Il ragazzino non aveva fiatato: con la sua lapide stretta fra le braccia aveva continuato a guardare Peppone. E Pep-
pone se li era sentiti, quegli occhi, addosso da un pezzo: ma ora li vedeva. Occhi senza lagrime ma pieni di orrore. Gli occhi del figlio che guarda colui che gli ha ammazzato il padre. Peppone fece fatica a distaccare lo sguardo da quegli occhi. Ci riuscì e guardò in su e dal muro, dalla targa di marmo sopra la scaletta, la voce gelida del Partito gli ordinava: «Obbedisci!». Don Camillo si fece davanti: «Desolina, siate ragionevole. Non potete mettervi contro la legge. Le leggi non si possono discutere, si obbediscono». La donna discese e andò a restituire la scaletta. Don Camillo si avviò dopo aver fatto un cenno al ragazzino che lo seguì stringendo sempre la sua lapide fra le braccia. Passando davanti a Peppone, il ragazzino guardò in su per un istante. Arrivato alla porta della canonica, don Camillo si fermò e si volse. «Adesso vai a scuola che è tardi, lascia tutto qui, poi a mezzogiorno torna qui.» Il ragazzo consegnò a don Camillo la lapide e se ne andò. E don Camillo rimase sull'uscio, con la targa di marmo fra le mani. «Gesù» sussurrò dopo lunga meditazione «non so se adesso io continuerò per la strada del Bene o scivolerò per
quella del Male. Perdonatemi se sbaglio, ma debbo trovare un'altra strada per un istante almeno.» E la strada era lì, tra il fianco della canonica e il fianco della chiesa: una stradetta lunga sì e no otto o nove metri. Una stradetta che, finito il rustico della canonica, diventava un viottolo e si perdeva in mezzo ai campi. Una stradetta in disuso, tant'è vero che don Camillo l'aveva chiusa con un cancello di ferro. Don Camillo entrò in canonica a cercare gli arnesi e la scaletta. Appoggiò la scaletta al muro della canonica e, trovato il punto dove il muro era meno gibboso, prese le misure e con martello e scalpello forò i quattro buchi. Adesso però veniva il difficile perché occorrevano il cemento e le quattro graffe di ferro. Ridiscese e si trovò davanti Peppone. «Vi porto tutto io fra dieci minuti» borbottò Peppone. Don Camillo non aveva chiesto niente, ma non si stupì che qualcuno sapesse quel che egli aveva solo pensato. Peppone tornò di lì a poco con le quattro graffe e un cartoccio di cemento rapido. Lo Smilzo rimase dieci metri indietro, in posizione strategica, a badare che non arrivasse gente. Peppone salì sulla scaletta e murò la targa di marmo. Lo Smilzo fischiò e Peppone fece appena in tempo ad agguantare la scaletta e a portarla nell'andito della canonica. Don Camillo era già nella saletta che aveva una finestra proprio sotto la lapide. I telai a vetri erano socchiusi e dalla
fessura don Camillo stava curiosando per vedere chi arrivasse. Peppone andò a sbirciare anche lui per sentire come si commentasse la novità. Arrivò in bicicletta il ragazzino. Giunto davanti alla porta, fece per entrare ma qualcosa attirò la sua attenzione perché si spostò fin sotto la finestra e guardò in su. Vide la lapide e sorrise. «Ciao, papà» disse. Poi saltò sulla bicicletta e, infilato il cancello e la viottola, scomparve tra i campi. Via Luigi Brambelli era ufficialmente inaugurata. Si trattava di una viottola di origine poderale che, da almeno vent'anni, nessuno adoperava più. Ma portava al Crocilone accorciando di mezzo chilometro buono la strada. E il Crocilone era un piccolo borgo isolato nel quale l'apparizione di una motocicletta o d'un furgoncino rappresentava una novità sensazionale. Perciò Peppone disse una tremenda stupidaggine quando comunicò a don Camillo: «Questa scorciatola può servire per decongestionare il traffico della strada del Crocilone. Manderò un paio di uomini a sistemarla un po'». «Io oggi stesso faccio cavare il cancello» aggiunse don Camillo. Don Camillo pensò che la strada del Bene poteva magari chiamarsi, in un certo punto, via Luigi Brambelli e su di
essa egli, magari, poteva trovarsi a camminare per un certo punto a fianco di Peppone. Sorrise. Peppone interpretò male quel sorriso e avviandosi per uscire esclamò: «Il proletariato non è un cavallo che non sa dove deve andare. Il proletariato è fatto di uomini che conoscono perfettamente la loro meta». «Lo dirò a Pepo» rispose calmo don Camillo. «Così darà le dimissioni da proletariato e ritornerà a fare il cavallo.» «Bene» replicò duramente Peppone. «Se poi voi ritornaste a fare il prete sarebbe ancora meglio.» «Già fatto» spiegò calmo don Camillo. «Dio sia con te e ti illumini, compagno sindaco, cosicché un giorno, concluso il nostro cammino terreno, possiamo ritrovarci fianco a fianco all'inizio della strada che conduce verso l'eternità.» Il tono della voce di don Camillo era così umile e sommesso che Peppone si stupì: «Roba da matti!» borbottò. «Stai a vedere che, adesso, diventa cristiano anche l'arciprete!»
167 LA CENA DELLE BEFFE Quelli di Torricella erano inveleniti e, perduto con Giosuè Scozza il primato musicale, cercavano rabbiosamente di rifarsi conquistando qualche altro primato. Così accadde che, una bella mattina, uscendo di casa, la gente del paese avversario trovò appiccicati a tutte le cantonate grandi manifesti: Se avete undici giovanotti che siano in grado di distinguere un pallone da una scatola di salsa di pomodoro mandateli al campo sportivo di Torricella a sentire che aria tira. Appena ebbe letto il cartello di sfida, Peppone si volse allo Smilzo e gli disse: «Avverti i ragazzi della "Dynamos" di incominciare subito gli allenamenti e poi corri a Torricella a fissare il giorno dell'incontro».
Lo Smilzo saltò sulla bicicletta e partì a tutta birra e un'ora dopo era di ritorno. Peppone lo aspettava con impazienza nel suo ufficio in Comune e già aveva steso la brutta copia del manifesto di risposta da far appiccicare a Torricella. «Ebbene?» domandò Peppone. «Combinato tutto?» «Combinato un accidente» borbottò lo Smilzo. «Siamo arrivati tardi.» «Tardi in che senso?» «Nel senso che la squadra del prete è arrivata prima di noi.» Peppone non esitò un secondo e, calcatosi il cappello sulla zucca, iniziò la marcia sulla canonica. Trovò don Camillo sul sagrato ed entrò subito in argomento: «Se c'è una squadra che deve difendere l'onore del paese» esclamò «questa non può essere che la "Dynamos"!». «Se c'è una squadra che deve difendere l'onore del paese» rispose calmo don Camillo «questa non può essere che la "Gagliarda".» «La "Gagliarda" non è una squadra, è un malinteso!» urlò Peppone. «La "Dynamos" non è una squadra, è un pollaio» replicò don Camillo. Una cordiale intesa su queste basi non pareva molto probabile: comunque la discussione continuò sullo stesso
tono ravvivata dalla presenza e dagli interventi di un centinaio di persone. Alla fine, quando Peppone e don Camillo già marciavano a motore imballato, si udì la voce della saggezza: «Qui c'è poco da questionare» esclamò il farmacista. «"Dynamos" e "Gagliarda" sono pari e i casi sono due: o si gioca a testa e croce chi delle due squadre deve rappresentare il paese nell'incontro col "Torricella", oppure si prendono gli elementi migliori delle due squadre e se ne fa una mista.» «Gli elementi migliori della "Gagliarda" sono undici!» affermò don Camillo. «E gli elementi migliori della "Dynamos" sono dodici perché ci metto dentro anche il massaggiatore che, pure essendo zoppo, gioca meglio di qualsiasi giocatore della "Gagliarda"!» urlò Peppone. Però l'idea di formare una squadra unica col meglio di tutt'e due le squadre era la più logica e, a un bel momento, sia Peppone che don Camillo dovettero ammetterlo. «Sta bene, ne riparleremo» concluse don Camillo rientrando in canonica. «Ne riparleremo» concluse Peppone avviandosi verso la Casa del Popolo. Don Camillo e Peppone si incontrarono il giorno dopo in campo neutro e tutt'e due erano accompagnati da un gruppo di persone.
«Io non voglio immischiarmi nella faccenda» spiegò don Camillo. «Io faccio il prete e ho dato incarico di decidere a una commissione di esperti.» «Io faccio il sindaco» replicò Peppone «e anche io lascio ogni decisione a una commissione di esperti.» «Le due commissioni se la vedano tra loro» disse don Camillo. «Perfettamente» rispose Peppone. «Io rimango qui come semplice osservatore. Tutto quello che fanno le commissioni, per me, è ben fatto. Comunque la faccenda è molto semplice perché, considerati con la massima serenità tutti gli elementi della "Gagliarda", è ovvio che la "Dynamos" prenda il vostro centrattacco e metta gli altri dieci elementi.» «È la stessa conclusione alla quale si è arrivati dopo aver discusso sulle possibilità degli uomini della "Dynamos": voi ci date lo Smilzo e noi mettiamo gli altri dieci giocatori» spiegò don Camillo. Peppone strinse i denti: «Io non voglio influire sulle decisioni della commissione, comunque è positivo che, se vi piace, è come ho detto io. Se non vi piace, è come ho detto io. E ringraziate Dio che vi concediamo l'onore di far giocare uno dei vostri uomini in uno squadrone come il nostro». «Il danno che lo Smilzo porterà nella "Gagliarda" sarà forte» replicò don Camillo. «Ma a noi preme dimostrare alla gente che, da parte nostra, non manca la volontà di collaborare.»
«E allora andate all'inferno voi e le vostre schiappe!» gridò Peppone. «Se la commissione non ha niente altro da dire» annunciò don Camillo «si potrebbe sciogliere la seduta.» Il capo della commissione tecnica prescelta da don Camillo allargò le braccia. Lo stesso fece, rivolto verso Peppone, il capo della commissione tecnica avversaria. Ognuno se ne andò per la sua strada. Tre giorni dopo riecco quelli di Torricella farsi vivi con nuovi manifesti: AVVERTENZA Allo scopo di favorire le due formazioni che hanno raccolto la sfida lanciata dal «Torricella», anziché battere prima l'una e poi l'altra il «Torricella» ha deciso di batterle tutt'e due contemporaneamente e perciò l'undici di «Torricella» si incontrerà col ventidue «Dynamos-Gagliarda». La necessità di formare una squadra unica ritornò immediatamente a galla e, presieduta dal farmacista e dal medico
condotto, nacque una commissione di collegamento fra le due commissioni tecniche. Fu un'impresa molto dura e complicata ma, alla fine, le due commissioni tecniche si trovarono riunite per arrivare a una decisione. «Mi rimetto completamente alla commissione» disse don Camillo prendendo per primo la parola. «Comunque è ovvio che dovendo dare ogni squadra una metà dei giocatori, la "Gagliarda" ne darà sei e la "Dynamos" cinque.» «Perfettamente d'accordo» replicò Peppone. «Cinque la "Gagliarda" e sei la "Dynamos".» Don Camillo rispettò per qualche minuto il silenzio che aveva seguito le parole di Peppone, poi disse: «Considerato che le commissioni sono ferme su questa base, ce la facciamo a scopa». Venne procurato un mazzo di carte e Peppone e don Camillo giocarono una delle più feroci partite a scopa della storia. Vinse Peppone per un punto e fu deciso che la «Dynamos» desse alla "rappresentativa" sei uomini e la «Gagliarda» cinque. «È giusto che, stando così le cose» aggiunse don Camillo «la "Gagliarda" venga moralmente riportata alla pari concedendole di fornire il capitano della squadra.» «La democrazia ha delle regole precise» replicò Peppone. «Lei reverendo non lo sa ma è così. In democrazia chi ha
la maggioranza governa. Quindi il capitano ce lo scegliamo noi.» Don Camillo scosse il capo: «Il solito sistema comunista: conquistato il potere, si instaura la dittatura in nome della democrazia». «Lo sport non deve entrarci con la politica!» protestò vivacemente Peppone. «Comunque, tanto per smentire le vostre calunnie di reazionario, ce lo facciamo a scopa.» Questa volta vinse don Camillo e la «Gagliarda» ebbe il diritto di fornire il capitano alla "rappresentativa". Il giorno dopo la "rappresentativa" si trovò al campo sportivo per il primo allenamento. Il gioco durò esattamente otto minuti, poi i cinque della «Gagliarda» e i sei della «Dynamos» incominciarono a pestarsi fra loro e l'allenamento venne rimandato. Il giorno seguente ci fu un indubbio miglioramento perché il gioco non incominciò neppure e dynamini e gagliardini si presero a cazzotti e a seggiolate appena entrati in spogliatoio. Il terzo giorno i giocatori non si picchiarono né in campo né in spogliatoio: si picchiarono fuori dal campo, prima di entrare, e non poterono giocare. Il quarto giorno, avendo esaurite tutte le combinazioni, i ragazzi giocarono e ne uscì la faccenda più triste e malinconica dell'universo. E le volte seguenti fu anche peggio. Non riuscivano a legare, non riuscivano a combinare un'azione con qualche logica: parevano undici selvaggi che, visto per
la prima volta un pallone, si divertissero a mandarlo di qua e di là a pedate. Intanto il tempo passava e il giorno dell'incontro si avvicinava senza che la squadra riuscisse a realizzare niente. E venne la sera della vigilia. Dopo l'ultimo e disastroso allenamento, don Camillo e Peppone si ritrovarono fianco a fianco per la strada che conduceva in paese: «Reverendo» disse Peppone «domani raccoglieremo il frutto della vostra testardaggine. Se aveste dato retta a me lasciando alla "Dynamos" il compito di difendere il primato sportivo del paese, adesso non ci troveremmo in questi guai». «Peppone: io conosco uno per uno i miei ragazzi» rispose don Camillo «e so che tutto dipende da voi. Avete applicata in questa faccenda sportiva la vostra solita tattica politica dell'ostruzionismo per metterci nella condizione di essere costretti a rinunciare a voi tutta l'impresa. Di essere costretti, perché chi ha coscienza e sentimento cede. E la coscienza e il sentimento l'abbiamo, noi. L'esperimento è riuscito anche questa volta: domani giocherà la vostra squadra. La "Gagliarda" si ritira. Non trovate storie perché so benissimo che, ogni giorno, la "Dynamos" si è allenata per conto suo a Fiumetto e il finto allenamento con la nostra squadra non vi ha portato nessun danno.» Peppone non si preoccupò neppure di negare; schizzò via e, due ore dopo, alle cantonate erano affissi dei grandi manifesti rossi:
A causa del ritiro della «Gagliarda» dovuto a riconosciute manchevolezze tecniche la partita col «Torricella» verrà combattuta domani dalla Squadra «Dynamos» che unica difenderà l' onore sportivo del paese. Don Camillo, prima di buttarsi a letto, andò a inginocchiarsi davanti al Cristo Crocifisso: «Gesù» sussurrò «fate che essi non perdano domani. Non per loro che non lo meritano, ma per me. Fate che essi non perdano: evitate che io, vedendoli ritornare sconfitti, venga indotto nella tentazione di gioire della loro sconfìtta». «Don Camillo, lo sai: non mi intendo di sport» rispose sorridendo il Cristo. * Gli uomini di Peppone giocarono una orrenda partita e il «Torricella» li rimandò a casa con un baule di goal. E don Camillo non riuscì a resistere alla tentazione e si rallegrò intimamente della batosta della «Dynamos». E non solo si rallegrò intimamente, ma se ne rallegrò pure pubblicamente e, in seguito, oramai in preda al Demo-
nio, mandò a sfidare la squadra del «Torricella» e, la domenica seguente, la «Gagliarda» restituì il baule di goal che il «Torricella» aveva appioppato alla «Dynamos». Allora don Camillo decise che l'avvenimento doveva essere celebrato solennemente e, radunati i ragazzi della «Gagliarda», annunciò: «Ho tre meravigliosi capponi, in pollaio: domenica sera li mangeremo alla salute della "Dynamos". La notizia non è riservata e, se vi scappa anche detta, non fa niente». A qualcuno, evidentemente, scappò detta perché, il giorno dopo, tutto il paese sapeva che la domenica, in canonica, si sarebbe svolta quella che fu subito definita "la cena delle beffe". Volendo fare le cose per bene, ci voleva un inno: don Camillo stette alzato l'intera notte del martedì per trovare anche le parole dell'inno della «Gagliarda» e rimase fino alle ventitré del mercoledì in sagrestia a cercare nell'armonium un'aria adatta alle parole. Alle ventitré del giovedì, don Camillo usciva dalla sagrestia con la musica completa. Aveva tutto il tempo di insegnarla ai ragazzi per cantarla alla fine della cena della domenica: si trattava di una arietta facile e le parole, caso mai, potevano essere lette. Entrò soddisfatto in canonica e prima d'andare a dormire si recò nel pollaio a dare un'occhiata ai tre famosi capponi. Ma nel pollaio non c'erano più né i tre capponi né le tre galline: rimanevano soltanto una pollastrella spennacchiata e
un galletto magro come un chiodo. In compenso sul muro qualcuno aveva appeso un cartello con la scritta: «Crescete et moltiplicorum». Don Camillo si sentì mancare il fiato e, agguantato il cartello, andò a confidarsi col Cristo dell'aitar maggiore. «Gesù» ansimò «mi hanno rubato le galline!» «Mi spiace» rispose sorridendo il Cristo. «Comunque, prima di fare un'affermazione così recisa, controlla che le bestiole non siano fuggite.» Don Camillo mostrò al Cristo il cartello: «Gesù, so quel che dico! Guardate cos'hanno lasciato i ladri! Non è una cosa orrenda?». «Don Camillo, non pretenderai forse che un ladro di polli conosca alla perfezione il latino!» «Non è per il latino: è una cosa orrenda per la cattiveria di chi ha voluto, oltreché danneggiarmi, dileggiarmi! Gesù, chi sarà stato?» «Io non sono il maresciallo dei carabinieri» rispose il Cristo. «Né avevo io il compito di far la guardia al tuo pollaio…» Don Camillo si sentì mancare il fiato: Ful! Ful! Perché Ful non aveva abbaiato? Uscì e trovò Ful placidamente sdraiato nella sua casetta di legno. «Traditore!» gli gridò don Camillo. «Manutengolo!» Più che il fatto in sé dei polli rubati, inferociva don Camillo il fatto della "cena delle beffe" che andava a monte.
Passeggiò in su e in giù per il sagrato e, a un tratto, una voce lo riscosse dai suoi turbinosi pensieri: «Reverendo, non ha sonno? Ancora alzato a mezzanotte?». Don Camillo levò gli occhi: era il maresciallo dei carabinieri che tornava assieme a uno dei suoi uomini dal solito giro d'ispezione. «Mi hanno rubato le galline!» esclamò con angoscia don Camillo. «Alle dieci, quando sono entrato in sagrestia, c'erano, alle undici, quando sono uscito, non c'erano più: io suonavo all'armonium e qualcuno ne ha approfittato.» «E non ha abbaiato il cane?» «Suonavo» rispose don Camillo. «Forse ha abbaiato quando io suonavo e non potevo sentirlo.» «Ha dei sospetti?» Don Camillo allargò le braccia. * Don Camillo si chiuse in casa: non voleva farsi vedere da nessuno. Tutto il paese era al corrente del colpo e i «rossi» sghignazzavano e dicevano: «La cena di domenica pare che sarà un po' magra. Caso mai significa che, se non ci sono più i capponi, mangeranno l'inno!».
La sera della domenica fu tristissima per don Camillo. Alle otto fischiò a Ful per dargli la scodella di zuppa, ma Ful non c'era. Si fissò che doveva sapere dove fosse andato Ful e uscì prendendo la via dei campi. Dieci minuti dopo era nell'orto di Peppone ed entrava nell'andito buio. Dalla cucina veniva un putiferio dì risate: don Camillo girò la maniglia e spinse. Peppone era a tavola con lo Smilzo, il Brusco, il Bigio e gli altri fedelissimi dello stato maggiore. Stavano mangiando cacciatora di pollo e, vedendo apparire don Camillo, rimasero come tanti baccalà. «Peppone, scusate» disse don Camillo. «Cerco Ful: lo avete visto?» Peppone allargò le braccia, ma don Camillo aveva buoni occhi. Sollevò un lembo della tovaglia e, sotto la tavola, c'era Ful, rannicchiato davanti a un piattaccio d'ossa di pollo. «È capitato qui per caso» spiegò Peppone. «Capisco» rispose calmo don Camillo. Ful si era appiattito per terra e si capiva che aveva una vergogna nera. «Se volete restar servito, reverendo!» esclamò Peppone. «Accomodatevi!» «Grazie, ho già mangiato. Buona sera.» Don Camillo uscì e Ful, dopo essersi tolto di sotto la tavola e aver guardato Peppone, seguì di lontano il padrone.
Quando don Camillo fu in casa, si volse e, appena Ful arrivò, gli disse con voce piena di disprezzo: «Ladro!». E poiché il cane non pareva rendersi conto della durezza della qualifica, don Camillo gli urlò ancora: «Venduto alla Russia!». * Il giorno dopo arrivavano al maresciallo due o tre lettere anonime e la faccenda diventava improvvisamente colossale. Sei galline non sono niente di straordinario ma, quando si abbia ragione di ritenere che chi le ha rubate è il sindaco, assumono, anche per via della politica, una importanza eccezionale. Peppone ricevette la visita del maresciallo e davvero non se l'aspettava. «Scusi, signor sindaco, ma io debbo fare il mio dovere. Vuol dirmi dove si trovava dalle ventidue alle ventitré di giovedì scorso? In casa no perché alle ore ventidue e cinque è stato visto scavalcare la siepe dell'orto del parroco: ci sono tre testimoni. E altri han visto che alle ventidue e cinquanta ha scavalcato la siepe del suo orto.» Peppone si impappinò come un bambino. «Sono stato dove mi pareva e piaceva!» rispose quando la stizza gli tolse l'uso del ragionamento.
«Dove ha comprato i sei polli che domenica sera ha mangiato a casa sua?» «Affari nostri» rispose Peppone. Il maresciallo gli fece altre domande senza ottenere risposta; allora se ne andò dicendo: «Vuol dire che risponderà al magistrato». Improvvisamente la cosa diventò colossale, favolosa, incredibile. Il sindaco Giuseppe Bottazzi denunciato come sospetto autore di furto di polli e chiamato a discolparsi in Pretura: il colosso che aveva respinto gli assalti degli elefanti crollava sotto la puntura di una vespa. * Don Camillo si trovò in Pretura senza neppure saper come. Comunque c'era e vedeva Peppone nel banco degli imputati. Il gigante stava per sgretolarsi. Avevano incominciato a parlare: «L'imputato si è rifiutato di dire al maresciallo come e dove abbia trascorsa l'ora tra le ventidue e le ventitré. Da quando cioè fu visto, prima, scavalcare la siepe dell'orto della canonica e, poi, la siepe di casa sua. L'imputato intende ora rispondere?». Il Pretore guardò Peppone. Tutti guardavano Peppone. Peppone allargò le braccia: «Non posso dire dove mi trovavo» rispose Peppone a bassa voce.
«Lei si rifiuta?» «Non mi rifiuto signor Pretore: non posso.» Don Camillo chiese di poter parlare nell'interesse della giustizia e gli fu concesso. «Dalle ventidue alle ventitré circa il signor Bottazzi è rimasto in sagrestia con me» affermò con voce ferma don Camillo. «Perché non l'ha detto prima, reverendo?» «Nessuno me l'ha domandato. Inoltre, per poterlo dire, ho dovuto chiedere il permesso ai miei superiori.» Il Pretore si strinse nelle spalle. «Scusi, reverendo: cosa veniva a fare a quell'ora in chiesa, mentre lei suonava? A prendere lezione di canto?» «Signor Pretore: il suono dell'armonium non impedisce a Dio di ascoltare la voce di un fedele che viene nella Casa di Dio per rivolgere la sua preghiera a Dio.» Il Pretore si strinse ancora nelle spalle. «Non discuto, reverendo: soltanto non capisco come mai l'imputato non abbia detto che a quell'ora si trovava in chiesa. Io non avrei nessunissimo ritegno a dire d'essere stato in chiesa qualora fossi stato in chiesa.» «Ma lei non è sindaco comunista e capo dei comunisti d'un centro della Bassa» replicò calmo don Camillo. «Egli viene in chiesa quando i suoi compagni non lo possono vedere. Se il signor Pretore crede necessaria una più dettagliata precisazione della posizione politica…»
«Non occorre, non occorre!» lo interruppe sorridendo il Pretore. «Il qui presente Giuseppe Bottazzi è un eccellente figliolo di sentimenti fondamentalmente buoni, onesto, laborioso e timorato di Dio» concluse don Camillo. * Don Camillo fece il viaggio di ritorno sulla moto di Peppone e Peppone non aperse mai bocca. Giunti davanti alla canonica, Peppone sospirò profondamente: «Mi avete reso ridicolo. I giornali reazionari faranno dei romanzi su questa buffa storia». «Ne avrebbero fatti di peggio se tu fossi stato condannato come ladruncolo di galline» replicò don Camillo. «Mi avete messo nei pasticci di fronte al Partito: se dico la verità piglio del cretino perché ho rubato i polli. Se confermo la vostra versione piglio dell'idiota per il resto.» «Che importanza ha il partito?» disse don Camillo. «Io, sì, che sono nei pasticci di fronte a Dio! Non capisci che io, un sacerdote, ho detto la falsa testimonianza? Come troverò il coraggio di entrare in chiesa?» Peppone saltò giù dalla macchina ed entrò in chiesa lui e marciò diritto verso l'aitar maggiore. Rimase fermo qualche minuto davanti al Cristo Crocifisso poi ritornò fuori. «Potete entrare: ho spiegato io come stanno le cose. Fatemi voi lo stesso servizio al Partito se ne siete capace!»
Don Camillo allargò le braccia: «Certo che è più facile trattare con Dio che con un funzionario del tuo partito. I funzionari del tuo partito non perdonano». Come poi avesse spiegata la cosa Peppone, non è dato saperlo. Il fatto è che, quando don Camillo trovò, a sera tarda, il coraggio di entrare in chiesa e di inginocchiarsi davanti all'aitar maggiore, il Cristo Crocifisso disse: «Povero don Camillo, cosa hai combinato?». «Ero d'accordo col Vescovo» si giustificò don Camillo. «Bel tipo anche quello!» sospirò sorridendo il Cristo Crocifisso.
168 LO SCOLARETTO DI QUINTA Peppone decise di partire a tutta manetta alla difesa dell'istruzione elementare insidiata dalle ingerenze clericali e così, al giornale murale della Casa del Popolo, apparve un fiero proclama a firma Giuseppe Bottazzi. Proclama nel quale si auspicava l'istituzione di una commissione di controllo che avendo libero accesso nelle scuole potesse assistere alle lezioni per giudicare se i programmi scolastici governativi fossero o no in disaccordo coi princìpi democratici. La mattina dopo, al giornale murale della parte avversa, apparve il contro-proclama: «Noi non facciamo certamente colpa al signor Giuseppe Bottazzi di non aver potuto perfezionare i suoi studi: siamo sempre d'accordo che non è la grammatica quella che conta, ma contano le idee. Però, nel caso specifico della nuova polemica, riteniamo opportuno osservare che a occuparsi dell'istruzione elementare non doveva essere una persona che non possiede neppure la licenza elementare. «Il signor Giuseppe Bottazzi rinunci l'incarico allo Smilzo che, almeno, avendo ripetuto per due anni la prima,
per tre anni la seconda e per tre anni la terza, ha senz 'altro maggior competenza in materia d'istruzione elementare». Il contro-proclama di parte bianca fece grande scalpore in paese e don Camillo, ricopiatolo su un foglietto, andò a leggerlo al Cristo dell'aitar maggiore. «Il mio giudizio non cambia, don Camillo» disse il Cristo. «Stolto è chi ha scritto queste parole, come stolto fu chi, quella tal volta, scrisse "asino" in margine a un altro manifesto di Peppone.» «Gesù» obiettò don Camillo «adesso la cosa è completamente diversa. Stolto è, secondo me, chi, avendo una gamba sola, vuol partecipare a una corsa podistica.» «Don Camillo, tu bari! Chi manca d'una gamba non la può acquistare: chi non sa la grammatica la può imparare. Se non la sa è perché nessuno gliel'ha insegnata. Don Camillo, se tu conosci colui che ha scritto quelle parole spiegagli che ha agito stoltamente.» Don Camillo allargò le braccia: «Proverò a spiegarglielo» rispose «ma credo che sarà difficile farglielo capire perché egli crede in perfetta buona fede di aver ragione». «Non è in buona fede, né può esserlo, chi sa di trovarsi in disaccordo con la legge di Dio. E tu lo sai perché te l'ho detto io.» «Don Camillo ha sempre torto» sospirò don Camillo mestamente.
* Peppone non seppe incassare il colpo e rispose con un altro proclama che incominciava: «Potiamo dire senza paura di sbagliarsi che se l'ignoto polemista avversario, invece di occuparsi di queste cose si occupasse di fare il suo mestiere di prete, sarebbe meglio. Esistono due tipi d'ignoranza: quella di chi non ha potuto studiare per ovie ragioni e quella di chi, come l'ignoto prete di qui sopra, pur avendo studiato, non ha capito niente ed è come il paiolo luccicante ma sfondato che dileggia il paiolo fuliginoso ma sano: la quale però se non ci fosse lui la polenta non si farebbe!». Il bello, però, veniva dopo perché Peppone, esaurito il preambolo, tirava giù di grosso. E, quando don Camillo andò a inginocchiarsi davanti all'aitar maggiore, il Cristo gli domandò se avesse letto quello che gli aveva risposto Peppone. «Sì.» «E hai resistito alla tentazione di replicare?» «Sì.» «E resisterai?» Don Camillo allargò le braccia: «L'avvenire è nelle mani di Dio» esclamò.
«Ma la brutta copia della tua replica è nella tua tasca destra, don Camillo: e perciò l'avvenire, in questo caso, è nelle tue mani.» Don Camillo tolse di tasca il foglietto e lo incenerì alla fiamma d'una candela. «Stiamo avvicinandoci alle elezioni» osservò don Camillo «e, secondo me, questa – politicamente – è una tattica sbagliata.» «Può anche darsi, don Camillo, ma non ti preoccupare per le elezioni: io non entro in lista con nessuno né contro nessuno. Io ho già vinto da un pezzo.» * Quando il furor polemico gli faceva perdere l'indirizzo di casa, Peppone procedeva in ogni campo con la delicatezza del carro armato pesante: perciò era logico che la replica famosa che incominciava col «Potiamo» fosse zeppa di spropositi. La gente si divertì un mondo e mezzo anche senza la contro-replica di don Camillo e ciò fece invelenire Peppone fino al midollo. Provò a offrire in giro qualche sberla, qualcuna ne suonò senza averla prima offerta: ma si rese rapidamente conto che tutto questo non risolveva niente di niente, e le sue cognizioni grammaticali rimanevano più che mai approssimative. Allora troncò la polemica sull'istruzione elementare e prese ad accarezzare un ambizioso sogno.
Alfine arrivò a una importante decisione che tenne nascosta a tutti, anche ai più fidi. Solo la moglie era al corrente del progetto favoloso di Peppone e quando, ogni sera, Peppone saltava sulla moto e partiva verso l'ignoto, la donna sospirava. E quando, verso la mezzanotte, Peppone faceva ritorno, gli domandava con ansia: «E allora?». «È dura, ma la spunterò.» La faccenda durò tre mesi e mezzo: fino alla sera in cui, tornando dal suo misterioso viaggio, Peppone annunciò alla moglie: «Ci siamo: faccio il salto!». «E se non riesci?» «Debbo riuscire!» «Pensa come goderebbero tutti quei maledetti se tu non riuscissi. Non potresti fare il colpo in città? Nessuno là ti conosce e, anche se andasse male, non succederebbe niente.» Peppone scosse la zucca: «No: se facessi il colpo fuori, qui subito parlerebbero di trucco, di pastetta. Bisogna che ogni cosa si svolga qui, alla luce del sole, nella più completa legalità. Domani presento la domanda!». «Cerca di non fare errori almeno nella domanda!» gli raccomandò la donna.
«Sono già a posto» la rassicurò Peppone. «La domanda l'ho già qui scritta a macchina: me l'hanno preparata là in città.» «È già qualcosa» si consolò la donna. * «Io sottoscritto Giuseppe Bottazzi» eccetera eccetera «faccio rispettosa istanza a codesta on. Direzione Didattica perché mi sia concesso di sostenere l'esame di quinta classe elementare…»: la bomba scoppiò subito, e lo scoppio fu di intensità atomica. Lo Smilzo piombò a casa di Peppone con gli occhi fuori dalle orbite: «Capo! In giro tutti dicono che tu vuoi dare l'esame dì quinta!». «Ebbene, cosa c'è di straordinario?» «Capo, la quinta è difficile!» «Meglio. Bisogna vivere pericolosamente.» «Capo, se ti bocciano sei finito!» «Al Conservatorio hanno bocciato anche Verdi e Verdi non è finito.» Davanti a quella spavalda sicurezza lo Smilzo non seppe più cosa dire. E allora Peppone, con estrema naturalezza, con la elegante noncuranza del signore che butta via una cicca, aggiunse:
«Se non ho il patema io, perché devi averlo tu, compagno?». Per lo Smilzo il patema fu il colpo di grazia. Se Peppone sapeva anche il patema significava che era oramai dentro fino agli occhi nella faccenda della cultura. «Capo» balbettò «allora in questi tre mesi e mezzo tu hai studiato! Chissà quanti quattrini ti è costata questa storia!» «E perché? Mi sono limitato a frequentare un corso accelerato alla scuola serale in città. C'erano adulti e ragazzi: avevo per vicino di banco un ragazzino di dodici anni. Si chiama Mario Gibelli. Un robino grosso così. Mi verrà a trovare qualche domenica.» «Straordinario!» esclamò lo Smilzo. «Pare di essere in un romanzo di quelli all'antica.» «La realtà della vita è il romanzo più antico e moderno del mondo!» sentenziò Peppone. «De Amicis e De Sica sono neoveristi anche se De Amicis è nato in un altro secolo.» Lo Smilzo si allontanò completamente rassicurato; Peppone era diventato un intellettuale: «Non ci sarebbe da meravigliarsi se scrivesse degli articoli su Vie Nuove o su Rinascita» spiegò al Brusco, al Bigio e agli altri dello stato maggiore. «Ci sarà gente che masticherà amaro parecchio.» Uno che aveva già cominciato a masticare amarognolo era don Camillo; don Camillo bruciava dalla voglia di parlare con Peppone, di sentire qualcosa d'inedito, di scandagliare
l'uomo: ma Peppone non gli era mai venuto a tiro. Si capiva che lo sfuggiva deliberatamente e questo esasperava don Camillo. Ma un giorno, finalmente, riuscì a incocciarlo e non fu un caso ma ciò accadde perché don Camillo andò a stanare Peppone proprio nella sua officina. Peppone lo accolse con signorile indifferenza. «In che cosa posso esserle utile, reverendo?» «Passavo di qui» rispose don Camillo. «Volevo sentire come sta il signor sindaco.» «Il signor sindaco non c'è: qui c'è soltanto il fabbro Giuseppe Bottazzi pronipote di quel fabbro Giuseppe Bottazzi che, alcuni secoli fa, introdusse nel paese la razza dei Bottazzi e fu poi decapitato per aver tolto il maltolto a un prete. Nemesi storica!» Don Camillo lo guardò sbalordito. «Nemesi storica? In che senso?» «Nel senso che, questa volta, forse finirà diversamente e il fabbro Giuseppe Bottazzi farà la festa al prete, dopo avergli tolto il maltolto.» «Il maltolto? Ma se ho tanti quattrini come una lepre in viaggio!» «Non si parla di quattrini: voi avete carpito la fiducia di tanta gente. Ve la toglieremo.» La faccenda prendeva una piega spiacevole: ma don Camillo voleva sapere e ingoiò il rospo.
«Sarà quel che sarà, signor sindaco. E l'esame? A quando?» «Quisquilie!» rispose Peppone. «Il vero esame, quello importante, io lo do ogni giorno qui, su questa incudine, su quella morsa. E, ogni giorno, sono promosso.» Don Camillo se ne andò e davanti alla porta c'era la moglie di Peppone. «Siete venuto a invelenirlo?» gli disse aggressiva. «Vi scotta, eh, il fatto di non poter più scrivere sui vostri fogli che mio marito non ha la licenza elementare!» «No» replicò don Camillo. «Comunque, è presto. Lo vedremo alla prova!» Don Camillo tornò a casa cupo. «Gesù» esclamò rivolto al Cristo dell'aitar maggiore «in verità Vi assicuro che quel disgraziato è tanto pieno di boria da meritare d'essere bocciato in tutte le materie!» «Non so, don Camillo: questo non è di mia competenza. Lo dovranno stabilire gli esaminatori. Io non faccio parte della commissione d'esame.» «Dio è presente dappertutto» obiettò don Camillo. «E sarà anche nell'aula scolastica dove quel villanzone dirà le sue stupidaggini.» «Certamente, don Camillo: Dio è dappertutto. È anche qui e adesso ascolta le balordaggini tue.» Don Camillo allargò le braccia desolato: «Da un po' di tempo a questa parte non ne azzecco più una buona!».
* La faccenda dell'esame del sindaco Peppone preoccupò la direzione didattica. Bisognava che tutto funzionasse alla perfezione: nessuno doveva poter trovare un appiglio per insinuare che (se l'esame fosse andato male) ciò era accaduto perché l'esaminato era un capo comunista o che (se l'esame fosse andato bene) ciò era accaduto perché l'esaminato era sindaco e temibile capo comunista. Venne formata una commissione composta dallo stesso direttore didattico e da due insegnanti: un uomo di media età e una rigida e attempata signora chiamati da altro Comune. Peppone era sfavillante: non aveva alcun dubbio. Aveva la matematica sicurezza di superare trionfalmente la prova. E, quando ricevette l'avviso che fissava l'esame per l'indomani, esclamò: «Era ora! Incominciavo ad annoiarmi!». Andò a letto di eccellente umore quella sera. E, il mattino seguente, si levò dal letto d'umore ancor più eccellente. Si mise l'abito della festa, riempì d'inchiostro la stilografica, provò il pennino su un pezzetto di carta e, alle otto, uscì di casa. «Ti accompagno fin davanti alla scuola!» disse la moglie. «Non facciamo stupidaggini!» le rispose Peppone. «Il bambino vuol venire a tutti i costi!» insistè la donna.
«Non rendetemi ridicolo!» esclamò Peppone. «Non fatemi fare la figura dello scolaretto delle elementari! Quei maledetti sono appostati dietro tutte le finestre!» Peppone si avviò solo ma, quando fu arrivato davanti alla scuola, la moglie e il ragazzino erano già lì ad aspettarlo, nascosti dietro la siepe, rossi in viso perché avevano fatto una gran corsa attraverso i campi. E allorché Peppone salì la breve scaletta per entrare lo salutarono agitando la mano. Peppone fece "ciao ciao" con la mano nascosta dietro le spalle. Fu ricevuto con perfetta, gelida cortesia dalla commissione. «Si accomodi» gli disse il direttore. «Ella sosterrà le prove scritte di aritmetica e di comporre. Tenga presente che il tempo a sua disposizione scade alle ore tredici.» Gli misero davanti quattro fogli protocollo timbrati e firmati: due per la brutta e due per la bella copia. «Possiamo incominciare?» domandò il direttore quando vide Peppone sistemato e con la penna in pugno. «Prego» rispose Peppone. «Allora scriva: "Problema. Una comune vasca di cemento a forma di parallelepipedo avente la base di metri 1 per metri 1,50 è alimentata da due rubinetti. Il primo versa litri 30 d'acqua ogni minuto primo, il secondo, versando 20 litri d'acqua al minuto secondo, è in grado di riempire in 30 minuti i 2/5 della vasca. Si chiede: quanto tempo occorre
per riempire la vasca tenendo aperti tutt'e due i rubinetti'? Qual è l'altezza della vasca?".» Peppone scrisse diligentemente e notò che, via via, la mano gli tremava sempre di più. "Ho fatto male a smartellare ieri sera" pensò. "Ho la mano stanca." Il direttore gli disse di cambiare foglio e la vecchia maestra dettò: «Tema. Raccontate un fatto, recente o lontano, che vi è rimasto particolarmente impresso». Peppone scrisse a fatica perché la mano continuava a tremargli sempre di più. Alla fine si passò il fazzoletto sulla fronte gocciolante di sudore. Guardò i due fogli. Rilesse il problema. Parallelepipedo. Che diavoleria era un parallelepipedo? Due minuti prima lo sapeva perfettamente, adesso non ne aveva la più lontana idea. Il rubinetto dei due quinti lo riempì di sgomento: cosa significano i due quinti di un parallelepipedo? E l'altro rubinetto che intanto continuava a versare acqua? Aveva la testa vuota. Rilesse il tema. Un fatto? Che fatti gli erano successi? Cos'è un fatto? Come si racconta un fatto? Ripensò alle lezioni della scuola serale: cercò di ripescare nella memoria espressioni udite in quei tre mesi e mezzo. Neppure una parola. Pensò a sua moglie e al suo ragazzo che l'avevano accompagnato, dietro la siepe, e sentì stringersi il cuore.
Al tavolo in fondo alla stanza, erano seduti i tre esaminatori: immobili e silenziosi come fossero di marmo. Si asciugò ancora il sudore della fronte. L'orologio del campanile suonò le dieci. Era una cosa spaventosa: guardò fuori dalla finestra per sincerarsi di non avere udito male. L'orologio del campanile segnava le dieci. E le dieci segnava l'orologio dell'aula. Aveva appena finito di scrivere e già era passata un'ora e mezzo! E i due maledetti rubinetti continuavano a versare acqua nello stramaledetto parallelepipedo. * Arrivò in canonica la vecchia bidella con le notizie. «Reverendo, l'ho visto io coi miei occhi! È un'ora e mezzo che sta guardando i fogli bianchi e suda. Suda come se avesse la febbre a quaranta. Non ha ancora scritto una sola parola!» Don Camillo ascoltò soddisfatto la relazione. «Ecco dove va a finire la boria!» esclamò. «Pare uno scolaretto di otto anni!» raccontò la vecchia. «È venuto da solo per la strada, però s'è fatto accompagnare da sua moglie e dal suo ragazzo. La donna e il ragazzo camminavano dietro la siepe. Poi si sono salutati quando lui è entrato. Gli hanno fatto "ciao ciao" con la manina, povero cocco!»
La bidella se ne andò dicendo che sarebbe ritornata fra poco. Riapparve alle undici ancora più agitata. «Siamo allo stesso punto» ansimò. «Continua a sudare e a guardare i fogli. Fra due ore scade il termine. Sua moglie e suo figlio sono sempre lì, dietro la siepe. Lei ha già mangiato un fazzoletto! Reverendo: mi piacerebbe se lo vedeste, quel bullo, a cosa è ridotto!» Don Camillo pensò che aveva il sacrosanto diritto di vedere il bullo umiliato. * Undici e mezzo: suonarono i due tocchi al campanile e Peppone pensò che gli rimanevano soltanto un'ora e mezzo. In quel momento la bidella venne a chiamare il direttore. Il direttore uscì nel corridoio e si trovò davanti a don Camillo. «Mi scusi» disse don Camillo «ma anche se gioca allo scolaretto, il sindaco è sempre il sindaco e c'è qui una disgraziata che probabilmente muore se il sindaco non mette il nulla osta per l'immediato ricovero all'ospedale della città.» Don Camillo porse al direttore un foglio protocollo: «Mi faccia la carità: glielo consegni lei». «Ciò non è regolare» balbettò il direttore. «D'accordo, direttore, però è ancora meno regolare il fatto che, per salvare la regolarità di un esame di quinta, una
povera donna ci rimetta la vita. E poi non credo che ciò confonderà le idee allo scolaretto…» Il direttore si strinse nelle spalle: «Reverendo» gli disse sottovoce «le assicuro che è una cosa impressionante. Non ha fatto che sudare. Come esame di sudore è straordinario!». Don Camillo sorrise: «Tutti così questi scolaretti: fuori fanno gli spavaldi e poi in classe…». Il direttore prese il foglio e si avviò per rientrare. Poi cambiò idea: «Glielo mando qui così lei gli consegna personalmente il foglio. Magari lascio aperta la porta, intanto». Don Camillo vide lo sfacelo di Peppone e attese a piè fermo. Peppone, quando il direttore gli ebbe spiegato di che cosa si trattava, si levò lentamente e uscì nel corridoio. «Mi scusi signor sindaco» gli spiegò don Camillo «ma la cosa è eccezionalmente urgente.» Peppone prese il foglio e lesse: «La sottoscritta Pateri Angiolina, vedova e senza alcun sostentamento, fa presente quanto segue…». «Le ho già detto che non posso fare niente per la Pateri» rispose Peppone restituendo il foglio a don Camillo. «Questo esposto l'ho già avuto tra le mani quindici giorni fa.» «Quindici giorni fa la cosa era diversa!» replicò con vivacità don Camillo. «Abbia la cortesia di leggere qui: questo
è il parere del medico condotto avallato da firma autentica e da timbro!» Il direttore intervenne: «Signor sindaco, è logico che, trattandosi di cosa veramente eccezionale, il tempo che lei ora impiega per interessarsi di questa povera donna le sarà aggiunto: la commissione ha verbalizzato l'ora precisa in cui lei è stato chiamato fuori dall'aula». «Grazie» disse don Camillo. «Non vorrei avere in coscienza il mancato perfezionamento di qualche capolavoro letterario o di qualche ardita esercitazione aritmetica.» Peppone strinse i denti e guardò con odio don Camillo. «Prego, signor sindaco, si affretti.» Peppone riaprì il foglio, cercò nell'altra pagina il bollo e la dichiarazione del dottore e lesse: «Il sottoscritto attesta che la Pateri Angiolina è in condizioni disperate e deve essere ricoverata immediatamente per l'intervento chirurgico, tu vai al gabinetto fra una decina di minuti». Peppone rilesse le ultime righe temendo di aver capito male. Ma effettivamente c'era scritto così. Allora guardò don Camillo e domandò: «E perché?». «Se lo dice il medico significa che si deve fare così» replicò don Camillo. «Firmi, per favore.» Peppone firmò e restituì il foglio rientrando nell'aula. Quando si sedette la commissione prese nota dell'ora precisa.
Don Camillo ringraziò il direttore poi sottovoce, gli disse: «Pare un po' scemo però non lo è. È una intelligenza vivace ma a scoppio ritardato». «Molto ritardato, reverendo!» ridacchiò discretamente il direttore. Passò qualche tempo senza che niente di nuovo accadesse: poi, d'un tratto, Peppone alzò la mano destra e mostrò l'indice e il medio. «Si accomodi pure» gli disse il direttore. «Se vuol fumare una sigaretta lo faccia: noi le sconteremo anche questi minuti.» Peppone marciò con passo malfermo verso i gabinetti che erano in fondo al lunghissimo androne. Il corridoietto, ai lati del quale si aprivano i camerini, dava con una finestra su un orto incolto dalla parte dei campi. «Pss!» Peppone incollò il viso all'inferriata. Sotto la finestra c'era un mucchio di paglia e sterpaglia e il sibilo veniva proprio di lì. «Spicciati disgraziato! Accendi il sigaro e fai finta di niente! Presto, il problema!» Peppone incominciò a fumare e a parlare, fra sbuffo e sbuffo, con un angolo della bocca. «Parallelepipedo, vasca, metri uno per uno e mezzo.» «Dove?» s'informò sommessamente il mucchio di sterpaglia.
«Base. Due rubinetti. Uno trenta litri al minuto. Altro 20 al secondo però in 30 minuti riempie due quinti vasca.» «Cosa si vuol sapere?» «Quanti minuti riempire con tutt'e due i rubinetti. Quanto altezza parallelepipedo.» «Asino!» rispose il mucchio di sterpaglie. «Problema da ragazzino.» Poi gli spiegò rapidamente la faccenda e concluse: «Capito?». «No. Però adesso che lo so ci penserò.» «Fila!» Peppone ebbe un sussulto: «Il tema!». «Com'è?» «Raccontate fatto lontano o vicino che vi è rimasto maggiormente impresso.» «Arrangiati! Cosa ne so io dei fatti tuoi?» «Non mi ricordo più niente di quel che mi è successo. Cosa racconto?» Il mucchio di sterpaglia gli consigliò un argomento e Peppone rientrò in aula. Rimase a pensare intensamente su quel che gli aveva detto il mucchio di sterpaglia e, trovato il bandolo della matassa, incominciò a ragionare per iscritto il problema. Poi si buttò sul tema e prese a raccontare il fatto consigliatogli dal mucchio di sterpaglia. Sudava come prima ma adesso era un
altro sudare. E la mano gli tremava ancora, ma era un altro tremito. La voce del direttore lo riscosse: «La avverto che, pure abbuonandole dieci minuti per la prima interruzione e dieci per la seconda, lei ha ancora a sua disposizione venti minuti soltanto». Lo sgomento riprese Peppone: venti minuti per mettere in bella copia tema e problema? Si guardò attorno come per cercare un aiuto e il suo occhio cadde sull'orologio del campanile. «Non è ancora l'una» esclamò. «Mancano quasi venti minuti!» La commissione notò che l'orologio dell'aula segnava invece l'una. «Mi scusino» disse Peppone con energia «ma io sono entrato con quello e sarebbe giusto che uscissi con quello.» «Perfettamente» approvò il direttore che cercava soprattutto di non avere grane. Peppone ricopiò il problema poi si buttò sul componimento e, quando l'orologio del campanile segnò le tredici e diciotto minuti, consegnò tutto. Don Camillo, col binocolo, era di vedetta nella cella campanaria e appena vide apparire sulla scaletta della scuola Peppone andò al piano di sotto a rimettere in sesto la macchina dell'orologio.
«Adesso cerca di ricuperare piano piano i venti minuti che ti ho fatto perdere» disse don Camillo alla macchina dell'orologio. Tornò su a esplorare col binocolo e vide Peppone saltare la siepe e avviarsi verso casa per i campi assieme a sua moglie e al suo ragazzo. «Porca famiglia di disgraziati!» borbottò don Camillo. «Vi voglio vedere domani, agli orali, se trovate un disonesto che vi aiuta a farla franca come oggi!» Ma l'indomani Peppone se la cavò benissimo da solo e, alla fine, la vecchia e arcigna commissaria non potè fare a meno di dirgli: «Permetta che io mi compiaccia: ella, oltre a essere perfettamente preparato, ha dimostrato col suo componimento di possedere un animo di straordinaria gentilezza e sensibilità». Direttore e commissario si dichiararono solidali con la collega. E Peppone uscì trionfante e, questa volta, tornò ancora a casa con la moglie e il ragazzino, ma non attraverso i campi. Per la strada, con aria solenne e altera. Ma quando vide, sul sagrato, don Camillo seduto sulla solita panchina a fumare il mezzo toscano, si staccò un momentino dai suoi e marciò deciso verso don Camillo. «Promosso lo scolaretto?» si informò don Camillo. «Promosso» rispose cupo Peppone. «Però voi siete stato il solito vigliacco a propormi come argomento del tema la
descrizione del giorno della mia Prima Comunione! Avete approfittato di un uomo indifeso.» «Certo è un bel guaio» riconobbe don Camillo «perché, quando verrà Stalin, quel componimento salterà fuori e andrà nella tua scheda e tu sarai finito per sempre. La febbre della cultura ti ha rovinato, compagno sindaco.» * Passando davanti all'aitar maggiore, don Camillo fu bloccato dalla voce del Cristo: «Dove sei stato, ieri mattina, don Camillo, che non t'ho visto per tanto tempo?». «Gesù» gemette don Camillo «Vi prego, soprassediamo per il momento. Poi faremo tutto un conto e quel che ci sarà da pagare pagherò.» Il Cristo sospirò: «Sei vergognosamente fortunato, don Camillo: poi vedrai che, anche allora, troverai Chi, invece di farti pagare, ti farà ancora credito». «Rimetti a noi i nostri debiti siccome noi li rimettiamo ai nostri debitori» disse don Camillo allargando le braccia. Poi gli venne in mente la moglie di Peppone e il ragazzino che avevano aspettato lo scolaretto nascosti dietro la siepe e affermò deciso: «Gesù, io l'ho fatto per loro due!». «Per loro tre» rettificò il Cristo con dolcezza.
«Be', uno più, uno meno, in fondo è la stessa cosa» concluse don Camillo.
169 DUE COMIZI «Gesù» disse don Camillo «oggi è la nostra grande giornata!» Il Cristo parve stupito. «E perché, don Camillo?» «Gesù, c'è scritto a caratteri grossi così sui manifesti appiccicati a tutti i muri del paese e dei paesi vicini. Oggi in piazza parlerà l'onorevole Betiò.» «E chi sarebbe questo Betiò?» «Gesù» esclamò don Camillo «ma è uno degli esponenti più importanti del nostro partito.» Il Cristo parve ancor più stupito: «Noi siamo iscritti a un partito? E da quando?» Don Camillo scosse il capo sorridendo: «Gesù, non mi sono espresso bene. Dicevo "nostro partito" per indicare il partito che ci sostiene». Il Cristo sospirò: «È triste, don Camillo! Avere un partito che ci aiuta nel difficile compito di tener in ordine l'universo, e non saperlo neppure! Non abbiamo più l'onniscienza di un tempo, don Camillo. Dio invecchia…». Don Camillo abbassò il capo pieno d'umiliazione.
«Gesù, la mia lingua ha travisato il mio pensiero: parlando di "nostro partito" era mia intenzione indicare il partito che riunisce tutti i buoni cristiani, quelli che si stringono attorno alla Chiesa per difenderla da chi la insidia e la vorrebbe distruggere per far trionfare l'Anticristo! Questi buoni cristiani non hanno certamente la presunzione di aiutare Dio a governare l'universo!» Il Cristo sorrise: «Non ti angustiare, don Camillo: io leggo nel tuo cuore come in un libro aperto e non ti giudico dalle tue parole. Dimmi piuttosto: questo partito che raccoglie i buoni cristiani è molto importante? Quante anime raccoglie?». Don Camillo rispose che il partito era assai importante e diede il numero approssimativo degli iscritti. «Ohimè» sospirò il Cristo «i buoni cristiani sono ben pochi a confronto dei cattivi!» Don Camillo spiegò che, oltre agli iscritti, esistevano i simpatizzanti. «Sempre terribilmente pochi» esclamò il Cristo. «Gli onesti, i giusti, sono una sparuta minoranza al confronto dei disonesti, dei non giusti che appartengono agli altri partiti o che simpatizzano per gli altri partiti! Tristissima notizia tu mi dai, don Camillo! Io mi illudevo che i giusti e gli onesti fossero assai di più. Comunque consoliamoci; l'idea di raggruppare tutti i buoni cristiani in una unica organizzazione facilita molto il nostro compito: gli iscritti al partito dei giusti li manderemo in Paradiso, i simpatizzanti al Purgatorio e
tutti gli altri li manderemo all'Inferno. Dovresti farmi avere la nota precisa.» Don Camillo allargò le braccia: «Gesù» mormorò tristemente «ho detto troppe sciocchezze: punitemi!». «No» rispose con dolcezza il Cristo «io non bado alle parole ma alle intenzioni. La tua lingua ti ha tradito, il tuo cuore no. Sorveglia la tua lingua, don Camillo, talvolta essa ti porta fuori strada.» Don Camillo rasserenato ringraziò il Cristo e andò in giro per il paese. Ogni cosa si svolgeva con piena regolarità: le autocorriere continuavano a portar gente da ogni parte e la grande piazza andava rapidamente gremendosi. «Tutto il merito è della eccellente organizzazione!» disse qualcuno alle spalle di don Camillo. Don Camillo si volse e trovò quel che sapeva di trovare: Peppone con lo Smilzo, il Brusco e gli altri tre o quattro dello stato maggiore. «Parlava con me il signor sindaco?» si informò don Camillo. «No, reverendo» rispose sorridendo Peppone «parlavo con lo Smilzo. Gli stavo dicendo che il merito della riuscita dell'adunata va tutto alla eccellente organizzazione del servizio postale. Senza un buon servizio postale, le cartoline rosa non danno nessun frutto.» Don Camillo tolse il mezzo toscano di bocca e scosse col mignolo la cenere.
«Creda, signor sindaco» rispose con aria assai cordiale «il perfetto funzionamento del servizio postale non è tutto. Perché si dà il caso spesso di organizzazioni che, pur inviando migliaia di cartoline rosa regolarmente recapitate, non riescano a racimolare più di duecentoventisette persone.» Peppone strinse i denti: l'ultima adunata, quella per la festa della pace, si era risolta in un completo fallimento perché gli intervenuti eran stati esattamente duecentoventisette. «Non sono d'accordo con lei, reverendo» ribatté Peppone «nel particolare della sproporzione fra gli inviti e gli intervenuti. Gli intervenuti si possono contare, ma come si fa a sapere quante persone sono state invitate?» Don Camillo frugò nella sua tonaca e cavò fuori un libriccino di note. «È facile» disse «basta guardare qui: duemilanovecentocinquantasette.» Peppone si volse al suo stato maggiore: «Ecco» gridò indignato «ecco come viene tutelato il segreto epistolare!». «Grazie per la conferma che il numero è esatto» disse don Camillo. «Esatto un corno!» urlò Peppone. «Non erano duemilanovecentocinquantasette! Ne abbiamo spedite duecentotrenta!» Don Camillo ripose il libretto. «Meglio così: ciò significa che il segreto epistolare non è stato tradito e che l'informazione anonima arrivatami è
frutto di pura fantasia. In quanto a noi, comunque, non abbiamo niente da nascondere. Niente di segreto: gli inviti diramati sono esattamente duemilaquattrocentosette.» «Seimilanovecentoquarantatré!» urlò Peppone. Don Camillo lo guardò con aria preoccupata: «Signor sindaco, qui i casi sono due: o il segreto epistolare è stato tradito, oppure lei racconta una bugia». Peppone diventò pallido: c'era cascato come un ragazzino. «Ho sentito dire in giro una cifra di questo genere» borbottò «e mi sono limitato a riferirla.» «Me l'immaginavo!» si rallegrò don Camillo. «Sono stati diramati infatti duemilaquattrocentosette inviti, come le dicevo poco fa. E creda pure che è una soddisfazione grossa vedere che gli intervenuti sono già circa il triplo delle persone convocate. E non è ancora finita!» Peppone si volse bruscamente per andarsene; don Camillo lo richiamò e gli mostrò un foglietto ciclostilato: «Mi è capitato per caso tra le mani» gli spiegò don Camillo. «È una copia della circolare inviata per la manifestazione d'oggi. Visto che il suo tipo di circolare non funziona più, se vuole gliela lascio copiare… Io credo che il segreto sia nella intestazione: se invece di Partito comunista, ci mettesse quest'altra intestazione sono sicuro che lei avrebbe dei risultati assai migliori.» Peppone lo lasciò parlare senza aprir bocca. La bocca l'aprì quando don Camillo gli mise sotto il naso il foglietto: e
l'aprì per strappare con una morsicata rabbiosa un lembo del foglio. «Farò un esposto al Comune!» esclamò indignato don Camillo. «Non è ammesso che si lasci girare un sindaco senza museruola.» «Non è ancora nato il tipo capace di mettermi la museruola!» ruggì Peppone. «Guarda meglio nei registri dello stato civile» ribatté don Camillo: «è nato nel tuo stesso anno e si chiama Camillo.» Lo stato maggiore agguantò Peppone e lo trascinò via. * La piazza era zeppa come un uovo e, quando l'onorevole apparve sulla tribuna, fu accolto da un applauso che pareva un temporale. Incominciò a parlare della situazione politica in generale, poi passò a precisare la posizione dei vari partiti. Arrivato a parlare del partito monarchico, diventò veemente e gridò: «In quanto ai savoiardi, in quanto a coloro che vorrebbero turbare l'ordine democratico instaurato dalla repubblica per imporci ancora la monarchia che già tradì il popolo, sappiano che il popolo…». Ma dovette interrompersi perché, proprio in quel momento, incominciarono a piovere giù dal cielo le saltellanti note della Marcia reale.
L'oratore incominciò a urlare contro la provocazione e i provocatori, ma la musica continuava imperterrita. La massa, inviperita, prese a rumoreggiare. Qualcuno attaccò Fratelli d'Italia, altri si misero a cantare in coro l'inno del partito, e ne saltò fuori un putiferio maledetto, che rendeva difficile l'identificazione della finestra dalla quale proveniva la provocazione. Si trattava d'una finestra al terzo piano della casa alla quale era appoggiata proprio la tribuna dell'oratore: una vera pugnalata alle spalle della repubblica, come la definì l'onorevole Betiò, intransigente repubblicano. Identificata la finestra, il maresciallo dei carabinieri corse su per le scale alla ricerca della porta corrispondente. La trovò, ma era talmente solida e talmente chiusa che, dopo aver tentato invano di indurre l'inquilino incriminato ad aprire, risolse di mandar a chiamare un fabbro. Si volse e il fabbro era lì pronto, perché Peppone, superato in qualità di sindaco facilmente lo sbarramento che il maresciallo aveva posto davanti al portone della casa per impedire che la giustizia popolare si sostituisse alla giustizia dello Stato, era salito assieme allo Smilzo. «Per favore» gli gridò eccitato il maresciallo «mi apra quella porta!» «Come sindaco o come fabbro?» si informò Peppone. «Come fabbro.» Mentre il dannato che stava al riparo di quella formidabile porta blindata continuava imperterrito a far girare sul ra-
diogrammofono il disco della Marcia reale, lo Smilzo partì verso l'officina di Peppone per prendere gli arnesi adatti. Ci mise un sacco di tempo per via della gente che gremiva la piazza. Ma, finalmente, ritornò. Peppone si tolse la giacca e si appressò alla porta e rimase lì davanti a gingillarsi con gli arnesi portatigli dallo Smilzo. «Perché non comincia?» gridò il maresciallo. «Il fabbro sta discutendo col sindaco» spiegò Peppone. «Non riescono a mettersi d'accordo.» «Signor sindaco» rispose a denti stretti il maresciallo «dica al fabbro che, se non si spiccia, avrà delle grane col maresciallo.» Peppone si mise all'opera e si diede a scardinare la porta, mentre il radiogrammofono continuava imperterrito a suonare il disco della provocazione. Finalmente la formidabile porta fu divelta e il maresciallo potè entrare. Quando però si trovò alla presenza del ribelle, la rabbia che fino a quel momento gli aveva rosicchiato il fegato divenne una irritazione costretta nei limiti precisi della legalità. Perché, visto così da vicino, il signor Mavelli di anni ottanta, colonnello in pensione, non aveva proprio niente del bandito convenzionale. «Fermi la macchina, mi consegni quel disco e venga con me!» ordinò il maresciallo. Il vecchio Mavelli fermò la macchina e, toltone il disco, lo spezzò sul ginocchio come fosse una spada.
Poi consegnò il disco spezzato al maresciallo e con voce fiera e imperiosa da colonnello in servizio permanente effettivo disse: «Maresciallo, fate il vostro dovere». Il povero maresciallo, davanti a quella inaspettata riesumazione dei fasti del Risorgimento, si impappinò e credette che il suo dovere fosse quello di scattare sull'attenti. Sbagliò, ma fino a un certo punto. Comunque si riprese e disse al vecchio Mavelli di rimaner piantonato lì a disposizione della giustizia. Peppone, prima di scendere, ebbe modo di comunicare al ribelle: «Come sindaco ho ordinato al fabbro di buttarvi giù la porta per evitargli grane col maresciallo. Come fabbro ordinerò al sindaco di farvi accomodare la porta dal fabbro». * Don Camillo era indignato: «Gesù» disse al Cristo dell'aitar maggiore «ecco una magnifica manifestazione rovinata da un vecchio imbecille. Io non riesco a capire: come gli è venuta in mente la pagliacciata di suonare il disco per fare il contraddittorio?». «Non saprei» rispose il Cristo. «Che gli abbia suggerito l'idea quel tizio che, per fare il contraddittorio a Peppone, gli ha suonato l'anno scorso il disco del Piave? O quell'altro ti-
zio che, per dar sulla voce al commissario rosso venuto dalla città a tenere un comizio, si è messo a suonare le campane?» Don Camillo si inchinò e poi si avviò verso la sagrestia. «Chi semina vento raccoglie tempesta» lo ammonì il Cristo. * Era logico che Peppone si prendesse la rivincita e studiò il sistema di prendere due piccioni con una fava. Preparò un grandioso comizio e volle che, come oratore, venisse designato lo stesso che era venuto a parlare per la vittoria riportata dai «rossi» nelle amministrative e che don Camillo aveva zittito suonando le campane. «Voglio un'adunata storica!» ordinò Peppone. «Voglio schiacciarli! Polverizzarli!» Lavorò per un mese intero e, finalmente, arrivò il gran giorno. Il discorso era fissato per le quattro del pomeriggio, ma, alle tre, già la piazza rigurgitava. Alle tre e mezzo don Camillo entrò in agitazione e cominciò a camminare nervosamente in su e in giù per la chiesa deserta. Finalmente si fermò davanti all'altare: «Gesù» disse «non potrei andare un momentino alla finestra per dare un'occhiata?». «Certamente» rispose il Cristo. «Ma che io ne sappia, eccettuato il rosone sopra il portale d'ingresso della chiesa, tu non hai finestre che guardino in piazza.»
«In verità» precisò don Camillo «una finestra ci sarebbe. Ma bisognerebbe salire fin sopra il campanile.» «Non credo sia il caso» affermò il Cristo. «Anche perché lassù soffia un'arietta molto fresca.» «Per questo sono ben coperto» lo rassicurò don Camillo. «Capisco, don Camillo: ma mi dispiacerebbe che succedesse come l'altra volta e che ti venisse voglia di metterti a suonare le campane proprio mentre l'oratore parla.» Don Camillo allargò le braccia: «Errare humanum est, diabolicum perseverare!». «Speriamo che tu non te lo dimentichi lungo le scale.» «Ho buona memoria» disse don Camillo. Don Camillo arrivò ansimante in cima al campanile e, quando fu lassù, era logico che si facesse vento col suo grande fazzoletto bianco. Ed era logico che, quando Peppone, dalla tribuna, vide sventolare quel fazzoletto, diventasse smorto. «È appostato lassù come l'altra volta!» gli disse l'oratore venuto dalla città. «Voglio sperare che avrai predisposto le cose in modo che la porcheria delle campane non si ripeta.» Peppone gli parlò sottovoce nell'orecchio: «Stai tranquillo, compagno: nel penultimo ripiano della torre, sotto la cella campanaria, sono nascosti da ieri sera due ragazzi in gambissima. Se incomincia con la solita solfa, non credo che la cosa durerà molto». Tutti, nella piazza, s'erano accorti che don Camillo stava sul campanile e la massa era piena di nervosismo.
All'ora convenuta, Peppone prese la parola e diede il benvenuto al compagno inviato dalla federazione. Si impappinò perché la presenza di don Camillo lassù gli dava un fastidio tremendo. Quando passò il microfono all'oratore, sudava. «Compagni!» disse l'oratore. «È la seconda volta che io mi presento a voi su questa tribuna e per la seconda volta io vedo i corvi della reazione appollaiati nei loro aerei nidi, pronti a rattristare il cielo azzurro col battere delle loro lugubri ali nere!…» Peppone guardò in su. Ma il corvo della reazione era sempre là tranquillo e continuava a farsi vento col suo enorme fazzoletto bianco. «Compagni» continuò l'oratore imbaldanzito dal silenzio dell'avversario «oggi il cielo di ogni paese è solcato da neri corvi e difficile è la vita per la candida colomba della pace…» Tutti guardarono in su ma non videro né corvi né colombe. Videro invece un aeroplano che scendeva volteggiando e, arrivato a bassissima quota, sorvolava la piazza sganciando sulla gente dei piccoli paracadute che si aprivano e scendevano volteggiando. Ci fu un po' d'agitazione perché ognuno voleva agguantare quegli arnesi piovuti dal cielo. E l'agitazione crebbe quando ci si accorse che al paracadute erano agganciati salami, scatole di frutta sciroppata e di carne, cioccolata, sigarette.
Era tutta roba americana (eccettuati i salami e le sigarette) e l'oratore incominciò a spiegare il significato offensivo e provocatorio del lancio compiuto dall'aereo, ma dovette interrompersi perché l'aereo era già di ritorno. Il secondo lancio ebbe ancora più successo del primo e la confusione fu grande. E crebbe quando l'aereo, compiuta una elegante virata, passò per la terza volta sulla piazza. Stavolta non calcolò bene il tempo e l'ottanta per cento della roba cadde nella strada che dalla piazza portava verso i campi. La gente si incanalò nella strada e l'aereo, ritornato indietro, ripetè il lancio che cadde tutto sulla strada e uscì fin fuori dal paese. La manovra si ripetè e il senso era chiaro: portar la gente fuori dalla piazza. Manovra che riuscì alla perfezione perché, a un bel momento, sulla piazza si trovarono soltanto: la tribuna con a bordo Peppone e l'oratore della federazione. E deserti erano i portici, e deserte le case perché gli aerei della cuccagna (infatti risultarono due) avevano stanato fuori dalle case tutta la gente spingendola a corsa pazza attraverso i campi. Peppone schiumava rabbia: quando ritrovò l'uso della parola, si volse verso l'alto del campanile e, mostrando il pugno a don Camillo che placidamente si godeva lo spettacolo, si appressò il microfono alla bocca e urlò: «Questo è banditismo politico! Venite giù se avete il coraggio, cornacchione maledetto!».
Don Camillo, più che scendere, volò giù e, pochi istanti dopo, era in piazza piantato a gambe larghe davanti alla tribuna. «Adesso vieni giù tu, se hai il coraggio» gridò don Camillo a Peppone. Ma l'oratore della federazione gli si era aggrappato e non lo mollava: «Non scendere, compagno! È un provocatore! Lo fa per mettere nei guai il Partito! Ti ordino di non scendere». Peppone digrignò i denti. «Venite su voi se avete il coraggio!» gridò mentre invano il compagno cercava di chiudergli la bocca. Don Camillo si rimboccò le maniche e salì sulla tribuna. Oramai erano fuori dalla grazia di Dio tutt'e due e si scagliarono l'uno contro l'altro invano trattenuti dall'oratore della federazione che si era messo in mezzo. Il primo cazzotto lo sparò Peppone e colpì l'oratore sul versante sinistro della zucca. Don Camillo fulmineo rispose fulminando l'oratore sul versante destro della zucca. Il disgraziato piombò giù come uno straccio e si afflosciò sul pavimento del palco. Peppone e don Camillo si guardarono sbalorditi in faccia. Poi don Camillo allargò le braccia e sospirò: «Cosa vuoi farci: quello, tutte le volte che viene qui, è destinato a prendere una suonata».
Don Camillo ritornò lentamente alla base e cercò di sgattaiolare davanti all'altare, ma il Cristo lo richiamò: «Don Camillo, dove vai?». «Gesù» rispose don Camillo «a mezzogiorno non ho toccato cibo e adesso ho una fame da lupo: vado a letto senza cena. Così non riuscirò a chiudere occhio e avrò tempo e modo di ripensare alla stupidaggine che ho commesso.»
170 MARTELLI L' aria si andava scaldando sempre di più perché le vacanze politiche erano finite e i «rossi» avevano ricominciato con la polemica aggressiva, ma don Camillo si manteneva quanto mai sereno e tranquillo. Però, il giorno in cui lesse sul giornale murale della Casa del Popolo il commento che Peppone aveva fatto all'ultimo discorso del Papa, don Camillo perdette la calma e, dal pulpito, disse liberamente tutto quello che pensava di Peppone e della sua banda di scatenati. In verità, non doveva pensarne troppo bene perché Peppone, appena gli ebbero riferito il sermone di don Camillo, balzò fuori dalla Casa del Popolo e marciò sulla canonica col fermo e preciso intento di «far fuori una buona volta quel maledetto prete». Ma in canonica non trovò nessun prete da far fuori per la semplice ragione che don Camillo se ne stava in chiesa, sullo stesso pulpito dal quale poco prima aveva tuonato contro i senzadio, e, armato di un grosso martello e d'uno scalpello, si dava da fare per praticare un buco nella colonna di pietra cui era appoggiato il pergamo.
Durante il suo veemente sermone don Camillo s'era agitato parecchio e aveva avvertito più d'una volta nel vecchio legno del pergamo degli scricchiolii preoccupanti: così, adesso, s'arrabattava a scavare la sede per una solida zanca di ferro che, murata nella colonna e poi avvitata al parapetto del pulpito, avrebbe eliminato il pericolo di un crollo. Peppone bussò furiosamente alla porta della canonica e, non ottenendo alcuna risposta, stava per tornarsene alla base, ma lo smartellamento che veniva dalla chiesa gli fece mutar parere. La porta della chiesa era chiusa, chiusa era la porticina del campanile. Però la finestrella della cappelletta di Sant'Antonio Abate era aperta: Peppone, girando attorno alla chiesa, se ne accorse e, tirata su una piletta di mattoni e sassi, andò a curiosare a quella finestrella. Il pulpito era dall'altra parte della navata centrale, proprio di faccia alla cappelletta di Sant'Antonio Abate, e Peppone vide subito chi fosse lo smartellatore notturno e l'ira gli tornò ancor più rabbiosa di prima. «Reverendo, state tirando giù la chiesa?» Don Camillo si volse di scatto e, aiutato dalla luce del cero che ardeva davanti all'immagine di Sant'Antonio Abate, riconobbe Peppone. «Io no: qualcun altro tenta di tirar giù la Chiesa» rispose don Camillo. «Però non c'è niente da fare. Costruzione solida.»
«Non fidatevi troppo» ammonì Peppone, «Solida che sia, non riuscirà mai a coprire le spalle dei disonesti che vi si nascondono per insultare i galantuomini.» «Giustissimo» replicò don Camillo. «Niente salverà il disonesto che insulta il galantuomo, però qui dentro non ci sono disonesti.» «Ci siete voi!» gridò Peppone. «E valete per cento disonesti!» Don Camillo strinse i denti e resistette. Ma l'altro, oramai, era lanciato ed esagerò. «Voi, pretaccio falso e vigliacco!» urlò Peppone. Allora don Camillo perdette il controllo, e trovandosi tra le mani il grosso martello, lo scagliò contro la finestrella. La mira era terribilmente esatta ma Dio volle che un colpo di vento facesse oscillare una lampada portandola a interferire nella traiettoria del proiettile. Il martello frantumò la lampada e, deviando, andò a spegnere la sua furia omicida contro il muro della cappelletta di Sant'Antonio, a venti centimetri dallo spigolo destro della finestrella. Peppone scomparve e don Camillo rimase sul pergamo, immobile, coi denti stretti e tutti i nervi tesi. Poi si riscosse e scese andandosi a confidare col Cristo dell'aitar maggiore. «Gesù» disse ansimando «avete visto! Mi ha provocato, mi ha insultato. La colpa non è mia.» Il Cristo non rispose.
«Gesù» disse ancora don Camillo «egli mi ha ingiuriato qui, in chiesa…» Ma il Cristo rimase muto. Don Camillo si alzò e prese a camminare pieno d'agitazione in su e in giù. E ogni tanto si volgeva sgomento perché sentiva due occhi fissarlo. Andò a controllare la porta grande della chiesa e la porticina del campanile: erano chiuse col catenaccio. Guardò dappertutto, dentro i confessionali, dietro le colonne. Non trovò niente di niente: ma don Camillo era sicuro che qualcuno stava in chiesa e lo spiava. Si asciugò il sudore che gli allagava la faccia. «Gesù» ansimò «aiutatemi… Qualcuno mi guarda… Qualcuno è qui, e io non lo vedo ma c'è perché io sento i suoi occhi…» Si volse di scatto perché gli pareva di sentire sulla nuca l'alito dello sconosciuto. Non trovò che l'aria deserta della chiesa semibuia ma ciò non lo rassicurò. Aperse il cancelletto e passò oltre la balaustra rifugiandosi sui gradini dell'altare. «Gesù» gridò con voce piena d'angoscia. «Proteggetemi!… Ho paura!» Tenendo le spalle addossate all'altare, girò lentamente lo sguardo attorno e, a un tratto, ebbe un sussulto: «Gli occhi!».
Gli occhi dello sconosciuto erano là, annidati nell'ombra della cappelletta di Sant'Antonio Abate. Erano là e lo fissavano. Non aveva mai visto due occhi così. Il sangue gli si gelò poi, d'improvviso, gli riprese a circolare bollente e tumultuoso nelle vene: don Camillo strinse i pugni e prese ad avanzare lento e implacabile verso quegli occhi. Poi, quando fu davanti alla cappelletta di Sant'Antonio Abate, protese le mani in avanti, pronto ad artigliare con le dita lo sconosciuto nascosto nell'ombra. Avanzò un passo, due passi, tre passi: e, quando gli parve che lo sconosciuto fosse lì, a pochi centimetri da lui, si avventò. Ma le sue unghie graffiarono il muro. E gli occhi continuarono a fissarlo. Don Camillo agguantò di sopra l'altare il cero acceso e lo avvicinò agli occhi allucinanti. In fondo non c'era niente di misterioso: il martello scagliato da don Camillo e poi deviato dalla lampada fatta oscillare dalla Divina Provvidenza aveva pestato un gran colpo contro il muro e una larga patacca d'intonaco era caduta. Ed era venuto alla luce un pezzetto dell'affresco che, temporibus illis, decorava la cappelletta e che era stato coperto con nuovo intonaco quando chi sa mai qual parroco aveva deciso di aprire una finestrella nel muro della cappelletta.
Don Camillo con l'unghia staccò altri pezzi d'intonaco allargando quella finestrella aperta dal martello su secoli passati e apparve il viso di color bruno e il ghigno beffardo di un demonio. Una ingenua rappresentazione dell'Inferno? Una ingenua raffigurazione della tentazione? Don Camillo non era in grado di tentare nessuna indagine: lo interessavano soltanto quei diabolici occhi che continuavano a fissarlo. Muovendo il piede, sentì qualcosa e, chinatosi, scoperse sul pavimento, in mezzo ai calcinacci, proprio sotto la figura del demonio, il martello maledetto. L'orologio del campanile suonò le ventidue. "Tardi!" pensò don Camillo. Poi pensò: "Non è mai troppo presto per umiliarsi" e uscì dalla chiesa. Camminò rapidamente nella notte: oramai tutte le finestre delle case erano spente. Ma quella dell'officina di Peppone era ancora illuminata. Don Camillo si appressò e si abbrancò con le mani all'infernata. Anche le imposte a vetri erano aperte e si sentiva l'ansimare di Peppone intento a piegare a martellate una spranga rovente. «Mi dispiace» disse don Camillo. Peppone ebbe un sussulto ma si riprese subito e continuò a battere la sua spranga senza levare il capo.
«Mi hai colto all'improvviso» continuò don Camillo. «Avevo i nervi tesi… Quando me ne sono accorto, il martello era già partito.» Peppone ghignò: «Voi avete un'intelligenza a scoppio ritardato, reverendo. Vi accorgete delle vostre mascalzonate soltanto quando le avete dette o fatte». «È già qualcosa riconoscere di aver sbagliato» affermò cauto don Camillo. «È la prova che uno è fondamentalmente onesto. Disonesto è chi non riconosce mai il suo errore.» Peppone era furibondo e pestava con rabbia martellate sulla innocente verga di ferro oramai divenuta bigia. «Ricominciamo?» ruggì. «No» rispose don Camillo. «Sono qui per finirla, invece. Tanto è vero che ti domando scusa del gesto inqualificabile che ho commesso contro di te.» «Le vostre scuse ipocrite di pretaccio falso e vigliacco me le metto qui!» gridò Peppone battendosi la mano in fondo alla schiena. «Giusto» replicò don Camillo. «È lì il posto dove i disgraziati come te tengono le cose più sacre.» Peppone non resse e il martello partì. Partì con una precisione diabolica verso la faccia di don Camillo, ma la Divina Provvidenza volle che la traiettoria del proiettile passasse proprio nel mezzo d'una delle sottili sbarre di ferro dell'inferriata.
La sbarra sotto il colpo tremendo si incurvò e il martello cadde sul pavimento dell'officina. Don Camillo guardò sbalordito la sbarra deformata e, quando potè ingranare la marcia, partì a tutta birra. Arrivò col carburatore ingolfato: «Gesù» disse inginocchiandosi davanti al Cristo Crocifisso «siamo pari: un martello a uno». «Una stoltezza più una stoltezza fanno due stoltezze» rispose il Cristo. Ma quella pur semplice addizione risultava un'operazione troppo diffìcile per don Camillo che aveva una febbre da carro armato. «Gesù» balbettò «troppa la paura per un povero prete solo.» Fu, quella, la peggior notte che don Camillo potesse passare: un incubo continuo a base di martelli che partivano sibilando e di martelli che sibilando tornavano. Dal buco dell'intonaco della cappelletta era uscito il diavolo dagli occhi tremendi e, dietro lui, continuavano a uscire diavoli e diavoli. E sul manico di ogni martello che andava o tornava sibilando per l'aria stava a cavalcioni un diavolo. Don Camillo continuò a schivare martelli fin che potè, poi la stanchezza lo prese e i martelli in arrivo gli finivano tutti in testa: toch! toch! toch!… Soltanto verso le sei del mattino il viavai di martelli volanti cessò nel cervello di don Camillo. Cessò perché don Camillo si svegliò.
Aveva la testa così rintronata per i tremendi colpi ricevuti che non riusciva a pensare alle azioni che stava compiendo. Riprese il controllo di se stesso soltanto quando si trovò davanti all'altare, per la Messa mattutina. Celebrò la Messa più eroica della sua vita e il buon Dio dovette tenerne conto perché alla fine gli diede la forza di reggersi ancora in piedi. Don Camillo, rimasto solo e deposti i paramenti, andò a ispezionare la cappelletta di Sant'Antonio Abate: gli occhi maledetti erano ancora là sul muro e il martello maledetto era ancora lì, fra i calcinacci, ai piedi del muro. «Il delinquente torna sul luogo del delitto!» disse qualcuno. Don Camillo si volse e incontrò lo sguardo di Peppone. «Ricominciamo?» domandò con voce stanca don Camillo. Peppone fece cenno di no e cadde a sedere su una panca. Pareva uno straccio: aveva gli occhi pesti, i capelli incollati sulla fronte e ansimava. «Non ce la faccio più» disse. «Arrangiatevi voi.» Don Camillo si accorse che Peppone, con uno sforzo enorme, stava porgendogli qualcosa avvolto in un giornale. E, quand'ebbe tra le mani l'oggetto, gli parve che pesasse una tonnellata. Tolse la carta. Era una cornice tutta di ferro battuto, a volute e a foglie, e racchiudeva, anziché un quadro, una la-
stra di rame in mezzo alla quale era assicurato con due legature di filo d'ottone un grosso martello. Un cartiglio di rame portava una dicitura bulinata: «A Sant'Antonio Abate per grazia ricevuta facendomi sbagliare la mira». «Il martello è quello là» spiegò Peppone. Don Camillo guardò il martello. «La cornice è fatta col ferro dell'inferriata» spiegò ancora Peppone. Don Camillo guardò le volute di ferro battuto. «L'ho lavorata col martello famoso» concluse Peppone. Peppone parve non aver più nulla da comunicare. Invece dimenticava qualcosa. Se ne rammentò e si frugò in tasca cavandone un grosso chiodo fucinato che porse a don Camillo. Don Camillo entrò nella cappelletta di Sant'Antonio, raccolse il martello maledetto che giaceva sul pavimento fra i calcinacci e deposto il quadro votivo blindato ai piedi dell'altarino, prese a piantare il chiodo nel muro. Non aveva la forza sufficiente per scegliere con un criterio artistico il posto più adatto. Piantò il chiodo lì, dove gli capitò. E smartellò un bel pezzo. Poi tirò su il quadro e l'appese. Ma, siccome il filo d'ottone che assicurava alla lastra di rame il martello di Peppone lo permetteva, don Camillo legò vicino al martello di Peppone il suo martello.
Peppone considerò a lungo la faccenda, poi, quand'ebbe capito il significato della cosa, scosse il capo e disse con voce indignata ma stanca: «Sfruttatore delle fatiche del proletariato…». Don Camillo, ugualmente stanco, replicò: «La mia parte di lavoro ce l'ho messa anche io!». «Se sapeste cosa ho faticato a lavorare con la febbre tutta la notte!» esclamò Peppone. «Se sapessi quante martellate mi sono pestato adesso sulle dita per piantare quel chiodo!» affermò don Camillo. E mostrò la mano sinistra che non era più una mano ma il sanguinoso bilancio d'una strage. «Mi fa piacere tanto!» si rallegrò languidamente Peppone. «Anche a me» disse con voce lontana don Camillo. Poi guardò il quadretto votivo blindato e si stupì di non vedere più gli occhi del demonio. È questo accadeva perché don Camillo, senza volere, aveva piantato il chiodo proprio quattro dita sopra la fronte del satanasso venuto a galla dagli abissi del tempo che fu risvegliato da una dannatissima martellata. * «Gesù» disse don Camillo quando, il giorno dopo, ebbe ricuperate le forze e la speranza «Vi ringrazio d'avermi aiutato.»
«Ringrazia Sant'Antonio Abate» rispose il Cristo. «È lui che protegge le bestie.» Don Camillo levò gli occhi angosciato. «Gesù, così mi giudicate adesso?» «No, don Camillo, adesso non ti giudico così. Ma chi ha lanciato il martello non sei stato tu, è stata la bestia irragionevole. Ed è la bestia che Sant'Antonio ha protetto.» Don Camillo chinò il capo. «Però» borbottò «non sono stato soltanto io a lanciare martelli… Anche lui…» «Non ha importanza, don Camillo: un cavallo più un cavallo fa due cavalli.» Don Camillo, aiutandosi con le dita, fece la prova dell'addizione poi scosse il capo. «Gesù, il conto dei due cavalli non torna perché io sono un asino.» E don Camillo era così convinto, ma così sinceramente convinto di quello che diceva da indurre il Cristo ad avere pietà di lui.
171 PEPPONE MARCA VISITA «Questa non è un'ora da cristiani» disse don Camillo quando si trovò davanti la moglie di Peppone. «Credevo che i preti e i medici non avessero orario d'ufficio» replicò la donna. «Parla, ma senza sederti» borbottò don Camillo. «Così fai più presto ad andartene. Cosa vuoi?» «È per la casa nuova. Dovreste benedirla.» Don Camillo strinse i pugni. «Hai sbagliato sportello» esclamò con voce dura. «Buona notte.» La donna si strinse nelle spalle: «Reverendo, acqua passata. Era pieno di guai». Don Camillo scosse il capo. La cosa era stata troppo grossa per poterla dimenticare anche se erano trascorsi già sei mesi. Peppone aveva fatto il colpo di testa: aveva chiuso la vecchia officina scalcagnata e, impegnandosi fino agli occhi, aveva tirato su una casa nuova al margine del paese, a lato della strada maestra. Un bel fabbricato con officina attrezzata come quelle di città e, al primo piano, l'abitazione.
Era riuscito a procurarsi la concessione di un distributore di benzina e questo doveva facilitargli il lavoro col traffico della strada grande, quella che passava sull'argine e tagliava fuori completamente il paese. Don Camillo, si capisce, non aveva potuto resistere alla tentazione e, una bella mattina, aveva messo il naso dentro la nuova officina. Peppone stava cercando di capire qualcosa in un maledetto motore d'automobile e non aveva una gran voglia di chiacchierare. «Bello» disse don Camillo guardandosi attorno. «Lo so» rispose Peppone. «L'abitazione al primo piano, il cortile, il distributore: c'è proprio tutto» continuò don Camillo. «Manca solo una cosa.» «E cos'è che mancherebbe?» Don Camillo allargò le braccia: «Un tempo, quando si inaugurava una nuova casa, c'era l'usanza di chiamare il prete per benedirla…». Peppone si drizzò e, con la mano, si tirò via il sudore della fronte: «L'acqua santa dei giorni nostri è questa!» affermò aggressivo. «Benedetta dal lavoro e non dal prete.» Don Camillo se ne era andato senza fiatare e la cosa gli aveva fatto un'impressione enorme perché aveva sentito nelle parole di Peppone qualcosa che non aveva sentito mai. E, adesso, la moglie di Peppone, venendo a parlargli di benedir-
le la casa, gli aveva fatto riprovare il disgusto di quel giorno lontano. «No» rispose don Camillo alla donna. Ma la moglie di Peppone non si scoraggiò: «Dovete venire; nella casa non abita soltanto mio marito: ci abito io, ci abitano i miei figli. Che colpa ne abbiamo noi se Peppone vi ha trattato male? Se Cristo avesse…». «Cristo non c'entra!» la interruppe don Camillo. «Invece mi pare di sì» replicò convinta la donna. E così don Camillo, dopo aver girato un bel pezzo in su e in giù per la stanza, rispose: «Va bene. Verrò domani». La donna scosse il capo: «Non domani. Dovete venire subito, intanto che mio marito è fuori: non voglio che lo sappia lui e che la gente veda». Allora don Camillo scoppiò. «Ecco, io mi metto a fare il prete clandestino: magari mi travesto da guardiacaccia per andare a benedire una casa. Come se si trattasse di un atto disonesto, di una porcheria da nascondere. Tu bestemmi peggio di quel disgraziato di tuo marito.» «Don Camillo, cercate di capirmi: se la gente vi vedesse malignerebbe che noi, adesso, ci facciamo benedire la casa perché siamo nei guai.»
«Già, la gente malignerebbe che siete nei guai… Mentre se tu vuoi farmi benedire la casa nuova la ragione è completamente diversa… E quale?» «Che siamo nei guai» spiegò la donna. «Da quando ci troviamo nell'officina nuova non ce ne va più nessuna per il diritto.» «Capisco: e allora, non sapendo più dove sbattere la testa, tu pensi a Dio.» «Certo, mica posso pensare al farmacista.» «Se, invece, tutto avesse funzionato bene non ti saresti mai sognata di venirmi a chiedere la benedizione della casa.» «Certo: quando le cose vanno bene ci si arrangia da soli e il Padreterno non serve.» Don Camillo cavò un grosso bastone dalla fascina che stava appoggiata al muro, a fianco del caminetto: «Se fra due secondi non sei, almeno almeno, in piazza, te lo rompo sulla testa». La donna uscì senza parlare. Però rimise dentro la testa. «Me ne vado non perché mi faccia paura il vostro bastone, ma perché mi fa paura la vostra cattiveria.» Don Camillo buttò il bastone sul fuoco e lo guardò incendiarsi e ardere. Poi, a un tratto, si buttò il tabarro sulle spalle e uscì. Camminò nel buio della notte e, arrivato alla porta della casa nuova di Peppone, bussò. Gli aprirono la porta subito:
«Sapevo che sareste venuto» disse la moglie di Peppone. «Vi aspettavo.» Don Camillo trasse di tasca il Breviario ma non fece a tempo ad aprirlo: Peppone entrò infatti come un turbine nell'andito. «Reverendo, cosa fate qui a quest'ora?» Don Camillo non seppe cosa rispondere e, allora, intervenne la donna: «Sono andata a chiamarlo io perché benedica la casa». Peppone si volse cupo alla moglie: «Con te faremo i conti dopo. In quanto a voi, reverendo, potete andarvene: non ho bisogno né di voi né del vostro Dio!». A don Camillo parve di udire stavolta una voce addirittura completamente sconosciuta. E in verità Peppone non era più quello di prima. Peppone aveva fatto il passo più lungo della gamba: si era buttato a capofitto nella sua avventura impegnando tutto quello che possedeva e anche quello che non possedeva. Adesso non ce la faceva più: aveva l'acqua alla gola e non trovava più la forza di rimettersi a galla. E quella sera si era arreso e, per la prima volta in vita sua, aveva marcato visita. * Quando don Camillo fu uscito Peppone riversò la sua ira sulla moglie:
«Anche tu mi tradisci!». «Non ti tradisco: questa è una casa maledetta e ho cercato di rompere il cerchio della maledizione. Non ho fatto niente di male.» Peppone entrò nella grande cucina e si sedette alla tavola. «Benedire!» gridò. «Non capisci che egli non viene qui per benedire ma per spiare? Per vedere come vanno le cose. Per poter trovare qualche prova della situazione schifosa nella quale ci troviamo. Se fosse riuscito a entrare in officina si sarebbe accorto che il tornio nuovo non c'è più…» La moglie gli si appressò: «Com'è andata?». «Tutto bene: adesso il tornio è già sistemato. Non se ne è accorto nessuno che l'ho portato via.» La donna sospirò. «Se ne accorgeranno domani. Il primo che entrerà in officina scoprirà che il tornio non c'è più.» «Non scopriranno niente» spiegò Peppone. «Coi soldi che ho ricavato dal tornio ho tacitato i due creditori più pericolosi, e domani non aprirò bottega. Mi sono messo a posto anche di lì.» La donna lo guardò sbalordita. «Ho fatto adunare d'urgenza il Consiglio comunale e ho spiegato che sono malato e mi occorre un lungo periodo di riposo. Rimarrò chiuso in casa e non mi farò più vedere.»
«Questo non servirà a niente» replicò la donna. «Le cambiali scadono lo stesso anche se tu stai chiuso in casa.» «Le cambiali vanno in scadenza fra un mese, il tornio se ne è andato oggi e bisogna tamponare subito il buco del tornio. Non devono sapere niente in paese. C'è un sacco di maledetti che sarebbero troppo contenti di sapermi nei guai.» Peppone si fece portare un largo foglio di carta e col pennellino scrisse a stampatello: «Chiuso per malattia del proprietario». «Vallo a incollare subito sulla saracinesca dell'officina» disse alla moglie porgendole il foglio. La donna trovò il boccette della colla e si avviò, ma Peppone la richiamò subito. «Così non può andare» si rammaricò «"Proprietario' è un'espressione troppo borghése.» Cercò affannosamente qualcosa di meno reazionario poi dovette accontentarsi di un quanto mai generico: «Chiuso per malattia». E, in verità, era malata tutta l'azienda, non soltanto Peppone. * Peppone non mise più il naso fuori di casa e la moglie continuava a spiegare a tutti che Peppone aveva l'esaurimento e bisognava lasciarlo tranquillo fin che non si fosse rimesso. E così passarono dieci giorni, ma l'undecimo portò una
brutta novità; sul giornale degli agrari, nella pagina della provincia, c'era un trafiletto che riguardava il paese: «Concittadini che si fanno onore. Siamo lieti di comunicare che la popolarità del nostro sindaco Giuseppe Bottazzi diventa sempre più grande: l'odierno bollettino dei protesti cambiari reca infatti per ben tre volle il nome del compagno Giuseppe Bottazzi. Molte felicitazioni per la meritata affermazione». A Peppone venne la febbre sul serio e si buttò a letto dicendo alla moglie che, qualsiasi cosa accadesse, non gli parlasse di niente: «Non voglio vedere lettere, non voglio leggere giornali. Lasciami dormire». Ma, tre giorni dopo, la moglie entrò singhiozzando nella stanza e lo svegliò: «Bisogna che te lo dica» gemette. «Sono venuti a pignorare tutte le macchine nuove dell'officina.» Peppone buttò la testa sotto il cuscino, ma oramai le sue orecchie avevano udito. Sudò tutto quello che era umanamente possibile sudare. Poi ebbe una improvvisa decisione e balzò giù dal letto. «Non c'è che un rimedio» esclamò. «Me ne vado.» La moglie cercò di ricondurlo alla ragione: «Lascia perdere ogni cosa. Sequestrino, vendano tutto. Roba maledetta. Ci restano sempre la vecchia casa e la vecchia officina. Ricominciamo da capo.»
«No!» urlò sgomento Peppone. «Non posso ritornare alla vecchia officina e alla vecchia casa. Non posso. È una umiliazione spaventosa. Bisogna che me ne vada. Dirai che ho dovuto andarmi a curare in montagna: intanto io cercherò di rimediare le cose. Qui non posso pensare. Non ho nessuno col quale consigliarmi. Non tronco niente qui: lascio tutto in sospeso… Se le cose vanno male diranno che è a causa della mia malattia… Non è possibile ritornare indietro, dare una soddisfazione così grossa a tutti i maledetti che ce l'hanno con me.» La donna non insistette: «Fai tu». «Mi resta il mio camion» spiegò Peppone. «Mi servirà. Non so dove finirò ma avrai mie notizie. Non dire niente a nessuno, neppure se ti scannano.» Alle due di notte Peppone mise in moto il camion e partì; nessuno lo vide, ma, a quell'ora, in paese c'era ancora gente che continuava a parlare di lui: «Gli sono saltati addosso come maledetti approfittando che è malato» dicevano gli uni. «La malattia è una scusa per coprire le magagne» dicevano gli altri di parte avversa. «È una vigliaccata.» «Gli sta bene.» «L'importante è che guarisca e torni al suo posto in Comune.»
«Se ha un minimo di faccia dovrà dare le dimissioni da sindaco!» Cento e cento bocche parlavano ancora di Peppone e Peppone, sul suo vecchio camion, fuggiva inseguito dal terribile complesso del borghese che nei paesi miete vittime in tutti i ceti, anche in quello proletario. * Passarono dei giorni e, dopo la notizia del pignoramento, arrivò in paese il bando della vendita all'asta delle nuove macchine di Peppone. «Gesù» disse don Camillo al Cristo mostrandogli il comunicato sul giornale «come vedete, un Dio c'è!» «Dillo a me» rispose sorridendo il Cristo. Don Camillo abbassò confuso il capo: «Perdonate la mia balordaggine» mormorò. «La balordaggine causata dalla tua lingua maldestra, don Camillo, è perdonabile. Non l'altra, quella che scaturisce dal tuo intimo convincimento. Dio non si occupa di sequestri e di vendite all'asta. Quello che sta accadendo a Peppone è indipendente dalle sue colpe. Come non dipende da nessun merito nascosto se uomini disonesti hanno fortuna negli affari.» «Gesù, egli ha bestemmiato il Vostro nome ed è giusto che abbia una punizione. Tutta la brava gente del paese è
convinta che questi guai gli siano accaduti perché ha respinto la benedizione della casa.» Il Cristo sospirò: «E cosa direbbe tutta la brava gente del paese se, invece, gli affari di Peppone fossero andati bene? Che ciò è accaduto perché ha rifiutato la benedizione della casa?». Don Camillo allargò le braccia: «Gesù: relata refero… La gente…». «La gente? Cosa significa "la gente"? In Paradiso la gente non entrerà mai perché Dio giudica ciascuno secondo i suoi meriti e le sue colpe e non esistono meriti o colpe di massa. Non esistono i peccati di comitiva, ma solo quelli personali. Non esistono anime collettive. Ognuno nasce e muore per conto proprio e Dio considera gli uomini uno per uno e non gregge per gregge. Guai a chi rinuncia alla sua coscienza personale per partecipare a una coscienza e a una responsabilità collettiva.» Don Camillo abbassò il capo: «Gesù, l'opinione pubblica ha un valore…». «Lo so: fu l'opinione pubblica a inchiodarmi sulla croce.» * Venne il giorno della vendita all'asta e piombarono come falchi in paese gli avvoltoi della città: erano organizzati perfettamente e, con quattro soldi, si divisero le spoglie di
Peppone. Don Camillo, che, anche lui, era andato ad assistere al grande spettacolo, tornò piuttosto cupo. «Cosa dice la gente, don Camillo?» gli domandò il Cristo. «È contenta?» «No» rispose don Camillo. «Trovano brutto che si rovini così un poveretto approfittando del fatto che è malato, lontano e non può occuparsi dei suoi affari.» «Don Camillo, sii sincero: cosa dice, con precisione, la gente?» Don Camillo allargò le braccia: «Dice che, se ci fosse un Dio, queste cose non succederebbero». Il Cristo sorrise: «Dall'osanna al crucifige il passo è breve, don Camillo». * La sera stessa in Consiglio comunale ci fu burrasca grossa; l'unico consigliere d'opposizione, Spiletti, portò il discorso sul sindaco: «Sono oramai due mesi che non si ha più nessuna notizia del sindaco: egli si disinteressa di ogni cosa che accade nel paese, anche di quelle che lo riguardano direttamente. Dov'è? Come sta? Cosa fa? Facendomi interprete di un vasto strato della cittadinanza esigo una precisa risposta». Il Brusco, che fungeva da vicesindaco, si alzò: «Mi riservo di rispondere dettagliatamente domani».
«Non credo di aver chiesto di venire a conoscenza di segreti di Stato!» replicò Spiletti. «Esigo una risposta immediata: dov'è il sindaco?» Il Brusco si strinse nelle spalle: «Non lo sappiamo». La gente che assisteva alla seduta rumoreggiò: era una cosa incredibile. «Non si sa dove sia il sindaco!» urlò Spiletti. «Allora si metta un annuncio sui giornali: "Competente mancia a chi riporterà un sindaco di colore rosso smarrito due mesi fa".» «C'è poco da fare gli spiritosi!» gridò il Brusco. «Nessuno sa dove sia il sindaco: neanche sua moglie.» «Io però lo so» disse una voce. Ed era don Camillo. La gente ammutolì. Il Brusco impallidì. «Ditelo, se lo sapete.» «No» rispose don Camillo. «Però vi ci posso portare domattina.» * Nella triste periferia di Milano, nel cantiere di un grosso casamento in demolizione, Peppone stava sbadilando cupo a fianco del suo camion che andava riempiendo di calcinacci e rottami. Suonò la sirena del mezzogiorno e Peppone, buttato il badile lontano, trasse fuori dalla giacca appesa nella cabina dell'autocarro un grosso pane imbottito di mortadella e l'
Unità, andò a sedersi con la schiena alla palizzata, a fianco degli altri manovali, e incominciò a mangiare leggendo il suo giornale. «Signor sindaco!» La voce acuta di Spiletti lo riscosse facendolo balzare in piedi. Si trovò davanti al Consiglio comunale al completo. «Non ci sono sindaci, qui!» rispose. «Il guaio è che non ci sono sindaci neppure al paese» replicò lo Spiletti. «Vuol dirci dove possiamo trovarne uno?» «Affari che non mi riguardano» affermò Peppone rimettendosi a sedere. «Ho l'impressione che lei sia guarito completamente» disse lo Spiletti. «E che, comunque, sia in grado di scriverci una cartolina di saluti.» «A chi? A lei?» esclamò Peppone. «Al rappresentante della cricca clericale? Lei non ha un'idea come io stia bene non pensando a lei.» «Il suo non è linguaggio da sindaco» protestò lo Spiletti. «Il mio è il linguaggio di un uomo libero!» «Bene!» dissero i manovali che avevano smesso di mangiare e si erano affollati attorno a Peppone e al Consiglio. «Se vuol essere libero dia le sue dimissioni!» urlò Spiletti. «Già, per far piacere a te!» commentò ironica la massa dei manovali. «Tieni duro, compagno.» «Se non vuol dare le dimissioni, desidereremmo sapere quali siano le sue intenzioni!»
Peppone scrollò le spalle. «Se lei invece di fare il suo dovere in paese, preferisce rimanersene a divertirsi a Milano, si diverta!» urlò lo Spiletti. «E dia le dimissioni!» «Te le facciamo dare a te le dimissioni!» commentò la massa. Ma Peppone si volse: «Silenzio, ragazzi» disse con voce autoritaria Peppone. «Qui siamo in una amministrazione democratica e le minacce non funzionano.» Il Brusco, il Bigio e il resto della banda si erano seduti attorno a Peppone e lo stavano guardando in silenzio. «Capo» disse il Brusco cupo «perché ci hai abbandonato?» «Io non abbandono nessuno!» «Come facciamo per la strada nuova? Qui c'è la risposta del Ministero.» Il Brusco porse un foglio a Peppone che lo prese e lo lesse. «Fino a quando al Governo ci sarà certa gente non si combinerà mai niente di buono!» affermò Peppone. «Lei non butti in politica l'amministrazione!» urlò Spiletti. «Faccia invece una proposta concreta.» «L'abbiamo già fatta a suo tempo» disse il Bigio. «Sotto le sparate demagogiche non c'è niente di concreto!» strillò lo Spiletti. Lo Smilzo replicò. Intervenne Peppone e la discussione si fece serrata.
E così si svolse, fra le macerie di una casa milanese in demolizione, la più straordinaria seduta di Consiglio comunale dell'universo. E fu una cosa lunga e, quando furono le cinque e il guardiano disse che lui non voleva sapere storie e che doveva chiudere il cantiere, il Consiglio si trasferì, opposizione compresa, sul cassone del camion e Peppone montò sulla cabina e mise in moto il motore: «Andiamo a cercare un posto più tranquillo» disse. * Non si sa come accadde, forse per la scarsa conoscenza della topografia di Milano: il fatto è che, a un bel momento, il camion si trovò a navigare sull'asfalto della Via Emilia. Peppone guidava a denti stretti: voleva dire qualcosa da un sacco di tempo e non riusciva a dirlo. A un tratto diede una brusca frenata. Uno dei soliti maledetti dell'autostop gli si era parato davanti e col pollice faceva segno che voleva andare in giù anche lui. Aveva nella mano sinistra un panettone e un palloncino della «Rinascente». In testa portava un cappello da prete. Lo Smilzo, che stava seduto al fianco di Peppone, scese e prese posto sul cassone assieme al Consiglio. Don Camillo salì e Peppone innestò la marcia e partì con uno strattone da carro armato.
«Che io debba sempre aver certa gente tra i piedi?» borbottò. Il camion pareva una sedici cilindri da corsa e dava l'idea che dentro il cofano, al posto di un motore, ci fosse tutta l'orchestra di Toscanini. Apparve a un tratto, lontano, dietro l'argine, il campanile del paese. «Mah!» sospirò Peppone. «Chi dice "mah!" il cuor contento non ha» commentò don Camillo. «Chi "mah!" non dice non è felice» concluse un'altra voce che veniva da chi sa dove e che soltanto don Camillo poteva udire. Roba che succede in quel paese in riva al fiume, in quel piccolo paese che dovrebbe esser grande come il mondo.
172 LA PARTITA Apparve lo Smilzo che fungeva da postino aggiunto per il recapito degli espressi e dei telegrammi e, arrivato davanti alla panchina sulla quale don Camillo stava seduto a godersi il sole e a leggere il giornale, frenò alla Mao Tse-tung. In verità il sistema di arrestare la bicicletta schizzando giù dalla sella per di dietro e tirando contemporaneamente in su il manubrio in modo da far impennare il velocipede come fosse un cavallo, fino a pochi anni prima era denominato in paese «frenata alla Texas»: ma poi, per evidenti ragioni politiche, l'Occidente borghese e conservatore aveva dovuto cedere all'Oriente proletario e rivoluzionario. Don Camillo levò gli occhi e guardò con diffidenza quel putiferio in arrivo. «Abita qui un certo Gesù Cristo?» domandò lo Smilzo traendo una lettera dalla borsa che portava a tracolla. «Qui abita uno che è capace di prenderti a pedate» rispose con semplicità don Camillo. «Voi dovete rispettare i servizi pubblici nell'esercizio della loro funzione» replicò lo Smilzo. «L'indirizzo dell'espresso è "Gesù Cristo – Casa parrocchiale": se il destinata-
rio non risulta presente io scrivo sulla busta "Sconosciuto alla casa parrocchiale " e buona notte suonatori.» Don Camillo agguantò la lettera ed effettivamente l'indirizzo era quello che aveva detto lo Smilzo. «E allora, reverendo, la ritirate o no?» «La ritiro: mi servirà per fare un esposto contro le Poste che si prestano a secondare le iniziative sacrileghe degli imbecilli.» «Le Poste fanno il loro dovere: la casa parrocchiale esiste e questo basta. Le Poste non sono obbligate a sapere chi c'è e chi non c'è dentro la casa parrocchiale. Ognuno tiene in casa chi vuole. Il nome non conta: può anche darsi che si tratti di uno pseudonimo.» Don Camillo si chinò con indifferenza, ma lo Smilzo non gli lasciò neppure il tempo di arrivare con la mano alla scarpa e si portò fulmineo fuori tiro. La penna sacrilega che aveva scritto l'indirizzo aveva pure aggiunto sottolineando: «Riservata personale» e don Camillo andò a deporre tutta la sua indignazione ai piedi del Cristo Crocifisso. «Gesù» esclamò «perché non mi dite il nome del disgraziato che ha osato tanto? Perché non mi date la possibilità di andarlo a prendere per il colletto e di fargli mangiare questa lettera?» «Don Camillo» rispose sorridendo il Cristo «bisogna rispettare il segreto epistolare. Non possiamo contravvenire ai princìpi della Costituzione.»
«Gesù» disse con impeto don Camillo «dovremo dunque permettere a questi sciagurati di bestemmiare per iscritto oltreché a voce?» «Chi ti dice che quella sia la lettera di un bestemmiatore? Non potrebbe essere la lettera di un semplice? Di un povero pazzo? Leggi la lettera, prima di condannare chi l'ha scritta.» Don Camillo allargò le braccia e lacerò la busta cavandone un foglietto scritto a stampatello, che lesse rapidamente. «E allora, don Camillo? Hai trovato tutto l'orrore che pensavi?» «No, Signore: si tratta di un povero pazzo, meritevole soltanto di pietà.» Don Camillo ficcò foglietto e busta in tasca accingendosi a uscire, ma il Cristo lo fermò: «E cosa vorrebbe da me questo povero pazzo?». «Niente, in definitiva. Frasi sconclusionate, senza un costrutto, senza una logica.» «Capisco, don Camillo: ma non bisogna essere così superficiali quando si tratta delle espressioni di una mente turbata. Esiste anche una logica dell'illogico e, se si riesce a scoprirla, ciò può essere utile per identificare di che ordine sia il turbamento.» «È un turbamento generico» si affrettò a rispondere don Camillo. «Non si riesce assolutamente a capire cosa voglia dire.»
«Leggi, don Camillo.» Don Camillo si strinse nelle spalle e, tratto di tasca il foglietto, lesse ad alta voce: «Gesù, Vi prego di illuminare la mente di un certo parroco in modo da fargli capire che egli adesso sta esagerando nel suo attivismo politico e che, se continuerà di questo passo, probabilmente inciamperà con la schiena contro qualche palo di gaggìa, perché se uno fa il prete per vocazione va bene, ma se lo fa per provocazione allora la cosa cambia. Firmato: Un amico della democrazia». «Di quale sacerdote parlerà?» domandò il Cristo quando la lettura fu finita. «Non ne ho un'idea» rispose don Camillo. «Conosci nessun sacerdote che esageri nel suo attivismo politico?» «Gesù, io viaggio ben poco. I parroci dei dintorni son tutti gente calma, equilibrata…» «E tu, don Camillo?» «Gesù, si parlava di parroci dei dintorni: io sono il parroco del paese. Se la lettera avesse voluto alludere a me avrebbe detto "il parroco", non "un certo parroco". Come giustamente mi avete fatto notare, esiste nelle illogiche espressioni di un pazzo una logica dell'illogico e io appunto cerco di ragionare secondo questa particolare logica.» «Don Camillo!» sospirò il Cristo. «Perché cerchi di nascondere la verità al tuo Dio? Perché non dici che quel parroco sei tu?»
«Gesù, Voi dunque prestereste fede alle accuse di un anonimo?» «No, don Camillo: presterei volentieri fede alle tue accuse.» Don Camillo scosse il capo: «Gesù, le elezioni si avvicinano, la battaglia politica è importante e io debbo essere solidale col parroco del paese. Non posso mettermi contro di lui, diventare anche io un suo accusatore. Posso indurlo a essere più cauto». «Per evitargli di inciampare contro i pali di gaggìa?» «No, Signore: io non penso alla salvezza della mia schiena, penso alla salvezza della mia anima.» Don Camillo andò a meditare in canonica e così, il giorno dopo, accadde che lo Smilzo entrò nell'ufficio di Peppone e gli mise una lettera sulla scrivania. «Capo, cosa facciamo di questa porcheria d'espresso?» Peppone non si scompose: prese atto che, sulla busta, figurava l'indirizzo «Signor Stalin – Casa del Popolo» poi l'aperse e, cavatone un foglietto scritto a stampatello, lesse: «Signor Stalin, vogliate compiacerVi di comunicare al Vostro dipendente qualificatosi "amico della democrazia" che la sua interessante lettera verrà fotograficamente riprodotta dalla locale stampa reazionaria. Vivi ringraziamenti. Firmato: "Un certo parroco"». Peppone diventò rosso per la rabbia, ma lo Smilzo gli disse assennatamente:
«Capo, ti conviene incassare e lasciarlo perdere. Si è messo le spalle al coperto». «Al coperto dai pali di gaggìa!» urlò pestando una zampata sulla scrivania. «Ma posso sempre far perdere le tracce spennellandolo con un palo di gelso, d'olmo o di pioppo!» «Figurati, capo: hai mille possibilità di spazzolarlo senza comprometterti con l'indizio della gaggìa. La botanica è dalla parte del popolo!» * Il cancan suscitato dalla pubblicazione della lettera fu grosso, e non si trovò uno che non accusasse i «rossi» dell'impresa epistolare. Allora Peppone, per parare la botta, decise di adottare una politica distensiva e fece organizzare il «Primo Grande Torneo Scopistico della Pace». In quei paesi là, dove d'inverno la nebbia densa e pesante isola la gente dal resto del mondo, la scopa, più che un giuoco, è una necessità, e un torneo di scopa, anche se organizzato all'ombra delle ali della colomba di Stalin, non poteva ottenere che un gran successo. Fu scelta, come sede degli incontri, l'osteria del Molinetto, e la faccenda incominciò a marciare a tutta birra. Alla sera, l'osteria del Molinetto era piena di gente d'ogni idea e d'ogni condizione e gli incontri si facevano sempre più appassionanti perché le schiappe venivano via via elimi-
nate per lasciare il campo ai campioni. E rapidamente si arrivò alla serata decisiva e all'incontro fra i due campionissimi. Don Camillo ragguagliò il Cristo sulla situazione. «Questa sera si saprà chi è il più bravo giocatore di scopa del paese» spiegò don Camillo. «La gente è tutta in agitazione perché anche qui è successo come in tutte le altre cose di questo paese. Il giuoco della scopa è slittato dentro la politica e non mi meraviglierei che volasse qualche sberla.» «E perché mai, don Camillo?» «Gesù, la politica ha il dannato potere di cambiare lentamente i connotati di tutte le vicende e così, dopo alcune settimane, un torneo di scopa è diventato un duello fra il campione del popolo e il campione della reazione. I due ultimi giocatori rimasti in campo sono l'agrario Filotti e Peppone: se vince Filotti trionfa la reazione, se vince Peppone trionfa il proletariato.» «È una stoltezza» rispose il Cristo. «Quali interessi sono legati a quel giuoco?» «Interessi di prestigio. Balordaggini, certamente, ma che in politica hanno il loro valore. Comunque oramai la nostra sconfitta è sicura.» Don Camillo credette necessario precisare il suo pensiero: «Dico nostra per significare sconfitta degli avversari dei «rossi». D'altra parte era naturale che finisse così. Peppone non ha dovuto combattere col più forte. Filotti è un eccellente giocatore ma non il migliore della parte avversa. Inoltre
Peppone è un filibustiere e non ci mette niente a fare con le carte qualche giochetto speciale». Don Camillo si strinse nelle spalle: «Parlare di giustizia in una faccenduola frivola e spregevole quale può essere una bagattella di carte da giuoco sarebbe quasi una bestemmia. Ma, se fosse lecito parlarne, si potrebbe osservare che non è giusto che la vittoria tocchi a chi non la merita». Il Cristo intervenne: «Non ti angustiare, don Camillo: tu stesso hai onestamente riconosciuto che si tratta di frivolezze di nessun peso. Tanto più che tutti questi giuochi da taverna sono diseducativi pur se vengono giocati per semplice trastullo. Il giuoco di carte è vizio, come vizio è ogni cosa che funzioni semplicemente da perditempo». Don Camillo si inchinò: «Non c'è nessun dubbio» affermò. «Purtuttavia, se fosse lecito fare una graduatoria fra queste pratiche viziose, direi che la scopa è il giuoco meno disonesto di tutti, in quanto in esso vale soprattutto il ragionamento. È una non inutile ginnastica mentale praticata pure da persone laboriose e da gente timorata di Dio.» Don Camillo spiegò le sostanziali differenze esistenti tra il gioco della scopa e gli altri giochi. Fece degli esempi pratici, illustrò la recondita bellezza di certe azioni serenamente meditate proprie dell'accorto giocatore di scopa. Mise molto
calore nella sua perorazione tanto che il Cristo fu indotto al sorriso: «Don Camillo, tu ne parli come un appassionato». «No, come un semplice buon conoscitore del gioco» precisò don Camillo. «Un modestissimo giocatore che, però, sarebbe in grado di appiccicare al muro non uno ma tre Pepponi… D'altra parte non è neppure pensabile che un sacerdote si mescoli ai giocatori di carte in un'osteria anche se sia spinto dal nobile intento di non permettere a un senzadio di gloriarsi d'una immeritata vittoria.» «Certamente» approvò il Cristo. «Il piede d'un sacerdote non deve mai varcare la soglia d'una taverna quando si tratti semplicemente di immischiarsi in miserabili faccenduole di gioco. Il sacerdote è al servizio del Re dei Cieli, non al servizio del re di picche o di fiori.» Oramai era tardi e don Camillo si allontanò per tornare a letto. Intanto all'osteria del Molinetto, zeppa come un uovo, si stava concludendo l'ultima battaglia. Peppone era in piena forma e pareva che, al posto del cervello, avesse una macchina calcolatrice. L'azione finale gli procurò un applauso colossale: Filotti abbandonò le carte sul tavolo e chiese un bicchiere di vino bianco. «Beviamoci sopra» borbottò. «Non mi resta niente altro da fare.»
Peppone era vincitore: i «rossi» parevano diventati matti per la contentezza e incominciarono a urlare che volevano il discorso. E, nel silenzio generale, Peppone prese la parola: «Compagni! In tutte le battaglie, in quelle del lavoro come in quelle del dopolavoro, la vittoria finale non può essere che del popolo lavoratore! Questo trionfale torneo combattuto sotto l'ègida…». All'"ègida" frenò perché qualcuno bussava alle ante della finestra che dava sulla strada. Lo Smilzo tolse prudentemente il rampone e apparve dietro l'inferriata la faccia di don Camillo. Il silenzio diventò quasi drammatico. «Cosa volete?» domandò minaccioso Peppone. «Giocare» rispose don Camillo. «Giocare? E con chi?» «Con chi non ha paura di giocare con me.» Peppone lo guardò con commiserazione. «lo non ho paura di nessuno. A ogni modo il torneo è finito. Se volevate giocare dovevate iscrivervi.» «Mi sono iscritto» spiegò don Camillo. «Guardate la lista e troverete che uno si è iscritto sotto lo pseudonimo di "Il calmo".» «Non significa niente» replicò Peppone. «Chiunque può venire qui a dire di essere "Il calmo".» «No: perché "Il calmo" è l'anagramma di Camillo. E Camillo sono io.»
«Non c'è anagramma che tenga; qui non si fa del latino, qui si fa a chi è più in gamba.» Don Camillo spiegò cosa significasse anagramma e Peppone, spuntando le lettere, controllò: «Il calmo» e Camillo erano la stessa faccenda. «Se il signor sindaco ha paura di fare una figura da cioccolatino posso anche andarmene» avvertì don Camillo. «Entrate!» gridò Peppone. «Non posso» replicò don Camillo. «Io resto qui e gioco da qui. Il davanzale ci farà da tavola.» Peppone si avvicinò alla finestra: «Forse è meglio: così vi sentirete più sicuro». Don Camillo abbrancò con le mani due sbarre dell'inferriata e le piegò in fuori. «È più comodo» spiegò. «Comunque, se ti dà fastidio l'aria, puoi richiudere.» «Mi dà fastidio» affermò cupo Peppone e, abbrancate le due sbarre, le raddrizzò. La gente non aveva mai visto uno spettacolo così formidabile e tratteneva il fiato come quando gli acrobati al circo equestre fanno l'esercizio difficile al rullo del tamburo. Peppone prese un mazzo di carte e lo pose sul davanzale. Don Camillo tirò su il mazzo di carte, lo guardò poi scosse il capo: «Troppo fragile per il mio temperamento» disse. E, attanagliato il mazzo intero nella morsa delle enormi mani, lo spaccò in due.
Peppone impallidì. Lo Smilzo depose un altro mazzo di carte sul davanzale. «Questo vi va?» domandò Peppone a don Camillo. «No» rispose don Camillo. «Neanche a me» replicò Peppone. E, agguantato il mazzo, lo spaccò in due pezzi. Qualcuno mise un terzo mazzo di carte sul davanzale. «Nuovo e ancora impacchettato o non se ne fa niente» disse don Camillo. «Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.» Lo Smilzo portò un mazzo di carte nuovissimo, ancora sigillato nella busta di cellophane. Peppone lo studiò attentamente poi lo porse a don Camillo: «Per me va bene: vedete voi». Don Camillo raccolse con due dita il mazzo, lo rigirò poi lo riconsegnò a Peppone. «Per me va bene. Aprilo, mescolalo tu e cerca di non fare scherzi con le mani.» Peppone strinse i denti. Lacerò l'involucro, mescolò le carte, le depose sul davanzale. «Il torneo è finito e l'ho vinto io» disse Peppone. «La Coppa va al Partito e nessuno gliela toglierà. Ma, per interessare la partita e per darle un significato morale, io mi gioco il mio schioppo. E voi?» Si udì un mormorio: la doppietta di Peppone era il fucile più bello della regione ed era la cosa che Peppone amava più di tutte. Avrebbe ceduto una gamba piuttosto che rinunciare
al suo fucile da caccia. Tutti aspettarono che don Camillo rispondesse a tono. E don Camillo non deluse: «E io mi gioco Ful» annunciò. Ful era il cane più straordinario dell'universo e don Camillo lo aveva caro come un occhio. La partita incominciò e fu qualcosa di ciclopico: se gli eroi di Omero avessero giocato a scopa si sarebbero comportati come don Camillo e Peppone. Lottarono a denti stretti fino all'ultimo: ma, all'ultimo, don Camillo vinse. Nessuno ebbe il coraggio di applaudire, nemmeno di aprir bocca. Don Camillo si toccò il cappello: «Grazie del divertimento e buona sera. I debiti di gioco si pagano entro le ventiquattro ore» disse andandosene. * Don Camillo non entrò in chiesa e s'infilò lesto in canonica, ma la voce del Cristo lo raggiunse: «A quest'ora, don Camillo?». «Sono andato a dare un'occhiata alla finale del torneo. Ma non ho messo piede nell'osteria: sono rimasto alla finestra. Come avevo facilmente previsto, il torneo l'ha vinto Peppone.» «Sono successi dei guai?» «Niente: il gioco, in definitiva, è andato come doveva andare e tutti hanno riconosciuto che era giusto avesse vinto il più forte.»
«Don Camillo, questo gioco della scopa mi interessa» disse il Cristo. «A quanto mi pare di aver capito da te, per giocare a scopa ci vuole un mazzo di carte nuovo, ancora nel suo involucro originale.» «È più prudente, specialmente se si sa di giocare con gente lesta di mano e che, appartenendo a una combriccola che è d'accordo con l'oste, cerca di mettere in tavola carte segnate.» «Giusto. Allora si prende un mazzo di carte nuovo: il primo giocatore lo guarda e lo passa al secondo che, con mossa abile, se lo fa scivolare in tasca restituendo un altro identico mazzo di carte nuovissimo, ma preventivamente segnato da minuscoli solchi fatti con l'unghia e poi riavvolto accuratamente nell'involucro originale. Si fa così?» «No» rispose don Camillo. «E allora cos'è che hai in tasca?» Don Camillo cavò di tasca un mazzo nuovissimo di carte e lo depose sul tavolo. «Non riesco a capire come sia finito qui» balbettò. «È finito lì perché ce l'hai messo quando Peppone te l'ha dato e tu gli hai restituito l'altro che avevi in tasca.» «Evidentemente devo aver fatto un po' di confusione» sussurrò don Camillo. «Sì, hai confuso il lecito con l'illecito e hai voluto rendere ani cor più immorale una bagattella immorale per sua natura. Hai perso, don Camillo.»
Don Camillo trasse di saccoccia il fazzolettone per asciugarsi il sudore della fronte, quando entrò Peppone. Cavò di sotto il tabarro il suo famoso fucile e glielo porse. «I debiti di gioco si pagano subito» disse. «Però, se non siete l'ultimo dei barabba, la rivincita me la dovete dare.» Guardò il mazzo di carte sui tavolo: «Viene proprio a fagiolo: è nuovo, ancora da spacchettare e non ci saranno trucchi. Apritelo e mescolate». Si sedettero al tavolo. Don Camillo tolse l'involucro di celllophane, mescolò le carte. La partita incominciò e fu omerica come quella di poco prima. Ma questa volta la vittoria toccò a Peppone. «Si fa la bella?» domandò Peppone. Don Camillo non rispose perché era intento a giocherellare col mazzo di carte. «Ah» disse a un tratto «tu il settebello lo segni con questo tratto qui?» Peppone incassò magnificamente. Cavò di tasca un mazzo di carte, lo fece passare fino a quando non trovò il settebello: «Già, voi invece lo segnate con queste due righette?». Don Camillo raccolse il mazzo di Peppone e lo buttò sulle brada del caminetto. Peppone fece lo stesso col mazzo di don Camill lo. La fiamma divampò. «Siamo pari» disse Peppone alzandosi. «No» rispose con tristezza don Camillo. «Ho perso io.»
E c'era tanto dolore nella sua voce che Peppone si preoccupò: «Reverendo, non facciamo tragedie. Lo si sa: davanti al settebello non si ragiona. E allora lo si segna per di dietro. Vuol dire che io vi presterò il mio fucile e voi mi presterete il vostro cane, qualche volta». Peppone se ne andò e don Camillo rimase solo, a guardare le carte consumarsi nel fuoco. «Don Camillo, t'avevo detto che tu sei al servizio del Re dei Cieli, non del re di picche o del re di fiori» ammonì la voce del Cristo. «Gesù» si scusò umilmente don Camillo. «Si giocava con le carte a bastoni, denari, coppe e spade…» «Don Camillo, vergogna!» Don Camillo allargò le braccia e, levando gli occhi al cielo., esclamò: «Gesù, capisco il mio torto, ma avete sentito quello che ha detto anche lui: davanti al settebello non si ragionai…». 11 Cristo sospirò: «Chi ti salverà dai tizzoni dell'Inferno, don Camillo?». Don Camillo non rispose perché doveva essere solidale col parroco del paese e il Cristo lo sapeva e lasciò che don Camillo cercasse con calma la risposta tra le bragia del caminetto. Che la cercasse e la trovasse.
173 LA FEBBRE DELL'ORO L' atomica scoppiò verso il mezzogiorno del lunedì, quando arrivarono i giornali. Uno del paese aveva fatto il colpo alla Sisal vincendo dieci milioni. I giornali precisavano che si trattava di certo Pepito Sbezzeguti: ma in paese non vi era nessun Pepito e nessun Sbezzeguti. Il gestore della ricevitoria, assediato dal popolo in agitazione, allargò le braccia: «Sabato c'era mercato e ho venduto un sacco di schedine a dei forestieri. Sarà uno di quelli. Comunque salterà fuori». Invece non saltò fuori niente di niente, e la gente continuò a tormentarsi perché sentiva che quel Pepito Sbezzeguti era un nome che suonava falso. Passi lo Sbezzeguti: ci poteva essere uno Sbezzeguti tra i forestieri venuti al mercato. Ma un Pepito, no. Quando uno si chiama Pepito non può partecipare a un mercato di paese dove si trattano granaglie, fieno, bestiame e formaggio grana. «Per me quello è un nome finto» disse nel corso di una lunga discussione Foste del Molinetto. «E se uno adopera un
nome fìnto questo significa che non è un forestiero ma uno del paese che non vuol farsi conoscere.» Si trattava di un'argomentazione piuttosto approssimativa: ma fu accolta come la più rigorosamente logica e la gente, disinteressatasi dei forestieri, accentrò la sua attenzione sugli indigeni. E le ricerche vennero condotte con ferocia, come se si trattasse di trovare non il vincitore d'una lotteria ma un delinquente. Senza ferocia, ma con indubbio interesse, si occupò della faccenda anche don Camillo. E, poiché gli pareva che il Cristo non vedesse con eccessiva benevolenza questa sua attività di segugio, don Camillo si giustificò: «Gesù, non è per insana curiosità che io faccio questo, ma come un dovere. Perché merita di essere additato al disprezzo del prossimo chiunque, ricevuto un grande beneficio dalla Divina Provvidenza, lo tenga nascosto». «Don Camillo» rispose il Cristo «dato e non concesso che la Divina Provvidenza si occupi di totocalcio, ho l'idea che la Divina Provvidenza non abbia bisogno di pubblicità. Inoltre è il fatto in sé che conta; e il fatto è noto in tutti i particolari essenziali: c'è qualcuno che ha vinto al gioco una grossa somma. Perché ti affanni nel voler sapere chi sia quest'uomo fortunato? Interessati piuttosto della gente non favorita dalla fortuna, don Camillo.»
Ma don Camillo aveva oramai il chiodino piantato in mezzo al cervello e il mistero del Pepito lo affascinava sempre di più. Finalmente un lampo illuminò le tenebre. A don Camillo venne voglia di mettersi a suonare il campanone quando scoperse la chiave di quel nome: seppe resistere alla tentazione di aggrapparsi alla corda della «Gertrude», però non seppe resistere all'altra tentazione. Quella di buttarsi addosso il tabarro e di andare a fare un giretto in paese. E, arrivato dopo pochi istanti davanti all'officina di Peppone, non seppe neppur resistere alla tentazione di fermarsi e di metter dentro la testa per dare un salutino al sindaco: «Buon giorno, compagno Pepito!». Peppone smise di smartellare e gli piantò addosso due occhi spiritati: «Cosa vorreste dire, reverendo?». «Niente: Pepito, in fondo, non è che un diminutivo di Peppone. E poi si dà pure il caso curioso che anagrammando Pepito Sbezzeguti salta fuori qualcosa che somiglia stranissimamente a Giuseppe Bottazzi.» Peppone riprese a smartellare tranquillamente. «Andatelo a raccontare al direttore della Domenica Enigmistica» disse. «Qui non si fanno degli indovinelli: qui si lavora.» Don Camillo scosse il capo:
«Mi dispiace sinceramente che tu non sia il Pepito che ha vinto i dieci milioni». «Dispiace anche a me» borbottò Peppone. «Se non altro, adesso potrei offrirvene due o tre per convincervi a tornare a casa vostra.» «Non ti preoccupare, Peppone: io i piaceri li faccio gratis» rispose don Camillo andandosene. Dopo due ore tutto il paese sapeva alla perfezione che cosa fosse un anagramma e non c'era casa dove il povero Pepito Sbezzeguti non venisse spietatamente vivisezionato per vedere se davvero avesse nella pancia il compagno Giuseppe Bottazzi. La sera stessa ci fu alla Casa del Popolo una riunione straordinaria dello stato maggiore dei «rossi». «Capo» spiegò lo Smilzo prendendo la parola «i reazionari hanno ripreso in pieno la loro tattica propagandistica della calunnia. Il paese è in subbuglio. Ti accusano di essere tu quello che ha vinto i dieci milioni. Bisogna intervenire con energia e inchiodare al muro i diffamatori.» Peppone allargò le braccia: «Dire che uno ha vinto dieci milioni alla Sisal non è una diffamazione» rispose Peppone. «Si diffama una persona accusandola di aver compiuto un atto disonesto. Vincere alla Sisal non è una cosa disonesta.» «Capo» replicò lo Smilzo «la diffamazione politica avviene anche accusando l'avversario di aver commesso un'a-
zione onesta. Quando un'accusa porta del danno al Partito allora è da considerare diffamazione.» «La gente ride alle nostre spalle» aggiunse il Brusco. «Bisogna farla smettere.» «Ci vuole un manifesto!» esclamò il Bigio. «Un manifesto che parli chiaro.» Peppone si strinse nelle spalle. «Va bene, domani ci pensiamo.» Lo Smilzo cavò di saccoccia un foglio: «Per non darti fastidi lo abbiamo già preparato noi. Se ti va, lo si fa stampare subito e domattina lo appiccichiamo». Lo Smilzo lesse ad alta voce: «Il sottoscritto Giuseppe Bottazzi dichiara di non aver niente in comune col Pepito Sbezzeguti vincitore dei dieci milioni della Sisal. È inutile che i reazionari cerchino di calunniarmi identificandomi col neomilionario suddetto: qui di neo c'è soltanto il loro fascismo. Giuseppe Bottazzi». Peppone scosse il capo. «Sì, va bene: però fino a quando non vedo roba stampata non rispondo con roba stampata.» Lo Smilzo non era d'accordo: «Capo, mi pare che sia sciocco aspettare che uno ci dia una schioppettata per rispondergli con una schioppettata. La regola è di sparare un minuto secondo prima degli altri».
«La regola è quella di sparare una pedata nel sedere a quelli che si occupano dei fatti miei personali. Non ho bisogno di difensori: so difendermi benissimo da solo.» Lo Smilzo si strinse nelle spalle: «Se la prendi così» borbottò «non c'è più niente da dire». «La prendo così!» urlò Peppone pestando un pugno sul tavolo. «Ognuno per sé e il Partito per tutti!» Lo stato maggiore se ne andò poco convinto. «Lasciarsi accusare di aver vinto dieci milioni, per me, è un segno di debolezza» osservò lungo la strada lo Smilzo. «Tanto più che c'è la complicazione dell'anagramma.» «Speriamo bene!» sospirò il Bigio. * Dopo le chiacchiere arrivò la roba stampata: il giornale degli agrari pubblicò un trafiletto intitolato: «Gratta il Peppone e troverai il Pepito». Il paese si spaccò le budella per il gran ridere perché il trafiletto era scritto da uno che ci sapeva fare. Allora lo stato maggiore si riunì alla Casa del Popolo e disse chiaro e tondo che un intervento energico era necessario. «Sta bene» rispose Peppone «fate stampare il manifesto e appiccicatelo.» Lo Smilzo volò in tipografia e, un'ora dopo, don Camillo riceveva dalle mani del Barchini la primissima bozza.
«È un brutto colpo per il giornale» osservò malinconicamente don Camillo. «Se i milioni li avesse vinti lui si guarderebbe bene dal far stampare una cosa del genere. A meno che non abbia già incassato o fatto incassare la vincita.» «Non si è mosso di qui» lo rassicurò il Barchini. «È sorvegliato da tutto il paese.» Era già tardi e don Camillo andò a letto. Ma alle tre di notte lo vennero a svegliare. Ed era Peppone. Peppone entrò dalla parte dell'orto e, quando fu nell'andito, stette a spiare attraverso la porta socchiusa. Era agitatissimo. «Spero che non mi abbia visto nessuno» disse alla fine. «Mi pare sempre di essere spiato.» Don Camillo lo guardò preoccupato. «Non sei diventato matto, per caso?» «No: ma ho paura che lo diventerò.» Si sedette e si asciugò il sudore. «Parlo col prete o con la gazzetta del paese?» si informò Peppone. «Dipende da quello che vieni a dirmi.» «Vengo per parlare col prete.» «Il prete ti ascolta» disse gravemente don Camillo. Peppone rigirò un poco il cappello tra le mani poi si confessò: «Reverendo, ho detto una grossa bugia. Pepito Sbezzeguti sono io».
Don Camillo ricevette la bomba atomica proprio sulla cima della testa e rimase qualche minuto senza fiato. «Dunque sei tu quello che ha vinto i dieci milioni della Sisal!» esclamò quando ebbe ritrovato il numero di casa. «E perché non l'hai detto prima?» «Non l'ho detto neanche adesso perché io sto parlando col prete. A voi deve interessare soltanto la bugia.» Ma a don Camillo interessavano i dieci milioni e, dopo aver guardato con disprezzo Peppone, lo fulminò con roventi parole: «Vergogna! Un compagno, un proletario che vince dieci milioni! Lasciale fare ai borghesi capitalisti queste porcherie. Un bravo comunista i quattrini se li deve guadagnare col sudore della fronte». Peppone sbuffò: «Reverendo, non ho voglia di scherzare. Non sarà mica un delitto giocare al totocalcio!». «Non scherzo e non dico che sia un delitto vincere al totocalcio. Affermo semplicemente che un buon comunista non gioca al totocalcio.» «Stupidaggini! Giocano tutti.» «Male. E malissimo nel caso tuo perché tu sei un capo, uno di quelli che debbono guidare la lotta del proletariato. Il totocalcio è una delle più subdole armi inventate dalla borghesia capitalista per difendersi dal proletariato. Un'arma efficacissima e che non costa niente alla borghesia. Anzi le dà
dei grossi guadagni. Un buon comunista non aiuta, ma combatte fieramente il totocalcio!» Peppone lo guardò sbalordito: «Reverendo, il cervello vi va in acqua?». «No: è andato in acqua a te» esclamò solennemente don Camillo. «Cos'è il totocalcio? Come funziona? Mille poveri diavoli vengono prelevati dal despota capitalista, chiusi in un campo di concentramento e costretti a lavorare duramente. E, per tutta paga, dà a ognuno dei poveretti ogni giorno un pezzo di pane che non basta a sfamarli. E allora cosa fanno gli infelici per cercar di far tacere la fame? Ognuno sacrifica un giorno per settimana cento grammi di pane della razione e lo consegna al padrone sfruttatore assieme a un bigliettino con scritto il proprio nome. Il padrone mette i mille bigliettini dentro un cappello poi, la domenica, ne estrae a sorte uno. E il fortunato riceve metà del pane versato dai compagni. L'altra metà se la tiene il padrone per il disturbo dell'organizzazione del totopane. Così si ha semplicemente il risultato che novecentonovantanove affamati si privano ciascuno di cento grammi di pane per far sì che uno ne possa avere mezzo quintale di più. E ognuno sacrifica ogni settimana un quinto del suo pane quotidiano con la speranza di essere lui il favorito dalla sorte e di guadagnare il premio. Invece chi guadagna è il padrone. Sempre il padrone sfruttatore.» Peppone scrollò le spalle con stizza. «Non ti agitare, compagno! Tutto quanto serve a illudere il lavoratore di potersi procurare il benessere con mezzi
che non siano la rivoluzione proletaria, è contrario al benessere del popolo e favorevole alla causa dei nemici del popolo! Tu favorendo il totocalcio tradisci la causa del popolo!» Peppone si spazientì. «Io non tradisco nessuno! Io so bene quel che faccio.» «Non lo metto in dubbio, compagno Peppone. È logico che siccome lo scopo ultimo è quello di far trionfare la causa del popolo, e siccome non si può pretendere che i capitalisti siano così imbecilli da finanziare il movimento comunista, è necessario che il popolo stesso cacci i quattrini per finanziare la propria causa. E allora, se tu sei un buon comunista, giocando al totocalcio lo fai con spirito comunista, allo scopo di procurare al partito i mezzi per la continuazione della lotta. E allora se sei un buon comunista tu verserai i dieci milioni nelle casse del partito!» Peppone agitò le braccia: «Reverendo» gridò «piantiamola di buttare sempre le cose in politica!». «Compagno! E la rivoluzione proletaria?» Peppone pestò i piedi. «Ti capisco, compagno» concluse sorridendo don Camillo. «In fondo hai ragione. Meglio dieci milioni oggi che la rivoluzione proletaria domani.» Don Camillo attizzò il fuoco poi dopo qualche minuto si volse verso Peppone. «Sei venuto qui per dirmi soltanto che hai vinto i dieci milioni?»
Peppone sudava. «Come faccio a incassarli senza che nessuno sappia niente?» «Vai direttamente.» «Non posso, mi sorvegliano. E poi non posso più andare io: domattina esce la dichiarazione.» «Manda uno di tua fiducia.» «Non mi fido di nessuno.» Don Camillo scosse il capo: «Non so cosa dirti». Peppone gli mise davanti al naso una busta: «Andate voi, reverendo». Peppone si alzò e si avviò verso la porta e don Camillo rimase lì a guardare la busta. Don Camillo partì la mattina stessa e tre giorni dopo era di ritorno. Arrivò che era sera tarda e, prima di entrare in canonica, andò a parlare col Cristo dell'aitar maggiore. Aveva con sé una valigetta che posò sulla balaustra dell'altare e aprì. «Gesù» disse con voce molto severa «questi sono dieci pacchetti di cento biglietti da diecimila ciascuno. Totale dieci milioni per Peppone. Io mi permetto di farVi notare semplicemente che quel senzadio non meritava un premio di questo genere.» «Dillo alla Sisal» lo consigliò il Cristo.
Don Camillo se ne andò con la sua valigia e, salito al primo piano della canonica, accese e spense tre volte la luce, secondo quanto convenuto con Peppone. Peppone, che era in vedetta, rispose accendendo e spegnendo due volte la luce della sua camera da letto. Arrivò in canonica dopo due ore, intabarrato fino agli occhi. Entrò dalla parte dell'orto, sbarrò la porta col catenaccio. «E allora?» domandò a don Camillo che aspettava in tinello. Don Camillo si limitò a fargli un cenno per indicargli la valigetta che stava sulla tavola. Peppone si appressò e con mani tremanti aperse la valigetta. Vedendo i pacchi di banconote gli si riempì la fronte di sudore. «Dieci milioni?» sussurrò. «Dieci milioni: puoi contarli.» «No, no!» Continuò a guardare i pacchi di banconote, come affascinato. «Certo» sospirò don Camillo «che dieci milioni sono un bel malloppo, oggi come oggi. Però cosa saranno domani? Basta una notizia preoccupante per distruggere il valore del danaro e fare di questi quattrini un mucchio di cartaccia.»
«Bisognerebbe investirli subito» disse Peppone con un po' d'ansia. «Con dieci milioni si può comprare un discreto podere. La terra è sempre terra…» «La terra ai contadini, ha detto Stalin. Non la terra ai fabbri. Se viene Stalin ti porta via tutto.» «Stalin? E perché dovrebbe venire? Non è mica un imperialista.» «Dico Stalin per dire comunismo: il comunismo è destinato a trionfare. Il mondo va a sinistra, caro compagno…» Peppone continuava a guardare le banconote. «Oro» disse. «Bisognerebbe comprare dell'oro. Quello lo si può nascondere.» «E poi, quando l'hai nascosto, cosa ne fai? Se viene il comunismo tutto è razionato e statizzato e l'oro lo devi lasciare dov'è perché non puoi comprare niente.» «E mandarlo all'estero?» «Ohibò! Come un capitalista qualsiasi! E poi bisognerebbe portarlo in America perché l'Europa è destinata a diventare tutta comunista. E poi anche l'America, rimasta isolata, dovrà capitolare davanti a Stalin.» «L'America è forte» disse Peppone. «In America non ci arriverà mai.» «Non si sa: l'avvenire è nelle mani di Stalin, compagno.» Peppone sospirò poi si mise a sedere. «Mi gira la testa, reverendo. Dieci milioni!…»
«Pigliati su la merce e portatela a casa. Però rimandami la valigia. Quella è mia.» Peppone si alzò: «No, reverendo! Per favore, tenete voi tutto. Ne parliamo domani. Adesso non capisco più niente». Peppone se ne andò e don Camillo, presa la valigia, salì al primo piano e si buttò nel letto. Era stanco morto ma non riuscì a dormire molto perché, alle due di notte, lo svegliarono e dovette scendere. Erano Peppone e sua moglie tutti imbacuccati. «Reverendo» spiegò Peppone «cercate di capirmi… Mia moglie vorrebbe vedere come sono fatti dieci milioni…» Don Camillo andò a prendere la valigia e la pose di nuovo sulla tavola. La moglie di Peppone, appena vide le banconote, impallidì. Don Camillo aspettò pazientemente che lo spettacolo fosse finito. Poi richiuse la valigia e andò ad accompagnare alla porta Peppone e la donna: «Cercate di dormire» disse don Camillo. Tornò a letto ma, alle tre del mattino, dovette scendere ancora. E ancora si trovò davanti Peppone. «Be'? Non è ancora finito il pellegrinaggio?» Peppone allargò le braccia: «Reverendo, sono venuto a prendere la valigia».
«Adesso? Neanche per sogno: l'ho già nascosta in solaio e sta sicuro che non salgo a prenderla. Vieni domani. Ho sonno e ho freddo. Forse non ti fidi?» «Non è questione di fidarsi. Mettete il caso che, si fa per dire, vi venga un accidente qualsiasi… Come faccio a dimostrare che quei soldi sono miei?…» «Vai a letto tranquillo: la valigia è sigillata e c'è scritto il tuo nome. Io penso a tutto.» «Capisco, reverendo… Comunque è meglio che i soldi siano in casa mia…» Don Camillo avvertì un tono di voce che non gli piacque. E allora cambiò improvvisamente tono anche lui. «Di che soldi parli?» domandò. «Dei miei! Di quelli che siete andato a ritirare per me a Roma!» «Tu sei pazzo, Peppone. Tu sogni. Io non ho mai ritirato soldi tuoi!» «La schedina era mia!» ansimò Peppone. «Pepito Sbezzeguti sono io!» «Ma se c'è stampato su tutti i muri che non sei tu. La dichiarazione è tua!» «Sono io! Pepito Sbezzeguti è l'anagramma di Giuseppe Bottazzi!» «Niente affatto: Pepito Sbezzeguti è l'anagramma di Giuseppe Bottezzi. Tu ti chiami Bottazzi, non Bottezzi. Mio zio si chiama Giuseppe Bottezzi: io ho ritirato la schedina per lui.»
Peppone scrisse con mano tremante Pepito Sbezzeguti sul margine del giornale disteso sul tavolo, poi scrisse il suo nome e controllò: «Maledizione!» urlò. «Ho messo una "e" al posto della "a"! Ma i soldi sono miei!» Don Camillo si avviò lungo la scala per tornare a letto e Peppone lo seguì, sempre insistendo che i soldi erano suoi. «Non agitarti, compagno» lo ammonì don Camillo entrando nella camera e mettendosi a letto. «Io i dieci milioni non me li mangerò. Li userò per la tua causa, per la causa del popolo, distribuendoli ai poveretti.» «Al diavolo i poveretti!» urlò fuori di sé Peppone. «Porco reazionario!» esclamò don Camillo accomodandosi tra le coltri. «Vattene e lasciami dormire.» «Datemi i miei soldi o vi ammazzo come un cane!» urlò Peppone. «Pigliati la tua porcheria e vattene!» borbottò don Camillo senza voltarsi. La valigia era lì sul comò. Peppone l'agguantò e, nascostala sotto il mantello, scappò via. Don Camillo lo udì sbattere la porta dell'andito e sospirò. «Gesù» disse severamente «perché farlo vincere, rovinargli la vita? Quel poveretto non meritava una punizione simile!» «Prima mi rimproveri perché quel danaro è un premio non meritato, adesso mi rimproveri perché quel danaro è una
punizione ingiusta. Evidentemente non ne azzecco più una con te, don Camillo» rispose il Cristo. «Gesù, non parlo con Voi, parlo con la Sisal» precisò don Camillo prendendo finalmente sonno.
174 L'UOMO SENZA TESTA Don Camillo balzò in piedi e si sarebbe anche messo a urlare perché la scoperta era straordinaria, ma i rintocchi dell'orologio del campanile vennero a distoglierlo dal suo proposito e gli ricordarono come, alle tre di notte, l'unica cosa sensata che si possa fare sia quella di andarsene a dormire. Don Camillo ne convenne ma, prima di abbandonare il campo, volle ancora rileggersi quella notizia straordinaria venuta a galla sulle acque morte dei secoli passati: «L'8 novembre 1752 accadde un fatto tremendo…». Il diario dell'antico parroco veniva a spiegare finalmente il mistero della pietra nera e offriva a don Camillo un eccellente argomento per la predica della domenica. Don Camillo chiuse il librone e corse a buttarsi a letto perché era già domenica da più di tre ore. * «Fratelli» disse don Camillo al sermone della Messa delle undici. «Oggi voglio parlarvi della pietra nera. Quella pietra nera che tutti avete visto piantata per terra in un angolo del cimitero, quella misteriosa pietra sulla quale sta scrit-
to: "8 novembre 1752 – Qui giace un uomo senza nome e senza volto". Quante discussioni, quante ricerche sono state fatte per scoprire il senso di quella misteriosa iscrizione! Ma oggi, finalmente, tutto è spaventosamente chiaro…» Un mormorio di meraviglia accolse l'affermazione di don Camillo. E don Camillo riprese: «Già da alcuni mesi, sera per sera, io vado passando con estrema cura i vecchi libri della parrocchia trovati nell'armadio famoso, e, come sapete, ho trovato molte interessanti notizie. Ma, come ancora non sapete, ho trovato stanotte la notizia più straordinaria. E ve la traduco ora in lingua corrente dallo stesso documento originale: "L'8 novembre 1752 accadde un fatto tremendo. Da oltre un anno una banda di sciagurati batteva il nostro paese e i paesi vicini e compiva le sue delittuose imprese nel cuor della notte e veniva chiamata 'banda del buco' in quanto si introduceva nelle case praticando con infernale destrezza un pertugio in qualche muro. Mai nessuno dei briganti venne colto con le mani nel sacco, ma la notte dell'8 novembre accadde che il mercante Giuseppe Folini del Crocilone fu risvegliato da un rumore sospetto e, sceso cautamente dal letto e cautamente entrato nel magazzino ove era riposta la sua mercanzia, si accorse che il rumore proveniva dal muro verso i campi, ove non erano finestre o porte. Qualcuno dall'esterno stava evidentemente praticando un pertugio nel muro per entrare e non poteva trattarsi che d'una nuova impresa della 'banda del buco'.
«"Di lì a pochi istanti, quando il Folini ancora era incerto sul da farsi, un pezzo di calcinaccio si staccò dal muro a meno di una spanna dal livello del pavimento e, poiché un po' di luce lunare entrava da un finestrino e poiché il suo occhio s'era abituato al buio, il Folini vide che un mattone si muoveva. Difatti il mattone lentamente venne cavato via e una mano bianca e sottile spuntò dallo stretto pertugio e, agguantato un altro mattone, lo smosse e lo divelse. Allargato così il pertugio, la mano riapparve con tutto l'avambraccio e prese a tastare cautamente il muro tutt'intorno al buco per vedere se al muro fosse appeso o appoggiato qualcosa che potesse cadere e far rumore. «"Il Folini, uomo robusto, afferrò al polso quel braccio, deciso a non lasciare la presa. E, nello stesso tempo, incominciò a urlare. «"Sopraggiunsero i familiari, e un figlio del Folini con molti giri di corda legò il braccio del malvivente e così il malvivente si poteva dire irrimediabilmente catturato. «"La casa del Folini essendo isolata, non si poteva dare l'allarme ed essere uditi dalla gente del paese. E i Folini, per timore di cadere in una imboscata dei complici del malvivente, attesero a uscire che fosse giorno. A ogni modo uno della banda era preso e, messo nelle mani della giustizia, avrebbe detto chi erano gli altri. «"All'alba i Folini uscirono e si portarono cautamente dietro la casa. Ma trovarono soltanto un cadavere decapitato. I briganti, per timore che, sotto la tortura, il complice cattu-
rato disvelasse i loro nomi, e per evitare che identificando il disgraziato la giustizia potesse avere qualche indizio che la portasse sulle tracce della banda, l'avevano ammazzato segandogli la testa e portandosela via. «"Visto che niente lo sciagurato recava indosso che potesse portare alla sua identificazione, la salma decapitata venne da me nottetempo sepolta in un angolo del cimitero, ponendo io a segnacolo una pietra nera con la scritta: '8 novembre 1752 – Qui giace un uomo senza nome e senza volto'…"». Don Camillo chiuse il vecchio librone poi, contemplato per qualche istante lo sgomento della gente, concluse: «Fratelli, ecco con questa tremenda storia svelato un mistero. Sotto la pietra nera dorme un uomo senza testa. Questo è orrendo, ma più terrificante ancora è il fatto che non uno ma cento uomini senza testa vivono e operano in questo paese e, con infernale destrezza, lavorano per praticare un buco nel muro meno sorvegliato d'ogni casa allo scopo di introdursi in ogni casa per togliere alla gente il cervello, sostituendolo con la propaganda e con le direttive di un partito politico di estrema sinistra che non nomino per ovvie ragioni…». *
La storia dell'uomo senza testa suscitò una grande impressione in paese e tutti vollero andarsi a rivedere la pietra nera del cimitero. Al Crocilone la vecchia casa dei Folini era ancora in piedi: non serviva più da abitazione ma da magazzino foraggi e, ai piedi del muro verso i campi, crescevano alte erbacce. L'erbaccia fu falciata e il buco venne identificato. E chi, di sera, doveva passare per il Crocilone, pigiava forte sui pedali del biciclo o girava, se era in motocicletta, la manetta del gas, per via di quel brividino che tutti si sentivano correre lungo il filone della schiena. Sopraggiunsero le prime brume del novembre e il grande fiume diventò cupo e misterioso. E, una sera, la vecchia Gabini, ritornando da Castellina per la strada sull'argine, incontrò un uomo senza testa. Rincasò pazza di paura e la dovettero portare a letto perché non aveva più neanche la forza di reggersi in piedi. Volle il prete e chi andò in paese a chiamare don Camillo si fermò un momento al caffè sotto il portico per bere un grappino e raccontò il fatto. Così, in pochi istanti, tutto il paese fu a conoscenza dell'incontro e don Camillo, al suo ritorno dalla casa della vecchia Gabini, trovò sul sagrato un mucchio di gente che voleva sapere di che diavoleria si trattasse. «Stupidaggini!» spiegò don Camillo. «Se la vecchia Gabini non stesse male, ci sarebbe da ridere.» In verità la poveretta aveva detto cose che non stavano né in cielo né in terra:
«Reverendo! L'ho visto: era lui!». «Lui chi?» «Lui, quello senza testa sepolto sotto la pietra nera! Mi sono trovata improvvisamente a faccia a faccia con lui.» «A faccia a faccia? E come mai? Non era senza testa?» «Senza testa, reverendo. Era in bicicletta e andava adagio…» Don Camillo aveva sghignazzato: «O bella! E come faceva ad andare in bicicletta se è morto nel 1752 quando le biciclette non esistevano?». «Non lo so» aveva balbettato la vecchia. «In questo tempo si vede che avrà imparato… Ma io sono sicura che era lui! Lui, l'uomo senza testa.» Il racconto di don Camillo divertì molto la gente adunata sul sagrato, e la storiella del fantasma che aveva imparato ad andare in bicicletta rimbalzò allegramente da casa a casa. Per una quindicina di giorni non accadde niente di straordinario ma ecco che, improvvisamente, l'uomo senza testa si rifece vivo. Lo aveva incontrato poco dopo il tramonto Giacomone il barcaiolo. Passando attraverso il macchione di gaggìe, se lo era trovato lì davanti, sul sentiero. E l'uomo senza testa stavolta non era in bicicletta ma camminava a piedi come ben si addice a un fantasma del Settecento. Fu lo stesso Giacomone ad andarlo a raccontare a don Camillo.
«Tu bevi troppo, Giacomone!» gli disse don Camillo quand'ebbe udita la storia. «Non bevo da tre anni» rispose Giacomone. «E non sono il tipo che si impressioni. Io mi limito a riferirvi quello che ho visto con questi occhi: un uomo dalla testa mozza.» «Non hai visto per caso un uomo che, per ripararsi dalla pioggia, si era tirato la giacca sulla testa?» «Ho visto il collo mozzo.» «Non hai visto niente! Credi di aver visto. Domani ritorna nel punto preciso dove ti pare d'esserti incontrato con l'uomo senza testa, guardati bene attorno e scoprirai la frasca o la pianta che ti hanno suggerita quell'illusione.» Giacomone, il giorno dopo, andò e assieme a lui andarono almeno venti persone. Trovarono il punto dell'incontro, si guardarono attorno ma non videro niente che potesse dar l'idea d'un uomo con la testa mozza. L'uomo senza testa apparve una settimana dopo a un giovanotto e allora la gente non si domandò più se le apparizioni fossero vere o no. Si pose semplicemente la domanda: «Perché l'uomo senza testa va in giro? Cosa cerca?». La ragione era evidente: l'uomo senza testa cercava la sua testa. La rivoleva perché giacesse, assieme al resto, in terra benedetta. Don Camillo non accettò di esprimere nessun parere sul motivo che spingeva l'uomo senza testa a girovagare per gli argini e lungo le carrarecce:
«Non voglio sentir parlare di queste sciocchezze!» rispondeva a chi lo interpellava. Ma, un giorno, si sentì profondamente turbato e disse il suo cruccio al Cristo dell'aitar maggiore: «Gesù, da quando io sono parroco in questo paese io non ho mai visto tanta gente venire in chiesa. All'infuori di Peppone e dei pochi barabba del suo stato maggiore, ci sono sempre tutti: vecchi, giovani, sani, malati». «E non sei contento, don Camillo?» «No: è soltanto la paura che spinge qui tanta gente. Non è timor di Dio. E io mi cruccio di questo e del fatto di vedere tanta povera gente piena di paura. Vorrei che l'incubo finisse.» Il Cristo sospirò. «Don Camillo, fra tutta questa gente che ha paura, non ci saresti per caso anche tu?» Don Camillo allargò le braccia ed esclamò con estrema sicurezza: «Gesù, don Camillo non conosce cosa sia la paura!». «Ciò è molto importante, don Camillo: basterà il fatto che tu non abbia paura per liberare gli altri dalla paura.» Don Camillo si rasserenò, ma la storia delle apparizioni dell'uomo senza testa continuò e venne complicata dall'intervento di Peppone. Peppone, infatti, un giorno affrontò in piena piazza don Camillo e gli disse alzando la voce in modo da essere udito almeno fino oltre il fiume:
«Reverendo, sento parlare in giro di una strana faccenda nella quale si parla di un uomo senza testa! Ne sa qualcosa, lei?». «Io no» rispose con aria stupita don Camillo. «Di che cosa si tratterebbe?» «Pare che un uomo senza testa si faccia vedere di sera in giro per il paese.» «Un uomo senza testa? Dev'essere di sicuro uno che cerca la Casa del Popolo per venirsi a iscrivere al tuo partito.» Peppone incassò senza spostarsi di un millimetro. «Già: ma non potrebbe invece trattarsi di un fantasma fabbricato in canonica e poi messo in circolazione allo scopo di terrorizzare la gente e indurla a cercare rifugio all'ombra della sottana del parroco?» «In canonica non si fabbricano fantasmi né con la testa né senza testa» replicò don Camillo. «Ah: i fantasmi senza testa li fate arrivare dall'America?» «E perché rivolgersi all'industria estera quando la succursale locale del tuo partito fabbrica i migliori fantasmi senza testa?» Peppone ridacchiò: «Comunque un fatto è certo: il fantasma dell'uomo senza testa è uscito dalla fabbrica della canonica!». «È uscito dalla fabbrica dei cervelli malati. La storia di un uomo senza testa l'ho raccontata io, ma è uscita dalla fab-
brica della storia. Il documento è a completa disposizione di chi ha dei dubbi.» Don Camillo si avviò verso la canonica e Peppone lo seguì assieme allo Smilzo, al Brusco, al Bigio e agli altri pezzi grossi dello stato maggiore. Il libro famoso era ancora sulla scrivania del tinello; don Camillo lo indicò a Peppone: «Cerca l'8 novembre del 1752 e leggi». Peppone sfogliò lentamente il libraccio e, trovato il punto che interessava, lo lesse. Poi lo rilesse. Poi lo fece leggere agli altri. «Se avete dei dubbi sulla autenticità del documento, padronissimi di farlo studiare da un competente di vostra fiducia. In tutta questa storia l'unica cosa che mi si può rimproverare è quella di non aver neppure lontanamente pensato che una cronaca del 1752 avrebbe potuto eccitare pericolosamente le fantasie.» Il Bigio tentennò il capo: «Allora qualcosa di vero c'è nella faccenda dell'uomo senza testa» borbottò. «C'è di vero semplicemente quello che sta scritto su quel foglio!» affermò don Camillo. «Tutto il resto è fantasia, invenzione!» La banda se ne andò cogitabonda e, la sera, altri due del paese incontrarono l'uomo senza testa. Il giorno seguente un gruppo di madri di famiglia si presentò a don Camillo: tutte le donne erano agitatissime.
«Reverendo, bisogna che lei intervenga! Bisogna fare qualcosa: benedire la tomba della pietra nera, dire una Messa di suffragio per quell'anima in pena!» «No» rispose don Camillo. «Qui non c'è nessuna anima in pena: qui ci sono soltanto le vostre stolte fantasticherie che io non posso avallare col mio intervento.» «Andremo a protestare dal Vescovo!» gridarono le donne. «Andate dove volete: nessuno può ordinarmi di credere ai fantasmi!» * L'incubo divenne sempre più pesante, oramai l'uomo senza testa era stato visto da decine e decine di persone: il morbo della paura aveva infettato i cervelli più positivi e la situazione diventava sempre più preoccupante. E, una sera, don Camillo decise di intervenire. Aspettò che ogni vita si spegnesse nel paese e andò a bussare alla porta di Peppone. Peppone era ancora alzato e venne subito ad aprire. Pioveva a scrosci e quello che disse don Camillo parve più che naturale a Peppone: «Debbo andare da uno che sta morendo, e in bicicletta non ce la faccio. Portami in macchina». Peppone tirò fuori dalla rimessa la macchina che usava per il servizio pubblico. Salirono.
«Portami un momentino in canonica» disse don Camillo. Arrivati davanti alla canonica, don Camillo scese e volle che scendesse pure Peppone. «Debbo parlarti» spiegò don Camillo quando furono in tinello. «E c'era bisogno di tutta questa commedia?» «Di questa e di altre commedie ancora. Qui tutti stanno impazzendo e noi che abbiamo ancora il cervello a posto dobbiamo a ogni costo liberare la gente dal terrore. Non è onesto quello che ti propongo, ma mi carico di ogni responsabilità di fronte a Dio e di fronte agli uomini. Dobbiamo simulare il ritrovamento di un teschio. Studieremo il posto più adatto: io lo seppellirò e tu farai in modo di ordinare dei lavori di sterro che permettano di ritrovarlo. Lo seppellirò assieme a una mezza moneta dell'epoca. L'altra mezza moneta la seppellirò in mezzo alle ossa, nella tomba sotto la pietra nera. Capisci?» Peppone sudava. «È una cosa spaventosa» balbettò. «Ma è più spaventoso il fatto che la gente stia impazzendo dalla paura. Bisogna liberare la gente da una suggestione con un'altra suggestione. Adesso si tratta di concordare il piano nei particolari.» Concordarono il piano nei particolari e così si fece tardi. Peppone risalì in macchina che erano già le due di notte, ma subito lanciò un'imprecazione.
«Cosa c'è?» domandò don Camillo che stava ancora sulla porta. «Ci deve essere un guaio nella batteria: l'avviamento non funziona.» Tentò con la manovella ma tutto fu inutile. «Lasciala qui, la verrai a prendere domattina» disse don Camillo. «Ti accompagnerò fino a casa. Tanto sono già bagnato fino alle ossa.» Si avviarono sotto la pioggia per la stradetta che girava attorno al paese e, a un tratto, Peppone si fermò attanagliando con una mano il braccio di don Camillo. L'uomo senza testa era lì davanti, in mezzo alla strada. Il cielo era pieno dei bagliori della tempesta e si vedeva benissimo l'uomo senza testa. L'uomo senza testa si incamminò e Peppone e don Camillo lo seguirono lentamente. Svoltò per la viottola che portava all'argine e, giunto sotto una quercia secolare, si fermò. Don Camillo e Peppone ristettero. Il bagliore d'un fulmine illuminò ancora una volta l'uomo senza testa fermo sotto la quercia. Poi un orrendo bagliore accompagnato a un tremendo schianto intontì per qualche istante don Camillo e Peppone. Il fulmine aveva frantumato la quercia secolare già svuotata dal tempo scalzandone fin le radici. Nuovi bagliori illuminarono quella rovina, ma l'uomo senza testa non c'era più.
Don Camillo si ritrovò rannicchiato dentro il letto senza neppur sapere come e cadde in un sonno di piombo. Lo svegliarono la mattina presto e lo trascinarono fuori. Attorno alla quercia abbattuta c'era mezzo il paese e, nella terra nera, fra le radici divelte, biancheggiava un teschio. La gente non ebbe un attimo d'esitazione: non poteva appartenere che all'uomo senza testa. Il modo col quale era saltato fuori lo stava a dimostrare. Lo portarono la mattina stessa alla tomba della pietra nera. E tutti ebbero la sensazione che l'incubo era finito. Rincasando ancora allocchito, don Camillo andò a inginocchiarsi davanti al Cristo. «Gesù» balbettò «Vi ringrazio d'avermi punito per il mio peccato di presunzione: adesso conosco cos'è la paura.» «Credi dunque anche tu alle storie dei fantasmi senza testa?» «No» rispose don Camillo. «Ieri sera, per un istante, il mio cervello personale è stato dominato dalla paura collettiva.» «È una spiegazione quasi scientifica» sussurrò il Cristo. «È un mezzo come un altro per non confessarvi la mia vergogna» spiegò umilmente don Camillo. L'uomo dalla testa mozza ebbe una testa: era la sua? Non era la sua? Comunque si accontentò e non disturbò più la fantasia della gente.
E il grande fiume placido portò al mare anche questa storia, come una foglia morta.
175 (a, b) IL FRATE CERCÓNE Il Barchini entrò in canonica agitatissimo senza neanche domandar permesso. «Reverendo!» esclamò cavando di tasca un giornale e sciorinandolo davanti a don Camillo che stava scrivendo una lettera. «Hanno dovuto pubblicare la notizia anche loro!» Don Camillo prese il giornale e, data un'occhiata alle prime righe dell'articolo che aveva messo tanto in frenesia il Barchini, si rallegrò: «Questo sistema ogni cosa!». «Reverendo, leggete il commento se volete sentirne delle grosse!» disse il Barchini. «Il commento non mi interessa» rispose don Camillo. Mi interessa il fatto che il loro giornale abbia pubblicato la lettera di dimissioni. Non possono più risponderti che loro non sanno niente di deputati e di senatori e che non si occupano delle fantasie della stampa reazionaria. Comunque, lasciami il giornale.» Il Barchini se ne andò e don Camillo lesse con estrema diligenza tutto l'articolo. Poi lo rilesse analizzandone ogni parte. Quindi, riposto il giornale nel cassetto della scrivania,
si buttò sulle spalle il tabarro e andò a fare un giretto in paese. Arrivato davanti all'officina di Peppone, diede una rapida occhiata esplorativa attraverso la finestra e, visto che la situazione si presentava quanto mai favorevole, si diresse deciso verso la porta ed entrò. Peppone stava discutendo con lo Smilzo, col Bigio, col Brusco e con gli altri pezzi grossi dello stato maggiore e non era difficile capire quale fosse l'argomento della discussione perché l'Unità era lì, in mezzo al crocchio, sciorinata sull'incudine. «Disturbo?» si informò don Camillo ad alta voce. «Molto!» borbottò Peppone lanciando a don Camillo un'occhiata feroce. «Vado via subito» disse don Camillo. «Ho bisogno semplicemente di dare una guardatina all'Unità. Non sono riuscito a trovarne una copia da nessuna parte.» Don Camillo aveva già allungato la zampa verso l'incudine e Peppone non fece a tempo a impedirgli di agguantare il giornale. «Quando circolano notizie sensazionali» spiegò don Camillo mentre si accostava alla finestra per dare in buona luce la guardatina al giornale «non mi fido di nessuno e voglio sentire tutt'e due le campane prima di tirare una conclusione…»
Ma aveva evidentemente trovato quello che cercava perché s'interruppe concentrandosi nella lettura dell'articolo che aveva già letto e riletto in canonica. Alla fine si avvicinò al crocchio e rimise il giornale sull'incudine. «La notizia di quel vostro deputato che ha dato le dimissioni perché come cristiano cattolico non se la sentiva più di rimanere in un partito scomunicato dalla Chiesa è dunque vera!» esclamò. Peppone non era in grado di rispondere con sufficiente serenità; rispose per lui lo Smilzo: «Vera come la notizia di tre mesi fa. Quella del gesuita che ha dato le dimissioni da prete e si è iscritto al Partito comunista. Perché non siete venuto a chiedere l'Unità allora?». «Forse perché tu me ne hai fatto trovare sei copie incollate sul muro della canonica» spiegò don Camillo. Peppone, superata la crisi, passò al contrattacco: «Certo, reverendo, che quello è stato un gran brutto colpo per voi!». «E perché mai? Se un cattivo sacerdote se ne va è un ottimo affare per la Chiesa.» «Ottimo come quello che fa adesso il Partito perdendo un cattivo compagno!» gridò trionfante Peppone. Don Camillo scosse il capo. «Non è precisamente così: il tuo partito non perde un cattivo compagno, perde un buon cristiano.»
«Ma che buon cristiano!» urlò Peppone. «Ci sono a centinaia di migliaia di buoni cristiani, nel Partito, e neanche uno si sogna di dare le dimissioni. Non esiste nessuna incompatibilità!» «La Chiesa è di parere opposto.» «La Chiesa può dire quello che vuole. Oramai è chiaro: la Chiesa fa della politica e cerca di impaurire gli ignoranti per portar via voti al Partito del popolo.» «Quel vostro deputato non mi pare un ignorante.» «Lo si vedrà chi è.» «Lo si è già visto» affermò calmo don Camillo. «È un uomo che ha ascoltato la voce della sua coscienza. Date retta a me: se avete ancora una coscienza e se questa coscienza qualche volta vi parla, ascoltate le sue parole e seguite l'esempio del vostro deputato dando anche voi le dimissioni dal partito.» «Quando avremo bisogno delle vostre prediche verremo in canonica» disse Peppone con voce cupa e minacciosa. «Sta bene» rispose don Camillo. «Allora ci vedremo presto perché avete davvero un gran bisogno di prediche.» Dicendo queste parole don Camillo non pensava che prima di sera avrebbe rivisto Peppone e la sua banda. Peppone e il suo stato maggiore, infatti, arrivarono alla canonica nel pomeriggio, ma non entrarono. Si fermarono davanti alla finestra del tinello e fecero cenno a don Camillo di uscire.
«Ho ripensato alle vostre parole» spiegò Peppone quando si trovò al cospetto di don Camillo. «Esiste incompatibilità. Quindi sono venuto a dare le mie dimissioni.» Don Camillo non riusciva a orizzontarsi: «Dimissioni?» balbettò. «Ma io cosa c'entro? Presentale al tuo partito.» «No, le presento a voi perché intendo dare le mie dimissioni da cattolico.» Don Camillo allargò le braccia. «Le tue dimissioni le hai già date da quando, invece di obbedire alle direttive della Chiesa, hai obbedito alle direttive del tuo partito, quando cioè ti sei messo contro la legge.» «Però, agli effetti legali, io resto sempre cattolico» replicò Peppone. «Tanto è vero che, quando io debbo riempire un qualsiasi formulario, alla domanda della religione io sono costretto a rispondere "Cattolica" se non voglio dichiarare il falso. Io sono sempre in forza nell'organizzazione clericale per il semplice fatto che il mio nome è scritto nel libro dei battezzati. Cancellatelo. Non sono stato io a chiedere di essere battezzato perché allora avevo pochi giorni e non ero in grado di ragionare.» «Neppure adesso che hai un sacco d'anni sei in grado di ragionare» affermò don Camillo. «Comunque, anche se ti hanno battezzato senza il tuo consenso, nessuno ti ha tolto la libertà di agire come meglio credi. Quando sei nato, i tuoi genitori ti hanno comprato un biglietto per compiere il tuo viaggetto e arrivare in Paradiso. E poi, con un nastrino ti
hanno appeso il biglietto al collo. Ma ti hanno lasciato la piena facoltà di usare questo biglietto o di non usarlo. Mica ti hanno obbligato ad andare in Paradiso: puoi sempre buttar via il biglietto e andare all'Inferno.» Peppone era un omaccio, però aveva una sensibilità speciale per le minime sfumature; sentendosi mandare all'Inferno strinse i pugni: «All'Inferno vi ci manderemo noi il giorno in cui trionferà la causa del popolo!». Don Camillo sorrise: «E come farete a mandarmi all'Inferno se, allora, io sarò già in Paradiso da almeno tre o quattromila anni?». Peppone voleva continuare ma lo Smilzo lo dissuase: «Capo, non vai la pena di insistere: qui siamo in piena atmosfera di oscurantismo medievale. Trecento anni fa il parroco d'allora faceva di sicuro gli stessi discorsi usando le stesse parole. I preti non si accorgono che il mondo cammina. Andiamo, non stiamo qui a perdere tempo». «Veramente non so neanche perché siate venuti» disse don Camillo. «Per farvi vedere come il popolo reagisce alle illecite pressioni delle autorità ecclesiastiche!» rispose Peppone. «Scrivetelo sul vostro giornale murale, vicino all'articolo sul "caso di coscienza" del deputato.» Peppone aveva un gatto vivo dentro lo stomaco perché, tirate le somme, la spedizione alla canonica risultava un
mezzo fiasco, una cosetta slavata ben diversa dalla spavalda presa di posizione che Peppone aveva progettato. E così ci andò di mezzo un poveretto che non ne aveva nessuna colpa. Infatti, proprio mentre fermi a pie della stradetta che si arrampicava sull'argine Peppone e soci stavano discutendo sulla perfidia del clero in genere e di don Camillo in particolare, arrivò, come un piccioncino dentro un nido di falchi, un frate cercóne. Era un fraticello striminzito e scarlingàto con un sacchetto in spalla e a vederlo camminare così sbilenco dava l'idea che dovesse sfasciarsi da un momento all'altro oppure inabissarsi d'improvviso dentro il saio. Arrivava da Dio sa dove per la strada sull'argine e, quando vide il gruppo di Peppone e soci, venne giù come una piccola valanga d'ossa. Lo guardarono cupi e lo lasciarono parlare un bel po', quindi Peppone disse con sarcasmo: «Se, invece di sciuparvi ad andare in giro, provaste a fare qualche lavoretto di utilità pratica, forse vi trovereste meglio». Il fraticello sorrise: «Noi non cerchiamo di trovarci meglio, cerchiamo di trovarci peggio». «Affari vostri!» borbottò Peppone. Il fraticello era timido e umile:
«Non sono affari nostri: il convento non ha niente e ogni giorno la gente che ha fame viene a bussare alla porta del convento. Noi chiediamo il superfluo per poter fornire il necessario a chi soffre». Peppone sghignazzò: «Se quelli che soffrono, invece di andare a bussare alle porte dei conventi, si unissero e pestassero legnate sulla zucca di quelli che stanno troppo bene, tutto andrebbe a posto subito». «Bisogna aver fede nella Divina Provvidenza» mormorò il frate cercóne. «Con la violenza si ottiene soltanto altra violenza. Il male non lo si guarisce col male. Per avere del bene, bisogna fare del bene.» Peppone sghignazzò. «Allora rimaniamo intesi così. Arrivederci.» Il frate cercóne non si scoraggiò. «Non potreste darmi qualcosa? Anche pochino.» «No!» urlò Peppone con violenza. Il fraticello ebbe un sussulto: frugò nella manica e, pescato un foglietto, lo porse a Peppone. «Fatemi la carità di accettare almeno questo santino» sussurrò. «Non mi serve» rispose Peppone. Il fraticello pareva che non si fosse accorto della presenza di tutti gli altri e aveva occhi soltanto per Peppone. Ritirò lentamente la mano col santino. Poi si volse e risalì faticosamente sull'argine per riprendere la sua strada.
«Bisogna mettere dei cartelli in paese» disse Peppone: «"Vietato l'accattonaggio anche ai frati e alle suore".» «Giusto!» approvò lo Smilzo. «È ora di passare energicamente all'azione. Questi frati cercóni, per il novantacinque per cento sono spie del Vaticano.» Venne sciolta la seduta e ognuno tornò a casa per conto suo. Peppone scelse la strada più lunga, quella dell'argine: aveva bisogno di rimanere un po' solo per poter smaltire tutta la bile che aveva nello stomaco. Giunto sull'argine guardò verso Castelletto e riuscì a intravedere ancora il fraticello che si allontanava rapidamente. «Va a farti benedire tu e il tuo santino!» borbottò. Arrivato a casa si cavò la giacchetta, si mise la tuta, andò in officina e cercò di lavorare, ma era ancora troppo nervoso per poter concludere qualcosa di buono. Si rimise la giacchetta, e, tirata fuori la bicicletta, uscì per fare un giretto fino al paese. Si ritrovò sulla strada dell'argine e già una nebbiolina leggera era venuta su dal fiume. Peppone incominciò a pigiare forte sui pedali: bisognava fare presto altrimenti non avrebbe più potuto trovare niente. Pedalò un bel pezzo poi, incontrato un vecchio poco prima del bivio della Pioppetta, si fermò. «Avete visto un frate?» «Mi pare» rispose il vecchio.
«Come si fa a dire "mi pare"? O l'avete visto o non lo avete visto!» «Un quarto d'ora fa io ho incontrato alla chiavica vecchia un fagotto di stracci che aveva il colore del frate, ma non ho visto bene cosa c'era dentro il fagotto.» Peppone riprese il cammino. Passò la chiavica vecchia di due chilometri e poi tornò indietro perché, anche ammesso che quel dannato frate avesse le gambe di Dorando Petri, non poteva essere andato più in là. Sicuramente era svoltato subito dopo la Chiavica vecchia. Peppone si buttò su questa nuova pista ma non trovò nemmeno l'ombra di un frate. E intanto la nebbia si ispessiva. Nel ritornare verso la Chiavica vecchia, poco prima di sfociare sull'argine, notò uno stradello che si inoltrava tra i campi verso Torricella. «Cretino!» borbottò. «C'è un convento fra Torricella e Gabiòlo. Dovevo pensarci!» Sudava come sapeva sudare soltanto lui e lo stradello era schifoso, come fondo, e la nebbia diventava sempre più fitta, ma oramai Peppone aveva mollato i cavalli e nessuno poteva fermarlo. A un tratto intravide qualcosa di scuro sul ciglio del fosso. Strinse i freni ed era il fagotto di stracci color frate. Il fraticello che era seduto sul ciglio del fosso si levò e guardò sbalordito quell'omaccio.
Lo riconobbe. «Mi sono perduto nella nebbia» borbottò Peppone. «Sapete se vado bene per Gabiòlo?» «Sì» rispose il frate. «Io torno al convento che è due chilometri prima di Gabiòlo.» Peppone rimase perplesso. Poi prese coraggio: «Venite su, vi porto in canna fino al convento». Il frate cercóne sorrise: «Grazie, fratello. Noi cerchiamo sempre di star peggio, non di star meglio». Si avviò col sacchetto in spalla e Peppone scese dalla bicicletta e camminò al suo fianco. La nebbia si incupiva sempre di più e i due adesso erano lontani dal mondo un milione di chilometri. A un tratto, Peppone si fermò e si fermò anche il frate. «Per i vostri poveri» borbottò Peppone porgendo al frate un foglio da mille. Il fraticello guardò sbalordito l'omaccio e non sapeva risolversi ad allungare la mano. «Dio ve ne renderà merito» mormorò alla fine e, riposto il danaro, riprese a camminare. Ma Peppone non si mosse e allora il frate cercóne si volse e domandò: «Cosa c'è?». «Il santino!» disse Peppone. Il fraticello si frugò nella manica e pescato il santino lo porse a Peppone che se lo ficcò in saccoccia.
«Buona sera» borbottò Peppone facendo dietro-front e saltando sul biciclo. Il frate cercóne lo guardò scomparire nella nebbia. Era sconcertato: quello non aveva detto che doveva andare a Gabiòlo? Com'è che adesso tornava indietro? Era un frate semplice e, quando non capiva una cosa, non si incupiva nel volerla a ogni costo capire. Si strinse nelle spalle e riprese il suo cammino. Ma subito sentì una grande dolcezza scaldargli il cuore e allora volse gli occhi al cielo e mormorò: «Deve essere una cosa molto bella. Gesù, Ve ne ringrazio». Peppone navigava a tutta birra in mezzo alla nebbia. Quando si ritrovò sull'argine, alla chiavica vecchia, fermò il biciclo, trasse di saccoccia il santino e lo ripose nel portafogli, dentro la tessera del Partito. Gli venne fatto di ripensare al frate cercóne lasciato nello stradello solitario e se lo figurò fermo sulla riva del fosso, intento a parlare agli uccelli che sbucavano a centinaia dalla nebbia e gli si posavano sulle mani e sulle spalle cinguettando. «Oscurantismo medioevale!» borbottò Peppone riprendendo a pigiare sui pedali. «Noi siamo impregnati di oscurantismo medioevale! Bisogna vigilare noi stessi!» Montò immediatamente di sentinella ai suoi sentimenti pronto a dare l'allarme.
Ma, clandestinamente, continuò a pensare al frate cercóne fermo sulla riva del fosso a chiacchierare con i passeri e con gli scriccioli.
176 LA ROSA ROSSA «Capo» disse lo Smilzo entrando nell'ufficio del sindaco «giù in piazza c'è qualcosa che non funziona.» «Non funziona in che senso?» si informò Peppone. «Difficile da spiegare» borbottò lo Smilzo. «È meglio che vedi tu.» Peppone lasciò le sue scartoffie e seguì lo Smilzo. In piazza pareva che tutto fosse a posto, ma sotto il porticato c'era gente ferma davanti a una botteghetta. «Si tratta di Jofìno» spiegò lo Smilzo mentre Peppone marciava decisamente sull'obiettivo. «Cos'ha fatto?» «Dieci minuti fa, appena è arrivata la notizia, ha chiuso bottega e ha inchiodato sulla porta quel cartello lì.» Oramai erano arrivati nel gruppo e il cartello di Jofìno era abbastanza leggibile: «Chiuso per lutto nazionale». Era una cosa incredibile che Jofìno avesse potuto combinare una faccenda di quel genere, perché Jofìno l'orologiaio pareva l'uomo meno tagliato per i colpi di testa. Sui sessantanni, piccolo, striminzito, Jofìno in vita sua non aveva mai detto una parola più del necessario, non s'era mai impic-
ciato di politica, limitando la sua attività alla cura degli orologi malati e alla pesca con la lenza. Eppure Jofìno, appena in paese era arrivata la notizia della morte della Regina, aveva chiuso bottega e aveva inchiodato sulla porta il cartello che adesso la gente stava rimirando muta e perplessa. Oramai Peppone si trovava nel gruppo e doveva per forza darsi un contegno. Accese un mezzo toscano. Come presa di posizione non andava male: però era poco per un sindaco e la repubblica aspettava da lui qualcosa di più sostanzioso. La gente si scostò lasciandogli libero il passaggio fino alla porta della bottega di Jofìno: ciò significava che la repubblica invitava il cittadino Peppone ad arrivare fino alla porta della bottega di Jofìno. Peppone allora arrivò fino alla porta e, comprendendo che non poteva rimanere lì a rimirare il cartello, bussò. La testa di Jofìno apparve alla finestrella del mezzanino. «Ripassate, oggi non lavoro» borbottò Jofìno. «Se non lavorate voi la nazione però lavora» rispose Peppone. «Allora andate a far accomodare il vostro orologio dalla nazione» replicò Jofìno. «Non è una questione di orologi» spiegò Peppone. «Il fatto è che se voi oggi non volete lavorare siete padronissimo
di chiudere bottega. Però è ben chiaro che si tratta di un affare vostro personale.» «La morte della Regina non è un affare mio personale, ma interessa tutta la nazione.» Peppone scosse il capo: «Secondo i casi: in Inghilterra, per esempio, sì, perché in Inghilterra c'è la monarchia. Qui, per esempio, no, perché qui c'è la repubblica. E voi non siete in Inghilterra ma siete qui». Jofìno non risultò per niente convinto dal rigoroso ragionamento di Peppone: «Repubblica o monarchia, una Regina è sempre una Regina, e se muore c'è in tutta la nazione gente che si addolora. Quindi è un lutto nazionale». «Lutto nazionale quando tutta la nazione è d'accordo sulla eccezionale importanza della persona che muore. Qui, per esempio, a me la morte della Regina non fa né caldo né freddo. È come se fosse morta una donna qualsiasi.» Jofìno si ribellò: «La Regina non era una donna qualsiasi e tutti lo sanno!». «Non ha importanza che fosse diversa dalle altre» sentenziò Peppone che incominciava a sudare. «In una repubblica, eccettuata la moglie del Presidente, tutte le altre donne, anche se sono diverse, sono uguali!» Jofìno aveva già parlato troppo:
«Per me è lutto nazionale. Ognuno è libero di pensare come crede». Detto questo Jofìno si ritirò e chiuse la finestra. Peppone si asciugò il sudore della fronte e si volse verso l'assemblea: «È inutile insistere con la gente che non vuol capire!». «Se non vogliono capire, gli si fa capire!» rispose il farmacista che era un repubblicano furioso. «Quel cartello è una provocazione e, senza stare tanto a discutere, lo si toglie.» «Giusto» approvò Peppone. «Quando col ragionamento non si riesce a niente, si deve passare all'azione.» «E allora tolga il cartello e non se ne parli più» disse il farmacista. Peppone scosse il capo: «Nella mia qualità di sindaco non posso andare in giro a strappare cartelli o manifesti» spiegò. «Ogni mia azione deve essere legalmente giustificata altrimenti diventa un arbitrio. Piuttosto lo tolga lei, dottore. Lei rappresenta la giusta reazione dell'opinione pubblica.» Il farmacista rimase titubante, poi scosse il capo. «Ha ragione il signor sindaco» concluse «il fatto è delicato e potrebbe prestarsi a speculazioni politiche. Si agisca nel più stretto ambito della legge. Una commissione si rechi a denunciare il fatto al maresciallo dei carabinieri.» La commissione risultò composta dal farmacista, da Peppone, dallo Smilzo e dal Bigio perché, appena sentirono parlare dì commissioni, tutti se la squagliarono e rimasero
sul posto soltanto il farmacista, Peppone e gli altri due soci della birra. Si avviarono in silenzio verso la palazzina dei carabinieri e, arrivati alla svolta della strada grande dove era la farmacia, Peppone si fermò e si rivolse al farmacista. «A proposito, dottore: lei non ha qualche buona specialità contro il mal di fegato?» «Ne ho due o tre buonissime» rispose il farmacista. «E perché, allora, non ne approfitta per curarsi il fegato?» borbottò Peppone. Il farmacista tentennò il capo poi sbuffò: «Quel maledetto vecchio mi ha fatto perdere la calma. Se non le avesse dette così grosse non avrei parlato. Se venite dentro un momento, vi faccio sentire la china che faccio io. È straordinaria». Entrarono tutti in farmacia e passarono subito nella saletta. Il farmacista riempì quattro bicchierini. La china risultò eccellente e il farmacista fece un secondo giro. E poi ne fece un terzo. Il terzo bicchierino di china tolse a tutti il desiderio di parlare. Stettero zitti un bel po' guardando il tappeto della tavola, poi Peppone sospirò: «Mah!». «È la vita!» disse lo Smilzo. «È il mondo che non è più quello di una volta!» borbottò il Bigio.
Il farmacista agguantò la bottiglia della china e riempì per la quarta volta i bicchieri. Il che stava a significare che egli era fondamentalmente d'accordo con Peppone, con lo Smilzo e col Brusco. Tutti e quattro levarono il bicchiere e brindarono in silenzio a non si sa chi. E il cartello del vecchio Jofìno rimase lì dov'era, e tutto il paese vi sfilò davanti ma nessuno si fermò a commentare. Come se non lo vedessero. * Peppone quella sera non riusciva a dormire perché aveva dentro il cervello una cosa che non riusciva a capire. Intendiamoci: si trattava di un pensiero che gli era nato improvvisamente nel cervello, quindi roba tutta sua personale. Ma un pensiero che finiva con un punto interrogativo. Brutto affare perché si trattava di cosa urgente e non c'era tempo da perdere in contorsioni cerebrali. E, alla fine, arrivò alla conclusione più logica: fare la cosa e poi, in un secondo tempo, cercare di capire perché avesse fatto la cosa. Saltò giù dal letto alle quattro e andò a frugare in mezzo ai ferrivecchi nell'angolo dell'officina e trovò lo spezzone di ferro che serviva al caso suo. Ravvivò il fuoco della fucina e vi ficcò il suo pezzo di ferro.
Poi, quando il ferro fu diventato rosso, incominciò a smartellarlo sull'incudine. Cosa diavolo volesse cavarne fuori lo sapeva soltanto lui. Smartellò fino a mezzogiorno poi nascose il suo ferro nella cenere calda della fucina e andò a mangiare. Non finì neppure perché gli portarono il giornale e, sul giornale, trovò una notizia che lo mise in agitazione. «Oggi non ci sono per nessuno!» disse alla moglie. «Se ricominci a smartellare ti sentiranno» rispose la donna. «Che mi sentano o no poco importa: l'importante è che nessuno mi disturbi.» La moglie di Peppone conosceva il suo pollo e non insistette. Quando Peppone parlava con quel tipo di voce, l'unica cosa da farsi era quella di obbedire alla lettera. Peppone ritornò in officina: chiuse le serrande di ferro delle finestre e riprese a lavorare alla luce della lampadina elettrica. Bisognava far presto perché tutto doveva essere finito per l'indomani e nel giornale c'era l'ora precisa. Non si poteva ritardare di un minuto. Anzi, era necessario finire prima per poter avere il tempo di pensare al perché di tutto il lavoro. Se Peppone non avesse trovato una conclusione logica, tutto sarebbe rimasto una cosa morta, senza significato. Un arnese da mettere nel museo di famiglia. Una carabattola qualsiasi.
Ma, in paese, non c'era soltanto Peppone a vivere ore così agitate. Pur non arrabattandosi a smartellare su una incudine, anche don Camillo stava passando i guai suoi. Perché anche lui, durante il desinare, aveva trovato sul giornale la stessa notizia che aveva messo in allarme Peppone. E adesso camminava in su e in giù per la chiesa deserta senza trovare una soluzione possibile al problema che gli occupava la cassetta del cervello. «Gesù» disse a un tratto rivolto al Cristo dell'aitar maggiore «io so che farò una certa cosa e non so quale sarà.» «Non ti preoccupare, don Camillo: lo saprai quando l'avrai fatta.» «Gesù, mi preoccupo, invece. Perché non so se questa cosa sarà bella o brutta.» «Se sarà brutta, non farla.» «Gesù, farò a tempo ad accorgermene prima d'averla fatta?» «Se, nel frattempo, tu non avrai rinunciato alla tua qualità di uomo pensante, te ne accorgerai.» «Questo mi tranquillizza completamente» sospirò don Camillo. Ma era una grossa bugia che egli diceva non per ingannare il suo Dio ma per ingannare se stesso. * Peppone, intanto, continuava il suo furioso smartellare. Alla sera gli passarono qualcosa da mangiare attraverso la fi-
nestra. Buttò giù un po' di roba e poi si rimise al lavoro. Con le finestre chiuse e la luce accesa, Peppone aveva persa la nozione del tempo e le ore volavano via ma egli non ne teneva conto, solo preoccupato di fare il più presto possìbile. E, alla fine, la cosa fu terminata. Peppone la guardò sbalordito: era una grande, magnifica rosa di ferro battuto. Lo spezzone di ferro era diventato un fiore dai petali sottili. Peppone afferrò la rosa per l'estremità del lungo gambo: sì, la cosa era riuscita, ma era poi riuscita in tempo? Socchiuse l'antone di una finestra e vide che era giorno. L'orologio della torre gli disse che mancavano pochi istanti. Richiuse l'antone e lo sgomento lo prese: aveva fatto la cosa ma era come se non l'avesse fatta perché si trattava di una cosa grigia, fredda. Di una cosa morta. Una inutile cosa morta: una carabattola, un capolavoro artigianesco da mettere nel museo di famiglia. Tanto duro e febbrile lavoro buttato via. Guardò la sua fredda, grigia, grande rosa che, nata fra quei muri, lì sarebbe rimasta, come l'inutile cadaverino di un pezzo di ferro. Intanto don Camillo, dopo aver passato un'ora con lo sguardo appiccicato al quadrante dell'orologio, accortosi che il momento era lì lì per arrivare, s'era buttato disperatamente su per le scale del campanile. E di lì a poco, quando Peppone sentì che le campane suonavano a morto, si riscosse e trovò la soluzione.
Agguantò per il gambo la sua straordinaria rosa e la tuffò tra le fiamme della fucina e girò furibondo la ventola. Poi trasse la rosa dai carboni e la rosa non era più grigia, ma rossa. Era viva! La depose così rossa e sfavillante sull'incudine nera e stette a rimirarla; gli pareva che palpitasse tanto era viva. E quando il rosso accennò a diventar più cupo, Peppone disse: «Adesso il feretro della Regina sta davanti a me!». E buttatosi via di testa il cappello, agguantò il martello grosso e sussurrando «Salve Maestà!» menò sulla rosa una martellata tremenda. E le lacrime di ferro ancora rovente si frantumarono schizzando tutt'intorno. Una manciata di rossi petali sulla bara della Regina morta in terra straniera. Le campane di don Camillo rintoccarono ancora a morto per un bel po'. Poi tacquero e la gente dimenticò immediatamente che le campane avevano suonato. Peppone riaprì gli antoni della finestra e si mise a lavorare attorno al motore di un trattore. Tranquillo, senza più problemi da risolvere perché la rosa rossa era stata fatta ed era arrivata dove doveva arrivare.
177 CUOR DI MEZZADRO D' estate, quando la siccità asciugava i pozzi e, sotto le vampate di sole, le foglie degli olmi prendevano il colore del bruciaticcio e i prati si spelacchiavano, alla Badia l'erba medica, fresca e grassa, arrivava fino a metà gamba. Questo succedeva perché la terra della Badia era ladina e sentiva poco l'asciutto, ma soprattutto perché il podere – una striscia di settecento metri per cinquecento – aveva il lato più lungo disteso a pie dell'arginetto del canale Rovaccia, e nel Rovaccia – poca o tanta – acqua ce n'era sempre e, sotto sotto, ristorava i campi attraverso i quali passava. Il podere si chiamava Badia per via del fabbricato colonico di insolita imponenza. Probabilmente, temporibus illis, giustificava la sua tracotanza: adesso no perché, ad avvicinarsi un momentino, tutto del casone rivelava lo sfacelo. In realtà, nonostante le apparenze, una buona metà del fabbricato si trovava in perfetta efficienza perché l'avevano ricostruito a regola d'arte nel 1938: ma di ciò potevano rallegrarsi soltanto le bestie in quanto si trattava della stalla e del fienile. Il resto, la parte riservata ai cristiani, continuava un disfacimento iniziato almeno duecento anni prima. Disfaci-
mento accelerato dalla guerra che aveva trasformato la Badia in un accantonamento di soldati di due o tre razze. Alla Badia abitavano il figlio e i nipoti del fu Cristoforo Gabassi che nel 1888 si era venuto a insediare alla Badia come mezzadro del Bocci. Tanto per dare un'idea di che tipo di cristiani fossero questi Gabassi, basterà ricordare che la gente aveva ribattezzato la Badia in «Kremlino». Complessivamente i Gabassi erano soltanto dodici: i due vecchi sui cinquantacinque anni, più un figlio di trentacinque ammogliato e con due ragazzacci di quindici e quattordici anni, più altri tre figli maschi di ventisette, ventiquattro e diciotto, più due figlie femmine di venticinque e diciassette, più un cane di cinque anni. La gente metteva il cane tra i componenti della famiglia, però spiegava che il cane era il Gabassi più civile, tant'è vero che era l'unico dei Gabassi che non fosse iscritto al Partito. La gente dei paesi esagera e bisogna sempre fare una abbondante tara su tutto quello che dice: comunque gli undici Gabassi a due gambe, politicamente parlando, valevano almeno quanto trenta dei migliori uomini della banda di Peppone e questo perché, se i Gabassi maschi valevano per due, i Gabassi femmine valevano per quattro. Bocci, il padrone dei Gabassi, abitava in città: un tempo veniva almeno una volta alla settimana alla Badia ma, finita la guerra, non s'era fatto più vedere. Al posto suo i Gabassi videro un bel giorno comparire un amministratore il quale però mise subito le mani avanti:
«Io sono qui semplicemente per fare dei conti: se li volete fare va bene, se non li volete fare, a me personalmente non interessa niente, perché il padrone è il signor Bocci». Il vecchio Gabassi si limitò a indicargli la porta: «Quando il signor Bocci avrà rimesso a posto la casa, allora parleremo di conti». Il giovanotto se ne andò e ritornò dopo un mese a portare la risposta: «Ha detto il signor Bocci che, prima di parlare di altre cose, dovete dargli quello che gli spetta». L'amministratore uscì dalla Badia a becco asciutto naturalmente e la storia diventò lunga e complicata. Alla fine il Bocci mandò l'ultimatum: «Non ho la possibilità di fare le riparazioni perché la spesa è enorme. Se volete rimanere, pagate quello che dovete e poi si vedrà. Se non volete rimanere tenetevi come buona uscita la parte che mi spetta e lasciatemi libero il podere». Intanto, piano piano, la buriana s'era calmata e la data della rivoluzione proletaria pareva rimandata a epoca da destinarsi: i Gabassi pensarono che non avrebbero mai potuto trovare terra straordinaria come quella della Badia e dovettero inghiottire il rospo. Discussero un sacco di tempo sui conti e sugli abbuoni, ma, alla fine, pagarono. Si vendicarono diventando ancora più rossi e, visto che a parlar con l'amministratore di riparazioni alla casa era come discutere col muro, smisero di parlarne e la loro amarezza aumentò.
In verità la casa era in uno stato schifoso e, se i Gabassi avessero portato le bestie in casa andando ad abitare nella stalla, avrebbero fatto un grosso affare. Peppone nei suoi discorsi citava sempre la Badia a esempio dell'egoismo degli agrari e i Gabassi erano diventati il simbolo del mezzadro sfruttato ignobilmente dal padrone e poi trattato peggio di una bestia. Fotografie di qualche interno della Badia vennero anche pubblicate nelle riviste del Partito e ci fu chi si preoccupò di inviare ogni volta una copia della pubblicazione al Bocci. Ma ciò non migliorò la situazione, anzi la peggiorò, perché servì soltanto a invelenire il Bocci. Passò dell'altro tempo ed ecco che, un pomeriggio di domenica, accadde qualcosa di straordinario: entrò nell'aia della Badia una Millequattro e, a bordo della macchina, stavano una signora, un giovanotto e una bella ragazza. «È questo il podere detto Badia?» domandò il giovanotto ai due o tre Gabassi che si erano avvicinati alla macchina. «Sì» rispose il vecchio Gabassi sospettoso. «Bene» si rallegrò il giovanotto scendendo e tendendogli la mano. «Io sono Bocci, Bocci figlio. Questa è mia sorella e questa è la mamma.» I Gabassi si guardarono sbalorditi senza sapere cosa rispondere. «Si accomodino» disse il vecchio Gabassi toccando la mano al giovanotto, poi alla ragazza e alla signora. «Entrino pure.»
«Grazie, caso mai dopo» esclamò il giovanotto. «Adesso approfittiamo di questo pochino di sole per andare a dare un'occhiata al laghetto. Io l'ho visto quando avevo dieci anni e me lo ricordo ancora come una cosa meravigliosa.» «Io ne avevo sette quando l'ho visto assieme a te!» aggiunse la ragazza. «E neanche io l'ho dimenticato. Lo voglio rivedere. Andiamo, mamma!» La signora si volse ai Gabassi: «I figli comandano loro» spiegò sorridendo. «Bisogna accontentarli». Il vecchio Gabassi si avviò e i Bocci lo seguirono. Non ci misero molto ad arrivare al boschetto di pioppi in mezzo al quale si nascondeva la «cosa meravigliosa». Rivista così, in un pomeriggio domenicale dicembrino, la «cosa meravigliosa» risultò più che altro una grande pozzanghera di acqua marcia. Ma il giovanotto e la ragazza ci trovarono un sacco di cose belle. E, siccome l'argine era vicino, dopo aver rimirato il laghetto vollero salire sull'argine. Poi vollero arrivare fino a una chiesetta abbandonata che si vedeva tra le piante spoglie, oltre il Rovaccia. E così, a un tratto cadde la sera e la signora si preoccupò: bisognava tornare subito in città per non incocciare nella nebbia. Tornarono all'aia della Badia e, dopo aver salutato la banda dei Gabassi che era tutta presente, salirono sulla macchina.
Il giovanotto si mise al volante e tirò il pomello della messa in moto: ma, dopo un breve tramestìo, il motore ritornò zitto. Il giovane Bocci ritentò, ma ogni tentativo nuovo non fece che aggravare la già precaria situazione della batteria. Uno dei Gabassi sollevò il cofano e, aiutato da uno dei fratelli, provò a far partire la macchina. «Non è soltanto la batteria scarica» disse alla fine. «C'è qualche guaio grosso nello spinterogeno e nella bobina. Non c'è niente da fare: ci vuole il meccanico.» Intanto le prime folate di nebbia incominciavano a navigare per i campi e la signora Bocci diventò sempre più preoccupata. Il vecchio Gabassi ordinò a uno dei nipoti di andare a chiamare il meccanico e il ragazzo, saltato sulla bicicletta, partì. «Bisogna arrivare fino al paese grosso a sette chilometri» spiegò il vecchio. «Qui nella frazione non c'è che un fabbro. Speriamo di trovarlo: oggi è domenica.» Le folate di nebbia oramai si inseguivano e l'aria si faceva sempre più cupa e fredda. «Si accomodino in casa» disse il vecchio. «Qui rischiano di prendere un accidente.» La signora e i due ragazzi seguirono il vecchio fino a un grande stanzone illuminato soltanto dal focherello del camino. Una delle donne accese una lucerna a petrolio.
«Qui non c'è luce elettrica e bisogna adattarsi» borbottò il vecchio. La stanza era squallida, il pavimento sconnesso, la grossa trave sulla quale poggiavano i travicelli del soffitto era piegata e l'avevano puntellata nel mezzo. I telai delle finestre parevano rosicchiati dai topi e l'aria entrava sibilando. La signora si guardò attorno sgomenta. Il vecchio Gabassi mise sul tavolo dei bicchieri. Poi chiamò una delle donne e le disse: «Prendi un tovagliolo e dagli una passata!». Rivolgendosi alla signora Bocci spiegò: «Sono puliti, ma siccome non abbiamo secchiaio e dobbiamo lavare le stoviglie sotto il portico, un po' di polvere è facile che si appiccichi». Il giovane Bocci lo guardò stupito: «Non c'è secchiaio?». «No.» «E perché?» «Così» rispose il Gabassi, prendendo a riempire di vino bianco i bicchieri che una ragazza aveva ripassati col tovagliolo. «Io vorrei un bicchiere d'acqua» mormorò la signora. «Non bevo vino.» «È dolce e leggero» disse il Gabassi. «Lo può bere. E poi, qui, l'acqua non è molto sicura a berla cruda. Pozzo vecchio a camicia che arriva appena appena alla falda superficiale.»
Il ragazzo che era andato al paese ci mise un sacco di tempo a ritornare. Spiegò che lo aveva sorpreso la nebbia che adesso era fitta. Al paese non aveva trovato il meccanico. «Hai almeno lasciato detto che lo avvisino di venire subito qui appena lo vedono?» «Sì, l'ho detto a sua moglie. Ma il meccanico è fuori paese per un servizio. Torna domattina.» La signora Bocci divenne agitatissima: «Non è possibile rimanere qui con le mani in mano! Bisogna decidersi, trovare un'autopubblica e farsi portare in città. Il paese è grosso e ci sarà pure un'autopubblica!». «Sì» spiegò il vecchio Gabassi. «Ma il servizio pubblico lo fa il meccanico e il meccanico è appunto fuori paese per un servizio con la sua macchina.» «Ma ci sarà anche qualche auto privata!» gemette la signora. «Pagheremo tutto quello che comporta il disturbo.» «Con questa nebbia sarà difficile trovare uno che li conduca in città» borbottò il vecchio Gabassi. La signora si volse eccitatissima verso i figli: «È colpa vostra se siamo in questi pasticci e pare quasi che la cosa non vi riguardi neppure! Siete incoscienti». «Mamma» esclamò il giovanotto «mica siamo sperduti in mezzo al deserto del Sahara.» Il vecchio intervenne: «Se si adattano, posto da dormire ce n'è».
«Non vogliamo disturbare!» rispose la signora. «Andremo in paese: ci sarà pure un albergo.» «C'è» spiegò il vecchio. «Il guaio è arrivarci. Io posso mettervi a disposizione soltanto delle biciclette e un motorino.» La nebbia era diventata densa ed era oramai buio. «Non ti preoccupare, mamma» esclamò la giovane Bocci. «Dormiremo qui. Non occorre neanche avvertire il papà perché è a Roma e tornerà domani sera.» La signora si calmò e, assieme ai figli, andò a sedersi davanti al camino per lasciar libere le donne che dovevano apparecchiare la lunga tavola. Durante la cena, il vecchio Gabassi cercò di tener su il tono della serata parlando del tempo, ma i due Bocci giovani erano troppo affamati per dargli retta, e la signora non aveva nessuna cognizione specifica in materia, così, siccome gli altri dieci Gabassi si limitavano a guardare fissamente la signora senza dir parola, la faccenda risultò piuttosto deprimente. Finalmente la cena finì e la signora Bocci potè dire che era molto stanca e che sarebbe andata a dormire molto volentieri. «Abbiamo preparato una stanza matrimoniale per lei e per la signorina» spiegò la vecchia Gabassi. «La stanza del signorino è vicina alla sua.» La vecchia Gabassi accese una lucernetta a petrolio e si avviò seguita dalla signora, dalla signorina e dal signorino.
«Attenzione a non farsi male» avvertì arrivata alla scala. «La scala è di legno e un po' faticosa.» Più che salire a normali stanze di abitazione, si aveva l'idea di salire in un normale fienile. La signora si trovò alla fine in una grande camera con un lettone che pareva mostruosamente alto per via del prete che era stato infilato tra le lenzuola, con la padelletta piena di bragia. La signora si preoccupò: «Il letto fuma! Deve aver preso fuoco!». La vecchia sorrise: «No, fuma per l'umidità. Il fuoco a letto lo mettiamo non per scaldare ma per disumidire lenzuola e coperte. Spero che non manchi niente. Buona notte». La vecchia se ne andò lasciando la lucerna sul comodino, dopo aver sfilato il prete e aver riposto la padelletta in un angolo. «Per favore, la porti via!» gemette la signora. «È ancora piena di bragia e può essere pericoloso per l'asfissia.» La vecchia raccolse la padelletta: «Non c'è nessun pericolo, signora: fra soffitto e finestre ci son tante di quelle fessure che par d'essere all'aria aperta. Comunque, la porto via». La signora e la figlia si spogliarono rapidamente e si infilarono tra le lenzuola bollenti. «Mamma, spegni perché voglio dormire subito» sussurrò assonnata la ragazza.
«No» rispose la signora. «Questo buio mi fa paura. Se poi succede qualcosa non si sa come fare perché non c'è la luce.» «Non succede niente» borbottò la ragazza spegnendo la lucerna con un soffione e poi infilandosi sotto le coperte. Invece era destino che succedesse qualcosa perché, un'ora dopo, la signora, che cercava di dormire ma non ci riusciva, ebbe un sobbalzo e si aggrappò disperatamente alla figlia. «Accendi!» gemette. «Accendi o muoio!» Fu un affare difficile riaccendere la lucerna perché i fiammiferi non si trovavano e la ragazza fu costretta ad andare nella stanza vicina a svegliare il fratello. Ma, quando la lucerna fu riaccesa, la signora non la volle spegnere più: «Quello era un topo!» ansimò. «L'ho sentito camminare sul letto!» Passò così un paio d'ore poi accadde qualcosa d'orrendo. La signora non trovò né sotto il letto, né dentro i comodini una certa cosa che contava di trovare e allora svegliò ancora la figlia e la mandò a esplorare nella stanza del fratello per vedere se trovasse là quello che non aveva trovato. Niente neppure là. La situazione diventava sempre più orrenda: come si fa a trovare in una casa buia che non si conosce una certa porta senza correre il rischio di aprirne prima sei o sette che non c'entrano, mettendo l'allarme fra la gente che dorme?
Il figlio venne interpellato. «Io lo so dov'è» disse. «È vicino alla barchessa, sulla destra.» «La barchessa?» disse la signora. «Cos'è la barchessa?» «È quel porticato pieno di paglia dall'altra parte del cortile.» Era una notizia spaventosa: uscire di casa a quell'ora senza sapere da che parte fosse l'uscita? E il freddo? E la nebbia? E il cane? Davanti alla disperazione della madre, il giovanotto prese una coraggiosa risoluzione. «Vado a svegliare qualcuno.» «Fermati!» esclamò la signora. «Voi giovani non avete la minima idea di che cosa sia la dignità!» «Non è una questione di dignità…» balbettò il giovanotto. Ma la madre, con fierezza lo ricacciò a letto. Poi la lucerna, finito il petrolio, si spense e la signora rimase a soffrire al buio. E vigilò insonne fino all'alba e così udì sibilare il vento dalle mille fessure, e udì il tramestìo felpato dei topi che si aggiravano sul solaio. Alle quattro il vecchio Gabassi si alzò per rigovernare la stalla e fu stupito vedendo comparirsi davanti, pochi istanti dopo, la signora. «Già in piedi? Ha bisogno di qualcosa?» «Se, per favore, chiama il cane, io dovrei arrivare fino alla macchina a prendere la busta delle compresse che ho lasciato sul sedile assieme alla mia borsetta. Ho un dente che mi fa impazzire.»
Il vecchio chiamò il cane e lo mise alla catena sotto la porta-morta. E la signora con fierezza marciò verso la macchina che, grazie al cielo, era stata riparata proprio sotto la barchessa. * Dovettero aspettare fino alle dieci prima di poter risalire in macchina e ripartire: e, in tutto quel tempo, la signora e i figli notarono che, vista di giorno, la casa era ancor peggio di quanto non fosse loro sembrata vedendola di sera. «Vengano a trovarci qualche volta» disse il vecchio Gabassi, quando i Bocci furono risaliti in macchina. «Buon viaggio e tanti saluti al signor padrone.» Il quale signor padrone, quando la sera tornò a casa, trovò non la solita moglie e i soliti due figli, ma tre musi duri. «Per la prima volta in vita mia mi sono vergognata di essere tua moglie!» affermò indignata la moglie. «E noi di essere i tuoi figli!» aggiunsero il giovanotto e la ragazza. La signora, fremendo come una socialista saragattiana, riferì dettagliatamente sull'orrore di quella notte e di quella casa, sostenuta dalla muta ma completa approvazione dei figli. «Hanno fatto apposta a guastarvi la macchina e a farvi mancare quel che avete cercato nella camera da letto!» urlò il
Bocci. «Quelle canaglie hanno voluto che voi dormiste alla Badia!» «E con questo?» ribatté la signora. «Ci hanno costretti a constatare la realtà. La possibilità di rimettere a posto la casa ce l'hai: non ti resta che fare il tuo dovere.» «No!» gridò il Bocci. «Se quella canaglia se ne va e vengono degli altri, rimetterò a posto la casa. Altrimenti la casa resterà così com'è! Non lo meritano: nel '45 hanno gettato la maschera! Vadano a farsela riparare da Stalin, la casa!» Il giovanotto allargò le braccia: «Come vuoi: il padrone sei tu» disse. «Però, così facendo, tu rendi un ottimo servizio a Stalin.» Il Bocci ci pensò su una giornata intera, poi capitolò: «Sta bene: farò rimettere in ordine la casa». * Passò l'inverno e venne la primavera; un bel giorno di sole l'amministratore si presentò ai Gabassi: «Se siete disposti per due mesi ad arrangiarvi, il padrone vi rimette a posto la casa. Se no non se ne parla più». «Non ve ne incaricate: il giorno in cui arrivano i muratori noi vi lasciamo libera tutta la baracca dalla cantina al granaio» rispose il vecchio Gabassi.
E tutti erano soddisfatti perché quella era una superba vittoria del comunismo contro gli agrari sfruttatori. Quindici giorni dopo la famiglia Gabassi sgombrò la casa ingegnandosi a sistemarsi nella rimessa, nella legnaia, sotto la barchessa, e una grossa squadra di operai venuti dalla città si buttò all'assalto della Badia propriamente detta. Era tutta gente che parlava poco e lavorava molto. E poi doveva essere stata scelta fra gli avversari dei «rossi» perché non dava udienza ai Gabassi e, a chi chiedeva spiegazioni sui lavori, rispondeva: «Ognuno di noi fa il mestiere suo e non sa niente del resto». In sessanta giorni il restauro fu terminato anche nei particolari e la casa, intonacata da cima a fondo e pitturata di giallino e con le persiane avvolgibili verde pastello, pareva arrivata da Milano. Dentro, poi, era qualcosa di strepitoso perché tutto era stato rifatto secondo le regole dell'edilizia moderna. Le donne, quando entrarono, rimasero senza fiato davanti agli sfolgoranti pavimenti di marmiglia lucidata a piombo. Ed era arrivata la luce elettrica, ed era stato fatto un nuovo pozzo con pompa elettrica sommersa automatica e compressore, il che permetteva di avere acqua potabile a pressione uguale a quella degli acquedotti cittadini. E c'erano un bagno completo, scintillante di piastrelle verdoline, e un camerino per il secchiaio. E perfino il gas che non veniva a costar niente in quanto sfruttava il metano raccolto da un gazometro nella concimaia.
E, addirittura, grazie a questo gas, si potevano riscaldare gli ambienti con stufette a termosifone. All'inaugurazione della casa vennero tutti i Bocci: la signora regalò alle donne un pacco di tendine a fiorellini da mettere alle finestre. La signorina regalò zerbini e un tappeto grande, il signorino regalò agli uomini una radio. Il Bocci non regalò niente: guardò, toccò, controllò, prese degli appunti. Prima di andarsene chiamò il vecchio Gabassi e gli disse: «Bisognerà anche rifare il contratto. Elimineremo, secondo la legge, tutti i generi e le prestazioni che voi mi dovete per il cosiddetto "pendizio". L'amministratore vi porterà il contratto nuovo». Il contratto nuovo arrivò dopo un'ora dalla partenza del Bocci ed era compilato secondo tutte le leggi possibili e immaginabili. Conteneva anche questa clausola: «Il proprietario si impegna, ogni anno, a far pervenire al Gabassi un panettone per Natale e una torta semifredda per il Ferragosto». I Gabassi erano tutti raccolti nell'aia attorno al vecchio e ascoltavano in silenzio il vecchio che leggeva il contratto nuovo. Quando il vecchio fu arrivato alla clausola famosa, lo guardarono sbalorditi: il vecchio rimase un momento immobile come un sasso, poi sputò sul contratto. *
Quindici giorni dopo i Gabassi abbandonavano con tutte le loro carabattole la Badia e il vecchio, prima di lasciare per sempre la casa nuova nella quale nessuno era ancora entrato, con un carbone scrisse sul muro giallino: «Porco maledetto, non mi freghi!».
178 IL DONO DI STALIN Il Natale si avvicinava galoppando a spron battuto e, anche quell'anno, la moglie del Tarocci andò a dare una mano al fratello che aveva un laboratorio di pasticceria in città. E, prima di partire, disse al marito: «Ricordati di domani sera». «Domani sera?» domandò il Tarocci. «E cos'è domani sera?» «Santa Lucia!» esclamò la donna. «Te l'avrò ripetuto cinquanta volte tra ieri e oggi e già non ti ricordi più.» «Mi ricordo, invece, anche troppo. Però sono stupidaggini che sarebbe bene eliminare. Non bisogna mettere della confusione in testa ai ragazzi.» «Gigino ha sei anni appena e, per il momento, lo si deve lasciare tranquillo. Ogni cosa a suo tempo. Non mi fare questo dispetto perché non te lo perdonerei mai!» Il Tarocci si strinse nelle spalle: «Come vuoi. Parti tranquilla. Penso io a tutto». La donna se ne andò rassicurata, ma il Tarocci, l'indomani mattina, aveva già dimenticato ogni cosa. Certamente nel corso della giornata, se avesse avuto occasione di passare davanti ai negozi di chincaglieria e alle bancarelle dei giocattoli, se ne sarebbe ricordato. Ma quello
fu un venerdì particolarmente laborioso per lo stato maggiore di Peppone perché era arrivato un pezzo grosso della federazione e il Tarocci dovette rimanere fino a sera tarda alla Casa del Popolo. Luogo nel quale si trattano questioni che non hanno niente a che vedere coi santi in genere e con Santa Lucia in particolare. In quanto a Gigino, il Tarocci non aveva nessuna preoccupazione: la vecchia Rosa, che veniva a fargli le faccende di casa quando rimaneva solo, avrebbe pensato a tutto come il solito. Uscito dalla Casa del Popolo, il Tarocci, assieme a Peppone e al resto della banda, andò a mangiare un boccone all'osteria del Molinetto e qui rimase a discutere fino alla mezzanotte. Quando rincasò era stanco morto e, appena si fu infilato nel letto, si addormentò. Si risvegliò l'indomani mattina alle otto e, vestitosi in gran fretta, scappò subito via perché era sabato e guai se uno che tratta mangimi e foraggi non si trova in piazza di buon'ora nei giorni di mercato. Fece appena in tempo a intravedere Gigino che, aiutato dalla vecchia, stava preparandosi per andare a scuola, e a gridargli: «Fa il bravo!». Non si potè accorgere che Gigino era diverso dal solito. Gigino si era svegliato presto, quella mattina: alle cinque era saltato giù dal letto e, arrivato alla finestra della cucina che dava sull'orto, l'aveva aperta per ritirare le scarpe che la sera, prima di andare a letto, aveva messe sul davanzale
dopo averle ripulite con gran cura. Ma le scarpe erano vuote, e il sacchettino coi crostini di pane e la crusca che Gigino aveva avuto cura di collocare vicino alle scarpe per l'asinelio di Santa Lucia stava ancora lì intatto. Questo significava che Santa Lucia aveva dimenticato Gigino. La vecchia Rosa mezzo rimbambita dagli anni non teneva più dietro al calendario da un gran pezzo, non aveva parlato quindi di Santa Lucia con Gigino e Gigino si era tenuto in corpo tutto il suo gran dispiacere. Ma arrivato davanti alla scuola aveva trovato i ragazzini in pieno fermento. Ognuno diceva quello che gli aveva portato Santa Lucia e mostrava le caramelle, i mentini o le cioccolatine prelevate a titolo di anticipo dalle scarpette zeppe di regali. Gigino resistette fin che potè, ma in classe crollò e incominciò a singhiozzare. La maestra si avvicinò all'infelice e gli domandò cosa gli succedesse: Gigino si limitò a scuotere il capo per significare che non gli era successo niente, ma qualcuno spiegò ad alta voce il mistero: «Piange perché Santa Lucia non gli ha portato niente». Gigino era il bambino più tranquillo e più diligente della scuola. Era un bambino che pareva scappato fuori dal sillabario e bastava che la maestra lo guardasse perché Gigino diventasse immobile come una statuina di gesso. Tratteneva perfino il respiro, se la maestra lo guardava: e adesso, vedendolo singhiozzare perché Santa Lucia non gli aveva portato
niente, la maestra sentiva una voglia matta di mettersi a piangere anche lei. Non seppe cosa dirgli per consolarlo, lo lasciò tranquillo e, quando la lezione finì, lo tenne lì seduto nel suo banco fin che gli altri non se ne fossero andati. Poi lo chiamò e gli diede un pacchetto di cioccolatini. Gigino fece segno di no con la testa. «Perché?» gli domandò con dolcezza la maestra. «Voglio i miei» rispose sottovoce. Davanti a un bambino di sei anni o poco più che non fa una questione di cioccolatini ma una questione di principio, c'è poco da discutere. La maestra, che era una ragazza giovane, si sentì profondamente intimidita e rimise il pacchettino nel cassetto della cattedra. Gigino, quando fu sulla strada, vide che i bambini erano ancora fermi a chiacchierare poco più avanti: allora prese la via dei campi e si incamminò lentamente. Faceva freddo e la terra era indurita dal gelo: Gigino proseguì per un bel pezzo poi, arrivato a una capannuccia di melicacci, si sedette sulla paglia umida a pensare. * Il Tarocci fece il mercato e verso l'una e mezzo del pomeriggio rincasò.
La vecchia Rosa gli spiegò che il bambino non era ancora tornato da scuola, mentre gli altri erano tornati tutti. La cosa non era naturale. Allora il Tarocci prese la bicicletta e corse alla scuola, ma trovò tutto chiuso. Bussò e si affacciò la bidella. «Sapete niente del mio Gigino?» «È uscito con gli altri» spiegò la donna. «Però ha svoltato per la carrareccia prima del ponte e ha preso la scorciatoia dei campi.» Il Tarocci lasciò la bicicletta alla bidella e prese anche lui la scorciatoia, ma non trovò Gigino. Arrivò a casa per vedere se nel frattempo fosse tornato, ma Gigino non s'era ancora visto. Rifece la strada percorsa chiamando a gran voce il bambino ma nessuno gli rispose. Finalmente, quando il Padreterno volle, trovò Gigino addormentato sulla paglia umida, dentro la capannuccia di melicacci. Il Tarocci era imbestialito e, tirato su il bambino ancora addormentato, lo svegliò con due sberle. Poi, siccome il bambino rimaneva lì tremando di freddo e di paura, lo agguantò per un'orecchia e se lo trascinò dietro. Dopo una ventina di passi, il Tarocci smise di maltrattare il bambino e lo lasciò in pace fino a casa. «Due ore mi hai fatto cercare!» lo rimproverò aspro quando furono in casa. «Perché, invece di venire a casa diritto, ti sei andato a perdere in mezzo ai campi? Perché non sei tornato assieme agli altri?»
«Gli altri avevano tutti la roba e io no» sussurrò il bambino. «Che roba?» «La roba di Santa Lucia» spiegò il bambino. Al Tarocci venne un mezzo colpo: Santa Lucia! La raccomandazione della moglie. Ma anziché placarsi a quel pensiero, venne preso da un'ira furibonda: «Ma che Santa Lucia!» urlò. «Sono tutte stupidaggini. Santa Lucia non c'è.» «C'è» replicò Gigino. «Tutti gli altri hanno trovato i regali nella scarpa.» «Non è vero!» gridò il Tarocci. «È vero» affermò Gigino. «Ho visto io la roba.» Per un bambino di sei anni niente può esserci che riesca a demolire questa ferrea costruzione logica. «Tutta colpa di quella cretina di tua madre!» commentò a denti stretti il Tarocci. «A ogni modo sia la prima e l'ultima volta che, invece di venire a casa subito, ti fermi a gironzolare.» Gigino sospirò: «Io sono sempre stato buono: perché Santa Lucia non mi ha portato niente? A tutti ha portato il regalo. Soltanto a me no. Cos'ho fatto di male?». Il Tarocci scrollò le spalle: «E chi lo sa? Bisogna vedere come ti sei comportato a scuola!».
«La signorina, quando ha saputo che Santa Lucia non mi aveva portato niente, mi voleva dare lei i cioccolatini. Vuol dire che mi sono comportato bene.» «Se la maestra ti voleva dare i cioccolatini, dovevi prenderli!» affermò il Tarocci. «No: io voglio la roba mia» spiegò il bambino. «Quella dentro la scarpa.» Il Tarocci smise di mangiare: «Che storie sono queste? Dentro la scarpa o fuori dalla scarpa non è la stessa cosa?». «No. Io sono sempre stato buono e Santa Lucia mi deve portare il regalo nella scarpa.» Il Tarocci ci pensò su un momentino e si accorse facilmente che con un bambino di sei anni la tattica da usare doveva essere un'altra. «Hai ragione» rispose allora con calma. «Il fatto è che tu sei stato buono ma Santa Lucia non ti ha portato un bel niente, neanche una caramella. Questo significa che Santa Lucia ce l'ha con te, soltanto con te.» Il bambino lo guardò sbalordito: «Con me? E perché?». «Si vede che non le sei simpatico. O magari è vero quello che tutti dicono: Santa Lucia non esiste.» «E i bambini che hanno avuto i regali?» «Credono che sia stata Santa Lucia e invece chi sa mai chi è stato. E poi tu non devi guardare gli altri, devi sempre guardare te stesso. Sei stato buono?»
«Sì.» «Hai pregato Santa Lucia di portarti il regalo?» «Sì, tutte le sere.» «Ti ha portato il regalo Santa Lucia?» «No.» «C'è poco da dire, caro mio: i fatti sono fatti. Per te Santa Lucia non esiste.» Gigino non trovò nel suo piccolo cervello niente da obiettare. Gli dispiaceva che Santa Lucia non esistesse, per lui, ma non sapeva come rimediare al disastro. «E allora, per avere il regalo, chi bisogna pregare?» domandò con voce piena d'ansia. Al Tarocci era venuta in mente una certa storia che aveva letto o sentito da qualche parte e s'era regolato in modo da attirare nella trappola il bambino. «Secondo me bisognerebbe pregare Stalin» rispose. «Stalin?» si informò il bambino. «È un Santo?» «È uno che fa delle cose straordinarie» spiegò il Tarocci. «Tu stasera devi pregare Stalin di portarti il regalo perché sei stato buono. Se Stalin ti porta il regalo vuol dire che esiste per te, mentre Santa Lucia che non ti ha portato niente significa che per te non esiste.» Il bambino si rasserenò. «Bisogna mettere il sacchetto di crusca per l'asinelio, vicino alle scarpe?»
«No» rispose avventatamente il Tarocci. «Stalin viene da un posto dove agli asini danno da mangiare bene e non c'è bisogno di mantenerli con l'elemosina.» Quando si accorse di aver detto una stupidaggine era troppo tardi: comunque Gigino non notò l'involontario deviazionismo paterno. «Come si fa a pregare Stalin?» domandò Gigino. «Bisogna inginocchiarsi e poi fare il segno della Croce?» «Non occorre» spiegò il Tarocci imbarazzato. «Basta dire tre volte: "Stalin, sono stato bravo, portami il regalo". E Stalin ti porta il regalo.» Il bambino obiettò: «Quando si prega Dio o i Santi bisogna fare il segno della Croce e inginocchiarsi». «Fai come credi» concluse il Tarocci. «L'importante è che tu non dica niente a nessuno.» «Metterò anche la crusca» disse Gigino. «Può darsi che l'asino abbia fame anche se ha mangiato a casa sua.» Il Tarocci lasciò il bambino e se ne andò per i fatti suoi. Verso sera, pochi minuti prima che chiudessero le botteghe, comprò un trenino a molla, un pacchetto di caramelle, uno di cioccolatine e una scatoletta di matite colorate. Si ficcò tutto nelle tasche della giacca e, invece di andare a casa, si fermò a mangiare al Molinetto. Finito di mangiare, si mise a giocare con Peppone e soci e così venne la mezzanotte. Uscì assieme a Peppone:
«Capo, sono stanco morto» gli spiegò. «Ma ho dovuto rimaner fuori fino a tardi per essere sicuro di trovare il bambino addormentato.» E, cammin facendo, spiegò a Peppone tutta la storia e il trucchetto combinato per democratizzare Santa Lucia. «Capo» concluse. «Non è stata una idea in gamba?» «Certo» borbottò Peppone. «Bisogna agire senza sentimentalismi» continuò il Tarocci. «Alle donne si può dar retta fino a un certo punto. Dopo, occorre intervenire decisi. Incominciamo a snebbiare pian pianino i cervelli. Incominciamo a sloggiare i Santi dall'animo dei nostri bambini mettendo al loro posto qualcosa di più sostanzioso. Incominciamo a sfatare le leggende. Non ti pare?» Peppone tentennò gravemente il testone: «Giusto come concetto. Ma tu, facendo quel che hai pensato di fare stasera, mentre distruggi la leggenda di Santa Lucia, ne crei un'altra. Secondo me tu dovevi spiegare al tuo bambino che, invece di pregare i Santi che non esistono, basta scrivere a Stalin che esiste, e Stalin per posta manda il regalo. Trasportare tutta la faccenda dal piano del soprannaturale al piano della realtà». «Certamente» replicò il Tarocci «però bisogna fare le cose per gradi. Il bambino non sa scrivere lettere, non riesce a rinunciare al fascino della favola. Intanto contentiamoci del primo passo: Santa Lucia molla la scarpa e la occupa Stalin. E il bambino impara che a pregare Santa Lucia non si ottiene
niente, mentre a pregare Stalin si ottiene qualcosa. Non ho ragione?» «Hai ragione» riconobbe francamente Peppone. Erano oramai arrivati alla casa del Tarocci. «Stai qui un momento a far la guardia» disse il Tarocci a bassa voce. «Intanto che io entro nell'orto e metto la roba dentro le scarpe che sono sul davanzale della cucina.» Peppone fece il palo e, poco dopo, il Tarocci fu di ritorno, «Fatto?» «Tutto a posto. Fregata Santa Lucia.» Peppone se ne andò e il Tarocci entrò cautamente in casa. Il bambino dormiva nella sua camerina e aveva un dolce sorriso sulle labbra. Il Tarocci si spogliò in fretta e si infilò nel letto perché aveva lavorato parecchio quel giorno. Ma il sonno non veniva. "Capita sempre così quando si è troppo stanchi" pensò. Poi gli venne in mente la faccenda dello scherzetto a Santa Lucia: dal punto di vista della propaganda era un colpo magnifico. Gli avrebbe procurato qualche noia con la moglie. Ma con le mogli, a un bel momento, sì può cambiare tattica e si può usare la maniera forte. Alla fine, egli lavorava per il bene del figlio. I figli non devono avere il cervello ingombro di stupidaggini. Comunque l'affare era concluso e non doveva più ripensarci.
Si rigirò nel letto. Aveva dato due sberle da uomo a un bambino di sei anni. E poi, a momenti, gli stracciava un'orecchia. Ma la colpa era di quella stupida di sua moglie che aveva combinato il guaio. D'ora in poi il bambino lo avrebbe educato lui: soltanto lui. Gli venne voglia di alzarsi per andare a vedere il bambino. "Bisogna che controlli se gli ho fatto male. Bisogna che mi spicci, però: di sicuro il bambino si sveglia per tempo perché ha la smania della scarpa." Non riusciva a decidersi a saltar giù. Un po' per via del freddo. Un po' perché aveva paura del buio. Era una cosa ridicola ma il buio gli faceva senso, quella notte. Forse aveva mangiato troppo, al Molinetto. A un tratto riuscì a scendere dal letto: le gambe non volevano muoversi e faceva una fatica matta a camminare. Come se avesse le ossa di piombo. Traversò lentamente la stanza, raggiunse il corridoio, aperse la porta della stanzetta del bambino: ma il letto era vuoto, e la finestra spalancata. Il Tarocci scavalcò penosamente il davanzale e si trovò nell'orto. Passò la siepe e si trascinò ansimando per i campi. Arrivò alla capannuccia di melicacci e Gigino era là, addormentato sulla paglia umida.
Allora lo tirò su e incominciò a schiaffeggiarlo. E continuò a schiaffeggiarlo anche quando la mano gli faceva male. E voleva smettere di picchiarlo ma non ci riusciva. Si trovò sdraiato nel suo letto col braccio destro malamente piegato sotto il corpo e con la fronte piena di sudore. Suonarono delle ore al campanile e le contò: quattro! Balzò giù dal letto con disperazione: bisognava raggiungere il davanzale della cucina prima che Gigino si svegliasse. Bisognava togliere il trenino e tutta l'altra roba che aveva messo dentro le scarpette. Faticò a orizzontarsi e quando ci riuscì era troppo tardi e nel piccolo corridoio si incontrò con Gigino che tornava dalla cucina. Il Tarocci si sentì pieno di disperazione ma subito gli si risollevò il cuore: «Neanche Stalin mi ha portato niente!» esclamò Gigino scoppiando a piangere. «Niente: nemmeno una caramella!» Il Tarocci lo agguantò e lo ficcò nel letto grande. «Adesso dormi e poi domattina mettiamo a posto tutto.» Piombò nel sonno e ne aveva bisogno davvero. * Era una cupa domenica di dicembre, piena di nebbia fredda. Il Tarocci si svegliò verso le sette e trovò Gigino già bell'e vestito. Il Tarocci non gli diede retta fin che non fu pronto anche lui. Poi si occupò del bambino.
«E allora? Proprio niente hai trovato nelle scarpe?» si informò. «Niente» rispose con gli occhi pieni di lagrime il bambino. «Questo significa che, a pregare Stalin, non si ottiene niente» spiegò il Tarocci. «Ma neanche a pregare Santa Lucia!» si dolse Gigino. «E allora come si fa?» Il Tarocci gli mise il cappottino, lo sciarpone, e gli calcò in testa la berretta. Poi si intabarrò e uscì. «Vieni che sistemiamo tutto» disse prendendo per mano il bambino. Il paese era ancora deserto e silenzioso, immerso in quella nebbia marcia. A un bel momento il Tarocci si fermò: «Gigino, io ti aspetto qui; tu vai in chiesa e di' a Gesù Bambino: "Santa Lucia si è dimenticata di me e io sono sempre stato bravo. Faccio rapporto"». «Devo parlare anche di quell'altro?… Come si chiama? …» «Niente, parla soltanto di Santa Lucia. Tutto andrà a posto. In questi casi Gesù Bambino porta direttamente lui la roba a Natale.» Il bambino scappò di corsa e il Tarocci lo aspettò addossato a un pilastro del portico. Gigino dopo una decina di minuti riemerse dalla nebbia.
«Hai detto così come ti ho spiegato?» si informò il Tarocci. «Sì, papà.» «Cosa ti ha risposto?» «Che ci pensa lui.» «Bene» borbottò tranquillo il Tarocci prendendo per mano il bambino e rimorchiandoselo a casa. E gli pareva tutto naturalissimo; e non gli passò nemmeno per l'anticamera del cervello che fosse almeno curioso, se non strano, il fatto che Gesù Bambino avesse risposto a Gigino: «Ci penso io». E non si domandò neppure come mai, pur avendo, lui stesso, il Tarocci, con le sue mani, riempite le scarpe di Gigino coi regali di Stalin, Gigino avesse poi trovate le scarpe completamente vuote. Non si domandò mai neppure che fine avessero trovato il trenino e le altre cose. Al Tarocci importava soltanto che Gigino avesse trovato le scarpe vuote e che Natale fosse lì a due passi. Il Bambino avrebbe rimesso a posto tutto: il Tarocci ne era sicurissimo. A onor del vero non ci fu niente di miracoloso nella scomparsa dei doni di Stalin perché Peppone, dopo averli cavati fuori dalle scarpe di Gigino, li era andati a buttare nel fiume borbottando: «Non è un buon servizio che faccio al compagno Stalin».
Poi, quando l'acqua del grande fiume ebbe ingoiato tutta la merce, si consolò dicendo tra sé: "Dio ti vede, Stalin no". Si accorse troppo tardi d'essere caduto come un pesce nella trappola degli slogan della propaganda elenco-americana. E se ne dolse. Ma fino a un certo punto.
179 LA LUCE CHE NON SI SPEGNE Peppone non era rimasto per niente soddisfatto quando aveva letto sul suo giornale la lettera con la quale il famoso deputato spiegava come, non riuscendo più a conciliare i propri doveri di cattolico con quelli di militante comunista, si vedeva costretto a dimettersi dal Partito. A Peppone non era piaciuta la lettera e meno ancora era piaciuto il comunicato della segreteria del Partito che accompagnava la pubblicazione della lettera. Lo trovava troppo generico e questo lo preoccupò. Ma si trattava di una preoccupazione quanto mai ingiustificata perché, al momento opportuno, doveva saltar fuori qualcosa di anche troppo specifico. E questo saltò fuori alcuni giorni prima del Natale. Le dimissioni non erano state accettate e il deputato famoso era stato espulso dal Partito «per indegnità e per tradimento». «Questo taglia la testa al toro» osservò il Lungo quando ebbe letto il comunicato. «O con noi o contro di noi.» Peppone non era ancora convinto:
«Siamo sempre sulle generali!» esclamò. «Invece qui c'era bisogno di precisare delle direttive riguardo ai rapporti fra Chiesa e Partito.» Il Lungo scosse il capo: «Capo, tutto è chiarissimo. Mentre il Partito non ha mai detto: "Chi segue la dottrina cattolica non può essere dei nostri", la Chiesa dice: "Chi segue la dottrina marxista non può essere dei nostri e viene scomunicato". Il Partito ti lascia libero di essere cattolico. La Chiesa ti proibisce di essere comunista. Il torto marcio è dalla parte della Chiesa. E che la Chiesa si sia messa contro la legge te lo dimostra il fatto che la Giustizia condanna quei preti che in chiesa dicono: "Chi vota per i comunisti incorre nella scomunica". Stando così le cose nessun dubbio è possibile: il compagno che cede alle minacce dei preti e dà le dimissioni dal Partito, si mette contro la legalità diventando un traditore della causa della legalità e dimostrandosi indegno di appartenere al Partito che ha per missione appunto la difesa della legalità. Quindi la direttiva che salta fuori automaticamente dal comunicato di oggi non può essere che questa: intensificare la vigilanza e aumentare gli sforzi che già facciamo per sottrarre i compagni dalla malefica influenza dei preti». Peppone tentennò la testa: «Siamo sempre sulle generali: la questione specifica è quella di sapere cosa dovremmo fare per mettere in atto la direttiva qui, nel nostro paese. Mica possiamo eliminare il prete».
«Non sarebbe una brutta idea» affermò cupo il Lungo che era un duro. «Comunque non risolveremmo niente perché, eliminato il prete, ne manderebbero subito un altro peggio di questo.» «Difficile trovare un prete peggio di don Camillo» borbottò Peppone. «È invece la cosa più naturale» spiegò il Lungo. «I preti sono tutti uno peggio dell'altro.» Discussero a lungo sulla linea di condotta da tenere e, alla fine, il Lungo, che aveva appena finito il corso di preparazione politica in città, disse: «Mettiamoci subito al lavoro incominciando lo smantellamento della roccaforte sentimentale dei preti». Poi il Lungo spiegò il suo concetto: «La roccaforte sentimentale dei preti è il Natale. Quando viene il Natale tutti sono disposti a concedere qualcosa ai preti. Non occorre andare in chiesa: il semplice fatto di mangiare meglio del solito è una concessione che si fa ai preti, che hanno inventato il Natale. A Natale anche i più forti e i più duri cascano nella trappola del sentimento: il ragazzino che dice la poesia e mette la letterina sotto al piatto, il Presepe, le cartoline d'auguri, la neve, gli angioletti, l'organo della chiesa nella notte, i ricordi di fanciullezza, insomma è tutta una messa in scena che riesce a farci dimenticare la realtà a vantaggio della favola. Bisogna reagire e passare al contrattacco!». Peppone allargò le braccia:
«Va bene, ma non possiamo pretendere di costringere la gente a modificare le loro usanze». «Si può però incominciare il lavoro costringendo noi stessi a non cascare più dentro la trappola. Per disintossicare le masse bisogna, prima di tutto, disintossicare noi stessi. Io ho già incominciato.» Peppone, il Bigio, il Brusco, lo Smilzo e gli altri dello stato maggiore guardarono preoccupati il Lungo. Il Lungo era il custode della Casa del Popolo: abitava con la moglie e col figlio in tre stanzette del primo piano e la sua vita privata non poteva essere più trasparente per i frequentatori della Casa del Popolo. «Chiunque lo voglia potrà controllare che in casa mia da quest'anno è stato eliminato il Natale» spiegò il Lungo. «Tutto dovrà funzionare come gli altri giorni. Se lo volete, anche nelle vostre case sarà la stessa cosa.» Il Bigio sospirò: «Difficile farlo capire alle donne». «No» replicò il Lungo che evidentemente si era preparato sull'argomento. «Il difficile è convincere se stessi: una volta che uno sia riuscito a convincere se stesso, gli riuscirà facilissimo convincere gli altri. Naturalmente, per convincere se stessi, bisogna avere delle idee chiare.» Peppone intervenne: «Le idee chiare le abbiamo» esclamò «e le faremo venire anche agli altri. Il Lungo ha ragione: tutti incomincino fin da questo momento il lavoro di persuasione dei compagni.
Lavorare con garbo senza forzare mai la mano. Specialmente quando si tratta di compagni che abbiano dei vecchi in casa. Democratizzando il Natale noi daremo il primo duro colpo alla roccaforte sentimentale dei preti». Peppone si era entusiasmato, e l'idea del Lungo gli piaceva sempre di più. Quando tornò a casa si diede subito allo smantellamento della roccaforte sentimentale della moglie: «Da quest'anno Natale non deve esistere più» disse Peppone e la moglie gli domandò se fosse ubriaco di vino o di liquori. Ma Peppone le dimostrò di avere il cervello pieno di fumi ben più tossici e la donna allargò le braccia: «Sta bene, niente Natale. E per la Pasqua?». «Ogni frutto ha la sua stagione» rispose Peppone. «Incominciamo a cancellare il Natale dal calendario.» * Peppone si buttò come un dannato nella sua impresa di snatalizzazione e fece davvero del buon lavoro. La moglie tentò un paio di volte di mitigare la sua decisione ma, visto che ciò serviva soltanto ad aggravare la situazione, si arrese. E, la sera della Vigilia, Peppone rincasando trovò che tutto era nella più squallida normalità. La tavola con la solita tovaglia macchiata, la solita minestra nel lardo e il solito odore di frittata con le cipolle. L'ora era stata addirittura anticipata:
«Alle otto tutti a letto» avvertì con voce dura Peppone. «E mettersi a dormire senza far baccano.» Si rivolse al ragazzino più piccolo, quello di sette anni: «Specialmente tu!». Mangiò in silenzio la sua minestra e, quand'ebbe finito, fece per togliere la fondina, ma si accorse appena in tempo che, sotto la fondina, era celato il tradimento. Si sentiva addosso gli occhi spalancati del ragazzino piccolo e strinse i denti. Rimise giù la fondina che aveva appena sollevata. Bevette un bicchiere di vino e, buttato il tovagliolo sulla tavola, si alzò. «Non mangi la frittata?» gli domandò stupita la moglie. «No!» rispose cupo Peppone. «Non ho più fame. E poi ho da fare.» Uscì rapidamente e, buttatosi il tabarro fin sotto gli occhi, camminò a grandi passi per le strade deserte. Nelle altre case la gente stava per mettersi a tavola: Peppone pensò con orgoglio allo squallore della tavola dalla quale s'era appena alzato. L'appuntamento alla Casa del Popolo era per le otto: Peppone arrivò un quarto d'ora prima e, trovato tutto spento al pianterreno, salì al primo piano dal Lungo. Trovò il Lungo, sua moglie e il loro ragazzino ancora a tavola: una tavola malinconica, da giorno feriale. «Tutto bene?» si informò il Lungo versando un bicchiere di vino a Peppone.
«Perfetto» rispose Peppone. «Mia moglie ha funzionato come doveva ma c'è stato un caso di deviazionismo.» Peppone ridacchiò poi, appressata la bocca all'orecchio del Lungo, spiegò a bassa voce: «Il piccolino era riuscito a mettermi la letterina sotto il piatto». «Come te la sei cavata?» domandò il Lungo. «Me ne sono accorto quando stavo per tirar via la fondina vuota. Allora mi sono alzato e sono uscito. Ci ho rimesso la frittata.» Il Lungo rise. «Io ho un ragazzino soltanto e mia moglie è riuscita a sorvegliarlo facilmente. E poi io gli avevo spiegato con bel garbo come stanno le faccende. È un ragazzino che capisce.» Oramai anche gli altri dovevano essere arrivati: Peppone e il Lungo scesero. «Non aspettarmi perché verrò su tardi» disse il Lungo alla moglie. «Andiamo a letto subito» rispose la donna. «Anche il ragazzino ha sonno.» Trovarono al pianterreno lo Smilzo e il Bigio: «Mi pare che potremmo subito incominciare il giro» spiegò Peppone. «Si fa una piccola ispezione in tutte le case di quelli che si sono impegnati a fare come s'era stabilito. Vediamo chi sgarra.»
Il Brusco abitava in una piccola casa isolata, fuori paese: quando Peppone, il Lungo e gli altri due arrivarono, trovarono tutto spento. Il Brusco venne ad aprire mezzo svestito: «Ho litigato con le donne» confessò molto triste il Brusco. «Alla fine siamo andati tutti a letto senza mangiare. Mi dispiace un po' per mia moglie che non sta tanto bene.» Il Lungo intervenne: «Le cose si fanno o non si fanno. Se si fanno non bisogna poi rimpiangere niente». «Non rimpiango niente» precisò il Brusco. «Ma se mia moglie ha la febbre io non posso esserne contento. Comunque l'importante è che tutto sia stato fatto com'era stabilito.» L'ispezione continuò; Peppone, il Lungo, il Bigio e lo Smilzo dovettero andare a bussare ad altre dieci porte perché il primo esperimento di disintossicazione sentimentale era stato ristretto alla cerchia dei fedelissimi: e dappertutto trovarono case già buie o gente che leggiucchiava il giornale seduta davanti ai resti di una tristissima cena. L'ultima casa visitata era quella del Falchetto, che stava in fondo al paese, di là dall'argine, verso il fiume: quando la campana rintoccò per chiamare i fedeli alla Messa di mezzanotte, Peppone e gli altri tre si trovarono a camminare lentamente sulla strada dell'argine. «Possiamo veramente essere soddisfatti del risultato» affermò il Lungo. «Ed è molto importante che l'esperimento sia riuscito perché l'idea è già passata nel campo della realiz-
zazione pratica. Quando si vuole demolire un muro, l'importante è cavare il primo mattone.» Erano arrivati alla Chiavica vecchia e si sedettero sulla spalletta del ponte. «È una cosa straordinaria» disse Peppone. «È bastato il semplice fatto di considerare questa sera come una sera qualsiasi, per darmi l'idea che il Natale non sia mai esistito. Questo dimostra che, se uno non riesce a liberarsi dai sentimentalismi, non potrà mai capire quali sono le cose vere e quali le false.» Lo Smilzo accese una sigaretta. «Certo che è una strana faccenda» osservò. «Uno aspetta il Natale come se si trattasse di chi sa qual cosa importante ed ecco che, improvvisamente, si accorge che il Natale è un giorno preciso identico a tutti gli altri. Ci si resta male.» «L'anno venturo non proverai nessuna delusione» affermò il Lungo «perché oramai che ti sei accorto di che cosa si tratta, non lo aspetterai più come l'hai aspettato quest'anno. L'essenziale, in queste illusioni sentimentali, è di rompere la catena.» Ripresero a camminare lentamente verso il paese: era oramai vicina la mezzanotte e la piazza era deserta perché chi voleva assistere alla Messa era già entrato in chiesa. Arrivati in vista della Casa del Popolo, Peppone esclamò: «Cosa succede lassù?».
Tutti levarono gli occhi e videro che una delle finestrelle del solaio era illuminata. Poi la luce si spense per riaccendersi di lì a poco. E la storia si ripetè per parecchie volte. Il Lungo si preoccupò: «La chiave del solaio è nascosta in un posto che conosco soltanto io. E poi nessuno di casa mia è mai salito lassù». Lasciarono il Bigio di guardia al pianterreno e salirono in punta di piedi. La porta del solaio era socchiusa e, ogni tanto, la fessura si illuminava fiocamente. C'era qualcuno evidentemente e cercava chi sa mai cosa. Peppone, il Lungo e lo Smilzo rimasero in agguato trattenendo il respiro: poi, quando al vicino campanile incominciarono a battere i primi tocchi della mezzanotte, si infilarono dentro la porta del solaio e si addossarono al muro. Al dodicesimo rintocco la luce si accese e non si spense più. Una piccola luce, una lampadina a pila che illuminava l'interno di una minuscola capanna sistemata su una cassa. E, in piedi davanti alla cassa, stava il ragazzino del Lungo. Rimase lì a guardare per una decina di minuti e ci sarebbe rimasto ancora se il Bigio non avesse fatto un po' di fracasso giù al pianterreno dove era rimasto di guardia. Allora il ragazzino scappò via, passando davanti, senza vederli, a Peppone e agli altri due nascosti nell'ombra a lato della porta.
Scomparso il ragazzino, i tre uomini intabarrati uscirono dall'ombra e andarono a fermarsi davanti alla capannuccia sistemata sulla cassa. «Pensa se questo lo venisse a sapere don Camillo» borbottò Peppone. «Il Presepe clandestino, i cristiani riportati al periodo delle catacombe… Figuriamoci che pacchia sarebbe.» Il Lungo era cupo. «Da piccolino gli hanno riempito il cervello di queste favole» sussurrò. «Non è possibile cambiare una mentalità da un momento all'altro… Però vorrei sapere chi gli ha dato quella roba.» Peppone si chinò a guardare il Presepino: «Nessuno» spiegò. «Sono statuine di terra cruda pitturata. Se le è fatte da solo. E sono anche belle parecchio. Mica stupido il ragazzino.» Il Lungo rimirò in silenzio le statuette del Presepino poi, con una sberla, le spazzò via mandandole a sbriciolarsi contro il muro. Ma la lampadina rimase accesa nella capannuccia deserta e devastata. La gente usciva dalla chiesa e riempiva di allegre voci la piazza: Peppone si riscosse dallo stupore nel quale il gesto del Lungo l'aveva fatto piombare e raggiunse in fretta la porta, seguito dallo Smilzo, mentre il Lungo rimaneva là a guardare con occhi attoniti quella luce che non si spegneva.
180 DA NATALE… Peppone, uscito dalla Casa del Popolo disinteressandosi completamente del Bigio che lo aspettava sul portone, si avviò in fretta verso casa tagliando fuori la piazza per non incontrarsi con la gente che tornava dalla Messa di mezzanotte. Lo Smilzo lo seguì disciplinatamente ma non ne ricavò nessuna soddisfazione perché, arrivato a destinazione, Peppone gli sbatté la porta in faccia e lo piantò lì senza neanche dirgli bai. Peppone era stanco morto e, spogliatosi in gran furia, si andò a infilare subito tra le lenzuola. «Sei tu?» gli domandò la moglie. «Certo!» borbottò Peppone. «Chi vuoi che sia?» «Non si sa mai» replicò la donna. «Adesso coi nuovi princìpi che hai tirato fuori, non ci sarebbe niente di strano se tu mi facessi trovare nel letto al posto tuo qualche funzionario del tuo partito.» «Non dire stupidaggini!» esclamò Peppone. «Non ho voglia di scherzare.» «Figurati la voglia di scherzare che ho io, con quella bella Vigilia di Natale che ci hai fatto passare!» Peppone si rigirò nel letto.
«Neanche la letterina di tuo figlio hai voluto guardare!» si rammaricò la donna. «E quando, poverino, era lì già in piedi sulla sedia per dirti la poesia, sei scappato via. Cosa c'entrano i tuoi figli con la politica?» Peppone si agitò ancora: «Lasciami dormire!» gridò con rabbia. La donna tacque, ma Peppone ci mise un sacco di tempo per prendere sonno. E quando, finalmente, riuscì ad addormentarsi non è da dire che trovasse la tranquillità perché incominciarono subito a passargli per il cervello i sogni più strampalati: sogni da gente che ha digerito male. Da gente che ha un gatto vivo dentro lo stomaco. Si svegliò che era ancora buio e, saltato giù dal letto, si rivestì senza accendere la luce. E, mentre si rivestiva, continuava a ripensare alla zampata che il Lungo aveva menato sul Presepe del ragazzino, e al lumino rimasto acceso. Gli pareva che tutto questo facesse parte dei sogni di poco prima e, invece, questo non era un sogno. Scese in cucina per farsi scaldare un po' di latte e trovò la tavola ancora apparecchiata come l'aveva lasciata, uscendo, la sera. Al suo posto c'era ancora la fondina sporca di minestra: la sollevò per vedere se, sotto, ci fosse la lettera del piccolino. Ma non c'era più niente. Guardò la tovaglia sporca, gli avanzi della frittata. Ripensò alla tavola delle altre Vigilie di Natale.
Ripensò agli altri Natali: al Natale di quand'era ragazzo. Gli vennero in mente sua madre e suo padre. D'improvviso si ricordò del Natale del 1944: quello lo aveva passato in montagna, dentro una tana da bestie, col pericolo di essere ammazzato a raffiche di mitra da un momento all'altro ed era stato un Natale tremendo. Però meno angoscioso di questo perché l'aveva passato pensando disperatamente ai dolci e sereni Natali di pace e quel pensiero gli aveva scaldato il cuore. Adesso egli non correva nessun pericolo, tutto funzionava nel modo più tranquillo, sua moglie e i suoi ragazzi stavano lì, sicuri, a pochi metri da lui e, appressandosi alla porta della loro stanza, avrebbe potuto udirne il respiro: ma il cuore gli rimaneva pieno di gelo perché pensava che quella tavola, a mezzogiorno, sarebbe stata la identica, malinconica tavola della sera prima. "Il Natale è tutto qui" concluse tra sé. "Una questione di tovaglie, di bicchieri, di capponi, di torrone e di agnolotti." Ma poi ripensò al ragazzino del Lungo che s'era fatto il Presepe clandestino nella soffitta della Casa del Popolo e la conclusione non lo convinse più. Tanto più che neppure la lettera e la poesia del piccolino erano faccende mangerecce. Albeggiava e Peppone, avvoltosi nel tabarro, uscì di casa e si avviò verso la Casa del Popolo. Il Lungo era già alzato e stava spazzando il salone delle adunanze; venne ad aprire a Peppone che si stupì: «Al lavoro a quest'ora?».
«Sono le sette» spiegò il Lungo. «Nei giorni feriali si incomincia alle otto ma oggi è un giorno più che feriale e bisogna incominciare prima.» Peppone andò a sedersi alla scrivania del suo ufficio: doveva guardare tutta la posta del giorno prima e si mise subito all'opera. Si trattava di una decina di lettere di normale amministrazione e, pochi minuti dopo, Peppone aveva già preso visione di ogni cosa. «Niente di importante, capo?» domandò il Lungo affacciandosi. «Niente» rispose Peppone. «Sbrigale tu.» Il Lungo raccolse le lettere e se ne andò ma, poco dopo, si ripresentò molto eccitato con un foglietto tra le mani. «Capo» disse il Lungo «questa è molto importante. Ti deve essere sfuggita.» Peppone, presa la lettera che il Lungo gli porgeva, le diede una occhiata e la restituì. «L'avevo vista» spiegò. «Niente di straordinario.» «Ma parla di tesseramento e bisogna che tu risponda subito. È un affare tuo personale.» «Dopo» borbottò Peppone. «Oggi è Natale.» Il Lungo lo guardò in un certo modo e a Peppone non piacque il fatto di essere guardato a quel modo. Si alzò e piantatosi davanti al Lungo esclamò: «Oggi è Natale: hai capito?». Il Lungo scosse il capo e poi rispose: «No, non ho capito».
«Adesso te lo spiego» disse a denti stretti Peppone pitturandogli sulla faccia una sberla da esposizione campionaria. Il Lungo ebbe il torto di non afferrare subito il concetto e, siccome era un pezzo di satanasso più alto ancora di Peppone, cercò di restituire la sventola ricevuta. Peppone, allora, gli si buttò addosso come una divisione corazzata e, dopo averlo scaraventato a gambe all'aria, gli cambiò i connotati del sedere a furia di pedate. Poi, quand'ebbe finita la lavorazione, agguantò il Lungo per il petto e gli domandò: «Hai capito cosa ho detto?». «Ho capito» borbottò cupo il Lungo. «Oggi è Natale.» «E adesso vai su in solaio e rimetti a posto quella roba prima che qualcuno la veda. Non hai pensato che, se si sapesse quello che è successo stanotte lassù, ne salterebbe fuori una speculazione spaventosa contro di noi?» «Ci ho già pensato» rispose il Lungo. «Ho già rimesso a posto ogni cosa.» Preceduto dal Lungo, Peppone salì in soffitta a controllare: ed effettivamente il Presepino pareva non fosse stato neppur toccato. Peppone lo stette a guardare per qualche minuto poi borbottò: «Alla fine cosa c'è di male se a qualcuno fa piacere di credere che, circa duemila anni fa, in una certa stalla, sia nato un figlio di falegname, che poi ha predicato l'uguaglianza di tutti gli uomini, ha difeso i miseri dai potenti e poi è stato crocifisso dai nemici della giustizia e della libertà?».
Il Lungo tentennò la grossa testa. «Di male niente: ma la gente crede che questo figlio di falegname sia addirittura Dio. Ecco il brutto!» «Brutto?» esclamò Peppone. «Bellissimo, invece. Perché il fatto che Dio abbia scelto per padre un falegname e non un borghese, sta a significare che Dio è democradco.» Il Lungo sospirò: «Peccato che in questa faccenda ci siano di mezzo i preti. Potrebbe diventare una cosa nostra». «Ecco il punto!» affermò Peppone. «Bisogna sempre agire con molta calma e non fare confusioni. Dio è una cosa, i preti sono un'altra cosa. Il pericolo non è rappresentato dall'esistenza di Dio ma dall'esistenza dei preti. Quindi non bisogna eliminare Dio ma bisogna eliminare i preti. È la stessa questione della ricchezza e dei ricchi: non bisogna eliminare la ricchezza ma eliminare i ricchi e dividere la ricchezza tra i poveri.» Il Lungo, che aveva appena finito il corso di preparazione politica, tentennò ancora la testa: «Sì, ma la questione base è un'altra: Dio non esiste, l'hanno inventato i preti. Esistono soltanto le cose che noi possiamo vedere e toccare. Le cose che hanno una consistenza materiale. Il resto è fantasia». Peppone non parve eccessivamente preoccupato dalla comunicazione del Lungo e rispose: «Se uno nasce cieco, come fa a credere che esista il colore verde o il colore rosso dato che non lo può né vedere né
toccare? Ora metti il caso che tutti incominciano a nascere ciechi: fra cento anni nessuno potrà più credere all'esistenza dei colori perché nessuno li potrà più vedere. Però i colori esisteranno ugualmente nella realtà materiale. Non può darsi che Dio esista realmente e che noi siamo, rispetto a Lui, come il cieco nato che, sulla base del suo ragionamento, non può ammettere che esistano i colori?». Il Lungo rimase molto perplesso. «Comunque» tagliò corto Peppone «la questione non riveste carattere di particolare urgenza e la soluzione del problema può essere rimandata.» * Peppone si avviò verso casa ed ecco che, alla svolta del Borghetto, si trovò davanti don Camillo. «Sua Eminenza grigia desidera?» si informò cupo Peppone. «Volevo farle gli auguri di buon Natale, buona fine e buon principio d'anno» rispose con garbo don Camillo. «A me?» ridacchiò Peppone. «A uno scomunicato? Questa sì che è coerenza!» Don Camillo allargò le braccia: «È la stessa coerenza del medico che, riconoscendo affetto da morbo infettivo una persona, impedisce a questa persona di praticare la gente sana, però cura il malato. Bisogna odiare il male ma amare il malato».
Peppone si mise a sghignazzare: «Straordinario! Ci scannereste tutti e parlate d'amore!». «Saremmo ben disgraziati e stolti e pazzi medici di anime se, per distruggere il morbo, noi volessimo eliminare gli infelici che hanno l'animo contagiato dal morbo. Noi li curiamo amorosamente per farli guarire.» «Capito: vorreste applicarci la cura di cui parlavate l'altro giorno in piazza!» replicò Peppone. «Non si trattava di te né della gente come te» spiegò calmo don Camillo. «Nel tifo petecchiale, tanto per dirne una, gli elementi da considerare per debellare il morbo sono tre: il tifo petecchiale cioè il male in sé, il veicolo del tifo petecchiale, cioè il pidocchio, e l'infelice affetto da tifo petecchiale. Per debellare il male occorre curare il malato ed eliminare il pidocchio. Stolto chi volesse curare il pidocchio, pazzo chi intendesse trasformare il pidocchio in qualcosa che non fosse veicolo di tifo petecchiale. Peppone, tu non sei il pidocchio, tu sei il malato.» «Io sto benissimo e il malato siete voi, reverendo» rispose Peppone. «Malato nel cervello.» «I miei auguri vengono dal cuore, non dal cervello» spiegò don Camillo. «Li puoi accettare tranquillamente.» Peppone scosse il capo: «Cuore, cervello, milza o fegato, non ha importanza. Sarebbe come dire: "Accetta tranquillamente questa pallottola di fucile Novantuno: non te la manda il percussore con punta ma è un gentile omaggio del mirino"».
Don Camillo allargò le braccia: «Dio avrà pietà di te». «Può anche darsi: ma di voi non avrà pietà di sicuro e il giorno della riscossa non vi eviterà di sventolare, appeso per il collo, alla corda di quell'asta. La vedete?» Don Camillo la vedeva, sì, quell'asta di bandiera piantata sul davanti del balcone della Casa del Popolo. La vedeva anche troppo perché la Casa del Popolo era nel lato destro della piazza, e guardando dalla finestra del suo tinello, don Camillo non mancava mai di notare quella dannata asta che si stagliava contro il cielo libero, e che portava provocatoriamente al posto della lancia il luccicante emblema della falce e del martello. Quell'asta, e particolarmente il suo coronamento, gli rovinava tutto il panorama. «Non sarò un po' pesante per quel palo?» domandò don Camillo. «Non sarebbe meglio che ti facessi prestare una forca dai tuoi amici di Praga? O sono cose riservate a voi compagni?» Peppone non rispose: gli volse le spalle e se ne andò. Arrivato davanti a casa chiamò fuori la moglie: «Io torno verso l'una» disse. «Vedi di arrangiarti di preparare tutto come se fosse un Natale normale.» «Già fatto» borbottò la donna. «Stai fresco che io aspettavo il tuo contrordine. Puoi tornare a mezzogiorno in punto.»
Entrando poco dopo il mezzogiorno nella grande cucina, Peppone ritrovò l'aria del Natale dei tempi passati e gli sembrò di essere uscito come da un incubo. Trovò la lettera del piccolino sotto il piatto e gli parve di un interesse eccezionale. Poi si preparò ad ascoltare con tutta l'attenzione possibile la poesia: ma la poesia non accennava a saltar fuori. Peppone pensò che sarebbe arrivata alla fine del desinare e si mise a mangiare tranquillamente. Ma, anche alla fine del desinare, il piccolino non dimostrò la minima intenzione di levarsi in piedi sulla sedia per declamare dei versi. Peppone fece un cenno interrogativo alla moglie e la donna rispose stringendosi nelle spalle. Poi la donna si alzò e andò a parlottare col piccolino. «Niente da fare» comunicò a Peppone. «Non la vuol dire.» Peppone aveva però pronto il colpo segreto; cavò fuori di tasca un pacchetto di cioccolatini e annunciò ad alta voce: «Se c'è uno che, adesso, mi dice una bella poesia, io gli do tutta questa roba». Il piccolino sbirciò preoccupato il pacchettino poi scosse il capo. La moglie di Peppone andò a parlottare ancora col piccolino poi riferì al marito: «Non la vuol dire». Allora Peppone perdette la pazienza:
«Se non vuoi dire la poesia significa che non la sai!» disse al piccolino. «La so invece» rispose il bambino. «Però non si può più dire.» «E perché?» gridò Peppone. «Perché adesso non conta più» spiegò il piccolino. «Adesso il Bambino è già nato e la poesia parla del Bambino che deve nascere questa notte.» Peppone si fece portare dalla moglie il quadernetto con la poesia; effettivamente la poesiola era tutta protesa nel futuro: a mezzanotte la capanna di Betlemme si illuminerà e il miracolo si ripeterà, e il Bambino nascerà e arriveranno i pastorelli e via discorrendo. «Una poesia non è un annuncio del giornale» spiegò Peppone. «Anche se la dici oggi la poesia ha lo stesso valore.» «No» insistè il piccolino. «Se il Bambino è nato ieri sera non si può dire che nascerà stanotte.» La madre provò a insistere ma il piccolino non mollò: «È testardo come te» esclamò alla fine la donna rivolta a Peppone. * Nel pomeriggio Peppone portò a spasso il piccolino e, quando furono lontani dal paese, fece l'ultimo tentativo:
«Adesso che siamo soli me la dici la poesia?». «No» rispose il piccolino. «Qui nessuno ti sente!» «Ma il Bambino Gesù lo sa» sussurrò il piccolino. Questa era la più bella poesia che il piccolino potesse dire, e Peppone lo capì.
181… A SAN SILVESTRO Passarono i giorni che dovevano passare e arrivò la notte di San Silvestro. Anche al paese, come un po' dappertutto, era ancora viva l'usanza di ammazzare l'anno. Allo scoccare della mezzanotte, la gente scaricava schioppettate contro il cielo e, per qualche minuto, pareva il finimondo. A don Camillo questa faccenda non era mai piaciuta per mille ragioni e mai aveva consumato una cartuccia per sparare alle nuvole: però, quella volta, anche a lui venne una voglia matta di ammazzare l'anno e così, pochi istanti prima della mezzanotte, aprì la finestra del tinello e aspettò che l'orologio del campanile desse il segnale. La luce del tinello era spenta ma il fuoco fiammeggiava nel camino e Ful, che aveva buoni occhi, appena scorse il fucile tra le mani di don Camillo entrò in agitazione. «Sta tranquillo» gli spiegò sottovoce don Camillo «non è roba per te. Questo non è un fucile da caccia, è il vecchio arnese che io tengo per ricordo in solaio. Si tratta di ammazzare l'anno e la doppietta non serve.»
La piazza era deserta, e il lampione che stava davanti alla Casa del Popolo illuminava nitidamente l'asta della bandiera: «La si vede anche di notte!» borbottò don Camillo. «Pare una cosa studiata per farmi rabbia!» Scoccò il primo dei dodici rintocchi e immediatamente incominciò la sparatoria. Don Camillo si appoggiò al davanzale della finestra, e lasciò partire un colpo anche lui. Un colpo solo perché si trattava di cosa simbolica e quel che conta nelle cose simboliche è il gesto in sé. Faceva freddo: don Camillo richiuse accuratamente la finestra e, riposto il fucile contro la cassapanca, accese la luce e si sedette davanti al fuoco. Allora si accorse che Ful non c'era e lo chiamò: ma il cane, evidentemente, eccitato da tutto quel crepitìo di schioppettate, aveva infilato la porta ed era uscito. Don Camillo non se ne preoccupò: come era uscito sarebbe rientrato. E, difatti, poco dopo, sì sentì cigolare la porta: ma non era Ful. Era invece Peppone che spiegò amabilmente: «Scusate reverendo, ma ho trovato aperta la porta e sono venuto a farvi visita». «Grazie figliolo: fa piacere vedere che qualcuno si ricorda di noi.» Peppone si sedette vicino a don Camillo.
«Reverendo, bisogna proprio riconoscere che, nella realtà, succedono dei fatti che la fantasia si rifiuta di pensare.» «È successo qualcosa di brutto?» si preoccupò don Camillo. «Niente di brutto: un curioso scherzo del caso. Figuratevi che, durante la sparatoria di poco fa, qualcuno ha tirato un colpo in aria e la pallottola, invece di perdersi chi sa dove, è andata a sbattere nell'asta della nostra bandiera troncandola in cima, proprio nel punto dove l'emblema d'ottone si infila nel legno. Non è un bel caso?» Don Camillo allargò le braccia: «Bellissimo» convenne. «Ma non è tutto» continuò Peppone. «Perché il trofeo, nel cadere, quasi finiva in testa al Lungo che stava entrando. E il Lungo, credendo che gli avessero tirato in testa qualcosa apposta, è corso dentro a dare l'allarme e noi siamo usciti ma non abbiamo trovato niente per terra. Però, guardando in su, ci siamo accorti che il trofeo dell'asta mancava e, esaminando poi l'asta, ci siamo accorti che un colpo di fucile l'aveva stroncata appena sotto il trofeo. Non è un caso strano? Chi può aver raccolto e portato via il trofeo se la piazza era deserta?» Don Camillo si strinse nelle spalle: «Con rispetto parlando, non capisco a chi possano interessare cianfrusaglie di quel genere».
Già da qualche minuto Ful era rientrato e si era messo fra don Camillo e Peppone e stava lì ad aspettare immobile come una statua. E, fra i denti, reggeva il trofeo d'ottone con la falce e il martello. Si stancò e lasciò cadere l'arnese sul pavimento. Don Camillo raccolse il trofeo, lo rigirò studiandolo da tutte le parti poi scosse il capo: «Lamierino d'ottone; da lontano pareva più consistente: se ti interessa portatelo pure a casa». Peppone guardò il trofeo luccicante che don Camillo gli porgeva poi riprese a guardare le fiamme del focolare. Don Camillo buttò il trofeo tra le braci ardenti e Peppone strinse i denti ma non si mosse. Il trofeo sì arrossò rapidamente e lo stagno delle saldature si sciolse, le strisce di lamierino si contorsero come serpentelli. «Se l'Inferno non fosse una invenzione di noi preti…» sussurrò don Camillo. «L'Inferno non è un'invenzione dei preti» borbottò Peppone. «I preti sono un'invenzione dell'Inferno.» Don Camillo attizzò il fuoco e Peppone andò alla finestra. Attraverso i vetri si vedeva, illuminata dal lampione, l'asta decapitata. «Quanti colpi?» domandò Peppone senza voltarsi. «Uno» rispose senza alzar la testa don Camillo. «Americano con cannocchiale?» «Novantuno normale.»
Peppone tornò a sedersi davanti al fuoco. «Il Novantuno è sempre una bell'arma» borbottò guardando la fiamma. «Le armi sono tutte brutte» sussurrò don Camillo. Peppone si alzò e si avviò verso la porta. «Buon anno» borbottò Peppone uscendo. «Grazie, altrettanto» rispose don Camillo. «Non ho detto a voi» disse rude Peppone. «Ho detto a Ful.» Fulmine detto Ful, sentendosi tirato in ballo, rimase accucciato davanti al fuoco ma agitò la coda per significare che gradiva il gentile pensiero.
182 IL CRIK La poca neve venuta giù il giorno prima era marcita tutta e, adesso, le strade parevano carrarecce. Brutta faccenda a doversi destreggiare in bicicletta fra pozzanghere e carreggiate: e don Camillo, che da un bel pezzetto navigava perigliosamente in quella specie di torrentello fangoso ch'era diventata la strada del Molinetto, sudava come un dannato. A un tratto sentì dietro di sé il gracchiare di un clacson e pigiò più forte sui pedali perché, a una quindicina di metri, proprio a cavallo del fosso di destra, stava un ponticello. Raggiunto il ponticello, don Camillo uscì di strada e si fermò per aspettare che il ciclone annunciato dal clacson fosse passato. Davanti all'imbocco del ponticello la strada era quasi completamente asciutta. Quasi completamente in quanto, proprio nel bel mezzo alla strada, stava una buca piena d'acqua: ma ciò non preoccupò per niente don Camillo perché, se l'autoveicolo fosse transitato tenendo il centro della strada, la pozzanghera sarebbe sgusciata via fra le ruote di destra e quelle di sinistra. E se, invece, l'autoveicolo fosse transitato
tenendo la sua destra, la pozzanghera avrebbe interessato solo le ruote di sinistra. L'autoveicolo era oramai a pochi metri e don Camillo constatò con piacere che si trattava di un grosso camion: l'ampiezza del bestione rendeva impossibile anche l'ipotesi dello schizzo a sinistra. Disgraziatamente non si trattava di un normale camion: quando don Camillo se ne accorse era troppo tardi. Infatti il camion, arrivato a pochi metri dal ponticello, si buttò tutto sulla sinistra in modo da passare con le ruote di destra dentro la pozzanghera al centro della strada. Non interessava niente, allo stramaledetto che stava al volante, il pericolo di finire, con le ruote di sinistra, dentro il fosso: gli interessava semplicemente che la melma della pozzanghera schizzasse a destra. Don Camillo si trovò coperto di fango da capo a piedi, come se l'avessero pitturato col pennello, e il Leopardo, ritornato sulla carreggiata giusta, si allontanò traballando. * Il Leopardo era il camion più squinternato dell'universo e la gente l'aveva battezzato Leopardo per via delle centinaia di pezze e toppe di lamiera scura e rugginosa che gli maculavano la carrozzeria color paglia. Nessuno riusciva a capire come il Leopardo potesse camminare perché non aveva pezzo che non fosse scassato:
eppure camminava dalla mattina alla sera. E stracarico di sabbia o ghiaia che andava a prendere al fiume, o di sacchetti di cemento, o di mattoni. In verità, chi conosceva bene il Crik riusciva a spiegarsi il fenomeno del Leopardo. Camion e autista, infatti, erano una cosa sola e non risultava possibile stabilire con esattezza se il Leopardo fosse un accessorio del Crik o se il Crik fosse un accessorio del Leopardo. In origine, il Crik doveva essere stato un bel ragazzo: ma, da quando aveva stanato fuori quella carcassa infernale di camion, il Crik s'era trasformato, poco alla volta, in qualcosa di squinternato e di rattoppato come il Leopardo. S'era messo dalla parte di Peppone ma, prima di prendere la tessera, aveva fatto i patti: «Quando è il momento di fare la rivoluzione chiamatemi. Per tutto il resto lasciatemi tranquillo perché devo lavorare». Viveva da solo: dormiva nella casa che gli avevano lasciato i suoi e mangiava dove gli capitava. Il lavoro non gli lasciava il tempo di farsi degli amici e neanche dei nemici: e il fatto di comportarsi da carogna, quando viaggiava in macchina, non proveniva da rancori o da cattiveria, ma dalla sincera convinzione che ciò fosse uno dei doveri imposti dal mestiere di carrettiere motorizzato. E quando, per esempio, era riuscito, rischiando di rompersi l'osso del collo, a riempire di melma don Camillo, non
s'era rallegrato ma aveva borbottato fra sé pieno di malumore: "Guarda che pericoli si devono correre per riuscire a fare questo porco mestiere!". Naturalmente, pur conoscendo il Crik, don Camillo non poteva comprendere queste sfumature psicologiche e, trovatosi pitturato di fango dalla cima della testa alla punta dei piedi, classificò il Crik fra gli esseri da agguantare per gli stracci e da sbatacchiare contro il muro. E tornò in canonica animato dal non lodevole quanto fermissimo proponimento di appostarsi nei pressi della casa del Crik per dare al Crik una spazzolata. E gironzolò un bel pezzo nei paraggi dell'abitazione del Crik, ma fortunatamente il Leopardo, quella sera, non fece ritorno alla base. Fortunatamente fino a un certo punto. * Sistemato don Camillo e ripresa la carreggiata giusta, il Crik continuò tranquillamente per la sua strada. Andava a caricare ghiaia grossa e, in questi casi, il Crik non si serviva dei depositi già preparati, appena giù dall'argine del fiume grande, dove si poteva avere sabbia o sgiavra eccetera a un tanto il metro cubo, ma arrivava col camion fin sul greto dello Stivone e tirava su lui stesso la roba a badilate. Quando fu a un miglio dallo Stivone, sopravvenne un banco di nebbia: il Crik conosceva perfettamente la strada e
trovò ugualmente la discesa dell'argine ma, arrivato in fondo alla discesa, tagliò troppo a destra e finì in mezzo al pantano. Visto che con le bestemmie non riusciva a cavar fuori dalla pégola il Leopardo, il Crik saltò giù e si diede da fare, con ciottoli e sterpaglia, a consolidare la melma dietro alle ruote del camion. Poi risalì e fece marcia indietro. Le gomme fumavano girando a vuoto nel pantano, ma il Crik voleva uscire di lì a ogni costo e continuò un bel po', con l'unico risultato di impantanarsi sempre di più. Allora innestò la marcia ridotta cercando di spingersi avanti. Poi ancora provò con la marcia indietro. E via discorrendo. Il furore lo prese e, urlando come un pazzo furioso, insistè nelle sue insensate manovre: finalmente le ruote fecero presa, ma un minuto dopo al Leopardo si schiantava il vecchio cuore. Il camion stava fino alla sala dentro la pégola e il motore era bloccato. Il Crik, con le ossa rotte per la fatica, si placò: cavò di sotto il sedile la bottiglia della grappa e bevve a garganella. Poi si afflosciò cadendo in un sonno di piombo, e così passò la notte dentro la cabina. Si svegliò la mattina presto e, saltato giù dal camion, arrivò di corsa fino a un casolare dove trovò chi gli prestò una bicicletta. Pedalò disperatamente e, quando Dio volle, arrivò al paese e all'officina di Peppone.
«Vieni a vedere il camion» disse a Peppone. «Prendi su i ferri; c'è qualcosa che non va.» Il Crik era talmente eccitato che Peppone non ebbe neanche il coraggio di aprir bocca: saltò sulla moto e il Crik prese posto sul carrozzino, assieme alla bicicletta. * Arrivato al pantano maledetto, Peppone guardò il Leopardo affogato nella melma e borbottò: «Ci vuole un Caterpillar per tirarlo fuori». «Mettimi a posto il motore e lo tiro fuori io senza Caterpillar» rispose il Crik. «Non è la prima volta che m'impegolo.» La visita che Peppone fece al Leopardo fu lunga e accurata. Alla fine riavvitò quello che aveva svitato, chiuse quel che aveva aperto e rimise i ferri dentro il carrozzino della moto. «Crik» spiegò «l'unica cosa da fare è di lasciarlo lì fino a quest'estate. Allora forse lo potrai cavar fuori e venderlo come ferrovecchio.» «Capo!» rispose cupo il Crik. «Non ho voglia di scherzare.» «Neanche io» affermò Peppone. «In quel poco che ho potuto vedere ho trovato il motore sbiellato, la frizione bruciata, il differenziale sbranato, la pompa dell'olio spaccata, il cambio sgranato. Non c'è più niente che possa funzionare.»
Il Crik si mise a urlare: «Ma non è possibile che io, in una volta sola, abbia spaccato tutta quella roba!». «Non l'hai spaccata in una volta sola: era tutta roba che stava per andare ed è andata. Come un muro che si è piegato: se lo lasci tranquillo va avanti ancora per dieci o venti anni, ma se gli cavi di sotto un solo mattone, crolla tutto. Lo stesso di quella gente che sta bene fino a quando non le viene il raffreddore e crepa perché le saltano fuori otto o dieci malattie tutte d'un colpo.» Il Crik guardò il camion poi disse: «Lo devo rimettere a posto a ogni costo! Tutto può essere rimesso a posto!». «Si capisce» replicò Peppone. «Ma qui, anche se trovi uno che ti fa il lavoro per amicizia ci vogliono duecento biglietti da mille, come minimo. E cambiando soltanto quello che è rotto e lasciando stare il resto che sta per rompersi.» Dire duecentomila e dire due miliardi era lo stesso, per il Crik, che era fornito come una lepre in viaggio. Peppone risalì sulla moto e viaggiò verso il paese: il Crik riportò la bicicletta a chi gliel'aveva prestata, poi tornò a dare un'occhiata al Leopardo. Il Crik sapeva che Peppone aveva detto la verità nuda e cruda: tutto era dunque finito. Vendere la casa? Bell'affare: come uno che, per fare riparare la scarpa destra rotta, vende la scarpa sinistra ancora buona.
Si avviò lentamente verso il paese ma non camminò molto perché, a un bel momento, pensò: "E cosa vado a fare in paese? Un altro mestiere? Il mio mestiere è questo". Rifece la strada e, quando fu per imboccare la discesa che portava al pantano, suonò mezzogiorno. Allora si spinse fino alla frazione più vicina, comprò un fiasco di vino, del pane, un pezzo di gorgonzola, cinque nazionali e fece ritorno al pantano. Mangiò dentro la cabina del camion. Gli avanzò un po' di pane, un po' di formaggio e mezzo il vino. "Mi basterà anche per stasera" pensò sdraiandosi sul sedile. * Una settimana dopo la voce si sparse nel paese: il Crik era diventato matto. Passava il suo tempo dormendo dentro la cabina del Leopardo o gironzolando attorno al camion. Peppone un giorno saltò sulla moto e, assieme allo Smilzo, andò a trovare il Crik. Il Crik era in cabina e, quando Peppone lo chiamò, mise fuori la testa dal finestrino. «C'è la rivoluzione?» domandò a Peppone. «No» rispose Peppone. «Allora lasciami tranquillo. Ho da fare.»
Non era il caso di insistere e Peppone e lo Smilzo se ne andarono. In seguito si interessarono della cosa i carabinieri che arrivarono una bella mattina al pantano e trovarono il Crik che stava lavorando attorno al motore del camion. Il maresciallo lo stette a guardare poi gli disse con garbo: «In confidenza, perché non torna a casa sua?». «Quando sarò riuscito a riparare il camion tornerò» rispose il Crik. «Se avessi le duecentomila lire che occorrono per farlo accomodare tornerei subito. Ma non le ho e debbo cercare d'arrangiarmi da solo. E di notte sto qui perché non mi rubino i pezzi.» Il maresciallo si strinse nelle spalle e se ne andò. Il Crik non dava noia a nessuno, non chiedeva niente a nessuno. Lo lasciarono in pace. E così passò un mese ed ecco che, una mattina, il Crik sentì bussare alla porta della cabina e, affacciatosi, vide don Camillo, nero nero in mezzo alla neve che era caduta durante la notte. «È scoppiato il Giudizio Universale?» domandò il Crik. «Purtroppo non ancora» borbottò don Camillo. «E allora lasciatemi tranquillo: ho da fare.» Il Crik tirò dentro la testa e chiuse il finestrino, ma don Camillo tornò a bussare. «Reverendo» esclamò il Crik «ce l'avete ancora con me perché vi ho rinfrescato un po' sulla strada del Molinetto?
Non vi basta di vedere che non posso più spruzzare nessuno?» «Crik» disse gravemente don Camillo «perché rimani qui?» «L'ho già spiegato al maresciallo.» «Io non sono il maresciallo» affermò don Camillo. «Press'a poco» ridacchiò il Crik. «Siete un carabiniere del Papa.» «Crik, lascia stare il Papa che non c'entra. Al paese dicono che tu sei diventato matto ma io non ci credo. Non è possibile che abbia dato di volta il cervello a uno, come te, che non ha mai avuto cervello.» «Reverendo» disse il Crik «voi ve ne approfittate a sfottermi perché sapete che sono un po' giù di giri…» «Crik, come fai a vivere? Chi ti dà da mangiare?» «Non lo so, reverendo: ogni tanto qualcuno mi porta qualcosa. Ma probabilmente è una scusa per vedermi in faccia.» Don Camillo scosse il capo. «Non capisco cosa tu faccia qui. Non riesco a rendermene ragione. Forse perché non c'è una ragione in tutto questo e tu sei veramente squilibrato.» «Una ragione c'è» affermò il Crik. «Io sto qui ad aspettare.» «Ad aspettare che cosa?» gridò don Camillo. «Che la manna scenda dal cielo? Che il Padreterno ti mandi un Caterpillar e una squadra di meccanici specializzati?»
Il Crik si strinse nelle spalle: «Io aspetto». «Aiutati che il ciel t'aiuta!» esclamò don Camillo. «Bisogna darsi da fare se si vuole ottenere qualcosa!» «Uno si dà da fare e si aiuta fin che può. Poi, se viene notte e non c'è lume, non gli resta che aspettare che torni giorno. Tornerà giorno anche per me.» «Tornerà sì: ma se tu aprirai gli occhi. Ma se terrai chiusi gli occhi sarà sempre notte per te. Muoviti, torna a casa, lavora e riuscirai a ritrovare la tua strada.» «La mia strada io non l'ho persa! La mia strada è questa. Adesso il camion si è fermato ma, un giorno, si rimetterà in moto! Io resto qui, sul mio camion.» Il Crik tirò dentro definitivamente la testa e chiuse il finestrino. Allora don Camillo cavò di sotto il tabarro una sporta piena di roba da mangiare, la mise sul cofano del Leopardo e si allontanò. «Gesù» disse al Cristo don Camillo quando fu di ritorno. «Il Crik è pazzo.» «Non è mai pazzo chi ha fede nella Divina Provvidenza» rispose il Cristo. «Il Crik è un disgraziato che non crede né in Dio né nella Divina Provvidenza» obiettò don Camillo. «Egli crede soltanto nel suo camion.» Il Cristo sorrise:
«È già qualcosa, don Camillo. Perché quel camion è la sua vita e, avendo fede in esso, il Crik ha fede nella vita e in Dio». * Don Camillo non s'era allontanato da più di un'ora quando il Crik sentì qualcuno zampettare attorno al camion e, affacciatosi, scorse una ragazza che, vedendosi scoperta, fece l'atto di scappar via. «Coraggio, coraggio!» disse ridendo il Crik. «Venite pure avanti a vedere il fenomeno, non si paga niente.» La ragazza si fermò. «Se state lì dentro va bene, ma se venite fuori, scappo via e non mi vedrete mai più.» «Sto dentro sì» borbottò il Crik. «Cosa volete che esca a fare?» La ragazza si appressò e si sedette su un sasso a rimirare curiosamente il Crik. «Vi garbano i miei connotati?» domandò ironico il Crik. «Non lo so» rispose la ragazza «avete tutta la faccia coperta dalla barba.» Questa osservazione stupì profondamente il Crik che, cavato dalla cassetta del sedile il pezzetto di specchio che portava sempre per via di orizzontarsi quando doveva cavarsi le porcherie che gli entravano negli occhi durante il lavoro, si guardò.
Faceva veramente schifo: a ventisei anni pareva un vecchio pezzente. Sbirciò la ragazza: non doveva avere più di ventitré o ventiquattro anni e, così, vista tra il lusco e il brusco, pareva piuttosto un gran bel pezzo di ragazza. Il Crik si vergognò d'essere tutto lercio e ritirò la testa dal finestrino. «Fine dello spettacolo» annunciò. «Domani alle quattro, il matto in seconda visione.» La ragazza si alzò e se ne andò. Il Crik non ci pensò più. Comunque, la mattina seguente, tirò fuori dalla cassetta del sedile l'occorrente e si fece la barba. Poi si lavò la faccia e si pettinò. Alle quattro la ragazza riapparve e, quando vide il Crik tutto ripulito e tirato a lucido, sembrò molto soddisfatta. «Perché fate il matto se non lo siete?» domandò. «Non faccio il matto!» rispose il Crik. «Aspetto.» «Che cosa?» «È difficile da spiegare, specialmente a una ragazza.» «Provate.» Si davano del voi com'è l'uso della vecchia gente delle campagne della Bassa, e parlavano con grande serietà. Il Crik provò a raccontare tutta la storia e alla fine la ragazza scosse il capo. «Non ho capito perché aspettate» disse. «Però ci penserò.»
Alle quattro del giorno seguente riecco la ragazza che porse al Crik un involto contenente del pane e del salame. Il Crik diventò rosso: «No, non posso accettare roba dalle donne» borbottò. «La dovete accettare per forza» spiegò calma la ragazza. «Se non volete morir di fame.» Il Crik si ribellò: spalancò lo sportello e saltò giù. «Io mi sono sempre guadagnato il pane con queste mie mani» urlò. «Io non ho mai avuto bisogno di nessuno e mai ne avrò bisogno perché io sono il Crik e il Crik è un uomo fatto così.» Lì, sulla riva del fiume, era in secca una chiatta; e una grossa e lunga trave di rovere impediva che la chiatta scivolasse giù: il Crik agguantò la trave con furore, ne ficcò cinquanta centimetri sotto la sala d'una delle ruote posteriori del Leopardo e curvatosi fino a potersi collocare l'estremità libera della trave sopra la spalla destra, puntò i piedi sulla mota che il gelo aveva reso dura come la ghisa e incominciò a sollevarsi lentamente. Il Leopardo, saldato alla terra gelata, non si smosse, ma la grossa trave, a un tratto, si spezzò. La ragazza non mostrò nessun entusiasmo: «Non mi piace la gente così materiale» osservò. Il Crik ritornò dentro la sua cabina e allora la ragazza si sedette sul solito sasso. Quante volte la ragazza tornò a sedersi su quel sasso? Quante volte la ragazza cercò di far cambiare idea al Crik?
E così andò a finire che, una sera, dopo aver ripetuto il solito discorso al Crik la ragazza si alzò e disse: «Io non verrò più: vi ho detto dove sto di casa. Se volete vedermi muovetevi voi». La primavera era oramai in viaggio e la terra gelata ridiventava pantano molle sotto le ruote del Leopardo. E la neve dei monti stava sciogliendosi e le piogge scrosciavano al piano e al monte. Il fiume grande s'era andato gonfiando paurosamente e tutti i fiumi piccoli che sfociavano in esso si riempivano sempre più d'acqua per il rigurgito del fiume grande. Anche lo Stivone aveva alzato il suo livello e l'acqua non tardò a lambire le ruote del Leopardo. Il Crik aspettò una, due, tre sere che la ragazza tornasse, ma la ragazza non tornò e l'acqua coprì il sasso sul quale la ragazza si metteva di solito a sedere. «Sapete dove sto: se mi volete vedere venite voi»: il Crik sarebbe andato, sì, dalla ragazza, ma non a piedi. Ci sarebbe andato al volante del suo Leopardo. Aspettò tranquillamente perché sentiva che presto il Leopardo si sarebbe mosso, avrebbe ripreso la strada. L'acqua premeva sugli argini e la gente era preoccupata e tutti avevano dimenticato il Crik; soltanto la ragazza non l'aveva dimenticato e lo aspettava, perché era sicura che il Crik sarebbe venuto.
E difatti il Crik si fece vedere la notte in cui il fiume grosso toccò il livello più alto: erano quasi le undici e pioveva a scrosci. La ragazza nella sua camera del primo piano a pie dell'argine maestro sentì a un tratto suonare un clacson e, affacciatasi alla finestra che si apriva all'altezza quasi dell'argine, vide il Leopardo fermo davanti alla finestra sulla strada dell'argine. Il Crik stava al volante; si mostrò sorridendo al finestrino e salutò agitando il braccio. Poi innestò la marcia e partì di gran carriera. La ragazza sentì ancora suonare il clacson lontano. Il Crik e il Leopardo furono visti da parecchi, quella sera. E parecchi udirono il suono del clacson. Quando il livello tornò giù, dopo un paio di giorni, don Camillo, buttandosi dentro l'acqua fino allo stomaco, fu il primo che arrivò al Leopardo che s'era interrato ancor di più e aveva l'acqua fino al sedile della cabina. Don Camillo aprì lo sportello della cabina e il Crik era seduto al volante: fiero e sorridente che pareva vivo. Passò tanto tempo e, una sera di pioggia, don Camillo si trovò ancora sulla strada fangosa del Molinetto e, udendo un suono di clacson, ancora pigiò sui pedali per rifugiarsi sul ponticello. E il Leopardo, di lì a poco, passò rombando, ma non lo spruzzò di fango, perché il Crik non fece la vigliaccata di
buttarsi sulla sinistra per incocciare con le ruote di destra la pozzanghera. Il Crik passò mantenendo correttamente la sua mano e don Camillo sospirò: "Quanto ti ci è voluto, povero figliolo, a imparare la creanza. Che Dio abbia pietà di te e del tuo camion". Non dovete preoccuparvi se qualche sera, lungo le solitarie strade che corrono sugli argini della Bassa, doveste incrociare col Leopardo: è il Crik che va a fare il bullo sotto le finestre della sua bella.
183 «CERATOM» Una Topolino squinternata si fermò sul sagrato e ne scese un uomo magro, con una gran borsa di pelle. Raggiunta la porta della chiesa, la socchiuse, mise dentro la testa, e poi fece un rapido dietro-front e marciò deciso sulla canonica. Don Camillo stava godendosi il focherello del camino in tinello e, sentendo bussare, gridò un «Avanti!» che pareva una minaccia a mano armata. Ma quando poi vide comparire quell'ometto striminzito, si placò: «Il tempo di consegnarle un plico e poi tolgo subito l'incomodo» spiegò sorridendo tristemente il forestiero frugando dentro la borsa che aveva posato sulla tavola. Il plico conteneva un opuscolo di propaganda contro i «rossi». «Lo manda il comitato» commentò il forestiero. «Si accomodi» esclamò completamente rasserenato don Camillo. «Si sta meglio qui che dentro la mia trappola!» sospirò il forestiero sedendosi davanti al fuoco. «D'altra parte il mestiere è quello che è.» Don Camillo si alzò per riporre l'opuscolo e per tirare il collo a una bottiglia di fortanella.
«Lei è del comitato?» s'informò don Camillo. «No» rispose il forestiero. «Sono amico di quelli del comitato e mi presto volentieri. Comitato o non comitato, la battaglia è unica per tutti i galantuomini. Siccome io debbo battere la zona paese per paese, il fatto di portare qualche plico non mi dà nessun incomodo. Così si risparmiano le spese postali e, soprattutto, si è sicuri che il materiale non vada perso.» Il forestiero ridacchiò. Bevve un sorso di vino. «Questo mi tirerà un po' su di giri!» esclamò. «Ne ho bisogno.» Don Camillo tornò a sedersi. «Se è lecito» s'informò «quale sarebbe precisamente il suo mestiere?» «Non me lo faccia dire, reverendo!» disse il forestiero. «È il mestiere più disgraziato del mondo. Ma quando uno si trova con una famiglia sulle spalle, non può fare tanto lo schizzinoso.» Don Camillo attendeva. «Viaggio» spiegò l'uomo malinconicamente. «Cerco di vendere una merce di cui nessuno ha bisogno. Io sono arrivato ultimo e le piazze buone le avevano già prese gli altri. Mi sono toccati i piccoli centri, i paesi!» «Ma cos'è che vende?» «Niente!» rispose cupo l'uomo. «Faccio gli affari che farebbe uno che cercasse di vendere del ghiaccio al Polo Nord o delle ancore da bastimento sulle Dolomiti. Lasciamo per-
dere, reverendo. Dimentichiamo per un momento i nostri guai.» L'uomo vuotò d'un sorso il bicchiere e don Camillo tornò a riempirglielo. La curiosità incominciava a pizzicare don Camillo: ma che accidente vendeva quel disgraziato? Il forestiero scosse il capo: «Reverendo» sussurrò «lo sa cos'è il "Ceratovi"} Non stia a lambiccarsi il cervello, glielo dico io: "Ceratom" significa "Cera Atomica". In altre parole: cera per pavimenti». Bevve un goccio di vino poi continuò: «Capisce? Io devo vendere cera per lucidare i pavimenti dove non esistono pavimenti da lucidare. Dove esistono soltanto pavimenti di mattoni.» Don Camillo credette suo dovere rettificare: «Ci sono pavimenti di mattonelle e di marmiglia anche qui. Tanto è vero che in drogheria la cera per pavimenti la vendono.» L'uomo sorrise tristemente: «Esatto, reverendo: ho visitato le due drogherie del paese e so già tutto. Mi hanno fatto vedere che, dato il consumo, hanno scorte di cera almeno per venticinque anni! E poi il mio è un prodotto nuovo: ottimo, economico, ma nuovo, e la gente diffida sempre delle novità. Lavorare coi privati non posso: cerco di far qualcosa con i Comuni e con le organizzazioni che posseggono sedi, ritrovi, sale di adunanza, teatri, cinema. Ma purtroppo qui i Comuni e le organizzazioni in genere sono per il novanta per cento in mano dei "rossi": e
allora, piuttosto che bussare alla porta di quella ciurmaglia, crepo di fame». Bevve un lungo sorso di fortanella. «Questo mi tira un po' su di giri, reverendo» esclamò quasi allegramente. «Ne ho bisogno come non mai! Lei mi capisce: girare dentro quella trappola, con questa foglia di verza addosso, fare chilometri e chilometri di strada schifosa, in mezzo a un deserto di neve, per poi tirare le somme, la sera, e scoprire di averci rimesso il tempo e la benzina!» Frugò nella borsa e ne trasse un bollettario che aprì e mostrò a don Camillo: «Guardi, reverendo, il lavoro di tutta la mattinata: "Drogheria Piacini di Torricella – Ceratom' una grossa". Capisce? Dopo aver insistito due ore. A titolo di prova l'han presa. Ma più che altro per mandarmi fuori dai piedi». Don Camillo controllò il bollettario e tentennò il capo: «Davvero c'è poco da stare allegri!». L'uomo mandò giù un sorso, poi esclamò con vivacità: «Ho detto la bugia, reverendo! A Fiumetto ho concluso anche un altro affare: il parroco è uno dei pochi che ha le mattonelle in chiesa e allora, a titolo sempre di prova, ne ha comprato una scatola. Piccola, però. Una di queste da due ettogrammi». L'uomo mostrò un barattolino a don Camillo e spiegò: «Ne avevo due in campionario e gliel'ho data direttamente io. Anche perché non ho il coraggio di presentare in ditta un'ordinazione per una scatola piccola!».
Don Camillo considerò con tristezza la scatoletta, poi domandò: «La grossa è molto grossa?». L'uomo cavò dalla borsa un barattolo e lo mostrò a don Camillo: «Un chilo in tutto. Poca roba: ma dato che l'articolo è in fase di introduzione, in ditta sono contenti anche se si riesce a collocarne una scatola a titolo di prova. Certo che, quando uno l'abbia usata, non la molla più di sicuro! È una cera veramente straordinaria.» Don Camillo credette giunto il momento di prendere la sua decisione: «Mi piacerebbe provarla» disse. «Ne dia una scatola anche a me.» L'uomo lo guardò stupito: «Una scatola? A cosa le serve, reverendo? Per lucidare i mattoni?». «Qui in casa ho i mattoni, ma in chiesa c'è il pavimento di mattonelle» affermò con orgoglio. «L'abbiamo fatto nuovo l'anno scorso.» L'uomo sospirò: «Reverendo, lei è un gran brav'uomo e, pur di aiutarmi, è perfino capace di dire le bugie. La ringrazio: anche questo servirà a tirarmi su di giri. Quando avrà il pavimento di mattonelle, allora si ricordi di me»
Don Camillo si alzò avviandosi verso l'uscio: l'uomo, mandato giù in fretta quel che restava di fortanella nel bicchiere, agguantò la borsa e lo seguì. Credeva che fosse un sistema spiccio per dirgli che l'udienza era finita e, giunto fuori dalla porta dell'andito, si accinse ad accomiatarsi, ma don Camillo lo afferrò per un braccio e, fattogli attraversare il sagrato, lo condusse dentro la chiesa. «Ebbene, c'è o non c'è il pavimento di mattonelle?» domandò trionfante. L'uomo si chinò e toccò col dito le mattonelle che erano velate e opache. «Con questo tempaccio, la gente mi porta dentro delle tonnellate di fango. Ma è bellissimo.» Così spiegò don Camillo e, chinatosi, bagnò l'indice della mano destra con la saliva e lo strisciò su una mattonella. «Vede come luccica? Ma non si può tenerlo sempre tirato a cera. Ce ne vorrebbero delle tonnellate.» «Tonnellate?» si stupì l'uomo. «E perché?» «Perché, appena lo si passa con lo straccio umido per togliere la fanghiglia, la cera se ne va.» L'uomo rise. Aperse la borsa, cavò il barattolo grosso, lo scoperchiò e, con uno strofinaccio tolto fuori dalla stessa borsa, spalmò un sottile velo di «Ceratom» su una mattonella. Con un altro strofinaccio tirò la mattonella a lucido. Poi uscì un momentino e rientrò con una manciata di neve.
«Reverendo» disse «vuol provare a bagnare la mattonella?» Don Camillo sfregò energicamente la neve sulla mattonella fin che la neve fu tutta sciolta. Poi con un cencio asciugò la mattonella e la mattonella rimase luccicante. «Il "Ceratom"» spiegò l'uomo «è, più che una cera, una vernice che mantiene il lucido alla mattonella ed essendo impermeabile impedisce all'acqua di venire a contatto con la mattonella stessa. Il "Ceratom"è un impalpabile velo di cristallo disteso sul pavimento.» Uscì, calpestò una pozzanghera, rientrò, sfregò energicamente la suola sudicia sulla mattonella ceratomizzata trasformandola in una gran macchia di fango. Poi col cencio tolse il fango e la mattonella riapparve in tutta la sua lucentezza. «È sufficiente passare il "Ceratom" sul pavimento una volta ogni dieci giorni» concluse trionfante l'uomo. Uscirono sul sagrato: «Grazie dell'ospitalità e arrivederla, reverendo» disse l'uomo facendo l'atto di salire sulla macchina. Ma don Camillo lo agguantò ancora per il braccio e se lo trascinò dietro in canonica: «Le bottiglie si incominciano e si finiscono» spiegò. «Bottìglia sturata, bottiglia condannata.» Tornarono a sedersi davanti al fuoco. «Mi piacerebbe davvero provare» disse don Camillo. «Quanto costa alla scatola?»
«Trecento lire. La piccola.» «E la grossa?» «Quattrocentocinquanta. Non c'è proporzione perché la scatola costa quasi lo stesso nel formato piccolo e nel formato grosso. Comunque, reverendo, lasci perdere: non voglio aver l'idea di averle "fatto l'articolo". Rimaniamo buoni amici.» Don Camillo si mise a ridere: «L'amicizia è una cosa, la cera è un'altra. Ne prendo due scatole. Anzi tre. Tre grosse». L'uomo fece di no con la testa: «O una o niente! Ci tengo all'amicizia. Lei prova il "Ceratovi" e, se le va, mi scrive due righe a questo indirizzo e io le faccio mandare tutte le scatole che vuole». «Una o due è la stessa cosa» insistè don Camillo. «No» affermò l'uomo traendo dalla borsa il bollettario e mettendo a posto la carta carbone per la copia. Lei non è un bottegaio, e io, trattando con lei, non devo tendere alla quantità ma apprezzare la attestazione di simpatia e di fiducia in sé e per sé. Non guastiamo questa cosa così simpatica.» Incominciò a compilare il foglietto dell'ordinazione e don Camillo mise la mano al portamonete: «Quanto debbo, allora?». «Niente: io non posso accettare danaro. Lei pagherà quando avrà ricevuto la merce. Reverendo, una grossa allora?» «Grossa.»
«Ecco fatto: "Ceratovi ~ Una grossa…". Controlli e firmi. La firma non per me ma per la ditta, naturalmente.» Don Camillo firmò e si ebbe il foglietto della copia. L'uomo levò il bicchiere: «Grazie a Dio, non è tutta Inferno questa gabbia di "rossi" scatenati» esclamò. «E, per chi ha fame, una briciola di pane ha il suo valore perché, se non alimenta il corpo, riesce ad alimentare la speranza. La speranza vive di poco: una briciola di pane condita con la fede nella Divina Provvidenza e avanti. La marcia continua!» Don Camillo accompagnò l'uomo fino alla macchina e stette a guardarlo partire. "Potevo tenerlo qui a desinare!" si rammaricò don Camillo pensando alla briciolina condita con la fede nella Divina Provvidenza. * Trascorsero quindici giorni ed ecco che un pomeriggio il corriere arrivò col camion davanti alla canonica, scaricò una enorme cassa, fece firmare a don Camillo una ricevuta e se ne andò. Don Camillo aprì la cassa e vi trovò dentro centoquarantaquattro scatole di «Ceratom» da un chilogrammo l'una.
In possesso di circa un quintale e mezzo di cera per pavimenti, don Camillo arrivò a possedere il giorno dopo anche una lettera della fabbrica del «Ceratom»: «Spettabile Ditta, come da V/ ordine, numero eccetera, in data eccetera, Vi abbiamo inviato franco di porto una grossa dì "Ceratom" al prezzo convenuto di lire 450 al pezzo, abbuonandoVi, a titolo di particolare simpatìa, le lire eccetera per l'imposta Generale Entrata, e l'imballaggio. Con la certezza che tutto sia di V/ gradimento e in attesa di V/ ambiti ordini, passiamo a ben distintamente salutarVi. «Allegata tratta per il pagamento a giorni 30 di lire 64.800 (sessantaquattromilaottocento) salvo errori e omissioni». In verità di errori non ce n'erano: avevano semplicemente omesso di scrivere in calce alla lettera: «Abbiamo fatto fesso don Camillo il quale soltanto adesso che ha sul groppone un quintale e mezzo di "Ceratom" si è cautamente informato e ha appreso che una grossa, termine commerciale, significa non una scatola grossa ma dodici dozzine di scatole grosse». A don Camillo non passò neppure per l'anticamera del cervello l'idea di protestare e di scatenare un cancan. Sua unica preoccupazione fu quella di nascondere gelosamente cento delle centoquarantaquattro scatole di «Ceratom» in
modo che nessuno in paese potesse sospettare che don Camillo aveva preso una fregatura tale da tener allegro tutto il Comune per almeno trenta o quarant'anni. Don Camillo conosceva i suoi polli. Se voi andate da quelle parti e vi fermerete nei dintorni di R., vi racconteranno di sicuro una faccenda successa quarant'anni fa: la storia del fabbro che si fece le ali di latta e poi, aiutato da un amico fidato, nottetempo salì su un pioppo e si buttò giù. Finì dentro l'acqua delle bùdrie e si slogò un braccio. Però la sua prima preoccupazione non fu quella di medicarsi il braccio: egli subito cacciò la mano rimasta efficiente in saccoccia e, cavatone uno scudo d'argento (era una somma grossa quarant'anni fa), disse all'amico: «Per l'amor di Dio non dir niente a nessuno!». L'amico andò a casa e non disse niente. Passò una notte angosciosa. La mattina dopo, alle cinque, corse dal fabbro e, messogli in mano il suo scudo d'argento, disse con aria angosciata: «Perdonami, ma non posso tacere». E parlò e ancor oggi la gente ne parla e ride come se il fatto fosse successo ieri. Seconda preoccupazione per don Camillo fu quella di trovare le sessantaquattromila lire da inviare alla fabbrica del «Ceratovi». Il guaio è che, per un povero prete strapelato come don Camillo, il cacciar fuori dal gozzo sessantaquattro carte da mille è come prendere una martellata in testa. Una martellata
in testa ogni giorno, perché i soldi avuti a prestito bisogna restituirli. Don Camillo tirò la cinghia fin che potè poi, trovandosi nei guai neri a causa d'una scadenza e non sapendo più dove sbattere la testa, l'andò a sbattere contro Peppone. Lo trovò in officina intento a frugare dentro la pancia di un trattore a cingoli. «Signor sindaco» spiegò con disinvoltura don Camillo «per l'edificio comunale e per la sua Casa del Popolo non le farebbe comodo qualche scatola di "Ceratom", una cera per pavimenti straordinaria? Ci sarebbe una buona occasione. Un amico in difficoltà si è rivolto a me.» Peppone smise di lavorare e guardò con odio don Camillo. «Chi è quel vigliacco che ve l'ha detto?» domandò con ferocia. Don Camillo allargò le braccia. «Reverendo, badate a tenere chiusa la ciabatta perché, se questa storia circola, io me la prendo con voi. Prete avvisato mezzo salvato.» Don Camillo sospirò: «Però lo scherzetto della scatola grossa e della grossa non è mica balorda, compagno sindaco». Peppone strinse i pugni: «Bella forza! Cosa volete che ne sappia di grosse e di piccole un disgraziato che ce la fa appena a leggere e a scrivere? Non ho mica studiato il latino, io!».
«E cosa c'entra? Io l'ho studiato, eppure dentro la mia cantina ho centoquaranta scatole di "Ceratom".» Peppone fece un balzo. «Ma no!» gridò. «Ma sì» rispose umilmente don Camillo. «Parola?» «Parola.» Allora Peppone buttò il cappello per terra e vi danzò sopra frenetico. Pareva rinato. Don Camillo scosse il capo. «Va bene, ma adesso che lo sai, cosa ci guadagni?» «Io? Niente! L'importante è che ci perdete voi!» Don Camillo sospirò. «Umana stoltezza! Se ti casca una tegola in testa, perché ti rallegri vedendo il prossimo tuo prendere una tegola in testa?» «Voi non siete il prossimo mio» affermò Peppone. «Voi siete un nemico del popolo e il danno che riceve il nemico del popolo è un vantaggio per il popolo.» «Giusto» ammise don Camillo. «E il danno che riceve invece l'amico del popolo va a svantaggio del popolo perché le centoquarantaquattro scatole di "Ceratom" non le paga il compagno Peppone ma finiscono nel passivo della amministrazione comunale.» Peppone si piantò davanti a don Camillo. «No, signor clero! Questa stramaledetta cera la devo pagare io personalmente perché l'ho ordinata io e, se metto in
bilancio quelle sessantaquattromila lire, i vostri briganti dell'opposizione mi mettono in croce come Gesù Cristo!» «Come Barabba» rettificò don Camillo. Peppone si rimise al lavoro poi, a un tratto, tirò su la testa dal cofano del trattore. «Reverendo, levatemi una curiosità: come si è presentato?» «Diceva che veniva da parte del comitato. Mi ha portato un opuscolo.» «Idem con patate!» gridò Peppone. «Comitato anche con me e busta con dentro il ritratto della nuova colomba della pace. Un tipo in gamba davvero! Però, se mi capita sotto le zampe, vi giuro che gli svito il collo!» Peppone sputò contro il muro, poi riprese gonfio di furore: «Se mi capita sotto le zampe, lo abbranco per il collo, gli mollo una sventola a cavallo di un'orecchia e poi gli domando: "Le va questo tipo? Benissimo, allora gliene spedisco una grossa"». Don Camillo non rispose anche perché Peppone aveva fatto due occhi grandi come una ruota da biroccio. Una Topolino squinternata si era fermata davanti alla porta dell'officina. «È lui!» disse Peppone con voce strozzata. «Nascondetevi lì dietro. Forse entra. Mi ha visto in Comune. Non sa che l'officina è mia!»
E difatti entrò l'ometto magro, con la foglia di verza addosso e la borsa di pelle in mano. Quando Peppone si volse e mostrò la faccia, l'uomo cercò di riguadagnare la porta. Ma sulla porta stava a gambe larghe don Camillo. L'uomo diventò pallido come un morto. «Vorrei un quarto d'olio per il motore» balbettò. «Denso o fluido?» si informò Peppone avvicinandosi col misurino al barile con la pompetta. «Fluido» disse l'uomo tremando. Peppone riempì il misurino quindi lo porse all'uomo. «Lo beve qui o preferisce berlo fuori, seduto nella sua macchina?» L'uomo guardò Peppone e poi don Camillo e il terrore gli riempì gli occhi di lacrime. Comprese che non c'era via di scampo. «Lo bevo qui» sussurrò. «Fuori, sulla macchina, c'è mia moglie.» L'uomo prese il misurino e se lo appressò alle labbra. Allora Peppone glielo strappò di mano e, uscito dall'officina, tirò su il cofano della Topolino e versò l'olio dentro il motore. L'uomo si era appoggiato al banco. «Può andare» gli disse Peppone rientrando. «Quanto fa?» ansimò l'uomo. «Niente: servizio gratis a scopo di far conoscere il prodotto. Vada pure.»
«Cerco di andare, ma mi si è ingranata la messa in moto» spiegò faticosamente il poveretto abbrancato al banco. «Ma se non ne ha neanche bevuto una goccia!» osservò don Camillo. «Sì, reverendo» disse l'uomo. «Ma è come se l'avessi bevuto tutto.» Peppone tolse da un armadietto una bottiglia di cognac e ne versò un bicchiere all'uomo che bevve tutto d'un fiato. Don Camillo gli infilò in bocca un mezzo toscano e, pescando con la tenaglia lunga una brace nella fucina, glielo accese. L'uomo aspirò qualche boccata, poi si staccò lentamente dal banco. «Si marcia?» domandò Peppone. «La frizione slitta un po'» rispose l'uomo incominciando lentamente a camminare. «Però si incomincia.» Si rinfrancò strada facendo e, arrivato alla porta, si volse: «Arrivederci» disse riuscendo a ottenere una voce quasi gioviale. «E quando hanno bisogno di qualcosa, hanno il mio indirizzo.» «Grazie: per il momento siamo forniti» rispose tra i denti don Camillo. L'uomo entrò nella macchina e la Topolino partì. Peppone non era soddisfatto di tutta la faccenda.
«Così» disse a un bel momento «chi ci rimette sono sempre io: voi ve la siete cavata con mezzo sigaro, mentre io ho dovuto dargli olio e cogitaci» «Inoltre dovrai prestarmi ottomila lire» disse don Camillo. «Per pagare la cera ho fatto dei debiti e sono nei guai.» Peppone scosse il capo: «Non presto soldi!» esclamò. «Se volete le ottomila lire datemi venti scatole di cera.» «Sfruttatore del clero! Mi freghi mille lire!» «Prendere o lasciare: gli affari sono affari!» Don Camillo andò a prendere le venti scatole. Peppone, quando don Camillo tornò, andò ad aprire lo stanzino dietro la cantina. «Mettetele lì assieme alle altre centoquaranta» disse Peppone. Poi richiuse la porta a chiave e domandò: «Secondo voi, se io glielo avessi lasciato bere, credete che lo avrebbe bevuto?». «No» rispose don Camillo «perché, se glielo avessi lasciato bere tu, non glielo avrei lasciato bere io.» «E adesso, cosa ce ne faremo di tutta quella cera?» borbottò Peppone. «Non mi interessa. Mica dovremo portarcelo dietro, il "Ceratovi", quando andremo all'altro mondo.» Impostato così, il problema diventava molto meno grave e Peppone si tranquillizzò.
184 LO SMORTÌNO «Novità?» domandò Peppone entrando nel suo ufficio alla Casa del Popolo. Il Lungo si alzò, andò a chiudere l'uscio poi, tratta di tasca una lettera, la porse senza parlare a Peppone. Era lo Smortìno, uno dei ragazzi più in gamba, che dava le sue dimissioni. Spiegava rapidamente che non riusciva più a conciliare i suoi doveri di cattolico coi suoi doveri di militante comunista. I giornali del mattino avevano portato la notizia dell'attivista bolognese che era uscito dal Partito così come aveva fatto poche settimane prima il deputato comunista meridionale, e Peppone aveva masticato amaro per tutta la giornata. Adesso la lettera dello Smortìno veniva a bloccargli la laboriosa digestione dopo la cena. «Ma cosa sta succedendo?» esclamò. «Niente» rispose il Lungo. «Temperamenti deboli che si lasciano suggestionare. Leggono le notizie strombazzate dai giornali e gli viene la crisi. La stessa storia di quelli che si suicidano. Non bisogna perdere la calma.» Peppone pestò un pugno sulla scrivania: «Giusto! Bisogna starsene tranquilli ad aspettare che anche questa notizia venga strombazzata dai giornali e che altri
temperamenti deboli la leggano e gli venga la crisi delle dimissioni». Il Lungo scosse il capo: «Bisogna invece fare in modo che questa notizia non venga stampata sui giornali. La lettera l'ha portata lo Smortìno dieci minuti fa e poi è filato via. Lo si manda a chiamare, gli si parla con garbo. Si sente come stanno le cose, se qualcuno sa della sua decisione oppure no. Lo si induce a ragionare e tutto va a posto». Lo Smilzo arrivò giusto giusto: gli dissero di andare a chiamare lo Smortìno perché avevano bisogno di parlargli e lo Smilzo saltò sulla bicicletta e partì a tutta birra. Tornò di lì a poco e spiegò che lo Smortìno non era in casa. La madre non sapeva dove fosse andato. «Fifa!» borbottò il Lungo. «O è nascosto in casa e allora sua mamma è al corrente, o è nascosto da qualche parte e allora c'è il caso che sua mamma non sappia niente. Io direi di andare a vedere.» Era necessario fare le cose con garbo, e non era difficile perché la casa nella quale lo Smortìno viveva con la madre era isolata, fuori dal paese. «Uno si apposta dalla parte dell'argine, uno si apposta dalla parte della strada, uno dalla parte dell'orto» spiegò il Lungo. «Se è in casa, amen. Se è fuori rientrerà e, a meno che non piova dal cielo, lo becchiamo di sicuro.» Organizzarono la spedizione con molta cura. Andarono tutti e tre a bere qualcosa al caffè sotto il portico, e si misero
a chiacchierare con la gente. Poi, a un bel momento, lo Smilzo spiegò che aveva sonno e andava a letto. Partito lo Smilzo, il Lungo salutò la compagnia e si avviò verso casa anche lui. Peppone rimase ancora un quarto d'ora poi incominciò a sbadigliare e, augurata felice notte alla combriccola, navigò nella nebbia verso la base domestica. Qui giunto, entrò dalla porta davanti per uscire poi cauto dalla porta di dietro e raggiungere, attraverso i campi, il posto che aveva scelto per l'agguato. Lo Smilzo e il Lungo, naturalmente, montavano già la guardia nei loro due settori. Era una notte nebbiosa e maledettamente fredda, ma i tre soci avevano la corteccia spessa e dura e, quando suonò l'una di notte, stavano ancora lì silenziosi e immobili come sassi. Lo Smortìno tornò dalla parte dei campi poco dopo l'una e fu proprio Peppone che lo acchiappò per gli stracci. «Vieni che facciamo quattro chiacchiere» gli disse a bassa voce Peppone. Lanciò un breve fischio e arrivarono gli altri due. Lo Smortìno non oppose nessuna resistenza e si incamminò senza parlare assieme ai tre della spedizione. Si preoccupò un pochettino quando si accorse che, invece di prendere la strada, Peppone e soci continuavano a inoltrarsi in mezzo ai campi sepolti dentro la nebbia. «Dove mi portate?» domandò.
«In un posto dove possiamo chiacchierare tranquilli» rispose il Lungo. In verità, il posto che la banda aveva scelto non poteva essere più tranquillo perché si trattava della Castorta. E la Castorta era una bicocca abbandonata, sperduta in mezzo alle sterpaglie, dove non passava mai anima viva. Arrivarono alla Castorta e, facendosi luce con una lampadina, entrarono in quel nido di pipistrelli e di fantasmi. Un camerone a volte e con le finestre murate (doveva aver servito un tempo da cantina) era ancora in buono stato e serviva ai fittavoli, al podere dei quali era annessa la Castorta, come deposito di cianfrusaglie fuori uso e aveva anche una porta chiusa con catenaccio e lucchetto. Con un chiodo, Peppone aprì facilmente il lucchetto rugginoso e la banda invase il camerone. Tronconi di palo, travicelli e tavole mezze marce era facile trovarne dentro e fuori il camerone: e così, poco dopo, un fuoco gagliardo rallegrava quella gelida tetraggine. Peppone si scaldò in silenzio per qualche minuto, quindi osservò soddisfatto: «Qui possiamo parlare tranquilli perché, anche se ci mettessimo a urlare come matti tutt'e quattro insieme, non ci potrebbe sentire neppure il Padreterno». Lo Smortìno capì l'antifona ma fece finta di niente e aspettò.
«Smortìno» incominciò poco dopo Peppone «ho ricevuto una lettera che mi piacerebbe non aver ricevuta. A te, per caso, non dispiace di avermela mandata?» «Sì» rispose lo Smortìno «mi dispiace specialmente per te. Ma oramai quel che è fatto è fatto.» «Non è vero» obiettò Peppone. «Quello che è fatto può anche essere disfatto. Specialmente quando si tratta di una cosa che è stata fatta in un momento di squilibrio mentale.» Lo Smortìno scosse il capo: «Io l'ho fatto a mente serena» rispose. «Sono anni che ci penso.» Peppone sghignazzò: «Anni, addirittura! E da quando con precisione?». «Dalla notte in cui tu, io, lo Smilzo e il Lungo ci siamo trovati a Castellina circondati dai tedeschi che ci mitragliavano. Io allora mi sono sentito perduto e ho pregato Dio. E mi sono salvato.» «E io, e Peppone e lo Smilzo non ci siamo salvati forse come te?» esclamò il Lungo. «Eppure non abbiamo pregato Dio.» «Questo lo sapete soltanto voi» replicò lo Smortìno. «Comunque la questione non è il fatto che Dio mi ha salvato: io lo so cosa ho provato dentro quando mi sono rivolto a Dio. Io allora ho sentito che, anche se mi ammazzavano, non ero perduto. È difficile da spiegare.» «È facile da capire, però» replicò il Lungo. «Non si capisce invece che cosa c'entri il fatto che tu credi in Dio col
fatto di dare le dimissioni dal Partito. Il Partito ti vieta forse di credere in Dio?» «No» spiegò calmo lo Smortìno. «Però Dio mi vieta di credere nel Partito.» Il Lungo balzò in piedi: «Non Dio, ma il prete! Non Dio, ma la sporcacciona che ti ha fatto girare il cervello e che non ti vuole perché sei un avversario politico di quel democristiano falso di suo padre! Sappiamo tutto». «Non sai niente» rispose calmo lo Smortìno. «Qui non c'entrano né preti né ragazze. Qui c'entra la mia coscienza.» Peppone intervenne: «Smortìno» disse brusco «ti rendi conto del danno che il Partito riceverà dalla tua decisione? Ti rendi conto della sporca speculazione che i nostri avversari organizzeranno sul tuo gesto? Non ti vergogni pensando a quello che i giornali dei nemici del popolo scriveranno su di te?». Lo Smortìno allargò le braccia: «Io ho dato le dimissioni, voi mi cancellate dal registro e buonanotte al secchio. Non è mica necessario che voi andiate a raccontare in giro come sono andate le cose». «Stupido!» gridò il Lungo. «Tu non sei un compagno qualsiasi; sei un esponente, uno dei quadri. Ti dovremo espellere per tradimento e tu, per difenderti, racconterai come sono andate le cose!» «E perché volete espellermi per tradimento?» si stupì lo Smortìno. «Io non tradisco nessuno.»
«Basta!» tagliò corto il Lungo. «Non siamo venuti qui per perdere il tempo in discussioni inutili. Ti abbiamo spiegato come stanno le cose e la sostanza è questa: il momento è speciale e non possiamo permettere uno scandalo. Ritira la lettera e non se ne parli più.» «No» affermò lo Smortìno. «Non posso ritirarla.» Il Lungo lo guardò fisso negli occhi: «Perché?» domandò con voce insinuante. «Hai forse già divulgata la storia?» «No. Non ho detto niente a nessuno.» «Proprio a nessuno? Neanche a tua mamma?» Lo Smortìno riuscì a diventare ancora più pallido: «Cosa c'entra mia mamma? Nelle mie cose c'entro soltanto io!». «Meglio» ridacchiò il Lungo. «È una bella cosa che tua mamma non c'entri e che non sappia niente di lettere e di non lettere. Così l'affare resta fra noi. Smortìno: se non vuoi ritirare la lettera, hai un'altra via d'uscita. Tu prendi un foglietto, ci scrivi sopra che domandi perdono di quello che fai ma che non te la senti di vivere senza la donna che ami, che i suoi non ti vogliono dare per ragioni politiche. Poi prendi questa corda, la agganci a quell'uncino che sta sulla volta e ti impicchi.» Lo Smortìno si mise a ridere: «Lungo, non ho voglia di scherzare». Il Lungo balzò in piedi: «Neanche noi!» urlò furibondo.
Lo Smortìno fece un balzo indietro, ma cadde tra le braccia di Peppone e si trovò stretto come in una morsa. Lo Smilzo, a un cenno del Lungo, si buttò a tuffo e abbrancò le gambe dello Smortìno. «Adesso puoi far conto di essere un baccalà!» ghignò il Lungo. «Con la differenza che i baccalà non hanno la testa, mentre tu ce l'hai ancora e ci servirà parecchio.» Il Lungo aveva la mano svelta e, raccolta la grossa fune che stava ai suoi piedi, improvvisò un nodo scorsoio con tutte le regole dell'arte. Si avvicinò allo Smortìno e, infilatagli la testa dentro il cappio, tirò la corda: «Smortìno» spiegò feroce «le tue pene d'amore le conoscono perfino i gatti. Domani, trovandoti impiccato, tutti diranno: "Povero Smortìno, l'amore disperato l'ha fatto impazzire". Qui la cosa è semplicissima, io tiro il cappio fin che t'ho affogato, poi ti appendiamo al gancio del soffitto e ti mettiamo vicino ai piedi quella cassetta rovesciata. Hai il paltò e, sopra il paltò, il tabarro: nessuna traccia di violenza anche se Peppone ti tiene strette le braccia. Notte di nebbia: nessuno ci ha visto arrivare, nessuno ci vedrà partire. Tutto perfetto». Lo Smortìno conosceva il Lungo e si sentì perduto. Perduto come quella volta a Castellina. «Smortìno, decidi prima che io abbia contato fino a tre» disse con voce cupa il Lungo «o ritiri la lettera o ti strozzo! Ritiri? Uno… due… tre.»
«No» rispose lo Smortìno. «Ho più paura di Dio che di voi.» Il Lungo tese i muscoli e incominciò a stringere il cappio. Poi mollò la corda. «Non vai la pena che ci sporchiamo le mani con un verme come te» disse. Peppone e lo Smilzo lasciarono libero lo Smortìno e si andarono a sedere vicino al fuoco. «Il processo è finito» annunciò il Lungo. «Assolto dall'imputazione di tradimento per totale infermità mentale. Però le spese del processo le paghi!» Il furore aveva ripreso il Lungo che, tolto su da terra un grosso bastone, si avvicinò allo Smortìno con la palese intenzione di spazzolargli le ossa della schiena. «Le spese del processo le paghi!» urlò il Lungo levando il bastone. «Le spese del processo le paga Stalin» disse una voce. E, siccome la voce dava tutta l'idea di uscire da una canna brunita che don Camillo teneva stretta fra le mani, il Lungo lasciò cadere il bastone. *
Don Camillo si avanzò cauto e, dopo aver rimirato lo Smortìno che stava lì, fermo come un baccalà, con la corda ancora al collo ridacchiò: «Cravatta con nodo tipo "Praga"!… Avanti! Togliti quel pendaglio dal collo e vattene a casa mentre io faccio quattro chiacchiere con questa brava gente». Lo Smortìno si cavò il cappio e se ne andò senza parlare. Allora don Camillo si sedette davanti all'uscio. «Quel lazzarone, dunque, aveva combinato il giochetto d'accordo con voi!» muggì Peppone. «No» spiegò calmo don Camillo. «Non era d'accordo con nessuno. Ma sua madre lo sapeva che aveva portato la lettera e, quando ha visto lo Smilzo arrivare per dire al ragazzo di andare alla Casa del Popolo, si è preoccupata ed è corsa da me per domandarmi consiglio. Io l'ho consigliata di andare a letto e sono andato in giro a dare un'occhiatina. Così ho capito la vostra manovra al caffè e così, quando voi avete beccato lo Smortìno, il povero arciprete era lì, a quattro passi da voi. E vi ha seguito fino a qui. E ha aspettato pazientemente nascosto dietro la porta.» Il Lungo incominciò a dire: «Voi…» ma dovette smettere subito. «Tu stai zitto, boia!» esclamò don Camillo brandendo minaccioso la sua maledetta canna brunita. «Mi fate più paura quando maneggiate dei candelotti» gridò Peppone facendosi avanti. «E ve lo dico io che voi siete l'individuo più perfido dell'universo!»
Don Camillo scosse il capo: «No, compagno Peppone. Se fossi l'individuo più perfido dell'universo, invece di entrare quando il Lungo ha preso il bastone, sarei entrato nel momento in cui il Lungo, mentre voi tenevate stretto lo Smortìno, stringeva il cappio. Allora come avreste potuto convincermi che la vostra intenzione non era quella di strozzare lo Smortìno, ma di fargli paura?». Don Camillo raccolse dal fuoco un tizzone e accese il mezzo toscano. «Io non sono il vigile urbano che si apposta nei punti dove è proibito posteggiare le macchine e lascia che l'autista se ne vada per mettere sotto la paletta del tergicristallo il bigliettino della multa. Io non sono il vigile carogna, sono il vigile onesto che, quando vede l'autista arrivare nel posto della sosta proibita, gli dice: "Guardi che qui non si può. Cerchi un altro posteggio".» Peppone borbottò che questo non c'entrava. Anzi, era tutto l'opposto. «C'entra, fratello. E non è l'opposto. Perché, vedendovi accalappiare il disgraziato e portarlo qui, se io fossi intervenuto subito, nessuno avrebbe potuto togliermi dall'animo il sospetto che voi aveste intenzione di farlo fuori. Ho voluto controllare fin dove sareste arrivati, e quando ho visto tirare il cappio non ho potuto credere che voi foste così canaglie. Ho avuto fede in voi e adesso sono contento perché la mia missione non è quella della pattuglia della questura che tutte le notti deve presentare al questore una lista di venti o trenta
o cinquanta persone fermate come sospette e da tenere in gattabuia come presunti delinquenti anche se si tratta di perfetti galantuomini che sono scesi un momentino per comprare le sigarette e hanno dimenticato in casa il portafogli coi documenti. Io sono il pastore che esce la notte per trovare la pecorella smarrita e riportarla tra le pecore dell'ovile. Non sono il pastore che esce la notte per veder se lupi si aggirino intorno all'ovile e, se vede la pecorella smarrita, dice: "Tu sei lupo perché solo i lupi son fuori di notte mentre le pecorelle di notte stan dentro l'ovile". E la tratta come lupo.» Peppone sbuffò: «Fatele allo Smortìno, le vostre prediche!». «Non ne ha bisogno: ha trovato da solo la strada dell'ovile.» «Bell'acquisto! L'affare lo abbiamo fatto noi perdendolo! Ci siamo liberati d'una cellula del nemico!» Don Camillo si strinse nelle spalle: «Una? Cosa volete che sia una cellula, con le centinaia di migliaia di cellule nemiche annidate fra voi?». Peppone si mise a ridere: «Se è per questo possiamo dormire tra due cuscini, reverendo!». «Dormi, Peppone: ma mentre tu dormi, la cellula lavora.» Don Camillo toccò con l'indice l'ampio torace di Peppone:
«È nascosta lì dentro, la cellula del vostro nemico. E si chiama coscienza». Lo Smilzo girò l'ostacolo: «Chi sa come rideremo vedendo lo Smortìno vestito da figlia di Maria, col nastro al collo!». Don Camillo scosse il testone: «Mah! Io so che vedendo lo Smortìno che, col cappio al collo, continuava a dire "non ritiro niente!", non avevo nessuna voglia di ridere. Lo Smortìno, se non sbaglio, è un ragazzo piuttosto in gamba». «Bella forza!» esclamò fieramente Peppone. «È venuto su alla mia scuola! Tutti quelli venuti su alla mia scuola sono tipi in gamba!» Gli altri due disgraziati, che erano fra i galletti del pollaio di Peppone, gonfiarono orgogliosamente il petto. «La vecchia guardia muore ma non si arrende!» affermò con voce da episodio storico lo Smilzo. Don Camillo lo guardò incuriosito: «Non si arrende a chi?». «A chicchessia!» gridò il Lungo. «E a chicchessiàte!» aggiunse solenne Peppone, tanto per far capire a don Camillo che la vecchia guardia non temeva né gli attacchi in terza persona singolare, né quelli in seconda persona plurale. Davanti a quella resistenza massiccia, don Camillo levò l'assedio e si ritirò.
185 IN ABITO SIMULATO Per poter prendere il direttissimo che porta a Milano, bisogna arrivare alla stazione di P:, circa a quaranta chilometri dal paese. Ma per chi non vuol arrivare a Milano dopò le nove, la corriera non serve. A Peppone interessava sbrigarsi alla svelta: trovare i pezzi di ricambio che gli occorrevano e riprendere subito il treno. La mattina era fredda e nebbiosa ma, quando era a cavalcioni della sua motocicletta, Peppone non aveva paura di niente e di nessuno. Arrivò a P. gelato come un sorbetto, lasciò la macchina nel posteggio davanti alla stazione, ma non fece a tempo a staccare il biglietto perché il treno stava già muovendosi. Riuscì tuttavia a salire, ed era un vagone di seconda classe. Uno scompartimento completamente libero stava lì davanti a lui e Peppone non seppe resistere all'invito: "Vuol dire che caricherò la spesa sul conto di quello del trattore" pensò. "Non mi va di andarmi a buttare in mezzo alla puzza e alla confusione della terza." Passava un controllore: Peppone fece il biglietto e andò a stravaccarsi nel divano dello scompartimento, dopo aver
chiuso la portiera e tirate le tendine con la segreta speranza che nessuno venisse a disturbarlo. Si stava bene davvero così tranquilli, e Peppone si appisolò e dormicchiò fino a quando non venne quello del controllo per bucargli il biglietto. Nell'uscire, il ferroviere non richiuse completamente la portiera, e Peppone aveva già messo la zampa sulla maniglia per eliminare la fessura, ma una voce che proveniva dal corridoio lo bloccò. «Vorrei fare la differenza.» Peppone era sicuro di non sbagliarsi: quello che voleva fare la differenza doveva essere per forza don Camillo. Peppone scostò leggermente la tendina ma rimase sbalordito perché l'uomo che, lì davanti, stava parlando col controllore aveva la voce, la faccia e la corporatura di don Camillo ma non era don Camillo. Infatti indossava un abito che non aveva niente a che vedere con la sottana del prete. Peppone lentamente richiuse la portiera, si sdraiò sul divano e si coprì la faccia con l'Unità: "Don Camillo in borghese!" borbottò tra sé Peppone. "Questa è bella davvero! Ma come sarà arrivato qui, quel maledetto?" Don Camillo era arrivato lì semplicemente perché, salito a P. in divisa regolare sul primo vagone di terza classe, una volta che il treno s'era mosso, aveva diligentemente passato in rassegna tutti i vagoni di terza e, non avendo notato facce note o sospette, s'era andato a chiudere nel gabinetto.
Qui, cambiatasi la divisa da arciprete con la normale tenuta borghese che aveva dentro la valigia, era uscito passando alla seconda classe. Tornando in terza, correva il pericolo che qualcuno avesse poco prima notata la sua fisionomia e ora trovasse strano il cambiamento d'abito del titolare della fisionomia. In seconda, don Camillo non correva nessun pericolo perché nessuno del paese, neanche il più ricco agrario, viaggiava mai in seconda classe. Pagata la differenza, don Camillo socchiuse la portiera dello scompartimento di Peppone e mise dentro cautamente la testa, ma subito la ritrasse richiudendo. Un uomo che dorme con l'Unità sciorinata sopra la faccia non può in nessun caso esser un piacevole compagno di viaggio per un prete. Riprese il suo valigione e si avviò lungo il corridoio sbirciando in ogni scompartimento e fermandosi soltanto quando ne ebbe trovato uno completamente vuoto. Intanto, sotto l'Unità, la testa di Peppone lavorava: "Non può andare che a Milano: ma perché si sarà travestito da uomo?". Peppone prese in considerazione tutte le ipotesi, anche le più ardite e azzardate, arrivando all'unica conclusione possibile: per sapere cosa andasse a fare a Milano, in abito simulato, bisognava a ogni costo pedinare don Camillo. Peppone dimenticò i pezzi di ricambio del trattore: se un reazionario si traveste, c'è sotto di sicuro qualcosa di sporco. Peppone decise di entrare subito sul sentiero di guerra: esplorò il corridoio e, trovatolo completamente deserto, rag-
giunse rapidamente la terza classe e si fermò soltanto quando fu arrivato in fondo al primo vagone, in testa al convoglio. Quando il treno arrivò sotto la pensilina della stazione di Milano, Peppone, tiratosi su il bavero del cappotto, scese e marciò fulmineo verso l'uscita. Traversò l'atrio e si appostò vicino a un chiosco di giornali tenendo d'occhio il cancelletto dell'uscita. Come intravide tra la folla dei viaggiatori l'alta vetta di don Camillo, scese lo scalone e andò ad aspettare il suo uomo al pianterreno, sotto l'androne. Avrebbe preso il tassì, l'autobus o il tram? Bisognava essere pronti a partire all'inseguimento e Peppone si preparò spiritualmente. Ma don Camillo tardava ad apparire e, a un bel momento, Peppone pensò con orrore che, forse, il suo uomo era sceso dallo scalone laterale ed era salito sul filobus sotto il cavalcavia. Ma don Camillo si era semplicemente fermato per depositare la sua valigia in bagagliaio e, difatti, dopo una decina di minuti, sbucò sotto l'androne. Tram, tassì, autobus? E se ci fosse stata ad attenderlo una macchina privata? Peppone si sentì mancare il fiato per la paura di perdere le tracce del clandestino. Però la faccenda ebbe una soluzione tanto imprevista quanto confortevole: don Camillo si avviò a piedi. Questo fa-
cilitava notevolmente l'operazione di pedinamento e Peppone si apprestò a seguire il suo uomo. In quell'istante gli si parò davanti uno dei soliti fotografi ambulanti con la Leica appesa al collo: «Facciamo una bella istantanea?». «No, no!» rispose con malgarbo Peppone. Poi gli venne un'idea e richiamò il giovanotto: «Non a me» gli spiegò. «Lo vede quell'omaccio laggiù col paltò marrone e il cappello grigio? Senza farsi accorgere veda di beccarlo. Pago bene!» «Ci penso io» rispose il giovanotto partendo all'arrembaggio dell'omaccio. Peppone seguì a distanza di sicurezza la manovra del fotografo. Si capiva che era un tipo in gamba: raggiunse don Camillo, lo sorpassò disinvolto, si celò dietro un tram e, quando gli arrivò a tiro, gli sparò la prima istantanea. Poi gliene sparò dieci metri più avanti una seconda, poi una terza. Don Camillo non s'era accorto di niente: pareva rincretinito, in mezzo a tutta quella confusione. Peppone era trionfante: con un documento fotografico di quel genere poteva fare del buon lavoro durante la campagna elettorale. Peppone vedeva già i manifesti con la riproduzione in grande delle foto e, sotto, la dicitura: «Chi sarà questo elegante signore che passeggia per le strade di Milano? Certo che, per non disonorare la tonaca, è meglio cavarsela!». Il fotografo sopravvenne:
«Tutto a posto. Liscio come un olio. Facciamo sei cartoline di ogni posa?». «Sì, sei cartoline e un ingrandimento. Però mi occorrono subito.» Il fotografo allargò le braccia: «Prima di stasera non è possibile». «Deve essere possibile.» Il fotografo cavò di tasca un blocchetto e, scarabocchiato qualcosa su un foglietto, lo staccò e lo porse a Peppone: «Alle due a questo indirizzo. Sarà tutto pronto. Seimila lire: tre subito e tre alla consegna delle copie». Peppone cavò di tasca tre biglietti da mille e li porse al giovanotto. «Mi raccomando che sia un lavoro fatto bene.» «"La Fotoscat" è la migliore ditta di Milano.» Peppone, che pur parlando col fotografo non aveva interrotto il suo pedinamento e non aveva perso d'occhio il suo uomo, liquidò con un «va bene» il giovanotto e si dedicò esclusivamente a don Camillo. Pareva che don Camillo non avesse nessuna fretta perché, oltre a camminare pian pianino, si fermava davanti a tutte le vetrine. "O si è accorto di essere pedinato e finge di bighellonare" pensò Peppone "oppure ha l'appuntamento per una certa ora e cerca di ammazzare il tempo."
Evidentemente la seconda ipotesi era quella buona perché, a un bel momento, don Camillo, cavato dal taschino l'orologio, lo guardò e accelerò il passo. Peppone lo seguì senza difficoltà fino a Piazza della Scala. Ma qui la faccenda incominciò a diventare difficile per via della gran gente. Quando poi don Camillo imboccò la Galleria a Peppone venne il sudor freddo: "Si è accorto di essere pedinato e mi ha portato fin qui dove c'è una confusione spaventosa così, al momento giusto, si infila in mezzo alla folla e non lo trova più nessuno!". E difatti, una volta che don Camillo, traversata la Galleria, virò a sinistra nei portici di Piazza del Duomo, la folla lo inghiottì. Ma c'è un Dio anche per i poliziotti dilettanti e così Peppone, quando oramai aveva perso ogni speranza, ripescò don Camillo che stava entrando alla «Rinascente». Don Camillo, con Peppone sempre alle calcagna, fece tutte le scale mobili della salita fino all'ultimo piano. Poi le fece in discesa fino all'interrato. Partendo di qui, rifece tutte le scale mobili in salita. Poi le rifece in discesa ma si fermò al pianterreno. Raggiunse l'interrato servendosi della scala normale, poi, con le scale mobili, arrivò fino all'ultimo piano. Qui però don Camillo parve preso da un improvviso pensiero e, consultato ancora l'orologio, scese con le scale
mobili fino al pianterreno, uscì dal palazzo e marciò a passo da bersagliere su Piazza della Scala. In Piazza della Scala si infilò lestamente in un tassì e schizzò via. Ma Peppone lo seguiva su un altro tassì. Non fu una corsa lunga perché, pochi minuti dopo, don Camillo era già arrivato a destinazione. «Fermi qui» disse Peppone all'autista. «Ho un appuntamento con un amico. Aspetto.» L'autista cavò di tasca il giornale e si mise a leggere tranquillamente mentre Peppone, rintanato nella macchina, seguiva ogni movimento di don Camillo. Liquidato il suo autista, don Camillo rimase fermo qualche minuto sul marciapiedi, poi prese a gironzolare in su e in giù davanti a un grande portone spalancato. Doveva avere dei dubbi o dei sospetti. Comunque, a un tratto, prese la sua decisione e s'infilò nel portone. Peppone si sforzò di leggere la targa murata a lato del portone: «Montecatini»! Un parroco della Bassa che si traveste per andare a Milano alla direzione della «Montecatini» quale scopo può avere? Quello di comperare dei concimi chimici? È chiaro come il sole: il clero vatico-americano e la grande industria complottano ai danni del proletariato e, nell'imminenza delle elezioni, concertano l'azione da svolgere. «Si vede che il mio amico non viene» disse Peppone all'autista. E si accingeva a scendere quando scorse don Camillo apparire.
«Aspettiamo ancora qualche minuto» spiegò Peppone all'autista. Don Camillo uscì svoltando verso destra, fece qualche passo, poi tornò indietro e rientrò nel portone. Poi, appena dentro, fece dietro-front, uscì e di nuovo entrò poi ancora uscì. Ma, questa volta, tirò diritto. L'autista che aveva seguito la manovra sogghignò: «Sembra impossibile che dei vecchi imbecilli si divertano come dei ragazzini! Ha visto?». «Sì» rispose Peppone. «Però non ho capito niente.» «Non è di Milano?» «No.» «Ah. Lì c'è una gran porta di cristallo a due battenti scorrevoli che funziona a cellula fotoelettrica. Quando uno passa la soglia, il raggio si interrompe e la porta si apre. E così per l'uscita. Ecco, guardi.» Un uomo stava entrando e Peppone fece attenzione. «Il mio amico non viene più» disse Peppone scendendo. Pagò la corsa e la sosta e si accinse a continuare l'inseguimento di don Camillo. Ma, fatti pochi passi, tornò indietro e marciò direttamente verso la grande porta di cristallo che, docilmente, quasi miracolosamente, si aperse e si chiuse alle sue spalle. Uguale fenomeno si verificò quando Peppone uscì. *
Don Camillo si era rimesso a bighellonare. Pareva che non avesse la minima idea di dove volesse andare. Comunque Peppone rimase sul chi vive perché coi preti, anche se in abito borghese, non c'è da fidarsi mai. La faccenda minacciava di diventare straordinariamente monotona, ma improvvisamente acquistò interesse. Infatti, imboccata una certa stradetta, si udirono delle grida e, alle spalle di Peppone e di don Camillo, arrivò di corsa una gran masnada di gente che faceva uno spaventoso vociare e agitava cartelli contenenti apprezzamenti tutt'altro che benevoli nei riguardi del Governo. Molte frasi atte a smascherare una non meglio identificata «legge truffa». Peppone potè ritirarsi in un portone, ma don Camillo che camminava in mezzo alla strada venne raggiunto e risucchiato dalla masnada che lo spinse avanti, in primissima fila verso la vicina piazzetta, evidente meta del corteggio di scalmanati. Il guaio è che, sulla piazzetta, c'era un grandioso schieramento di agenti della Celere e Peppone arrivò in tempo per vedere un nugolo di agenti caricare la testa della colonna dei dimostranti. Naturalmente, degli elementi di primissimo scaglione, quello che maggiormente dava nell'occhio per la inconsueta mole della sua persona era don Camillo: e sulla zucca di don Camillo si scatenò un tale temporale di legnate da riempire di stelle due o tre firmamenti.
E poiché la masnada che si addensava nella stradetta premeva maledettamente, gli infelici in testa alla colonna non potevano innestare la marcia indietro e i mattarelli di gomma degli agenti continuavano con crescente vigore a pestare zucche e schiene già pestate. Don Camillo, sorpreso da quel diluvio universale di legnate, rimase in un primo tempo sconcertato poi, quando capì che, se fosse rimasto lì, gli avrebbero fatto una testa come un dirigibile, con uno strattone si liberò dalle zampe degli agenti ed eseguì un laborioso dietro-front. I celerini, vista quella schiena spaziosa e comoda come un letto a due piazze, si sentirono invitati a nozze e incominciarono a pitturare le spalle di don Camillo con tale entusiasmo da far trovare a don Camillo la manetta della marcia ridotta. Allora, agguantate con ambo le mani le falde del cappello, don Camillo si buttò a testa bassa contro la masnada degli scalmanati, riuscendo a fenderla e a portarsi in posizione più arretrata. La minaccia di una carica con le camionette indusse il corteo a sciogliersi e don Camillo potè così infilarsi in una viuzza laterale e ripararsi dentro un caffè. Peppone non aveva occhi che per don Camillo, e il fatto di aver visto don Camillo prendere tutte quelle legnate dalla Celere gli aveva riempito il cuore di incontenibile gioia. Il pensiero poi di poter raccontare in paese il trattamento ricevuto da don Camillo lo entusiasmava. Addirittura lo esaltava.
Seguì don Camillo facendosi largo tra la folla a gomitate, e, pochi istanti dopo, anche Peppone entrava nel caffè. La grande sala era zeppa di gente e don Camillo, seduto in un tavolino d'angolo, stava facendo cautamente l'inventario delle ammaccature situate in luogo accessibile. Peppone, trionfante, ruppe il gioco del pedinamento e, sedutosi a un tavolino nei paraggi immediati di quello di don Camillo, urlò allegramente: «Padrone, pago da bere!». Il caffettiere lo guardò con sospetto: «Cosa le succede? Ha vinto al totocalcio?». «Meglio!» spiegò sghignazzando Peppone. «Ho visto un tizio prendere dai celerini tutte le manganellate che avrei voluto dargli io! Come gli stavano bene addosso: parevano pitturate dal Correggio. In gamba davvero questi bravi ragazzi del ministro Sceiba!» Don Camillo incassò senza smuoversi di un millimetro. Ma la fine ironia di Peppone non ebbe un grande successo perché, inaspettatamente, Peppone si trovò circondato da una trentina di facce proibite, tutta gente che era venuta lì dentro per ripararsi dal temporale di caucciù poliziesco. «Porco fascista!» gli disse uno facendogli volar via con una sberla il cappello. Peppone non fece a tempo ad aprir bocca che gli furono addosso tutti e trenta, e ognuno ci metteva tutta l'anima per pestare il provocatore. Fortunatamente, prima ancora che incominciasse la lavorazione, il padrone del caffè aveva fatto
un cenno al garzone e il garzone era corso come un fulmine nella piazzetta, lì a due passi, a dar l'allarme alla Celere che stava ancora di guardia. Appena sentirono l'odore del caucciù in arrivo, gli scatenati interruppero il pestaggio e se la squagliarono per la porta del cortile. Riaffiorato dall'alluvione, Peppone si levò in piedi faticosamente per poi sfasciarsi sulla sedia. Il caffettiere gli portò un bicchierone di cognac e glielo fece bere. Entrarono gli agenti: «Sono scappati tutti» spiegò il padrone. «Ancora cinque minuti e lo sfracellavano!» Gli agenti si rivolsero a Peppone: «Li conosce?». «Non conosco nessuno» spiegò Peppone. «Ero entrato qui perché mi sono trovato per disgrazia in mezzo a quella confusione.» Spiegò da dove proveniva, e che lo scopo del viaggio era l'acquisto di pezzi di ricambio. Mostrò la carta d'identità, la lettera della ditta che l'invitava a Milano. Gli agenti si rivolsero al padrone: «E lei conosce qualcuno di quei tipi?». «Mai visti. Sono venuti qui per ripararsi. Tutù delinquenti, canaglia comunista. Si sono buttati su di lui come belve perché non è della loro idea.» Un agente scoperse don Camillo nel suo angolo. «E quello là era del gruppo?» domandò sospettoso. «Non ha una fisionomia nuova.»
Il caffettiere allargò le braccia. «Non lo so. La faccia da comunista ce l'ha: comunque non si è mai mosso dal suo tavolino.» Un graduato aveva tratto il libretto e si accingeva a stendere il verbale: «Lasci perdere» disse Peppone. «Voi avete anche troppo da fare in questi momenti. La mia pelle è dura e ci vuol altro per farmi del male. E poi io torno subito al paese e chi si è visto si è visto.» Si udirono degli schiamazzi in strada e gli agenti dissero: «Va bene» e se ne andarono. Il padrone versò un altro bicchiere di cognac a Peppone e questo rimise in fase il motore del compagno sindaco. Riassestatisi gli abiti spiegazzati e spolverate le ammaccature della testa, Peppone si alzò e domandò: «Quanto fa?». Il padrone scosse il capo sorridendo e gli tese la mano: «Niente: fra noi della stessa idea bisogna aiutarci! Ciao, camerata!». Peppone strinse la mano del caffettiere e uscì. Si ritrovarono poco dopo su una panchina del parco. «Certo» osservò molto sarcastico Peppone «questi agenti del Governo clericale che non rispettano neppure un sacerdote!…» «Ma anche questi comunisti che non rispettano neppure i compagni di fede!…» replicò don Camillo. «È diversa la cosa, reverendo!» ridacchiò Peppone. «È diversa!»
«Le botte sono sempre botte» sentenziò don Camillo. «Comunque esse non hanno nessun valore perché sono dovute a un semplice equivoco.» «A botta calda tutto va bene, reverendo: me lo saprete dire domani.» Peppone accese un toscano, aspirò qualche boccata poi domandò a don Camillo: «Reverendo, quella tenuta da libera uscita ve la passa il Vaticano direttamente?». Don Camillo sospirò: «No, è un abito che mi ha lasciato in casa mio fratello. L'ho indossato per dargli un po' d'aria». «È stata una buona idea perché avete trovato modo di fargli dare anche una spolverata proprio come si deve.» Don Camillo tirò fuori la mano destra dalla tasca del cappotto e mostrò a Peppone un manganello di gomma: «Nel putiferio m'è rimasto in mano…» spiegò. Peppone cavò fuori di tasca un pezzo di stoffa. «Anche a me è rimasto in mano qualcosa» disse «durante il pasticcio del caffè.» Ed era la bavarese d'una giacca, con un distintivo comunista infilato all'occhiello. «Ci conviene scambiarci i trofei» ridacchiò don Camillo porgendogli la mazza di caucciù e prendendo il bavero con distintivo. Peppone rigirò tra le mani il manganello poi lo buttò lontano:
«Brutto trofeo, reverendo, anche se mi ricorda un episodio piacevole per me e spiacevole per voi». Don Camillo buttò via la bavarese. «Hai fatto bene a liberartene, Peppone. Io ne ho un altro perché, nella confusione, me ne sono rimasti tra le mani due… Però questo me lo tengo. Può sempre servire. Non si sa mai.» Peppone guardò con disprezzo il manganello di gomma che don Camillo aveva tratto dall'altra saccoccia poi disse: «In qualunque occasione voi rivelate sempre la vostra sporca anima di fascista!». «Sì, camerata» rispose sorridendo don Camillo. Peppone si allontanò seccatissimo. Ma presto si rasserenò perché gli vennero in mente le fotografie documentarie scattate la mattina. Tolse dal portafogli il foglietto della ricevuta e, salito su un tassì, si fece portare al numero della via indicata nell'intestazione. Trovò soltanto il rudere di una casa bombardata. Tremila lire per tre fotografie scattate con una macchina perfettamente priva di negativa. Tre fotografie che valevano un milione. *
Anche per il ritorno, Peppone dovette prendere la seconda perché era tutto ammaccato. E, appena si fu seduto sul divano, arrivò don Camillo vestito da prete. «È finita la cuccagna?» si informò Peppone. «Finita.» «Però» affermò Peppone «secondo me Milano non è poi quella gran cosa che dicono.» «Ha i suoi lati cattivi e i suoi lati buoni» rispose don Camillo che nonostante tutto non riusciva a dimenticare la meraviglia delle scale mobili della «Rinascente» e dalla porta "magica" della «Montecatini». Una volta che fu arrivato a casa, don Camillo andò a inginocchiarsi davanti al Cristo dell'aitar maggiore. «Già di ritorno, don Camillo? Non ti sei divertito?» «Sì, Gesù, molto: ma non bisogna mai abusare dei divertimenti.» Sagge parole.
186 LO SCHERZO Peppone, quando vide che quelli dello stato maggiore c'erano tutti, fece chiudere col catenaccio la porta e tirò fuori di sotto la scrivania una valigetta rossa. Lo Smilzo, il Brusco, il Bigio, il Lungo e compagnia bella guardarono perplessi l'arnese ma, come Peppone ebbe sollevato il coperchio, lo Smilzo esclamò: «Un radiogrammofono portatile!». «Già» rispose Peppone innestando una spina in una presa di corrente e poi armeggiando attorno alle manopole del congegno. «Ma il disco dove si mette?» s'informò il Bigio. «La novità consiste che il radiogrammofono non è a disco» spiegò Peppone. «Invece del disco c'è un filo d'acciaio con incisa la musica.» «Non sanno più cosa inventare!» borbottò il Brusco. «Be', facci sentire qualcosa!» disse il Lungo. «Subito» rispose Peppone continuando ad armeggiare attorno alle manopole. Si udì un fruscio, poi dalla cassettina incominciò a uscire la voce del Bigio, poi quella di Peppone e via discorrendo. Insomma, tutta la conversazione di poco prima. «Non è straordinario?» domandò Peppone trionfante.
Si trattava di un comune magnetofono a filo, ma, laggiù alla Bassa, quelle porcherie elettriche non erano ancora conosciute. Peppone spiegò che, una volta registrata la voce sul filo, la si poteva mantenere incisa per riudirla quando si voleva. Oppure si poteva cancellare l'incisione e servirsi del filo per nuove registrazioni. Tutti provarono a parlar dentro il piccolo microfono per poi riascoltare la propria voce: alla fine domandarono a cosa potesse servire praticamente quel gingillo. «A registrare i discorsi degli avversari per avere il documento di quel che hanno detto, a registrare i nostri discorsi per poi farne l'autocritica e correggere i difetti della voce. Oppure per registrare una trasmissione alla radio.» Peppone accese l'apparecchio radio, lo lasciò funzionare dieci minuti, riavvolse il filo rapidamente girando la manopola della marcia indietro e, pochi istanti dopo, il magnetofono ripeteva esattamente quello che aveva ascoltato dalla radio. E tutto alla perfezione, parole e musiche. Discussero a lungo sulle possibilità dell'apparecchio e, a un tratto, lo Smilzo ebbe un'idea: «Ho in mente uno scherzo straordinario! Si registra sul filo un bel pezzo di trasmissione normale della radio poi, quando arriva il segnale dell'uccellino, si spegne la radio e si dice dentro il microfono una notizia inventata da noi. Poi, invece della radio, si innesta nell'altoparlante dello spaccio il magnetofono e nessuno si accorge del trucco e, quando arri-
va la notizia, tutti la bevono perché, subito dopo la notizia, si incide un altro pezzo di trasmissione». Quelli della banda si misero a sghignazzare divertiti e Peppone esclamò: «Ciro degli Oppi!». Non ci fu bisogno di dire altro. Tutti avevano già capito. * Ciro degli Oppi, uno della banda di Peppone, era un rabbioso del totocalcio. Non c'era sabato che Ciro non compilasse una schedina e questo non significa niente perché c'è gente che, di schede, ne spara dieci o venti tutte le settimane. Ciro era un rabbioso del totocalcio perché, ogni sabato, appena consegnata la sua scheda, incominciava immediatamente a pensare che cosa avrebbe fatto coi soldi vinti. E così, arrivato il pomeriggio della domenica, quando la radio dello spaccio dava i risultati delle partite, risultati completamente diversi da quelli pronosticati da Ciro, Ciro si arrabbiava non come uno che non ha vinto, ma come uno che ha vinto e poi gli hanno rubato i soldi della vincita. Tutte le domeniche pomeriggio, allo spaccio della Casa del Popolo, c'era lo spettacolo di Ciro imbestialito come un'intera gabbia di leopardi idrofobi. Pochi minuti prima che la radio trasmettesse le notizie sportive, Ciro si alzava dal
suo tavolino e andava ad appoggiarsi al banco col libretto delle partite già pronto nella sinistra e il lapis nella destra. Lo scherzo da fare a Ciro era semplicemente quello di truccare la trasmissione trasmettendo una notizia con i risultati corrispondenti alla scheda compilata da Ciro. Il Lungo funzionava anche da banconiere dello spaccio e, oltre a mescere vino e bibite, teneva la ricevitoria del totocalcio: quindi non era davvero difficile sapere cosa avesse pronosticato Ciro ogni sabato sera. Studiarono nei minimi particolari la faccenda, registrarono la trasmissione normale di canzonette e annunci commerciali, poi il sabato sera, avuta la lista precisa dei pronostici di Ciro, interpolarono la notizia, aggiunsero un altro pezzo di trasmissione, collegarono l'altoparlante dello spaccio con l'apparecchio di registrazione e provarono, a volume ridotto, l'effetto. «Straordinario!» esclamò Peppone. «Se non lo sapessi ci cascherei anche io!» E arrivò il pomeriggio della domenica: Ciro all'ora solita comparve e, sedutosi al solito tavolino, ordinò la solita bottiglia di vino. L'altoparlante trasmetteva regolare musica della radio e continuò a trasmetterla fin quando, arrivato il momento buono, Peppone, che stava facendo una scopa seduto a un tavolino vicino a quello di Ciro, non si mise a urlare come un maledetto per via delle stupidaggini che combinava il Bigio, suo compagno di gioco. Il Bigio urlò più di lui: intanto, nell'altra
stanza, lo Smilzo approfittava del putiferio per staccare la radio e attaccare al cavo dell'altoparlante il magnetofono. Nessuno si accorse di niente perché la radio marciava a volume ridotto e il putiferio in sala era infernale. Ritornò la calma e, mano a mano che i minuti passavano, Ciro diventava sempre più nervoso. Ed ecco che, a un bel momento, Ciro si alzò e appressatosi al banco tirò fuori libretto e lapis. Ogni cosa era stata studiata al minuto secondo e, all'ora precisa, la voce della radio annunciò: «Notizie sportive…». Tutti in sala chiusero il becco e, nel più completo silenzio, l'altoparlante incominciò a snocciolare i risultati delle partite. Ciro, come tutte le altre volte, prendeva febbrilmente nota e, quando ebbe finito di trascrivere i risultati, li confrontò coi pronostici della sua schedina e, sbarrati gli occhi, incominciò ad ansimare. «Ah… Ah… Ah…» non riusciva a parlare e tutti gli si fecero attorno preoccupati. «Ciro, cosa ti succede?» Ciro sventolò con mano tremante la scheda: e altri tre o quattro che avevano preso nota dei risultati controllarono. «Vecchio mondo, stavolta ha proprio vinto!» gridarono. Ciro agguantò una bottiglia di cognac che stava lì sul banco, ne tracannò una sorsata che non finiva più, poi urlò: «È finita la naja! È finita la naja!». Schizzò fuori dallo spaccio e schiamazzando scomparve.
«A momenti avevo paura che gli venisse un colpo!» osservò Peppone. «Adesso quando saprà che era uno scherzo!» «Uno scherzo? Ma l'ha detto la radio!» replicò qualcuno. Peppone andò a prendere il magnetofono e spiegò la faccenda. Naturalmente l'interesse per quella cassetta straordinaria che registrava le voci sul filo d'acciaio fece dimenticare a tutti il povero Ciro, perché ognuno voleva provare a parlare dentro il microfono per poi risentire la propria voce. Ma, a un tratto, entrò nello spaccio un ragazzino ansimante: «Ciro è diventato matto!» gridò lanciando l'allarme. Ciro abitava in una casipola isolata fuori dal paese e Peppone, seguito da tutta la banda, si avviò di corsa per vedere cosa fosse successo. Trovarono Ciro che, continuando a urlare: «È finita la naja!», stava ballando una danza selvaggia attorno a un rogo che fiammeggiava in mezzo al cortiletto. La moglie di Ciro, terrorizzata, lo stava a guardare da una finestra del primo piano. Quando vide Peppone e soci, corse giù e spiegò con voce agitata: «È arrivato a casa come un maledetto, gridava quel che grida adesso: che la naja è finita, che finalmente i milioni sono arrivati. È salito e ha buttato giù tutto: letto, sedie, tavola, buffet. Poi ha rovesciato sul mucchio un bidone di petrolio e gli ha dato fuoco!».
La poveretta afferrò per un braccio Peppone: «Guardate, guardate!». Ciro, agguantati due materassi, stava per buttarli tra le fiamme, ma Peppone e gli altri gli furono d'un balzo addosso e gli strapparono i materassi di mano. «Ciro, stai diventando matto?» gli domandò Peppone afferrandolo per un braccio. «Matto? Matto perché brucio quelle porcherie?» urlò Ciro. «Adesso i milioni ci sono! Pochi o tanti ma ci sono! È finita la naja… Ho vinto!» Voleva finire il lavoro incominciato, bruciare ogni cosa. Un pasticcio grosso. Chi se la sentiva di spiegargli come stesse la faccenda? Ci pensò la moglie di Ciro che, dopo aver parlottato con qualcuno del gruppo, si avvicinò al marito e gli gridò: «Ciro, smettila di fare lo stupido! Non capisci che è stato uno scherzo? Non hai vinto niente». Ciro si mise a ridere: «Uno scherzo! Ho sentito io la radio! Ho controllato io i risultati e li hanno controllati gli altri!». «Ciro, calmati» borbottò Peppone. «È stato uno scherzo davvero.» «Ma la radio…» «C'era il trucco del magnetofono. Poi ti spiegherò, vedrai…» Ciro si calmò istantaneamente.
Guardò negli occhi Peppone, poi tutti gli altri della banda. «Uno scherzo… Soltanto uno scherzo…» sussurrò scuotendo il capo. Fissò a lungo il falò nel quale stavano crepitando i frantumi dei suoi poveri mobili. Si asciugò il sudore che gli bagnava la fronte. Guardò ancora negli occhi Peppone: «Che siano gli altri, che siano gli sfruttatori del popolo a prendere in giro la mia miseria, sta bene… Ma che siate voi, no!». Trasse lentamente di tasca il portafogli e toltane la tessera del Partito la buttò nel fuoco. Nessuno ebbe il coraggio di muoversi. «Dimenticatevi che io sono al mondo!» esclamò con voce dura volgendo le spalle a Peppone e rientrando in casa seguito dalla moglie. Peppone rimase lì muto e immobile a rimirare il fuoco per qualche istante, poi fece dietro-front e assieme agli altri si avviò lentamente verso il paese. «È stato uno scherzo cretino» disse poco prima di arrivare in paese. «Ma chi poteva immaginare che l'avrebbe presa così?… Smilzo, tu…» Lo Smilzo che stava sul chi vive fece rapidamente un balzo indietro e portò il sedere a distanza di sicurezza. «Capo, io non ne ho colpa!» protestò. «Io ho proposto lo scherzo, tu hai pensato a Ciro.»
«Lasciamo perdere!» tagliò corto Peppone. «Nessuno sa niente, nessuno ha visto niente, d'accordo? Se lo sanno in federazione continuano sei mesi a darci dei cretini… Lo cancelliamo dai quadri e lo sostituiamo senza tante storie. E poi c'è il caso che gli passi… * Non gli passò, a Ciro. E non poteva neanche passargli perché, per colpa di quello scherzo stupido, Ciro aveva bruciato tutti i suoi mobili e la storia di quel falò ridicolo e triste circolava in tutto il Comune. Non gli passò, a Ciro. E, quando a suo fratello nacque il secondo figlio, lo volle tenere lui a battesimo, come padrino. Appena se lo vide comparire davanti in chiesa, don Camillo gli domandò brusco: «Come mai hai il coraggio di presentarti qui?». «Reverendo, non trovate delle storie» rispose Ciro. «Adesso sono in regola: ho bruciato la tessera e faccio per conto mio.» Don Camillo scosse il capo: «Già: sei tornato cristiano per ripicco. Non per intima persuasione. Hai smesso di fare il brigante non per amor dell'onestà ma in odio al tuo capobanda. Se non ti avessero fatto lo scherzo della finta vincita, saresti ancora tra loro». Ciro degli Oppi si guardò attorno:
«Reverendo: se avessi voluto rimanere fra loro lo potevo fare benissimo». «Sì, dopo il magnifico scherzo di farti bruciare tutti i mobili e di renderti ridicolo fino al Polo Nord!» «I mobili li ho voluti bruciare io per avere un pretesto buono per togliermi dal partito senza storie e complicazioni. Lo sapevo benissimo che si trattava di uno scherzo. La sera prima avevo sentito tutto dal corridoio della sede. Anche il comunicato falso.» Don Camillo borbottò: «La cosa cambia…». «Comunque, reverendo, non occorre che voi lo diciate in giro. L'importante è che lo sappia quello là.» Il Cristo dell'aitar maggiore difatti lo sapeva e non si offese sentendosi chiamare «quello là». C'è fior di gente pia che bacia i gradini dell'altare e chiama Gesù «Nostro Signore Gesù Cristo», ma che, per amor di Gesù, non sacrificherebbe neanche un bottone. Ciro degli Oppi lo chiamava come lo chiamava ma, per amor di Gesù, aveva sacrificato anche il letto e dormiva per terra. E, pur dormendo per terra, faceva sonni dolci e tranquilli come se avesse vinto davvero un miliardo al totocalcio.
187 «IL NEMBO» Preso a sé, nudo e crudo, era un grosso ciclofurgone a pianale ampio, basso e senza sponde, con le ruote laterali assai più piccole della ruota motrice posteriore. Possedeva una solida ossatura di tubo d'acciaio pitturato di rosso scarlatto e poteva trasportare carichi notevoli: ma, nonostante tutte queste belle qualità, considerato in sé e per sé, non era che un ciclofurgone. Quando, invece, era completato dallo Smilzo, diventava «il Nembo». Tozzo, pesante, lento per sua natura, il ciclofurgone della Casa del Popolo, con lo Smilzo in sella, si trasformava in una creatura ardita, fremente, quasi saettante. Peppone, costruttore del triciclo, una volta terminata la sua opera, aveva spiegato ai compagni della Casa del Popolo: «Lasciate che la reazione rida se a causa della demoltiplica si pedala in fretta e si cammina adagio. L'importante è arrivare dove si vuole arrivare, qualunque sia il carico. «Il concetto della rivoluzione proletaria che perde in velocità ma acquista in potenza è quello che ho seguito nella costruzione del triciclo».
Il Bigio e poi il Brusco e il Lungo avevano collaudato il triciclo uniformandosi al concetto della rivoluzione proletaria lenta e potente, ma, venuto il suo turno, lo Smilzo era saltato in sella affermando: «Capo: la demoltiplica non farà ridere i reazionari!». I reazionari, infatti, non risero a causa della demoltiplica che rendeva lento il triciclone: risero per via del furore col quale lo Smilzo doveva pedalare per rendere veloce la marcia della ciclori-voluzione proletaria. La reazione rise e disse: «Passa il Nembo!». Rise perché non capiva che non si trattava d'una questione di gambe ma d'una questione di fede. * «Il Nembo è in ordine?» domandò sottovoce Peppone allo Smilzo. «A posto, capo» lo rassicurò lo Smilzo. Peppone si rivolse agli altri della banda e disse: «È già mezzanotte e mezzo: andate pure a casa. Io e lo Smilzo rimaniamo qui per finire la revisione dello schedario». Poco dopo alla Casa del Popolo rimanevano soltanto Peppone e lo Smilzo. Si gingillarono un bel po' attorno allo schedario poi Peppone venne al sodo:
«C'è un servizio delicato da fare e questa è la notte buona perché c'è nebbia e la terra è gelata». Lo Smilzo allargò le braccia e guardò perplesso Peppone. «Non ti preoccupare, capirai dopo» borbottò Peppone. «Adesso devi semplicemente rispondermi se ti senti di impegnarti per una missione delicata.» «Sono qui per questo.» Peppone si alzò avviandosi verso la porticina che dava nel cortile e lo Smilzo lo seguì. Traversato il cortile buio e silenzioso, si fermarono sotto la tettoia di lamiera ondulata che riparava il portone dell'autorimessa. Apersero cautamente e, una volta dentro lo stanzone dell'autorimessa, Peppone, assicuratosi che gli scuretti della finestra fossero chiusi, accese una lampadina tascabile. «Gira il Nembo in modo che sia pronto per uscire e accostalo alla porta» ordinò Peppone. La manovra non risultò difficile perché nel grande camerone, all'infuori del Nembo, non c'era nient'altro e, quando lo Smilzo ebbe piazzato il triciclone come voleva il capo, Peppone passò nella legnaia alla quale si accedeva dal garage, attraverso una porta di spessa lamiera. «Aiutami a togliere quelle fascine!» Lo Smilzo eseguì e, poco dopo, l'angolo che interessava Peppone era sgombro. O meglio: era sgombro di fascine rimanendo occupato soltanto da due grosse casse.
Peppone appressò l'occhio della lampadina alle casse e lo Smilzo ebbe un sussulto. Conosceva bene quel tipo di casse: roba militare, chiuse con robusti lucchetti e sigillate con bolli di ceralacca. «Aiutami a portarle di là!» Lo Smilzo agguantò una maniglia della prima cassa: «Accidenti come è pesante! Neanche fosse piena di piombo!» esclamò. «Chiudi il becco!» Portarono il cassone nella rimessa e lo caricarono sul Nembo. «Credi che si dovranno fare due viaggi o che si potrà fare un viaggio unico caricando tutt'e due le casse?» domandò Peppone. «Dipende dalla lunghezza del viaggio» rispose lo Smilzo. «Per portarle, le porta anche se fossero più pesanti.» «Il viaggio è lungo come da qui al cortile di casa mia» spiegò Peppone. «Però bisogna passare dalla Strada degli Orti e, arrivati alla Chiavica piccola, prendere la viottola.» Lo Smilzo sobbalzò: «La viottola? Capo, se entro nella viottola mi impantano e ci vuole un Caterpillar per cavarmi fuori». «Non dire stupidaggini! La terra è gelata, dura come la ghisa. E poi, se non ce la fai, fischi e vengo io.» «Se la terra è gelata, col Nembo arrivo fin sul Monte Bianco!» affermò lo Smilzo sicuro di sé. «Carichiamo anche l'altra merce.»
Quando anche l'altra cassa fu sistemata sull'ampio pianale del Nembo, Peppone mise una mano sulla spalla allo Smilzo: «Smilzo, sii sincero: ti senti?». «Capo: innesto la marcia ridotta e non mi ferma più nessuno.» «Smilzo, la faccenda non consiste semplicemente nel portare due casse da qui a casa mia. Si tratta di portarle senza che nessuno se ne accorga. Altrimenti non faremmo l'operazione a quest'ora!» «Ho ben capito. Tirerò via come un maledetto: ma se incoccio in qualcuno cosa posso fare? Non posso mica mettermi a volare!» Peppone diede le ultime direttive: «Io, adesso, vado a casa per la strada normale. Poi tra un'ora vengo ad aspettarti sulla carrareccia. Resta qui e, quando sentì suonare le due al campanile, partì». «Va bene, capo… Tanto per sapermi regolare nella marcia: c'è roba fragile? Roba che si possa rompere… Non so, roba che possa scoppiare?…» «C'è roba che deve arrivare a casa mia. Il resto non ti interessa. Metticela tutta: più presto ti togli dalla strada e meglio è per tutti.» Lo Smilzo si asciugò la fronte bagnata di sudore. «Capo, va bene. Però, prima di mettermi in viaggio, devo fare il pieno. Non vorrei rimanere a metà strada per mancanza di carburante.»
«Grappa?» borbottò Peppone. «No: ci vuole benzina super. Cognac.» Peppone si allontanò e tornò con una mezza bottiglia di cognac: «Vedi di non ingolfare il motore». * Lo Smilzo rimase solo e la bottiglia del cognac gli fu di grande compagnia. Quando sentì suonare le due, spalancò la porta della rimessa e il cancello che dava sul viottolo e, salito in sella al Nembo, ingoiò una gran sorsata di cognac e pigiò sui pedali. La nebbia era fitta ma lo Smilzo conosceva la strada a memoria e poi il cognac gli aveva schiarito in modo straordinario la vista. Finito il viottolo ecco la Strada degli Orti: il Nembo, carburato a cognac, procedeva a tutta birra e lo Smilzo pedalava a motore imballato come se, invece di due gambe, ne avesse sei come il Super-cortemaggiore. Ecco emergere fioca, in mezzo al nebbione, la luce del fanale della svolta. Dopo la svolta, altri cento metri e poi il Nembo sarebbe arrivato alla chiavica e avrebbe tagliato per la viottola.
Ed ecco la svolta: lo Smilzo ha fretta di togliersi il fastidio di quella maledetta lampada e, buttato giù l'ultimo sorso di cognac, abborda la curva a tutta manetta. Ma l'insidia è annidata proprio dietro la curva: due occhi rossi brillano nella nebbia. Due fanali. Due biciclette. Due ombre nere. Due carabinieri! «Altolà!» Il Nembo si arena contro un mucchio di ghiaia al margine della strada, e lo Smilzo schizza giù di sella, cade dentro il fosso, si rialza, salta la siepe e scompare in mezzo ai prati, ingoiato dalla nebbia. Intanto Peppone aspetta sulla viottola. Ma dovrà aspettare ancora più di un'ora prima di vedersi comparire davanti lo Smilzo. «E la roba?» domanda quando arriva lo Smilzo. «Capo: i carabinieri mi hanno bloccato alla svolta. E io, per non farmi beccare, ho tagliato la corda.» * «Altola!» Don Camillo – di ritorno dall'aver vegliato il vecchio Bedi – stava svoltando nella Strada degli Orti, quando si era visto comparire davanti il Nembo lanciato a tutto Smilzo e, temendo d'essere travolto, aveva urlato «Altolà».
Il satanasso misterioso s'era fermato e un uomo era schizzato via da dietro il veicolo scomparendo. Un uomo sbronzo patocco che vedeva doppio e aveva scambiato un prete per due carabinieri. Don Camillo, sceso dalla bicicletta, si appressò pieno di sospetto al veicolo e subito lo riconobbe. Non faticò a capire che l'uomo svanito nella nebbia non poteva essere che l'altro pezzo del Nembo. Alle due di notte lo Smilzo stava facendo un trasporto e proprio per la Strada degli Orti? E per chi? Pensò alla viottola che, partendo dalla chiavica, arrivava alle spalle della casa di Peppone. Poi, quand'ebbe visto le casse di tipo militare e ne ebbe saggiato il peso ed ebbe constatato che erano chiuse col lucchetto e sigilli, non dovette pensare più a niente perché aveva capito tutto. Caricò la bicicletta sopra le casse e, saltato in sella al Nembo, incominciò a pigiare sui pedali. La manovra non era facile, ma la luce che rompeva il buio della svolta lo aiutò. Riuscì a invertire la marcia e pedalò come una intera squadra di Smilzi. Non incontrò anima viva, lungo la strada, e venti minuti dopo era davanti alla porta della canonica. Spalancando completamente il grande portone dell'andito, il Nembo riusciva a entrare. Ed ecco il Nembo intrappolato con tutto il suo carico infernale.
Con un grosso scalpello don Camillo fece saltare rapidamente i chiavistelli delle due casse. Sollevò quasi con paura il primo coperchio. Poi sollevò con mano più ferma il secondo. Era un colpo grosso: una cosa così non se l'aspettava. * Alle quattro del mattino, don Camillo andava a tirar giù dal letto Barchini, il tipografo, e fattolo rivestire in fretta e furia, gli consegnava un foglio e gli ordinava di mettersi subito al lavoro. Alle sei, tre giovanotti si presentavano dal Barchini e ricevevano un rotolo di carte. Alle otto, quando la nebbia si diradò, la gente trovò affissi a tutte le cantonate dei manifesti che dicevano: RITROVAMENTO «Questa mattina sono state trovate due grosse casse contenenti alcune tonnellate dì copie invendute del giornale l'Unità. «Evidentemente sono state smarrite da qualcuno che non è riuscito a vendere dette copie e che, per non fare brutta figura di fronte ai superiori, ogni volta che ì giornali gli sono stati inviati li ha pagati di tasca sua. Poi, quando ha
visto che era arrivato il momento di disfarsi della merce che diventava sempre più ingombrante, ha approfittato della notte nebbiosa per portarseli a casa per vie traverse, sfruttando magari la viottola che svolta a sinistra poco prima della chiavica. Chiunque avesse smarrito, in un momento di distrazione, le dette tre o quattro tonnellate di copie dell'Unità, può ritirarle presso la Canonica». La gente, quel giorno, incominciò a sghignazzare alle otto e dalle otto e cinque alla mezzanotte, nell'andito della canonica, sfilarono tutti i peggiori reazionari della zona con l'intento di sincerarsi della reale consistenza del ritrovamento. Don Camillo aveva organizzato la manifestazione con molta coscienza. Fatto scomparire il Nembo, aveva tratto dalle casse i pacchi di giornali e li aveva allineati su una corsia distesa sul pavimento, in ordine cronologico, appendendo al muro cartelli che spiegavano come i vari pacchi fossero sempre di. maggior mole. Il che significava che giorno per giorno la vendita del giornale diminuiva. Ciò significava che don Camillo fissava con diagrammi l'esatta consistenza di detta diminuzione e formulava interessanti previsioni per l'avvenire. La mattina dopo, la gente uscì di casa all'alba perché era impaziente di conoscere la risposta dell'ignoto. E, difatti, trovò affissa alle cantonate la replica: AVVERTENZA
«Chiunque reazionario nazifascista può procurarsi giornali arretrati presso la relativa Amministrazione pagandoli il doppio, e quindi fingere che sono stati trovati. «È un sistema ingegnoso e comodo che costa parecchi quattrini. La quale però ce ne sono in abbondanza quando si è servi dei guerrafondai americani!». Il tipo si difendeva bene e la gente rimase un po' scossa: in fondo l'ignoto non diceva cose incredibili. Comunque attese fiduciosa gli eventi e ventiquattro ore dopo apparve il terzo cartello: RITROVAMENTO «Assieme alle casse contenenti le copie invendute dell'Unità è stato ritrovato il veicolo sul quale viaggiavano nella notte profonda e misteriosa le stesse casse. Dicono gli esperti in materia che si tratta di furgone a triciclo denominato "Nembo". Il veicolo è visibile in Canonica e chiunque lo avesse smarrito può venirlo a ritirare presentando, come riconoscimento, la tessera del PC intestata al nome del signor Giuseppe Bottazzi». Il colpo era formidabile e il paese si riversò sul sagrato: il Nembo era lì, davanti alla porta, e tutti potevano vederlo.
La gente non si stancava di rimirarsi lo spettacolo del Nembo e si riprometteva di passare lì almeno un'oretta in piacevoli commenti ma, a un tratto, accadde un fatto straordinario. Apparve lo Smilzo pedalando sul Nembo. Si fermò, tolse da un rotolo un manifesto e, con quattro pennellate di colla, lo appiccicò al muro della canonica. E la gente sbalordita lesse: AVVERTENZA «Il signor Giuseppe Bottazzi non è un signore e il cosidetto Nembo visibile in Canonica non è il Nembo. «La quale è tuttora in possesso della Casa del Popolo come qualsiasi cittadino lo può vedere coi suoi occhi e toccare con le sue mani dovunque gli pare. E così è facile giudicare chi sono i denigratori che rispondono putacaso al nome del Molto Reverendo don Camillo». La gente rimase allocchita; confrontò il Nembo di don Camillo col Nembo dello Smilzo: erano identici! Precisi spiccicati anche perché erano tutt'e due privi della prescritta targhettina di circolazione. Don Camillo allargò le braccia: «Non so come spiegare questo fatto straordinario: lo accetto così com'è senza discuterlo. La mia buona fede è palese. Vuol dire che, siccome la Casa del Popolo ci ha tenuto a
dimostrare che il furgone rinvenuto non è suo, lo terremo noi passandolo all'Asilo che ne ha tanto bisogno». * Don Camillo incontrò Peppone qualche giorno dopo: «Ti interessano i tuoi giornali?» gli domandò. «Li ho ancora.» «No» rispose Peppone. «Mi interesserebbe invece sapere perché quando avete messo fuori il primo manifesto non avete parlato del Nembo.» «Quando si entra in polemica bisogna sempre tenersi in serbo la cartuccia più forte.» «Sarebbe stato meglio se l'aveste sparata subito, se non sbaglio.» «Sbagli: se io l'avessi sparata subito, tu saresti stato costretto a riprenderti il Nembo. Invece così hai avuto quarantotto ore di tempo per fabbricarne uno uguale e l'Asilo ha avuto il furgone che gli faceva comodo. Sei sempre in gamba come fabbro!» Peppone sghignazzò: «Questa storia la potete raccontare al prete!». «Infatti gliel'ho raccontata e lui mi ha risposto: "Pensa, don Camillo, che figuraccia avrebbe fatto il povero Peppone se tu, prima di esporre il vero Nembo al pubblico, non avessi tolto la targhetta di circolazione con la matricola!".»
Don Camillo si frugò in tasca e consegnò a Peppone una targhettina metallica. «È roba tua: il mio Nembo l'ho targato io sotto il mio nome.» Peppone strinse i denti: «Dopo la mascalzonata che mi avete fatto e il danno che mi avete dato io vi dovrei anche ringraziare!». «Non occorre, Peppone. Io mi accontento del Nembo.»
188 IL COMPAGNO «PENÈLOPO» Don Camillo si trovò ad attraversare la piazza proprio mentre un gruppetto di «rossi» stava drizzando, davanti alla facciata della Casa del Popolo, una grande plancia e, allora, si fermò un momentino per vedere di che cosa si trattasse. Niente di straordinario: Cittadini! Domenica alle ore 15 tutti in piazza. Il compagno «Penèlopo» parlerà sul tema: «Difendere la Costituzione!». Chi ama la libertà non può mancare! «Farebbe bene a venire anche lei, reverendo» disse una voce alle spalle di don Camillo. «E come potrei, signor sindaco?» rispose don Camillo volgendosi. «Io non amo quel tipo di libertà di cui parlate voi.» «Già» borbottò Peppone. «Mi dispiace.»
«Dispiace di più a me, signor sindaco: perché uno che si chiama Penèlopo deve essere un tipo molto interessante da ascoltare.» «Certamente sarebbe stato ancora più interessante per lei se, invece di chiamarsi Penèlopo, si fosse chiamato De Gasperi. Comunque io farò presente all'oratore che il suo nome non piace all'arciprete del paese.» «Non si scomodi, signor sindaco: uno può chiamarsi Penèlopo ed essere un oratore formidabile, mentre un altro può chiamarsi Giuseppe Bottazzi ed essere un disgraziato qualsiasi. Il nome in sé non conta. L'ho notato perché non sapevo che ci fossero dei Penèlopi in paese.» Peppone scosse il capo: «Non è uno del paese. È un grande oratore di città. Penèlopo è il suo nome di battaglia». «Capisco» borbottò don Camillo. «E il suo vero nome qual è?» «Non lo so» confessò Peppone «né mi interessa saperlo. Il nome di battaglia è quello che conta perché non ce l'ha regalato il prete ma ce lo siamo guadagnati noi con il nostro sacrificio di combattenti clandestini.» Don Camillo allargò le braccia: «Qui però la clandestinità è finita e sarebbe bene che tutti si presentassero col loro vero nome e cognome». «Sta bene, reverendo: appena Penèlopo arriva, gli faccio riempire la schedina e poi la mando in canonica.»
«Non occorre, compagno sindaco: a me personalmente non interessa. La schedina la porti dal maresciallo dei carabinieri: c'è il caso che a lui interessi…» Lanciata la sua stoccata, don Camillo si avviò per i fatti suoi e pareva che non dovesse mai più interessarsi di Penèlopo e che se ne fosse occupato soltanto come pretesto per dar noia un po' a Peppone: invece non era così. Infatti, appena arrivato in canonica, mandò a chiamare i suoi più fidi e disse: «Lavorate Peppone e quelli della Casa del Popolo e cercate di sapere chi sia questo Penèlopo». La sera gli uomini della missione vennero in canonica a riferire: «Non lo sa nessuno. Lo conoscono tutti di fama perché è il capo del reparto propaganda ma non hanno mai avuto occasione di parlare con lui. Deve però essere uno molto preparato e molto in gamba. La banda è eccitatissima perché prevede che nessuno potrà beccarlo». Don Camillo allargò le braccia: «La battaglia è importante e c'era da aspettarsi che quei dannati avrebbero tirato fuori a un bel momento i grossi calibri». «Bisognerebbe che anche noi facessimo arrivare qualche pezzo grosso dalla città» osservarono preoccupati gli uomini di don Camillo. «Domani faccio io una scappata in città per vedere come si può rimediare» li rassicurò don Camillo.
Il giorno dopo, difatti, don Camillo andò a ciabattare in su e in giù per la città e tornò molto soddisfatto. «Non datevi pensiero» spiegò ai suoi fidi. «Il compagno Penèlopo non è quel fenomeno che credono Peppone e soci. Temevo che fosse un altro, invece è proprio quello che pensavo io: l'ho sentito parlare poco tempo fa in città. Come oratore non vale una cicca. Dobbiamo ringraziare il cielo che mandino lui invece di un altro. Argomento chiuso, non se ne parli più.» Il compagno Penèlopo fu dimenticato e così venne la domenica e, durante la Messa delle undici, don Camillo pronunciò il consueto sermone. «Fratelli» disse don Camillo «ogni giorno, ogni istante, noi sentiamo la gente esclamare piena di cruccio: "Oh, che triste e spietato mondo è mai diventato questo granello di sabbia sul quale noi viviamo!". E, in verità, ogni mattina i giornali vi raccontano fatti sempre più sconfortanti. Odio, sete di vendetta, invidia, egoismo, brutalità, ingratitudine, immoralità, disonestà: questi sembrano gli eterni temi delle cronache quotidiane. «E il mondo pare diventato una foresta buia e selvaggia popolata solo di belve avide di sangue. E pare che l'unica legge viva sia quella della giungla e che la carità cristiana sia morta. «Ma, grazie al cielo, non è così e la pietà, la bontà, sono ancora vive nel cuore degli uomini. E se, su mille fatti che i giornali ci raccontano, novecentonovanta sono cronache del-
la cattiveria e solo dieci della bontà, i novecentonovanta non ci facciano disperare dei dieci, ma i dieci ci facciano dimenticare i novecentonovanta e ci diano speranza per un avvenire di pace e di bontà. «Ecco fratelli, in questo giornaletto, qualcosa di veramente confortante. Ecco qui una storia che pare un romanzo e invece è vera. Una storia cruda e aspra ma che ha un finale dolcissimo, quasi soave.» Don Camillo trasse di tasca un giornale che dispiegò incominciando a leggere. * Roba vecchia: una faccenda incominciata nel 1922, quando nella Bassa faceva caldo parecchio. Le cooperative socialiste funzionavano ancora a tutta birra ed erano la vera forza dei «rossi» d'allora: e, si capisce, davano un fastidio maledetto agli altri, quelli con la camicia nera. Quindi, quando la carburazione fu arrivata al punto giusto, i fascisti di città incominciarono a fare delle puntatine verso la Bassa, avendo come obiettivo le cooperative socialiste, e così la musica diventò sempre più mossa sino ad arrivare all'orrendo fuoco di quella pira e alla distruzione totale delle organizzazioni rosse.
Accadde dunque che, durante una delle puntatine d'assaggio in una cooperativa socialista d'un certo borgo, i guastatori di città trovassero il locale dello spaccio vini e commestibili presidiato da pochi ma decisi giovanotti. E uno di questi giovanotti era un pezzaccio di cristiano con due braccia che parevano tronchi di rovere e certe manacce che spedivano sventole da due tonnellate ciascuna. E questo giovinastro, catturato il più bullo dei guastatori cittadini, lo trattenne mentre gli altri ripartivano ammaccati in camion, riservandosi di spedirlo per espresso alla sua sede naturale. Indi gli dava il "via libera" avendo cura di accompagnarlo per sei chilometri a pedate nel sedere, per metterlo sulla strada giusta. Quando nell'agosto del 1922 arrivò la spedizione definitiva dalla città, fra i liquidatori delle cooperative rosse c'era, si capisce, il tipo che aveva preso sei chilometri di pedate e cercò affannosamente il giovanottaccio famoso per restituirgli con gli interessi tutto quel ben di Dio. Non lo trovò. Però non lo dimenticò e, un anno e mezzo dopo, incontratosi in città col giovanottaccio venuto su dal paese per comprare roba, lo riconobbe. Allora organizzò le cose in modo che il giovanottaccio si trovasse, a un bel momento, in un vicoletto discreto e riservato, chiuso alle due estremità da giovanotti robusti e con le mani occupate da grossi bastoni. Il giovanottaccio ricevette tante pedate da poter agevolmente percorrere non sei, ma sessanta chilometri senza scalo.
E quando gli parve che il trattamento fosse terminato, il giovanottaccio borbottò: «Posso andare?». «Puoi andare» rispose il bullo. «Però cerca di non capitarmi più tra i piedi.» Il giovanottaccio tornò al suo paese e aspettò circa un anno prima di arrivare ancora in città. Ma, evidentemente, al paese c'era qualcuno in contatto col bullo di città: comunque – telefono, telegrafo, oppure caso – il fatto è che, quando il giovanottaccio giunto in città uscì dalla stazione del tram, si trovò faccia a faccia col bullo. Il bullo lo squadrò sorridendo compiaciuto. «Hai una bella giacca» gli disse. «Mi piace molto. Se permetti mi prendo un campioncino.» E, afferratagli una bavarese della giacca, tirò giù fino in fondo. Il giovanottaccio, vedendosi devastare così barbaramente la giacca nuova, strinse i denti ma non si mosse: non gli conveniva muoversi. Adesso le cose erano cambiate e, per di più, sapeva nome e cognome del bullo. Era un pezzo grosso: meglio lasciar perdere. Se ne andò col risvolto della giacca penzoloni e ci vollero altri sei mesi prima che il magone gli passasse. Ritornando la terza volta in città fece tutto il possibile per non dar nell'occhio e cercò i vicoletti meno battuti. Ma proprio in uno di questi vicoletti incontrò il bullo.
«Hai una bella giacca» gli disse il bullo. «Mi piace molto. Se permetti mi prendo un campioncino.» Agguantò un risvolto della giacca e tirò giù come l'altra volta. Per il giovanottaccio fu come se gli avessero stracciato un pezzo di carne dal petto: ma il Padreterno lo aiutò e non gli fece perdere la calma. Se si fosse ribellato, l'altro lo avrebbe fulminato di sicuro. Gli vennero le lacrime agli occhi: «Senti» disse. «Io non t'ho mai cercato: tu sei venuto al mio paese per riempirmi di legnate e io mi sono difeso. I calci che ti ho dato me li hai restituiti cento volte tanto. Adesso lasciami vivere, sono un disgraziato che lavora.» «Ti lascio vivere fin che non mi capiti fra i piedi» rispose l'altro. «Ricordati bene che, campassi mille anni, tutte le volte che t'incontro ti faccio il servizio del campioncino.» Al paese doveva esserci davvero un maledetto che ce l'aveva a morte col giovanottaccio e lo teneva d'occhio; andasse in tram, o in bicicletta, o in biroccio o in motocicletta, tutte le volte che il giovanottaccio arrivava in città incontrava il bullo e ci rimetteva una giacca. Passarono gli anni e il giovanottaccio diventò un omaccio, ma quando andava in città non riusciva mai a sfuggire al suo triste destino. La cosa durò per un sacco di tempo e quando il bullo, che aveva incarichi importanti nel partito, fu trasferito in al-
tra città, l'omaccio parve rinascere e fece accendere un grosso cero davanti alla Madonna. Ma era destino che la cosa non finisse lì e così accadde che, nel '40, trovandosi l'omaccio in città per compere, incrociasse con un corteo: erano i giorni delle dimostrazioni di fede nella vittoria ma l'omaccio pensava soltanto ai suoi figli e alla guerra. Si ritrasse in una viuzza per lasciar passare il corteo e stava lì zitto zitto e buono buono, quando gli arrivò sulla zucca una sberla che gli mandò il cappello lontano dieci metri. «Giù il cappello quando passano le bandiere e i gagliardetti!» esclamò una voce aspra. L'omaccio si volse e si trovò faccia a faccia col bullo famoso. «Ah!» esclamò il bullo «sei invecchiato, ma non sei cambiato! Sempre il solito disfattista sovversivo!» Poi gli agguantò un risvolto della giacca e tirò giù, fino in fondo, come le altre volte. La guerra andò come andò. E, quando finì, l'omaccio che aveva combattuto in montagna diventò il capo dei comunisti del suo paese. E poi diventò anche sindaco e così passarono altri anni. L'omaccio aveva avuto un sacco di soddisfazioni, ma gli era rimasto nel gozzo quel maledetto che lo aveva così ferocemente perseguitato. Ed ecco che un giorno il bullo perverso gli capitò davanti.
* Don Camillo interruppe la lettura e disse: «Fratelli, voi comprendete: l'affronto era stato gravissimo e chiunque, al posto dell'omaccio, trovandosi davanti il suo spietato persecutore, avrebbe avuto, almeno almeno, uno scatto d'impazienza. «Ma egli non batté ciglio: egli sorrise, fratelli! Sorrise e, rivoltosi ai compagni di fede radunati in piazza, disse: "Compagni, ho l'onore di presentarvi l'oratore inviatoci dalla federazione, 'Penèlopo', ovvero: il compagno Davide Lagnòlo!". «Disse così e, sorridendo, gli strinse la mano… Sì, fratelli; dimentichiamo un istante la politica per ricordare l'uomo e il suo gesto generoso, quasi soave. E siamo orgogliosi di avere nel nostro sindaco, Giuseppe Bottazzi, l'uomo più buono del mondo. E non manchiamo di segnalarlo alla commissione per il Premio della Bontà!». * Fuori dalla chiesa la gente trovò dei giovanotti che stavano vendendo il numero unico di cui don Camillo aveva parlato durante il suo sermone. E sul numero unico trovarono, oltre al racconto intitolato «Soave bontà del compagno
Peppone», una grande fotografia del compagno Penèlopo in divisa di camerata Davide Lagnòlo. Quella domenica ci fu gente che non mangiò neanche pur di accaparrarsi un buon posto in piazza. Gente era a tutte le finestre e gente era perfino sui tetti. Tutti volevano vedere «quello che sarebbe successo alle tre». Avrebbero rimandato il comizio? Avrebbero fatto sostituire all'ultimo momento il compagno Penèlopo? Alle tre in punto, Peppone salì sulla tribuna e si appressò al microfono. La piazza diventò muta. Peppone gonfiò il petto: «Compagni» disse «ho l'onore di presentarvi l'oratore inviato dalla Federazione: Penèlopo. Ovvero: il compagno Davide Lagnòlo!». Strinse la mano sorridendo al compagno Lagnòlo e poi applaudì imitato da tutti i «rossi» adunati in piazza. Finito il discorso, lo stato maggiore dei «rossi» festeggiò con un rinfresco il compagno Penèlopo alla Casa del Popolo. Poi Peppone si appartò nel suo studio col compagno Penèlopo. «Compagno» disse Peppone porgendogli una copia del numero unico. «Leggi, per favore.» Il compagno Penèlopo lesse il racconto con molta attenzione poi restituì il giornaletto a Peppone:
«Compagno, tu forse credi alle favole della stampa reazionaria e clericale?». «No» rispose Peppone. «Però il fatto che tu mi strappavi il bavero della giacca ogni volta che m'incontravi è vero. Anche la sberla del 1940 è vera.» Il compagno Penèlopo scosse il capo: «No, compagno, niente è vero. Se fosse vero non sarebbe stampato su un foglio della reazione clerico-fascista. Tutto ciò che pubblica la stampa clerico-fascista è falso». Il ragionamento era rigidamente logico e Peppone rimase perplesso. «Compagno» affermò severamente Penèlopo. «Il nostro passato non ci appartiene: appartiene al Partito e solo il Partito può disporne.» «Le nostre giacche, però, appartengono a noi» replicò deciso Peppone. E, agguantato un risvolto della giacca di Penèlopo, tirò giù fino in fondo e il brandello di panno gli rimase in mano. Il compagno Penèlopo non disse bai: si infilò il soprabito e lo abbottonò fino al collo. «Compagno, hai bisogno che ti insegni la strada per tornare in città?» si informò a denti stretti Peppone. «No, compagno, me l'hai già insegnata una volta. Io ho buona memoria.» *
Don Camillo stava scaldandosi davanti al caminetto del tinello, quando udì qualcuno bussare ai cristalli della finestra. Si alzò e andò ad aprire. Era Peppone che, senza una parola, mise dentro una mano e mostrò il bavero della giacca del compagno Penèlopo. Don Camillo allargò le braccia ed esclamò volgendo gli occhi al cielo: «Compagno Peppone, prega Dio che non vincano i comunisti: il compagno Penèlopo non ti perdonerà mai il suo passato. Egli farà impiccare me ma, subito dopo, farà impiccare anche te». «L'importante è che io riesca a vedervi impiccato!» borbottò Peppone ritraendo la mano e facendo scomparire sotto il tabarro la bavarese del compagno Penèlopo.
189 SCIOPERO DELLA FAME La madre dello Smilzo aveva le gambe paralizzate ma il cervello no e, pur se da cinque o sei anni non si muoveva di casa e passava i suoi giorni inchiodata su un seggiolone e tagliata fuori dal mondo, sapeva tutto. Presente la vecchia, lo Smilzo e sua moglie evitavano di parlar di politica: però la vecchia aveva l'orecchio fine e sentiva anche le parole taciute. Così lo Smilzo e sua moglie s'erano illusi di poter tranquillamente tirare avanti senza guai: ma, quando allo Smilzo nacque il figlio, la vecchia lasciò passare un paio di giorni e poi disse: «Adesso è ora di battezzarlo». Lo Smilzo non si aspettava il colpo e rimase lì come un merlo, ma la moglie gli venne in aiuto: «Non c'è premura: lasciate che passi almeno questo freddo maledetto. Poi se ne riparlerà». La vecchia non insistè, ma, due giorni dopo, ritornò alla carica: «Ebbene, lo si battezza o non lo si battezza?». E siccome più i giorni passavano e più la vecchia si faceva insistente sulla necessità di battezzare il bambino, una
bella volta lo Smilzo prese il coraggio a due mani e vuotò il sacco: «Basta, per piacere, con questa storia del battesimo. Adesso i tempi sono cambiati e sono successe cose che non sapete». La vecchia scosse il capo: «Dal giorno in cui Gesù Cristo ha inventato il Battesimo i tempi sono cambiati centomila volte e sono successe le cose più straordinarie: però i bambini li hanno sempre battezzati appena venuti al mondo». Lo Smilzo farfugliò di politica e di scomunica ma la vecchia aveva le idee chiare: «I bambini appena nati non fanno della politica, quindi non possono essere scomunicati. E allora bisogna battezzarli». Lo Smilzo insistette nel dire che la vecchia non poteva capire, ma la vecchia scosse il capo: «Capisco benissimo; tuo padre era un disgraziato peggio di te e aveva la testa piena di stupidaggini politiche: però, quando sei nato tu, sei stato battezzato». «Altri tempi!» esclamò la moglie dello Smilzo. «Altre mogli!» replicò duramente la vecchia. La moglie dello Smilzo si ribellò: «Altre mogli? E perché? Cosa potete dire contro di me?». «Che sei una stupida» spiegò la vecchia.
«E allora» gridò la moglie dello Smilzo «sappiate che mio figlio non lo battezzerò. Quando sarà grande, se mio figlio sentirà il bisogno di battezzarsi, si farà battezzare!» La vecchia guardò lo Smilzo. «È un sopruso che noi facciamo ai figli, battezzandoli quando loro non capiscono niente» borbottò lo Smilzo. «Bene» concluse la vecchia. «Da questo momento io non mangerò più. Ricomincerò a mangiare quando il bambino sarà battezzato.» La nuora sghignazzò: «Se è così starete senza mangiare parecchi anni!». Lo Smilzo non disse niente. Si limitò a pestare un pugno sulla tavola e a uscire di casa. La mattina dopo la vecchia non toccò il latte e, a mezzogiorno, rimase immobile e silenziosa sul suo seggiolone a guardar gli altri che mangiavano. La sera fu la stessa faccenda e lo Smilzo perdette la pazienza: «Dovete smetterla di fare i capricci!» urlò. «Mangiate e non rovinatemi l'anima!» «Quando avrà fame mangerà!» lo tranquillizzò la moglie. Ma anche il secondo giorno la vecchia non aprì bocca né per mangiare né per parlare e, allora, anche la nuora incominciò ad aver paura. «Bisogna chiamare il dottore!» esclamò. «Spiegare come stanno le cose! Farla ricoverare! Altrimenti, se muore, la gente dirà che l'abbiamo fatta crepare di fame noi! Lo vedi
com'è vigliacca? Lo vedi? Ci vuol coprire d'infamia. Vuol rovinarci!» La vecchia allora parlò: «Dammi un pezzo di carta e una penna e io scriverò che muoio perché voglio morire io. Io non cerco di rovinare voi: cerco di salvare mio nipote». La nuora ebbe una crisi e si mise a singhiozzare urlando: «Ce l' ha con me! Mi odia! Mi farà andare indietro il latte!…». «Poco male» replicò la vecchia. «Latte di vipera non dà sostanza.» Lo Smilzo scappò via per la disperazione. Ma avrebbe potuto benissimo rimanere lì perché la vecchia non parlò più. Il terzo giorno non volle che la tirassero su dal letto: «Preferisco morire coricata» spiegò. «Vorrei che mi chiamaste il prete.» «No!» urlò furibonda la nuora. «No!» «Non fa niente» sospirò la vecchia. «Dio mi ascolterà ugualmente.» «Morirete maledetta!» urlò ancora la nuora. «Questo è un suicidio. Siete voi che vi ammazzate rifiutandovi di mangiare.» «No» rispose serenamente la vecchia. «Siete voi che mi impedite di mangiare non facendo battezzare il bambino.» La vecchia chiuse gli occhi e si assopì e la moglie dello Smilzo si ritirò atterrita.
Lo Smilzo aveva sentito tutto perché era rimasto a origliare alla porta: «Bisogna decidere qualcosa e subito!» affermò. «Vorresti dare quella soddisfazione ai preti?» ansimò la moglie. «Loro ti cacciano via a pedate e tu gli porti il figlio da battezzare? E dopo tutto quello che hai proclamato in giro?» «Calmati» rispose lo Smilzo. «Qui si tratta di salvare capra e cavoli. Ragioniamo un momentino.» * Peppone stava lavorando in officina quando arrivò lo Smilzo tutto trafelato: «Capo, devi aiutarmi. Sono nei guai fino agli occhi». Lo Smilzo raccontò l'angosciosa storia e concluse: «Capo: io non posso venir meno ai miei princìpi, ma non posso neanche lasciar morire mia mamma. Io adesso mi procuro un porte-enfant coi pizzi e i veli, tu ti metti in ghingheri poi, con la macchina, vieni con me a casa. Addobbiamo per il battesimo il marmocchio, lo mostriamo alla vecchia e tu ti presenti come padrino. Partiamo, arriviamo alla Casa del Popolo, ci infiliamo dentro attraverso il cancello del cortile, ci beviamo una bottiglia di vino. Poi riportiamo il marmocchio alla vecchia e le diciamo: "Eccolo battezzato come volevate". La
vecchia ricomincia a mangiare e io sono a posto con la coscienza e con l'idea». «Capisco» borbottò Peppone. «E dopo? E se lo viene a sapere?» «Non lo verrà a sapere. Comunque l'importante è che adesso ricominci a mangiare!» Peppone allargò le braccia e, mentre lo Smilzo partiva alla ricerca dell'addobbo per il bambino, andò a mettersi in ghingheri. Mezz'ora dopo erano a casa dello Smilzo. Casa isolata, giornata nebbiosa: meglio non poteva essere. La moglie dello Smilzo corse a svegliare la vecchia: «Se veramente non volete rovinarci, tiratevi su un momentino! È arrivato in macchina il padrino del bambino!». La vecchia spalancò gli occhi: «Il padrino?». «Sì: è il sindaco in persona che ci fa l'onore di tenere il bambino al battesimo. Vuole salutarvi.» Si udirono delle voci al pianterreno e la vecchia, aiutata dalla nuora, si tirò a sedere nel letto. Volle lo scialle per coprirsi le spalle. «E il bambino?» sussurrò. «Lo stanno preparando.» «Figura bene?» «Lo vedrete!…» Bussarono alla porta ed entrò lo Smilzo che reggeva sulle braccia il bambino infilato dentro il più favoloso porte-enfant dell'universo.
Dietro quel trionfo di veli bianchi nereggiava alto e massiccio Peppone in gran tenuta: ma la vecchia non aveva occhi che per il bambino. «Com'è bello!» singhiozzò levando le mani scarnite come davanti a una miracolosa apparizione. Anche la madre del marmocchio era rimasta sbalordita vedendo il bambino in quella edizione di gran lusso. E subito tolse il fagotto dalle braccia dello Smilzo per rimettere a posto i pizzi, per distendere le pieghe, per raddrizzare la cuffietta sulla testolina rosa del pupo. «Come va?» domandò Peppone. La vecchia distolse gli occhi dal fagottino scintillante e guardò Peppone. «Quale onore, signor sindaco, che abbiate voluto fargli da padrino!…» esclamò commossa la vecchia afferrando con le mani scarne una zampa di Peppone. «Dio vi benedica… So che è merito vostro se mio figlio ha messo giudizio… Non parliamone: acqua passata.» Peppone cercò di liberare la zampa, ma le dita della vecchia parevano diventate di acciaio. «Non dite così!» rispose. «Vostro figlio non ha bisogno di consigli. È un bravo ragazzo. E l'onore di far da padrino a suo figlio è tutto mio… Piuttosto: come state?» «Benissimo!» rispose la vecchia. «Oramai è passata. Un po' d'influenza. L'hanno avuta tutti quest'anno!» «State riguardata» consigliò autorevolmente Peppone. E, dopo questo immane sforzo, non seppe più cosa dire.
Intervenne lo Smilzo: «Bisogna sbrigarsi: il prete aspetta!». La vecchia volle vedere ancora il bambino e, con un dito, gli toccò leggermente la fronte. «Sorride!» esclamò Peppone. «Vi conosce già!» Il bambino con una manina agguantò il dito ossuto della nonna e ci volle del bello e del buono per fargli mollare la presa: «Lo so» sospirò la vecchia «vorrebbe che venissi anch'io… Ma come faccio così piena di guai?… Però sentirò i botti della campana… Sarà come se io fossi là». «Sarà difficile sentire i botti della campana» borbottò la nuora. «C'è una nebbia da tagliare col coltello.» «Ho l'orecchio fine e aprirò la finestra» rispose sorridendo la vecchia. * Nella sala dello spaccio-vini della Casa del Popolo c'era soltanto il Bigio che faceva dei conti. Vedendo entrare Peppone seguito dallo Smilzo col fagotto scintillante di seterie, spalancò gli occhi. «Tira giù la saracinesca» ordinò Peppone mettendosi a sedere a un tavolo «e porta una bottiglia di bianco secco!» Chiusa la saracinesca, il Bigio stappò una bottiglia di vino bianco e la portò in tavola con tre bicchieri.
«E tu?» domandò lo Smilzo. «Non bevi?» «Sì: siamo in tre e i bicchieri sono tre.» «E quello lì, dove lo metti?» ridacchiò lo Smilzo indicando il fagotto che aveva posato sulla tavola. Il Bigio scosse il capo: «Non capisco un accidente» borbottò. «Battesimo proletario!» spiegò lo Smilzo levando il bicchiere pieno. «Alla salute del nuovo compagno!» Il Bigio e Peppone levarono il bicchiere. Bevvero fino all'ultima goccia. Poi, mentre sottovoce Peppone metteva al corrente il Bigio, lo Smilzo, bagnata la punta dell'indice nel vino, l'appressò alla bocca del bambino. «Guarda come succhia!» ridacchiò. «Guarda come gli piace il vino! Questo si capisce subito che sarà un tipo in gamba.» Gli altri non risposero e lo Smilzo si vuotò un secondo bicchiere che tracannò d'un fiato. Tacque per qualche istante assorto in qualche lontano pensiero poi disse: «I botti! Vuole sentire anche i botti della campana!». In quell'istante si udì scampanare e tutt'e tre trasalirono come se fosse accaduto qualcosa di magico. «Ah, già» esclamò alla fine il Bigio. «Oggi dovevano battezzare il bambino del farmacista.» Lo Smilzo diede un urlo di gioia:
«Voleva i botti? Ecco i botti! Poteva andare meglio di così?». Il fagotto si agitò e Peppone, avvicinatosi, toccò con l'enorme dito la fronte rosea e calda del pupo. E subito una manina piccola piccola agguantò il ditone e vi si aggrappò. Peppone pensò che la stessa manina, poco prima, aveva agguantato il dito ossuto della vecchia. E sentì la mano stretta fra le mani fredde della vecchia. E la manina calda non mollava il grosso dito di Peppone. Lo Smilzo buttò giù un terzo bicchiere di vino. «Adesso possiamo tornare a casa» disse posando con violenza sul tavolo il bicchiere vuoto. Peppone e il Bigio non si mossero. «Possiamo tirare giù il sipario!» ridacchiò lo Smilzo. «La commedia è finita e io sono un porco!» Peppone e il Bigio non avevano mai sentito un'autocritica così franca e circostanziata e rimasero favorevolmente impressionati. «Bigio, fila e vediamo di far presto!» ordinò Peppone. Il Bigio partì. * «Che roba sarebbe?» si informò don Camillo appressandosi al fonte battesimale.
Lo Smilzo allargò il cespo di pizzi che emergevano dal fagotto recato a braccia da Peppone e disse con voce fiera: «Mio figlio!». «Disgraziato» sospirò don Camillo, scostando col dito un pizzo che nascondeva il mento del marmocchietto. «Non potevi sceglierti un padre migliore?» Il marmocchietto, oramai, si era specializzato e, avvistato il ditone di don Camillo, lo agguantò al volo e vi si aggrappò disperatamente. «Screanzato!» esclamò duramente don Camillo. «Già da adesso cominci ad arraffare la roba d'altri?» Lo Smilzo voleva dir qualcosa ma don Camillo gli saltò sulla voce: «Silenzio! Come sapete, chiunque sia convinto militante comunista non può fungere da padrino nei battesimi. Lei è convinto militante comunista?». «Nossignore» rispose Peppone. «Dio sa se lei è sincero oppure no e ne terrà conto nel giudizio finale.» Terminato il rito, mentre Peppone correva a infilarsi nella macchina che, guardata dal Bigio, attendeva davanti alla chiesa, lo Smilzo si appressò a don Camillo: «Quanto debbo per il disturbo?». «Niente: pagherai poi tutto in una volta quando ti presenterai al Padreterno.» Lo Smilzo lo guardò con aria di sfida: «Al prossimo figlio, però, non mi fregate, reverendo!».
Don Camillo allargò le braccia: «L'avvenire è nelle mani di Dio, figliolo! Però fila alla svelta perché il presente potrebbe essere nei miei piedi». Era un'ipotesi come un'altra, però era avvalorata dal fatto che lo Smilzo conosceva l'esatta consistenza dei piedi di don Camillo, e così lo Smilzo la tenne in seria considerazione.
190 LA COSCIENZA Le donne, quando si buttano in politica, sono sempre peggiori degli attivisti più frenetici. Questo perché, mentre spesso i frenetici della politica combinano le loro soperchierie per il bene della causa, le donne frenetiche combinano le stesse soperchierie esclusivamente per fare del male agli avversari politici. La differenza, insomma, che ci può essere fra chi va in guerra per difendere la patria e chi ci va per ammazzare il nemico. La Jo' del Magro era una donna impegolata fino agli occhi dentro la politica, e siccome aveva del temperamento, riusciva agevolmente a fare non solo la sua parte ma anche quella del marito. Il Magro era morto di malattia lasciandola sola con un bambino di tre anni appena: ma il dolore procuratole dalla perdita del marito doveva essere stato ampiamente compensato dal fatto che la Jo' aveva potuto tirare un colpo mancino al prete portando il morto al cimitero con funerale civile, al suono di Bandiera rossa. La Jo' era piuttosto una bella donna e non arrivava ai trent'anni: avrebbe potuto trovarsi un altro marito e campare meglio. Ma non avrebbe mai rinunciato al suo disagio: senti-
va che il disagio le andava in tanto veleno, e l'odio per gli avversari cresceva di giorno in giorno e la sosteneva perché l'odio era la sua fede. Si arrangiava come poteva: mietitura, trebbiatura, pigiatura, spannocchiatura, eccetera. E nella morta stagione fabbricava ceste e cestelli di vimini che poi andava in giro a vendere. Lavorava con ferocia, quasi ritraesse il maggior piacere dalla fatica in sé. E anche gli uomini più impertinenti badavano a non stuzzicarla perché la Jo', oltre a essere lesta di mano, era capace di infilare dei rosari di parolacce da far rimanere senza fiato i più celebrati campioni di turpiloquio. Il ragazzino veniva su come un puledro allo stato brado e, quando non rimaneva solo nella casipola sperduta in mezzo ai campi e seguiva la madre, era come fosse solo perché, appena la Jo' lo scaricava in qualche aia, l'unico compito che gli veniva assegnato era quello di «non rompere le scatole» alla madre. A cinque anni, il figlio della Jo' era in grado di tirare sassate come un ragazzo di dieci e di rovinare in meno di mezz'ora un albero carico di frutta. Girava come un cane da trifola a stanare in mezzo alle siepi i nidi delle galline per prendersi il gusto di spaccare le uova, seminava cocci di vetro per le strade e mercanzia del genere: però possedeva uno stile in quanto le sue azioni erano di carattere strettamente personale. Il Magrino detestava le gazzarre collettive.
Partecipava alle sassaiole, ma da franco tiratore: si appostava dietro un cespuglio o dentro una buca e sparava sassate contro gli uni e gli altri. Agiva da solo contro l'intera società: agiva da guastatore, da sabotatore isolato. Possedeva un'abilità straordinaria nel curare il colpo e nello scomparire dopo aver compiuta l'impresa. Era piccolo, magro e svelto come una lepre; riusciva a infilarsi dovunque voleva: aveva dei tratti geniali, nella sua malvagità, e, la sera dell'ultima sagra, intrufolatosi nel deposito di biciclette annesso alla balera, pianino pianino era riuscito a sgonfiare i pneumatici di oltre cinquanta bicicli, avendo cura di buttar via i coperchietti delle valvole. Non lo scopersero e nessuno lo vide, ma tutti dissero: «Non può essere stato che quello stramaledetto del Magrino!». Alcune brave signore, un giorno, andarono a far visita alla Jo' e, con bella maniera, le spiegarono che sarebbe stata una buona cosa non lasciare in giro il ragazzino ma affidarlo durante il giorno all'Asilo. La Jo' era diventata rossa e si era messa a urlare che, piuttosto di affidare suo figlio a un asilo di preti, l'avrebbe dato in consegna a certe donne che sapeva lei. «Dite a don Scarpaccia che si occupi delle sporche faccende sue!» concluse la Jo' sparando una raffica di parolacce che fece allontanare di corsa le buone signore.
La commissione riferì con indignazione a don Camillo il risultato della spedizione: «E non vi dico neanche come vi ha chiamato quella sciagurata!» esclamò una delle signore levando le mani al cielo. «Lo so già» rispose cupo don Camillo. * Il tempo s'era messo al bello e, da una settimana, i bambini dell'Asilo di don Camillo passavano le ore più calde del pomeriggio all'aperto, nel campo dei giochi. La giostra e l'altalena erano stati rimessi in funzione e anche i bambini più musoni avevano ritrovato il loro sorriso. Don Camillo, allungato sulla sdraio, fumava il suo mezzo toscano e si godeva il sole tranquillamente, quando, a un tratto, ebbe la sensazione che qualcosa non funzionava regolarmente. Il campo dei giochi, dalla parte verso l'argine, dava su un grande prato d'erba medica e un'alta siepe di rete metallica stava fra il campo e il prato. Era perciò regolare il fatto che don Camillo vedesse perfettamente la grande distesa d'erba medica oltre la rete di filo zincato; ma non era regolare che l'erba medica, ogni tanto, ondeggiasse in un certo punto.
Evidentemente qualcosa di vivo era annidato in mezzo all'erba e l'istinto del cacciatore diceva a don Camillo che non si trattava di un pollo o di un gatto. Don Camillo non si mosse: anzi tirò giù a metà la saracinesca degli occhi fingendo di dormire per osservare più tranquillamente il fenomeno. Ed ecco che, qualche istante dopo, dall'erba emerse lentamente qualcosa di scuro, poi qualcosa di più chiaro, e don Camillo si sentì addosso gli occhi del Magrino. Don Camillo trattenne addirittura il respiro e vide che, trascorso qualche istante, gli occhi del Magrino, rassicurati dall'immobilità di don Camillo, abbandonarono il primo obiettivo e si puntarono su altri obiettivi. Il Magrino adesso seguiva i giochi dei bambini: si capiva che la faccenda lo interessava molto perché, a un bel momento, dimenticò ogni prudenza e tirò fuori tutta la testa per veder meglio. Ma nessuno lo notò e don Camillo ne fu contento. Improvvisamente la testa del Magrino si tuffò dentro l'erba e scomparve: una grossa palla di gomma con la quale il gruppo dei più grandicelli stava trastullandosi, ricevuta una pedata gagliarda, superò la siepe e cadde in mezzo all'erba medica, a una quindicina di metri dal limite del campo dei giochi. «Reverendo! La palla è caduta nel prato! Possiamo andare a prenderla?» Don Camillo finse di svegliarsi di soprassalto:
«La palla ancora nell'erba?» urlò furente. «Quante volte vi ho detto di stare attenti? Non si deve calpestare l'erba! Per punizione niente più la palla, per oggi. Lasciatela là dov'è. Andrete a riprenderla domani! E lasciatemi tranquillo che ho sonno!» I ragazzini brontolarono un po' quindi, stanata una palla di stracci, ricominciarono il loro gioco e don Camillo tornò a sdraiarsi fingendo di dormire. Ma era più sveglio che mai. Ed ecco che, dieci minuti dopo, l'erba medica incominciò a muoversi: però la testa del Magrino non riapparve. L'erba si muoveva, ma la zona di ondeggiamento adesso si allontanava dalla siepe. Il Magrino stava andandosene via: seguendo tuttavia un itinerario ben strano perché la marcia tendeva a raggiungere il centro del prato d'erba medica. "Si vede che traversa diagonalmente" pensò don Camillo "per uscire costeggiando poi la siepe del canale." Invece, arrivato a un certo punto, il Magrino si fermò poi cambiò rotta e, invece di continuare marciando verso destra, puntò decisamente verso sinistra. Il pirata aveva raggiunto la palla, se ne era impadronito e ora portava in salvo il bottino. «Ah, barabba!» borbottò don Camillo quand'ebbe capito il tema tattico del corsaro di erba medica. «Hai fatto il colpo! Però, arrivato al filare, quando l'erba medica finisce dovrai pure saltar fuori e passare allo scoperto!»
Ma il Magrino sapeva il fatto suo e, arrivato al limite della zona erbosa, continuò a strisciare carponi nell'erba costeggiando il filare fino a sfociare dentro il fossetto che correva al limite del prato d'erba medica, perpendicolare al filare. Giunto lì poteva continuare a camminare al coperto. «Gesù» sussurrò don Camillo quasi sgomento «chi può aver insegnato a un marmocchio di cinque anni una sottile astuzia di questo genere?» «Don Camillo» rispose il Cristo «chi insegna il nuoto ai pesciolini? È l'istinto.» «L'istinto!» disse cupo don Camillo. «Gli uomini hanno dunque l'istinto del male?» * Don Camillo procurò ai ragazzini un'altra palla e non parlò a nessuno dell'impresa del Magrino. Sperava di rivederlo ancora, il Magrino: forse quella palla aveva funzionato da amo e da esca. Ogni giorno guardava il prato d'erba medica: ma non scoperse nessun ondeggiamento. Poi gli dissero che il Magrino era malato e, da un bel po', non si muoveva di casa. Al Magrino effettivamente era venuta la febbre la notte stessa dell'impresa. Nel fossetto in fondo al prato d'erba medica, il Magrino aveva trovato acqua e, non potendosi scopri-
re, aveva continuato la sua marcia pancia a terra inzuppandosi come una spugna. Prima di rientrare in casa, aveva fatto un buco seppellendovi dentro la palla. La Jo' era tornata tardi dal lavoro e aveva trovato il ragazzino gelato come un sorbetto. In principio pareva una cosa da poco, da guarire con un po' di caldo e qualche pastiglia, ma la faccenda si era complicata e, una bella sera, il Magrino incominciò a smaniare. Continuava a farfugliare sempre le stesse parole e la Jo' non riusciva a capire: finalmente capì che il ragazzo parlava di una grossa palla di gomma. «Va bene» lo tranquillizzò la donna «adesso guarisci e poi ti compro la palla di gomma.» Il Magrino parve tranquillizzato, ma la notte seguente, quando la febbre gli si alzò, riprese l'argomento della palla: «La palla… La palla grossa…». «Stai buono, non ti agitare: ho già detto che te la compro quando guarisci!» «No… No…» «La vuoi subito allora? Se stai buono te la vado a comprare.» «No… No… La palla…» Evidentemente si era fatto una fissazione. Fenomeni del delirio. Anche il dottore disse che non bisogna cercare un senso in quello che può dire un bambino in delirio.
Così, la notte seguente, quando il ragazzino ricominciò a farneticare sul solito tema, la Jo' si limitò a rispondere: «Sì, sì, va bene…». Il ragazzino farneticò fino all'una di notte, poi la febbre gli scemò e potè addormentarsi. Allora la Jo' andò a buttarsi stanca morta nel suo letto. * Quella mattina don Camillo s'era alzato presto e, alle cinque, stava già facendosi la barba davanti allo specchietto che aveva appeso alla spagnoletta del telaio a vetri della finestra della sua camera. Era una bella mattinata, frescolina ma limpida, e don Camillo si gingillava col rasoio e il pennello sia perché non aveva fretta, sia perché, di lassù, vedeva la gran distesa di campi verdi, e l'argine e i pioppi dietro l'argine e, fra i pioppi, scintillava il fiume. Lì sotto, poi, c'era il recinto dei giochi con la giostra, l'altalena eccetera; tutto fermo, tutto silenzioso, tutto deserto: ma, fra poche ore, sarebbe arrivata la banda. Sorrise pensando ai visini freschi e puliti, agli occhi con dentro ancora dei pezzettini di sogno. Guardò l'alta rete metallica e il prato d'erba medica e istintivamente disse: «Quel barabba era lì…».
Trasalì vedendo navigare in mezzo all'erba medica qualcosa di biancastro. Non capiva cosa potesse essere ma, quando l'arnese fu a pochi metri dalla rete metallica, capì. Era il Magrino che camminava barcollando come un sonnambulo ubriaco. Il Magrino infagottato in una lunga e ampia camicia da notte che poi non era altro che una vecchia camicia da giorno di suo padre. Il Magrino incespicò, cadde, si rialzò, ma continuò la sua avanzata verso la rete e, stretta al petto, portava la grossa palla di gomma. Quando fu arrivato sotto la rete, il Magrino lanciò la palla. La voleva buttare dentro il campo di gioco, ma la rete era troppo alta e la palla ricadde. Il Magrino raccolse la palla e la lanciò ancora e ancora la palla urtò contro la rete. Don Camillo ansimava e aveva la fronte piena di sudore: «Gesù» implorò «dagli la forza di buttarla dentro!». Il Magrino era spossato e le braccine che uscivano dalle enormi maniche della vecchia camicia del Magro parevano ancora più misere: faticava a rimanere diritto e, prima di lanciare ancora la palla, dovette passare del tempo. Alla fine la lanciò. Don Camillo chiuse gli occhi e, quando li riaprì, la palla era dentro il campo di gioco e il Magrino giaceva supino nell'erba, immobile e stecchito, come morto.
Don Camillo si buttò giù per le scale a valanga e, dopo un istante, era in mezzo all'erba medica. Si chinò a raccogliere il Magrino e, sentendoselo così leggero tra le mani, provò uno sgomento che gli riempì l'animo di paura. Il Magrino aprì un momentino gli occhi e vedendosi tra le grinfie dell'omaccio sussurrò: «Don Scarpaccia… la palla è dentro…». «Bravo, bravo!» rispose don Camillo. * Il campanaro che era corso ad avvertire la Jo' trovò la disgraziata che urlava come una pazza perché aveva scoperto la scomparsa del figliolo. E quando, poco dopo, nel tinello della canonica, trovò il ragazzino sdraiato sul divano che era stato messo davanti al fuoco del caminetto, rimase sbalordita. «L'ho trovato svenuto nel prato d'erba medica, venti minuti fa» spiegò don Camillo. La donna allargò le braccia: «Nel prato d'erba medica? E cosa andava a fare? In questo momento non capisco più niente». «E quale è il momento in cui tu hai capito qualcosa?» replicò don Camillo.
Arrivò il dottore e disse alla Jo' che non si sognasse neppure dì muovere di lì il ragazzino. Fece una iniezione al malato. Spiegò alla Jo' quel che doveva fare. Intanto don Camillo, in sagrestia, stava preparandosi per la Messa. «Gesù» esclamò don Camillo rivolto al Cristo dell'aitar maggiore. «Come può essere accaduto quel che è accaduto? Come può quel bambino aver agito così, con la tremenda educazione che ha ricevuto? Chi può avergli insegnato la differenza che esiste tra il bene e il male se egli ha vissuto sempre nel male?» Il Cristo sorrise: «Don Camillo, chi insegna il nuoto ai pesciolini? È istinto. La coscienza non si insegna, la coscienza è istinto, don Camillo. La coscienza non è qualcosa che si dà a chi non la possiede. Tu non porti dall'esterno una lampada accesa in una stanza buia. Ma la lampada ardeva già nella stanza e la stanza era buia perché la lampada era coperta da uno spesso velo e, quando tu togli il velo, la stanza si illumina». Don Camillo allargò le braccia: «Gesù, ma chi ha tolto il velo di sopra la lampada che ardeva nell'animo di quel fanciullino?». «Don Camillo, quando sopravviene il buio della morte, ognuno cerca istintivamente in sé un po' di luce. Non investigare sul come ma appagati del quanto. Ringrazia Dio che quel fanciullino abbia trovato la luce che ardeva sotto il velo.»
* Il Magrino rimase in canonica due settimane e la Jo' tutti i giorni, mattina e sera, veniva a vederselo; non entrava, però: rimaneva fuori, davanti alla inferriata della finestra del tinello. Bussava ai vetri, don Camillo apriva e la Jo' borbottava: «Sono venuta a trovare mio figlio in prigione». Don Camillo non rispondeva e lasciava che la Jo' chiacchierasse da sola col Magrino. Ma, dopo quindici giorni, don Camillo rientrò in canonica d'improvviso e trovò il Magrino che stava sgonfiandogli le gomme della bicicletta. Allora gli affastellò in un fagotto tutti i suoi stracci, gli infilò il braccio nel fagotto, lo mise fuori dalla porta e gli disse: «Fila, sei guarito». La sera arrivò la Jo' piena di baldanza: «Cosa vi debbo per il disturbo?» domandò. «Niente. L'unica grande ricompensa che puoi darmi è quella di non farti mai più vedere da me per omnia saecula saeculorum.» «Amen» borbottò la Jo'. Se ne andò, ma, per fargli un dispetto, la domenica seguente la Jo' era in chiesa alla Messa delle undici. In prima fila, assieme al Magrino.
Don Camillo, trovandosela lì davanti, le lanciò un'occhiata tremenda e, dalla spavalderia con cui la Jo' gli rispose con lo sguardo, don Camillo capì perfettamente che la Jo' stava dicendogli mentalmente: "Don Scarpaccia, è inutile che tu mi fai quegli occhi: non ho paura!".
191 VITTORIA PROLETARIA Lo Smilzo spense la radio e il silenzio cadde nello stanzone semibuio e freddo. Per ore e ore gli uomini dello stato maggiore avevano aspettato con ansia il bollettino e, adesso che il bollettino era arrivato, nessuno trovava la forza di parlare. Si udì la voce di Peppone: «L'unico fatto positivo che ci interessa è questo: non è morto. E fino a quando non muore rimane vivo». Colpiti dalla elementare e profonda verità delle parole del capo, gli uomini dello stato maggiore lasciarono la Casa del Popolo e se ne andarono tranquillamente a letto. Si ritrovarono tutti alla Casa del Popolo nel pomeriggio del giorno seguente e l'attesa del bollettino fu lunga. Finalmente la radio annunciò che Stalin era morto. Gli uomini dello stato maggiore si guardarono sgomenti. «E adesso, cosa si fa?» domandò il Bigio. «La situazione è delicata» rispose Peppone. «Appunto per questo occorre non perdere la calma. La prima cosa da fare è di aumentare la vigilanza. Non si sanno le intenzioni degli avversari e, tanto per incominciare, mettiamo al sicuro schedari e documenti.»
In verità gli avversari non mossero un dito; si limitarono a commentare sobriamente la scomparsa del padre dei popoli: «Non succederà niente, comunque è sempre uno di meno!». Don Camillo, abilmente tirato sull'argomento da un agente provocatore, si strinse nelle spalle: «Sono affari di sua stretta competenza: adesso se la deve vedere lui col Padreterno». «Secondo me è un uomo che ha fatto tanto bene ai poveretti che andrà dritto in Paradiso» replicò l'agente provocatore. «Se il Padreterno ha affidato l'amministrazione del Paradiso a Roosevelt può anche darsi che Stalin arrivi pure in Paradiso» borbottò don Camillo. Peppone si rese conto che la vigilanza doveva essere rafforzata non tanto all'esterno quanto all'interno del partito. «Molti dei nostri sono schiacciati dal dolore per la perdita del Capo» disse Peppone. «Bisogna tirarli su di giri, galvanizzarli.» Decise quindi di fare subito l'altarino: e l'altarino venne eretto davanti alla Casa del Popolo. Il grande ritratto del Capo campeggiava su un ricco drappeggio di bandiere rosse, illuminato da una grossa stella di lampadine elettriche. Un tavolino venne sistemato a fianco dell'altarino e, sul tavolino, c'erano un grande registro e l'occorrente per scrivere.
Vennero affissi manifesti che invitavano i cittadini a rendere omaggio alla memoria del grande campione della Pace e della Giustizia e la gente incominciò a sfilare davanti all'altarino. Molti recavano fiori e tutti, prima di allontanarsi, segnavano la loro firma nel registro. Peppone e lo stato maggiore, appostati nell'interno della Casa del Popolo, seguivano non visti lo svolgimento della cerimonia. Tutto dava l'idea di dover funzionare con la più perfetta regolarità: i «rossi», convocati con una categorica cartolina precetto, venivano tutti, poco alla volta, a rendere omaggio al campione della Pace e della Giustizia. E, naturalmente, oltre agli iscritti al partito, nessun altro. Ciò era ampiamente previsto e perciò, quando a un bel momento lo Smilzo che stava di vedetta alla finestra venne ad annunciare a Peppone che vi erano "novità", Peppone corse a sbirciare anche lui con giustificata agitazione. Si trattava di un ragazzotto sui quindici, sedici anni; una faccia nuova sia per Peppone che per lo Smilzo: si fermò qualche minuto davanti all'altarino poi entrò sotto l'atrio a firmare il registro. «La figura di Stalin esercita un fascino potente su tutti, specialmente sui giovani!» osservò compiaciuto Peppone. «Bisogna che lo teniamo presente. La figura di Stalin è mitica e ai giovani piacciono i miti.» Quando il ragazzotto se ne fu andato, Peppone uscì nell'andito per leggere la firma che l'ignoto aveva segnato sul
registro. La firma era decifrabilissima come del resto era quanto mai decifrabile la nota che seguiva la firma: «Mario Batoni - figlio di uno degli ottantamila soldati italiani morti nei campi di concentramento sovietici». Peppone schizzò fuori dall'atrio e raggiunse il ragazzotto. «E se io ti prendessi a pedate nel sedere» gli domandò cupo e minaccioso Peppone «cosa diresti?» «Niente» rispose calmo il ragazzotto. «Vi sparerei una revolverata nella pancia.» Il ragazzotto teneva la mano destra ficcata nella tasca della giacca e Peppone impallidì. Di un uomo, anche armato di mitra, Peppone non avrebbe avuto paura. Ma di quel ragazzo aveva paura. «Mi fa piacere che quell'assassino sia morto!» disse il ragazzotto. Peppone strinse i denti: «Ci rivedremo, bel tomo. Ti terrò d'occhio.» «Anch'io.» Peppone non disse niente a nessuno, ma quella faccenda lo rese nervoso e irritabile. Radunò gli uomini dello stato maggiore e spiegò: «Sia ben chiaro: non si tollerano provocazioni. Da qualsiasi parte vengano. Il momento è delicato: gli avversari credono di poter tirar su la testa. Bisogna agire senza esitazione. Far capire alla gente che niente è cambiato. Mettetevi in
giro: occhi e orecchie aperti. Nei casi semplici intervenire. Nei casi complicati riferire subito». Ed ecco che il caso complicato si presentò subito. Fu lo Smilzo a darne notizia. * «Capo» disse lo Smilzo «può il Partito prendere a sberle la vecchia Desolina?» La vecchia Desolina aveva ottantatré anni e pareva la reclame del mal di reni. «Non diciamo stupidaggini!» rispose Peppone. «Cosa c'entra la vecchia Desolina?» «C'entra perché, per colpa sua, il paese sta sghignazzando alle nostre spalle.» Peppone rimase sbalordito: «Cos'ha fatto quella disgraziata?». «Ha messo fuori un cartello che tutti vanno a leggere.» «Un manifesto contro di noi?» Lo Smilzo allargò le braccia: «Capo, è difficile da spiegare. Vieni fino alla casa della Desolina e vedrai». Si incamminarono e ben presto si trovarono in mezzo a gente che ridacchiava, radunata davanti alla botteguccia della Desolina. Quando la gente vide Peppone, il consesso si sciol-
se. Peppone aveva una faccia che non prometteva niente di buono e tutti se ne resero conto. Un cartello era appiccicato, dal di dentro, al vetro della mostra della botteguccia e Peppone, letto quanto stava scritto sul cartello, strinse i pugni ed entrò. La bottega della Desolina era un bugigattolo dentro il quale ci si poteva appena muovere: un banco mal combinato e una scansia con quattro scatoloni costituivano tutto il capitale dell'azienda. E la scorta-merci era composta di qualche rotella di fettuccia, qualche carta di bottoni, un po' di bustine di aghi, un mazzo di stringhe per scarpe, due vasi con caramelle colorate e via discorrendo. Ma la botteguccia della Desolina era importante per una specialità di cui era, per la zona, concessionaria esclusiva la Desolina. La Desolina, infatti, era in grado di cavar fuori i numeri del lotto da qualsiasi avvenimento, da qualsiasi sogno: così un sacco di gente frequentava la bottega della Desolina. E non invano, perché, più d'una volta, la vecchia ci aveva azzeccato giusto. Vedendo entrare Peppone, la Desolina levò gli occhi. Era una vecchina calma e imperturbabile che non si meravigliava mai di niente. «Sentite» domandò Peppone. «Cosa significa quel cartello che avete messo fuori?» «C'è scritto su» spiegò la vecchietta. «Sono i numeri del morto.»
«E perché l'avete messo fuori con la spiegazione?» domandò ancora Peppone. La vecchietta scosse il capo: «Era un viavai continuo: tutti volevano i numeri del morto e tutti volevano la spiegazione. Non si poteva più vivere. Così ho messo fuori il cartello coi numeri e con la spiegazione». Lo Smilzo intervenne: «Quella non è una spiegazione, è una provocazione!» esclamò. La vecchia lo guardò stupita. Tolse dalla vetrina il cartello e lo mise sul banco. «A me pare che tutto sia chiaro» disse la Desolina. E lesse ad alta voce il cartello: Numeri della morte di Stalin 23 – Brigante 18 — Sangue 62 – Meraviglia 59 — Avvenimento lieto. La Desolina guardò su verso Peppone. «Cosa ci trovate di strano? Era o no un brigante? E se era un brigante fa 23.» «Non diciamo stupidaggini!» gridò Peppone. «Era il più grande galantuomo dell'universo, uno che ha fatto un sacco di bene ai poveretti!» La vecchia scosse il capo:
«Era uno scomunicato, un senzadio, un Anticristo che ammazzava i preti e tutti quelli che non la pensavano come lui. Quindi era un brigante e il suo numero è 23. Siccome era un brigante e ha fatto ammazzare dei milioni di persone, il secondo numero è il 18 perché il sangue fa 18. Il terzo numero è 62 che significa meraviglia. Infatti la morte ha riempito di meraviglia tutti. Quelli contro di lui che si sono meravigliati che il Padreterno l'abbia tenuto vivo tanto tempo. Quelli del suo partito che si sono meravigliati che un individuo così onnipotente potesse morire come tutti gli altri uomini. E poi c'è l'avvenimento lieto. Se non è un avvenimento lieto la morte di un tipo come quello lì, di che cosa ci si può rallegrare al mondo? Del resto basta parlare con la gente per sentire come tutti sono contenti. Quindi il quarto numero è 59 che significa avvenimento lieto». Peppone schiumava rabbia. «Desolina, io, se volessi, potrei farvi arrestare!» esclamò. «Questa è tutta una denigrazione infame. Una sporca provocazione politica.» «Questi sono i numeri del morto» affermò tranquilla la vecchietta. «Chi li vuol giocare li gioca, chi non li vuol giocare non li gioca.» «Voi tirate dentro questo cartello e non lo mettete più fuori!» gridò Peppone. La vecchietta si strinse nelle spalle:
«Ho ottantatré anni» sospirò «ed è la prima volta che mi viene fatta una prepotenza come questa. Prendetevi pure il cartello: vuol dire che i numeri del morto li darò a voce». Peppone nascose il cartello sotto il tabarro e si avviò per uscire. Poi si volse: «Desolina» disse con voce calma «voi state facendo il gioco di qualche farabutto che si serve di voi per offenderci. Non è una bella cosa, questa». «Io non faccio il gioco di nessuno» replicò la vecchia. «Io faccio il gioco del lotto. I numeri del morto sono questi, e questi numeri io do a chi me li chiede.» Peppone scosse il capo: «Desolina, non prendetemi per stupido. Siate sincera: questi numeri ve li ha suggeriti qualcuno e voi vi siete prestata perché quel qualcuno, magari, è il parroco, e allora quel che dice il parroco è Vangelo, per voi che siete di chiesa. Se volete tirare fuori i numeri del morto, tiratene fuori degli altri, date retta». «I numeri del morto sono questi!» affermò cocciuta la vecchietta. «E se devo tirar fuori i numeri del morto non posso tirar fuori che questi: "Brigante, sangue, meraviglia, avvenimento lieto. 23, 18, 62, 59". Il mio mestiere lo so.» «Fate come volete!» concluse Peppone andandosene. Il cartello venne messo agli atti, in archivio, e, un'ora dopo l'operazione, il Bigio portò un foglietto a Peppone: «L'ho strappato da un muro. Ce ne sono già tanti in giro:
Un 23 va all' inferno dopo aver sparso tanto 18. Senza giocare al lotto abbiamo vinto un terno!». Peppone si infuriò: «Tutta colpa di quella vecchia maledetta!». «Lascia perdere, capo» lo consigliò il Bigio. «È stato già un errore farle togliere il cartello. È proprio questo che cercavano i provocatori.» Più tardi la squadra di sorveglianza venne a dire a Peppone che c'era folla davanti alla bottega della Desolina: anche dai paesi vicini arrivava gente per avere dalla vecchia i numeri con "spiegazione". «A quei maledetti non interessano niente i numeri: interessano le "spiegazioni"!» esclamò lo Smilzo. «È una cosa che non può continuare!» urlò imbestialito Peppone. «È una provocazione insopportabile! Bisogna fare qualcosa!» Il Brusco, che parlava soltanto in casi di emergenza, fece udire la sua voce: «Per conto mio, intanto, comincerei col giocare i numeri…». Peppone balzò in piedi e lo agguantò per il petto: «Brusco» urlò «spero che tu scherzi!». Il Brusco allargò le braccia:
«Capo, di' quel che vuoi: fino a domani a mezzogiorno c'è tempo. Io domattina vado in città e, senza che nessuno ne sappia niente, mi gioco i numeri». Peppone guardò sbalordito il Brusco. «Brusco, mi fai schifo» disse inorridito. «Capo» rispose il Brusco «la politica è la politica, il gioco del lotto è il gioco del lotto. Io, dei numeri della Desolina, prendo in considerazione soltanto la parte che riguarda il gioco del lotto. In fondo la Desolina ci indovina spesso e i numeri possono uscire.» «Non possono uscire!» urlò Peppone. «Sono fondati sulla menzogna e sulla più sporca speculazione propagandistica!» Era oramai sera e la seduta si sciolse senza altre parole. Il disgustoso episodio del Brusco aveva indignato oltremisura Peppone che, una volta a letto, non riuscì a prendere sonno e continuò a rigirarsi tra le lenzuola come se avesse mangiato un gatto vivo. Sentì suonare le ore al campanile. Le sentì suonare tutte e, quando scoccarono le cinque e mezzo, qualcuno dalla strada buttò un sasso contro le persiane della finestra. Peppone si affacciò, ed era il Brusco. «Capo, hai bisogno di qualcosa? Io vado in città.» Peppone gli buttò un fagottino. «Terno e quaterna per tutte le ruote» disse con ferocia Peppone.
Poi sbatacchiò le gelosie e tornò a letto. E soltanto allora potè prendere sonno. * Si alzò dal letto tardissimo e non si mosse di casa. Alle sei e trenta del pomeriggio arrivò di corsa lo Smilzo: «Capo, hai sentito la radio?». «No.» «Ci sono novità grosse. Vieni subito in sede.» Appena Peppone entrò nel suo ufficio, il Brusco gli corse incontro sventolando un foglietto: «Tre!» gridò il Brusco. «Sicuro?» si informò Peppone. «Sicurissimo!» gridarono agitati il Bigio, il Lungo e lo Smilzo. «L'ha detto la radio!» Peppone non riusciva a trovare la calma sufficiente per decifrare il foglietto. «È uscito il terno sulla ruota di Milano!» gli spiegò il Brusco. Peppone si asciugò il sudore. «Io ci cavo fuori circa trecentocinquantamila lire!» disse. «E voi?» «Idem: abbiamo giocato quello che hai giocato tu.» «Bene… pensate se fosse uscita la quaterna!» ansimò Peppone. «Quale numero non è venuto?»
«Il 62, quello della meraviglia!» spiegò il Bigio. «C'era da immaginarselo!» osservò il Brusco. «"Brigante, sangue, avvenimento lieto": lì un senso c'era. Ma la meraviglia proprio non c'entrava! Che meraviglia ci può essere se uno vecchio come il cucco un bel giorno muore?» Il Lungo ricevette l'ordine di sbarrare porte e finestre e di trovare roba da mangiare e da bere. Mangiarono e bevvero lì, nello studio di Peppone, e, all'una di notte, stavano ancora mangiando e bevendo. All'una di notte lo Smilzo riempì il bicchiere e si alzò: «Beviamo alla salute del grande Capo!» esclamò con voce solenne. «Ricordiamoci che se egli non fosse morto, noi non avremmo vinto il terno!» «Egli non è morto perché la sua opera è viva ed eterna!» precisò Peppone levando il bicchiere. Poi riprese ad affettare il culatello finale. Il vento corse impetuoso per le strade, quella notte. Ma non veniva dalla steppa. Era vento di casa.
192 PAESAGGIO E FIGURA Una mattina arrivò un giovanotto in bicicletta e, fermatosi sul sagrato, incominciò a guardarsi attorno come se cercasse qualcosa. A un tratto parve aver trovato ciò che gli interessava e, appoggiata la bicicletta a un colonnotto, prese ad armeggiare attorno al fagotto che stava sul portapacchi. Ne cavò un seggiolino pieghevole, un cavalletto, una cassetta di colori, una tavoletta e, pochi minuti dopo, era già al lavoro. Per fortuna i ragazzini stavano a scuola e così il pittore potè lavorare tranquillo per una buona mezz'ora. Ma, dopo, incominciò ad arrivare gente da tutte le parti e, ben presto, il giovanotto sentì sulla punta del suo pennello il peso di cento occhi curiosi. Camminando piano piano, come se passasse di lì per caso, arrivò anche don Camillo e qualcuno gli domandò sottovoce cosa pensasse di quella faccenda. «È presto, per giudicare» rispose don Camillo. «Io non capisco cosa ci sia di bello in quel portico» borbottò un giovanotto della squadra degli intellettuali. «Ci sono dei soggetti mille volte più pittoreschi, lungo il fiume.» Il giovanotto sentì e, senza voltarsi, disse:
«Il pittoresco va bene per fare le cartoline illustrate. La Bassa mi piace proprio perché non è pittoresca». L'affermazione lasciò perplessa la massa che continuò a seguire con diffidenza il lavoro del giovanotto fino a mezzogiorno. Poi, a mezzogiorno, tutti se ne andarono: il giovanotto rimase solo e, trovandosi finalmente libero, potè spennellare senza preoccupazioni per due ore filate. Così, quando il popolo ritornò a godersi lo spettacolo, il quadro fu degno di indurre qualcuno a correre in canonica per avvertire don Camillo: «Reverendo, venite a vedere che meraviglia!». In verità il giovanotto ci sapeva fare parecchio e Peppone, che era tra gli spettatori, fece, con parole molto semplici, il punto esatto della situazione: «Guardate cosa vuol dire l'arte! Sono quasi cinquant'anni che vedo tutti i santi giorni quel porticato, e soltanto adesso mi accorgo che è bello!». Il giovanotto era stanco: ripose la tavolozza e i pennelli e, richiusa la cassetta, si alzò. «Ha già finito?» domandò qualcuno. «No: lo finirò domani. Adesso la luce è cambiata. C'è tutto un gioco diverso.» «Se le fa comodo di mettere la sua roba in canonica, ho tutto il posto che vuole e nessuno le toccherà niente» disse don Camillo vedendo che il giovanotto era imbarazzato per la sistemazione della tela ancora fresca di pittura. «Le sono molto grato» rispose il giovanotto.
«Volevo vedere che non lo accalappiasse!» borbottò Peppone andandosene indispettito. * Sistemati i suoi arnesi nell'armadione dell'andito della canonica, il giovanotto domandò a don Camillo: «Reverendo, saprebbe indicarmi un posto dove poter mangiare e dormire spendendo il meno possibile?». «Sì» rispose don Camillo. «Qui.» Il giovanotto lo guardò stupito. «Lei è un artista e io sono lieto di poterla ospitare» spiegò don Camillo. In tinello il fuoco era acceso e la tavola apparecchiata: il giovanotto era pieno di fame e di freddo e, mano a mano che mangiava, la sua faccia smorta riprendeva colore. E anche quella era pittura. «Io non so come ringraziarla, reverendo» disse alla fine. «Non mi ringrazi» rispose don Camillo. «Si fermerà molto da queste parti?» «Domani nel pomeriggio torno in città» spiegò il giovanotto. «Già finito il suo entusiasmo per la Bassa?» «Finiti i quattrini» sospirò il giovanotto. «Ha molto lavoro in città?» Il giovanotto si mise a ridere.
«Si vive alla giornata.» Don Camillo lo guardò: «Io non posso darle dei quattrini perché non ne ho» disse. «Però, se lei mi fa qualche lavoretto per la chiesa, io posso darle da mangiare e da dormire per un mese. Ci pensi.» «Ci ho pensato» rispose il giovanotto. «È un contratto che mi conviene. Purché lei mi lasci il tempo di dipingere anche per me.» «Si capisce!» esclamò don Camillo. «Mi basta che lei dedichi alla chiesa un paio d'ore al giorno. Vedrà che quello che c'è da fare non è molto.» La chiesa era stata riparata da un mese e, dove avevano rifatto qualche placca d'intonaco, le decorazioni interne erano state cancellate. Bisognava ritoccare e completare le decorazioni e il giovanotto, quando ebbe visto di che cosa si trattava, sorrise: «Tutto qui?». «Tutto qui.» «In una giornata le sistemo tutto, reverendo. Non posso accettare il contratto. Non sarebbe onesto, da parte mia. Bisogna che lei mi dia qualcosa d'altro da fare.» Don Camillo allargò le braccia: «Veramente ci sarebbe dell'altro» rispose. «Ma è un lavoro grosso, d'impegno, e non ho neppure il coraggio di parlarne.» «Parliamone, invece!»
Don Camillo si appressò alla balaustra d'una cappelletta laterale e accese la luce. «Guardi che disastro!» Il giovanotto levò gli occhi e vide soltanto una grande macchia che deturpava il muro sopra l'altare. «Una infiltrazione d'acqua» spiegò don Camillo. «Ce ne siamo accorti troppo tardi. Una volta riparato il tetto, l'intonaco è venuto giù perché col gelo si era staccato dal muro. Così l'immagine della Madonna è andata distrutta.» Il giovanotto tentennò gravemente il capo. «È un guaio grosso» disse. «Bisogna rifare l'intonaco completamente perché quello che è rimasto non serve più.» «Si trattasse soltanto dell'intonaco, il guaio sarebbe da ridere!» esclamò don Camillo. «È l'immagine della Madonna che bisogna dipingere di nuovo.» «A questo ci penso io» esclamò il giovanotto. «Lei faccia risanare il muro. Io intanto mi studio la figura e preparo il cartone e lo spolvero. Quando sarà il momento, mi metta a disposizione il muratore per l'intonaco. L'affresco lo conosco bene. Però voglio lavorare tranquillo: il lavoro lo vedrà quando sarà finito. Per me è una tortura lavorare con gli occhi della gente addosso.» Don Camillo era tanto contento che non trovò neppure il fiato per rispondere: «Signorsì». *
Il giovanotto era un artista appassionato e, oltre a trovarsi in un ambiente che gli piaceva, il fatto nuovo di poter mangiare regolarmente e abbondantemente ogni giorno gli aveva messo addosso un entusiasmo straordinario. Così, finito – tra l'approvazione incondizionata del paese – il quadro coi portici della piazza, partì alla scoperta della Bassa e alla ricerca dell'ispirazione per la Madonna di don Camillo. Non poteva dipingere una Madonna convenzionale: doveva spiritualizzare un viso vero. Quella immagine doveva essere non solo un omaggio a don Camillo, ma un omaggio alla pittura. Nella prima settimana liquidò i rappezzi e i ritocchi delle decorazioni. Fece anche di più perché restaurò il grande quadro a olio che incombeva sul coro: però non si sentiva a posto. Soltanto quando avesse trovato l'ispirazione per la Madonna della cappelletta l'irrequietezza che giorno per giorno aumentava in lui si sarebbe placata. Ma, alla fine della seconda settimana, le cose erano notevolmente peggiorate per il giovanotto: il muro della cappelletta, completamente risanato, attendeva già da un pezzo, e il giovanotto era ancora in alto mare. Il giovanotto aveva guardato mille donne, fra quelle del borgo e quelle delle frazioni, ma non aveva visto un viso interessante. Don Camillo si accorse ben presto che qualcosa non funzionava: il giovanotto pareva avesse perso la voglia di la-
vorare e, più d'una volta, non riportava a casa neppure uno schizzo. «La Bassa non la interessa più?» domandò una sera don Camillo. «Ci sono ancora tante cose belle che lei non ha fermato sulla tela.» «Adesso mi interessa una sola cosa bella che non riesco a scoprire!» rispose con voce piena di sconforto il giovanotto. La mattina dopo il giovanotto inforcò la bicicletta e si mise in viaggio con questo fermo proposito: "Se non trovo, stasera me ne vado". Girò affidandosi al caso: entrava nelle aie per chiedere un bicchier d'acqua o una cosa qualsiasi, si fermò ogni volta che s'imbattè in una donna, ma riuscì solo ad aumentare la sua amarezza. A mezzogiorno si trovò alla Rocca, la frazione più vicina al paese grosso, e si fermò a mangiar qualcosa all'osteria del Fagiano. Non se la sentiva di tornare a casa. La sala del Fagiano, uno stanzone basso a travicelli con le oleografie dell' Otello alle pareti, era deserta. Apparve una vecchia e il giovanotto chiese pane, salame e un bicchiere di vino. Quando, di lì a poco, una mano depose davanti a lui, sul piano scuro della tavola, una carta di salame, un bicchiere di vino e un pezzo di pane, il giovanotto levò gli occhi e rimase senza respiro.
Trovata l'ispirazione! L'ispirazione aveva al massimo venticinque anni e portava in giro la sua roba con la baldanza d'una ragazza di diciotto. Ma quel che interessava al giovanotto era il viso della donna. Ed egli stette a guardare sbalordito quel viso che da tanto tempo cercava. La ragazza sostenne il suo sguardo per un po' quindi ebbe uno scatto: «E allora?» domandò con voce dura. «Ce l'ha con me?» «Scusi» balbettò il giovanotto confuso. La ragazza se ne andò, poi tornò di lì a poco, mettendosi a sedere vicino alla porta e incominciando a cucire. Il giovanotto non seppe resistere: cavò una tavoletta e prese a disegnare. Non durò molto perché la ragazza, sentendosi quegli occhi addosso, levò la testa e disse: «Si può sapere cosa fa?». «Se mi permette vorrei farle il ritratto» le rispose il giovanotto. «Il ritratto? E perché?» «Io sono pittore di mestiere» balbettò il giovanotto «e ai pittori interessa tutto quello che è bello.» La ragazza fece una smorfia di compatimento, scrollò le spalle e si rimise a lavorare. Stette lì ferma più d'un'ora poi si alzò e si avvicinò al giovanotto:
«Si può vedere cosa ha combinato?». Il giovanotto mostrò lo schizzo. «Sono così, io?» ridacchiò la ragazza. «È appena abbozzato, signorina: se permette vengo domani a finirlo.» La ragazza raccolse il piatto e il bicchiere. «Quanto fa?» domandò il giovanotto. «Pagherà domani.» Il giovanotto, appena tornato in canonica, andò a chiudersi nella sua stanza dove disegnò fino a sera. Il mattino seguente continuò a disegnare: uscì verso il mezzogiorno chiudendo la porta a chiave. «Reverendo» spiegò «ci siamo. L'ispirazione è arrivata!» Partì pedalando a tutta birra e trovò al Fagiano ogni cosa come il giorno prima: stanza deserta, pane, salame, vino e ispirazione seduta vicino alla porta. Questa volta, dopo un paio d'ore di posa, la ragazza, vedendo il risultato del lavoro del giovanotto, parve più soddisfatta del giorno precedente: «Così va meglio» disse. «Se potessi venire anche domani la cosa andrebbe meglio ancora» sospirò il giovanotto. Andò a finire che il giovanotto tornò altre due volte: dopo non si fece più vedere al Fagiano perché aveva ben altro per la testa.
Rimase chiuso per tre giorni nella sua stanza, poi, accordatosi col muratore, incominciò a lavorare nella cappelletta. Incominciò a lavorare pieno d'orgasmo e nessuno poteva vedere cosa facesse perché una robusta e impenetrabile tramezza di tavole era stata tirata su davanti alla cappella isolandola dal resto della chiesa. E il giovanotto soltanto poteva entrare nella cappella, perché soltanto lui aveva la chiave del lucchetto che bloccava lo sportello di accesso. Don Camillo bruciava di curiosità, ma riusciva a dominarsi e si accontentava di domandare ogni sera al giovanotto: «E allora, come andiamo?». «Vedrà, reverendo!» rispondeva il giovanotto eccitatissimo. E venne finalmente il giorno fatale. Il giovanotto, finito il suo lavoro, ricoprì l'affresco con una tela, fece togliere l'assito e andò a chiamare don Camillo: «Reverendo, ci siamo». Don Camillo in un attimo fu davanti alla balaustra della cappella e attese col cuore che gli batteva. Il giovanotto, con una pertica, fece cadere il telone che copriva la Madonna del Fiume. Era una cosa stupenda e don Camillo rimase a bocca aperta davanti a quell'apparizione. Poi, a un tratto, sentì come una mano attanagliargli il cuore e la fronte gli si coperse di sudore. E un urlo gli sfuggì, pieno d'angoscia:
«La Celestina!». Il giovanotto lo guardò stupito. «Che Celestina?» «Quella è la Celestina, la figlia della padrona del Fagiano!» Il giovanotto allargò le braccia: «Sì» ammise tranquillamente. «È una ragazza che ho trovato al Fagiano.» Don Camillo agguantò la scala a pioli e, entrato nella cappella, l'appoggiò al muro di fondo e ricoprì l'immagine con la tela. Il giovanotto non capiva più niente. «Reverendo» domandò quando don Camillo fu ritornato a terra. «Siete diventato matto?» Don Camillo non rispose e corse in canonica seguito dal giovanotto sempre più sbalordito. «Sacrilegio!» ansimò giunto che fu in tinello. «La Celestina del Fagiano! La Celestina del Fagiano! La Madonna con la faccia della Celestina del Fagiano! Ma lei non sa chi è la Celestina del Fagiano?» Il giovanotto impallidì. «Lei non sa che la Celestina del Fagiano è la più sfegatata delle comuniste della zona? Non sa che a fare una Madonna con la faccia della Celestina del Fagiano sarebbe come fare Gesù Cristo con la faccia di Stalin?» Il giovanotto ritrovò un po' di calma:
«Reverendo» disse. «Io non mi sono ispirato alla fede politica di quella ragazza, io mi sono ispirato al suo viso. Il viso è bellissimo e la bellezza non gliel'ha regalata il partito ma Dio.» «Ma l'animaccia nera che si nasconde sotto quella bellezza gliel'ha regalata il Demonio!» gridò don Camillo. «La bellezza non è mai dono del Demonio» replicò il giovanotto. «Tutto ciò che è bello è un dono divino.» Don Camillo levò le braccia al cielo: «Lei ha commesso un sacrilegio! E se non sapessi che lei ha agito in buona fede, io l'avrei già scaraventato a casa del diavolo. Non si rende conto dell'enormità della cosa?». Il giovanotto scosse il capo: «No» rispose. «Io ho la coscienza tranquilla. Io, per dipingere il viso della Madonna, ho cercato l'ispirazione nel viso più bello che ho trovato.» «Lei non ha fatto il ritratto alle sue buone intenzioni, lei ha fatto il ritratto a un tizzone d'inferno! A una scomunicata! Non le pare un orrendo sacrilegio dare alla Madonna le sembianze di una donna scomunicata? La Madonna del Fiume? La Madonna scomunicata, questo è il suo nome giusto!» Il giovanotto aveva voglia di piangere: «E io che ho cercato tanto e che ci ho messo tutta la mia passione per spiritualizzare quel viso…». Don Camillo agitò le braccia con violenza: «Ma cosa vuol spiritualizzare! Come si può spiritualizzare una faccia volgare come quella della Celestina? Una
donna che, quando si mette a dir parolacce, fa arrossire perfino i carrettieri? Ma come si può avere la spudoratezza di pensare che la Madonna possa avere la faccia bieca della Celestina del Fagiano?». * Il giovanotto andò a buttarsi nel suo letto: non scese a cena e don Camillo non si sognò neppure di chiamarlo. Ma, verso le dieci di sera, salì a trovarlo: «Ebbene, è convinto di aver commesso un sacrilegio? Spero che lei abbia riguardato a mente serena i suoi bozzetti e si sia reso conto che non è possibile trovare al mondo faccia più volgare di quella. Lei è giovane, ha visto una ragazza provocante e gli occhi dell'artista non hanno più funzionato lasciando il posto agli occhi dello sporcaccione». Il giovanotto scosse il capo: «Lei mi giudica male, reverendo. Lei mi insulta senza una ragione». «Ma prenda i suoi bozzetti! Ma guardi!» «Ho stracciato tutto» rispose il giovanotto. «Andiamo a vedere giù» esclamò don Camillo. «Voglio che lei si convinca.» Scesero nella chiesa silenziosa e deserta e, giunti davanti alla cappelletta, don Camillo con la pertica fece cadere la tela che copriva l'affresco.
«Guardi con calma e mi dica se ho o non ho ragione.» Il giovanotto guardò l'affresco, lo illuminò coi due riflettori, tornò a guardarlo, poi fece di no con la testa: «No, reverendo, quel viso non è né bieco né volgare». Don Camillo sghignazzò e si mise a studiare con cipiglio feroce l'affresco. La Madonna del Fiume aveva un viso dolce, sereno, e gli occhi erano limpidi e puri. «Roba da pazzi!» gridò inviperito don Camillo. «Io vorrei sapere come lei può aver fatto a trovare della spiritualità nella faccia di quella disgraziata!» «Reverendo, lei dunque riconosce che quell'immagine ha un viso spirituale, non bieco, volgare e perverso!» «L'immagine ha il viso spirituale, ma la Celestina ha il viso volgare e perverso! E chiunque veda questa immagine dirà: "To': la Celestina travestita da Madonna".» «Reverendo» esclamò il giovanotto «non è il caso di fare tragedie. Domattina si guasta tutto e si ricomincia da capo.» Don Camillo andò a ricoprire l'affresco e spense la luce. «Domani decideremo» disse. «Il guaio è grosso perché, disgraziatamente, come pittura, l'affresco è bellissimo e guastarlo è un delitto.» La Madonna del Fiume, infatti, piaceva da pazzi al povero don Camillo. Per lui quel dipinto era un capolavoro. Era la cosa più bella che avesse mai visto. D'altra parte come po-
teva tollerare che la dannata Celestina si mostrasse dall'altare sotto le vestì della Madonna? L'indomani don Camillo chiamò in aiuto i cinque o sei parrocchiani più fidi e, portatili davanti alla cappelletta, tirò giù il sipario e disse: «Esprimete il vostro parere liberamente». E tutti, dopo avere esclamato: «Meraviglioso!» ebbero un sussulto e aggiunsero inorriditi: «Ma è la Celestina del Fagiano!». Don Camillo spiegò la disgrazia successa al povero pittore e concluse: «Non c'è che una cosa da fare: cancellare tutto». «Peccato perché è un capolavoro!» commentarono quelli della commissione. «D'altra parte non si può permettere che la Madonna abbia la faccia d'una scomunicata maledetta…» Don Camillo tirò su il sipario e pregò quelli della commissione di non dire niente in giro. Il risultato fu che la voce circolò immediatamente e ci fu subito un gran viavai di gente davanti alla cappelletta: ma l'immagine era coperta e l'ingresso alla cappelletta sbarrato. La voce circolò anche fuori paese e la sera stessa, mentre don Camillo stava chiudendo il portale della chiesa, emerse dall'ombra un viso arcigno. Era la Celestina del Fagiano. «Cosa volete?» domandò asciutto don Camillo.
«Devo dire due parole a quel disgraziato imbecille lì» borbottò cupa la Celestina. Don Camillo si volse: il giovanotto stava arrivando. «A parte il fatto che lei è venuto a mangiare per quattro volte da me senza mai pagare» esclamò minacciosa la Celestina «vorrei sapere chi le ha dato il permesso di denigrarmi sfruttando la mia faccia per pitturare delle Madonne.» Il giovanotto guardò sbalordito e quasi atterrito la Celestina: ecco il viso volgare, bieco, perverso di cui parlava don Camillo. Si domandò con angoscia come mai avesse potuto trovare qualcosa di spirituale o di spiritualizzabile in quel viso. Balbettò qualcosa e la ragazza gli saltò sulla voce: «Lei è un cretino!». Don Camillo intervenne: «Ragazza, cerchiamo di non far cagnara e di liberare il passaggio. Qui non siamo nella vostra osteria, qui siamo in chiesa». «Voi non avete il diritto di sfruttare la mia fisionomia per le vostre Madonne!» replicò aspra la Celestina. «Nessuno ha mai pensato di sfruttarvi» affermò don Camillo. «Io non so cosa cerchiate.» «C'è gente che ha visto la Madonna con la mia faccia!» gridò la Celestina. «Provate a mentire se siete capace!» Don Camillo si sentì a disagio. «Non c'è nessuna Madonna con la vostra faccia, né potrebbe mai esserci» replicò don Camillo. «Comunque, poiché
nell'immagine dipinta da questo giovanotto qualcuno ha trovato una sia pur lontana somiglianza con voi, domani l'immagine sarà scalpellata via e rifatta.» «Voglio vederla!» esclamò la ragazza. «E voglio che le cancelliate subito la mia faccia. In mia presenza.» Don Camillo guardò quel viso deturpato dalla collera, pensò al dolce viso della Madonna del Fiume e disse: «Non è la vostra faccia. Potete controllare». La ragazza camminò decisa versa la cappelletta e, davanti alla balaustra, si fermò. Don Camillo prese la pertica e fece cadere la tela che copriva l'immagine. Poi guardò la Celestina. La Celestina rimase immobile a contemplare l'affresco ed ecco qualcosa di inaspettato, di straordinario. Ecco il viso della Celestina distendersi poco a poco, ecco gli occhi spiritati diventare via via sempre più dolci, sempre più sereni. Ècco sparire dal viso della Celestina ogni volgarità, eccolo quel viso diventare sempre più uguale al viso dell'immagine. Il giovanotto si aggrappò a un braccio di don Camillo. «Così io l'ho visto» sussurrò all'orecchio di don Camillo. Don Camillo gli fece cenno di star zitto. Ci fu qualche istante di silenzio poi si udì la voce sommessa della Celestina:
«Com'è bella!…». La Celestina non si stancava di guardare l'immagine, e a un tratto si volse verso don Camillo: «Non cancellatela, per favore!» implorò con voce piena d'angoscia. «Aspettate!» Quindi si inginocchiò davanti alla Madonna del Fiume e si segnò. Don Camillo rimase senza fiato e guardò sbalordito la Celestina allontanarsi singhiozzando, seguita dal pittore. Ritrovatosi solo in chiesa, don Camillo ricoprì l'immagine poi andò a confidarsi col Cristo dell'aitar maggiore: «Gesù» ansimò «cosa sta succedendo?». «Non me ne intendo di pittura» rispose sorridendo il Cristo. * La mattina dopo il giovanotto salì in bicicletta e pedalò verso il Fagiano. Lo stanzone dell'osteria era deserto e la Celestina stava cucendo a testa bassa seduta al solito posto. «Sono venuto a pagare il mio debito» disse il giovanotto. La Celestina rialzò lentamente il capo e il giovanotto si sentì il cuore gonfio di consolazione perché la Celestina aveva il viso dolce e sereno del ritratto.
«Come siete bravo!» sospirò la Celestina. «Com'è bella quella Madonna!» Il giovanotto balbettò qualcosa e la Celestina aggiunse: «È troppo bella: non la devono cancellare!». «Lo so, dispiace anche a me perché ci ho messo, nel dipingerla, tutta la mia anima e tutto il mio cuore, ma la gente dice che non è possibile lasciare in chiesa una Madonna che ha il viso d'una scomunicata…» La Celestina sorrise: «Io non la sono più, scomunicata: stamattina ho già fatto quel che dovevo fare». Il giovanotto rispose che non capiva e allora la Celestina gli spiegò tutto. Poi approfittò dello stupore del giovanotto per domandargli se fosse sua moglie quella che gli accomodava la biancheria e l'altro spiegò che nessuno gli accomodava la biancheria perché era solo al mondo e viveva come un cane. Allora lei osservò sospirando che, a una certa età, la solitudine pesa anche alle donne più corteggiate e si sente il bisogno di farsi una famiglia. Allora lo sciagurato ammise che quello di farsi una famiglia era sempre stato il suo sogno ma che riusciva a malapena a vivere da solo. Allora la Celestina replicò saggiamente che ciò succedeva perché il giovanotto viveva in città dove tutto costa il doppio. Mentre, se fosse vissuto in campagna, avrebbe trovato ogni cosa più facile tanto più se la sorte l'avesse fatto im-
battere in una brava ragazza con una casa piccola ma pulita e una azienda piccola ma redditizia. Allora il giovanotto disse qualche parola, ma subito suonò il mezzogiorno perché le ore passano spaventosamente alla svelta quando si chiacchiera di queste faccende, e la ragazza si alzò e andò a prendergli pane, salame e vino. Quando ebbe mangiato il giovane domandò: «Quanto fa?». «Pagherete domani» rispose la Celestina. * La Madonna del Fiume rimase nascosta dietro il telone circa un mese. Ma il giorno in cui il giovanotto e la Celestina si sposarono in pompa magna con accompagnamento d'organo, don Camillo tirò su il sipario e inondò di luce la cappelletta. Don Camillo era un po' preoccupato per quel che avrebbe potuto dire la gente vedendo che la Madonna del Fiume aveva la faccia della Celestina; ma la gente commentò semplicemente: «Figurati! Le piacerebbe alla Celestina essere bella come quella pittura! Non le somiglia neanche lontanamente».
193 IL COMPAGNO GRAMIGNA Una quercia di trecento anni pare qualcosa di formidabile e la si guarda con occhi pieni di reverente stupore. Poi, quando arriva la folgore che spacca la pianta da cima a fondo, ci si rende conto che una quercia non è che un filo d'erba un po' più grosso degli altri fili d'erba. La gente guardava ammirata e intimidita Peppone che emergeva dalla massa come una quercia secolare, ma un giorno improvvisamente tutti si accorsero che Peppone era semplicemente un uomo un po' più grosso degli altri uomini. Peppone, già da un pezzo, aveva il motore giù di fase. Continuava a marciare perché l'asta era buona: però sentiva che non poteva durare molto. Per gli uomini forti, il dover ricorrere al dottore è una cosa umiliante, addirittura da vergognarsene come d'una vigliaccheria. E Peppone, uomo forte anche troppo, tenne duro per mesi e mesi. Finalmente, anche per far tacere una buona volta sua moglie che continuava a torturarlo, cedette e andò dal dottore. Il dottore fece tutto il suo possibile per riuscire a capire cosa accidente si fosse sgranato o sbiellato in quella gran macchina e, alla fine, allargò le braccia:
«Per me c'è qualche pasticcio nei polmoni: vada in città e si faccia fare una radiografia. Così vediamo». Peppone tornò a casa furibondo. Spiegò urlando a sua moglie che il dottore era un cretino e che la storia dei raggi era un trucco per cavar quattrini alla gente: «È tutta una ghenga di banditi» gridò. «Il medico ti manda dal radiologo, il radiologo dal cardiologo, il cardiologo dal fegatologo, il fegatologo dal cancerologo, il cancerologo dal chirurgo. Ti aprono, ti richiudono, ti riaprono, ti fanno tremila iniezioni, ti ingozzano di specialità, ti seppelliscono per mesi e mesi in una clinica cara come il chinino e, alla fine, ti rispediscono a casa dopo averti fregato quattrini e salute. Dal radiologo ci vada lui.» La moglie lo lasciò sfogare, poi incominciò a battere il chiodo: «E allora, quando vai dal radiologo? Perché non vai dal radiologo?». Peppone resistette per cinque o sei giorni. Poi comunicò alla moglie le condizioni della resa: «Ci vado se mi accompagni tu». La moglie lo seguì in città e gli fece compagnia nell'anticamera del radiologo. Peppone fu fortunato perché c'era una quantità enorme di gente ad aspettare, così potè ambientarsi e trovare la forza di entrare da solo nel gabinetto del radiologo.
Il radiologo, uomo di pochissime parole, lesse il biglietto d'accompagnamento del dottore, disse all'infermiera di prendere nota del nome. Poi fece il suo lavoro. «Professore, c'è niente?» domandò Peppone quando il radiologo ebbe finito. «Devo studiare la lastra» rispose il radiologo. «Mandi dopodomani a ritirare lastre e referto.» Peppone, rivestitosi, tornò in anticamera piuttosto preoccupato e spiegò la faccenda alla moglie che lo rianimò: «Se ci fosse stato qualcosa di grosso, te lo avrebbe detto subito. Se prima deve studiare la lastra, significa che lui non ha trovato niente». Peppone si consolò, ma una volta arrivato a casa la preoccupazione lo riprese. «Perché mi ha detto: "Dopodomani mandi a ritirare lastre e referto"? Perché non mi ha detto: "Dopodomani venga a ritirare lastre e referto"?» «Non ti fare fissazioni su delle stupidaggini!» rispose la moglie. «Stupidaggini un accidente! Quando scoprono che un malato ha un male grosso molto, evitano di dirglielo per non impressionarlo e lo dicono ai parenti!» La donna cercò di tranquillizzarlo, ma Peppone era oramai in pieno crollo morale e così dovette mettersi subito a letto perché gli saltò addosso una febbre da cavallo. Rimase a letto anche il giorno seguente e, arrivata la sera, fece chiamare il dottore:
«Domattina le lastre sono pronte e io, che ho capito l'antifona, sono sicuro che ho dentro qualche accidente grosso». «Non si impressioni…» «Lasci perdere! Il fatto è questo: io non posso andare perché sto male. D'altra parte non voglio che vada mia moglie perché se, come temo, ho un brutto male, mia moglie non ne deve sapere niente. E neanche i miei figli. Quindi faccia lei un biglietto al radiologo dicendogli di sigillare la busta e di consegnarla sigillata al latore della presente che porterà la busta a lei e se ne parlerà poi fra noi due.» La mattina dopo lo Smilzo partì in motocicletta, ritirò la busta, pagò quel che c'era da pagare e prese la via del ritorno. Intanto Peppone bruciava. Quando Dio volle, arrivò il dottore. Peppone lo sentì entrare, sentì la moglie chiedere al dottore se ci fosse qualche guaio. Sentì che il dottore rispondeva allegramente: «Niente di grave, signora! Stia tranquilla!». Sentì la moglie compiacersi della buona notizia. E sentì pure che la notizia non era buona per niente. Lo capì guardando il dottore, appena il giovane fu entrato nella camera. «Come sta?» domandò cercando di essere gioviale il dottorino. «Come sto? Lei lo deve dire a me come sto!» Il dottorino era piuttosto imbarazzato: «Non si preoccupi: ho visto lastre e referto… Niente di gravissimo. Lei deve semplicemente stare molto tranquillo,
non agitarsi e seguire la cura… Mi metterò d'accordo con sua moglie, per la cura». Peppone si levò a sedere sul letto: «Dottore, lei non si deve mettere d'accordo con nessuno!» disse cupo. «Lei deve mettersi d'accordo soltanto con me! Avanti. Si sbottoni!» Il dottorino si asciugò il sudore. «Se lei si eccita è peggio. Lei ha bisogno di tutta la sua serenità…» «Io ho bisogno che lei la pianti di fare la commedia!» ruggì Peppone. «Cacci fuori la busta!» Il dottorino allargò le braccia, frugò nella sua borsa di pelle e trasse le negative e il foglio allegato. Peppone guardò la roba nera e grigia delle lastre, lesse le strane cose scritte sul referto, poi urlò: «Non capisco un accidente! Cosa significa?». Il dottorino incominciò a tirar fuori delle parole difficili, ma Peppone lo interruppe furibondo: «Lasci perdere: chiami le cose col loro nome! Dica quello che ho usando le espressioni correnti del paese!». Il dottorino rispose che era difficile trovare, nel parlar comune, una espressione che desse con esattezza l'idea del male, e Peppone sbuffò: «L'aiuto io! Cos'è, un tumore maligno?». «No!» rispose il dottorino. «Tanto per usare un'espressione dialettale approssimativa, si dovrebbe parlare piuttosto di quella che la gente chiama tisi galoppante…»
Peppone si calmò e tornò a distendersi. «Totale?» «Totale in che senso?» balbettò il dottorino. «Totale nel senso di tirare le somme e fare il punto preciso della situazione!» Il dottorino tentò affannosamente di ingarbugliare le cose, ma Peppone gli saltò sulla voce: «I casi sono due: o lei crede di aver a che fare con una femminuccia o la femminuccia è lei. Io sono un uomo e voglio trattare con uomini: se non è capace di dirmi la sentenza esatta, si tolga dai piedi. Farò venire un dottore dalla città». Il dottorino sospirò. «E allora?» intimò Peppone. «Allora, dato che lei lo vuole, le dirò che, stando alle lastre e al referto, i suoi polmoni sono in uno stato preoccupante. Lei deve immediatamente essere ricoverato in un sanatorio.» Peppone guardò negli occhi il dottorino: «E cosa ci vado a fare in sanatorio?». Il dottorino allargò le braccia: «Lei è di una robustezza eccezionale e, aiutato dalle cure e dall'aria, può riprendersi. Se resta qui, la sua sorte è segnata irrimediabilmente». Il dottorino si avvicinò e gli spiegò con estrema precisione il senso delle macchie nere e grigie delle negative. «Ho capito» osservò alla fine Peppone. «Come un motore coi cilindri crepati.»
«Non precisamente» rettificò il dottorino. «Un motore coi cilindri che stanno per crepare.» «Questione di pochi giri!» «Cambiando il regime di giri, il carburante e il lubrificante, il motore può continuare a girare ancora parecchio. Anche degli anni.» Peppone afferrò il dottorino per un braccio: «Lei è un giovanotto che sa il fatto suo: se lei dovesse ragionare a regola di briscola, senza tener conto dei possibili miracoli, quanti giri mi darebbe?». «Due mesi, signor sindaco» rispose il dottorino abbassando la testa. «Grazie» disse Peppone. «Mi raccomando: non ne parli con nessuno. Nessuno deve sapere. Adesso ho le ossa rotte: è la febbre. Appena mi sarà passata partirò. È soprattutto un dovere nei riguardi dei miei. Lei racconti qualche balla a mia moglie.» Ma il dottorino non potè raccontare nessuna balla alla moglie di Peppone perché la donna era rimasta a origliare dietro la porta e aveva sentito tutto. E il dottorino, uscendo dalla stanza di Peppone, se la trovò davanti sgomenta. «Taccia, non parli di questo con nessuno!» le ordinò duramente il dottorino. «Non aggravi la situazione. Dica che è influenza.» La poveretta giurò che non avrebbe fatto parola con anima viva. Naturalmente, siccome aveva un magone grosso
come un dirigibile, andò a confidarsi con la vecchia madre. Così, il giorno dopo, la notizia galoppava per il paese. La bocca di una vecchia è un mulino a vento. * Peppone dovette rimanere a letto due giorni interi: la mattina del terzo si alzò sfebbrato. Aveva la barba lunga, ma non volle farsela perché non gli bastava il coraggio di guardarsi nello specchio. Uscì di casa di nascosto e marciò decisamente sulla Casa del Popolo. Era domenica e trovò tutto lo stato maggiore radunato. «Salve, capo! Come va?» domandò lo Smilzo vedendo apparire Peppone. «Bene!» rispose Peppone. «L'influenza bisogna passarla tutti.» Trasse di tasca un mezzo toscano, se lo ficcò in bocca. L'accese, ma non fece a tempo a tirare la seconda boccata perché incominciò a strangozzare come se uno gli avesse ficcato un braccio in gola e gli avesse rivoltato il sacco dello stomaco. Gli lagrimavano gli occhi e, prima che la carburazione fosse ritornata normale, ci volle del tempo. «Non dovresti fumare!» esclamò lo Smilzo.
Peppone scrollò le spalle. Buttò giù un bicchier d'acqua e domandò: «Che novità ci sono?». Gli uomini dello stato maggiore si guardarono in faccia. «Niente!» rispose il Lungo. «Quella poca corrispondenza che è arrivata è già stata sbrigata.» «E chi ha firmato?» s'informò Peppone. «Io» rispose il Lungo. «Si trattava di robetta di normale amministrazione.» Intervenne lo Smilzo: «Invece di perdere tempo, mostragli il copialettere!» esclamò con impazienza. Il Lungo allargò le braccia: «Non vai la pena! Ho detto che si tratta di normale amministrazione. Tesseramento, campagna stampa, eccetera». Lo Smilzo strinse i pugni: «Lungo, mostragli il copialettere e piantala di chiacchierare!». Il Lungo ebbe un gelido sorriso: «Smilzo, occupati dei fatti tuoi e abbassa la cresta se no te la faccio abbassare». Peppone pestò un pugno sul tavolo: «Lungo» urlò «caccia fuori il copialettere immediatamente!». «Con la calma si fa tutto, compagno!» rispose il Lungo mostrando una faccia che tirava gli schiaffi lontano un miglio.
Una cosa così straordinaria non era mai successa e Peppone ne rimase come folgorato. Poi si riprese e fece per scattare ma sentì, aggrappate alle sue braccia, le mani dello Smilzo, del Bigio e del Brusco. Peppone si volse e incontrò i soliti occhi del solito Smilzo, del solito Bigio, del solito Brusco. Ma gli occhi del Lungo, del Falchetto, del Rossino e degli altri tre "ragazzi" che stavano attorno al Lungo, non erano i soliti. «Con la calma si fa tutto» ripetè il Lungo muovendosi lentamente e andando a prendere il registro del copialettere da un cassetto della scrivania. Quando Peppone ebbe passate le ultime pagine del copialettere pestò una manata sul registro: «Non va!» gridò. Il Lungo allargò le braccia: «Le risposte sono state concordate fra tutti e approvate da tutti». «Eccettuati noi tre!» replicò lo Smilzo. «Per forza, non c'eravate! Si trattava di rispondere con la massima urgenza e io ho dovuto consigliarmi con chi c'era. Il Partito deve funzionare sempre. La marcia deve continuare senza nessuna sosta: non ci si può fermare per aspettare chi è rimasto indietro o è caduto dentro il fosso.» Peppone non rispose: agguantò il registro del copialettere e, strettolo nella morsa delle mani, lo torse per spaccarlo in due.
Ma non riuscì nemmeno a piegarlo. Era come se a Peppone avessero recisi i muscoli. Il Lungo allargò le braccia: «Bei tempi!» sospirò. «Hai tanto bisogno di riposo, compagno!» Peppone rimise il registro sulla scrivania. Si alzò e, senza guardare nessuno, uscì. Per tornare a casa prese la strada dei campi e camminò a testa bassa ma non era solo: lo Smilzo, il Bigio e il Brusco lo seguivano. Quando se ne accorse, si volse: «Tornate indietro!» disse. «Il vostro posto è là.» «Il nostro posto è vicino a te» rispose il Brusco. «Se posso ancora darvi un ordine, vi ordino di tornare là e rimanere sempre là: adesso più che mai.» I tre si guardarono, poi strinsero la mano a Peppone e fecero dietro-front. Peppone rimase solo e lentamente riprese a camminare verso la sua casa. * Trovò ad aspettarlo il dottore: «Lei deve partire subito! Io e sua moglie ci siamo interessati per trovare il sanatorio più adatto». «Lei mi ha tradito, dunque!» esclamò Peppone. «Ha parlato!»
«No, glielo giuro! Sua moglie ha sentito tutto. Stava nascosta dietro la porta.» Intervenne la moglie: «Io l'ho detto soltanto a mia madre! Te lo giuro!». Peppone sorrise tristemente: «Allora, se lo sapeva soltanto tua madre tutto è spiegato. Partirò stasera stessa. Farò il viaggio in treno: non mi sento di sopportare le scosse della macchina». Peppone andò a chiudersi nella sua stanza dove rimase sdraiato fino a quando non arrivò, verso le quattro del pomeriggio, il dottore. Gli provò la febbre, gli sentì il cuore. «Può viaggiare» concluse. «Avvertiremo telefonicamente la direzione della casa di cura. Lei non pensi a niente: arriverà a S. alle ventidue. Qui ci sarà ad aspettarla la macchina. Sua moglie poi provvederà a farle avere quello che le bisogna.» «Sta bene» rispose Peppone. «Adesso toglietevi dai piedi. Non voglio vedere nessuno, prima di partire. Prenderò la scorciatoia del Bruciatino e mi imbarcherò alla stazione di Torricella. Che mia moglie se ne vada coi ragazzi. Se no va a finire che mi si spacca il cuore e resto secco qui.» Quando si trovò solo in casa, Peppone si mise all'ordine i vestiti e scese. Uscì e, prima di uscire, volle dare un'occhiata all'officina.
Tutto pareva a posto ma, guardandosi attorno, Peppone scorse, abbandonata in un angolo, la mazza, quella che adoperava per domare il ferro più grosso. La tirò su per metterla sopra l'incudine. Pesava spaventosamente. Un tempo, poco tempo fa, egli la maneggiava come un gingillo. Secondo il dottorino egli aveva al massimo due mesi di vita. Il pensiero gli mise l'orgasmo addosso. Bisognava che andasse via subito. Il sentiero attraverso i campi passava, quasi subito, dietro la chiesa: Peppone costeggiò le mura della chiesa ed entrò per la porticina del campanile. * Don Camillo stava ritoccando la statua di Sant'Antonio Abate e, quando Peppone gli comparve davanti così inaspettato, ebbe quasi un sussulto. «Mi hai fatto quasi paura!» borbottò. «I fantasmi fanno sempre impressione» rispose Peppone. Don Camillo scrollò la testa. «Si parte, reverendo. Sarete contento di cambiar sindaco.»
«Io no: un «rosso» vale l'altro e tutt'e due non valgono niente.» «C'è chi sarà contento che io crepi, reverendo. Gli stessi che schiattavano di contentezza quando è morto Stalin.» «Non dire stupidaggini. Stalin era un'altra cosa.» Peppone ridacchiò: «Due mesi! Crepo giusto giusto. Bel colpo, reverendo! Bel colpo per le elezioni. Che trionfo, reverendo, quando passerete per il paese davanti al mio carro!». Don Camillo ebbe un tuffo al cuore: «Ah!…» balbettò. «Però, se non siete un vigliacco, la bandiera rossa la dovete lasciare nel funerale. La mia bandiera per la quale ho lottato da galantuomo, la voglio!» «La tua bandiera sì… Ci sarà, a costo di farmi spretare… Ma se i tuoi, poi, non vogliono che ti porti io al cimitero?» «Quella che deve contare è la mia volontà!» replicò duro Peppone traendo di tasca una busta suggellata e consegnandola a don Camillo. «Qui ci sono le disposizioni per il funerale. La aprirete come sta scritto sulla busta quando mi avranno portato qui morto.» Don Camillo cercò di reagire: «Ma che storia è questa? Hai proprio deciso di morire!». «Non ho deciso io, ha deciso Quello là.» Don Camillo scosse il capo:
«Per ora Quello là non ha deciso niente. Per ora chi ha deciso è un medico. Ma l'avvenire non è nelle mani dei medici, è nelle mani di Dio». Peppone sorrise: «Parlerei così anche io se avessi i vostri polmoni, reverendo». «Basterebbe che tu avessi un pochino della mia fede.» «Se ce l'ho o non ce l'ho sono affari miei.» «Peppone, già che sei qui, potresti almeno inginocchiarti davanti a Cristo e implorare il Suo aiuto.» «No: se mi vuol salvare, mi salvi in piedi. Non voglio che Dio creda che io ho paura.» «Tu bestemmi nella Casa di Dio!» «Dio sa che io non bestemmio. Dio capisce più di voi: non ho bestemmiato quando ho saputo la sentenza. Dio mi ha dato la vita quando ha creduto bene darmela. Mi può dare la morte quando è giusto che io muoia.» Don Camillo sospirò: «Non vorresti per caso confessarti?». «Quando sarà ora.» «Posso fare qualcosa per te?» «Per me no: date un'occhiata ai miei ragazzi.» «Pregherò per te.» «Non occorre. Dio sa quel che deve fare. Non si lascerà influenzare dalle vostre preghiere. Preghiate o non preghiate, Dio è giusto e agirà secondo giustizia.»
«Tu bestemmi: secondo te la preghiera non conta dunque niente?» «La preghiera serve per salvare le anime, non i corpi.» Peppone si avviò verso l'uscita. Poi si fermò: «Reverendo, voltatevi perché voglio segnarmi senza che mi vediate: io voglio dare una soddisfazione a Gesù Cristo, non a un prete reazionario!». Don Camillo si volse cadendo in ginocchio e, quando levò la testa, Peppone era scomparso. Allora don Camillo si volse angosciato al Cristo dell'aitar maggiore: «Gesù, non mi ha neanche salutato!». «Don Camillo, ha salutato me. È più che sufficiente.» Allora don Camillo incominciò a trovare una crescente difficoltà a respirare e gli parve che, assieme a Peppone, se ne fosse andato un pezzo del suo cuore. * Il Bigio, il Brusco e lo Smilzo trascorsero due orrende giornate alla Casa del Popolo: il Lungo e la frazione dei duri avevano già preso praticamente possesso della sezione. E i tre fedelissimi di Peppone continuavano a lottare con sempre maggior disperazione difendendo il sistema e i princìpi di Peppone.
La notte del secondo giorno la trascorsero quasi tutta in tremende discussioni. Il Lungo aveva argomenti che piacevano agli scatenati, ai giovani spietati sempre in lotta con la vecchia guardia. Non arrivarono a nessuna decisione per la successione ufficiale di Peppone e si lasciarono con l'accordo di ritrovarsi alle otto del mattino seguente. E alle otto erano tutti presenti, quelli dello stato maggiore: e tutti pieni di irritazione per la stanchezza. Una faccenda che sarebbe finita a cazzotti di sicuro. E lo si capì subito dalle prime battute della discussione. Alle nove le premesse per dare una spazzolata maiuscola allo Smilzo, al Bigio e al Brusco erano già tutte state poste. Alle nove e dieci il Falchetto, difatti, agguantò per gli stracci lo Smilzo e gli mise un grosso pugno sotto il naso. Alle nove, dieci primi e tre secondi, una mano che pareva il castigo di Dio sradicava il Falchetto e lo faceva volare in un angolo. Dietro quella mano c'era il resto di Peppone. Un Peppone che scoppiava di salute. Il copialettere stava sulla scrivania: le mani di Peppone lo agguantarono, lo torsero e lo spaccarono in due. Poi i due pezzi di registro volarono in faccia al Lungo. «Chi non intende uscire dalla porta, si metta in nota e io mi impegno a farlo passare a calci attraverso le inferriate della finestra» spiegò Peppone.
Lo Smilzo, il Bigio e il Brusco continuavano a guardare sbalorditi Peppone e non riuscivano a parlare. «Niente miracoli» spiegò Peppone. «Alla casa di cura mi hanno fatto subito i raggi e si sono accorti che io ho i polmoni più sani dell'universo. Le lastre non erano le mie, ma di un altro Giuseppe Bottazzi, della mia età precisa che s'era fatto la radiografia il giorno prima di me. Operatori diversi, infermiere diverse. Nomi identici. Cose che succedono. Ci vediamo stasera. Adesso devo liquidare un certo affare.» * Don Camillo ricevette Peppone in canonica. «Tutto perfettamente a posto, reverendo. Son tornato a riprendere la mia lettera.» Superato il suo stupore, don Camillo gridò: «E tu, invece di ringraziare Dio, pensi alla lettera?». «Dio non c'entra. Dio non fa errori di buste e se anche tre milioni di persone si chiamano tutte con lo stesso nome e cognome, Dio li conosce uno per uno e sa quale è il buono e quale il cattivo o il così così. Vi è mancato un bel colpo per le elezioni, reverendo.» «Il mio partito vincerà sempre» rispose don Camillo indicando il Crocifisso. Peppone ripetè che rivoleva la lettera con le disposizioni per i funerali.
«Hai dunque deciso di non morire mai più?» si informò don Camillo. «Morirò quando sarà ora, reverendo.» «Le disposizioni serviranno per allora. Lasciamo la lettera sigillata fra i documenti della parrocchia. Nessuno sa, neppure io, quel che c'è scritto dentro la busta.» «E se, per caso, doveste morire prima voi di me?» «Nessuno muore "per caso". A ogni modo niente di male: passerei la busta sigillata al mio successore.» «Il vostro successore?» borbottò Peppone. «Ma ci sarà poi da fidarsi?… Comunque è impossibile che voi moriate prima di me. Le erbe grame sono dure da estirpare.» «Arrivederci, compagno Gramigna!» rispose don Camillo.
194 IL CANALACCIO Il Canalaccio era una piaga grossa, una piaga che si allargava sempre di più ma che nessuno poteva neppur medicare perché il Canalaccio apparteneva al Boccia. Un tempo, il Canalaccio serviva al Boccia per azionare un mulino giù alla Pioppetta: adesso serviva semplicemente a rovinare i poderi attraverso i quali passava nel suo lungo e tortuoso giro. Infatti, se il mulino a un bel momento s'era fermato, l'acqua aveva continuato a camminare e così – non toccato per vent'anni da vanga o da badile – il fondo del Canalaccio s'era via via alzato. E così, venuta a scorrere quasi a pelo di terra, l'acqua si infiltrava nell'humus dei campi attraversati dal canale. E, quando per le piogge o per il disgelo il livello dei corsi d'acqua aumentava, i campi costeggiami il Canalaccio si allagavano. Guaio grosso in quanto, da che mondo è mondo, l'acqua scorre dal sopra verso il sotto e perciò il Canalaccio – dovendo raccogliere da ogni dove acque da portare alla Pioppetta – era stato scavato nella parte più bassa della zona. E le terre più vicine alla Pioppetta, costrette a sorbirsi gli scoli convogliati dal Canalaccio e non potendo liberarsi dell'acqua ingollata, dovevano tenersela.
Il danno che questa faccenda procurava ai frontisti era grosso; ma il Boccia, ogni volta che l'avevano sollecitato a far sfondare il canale, aveva risposto: «Il canale è mio e i campi sono vostri: arrangiatevi». Nessuno era mai riuscito a smuovere il Boccia: ripetutamente i frontisti, avendo la legge dalla loro parte, iniziarono una azione comune contro il Boccia. Ma, fatti i primi passi, dovettero fermarsi perché si accorsero che, se essi avevano dalla loro parte la legge, il Boccia aveva dalla sua parte i quattrini. Soltanto nel Comune, il Boccia possedeva millecinquecento biolche di terra: circa un miliardo e mezzo di roba. E le migliaia di biolche che possedeva da altre parti? E i palazzi in città? E i quattrini in banca? E i beni all'estero? Anche il proprietario più grosso della zona, quello che, dopo il Boccia, aveva le costole più dure, piuttosto che attaccarsi col Boccia vendette uno dei suoi poderi traversato dal Canalaccio. * Quando il Comune venne conquistato dai «rossi» e pareva che tutto dovesse cambiare, una commissione di affittuari e mezzadri andò da Peppone e gli sottopose il problema del Canalaccio:
«La terra rovinata dal Canalaccio non è nostra, ma la lavoriamo noi e il prodotto serve per tutta la Nazione. Chi danneggia la terra che noi coltiviamo danneggia quindi dei lavoratori e il patrimonio nazionale: bisogna costringere il Boccia a sfondare il canale». Peppone allargò le braccia: «Tutto giusto!» rispose. «Però come faccio? Il Boccia non abita qui, se ne sta al sicuro all'estero: mica possiamo prenderlo per il cravattino. Mica possiamo occupare il canale.» «Potete fare eseguire i lavori e poi costringere il Boccia a pagare. Sequestrategli i poderi!» «È presto: prima bisogna vincere le elezioni politiche e poi si potrà sistemare ogni cosa.» Ma i «rossi» non vinsero le elezioni politiche e il Canalaccio rimase tale e quale. Vinsero i clericali e allora la commissione andò a confidarsi con don Camillo. Ma anche don Camillo allargò le braccia e scosse il capo: «E cosa ci posso fare io? Un mese fa, appena ho saputo che il Boccia era tornato dall'estero, sono andato a trovarlo per pregarlo di regalare al paese mille metri di terra per tirar su l'Asilo. Mi ha guardato come se gli avessi domandato di regalarmi una delle sue gambe. "Siete matto, reverendo? Coi tempi che corrono?" Allora ho trovato i quattrini per pagargliela, la terra, e sono andato a domandargli se me li vendeva i mille metri di terra per l'Asilo. Mi ha risposto che per prin-
cipio lui non vende niente. Ho fatto intervenire il Vescovo, dei deputati: niente. Ho scritto a Roma e mi hanno spiegato che per il momento non si può costringerlo a dare la terra». Quelli della commissione insistettero e don Camillo fece un esposto al Ministero dell'Agricoltura: che il Governo espropriasse il Canalaccio e ne assumesse la gestione. Gli risposero che il Governo non era in grado, per il momento, di assumere altri oneri: ne aveva già troppi. Intervennero allora i proprietari dei terreni attraversati dal Canalaccio e portarono la questione davanti alla associazione degli agrari. «E cosa possiamo farci?» risposero i dirigenti. «Intentare un'azione legale contro il Boccia che è nostro consociato?» «È sufficiente cacciare il Boccia fuori dalla associazione e ogni cosa diventerà facile» obiettò uno dei proprietari. «Tutti conoscono che pellaccia sia il Boccia, e gli avversari, quando vogliono dare un'idea dell'agrario, citano il Boccia. Parlano del suo egoismo, della sua pitoccheria, della sua prepotenza, della sua insensibilità. E, purtroppo, è verità sacrosanta perché non c'è al mondo uomo più gretto del Boccia e, se volete vedere della gente che abita in case schifose, peggio della peggiore stalla, dovete visitare i poderi del Boccia. «Il Boccia è un uomo che, da solo, riesce a screditare un'intera categoria. Eliminarlo dall'associazione e intentargli causa sarebbe un affare.»
«Un affare per i nostri avversari!» obiettò il presidente degli agrari. «Faremmo il loro gioco: coi mezzi e con la testardaggine del Boccia, una azione legale contro di lui diventerebbe clamorosa e interminabile perché egli si accaparrerebbe i migliori difensori dell'universo. E allora ve la figurate che pacchia per i giornali comunisti? Come possiamo, proprio noi, offrire alla stampa avversaria una magnifica occasione per scrivere un romanzo a puntate intitolato: "Gli agrari della Valle Padana si chiamano Boccia?". I panni sporchi si lavano in famiglia.» Il Canalaccio rimase quello che era e, giorno per giorno, il danno per i frontisti aumentava. E, fra tutti, il maggior danneggiato era il povero Bonetti. * Il Bonetti era proprietario di due ettari di terra sistemati nel più disgraziato dei modi. In origine, il poderetto faceva parte d'un grosso appezzamento rettangolare delimitato a nord dalla Strada Nuova e a est dalla Strada Quarta. E in origine il Canalaccio non passava per il grosso appezzamento: ci arrivò in un secondo tempo, quando evidentemente venne rettificato e – traversata la Strada Nuova poco prima dell'incrocio con la Strada Quarta, per traversare poi la Strada Quarta poco prima dell'incro-
cio con la Strada Nuova – il Canalaccio venne a smussare l'appezzamento rettangolare tagliandone l'angolo di nord-est. E così nacque il più infelice podere dell'universo perché avente la forma d'un triangolo rettangolo con i cateti sulle due strade e con l'ipotenusa sul Canalaccio. Come se ciò non bastasse, l'angolino stava nella parte più bassa del grande appezzamento: così, quando il Canalaccio incominciò a non funzionare più come doveva, i due ettari presero a immagazzinare acqua sino a esserne completamente impregnati. Per il Bonetti, che era arrivato a comprarsi con fatiche spaventose quella fettolina di terra, fu un disastro. Ed era logico che il Bonetti fosse quello che col Canalaccio ce l'aveva più di tutti. Altro è togliere cinquanta grammi di pane a uno che ne ha soltanto un etto e altro è togliere cinquanta grammi a chi ne ha due chili. Il Bonetti tentò tutto quello che poteva tentare ma, il giorno in cui arrivò a scrivere anche al Papa senza, per questo, poter niente risolvere, decise di agire d'iniziativa. E, ogni volta che aveva un po' di tempo libero, attaccava al carretto il cavallo e andava al fiume a cavare sassi e fanghiglia. E scaricava poi sassi e fanghiglia lungo la riva del Canalaccio. La gente gli domandò che progetto avesse e il Bonetti rispose:
«Faccio come l'Olanda. Tiro su una diga per proteggermi». La gente si mise a ridere: il difetto era nel manico. Non contava niente fare un pezzetto d'argine quando il fondo del Canalaccio rimaneva quasi a pelo di terra. L'acqua avrebbe continuato a filtrare sotto-sotto. Se voleva difendersi, il Bonetti avrebbe dovuto fare lungo il Canalaccio un argine sotterraneo di cemento impermeabilizzato. «Lo so» rispose il Bonetti. «Io faccio l'argine lungo la riva, così la terra, sotto il peso dell'argine, si schiaccia, perde la porosità e l'acqua non filtra.» Allora la gente non rise più: scosse il capo e disse che il povero Bonetti era diventato matto. Lo lasciarono bollire tranquillo nel suo brodo e il Bonetti continuò a portare terriccio e sassi. Quando ne ebbe portato una grossa quantità, incominciò il lavoro di sistemazione e qui la gente non potè più stare zitta. Infatti, il povero Bonetti, coi ciottoli e il terriccio, s'era messo a costruire non un argine ma una specie di muraglia lungo il Canalaccio, e questa era più che pazzia. «Io voglio schiacciare la terra sotto» spiegò calmo il Bonetti. «Più mi allargo alla base e meno schiaccio. Io devo concentrare il peso maggiore nel minor spazio possibile.» La gente scosse il capo e lo lasciò tranquillo concludendo: «È diventato scemo».
Ma il Bonetti non era diventato scemo; infatti, quando ebbe finito, dopo mesi e mesi di lavoro, la sua grande muraglia, una notte zitto zitto bloccò il canale a valle, davanti all'imbocco del ponticello sotto il quale il Canalaccio traversava la Strada Quarta. E aspettò tranquillo. Accadde quel che doveva accadere: il canale si riempì d'acqua e ben presto straripò andando a bagnare la base del muraglione. Il Bonetti aveva costruita la base del muraglione in modo speciale, mettendo i ciottoli grossi dalla parte del podere e, dalla parte del canale, ciottoli piccoli tenuti assieme da malta di terra. L'acqua inumidì rapidamente la terra, e i ciottoli piccoli, non più legati, smottarono. Mentre i grossi, quelli verso l'interno, essendo legati con malta di cemento non si mossero. E, a un bel momento, il muraglione precipitò dentro il canale bloccandolo da un ponte all'altro. Il Bonetti perfezionò la faccenda buttando paglia e ramaglie sotto l'arco del ponte della Strada Nuova: paglia e ramaglie che l'acqua spinse contro i sassi e il terriccio del muraglione crollato ostruendo ogni più piccola falla. L'acqua incominciò a invadere il primo podere oltre la Strada Nuova, poi il secondo e via discorrendo. Si allagò anche qualche strada bassa e, siccome aveva incominciato a piovere a catafascio, l'affare diventò rapidamente un mezzo cataclisma.
La casa del Bonetti si trovò invasa da un sacco di gente imbestialita. «Ve l'avevamo detto che stavate facendo una stupidaggine!» urlava la gente al Bonetti. «Avete visto il risultato della vostra testardaggine? Siete un vecchio cretino!» Il Bonetti lasciò dire limitandosi ad allargare le braccia. Ma poi, a forza di sentirsi ripetere che era un vecchio cretino, perdette la calma. «Non sono né vecchio né cretino perché ho quarantanove anni appena e perché è successo quello che volevo io. Nessuno intende interessarsi del Canalaccio? Ebbene, bisogna creare uno scandalo, provocare un fatto che costringa tutti a interessarsene. Invece di vociare come galline, tutti i frontisti facciano quello che ho fatto io: blocchino il Canale e, a un bel momento, quando l'acqua arriverà nelle strade, qualcuno dovrà ben muoversi e mettere all'ordine del giorno la sistemazione del canale!» Se non fossero arrivati in quel momento i carabinieri, la torma urlante dei frontisti avrebbe sbranato il povero Bonetti. Quando i carabinieri ebbero portato via il Bonetti per spedirlo in galera, i frontisti non si calmarono ma, pieni di sacrosanta indignazione, andarono a urlare in massa davanti al municipio. Erano scatenati e Peppone, per la prima volta in vita sua, impallidì. Agì immediatamente: fece la mobilitazione generale dei braccianti e li mandò a sbloccare il canale.
* Si recò egli stesso sui lavori: «Il canale deve essere liberato nel più breve tempo possibile!» urlò. «Non risparmiatevi! Ricordatevi che lavorate a tariffa doppia!» Lo Smilzo fu lasciato lì a sorvegliare i lavori, ma ben presto Peppone, che nel frattempo era rientrato in sede, se lo vide comparire davanti. «Non ce la faccio più a rimanere» spiegò lo Smilzo. «Mai visto gente sfaticata come quella là. Altro che tariffa doppia: calci ci vorrebbero! Non parliamo dei camion che portano via i sassi e la terra! Bisogna che tu intervenga: si rubano i soldi del popolo!» «Ma che soldi del popolo!» urlò Peppone. «Chi rompe paga. Pagherà quel farabutto che ha combinato il guaio.» Quando Dio volle, il Canalaccio fu liberato dai sassi e dal terriccio che vi aveva portato il Bonetti. E, quando Dio volle, il Bonetti venne mollato e potè tornare a casa sua. Ma, intanto, i frontisti avevano organizzato un'azione comune contro il Bonetti: «Deve pagare i danni che ci ha procurato, e li pagherà». Il Bonetti andò alla associazione degli agricoltori per farsi difendere ma lo cacciarono via malamente dicendogli che, se era matto, doveva rivolgersi al manicomio.
«Noi non possiamo difendere l'illegalità!» gli gridarono. «Noi non possiamo farci paladini del sopruso, dell'arbitrio!» Il Bonetti fu condannato a pagare danni e spese. Per trovare i quattrini necessari dovette cercar di vendere il poderetto. Gli risero in faccia, sentendo il prezzo che chiedeva: «Per un pezzo di terra marcio d'acqua voi avete il coraggio di domandare quei soldi?». Sei biolche di terra, a buttarle via, valevano sempre quattro milioni: trovò uno che arrivò a offrirgliene due. «Almeno due e mezzo!» implorò il Bonetti. «Non è possibile» gli risposero. «Così conciato com'è il podere non rende niente. Chi volete lo prenda in affìtto?» «Io» rispose il Bonetti. «Bene: se il fondo rende quello che dite, allora voi dovete darci almeno cinque quintali per biolca! Se non li date significa che il podere non li rende.» Il Bonetti accettò il contratto di affittanza per avere i due milioni e mezzo. La compratrice era una signora di città ed egli la intravide appena davanti al notaio. «Ricordatevi che noi esigiamo ordine e puntualità» spiegò la signora quando il Bonetti ebbe firmato. «Sono un galantuomo» rispose il Bonetti. *
Così, zuppo d'acqua, il podere non rendeva assolutamente di che pagare cinque quintali per biolca e il Bonetti si trovò ben presto nei guai. Lavorarono, il Bonetti e sua moglie, fino a scannarsi, ma giorno per giorno il podere deperiva per via del Canalaccio. Pagò sempre puntualmente l'affitto rimettendoci del suo e ce la fece perché, pagate le spese dei lavori di sgombro, le spese dei processi e i danni ai frontisti, gli era rimasto ancora qualcosa. Poi dovette ricorrere alla commissione per avere la riduzione dell'affitto, ma la commissione gli diede torto: «Chi poteva conoscere il podere meglio di voi? Se avete accettato vuol dire che potevate accettare. Anzi vi hanno dato i soldi che v'han dato appunto perché avete accettato il contratto dei cinque quintali». Così arrivò il momento in cui il Bonetti non ce la fece più a pagare e, una bella mattina, una macchina si fermò nell'aia e ne scese il Boccia il quale disse al Bonetti: «Scegliete, o regolare le pendenze, o sgombrare!». Il Bonetti balbettò che lui aveva un contratto con la signora tal dei tali ma il Boccia ridacchiò: «È mia moglie e gli affari di mia moglie li faccio io». Il Bonetti non riuscì a pagare ed ebbe lo sfratto. Allora si ribellò: «Mi mettano il podere nelle condizioni giuste, sfondino il canale e io pagherò tutto quello che devo pagare per il passato e il futuro».
E quando gli risposero che oramai il decreto di sfratto per inadempienza contrattuale era già firmato e quindi bisognava sloggiare, il Bonetti scosse il capo: «E dove vado? Di qui non mi muovo. Dovranno cacciarmi fuori i carabinieri». I carabinieri non vennero. Passarono due mesi ed ecco che un giorno arrivò una squadra di muratori che, senza dire né ai né bai, incominciò a scoperchiare il tetto della casa del Bonetti. «Noi abbiamo ordine così» spiegarono sghignazzando i muratori. «Dobbiamo incominciare i lavori di ripristino perché deve entrare il nuovo affittuario.» Il Bonetti scosse il capo: «Siete della povera gente come me: non dovete fare il gioco d'un prepotente ai danni d'un poveretto». «Siamo della povera gente come voi» gli risposero «e dobbiamo lavorare per mangiare. Per favorirvi non possiamo stare senza mangiare.» Il Bonetti si mise subito in giro per trovare un poderetto in affitto. Era roba difficile da trovare ma lo trovò finalmente a Gazzòla; cinque biolche di terra, quello che faceva per lui. Combinarono, però prima di definire il contratto il padrone si riservò di domandare informazioni. Domandò informazioni e il risultato fu che egli potè rispondere a chi gli chiedeva se avesse perfezionato l'affare col Bonetti:
«Bonetti? È una testa calda, un anarchico. Per mandarlo via da un podere perché non pagava l'affitto, hanno dovuto scoperchiargli la casa! Figuratevi se mi metto in casa un tipo così!». Quando, oltre al tetto, gli portarono via anche gli infissi, il Bonetti dovette andarsene. Vendette tutto e assieme alla moglie andò ad abitare in una casipola in paese. Lavorava a giornate dove poteva: alla strada, nei campi. Un giorno Peppone incontratolo gli disse: «Bonetti, prima magari non li conoscevi bene e non potevi giudicare: ma adesso li conosci bene, i signori. Perché rimani ancora nelle file dei loro difensori, invece di venire tra le file dei difensori del proletariato?». Il Bonetti allargò le braccia: «Così: per la stessa ragione per cui il pesce piccolo che rischia d'essere mangiato dal pesce grosso rimane sempre nell'acqua invece di andare a vivere sopra la terra dove non c'è il pericolo d'incontrare pesci grossi». Peppone scosse il capo: «Non è dunque riuscito a convincerti il Boccia?». «No, Peppone, il Boccia non è riuscito a convincermi che Dio non esiste. Io continuo a credere nella giustizia divina.» Peppone si mise a ridere: «Se lo sapesse il Boccia, chi sa come si divertirebbe!».
«Lo sa e non si diverte. Perché lo scopo suo e dei tipi come lui è quello di far perdere agli uomini la fede in Dio. Questa è la ricchezza che egli non ha né può avere e che vorrebbe togliere a chi la possiede per accomunare il maggior numero di gente possibile alla sua squallida miseria.» Peppone cacciò fuori un fischio ammirativo: «Questa è roba filosofica: dove l'hai letta?». «Da nessuna parte: me l'ha spiegata don Camillo.» «Ah» ridacchiò Peppone «volevo ben dire! Te l'ha spiegata lui!» «Sì, ma cosa importa? L'importante è che io l'ho capita» rispose il Bonetti. Passò la macchina del Boccia e Peppone domandò: «Non ti senti niente, dentro, quando vedi quello lì?». «Sento pietà per la sua carne maledetta» rispose il Bonetti. «Anche questo te l'ha insegnato il prete?» «No, ci sono arrivato da solo» rispose il Bonetti.
195 TRITOLO La prima lettera non turbò Peppone. Anzi gli fece piacere perché potè appiccicarla al giornale murale con questo efficace commento: «La lettera anonima è l'arma dei viliacchi e rivela la debolessa degli avversari. Non è con questi sistema che ci farete paura!». In verità la lettera era molto generica: «Pentitevi fin che siete in tempo! Abbandonate l'Anticristo e tornate a Cristo! Stracciate la tessera del PC!». Peppone appiccicò all'albo anche la seconda lettera. La terza però non la appiccicò: «Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire: ma noi troveremo il modo di farci ascoltare anche da chi non ci vuole ascoltare. Se sapete organizzarvi clandestinamente voi, lo sappiamo fare anche noi. E, se sarà necessario, useremo i vostri sistemi». Peppone mostrò la lettera agli uomini del suo stato maggiore e osservò: «Le lettere anonime non contano niente, però impressionano i più deboli. Dandole in pasto al pubblico noi facciamo il gioco dell'avversario che, con una lettera sola, riesce a farsi leggere da mille persone».
Poi arrivò, dopo una settimana, la quarta lettera che parlava «di dare un piccolo esempio, e anche presto se occorre», e allora Peppone si tenne la comunicazione per sé e non ne fece parola neppure coi fedelissimi dello stato maggiore. Ma la sera, alla riunione della Casa del Popolo, lo Smilzo cacciò fuori di tasca una lettera precisa identica a quella ricevuta la mattina da Peppone. E anche gli altri fecero lo stesso, perché ognuno degli uomini della vecchia guardia aveva ricevuto la missiva. La storia delle lettere anonime era incominciata in gennaio e alla fine di marzo durava ancora. E le lettere erano sempre più minacciose. Minacce vaghe ma, appunto per ciò, preoccupanti. «Questo mascalzone» osservò Peppone, ricevuta la quindicesima lettera «in definitiva non dice niente. Però è riuscito a rendere nervosi anche i nostri uomini migliori.» «Bisogna finirla» esclamò lo Smilzo. «Metterei la cosa nelle mani dei carabinieri.» Peppone scosse il capo: «Bravo! Così tutti diranno che noi abbiamo paura! Bisogna invece stare con gli occhi aperti. Le lettere portano tutte il timbro della città, ma sono sicuro che vengono di qui. E se il tipo parla sul serio e ha veramente intenzione di combinarci uno scherzetto, noi dobbiamo aspettarci lo scherzetto da qualcuno di qui. Conosciamo i nostri tipi: non perdiamoli di vista un solo minuto. Intensifichiamo la sorveglianza e, se il
mascalzone oserà tentare qualcosa, lo beccheremo. Non lasciamoci tirare nel laccio: il farabutto è uno del paese e il suo nome figura di sicuro nella nostra nota degli individui pericolosi». La sorveglianza venne intensificata, e se uno dei «pericolosi» si fosse anche semplicemente soffiato il naso in modo sospetto, alla Casa del Popolo lo si sarebbe saputo tre minuti dopo. Ma la serpe dell'insidia non aveva il suo nido in paese. La serpe dell'insidia aveva il nido lontano e, per quanto serpe forestiera, nessuno della squadra di vigilanza, pur vedendola, sospettò perché la squadra di vigilanza aveva occhi soltanto per le serpi del paese. * Una sera, una motoleggera si fermò davanti alla «Cooperativa di consumo» della Casa del Popolo, e ne scese un giovanotto forestiero che pareva recasse scritto in fronte: «Commesso viaggiatore». Tirò giù dal portapacchi una grossa valigia ed entrò. Si sedette a un tavolo e chiese pane, salame e un po' di vino. Prima di mettersi a mangiare domandò se ci fosse modo di ripulirsi un po'. Aveva le mani nere di morchia e spiegò: «Mi ha fatto diventar matto, quella maledetta baracca. Non riuscivo a capire che cànchero avesse. Quindici chilo-
metri a piedi, mi sono dovuto fare. Appena arrivato qui in paese ho visto un distributore ancora aperto e allora mi è venuta l'idea di quel che poteva essere il guaio». «Non c'era più benzina!» sghignazzò lo Smilzo che stava giocando a carte. Il forestiero allargò le braccia: «Sono un motociclista balordo, ma fino a questo punto, perbacco, no! La benzina c'era. L'ho fatta sostituire con benzina pura mettendo io stesso i misurini giusti d'olio. Il motore ha funzionato subito. Abbiamo guardato la miscela che avevo cavata fuori. A momenti c'era più olio che benzina!». «Il guaio delle "due tempi" è questo» osservarono alcuni dei presenti. «Se ti danno una miscela sbagliata sei rovinato.» La moglie del Lungo che aiutava il marito nel servizio allo spaccio vini e commestibili si avvicinò: «La pompa è lì subito, in cortile. Se le occorre un po' di lisciva gliela do. Per due mani ridotte così ci vuol altro che il sapone». «Ma che lisciva! Un goccio di benzina!» intervenne lo Smilzo. Il forestiero sorrise scuotendo il capo. «Né lisciva né benzina» disse. «Rovinano la pelle e puliscono male.» Mise sulla tavola il valigione, e sollevò il coperchio. Tolse una busta di pelle e apparve uno strato compatto di barattoli, pacchetti e tubetti.
Scelse un tubetto e si spremette sulla palma della mano sinistra due o tre centimetri di roba biancastra. Poi si sfregò le mani e, fattosi dare uno straccio, se le asciugò. «È più spiccio, più igienico e più economico» disse mostrando le mani nette. «Adesso basta darsi una sciacquatina con acqua e sapone e tutto è a posto.» I presentì rimasero favorevolmente impressionati. «Certo» osservò Peppone che frattanto era entrato «per uno che ha sempre le mani nella morchia è comodo.» Il forestiero cavò dalla valigia un tubetto nuovo e lo porse a Peppone. Poi distribuì un tubetto a ciascuno dei presenti. «Omaggio della ditta» spiegò ridendo. «Se il prodotto vi soddisfa non avete che a chiederlo al droghiere.» Tolse dalla valigia degli stampati e li distribuì spiegando che lì c'erano le caratteristiche del prodotto e i prezzi. «Voi mi capite» concluse ridendo. «È il mio mestiere e il tempo che ho perso con quella maledetta motocicletta lo devo pur riguadagnare.» Cavò fuori dalla valigia una manciata di saponette. «Naturalmente» disse dandone una a Peppone e ai più vicini «se dopo esservi tolta la morchia con il "DET" ve le sciacquate col "FLU" le vostre mani non solo diventeranno candide come un giglio ma acquisteranno la morbidezza vellutata della Lollobrigida.» La combriccola si mise a sghignazzare e il forestiero anche lui rise divertito. Poi offrì una delle sue saponette alla moglie del Lungo e andò in cortile a lavarsi.
«È simpatico» riconobbe Peppone che pure, dopo la storia del «Ceratom», aveva una particolare avversione per i rappresentanti di cere e detersivi. Il forestiero rientrò e consegnò alla moglie del Lungo anche l'altra saponetta appena usata. «Mi faccia della reclame» le disse. Mangiò con grande appetito il pane e il salame. Bevve il suo vino. Poi chiese un bicchierino. «Mi dispiace ma bisogna che faccia presto» avvertì il Lungo portandogli un bicchierino di grappa. «Mancano pochi minuti a mezzanotte e noi a mezzanotte chiudiamo.» «Sta bene» rispose il forestiero. «Mi faccia il conto. Si tenga anche la camera per questa notte.» «Noi non abbiamo alloggio» spiegò il Lungo. «Questa è la "Cooperativa di consumo". Qui dormiamo soltanto io, mia moglie e mio figlio. E dormiamo male!» Peppone intervenne: «Non lamentarti! Quando il ragazzino sarà più grande ti troveremo un'altra stanza». Il Lungo si strinse nelle spalle. «Se vuol dormire bisogna che vada al "Leoncino". La stanza c'è di sicuro.» Il forestiero pagò il conto e quindi domandò dove fosse piantato il «Leoncino». «Se viene con me, io nel tornare a casa ci passo davanti» disse Peppone.
Il forestiero tirò su il suo valigione e si avviò verso l'uscita preceduto da Peppone. Fatti pochi passi si fermò. «Posso lasciare qui questa mercanzia?» domandò al Lungo. «Mi secca doverla legare ancora sopra la moto. La vengo poi a prendere domattina. Se non disturbo.» «Niente disturbo!» esclamò il Lungo. «La metta lì dietro il banco. Qui di sicuro nessuno le tocca niente. Però la chiuda a chiave.» Il forestiero rise. «È tutto materiale di propaganda: campioni, volantini. L'unica poca roba che mi interessa l'ho qui nella borsa. La scarico di ogni responsabilità.» «Per favore la chiuda!» insisté il Lungo. E il forestiero andò dietro al banco e armeggiò attorno al valigione. Poi uscì e camminò per le strade deserte del paese a fianco di Peppone, spingendo a braccia la magra motocicletta. Chiacchierarono allegramente. Al «Leoncino» la stanza c'era e c'era anche il posto per riparare la moto. Il forestiero ringraziò Peppone e se ne andò a letto. *
Celebrata la prima Messa, don Camillo, dopo essersi gingillato un bel po' in sagrestia, tornò in canonica dove l'aspettava la colazione. Trovò sulla tavola del tinello il latte fumante col pane affettato e, appoggiata alla zuccheriera, una lettera: «Per il signor Parroco - Urgentissima». «L'ha portata un giovanotto» spiegò la vecchia che faceva le faccende in canonica. «Voi avevate appena incominciata la Messa. Mi ha raccomandato di darvela. È una cosa importante.» Don Camillo lacerò la busta e trasse il foglietto: «Avvertire subito! Nella valigia lasciata alla Casa del Popolo ieri sera c'è una bomba a orologeria! Sgombrare la Casa del Popolo: fra poco salterà in aria!». Don Camillo balzò in piedi e, pochi istanti dopo, arrivava ansimando davanti alla casa di Peppone. Erano le sette e tre quarti e tutti ancora dormivano. Don Camillo incominciò a tirar sassate contro gli antoni delle finestre del primo piano e, ben presto, si udiva l'urlaccio di Peppone. «Cosa succede?» «Venga giù! Venga giù immediatamente! Non c'è un secondo da perdere!» gridò don Camillo. Peppone si affacciò: non aveva mai visto don Camillo così agitato. Scese ad aprire mezzo svestito e don Camillo gli mise subito davanti agli occhi la strana lettera spiegando come l'avesse ricevuta.
Peppone lesse un paio di volte le poche righe, poi disse, cupo: «Che storia è questa?». Qualcosa biancheggiava sul pavimento dell'andito, ai piedi della mezza anta della porta ancora chiusa. Peppone si chinò e tirò su una lettera che portava questa intestazione: «Giuseppe Bottazzi – Capo dei senzadio – Urgentissima!». La lettera era più dettagliata di quella ricevuta da don Camillo: «Da mesi e mesi noi vi avvertiamo. Ma voi non volete intendere la ragione e continuate a militare nelle schiere dei banditi senzadio. Vi avevamo promesso un piccolo esempio: oggi lo avrete. «Nella valigia depositata ieri sera allo spaccio della Casa del Popolo c'è una bomba a orologeria. «Doveva scoppiare alle tre di stanotte ma siccome noi non siamo assassini, appena saputo che nella Casa del Popolo dormono una donna e un bambino, abbiamo tirato indietro la lancetta in modo tale da darvi il tempo per salvare gli innocenti. «Spicciatevi: c'è appena il tempo sufficiente. Quando la lancetta toccherà i due contatti chiudendo il circuito, la bomba scoppierà e la Casa del Popolo andrà in briciole.
«Non toccate la valigia, se non volete che vi scoppi fra le mani. Sappiamo fare le cose per bene e il dispositivo di sicurezza è infallibile. «Siete avvertiti: la responsabilità di ogni vittima umana sarà vostra. «Distrutta la Casa del Popolo, se non metterete giudizio, agiremo con energia ancora maggiore. «Abbandonate l'Anticristo. Stracciate la tessera del PC!». Peppone ripensò alla storia del forestiero e rabbrividì. Il colpo era stato diabolico. In quell'istante arrivò di corsa il Lungo che gli porse con mano tremante una lettera: «L'ho trovata poco fa sotto la porta» spiegò ansimando. «Cosa facciamo?» Peppone lo afferrò per il collo: «Disgraziato! Mi viene a domandare cosa deve fare! Tira fuori subito tua moglie e tuo figlio!». «E… e la roba?» «La roba vada all'inferno!» urlò Peppone. «Come si fa a sapere quando la bomba scoppia?» Il Lungo si allontanò di corsa. Erano le otto e quando Peppone, completato il suo abbigliamento, arrivò in piazza, trovò tutto il paese stipato sotto il portico di fronte alla Casa del Popolo.
La grande piazza era deserta: aiutati da gente di buona volontà i quattro carabinieri della stazione bloccavano ogni accesso alla piazza. Tutti capivano che, per quanto la Casa del Popolo fosse laggiù in fondo, se l'ordigno era carico di roba forte, il rimanere sotto il portico della piazza poteva costituire un pericolo. Ma l'idea di poter vedere la Casa del Popolo saltare in aria era così affascinante che nessuno ammetteva di dover rinunciare allo spettacolo. «Magari non c'è nessun pericolo perché scoppia domani» disse don Camillo che stava in prima fila. Peppone che arrivava in quel momento fece udire la sua voce. «Se l'aveva caricata per le tre» spiegò «indietro che abbia messo la lancetta, lo scoppio non potrà mai avvenire dopo dodici ore.» Don Camillo allargò le braccia: «Se lo dice lei bisogna crederci. In fatto di armi ed esplosivi lei è competente!». Peppone non aveva voglia di scherzare. «L'aveva disposta per le tre» disse Peppone seccato. «Questo significa che, arrivata alle ore tre, la lancetta tocca due asticelle e chiude il circuito della pila. «Girando all'indietro la lancetta può averla portata, al massimo, alle tre e un quarto. Se no la lancetta toccava i due contatti che sono sulle tre. Quindi, per arrivare sulle tre, la
lancetta ha al massimo undici ore e tre quarti. E siccome era mezzanotte quando quel maledetto ha regolato l'orologio dentro la valigia, al massimo lo scoppio si avrà alle undici e tre quarti.» Peppone dimostrò col lapis la esattezza del suo ragionamento e concluse: «Quindi reverendo, male che vada, lei per veder saltare in aria la Casa del Popolo dovrà aspettare, siccome adesso sono le otto e tre quarti, tre ore». «Tre ore sono tante…» borbottò don Camillo. «Si tranquillizzi, reverendo!» ribatté con ferocia Peppone. «È impossibile che quel mascalzone si sia preoccupato di tirare indietro al massimo la lancetta. Vedrà che fra un quarto d'ora o venti minuti la sua ansia sarà appagata, reverendo! Io, però, non sarei così impaziente se si trattasse di veder saltare in aria la canonica!» «Neanche io» rispose don Camillo. Oramai si sentiva che, fra pochi istanti, l'irreparabile sarebbe avvenuto e, mano a mano che i minuti passavano, la gente si ritraeva sempre di più verso il muro. A un tratto una specie di strano sibilo che veniva dalla parte della Casa del Popolo fece sussultare la gente. E tutti gli occhi si fissarono là. Il silenzio divenne opprimente, ossessionante. Ed ecco che un urlo si levò dalla folla: da un vicoletto sbucò un gatto inseguito da un ragazzino che lo rincorreva schiamazzando.
E la cosa avvenne fulminea, irreparabile: il gatto imboccò la porta spalancata della Casa del Popolo e il bambino lo seguì. L'angoscia ammutolì la gente e la paralizzò. Poi uno si mosse: ed era Peppone che si avviò di corsa. Ma fece pochi passi perché don Camillo lo raggiunse, l'agguantò e lo ricacciò indietro: «Fermo!» gridò don Camillo. «Non ho figli, io!» Partì e traversò di corsa la piazza. Scomparve dentro il portone della Casa del Popolo. E allora parve a tutti di sentire, come fossero martellate in testa, il tic-tac dell'orologio della bomba. Uno due tre quattro, dieci, quindici, trenta… "Ma cosa fa. Perché non torna?" … Quaranta… cinquanta… sessanta… Don Camillo non riappare e la gente urla. Don Camillo si affaccia a una finestra del primo piano. Agita le braccia e grida: «Non riesco a trovarlo! Non so dove sia andato a finire!». Cento… centouno… centocinquanta… centosettantanove secondi… Tre minuti primi… quattro minuti primi… cinque minuti primi… Pare sia passato un secolo quando, finalmente, don Camillo riappare sulla porta col bambino stretto per mano. E il bambino stringe il gatto fra le braccia.
«Presto! Presto!» La gente urla come pazza. Uomini e donne sembrano indiavolati. Don Camillo ritorna sotto il portico. Ma la gente, che è tutta per lui, ecco che se ne disinteressa d'un tratto. Tutti gli occhi sono là, sulla Casa del Popolo: perché si è udito come uno sfrigolìo seguito da fumo che pare esca dal tetto. L'esplosione non può tardare. Invece tarda e, dietro la Casa del Popolo, si alza qualcosa che sale nel cielo limpido. Un enorme pallone di gomma scintillante; un enorme pallone a foggia di pesce. E sul pesce c'è scritto: «1° aprile». Un istante di silenzio, poi una risata colossale che fa tremare i muri delle case. La gente pare ammattita. * Don Camillo scosse il capo e scivolò via avviandosi verso la canonica per la strada più solitaria. Camminava lentamente prendendo a pedate i sassi. E ogni tanto sospirava. «Reverendo!» Don Camillo si fermò: Peppone era dietro di lui e lo raggiunse.
«Reverendo» disse Peppone. «Quando voi siete andato a salvare il ragazzino il pesce non s'era ancora levato in volo. Il vostro gesto eroico non perde niente del suo valore! E la gente ve lo riconosce: "Don Camillo non sapeva", dice adesso la gente in piazza. "Egli sfidava il pericolo di una vera bomba!"» Don Camillo sorrise allargando le braccia. «Grazie, signor sindaco…» «Prego, signor mascalzone!» replicò con voce dura Peppone. E don Camillo sussultò e guardò aggressivo Peppone. «Mascalzone a me?» urlò. «No: mascalzone a quello che ha organizzato la preparazione psicologica delle lettere anonime, il fìnto commesso viaggiatore, la bomba a orologeria e le altre vigliaccate. E che poi è riuscito a cavarci fuori anche il successo personale con l'atto eroico. Approfittando pure dell'occasione per andare a ficcare il naso negli affari privati del Partito, chiusi dentro le cartelliere della Casa del Popolo! Rispondetemi: lo siete o non lo siete un vigliacco?» Don Camillo scosse il capo: «No compagno sindaco: se fossi un vigliacco, avrei lasciato che andassi tu a salvare il bambino. Il ridicolo così non è caduto su di te». «Balle!» urlò Peppone. «Balle!» Don Camillo allargò le braccia: «Signor sindaco!… Dunque non si può più neanche fare uno scherzo!…».
Peppone gli piantò un ditone sul petto: «Il giorno che ve lo organizzerò io, lo scherzo, sarà una bomba vera, reverendo!». «Va bene» rispose conciliante don Camillo. «Se poi ti occorre ancora di quel sapone in tubetto per smacchiarti le mani…» «Adoperatelo voi per smacchiarvi la coscienza!» urlò Peppone che poco prima, dopo essersi pulite le mani col «DET» se le era sciacquate col «FLU» e, perciò, le sue mani erano candide come un giglio e avevano la morbidezza vellutata della Lollobrigida.
196 CI RIVEDREMO A FILIPPO Don Camillo aspettava pazientemente che il pollastrello gli arrivasse a tiro, e l'attesa fu lunga ma non vana perché, una bella mattina, il pollastrello si presentò in canonica. «Reverendo, c'è qualche cambiamento di programma o si fa come per gli anni passati?» «Tutto esattamente come gli anni scorsi» rispose don Camillo. «Eccettuato un piccolo particolare: niente banda nella processione.» Il «piccolo particolare» fece rimanere senza fiato il pollastrello che si chiamava Tofini ed era il capo della banda musicale del paese. «Niente banda?» balbettò il Torini. «E perché?» «Direttive dall'alto» spiegò don Camillo allargando le braccia. Il Tofini non riusciva a credere alle sue orecchie: «Volete dire che le bande non possono più suonare nelle processioni?» esclamò. «No» precisò con calma feroce don Camillo. «Voglio dire che la tua banda non può più suonare nella mia processione.» La banda di strumenti a fiato diretta dal Tofini si chiamava «La Verdiana» ma, ciononostante, era, musicalmente
parlando, una banda di fuorilegge. Comunque non era inferiore alle altre bande della zona e a nessuno era mai balenata l'idea che «La Verdiana» potesse essere sostituita da altro complesso musicale nelle processioni, nei funerali o nelle feste patriottiche che si svolgevano in paese. Il Tofini era sbalordito. «Reverendo, se fino a ieri andavamo bene, e oggi non ci volete più, cosa significa? Che non sappiamo più suonare?» «Non avete mai saputo suonare, ma la ragione è un'altra è voi la sapete meglio di me.» «Noi non sappiamo niente, reverendo!» «Allora domandate conto in giro e fatevi dire chi erano quelli che due mesi fa, in piazza, hanno suonato Bandiera rossa.» Il Tofini guardò stupito don Camillo: «Reverendo, eravamo noi: ma io non ci vedo niente di male». «Io, invece, ce lo vedo.» Il Tofini protestò: «Reverendo, ci conoscete bene. Sapete che nessuno di noi ha mai fatto della politica. Noi suoniamo per chi ci paga: il sindaco ci ha chiamato per fare della musica in piazza e noi abbiamo suonato dei pezzi d'opera e delle marce. Poi tutta la gente si è messa a gridare che voleva Bandiera rossa, il sindaco ci ha ordinato di suonare Bandiera rossa e noi abbiamo suonato Bandiera rossa».
«E se vi avessero chiesto Giovinezza o la Marcia reale le avreste suonate?» «No: quella è roba proibita dalla legge. Bandiera rossa non è proibita dalla legge.» «Dalla legge della Chiesa, però, è proibita» replicò don Camillo. «Quindi, se tu rispetti le leggi dello Stato e non quelle della Chiesa, significa che tu sei un buon cittadino ma un cattivo cristiano. Come buon cittadino puoi continuare a suonare per la piazza. Come cattivo cristiano non puoi più continuare a suonare per la Chiesa.» Il Tofini si sentì vittima di una crudele ingiustizia e si ribellò: «Reverendo, questo non è il modo di ragionare! Ognuno ha il suo mestiere che gli dà da mangiare: se fosse vero che chi lavora per i comunisti è un cattivo cristiano, dove andremmo a finire? I tipografi non potrebbero più stampare giornali comunisti, i farmacisti non potrebbero più vendere medicinali ai comunisti. Quando uno fa semplicemente il suo mestiere, la politica e la religione non c'entrano. Quando uno fa il medico, cura dei malati, non dei comunisti o dei liberali e via discorrendo. Quando uno fa il tipografo, stampa dei giornali o dei libri per un cliente, non fa della propaganda. Quando noi suoniamo, eseguiamo della musica a pagamento, facciamo il nostro mestiere di musicanti. Bandiera rossa o la sinfonia del Guglielmo Tell per noi è lo stesso. Le note sono messe in modo diverso ma sono sempre le stesse: do, re, mi, fa, sol, la, si».
Il Tofini non era impappinato e sapeva spiegarsi. Però neppure don Camillo era impappinato: «Giusto: purché non sia roba proibita dalla legge, una suonata vale l'altra. Quindi quella volta in piazza, se, finita l'esecuzione a richiesta di Bandiera rossa, fossi arrivato io e vi avessi domandato di suonare Biancofiore, voi l'avreste suonato». Il Tofini si strinse nelle spalle: «Già! Per prendere un sacco di legnate!». Don Camillo sorrise: «E allora? Biancofiore non è musica proibita dalla legge: perché non l'avresti suonato?». «Se mi pagano i «rossi» mica posso suonare l'inno dei loro avversari!» «Esatto. Ma quando tu ragioni così non fai più della musica, fai della politica nel senso più comune e sporco della parola. Tu sei cosciente del valore politico e, quindi, propagandistico di quel che suoni. E se accetti di suonare Bandiera rossa, inno degli scomunicati, tu, oltre a essere un cattivo suonatore, sei anche un cattivo cristiano.» Il Tofini si agitò: «La teoria è bella, ma la pratica è diversa. Bisogna pensare che si deve vivere!». «Bisognerebbe pensare invece che si deve morire e che è ben più importante il conto col Padreterno che il conto col bottegaio.» Il Tofini sghignazzò:
«Il guaio è che, mentre il Padreterno può aspettare, il bottegaio non aspetta e se non pago il conto non mangio!». Don Camillo allargò le braccia: «Ti pare che questo sia un ragionare da buon cristiano?». «È un ragionare da poveretto che per vivere deve arrangiarsi.» «D'accordo: ma ci sono dei poveretti come te che, per vivere, si arrangiano senza comportarsi da cattivi cristiani. Perché dovrei aiutare te invece di loro? Alle processioni e ai funerali, al posto della "Verdiana" suoneranno le bande di Torricella, di Gaggìòla e di Rocchetta. Balordi come voi ma più a posto di voi.» Al pensiero di dover perdere i servizi alle processioni e ai funerali, il Tofini diventò furioso e, uscito dalla canonica, corse da Peppone e gli raccontò ansimando tutta la storia. Allora Peppone andò a trovare don Camillo. «Siamo dunque arrivati a negare lavoro a dei disgraziati solo perché hanno suonato in piazza l'inno di un Partito permesso dalla legge?» urlò indignato Peppone. Don Camillo allargò le braccia desolato: «Ordini dall'alto, signor sindaco. Io debbo fare come fa lei: obbedire agli ordini dei superiori». «E se i superiori danno degli ordini cretini?» gridò Peppone.
«Non saprei. Il caso a me non si è mai presentato perché i miei superiori mi hanno sempre impartito ordini giusti» replicò calmo don Camillo. Peppone strinse i pugni: «È inutile che faccia lo spiritoso, reverendo poco riveribile! Se lei non ha una coscienza, io ce l'ho. E non posso ammettere che, per colpa mia, un poveraccio venga danneggiato in questo modo». «Per colpa sua? Lei non ha nessuna responsabilità, signor sindaco. Lei non ha suonato Bandiera rossa: è la banda Tofini che l'ha suonata. E appunto per questo io debbo sostituire "La Verdiana" con altra banda.» Don Camillo era calmo ma deciso e Peppone non insistette. «Ci rivedremo a Filippo!» disse Peppone avviandosi verso la porta. E lo disse con tale fierezza e decisione da rendere di secondaria importanza il pur increscioso incidente di cui era rimasto vittima Filippo. * Don Camillo se la prese comoda e così aspettò proprio gli ultimi giorni per ingaggiare la banda musicale. Fu un'imprudenza perché, fatto il giro della intera zona, si trovò con un pugno di mosche.
Tutte e tre le bande erano state ingaggiate proprio per il giorno in cui doveva svolgersi la processione. E quando don Camillo allargò il raggio delle ricerche, non combinò niente di meglio perché trovò che anche tutte le bande dei Comuni vicini erano state ingaggiate per quel giorno. Non era una cosa credibile e don Camillo non lo credette e ricominciò il giro cercando di indagare. Finalmente trovò un capobanda che, messo alle strette, si sbottonò: «Reverendo, noi andiamo in giro per suonare, non per essere suonati…». «Qualcuno vi ha minacciato?» «No. Abbiamo semplicemente ricevuto dei consigli amichevoli.» Don Camillo tornò a casa cupo. «Ci rivedremo a Filippo.» Filippo era arrivato perché la processione doveva svolgersi l'indomani sera, e don Camillo non aveva trovato nessuno che accettasse di venire a suonare. Oramai non sapeva più dove sbattere la testa: siccome era stanco morto e aveva sonno, la sbatté sul cuscino del letto e si addormentò. Passò una notte piena di sogni tutti a sfondo musicale e, la mattina, si alzò più stanco e più irritato di quando s'era messo a letto. Verso le dieci arrivò in canonica il Tofini. «Reverendo, m'hanno detto che mi cercavate» spiegò il Tofini.
Don Camillo scosse il capo: «Tofini, c'è un errore: siete voi che cercate me. Ma non mi avete trovato». «Sta bene» rispose il Tofini. «Comunque, io rimango sempre a vostra disposizione. Se avete bisogno sapete dove trovarmi.» «Rimanete pure a disposizione del signor sindaco. Io non ho bisogno di voi.» * Dopo mezzogiorno il paese incominciò a smaniare. Succedeva così tutti gli anni, il giorno della processione notturna della Madonna. Nelle prime ore del pomeriggio tutti entravano in agitazione. Tutte le finestre si spalancavano e, a ogni finestra, c'era gente indaffarata a preparare luminarie e addobbi. Lampioncini di carta, stelle di lampadine, lucerne, candele, lumini: in ogni finestra doveva luccicare per forza qualcosa la sera della processione. E da ogni davanzale doveva penzolare qualcosa. Un drappo di damasco rosso con frange di oro, un tappeto, un festone di fiori veri o di fiori di carta, una coperta da letto, un lenzuolo, una trapunta, uno scendiletto. C'era da commuoversi a girar per le strade, quella sera. E lo spettacolo più commovente l'offrivano le finestre delle
case più povere, che erano le meglio addobbate perché dove non ci son quattrini ci si deve arrangiare mettendo in moto il cervello e il cervello conta sempre più dei quattrini. Il paese incominciò a smaniare nelle prime ore del pomeriggio e smaniò per il tempo occorrente a portare a termine l'addobbo delle finestre. Poi la gente si mise calma. Ma era una calma apparente in quanto dentro ogni cervello si agitavano parecchi appassionanti interrogativi: «Come avrebbe fatto don Camillo? Avrebbe ceduto ricorrendo al Tofini? Avrebbe resistito rinunciando alla musica? E la Casa del Popolo? Avrebbe mollato all'ultimo momento come era successo l'anno prima? O stavolta non avrebbe mollato?». L'anno precedente, fino a pochi minuti prima che arrivasse la processione, la Casa del Popolo era l'unico edificio del paese che non avesse un lume alle sue finestre. Anzi, tutte le gelosie erano chiuse e la casa dava una lugubre idea di morte. Ma, quando la processione si era messa in moto, una finestra al primo piano della Casa del Popolo si era aperta e qualcuno aveva appeso al davanzale una stella di lampadine bianche, rosse e verdi. Appena passata la processione la stella era stata ritirata. Cosa sarebbe successo questa volta? In paese funzionava il totostella e le eventualità erano tre: «La mettono come l'anno passato. Non la mettono per niente. La mettono ma tutta di lampadine rosse anziché tricolori».
Don Camillo ammetteva una quarta ipotesi: «La mettono di lampadine rosse con al centro il ritratto di Stalin e allora don Camillo, inviperito per il fatto di aver dovuto subire una processione senza musica, appena la vede si ferma e…». L'ipotesi di don Camillo non contemplava i possibili avvenimenti dopo la fermata. Don Camillo sapeva che, se quelli della Casa del Popolo avessero provocato, egli si sarebbe fermato. Non sapeva quel che egli avrebbe detto o fatto dopo essersi fermato. E questa incognita lo riempiva di angosciosa preoccupazione. * Cadde la sera e, quando suonarono le campane, tutte le finestre si illuminarono. Tutte, eccettuate quelle della Casa del Popolo. La processione si mosse. Le bambine e le donne incominciarono a cantare «Mira il tuo popolo». Ma come era pieno di malinconia quel canto che si levava nell'aria deserta della sera. Le altre volte c'erano le trombe di Tofini a impastare quelle voci, a farne un'unica voce possente. E adesso le voci non riuscivano a cementarsi in muro sonoro. Mancava la calce di Tofini.
La gente avvertì questo senso di disagio: e, mano a mano che il corteo si appressava alla Casa del Popolo, il disagio aumentava perchè era evidente che, stavolta, non avrebbero neppure tirata fuori la stella di lampadine. Oramai la testa della processione era a dieci metri dalla Casa del Popolo e allora don Camillo sussurrò: «Signore, rossa o verde o gialla, fate che la stella venga fuori. O, se non la stella, almeno almeno una lampadina, perché quella casa buia e chiusa mi dà l'idea angosciosa di appartenere a un mondo che si è sottratto alla Grazia di Dio. Gesù, fate che almeno un lume si accenda dietro quelle finestre e ci dica che la Grazia Divina non ha abbandonato quella triste casa… Non so se dico bene, Gesù: so soltanto che quel buio mi fa paura…». La testa della processione passò davanti alla porta della Casa del Popolo. E non ci fu nessun segno di vita. Non c'era più niente da sperare e la processione continuò il suo lento andare. L'immagine della Madonna oramai stava per passare davanti alla casa buia e non si poteva immaginare che accadesse il miracolo adesso. Difatti non accadde nessun miracolo. Accadde semplicemente che tutte le finestre si spalancarono inondando la notte con un fiume di luce. Nello stesso istante partì dal campo sportivo della Casa del Popolo una formidabile bordata di fuochi d'artificio che esplosero alti nel cielo. E nello stesso istante i quattro corpi bandistici di Torri-
cella, Gaggiòla, Rocchetta e del Tofini, che aspettavano nascosti nel cortile, attaccarono «Mira il tuo popolo». Le bordate di fuochi artificiali continuavano con ritmo serrato: e il cielo pareva un cinematografo a colori. Se fosse scoppiata una bomba atomica non avrebbe fatto quel colpo. La gente, con gli occhi persi nel cielo e le orecchie rintronate dalle note degli ottoni e dagli scoppi dei fuochi d'artificio, non capiva più niente. Il primo a riprendersi fu don Camillo. E, quando si fu ripreso, si accorse con orrore che il corteo era immobile e la Madonna, già da un pezzo, era ferma lì, davanti alla Casa del Popolo. «Avanti!» ruggì don Camillo. Il corteggio riprese la marcia e si levò un canto possente. Mille voci che erano diventate una voce sola perché ora le sorreggevano gli ottoni frementi di quattro bande in gara fra di loro a chi ci metteva più fiato. «Gesù» disse don Camillo levando gli occhi al cielo «tutto questo l'hanno organizzato soltanto per far dispetto a me!» «Se per fare un dispetto a te, essi fanno festa alla Madre di Dio, perché ti crucci?» «Gesù» ansimò don Camillo «essi non vogliono rendere grazia a nessuno, essi fanno questo per ingannare la gente.» «Non possono ingannare me, don Camillo.»
«Ho capito, Signore» ansimò ancora don Camillo. «Allora ho sbagliato io! Allora ho fatto male a non volere in processione la banda che aveva suonato Bandiera rossa.» «Non hai sbagliato, don Camillo. Tanto è vero che non una sola ma quattro bande hanno suonato stasera per rendere grazia alla Madre di Dio.» «Gesù» insistè don Camillo. «Secondo me, questo dipende dalla nuova politica della Russia…» «Don Camillo» rispose il Cristo. «Secondo me questo dipende dal fatto che Peppone non è la Russia.» In fondo don Camillo pensava la stessa cosa e, in cuor suo, ringraziò la geografia.
197 CARTACCIA ELETTORALE Quel sabato, tutta la gente che era andata al mercato in città tornò in paese con gli occhi fuori dalla testa. E la sera, nei caffè, nelle osterie, nei capannelli sotto i portici, non si parlò d'altro: perché, davvero, si trattava di una porcheria troppo grossa. Anzi: una mascalzonata più ancora che una porcheria. I due grandi palazzi nuovissimi della piazza maggiore della città erano stati impiastricciati da cima a fondo con manifesti di propaganda elettorale. Quando si dice «impiastricciati da cima a fondo» si vuol significare che i due maestosi edifìci erano stati ricoperti di cartaccia stampata a cominciar dallo zoccolo per arrivare fin sotto la gronda, lasciando libere soltanto le porte e le finestre. Un perfetto lavoro da tappezziere, eseguito senza economie, usando la colla più tenace. Quella dannata colla che, quando poi la carta venga staccata, si porta via ampie placche d'intonaco, o come minimo lascia sull'intonaco e sui mattoni a faccia vista le tracce indelebili delle sbafiate dei pennelli. Due palazzoni nuovi di zecca, uno addirittura appena appena finito, ridotti in uno stato da far pietà. La gente di-
scusse a lungo e disse le cose che ogni persona di buon senso può dire in simili occasioni. E tutto rimase nel generico fino a quando qualcuno non saltò fuori con una considerazione di carattere particolare: «Negli altri posti facciano come vogliono: ma perché qui noi non ci mettiamo d'accordo per evitare questa porcheria?». Altri osservò che un accordo del genere era riuscito in alcune località della riviera ligure, per le elezioni passate: «Noi non siamo in riva al mare ma in riva al Po. Però il sale che la gente ha o non ha dentro la zucca non dipende dal fatto di abitare vicino all'acqua salata o all'acqua dolce. Vediamo allora di ragionare. Qualcuno prenda l'iniziativa». Ci fu chi prese l'iniziativa e, qualche giorno dopo, i rappresentanti dei vari partiti in lizza si riunirono e impostarono la questione: ridurre al minimo indispensabile la propaganda cartacea in modo da non trasformare il paese in una letamaia verticale ed evitando di buttar via quattrini. «Una volta che tutti stiano al gioco» concluse Spiletti, rappresentante dei clericali «vale tanto appiccicare mille cartelli a testa o appiccicarne uno solo.» «D'accordo» rispose Peppone. «Però è necessario che tutti stiano al gioco. Nessuno deve poter barare.» «Semplice» ribatté l'altro. «Si sceglie d'accordo una commissione apolitica di sorveglianza che timbra un numero uguale di manifesti per ogni partito. I manifesti che non hanno timbro non possono venir esposti. Il controllo è facile.»
«No» affermò Peppone. «Io non voglio spie in casa che vadano a dire ai miei avversari come saranno e cosa diranno i manifesti nostri.» «Giusto» esclamò Spiletti. «La commissione timbra in un angolo un numero stabilito di fogli bianchi e ognuno ci fa stampar sopra quello che crede. In questo caso non occorre neanche una commissione: ci arrangiamo da soli fra noi. Fissiamo la spettanza di manifesti per ciascun partito e timbriamo i fogli con un timbro speciale che poi viene depositato presso il notaio; E ognuno prende i suoi fogli e ne fa quel che meglio crede. Libero di appiccicare i manifesti suoi tutti in un giorno, libero di appiccicarli un po' per giorno. Siccome i manifesti saranno pochi e facilmente controllabili, una commissione con un rappresentante per ogni partito tutti i giorni farà il giro ed eliminerà distaccandolo ogni manifesto che non porti il timbro legale. Insomma, come se distribuissimo mille lire spicciole a testa: ciascuno se le spende come e quando vuole, e le lirette false vengono eliminate.» Discussero sui particolari, poi Peppone disse: «Ci penseremo». «Badi che lei deve pensarci soltanto come capo dei comunisti perché, come sindaco, lei dev'essere già perfettamente d'accordo con noi, in quanto noi interpretiamo i desideri di tutta la cittadinanza» osservò lo Spiletti che era sottile. Il giorno dopo, approfittando del fatto che l'accordo per il razionamento della cartaccia elettorale non era ancora in funzione, i clericali e partiti associati comunicarono alla cit-
tadinanza che loro avevano avanzata questa proposta e che, se non si fosse giunti a evitare lo sconcio temuto, la responsabilità sarebbe ricaduta esclusivamente su Peppone. Il quale Peppone avrebbe avuta doppia colpa: come capo comunista e come sindaco. E Peppone dovette stare al gioco. Gli accordi richiesero tempo e discussioni ma, alla fine, ogni partito ebbe la sua spettanza di fogli timbrati, e il timbro venne solennemente depositato presso il notaio. Quando apparvero i primi manifesti, la commissione di controllo fece il suo giro e constatò che tutto era perfettamente regolare. E così avvenne anche nei giorni che seguirono e veramente la cosa si metteva molto bene perché ogni partito, prima di spendere un manifesto, ci pensava dieci volte e tutti tiravano a conservarsi il malloppo per aver di che controbattere validamente ogni eventuale colpo mancino degli avversari. La gente del paese era contentissima. Quando poi sul più importante quotidiano nazionale indipendente apparve un articoletto che parlava della faccenda e concludeva: «Volesse il cielo che in tutti i Comuni ci fosse un sindaco così di buon senso!» la gente schiattò di soddisfazione e Peppone si sentì gonfio di giustificato orgoglio. Ma era destino che qualcuno venisse ad amareggiargli l'anima. E si può ben immaginare chi potesse essere costui.
* Peppone resistette fin che potè quindi innestò la marcia e partì verso la canonica. «Reverendo» disse Peppone appena fu al cospetto di don Camillo «vi avverto che una settimana fa un altro prete è stato condannato dal tribunale per aver coerciàto i fedeli!» «Non mi stupisco» rispose calmo don Camillo. «Un buon sacerdote non deve mai coerciàre nessuno.» Peppone lo guardò male: «Rev» esclamò «anche se io mi spiego male voi capite bene». «Rev?» si stupì don Camillo. «Abbreviativo di minoranza» spiegò Peppone che, quando perdeva l'indirizzo di casa, non guardava più in faccia nessuno, neanche il vocabolario. «Ho capito. Però dovresti dirmi perché ce l'hai con me. Cosa ti ha fatto questo povero parroco?» «Questo povero parroco mi ha fatto che, invece di fare il parroco, non fa il parroco. E allora, se non la smette, lo si denuncia per esercizio abusivo del sacerdozio! In chiesa voi dovete limitarvi a fare della propaganda al Padreterno. La propaganda politica non è di vostra competenza. Se la fate, siete contro la legge.» Don Camillo allargò le braccia: «Non capisco dove lei voglia arrivare, signor sindaco».
«Dove sono già arrivato, signor prete. Lei impedisce il libero esercizio del voto. Quando il disgraziato che viene in chiesa sente dire dal prete che, se vota per i comunisti, va all'Inferno, quel disgraziato non è più libero di votare per chi crede.» Don Camillo sorrise: «Mi rendo conto delle sue preoccupazioni, signor sindaco. Però sono fuori luogo: infatti non ci sono disgraziati che vengono in chiesa. I disgraziati sono soltanto quelli che non vengono». Peppone oramai aveva innestato la quarta: «Lei, minacciando di danno futuro colui che vota per un certo Partito, si rende colpevole di una coercizione intimidatoria e perciò commette una disonestà». Don Camillo scosse il capo. «No: sarei disonesto se io, sapendo che chi vota per un certo partito commette un peccato grave, non lo spiegassi ai fedeli. Orbene, siccome lo so, lo spiego.» Peppone diventò rosso come la rivoluzione d'ottobre: «Lei lo sa? E chi gliel'ha detto?». «Uno che se ne intende. Il Papa.» «Il Papa!» urlò Peppone. «E a lui chi gliel'ha detto?» «Non lo so. Proverò a domandarglielo.» Peppone strinse i pugni: «Reverendo, vi ho avvertito. O la smettete o io vi porto in tribunale». (
«Grazie dell'informazione. Però preferisco essere condannato dal tribunale degli uomini piuttosto che essere condannato dal tribunale di Dio. Gli uomini possono sbagliare, Dio no.» Peppone se ne andò e, la domenica seguente, don Camillo disse quello che doveva dire senza preoccuparsi dell'avvertimento di Peppone. Peppone ne fu subito informato e masticò amaro. Però stette tranquillo fino al sabato sera. Arrivato il sabato sera, andò a trovare don Camillo. «Reverendo, secondo me sarebbe bene che la predica di domani fosse diversa da quella della settimana scorsa. Ho sentito dire in giro che non è piaciuta.» Don Camillo allargò le braccia: «A me invece è piaciuta molto. Questione di gusti». «Reverendo, siamo sotto le elezioni e l'aria comincia a scottare. Posso rispondere di me ma non degli altri. Non vorrei che lei dovesse inciampare contro qualcosa.» «Starò attento a dove metto i piedi.» «I piedi sta bene, reverendo. Ma se, poi, lei inciampa con la testa contro un palo di gaggìa?» Don Camillo si strinse nelle spalle: «Dipende dalla grossezza del palo». «E se, mettiamo il caso, fosse grosso come questo?» domandò Peppone cavando di sotto il tabarro un bastone e mostrandolo a don Camillo. Don Camillo guardò il bastone e poi scosse il capo.
«Dovrebbe essere, al minimo, grosso come questo» rispose tirando fuori di sotto la tavola un pesante bastone e mostrandolo a Peppone. Peppone fece cenno d'aver compreso il concetto: «Se fosse anche più grosso di quello non vi disturberebbe, reverendo?». «No» disse don Camillo. «Mi disturberebbe il fatto che tu non te ne andassi subito.» Peppone tolse il disturbo e don Camillo andò a letto tranquillamente. La predica della mattina seguente fu dello stesso identico tono di quello della domenica precedente. Fu cioè quella che doveva essere. Peppone non si fece più vivo e così trascorse un'altra settimana. E venne la domenica. * La chiesa era affollata assai più del solito e don Camillo, arrivato alla predica, si guardò intorno compiaciuto. «Fratelli» incominciò. E, in quel momento, si accorse che in fondo, proprio sulla porta, stava Peppone. Immobile e a braccia incrociate sul petto. E attorno a Peppone stavano lo Smilzo, il Bigio, il Brusco e tutto lo stato maggiore. Si accorse pure che fuori dalla chiesa, davanti alla porta, si stipava una gran massa di gente, e vide subito di che gente si trattasse.
Un affare interessante davvero: i «rossi» di Peppone avevano praticamente bloccato la chiesa perché, oltreché davanti al portale della chiesa, si addensavano davanti alla porticina del campanile dilagando dentro il coro. C'erano tutti e gli occhi dei fedeli normali fissavano preoccupati don Camillo. «Fratelli» ripetè sorridendo don Camillo. «Sia ringraziato il Signore per aver oggi permesso di ritrovarci tutti qui, davanti, dietro e di fianco all'altare.» Poi incominciò la sua predica. E fu una predica lunga, lunga come mai era stata, perché mai gli si era offerta l'occasione di poter parlare a tanta folla. E la voce di don Camillo era tonante, e riempiva completamente la chiesa uscendo con impeto d'uragano dalla porta spalancata ed espandendosi nella piazza. Disse tutto quello che doveva dire. Anzi, per essere sinceri, disse anche qualcosa di più di quel che doveva dire. E fu d'una chiarezza straordinaria. Peppone e la sua banda parevano diventati di sasso: incassavano senza battere ciglio. E, quando don Camillo ebbe finito la sua predica, non si mossero. Celebrata la Messa, don Camillo corse in sagrestia a togliersi i paramenti e subito ritornò in chiesa. La gente stava finendo di sfollare rapidamente: la banda dei «rossi» aveva sgombrato il passaggio ma era ferma lì, sul sagrato, e faceva ala alla folla di fedeli.
Don Camillo si inchinò davanti all'aitar maggiore: «Gesù» disse «guardatemi le spalle. Davanti mi guardo io». Poi si volse e traversò con passo lento e deciso la chiesa oramai vuota. I «rossi» lo aspettavano al varco, ma don Camillo non esitò. Si sentiva forte come Sansone. Arrivato che fu sulla porta, Peppone e i «rossi» si ritrassero e don Camillo si fermò. Vide e non disse niente. La canonica era sempre lì a sinistra, ma aveva la facciata coperta completamente di manifesti con falce, martello e stella e la scritta «Vota PCI». Quando si dice «ricoperta completamente», si vuol significare che, mentre don Camillo tuonava dal pergamo, una squadra di quindici filibustieri, armata di quindici scale, quindici pennelli e quindici secchie piene di colla, aveva tappezzato la facciata della casa, non lasciando scoperto un solo millimetro di roba. I manifesti erano stati incollati in perfetto ordine anche sulle persiane delle finestre e sulle ante della porta. E sotto la grondaia. E tutt'attorno ai camini. Il lavoro era stato curato nei minimi particolari; quindi anche sul marciapiedi erano stati incollati manifesti, e manifestini più piccoli ricoprivano la canala della gronda.
Don Camillo vide, ma non parlò. Trasse di saccoccia gli occhiali, li inforcò, poi, fattosi davanti alla canonica, sostò, guardò il capolavoro e, voltatosi, domandò a Peppone che era lì alle sue spalle: «Ah! Un nuovo partito?». «C'era già da un pezzo» rispose Peppone. «Capisco: comunque non si è mai presentato con quella faccia lì nelle altre elezioni. Si vede che non sa più dietro cosa nascondersi.» «Non si nasconde e non ha bisogno di nascondersi» spiegò con voce dura Peppone stringendo i denti. «Meglio così. Meglio per tutti» osservò don Camillo. Poi si avvicinò alla porta, cavò di tasca il temperino, cercò la fessura dell'anta e, con estrema delicatezza, tagliò la carta dei manifesti che ricoprivano tutta la porta. Poi girò la maniglia, socchiuse l'anta, entrò e richiuse. Un secondo dopo riaperse la porta e si riaffacciò: «Se non ho sbagliato a contarli» disse a Peppone «sono tutti i manifesti che ti rimanevano della spettanza!». Peppone lo guardò cupo e gridò: «Ci è rimasto un foglio solo, ma, per annunciare al popolo la nostra vittoria, basterà!». «Se deve servire per questo, te lo puoi appiccicare sulla schiena» esclamò don Camillo. E Dio solo sa la fatica spaventosa che egli fece dicendo «schiena».
198 IMPORTANZA DI ESSERE IN LISTA Ci fu battaglia grossa, in Comune, perché Spiletti – capo dei clericali e unico consigliere di minoranza – approfittò della prima seduta per protestare energicamente contro il sopruso commesso dai «rossi» ai danni dell'arciprete. «Non c'è persona di buon senso» concluse Spiletti «che, vedendo la canonica tappezzata di manifesti, non abbia provato un profondo disgusto.» «Invece questa persona c'è!» urlò Peppone. «E questa persona sono io.» «Lei non è una persona di buon senso» gridò lo Spiletti «altrimenti non approverebbe una vergognosa impresa architettata al solo scopo di offendere un degno sacerdote!» Peppone sghignazzò: «Degno sacerdote! I degni sacerdoti non trasformano la chiesa in una tribuna di propaganda elettorale! Se il suo degno sacerdote vuol tenere dei comizi, li tenga in piazza. Quando è in chiesa faccia il prete!». «E lei quando è in Comune, faccia il sindaco!» replicò Spiletti. «Questa è una seduta del Consiglio comunale e non una riunione della sezione comunista. Quello che il prete fa in chiesa non c'entra con la nostra discussione: qui si tratta sem-
plicemente di un importante edificio del paese che è stato deturpato e ciò ha suscitato l'indignazione di gran parte della cittadinanza. Di questo lei deve tener conto perché qui lei ha il dovere di comportarsi da sindaco!» «Io mi comporterò da sindaco quando il suo signor prete, invece di comportarsi da propagandista politico, si comporterà da prete!» ribadì Peppone. Ma lo Spiletti scosse il capo: «Ho già detto che il comportamento del prete non c'entra. Qui c'entra la canonica il cui contegno è fuori d'ogni discussione in quanto la canonica non si è mai comportata da propagandista di politica, ma si è sempre comportata da canonica. La cittadinanza è indignata per il miserevole stato in cui si trova oggi l'edificio della canonica e chiede al sindaco che lo sconcio venga eliminato!». Lo Smilzo fece udire la sua voce: «Altro che sconcio! Bisognerebbe eliminare il prete!». «La cittadinanza oggi come oggi non chiede l'eliminazione del prete!» disse Spiletti. «Quando la chiederà, ne parleremo. Per ora chiede semplicemente l'eliminazione dello sconcio dei manifesti appiccicati alla canonica. È una questione di estetica e di decenza.» Peppone, che aveva macinato rabbia fino a quel momento, intervenne: «Tutto quello che può fare il Comune è di prestare al signor parroco una secchia, una spazzola e una scala».
«L'offerta è generosa e simpatica» spiegò Spiletti. «Ma devo avvertire che è già stata fatta al signor arciprete. Ma il signor arciprete ha risposto che non può accettarla. Egli teme che, vedendolo staccare manifesti elettorali, la gente dia al suo gesto un significato politico. E nessun privato accetterebbe il compito: soltanto se il lavoro venisse effettuato da incaricati del Comune non ci sarebbe possibilità di equivoci spiacevoli.» Peppone aveva le vene del collo grosse come radici di quercia. Digrignò i denti per qualche istante, poi urlò: «Propongo che il signor arciprete vada all'inferno lui e tutta la sua banda!». «Approvato per acclamazione!» risposero tutti i consiglieri eccettuato, beninteso, lo Spiletti. Però la questione non era risolta: e Peppone se ne accorse la mattina dopo, quando lo Smilzo venne ad avvertirlo che, sul sagrato, stava succedendo qualcosa che non funzionava. Peppone corse al sagrato e trovò un sacco di gente radunata davanti alla canonica. E, in mezzo al cerchio di gente, stava don Camillo. Aveva portato fuori il letto, la tavola, una sedia, un paravento, una catinella e un comò, e adesso, seduto sul letto, spiegava: «Sì, stanotte ho dormito qui: sono stato fortunato perché non è piovuto». «E se piove, reverendo?»
«Figliolo, aprirò l'ombrello! D'altra parte io non posso abitare in una casa senza luce, senz'aria. In una casa con tutte le finestre bloccate… Non mi lamento, però. Bisogna aver pazienza. Il 7 giugno non è lontano e dopo il 7 giugno, finite le elezioni, io avrò il diritto di staccare i manifesti elettorali che mi hanno appiccicato sulle gelosie e così riaprirò le finestre. Non mi lamento, anzi ringrazio Dio che il manifesto sulla porta me l'hanno appiccicato in modo tale che posso aprire la porta senza lacerarlo. Così vuol dire che, fino al 7 giugno, io vivrò qui sul sagrato.» Il Barchini, che non aveva visto Peppone, intervenne: «Reverendo, quello che lei vuol fare è una pazzia! Stracci i manifesti e rientri in casa sua! Vedrà che nessuno avrà il coraggio di aprir bocca!». Don Camillo allargò le braccia e scosse il capo: «Figliolo, tu allora non conosci che tipi siano quelli che hanno attaccato i manifesti! Non lo sai che in Cecoslovacchia, nel 1948, hanno attaccato un manifesto come questo sulla porta di un povero parroco e poi, quando il parroco per entrare in casa ha lacerato il manifesto, lo hanno mandato sotto processo per azione provocatoria e sabotatrice?». «Ma qui non comandano loro!» esclamò il Barchini. «E se vincono le elezioni?» sospirò don Camillo. «Chi mi salva? No, figlioli, io non voglio grane. Io sono un povero vecchio prete pacifico che vuol vivere in santa pace con Dio e con gli uomini.» Una vecchietta disse, con voce angosciata:
«Ha ragione, povero don Camillo! Voialtri non sapete che brutta gente siano questi senzadio!». Era una faccenda che gridava vendetta e Peppone non riuscì a resistere. Scappò via di corsa e, dieci minuti dopo, arrivava una squadra con secchie, spazzole, scale, spugne, raschietti, e si dava subito con furore a staccare i manifesti dalla canonica. Il lavoro durò due ore e, alla fine, don Camillo allargò le braccia e volse gli occhi al cielo: «Gesù, guardate a cosa mi hanno ridotto la facciata della canonica! Gesù, ditelo voi se a un povero prete che si toglie il pane di bocca…». Non potè continuare perché erano arrivati muratori e imbianchini comandati dal Bigio in persona. «Reverendo» disse sottovoce il Bigio a don Camillo «non esagerate, per favore!» Don Camillo non esagerò e tornò in casa con tutte le sue cianfrusaglie. E la canonica ebbe la facciata rimessa a nuovo. Alla prima seduta del Consiglio comunale, Peppone si rivolse all' opposizione: «La signora minoranza è soddisfatta?» domandò aggressivo. Spiletti allargò le braccia: «Per poter rispondere io devo prima sapere chi ha fatto eseguire il lavoro di ripristino alla canonica».
«E chi vuole che l'abbia fatto eseguire?» urlò Peppone. «Noi!» «Voi nel senso di amministrazione comunale o nel senso di partito comunista? Perché non sarebbe ammissibile che la amministrazione comunale pagasse il danno provocato dal partito comunista!» «Noi nel senso di Giuseppe Bottazzi privato cittadino che, per farvela piantare, ha pagato di sua tasca!» gridò Peppone. Lo Spiletti scosse il capo: «L'opposizione si dichiara insoddisfatta. La cittadinanza chiedeva l'intervento del Comune per eliminare uno sconcio facendo poi pagare le spese al partito responsabile di detto sconcio. È inconcepibile che un'amministrazione comunale permetta a un privato cittadino di sostituirsi a lei in atti che debbono essere di stretta ed esclusiva competenza della stessa amministrazione. Quindi esprimiamo la nostra piena disapprovazione per l'incuria del sindaco Giuseppe Bottazzi che ha tollerato l'intollerabile arbitrio del cittadino Giuseppe Bottazzi, il tutto a vantaggio del compagno Giuseppe Bottazzi e del suo partito». Peppone era tanto rosso in faccia che pareva nero: «E per l'aspirante omicida Bottazzi Giuseppe, c'è niente?» ansimò Peppone stringendo i pugni. Lo Spiletti non tese di più la corda: «L'opposizione non vede la necessità di aumentare i Bottazzi e dichiara chiuso l'incidente».
* Peppone era un uomo di spirito e la risposta dello Spiletti lo sgonfiò immediatamente. Anzi lo divertì tanto che, finita la seduta, prese sottobraccio l'opposizione e volle pagarle da bere. Però era di spirito fino a un certo punto e, la sera, andò a far due chiacchiere con don Camillo. «Reverendo» disse Peppone «la farsa è finita. Non me ne importa niente di aver fatto la parte dello stupido. Però, adesso bisognerebbe non ricominciare da capo. Altrimenti, questa volta, la farsa finisce in tragedia. Dipende da voi.» «Da me?» «Reverendo, lasciate stare la politica.» Don Camillo sospirò: «Peppone, se, mentre tu nella tua officina stai temperando uno scalpello d'acciaio, io ti dicessi: "Continua il tuo lavoro, però spegni il fuoco", cosa mi risponderesti?». «Che siete matto perché per temperare dell'acciaio è necessario tirarlo rosso al punto giusto e per tirarlo rosso ci vuole il fuoco.» «Peppone, allora non è un tuo capriccio, il fuoco, ma una cosa indispensabile.» «Si capisce.» «Lo stesso accade per me. Non è animosità politica che mi spinge a parlare della scomunica, Peppone. Io lo debbo
fare. E se non lo facessi sarei il peggiore dei sacerdoti. Cerca di capire.» Peppone lo guardò cupo: «Ho capito, reverendo. Siete voi che non avete capito niente». Peppone se ne andò e don Camillo, serenamente, continuò per la giusta strada. E, ogni volta che parlava ai suoi fedeli, premetteva: «Fratelli, io debbo dirvi che due e due fanno quattro. Se questo risultato non piace a qualcuno che ha una sua idea particolare sulla matematica, come posso io dirvi che due e due fanno cinque? C'è chi trova nell'oppio l'unica dolcezza che gli dà la vita: posso io, per non irritare costui, dirvi che l'oppio non è un veleno?». Ma a Peppone la faccenda non riusciva ad andar giù e giorno per giorno si inviperiva. E si caricò a tal punto di veleno da perdere ogni controllo del buon senso. * Don Camillo quella sera stava cenando, quando qualcuno bussò alla finestra del tinello. Don Camillo andò a dare una occhiata, riconobbe il tipo e, passato nell'andito, aprì la porta. Il tipo entrò e don Camil-
lo, senza diffidenza, ritornò in tinello e si sedette alla tavola, dopo aver detto al tipo di richiudere la porta. Don Camillo s'era appena seduto che l'ometto apparve sull'uscio del tinello. Però non era solo. Dietro di lui stava la squadraccia di Peppone al completo e tutti avevano facce poco promettenti. «Ebbene, che storia è questa?» domandò cauto don Camillo. Quattro o cinque gli si misero alle spalle, gli altri di fianco. «Cerchi di star tranquillo, reverendo» gli spiegò Peppone entrando e chiudendo l'uscio. «Continui a mangiare. Noi intanto facciamo il nostro mestiere.» Si avanzò lo Smilzo che portava nella destra una secchia piena di colla e nella sinistra un rotolo di carta. Depose la secchia per terra, vi intinse un grosso pennello e spennellò di colla il muro davanti a don Camillo. Poi spennellò il rovescio di un manifesto e appiccicò con cura il manifesto al muro. In seguito appiccicò un manifesto contro l'uscio e un altro ne appiccicò contro lo sportello dell'armadio. «Fatto» disse alla fine. Don Camillo guardò i manifesti e poi guardò Peppone. «Questa è la mascalzonata più grossa che potevi organizzare» affermò don Camillo. «Non è più grossa della mascalzonata che fate voi insinuandovi subdolo nelle case, nascosto nell'animo ingenuo
dei vecchi e delle donnette. È una violazione di domicilio peggiore di questa. Comunque speriamo che abbiate capito, adesso che vi abbiamo spiegata la cosa con un esempio.» «Va bene» borbottò don Camillo. «Ricordatevi però che questo insulto me lo pagherete!» Lo Smilzo sogghignò: «Abbiamo organizzato le cose per bene, reverendo. Non potete fare niente: non avete testimoni». «Dio ha visto!» «Testimonis unus, nientoribus!» ridacchiò lo Smilzo. «Non te ne incaricare, giovanotto» rispose calmo don Camillo. «Dio è un testimone che vale per due. Ve ne accorgerete.» Uscirono dalla parte dell'orto e don Camillo rimase solo a guardare i manifesti appiccicati al muro, all'armadio e al battente dell'uscio. «Gesù» disse don Camillo «perché non li fulminate tutti?» «È una questione di principio, don Camillo. Se non li ho fulminati quando mi inchiodavano sulla Croce, come posso fulminarli ora per il fatto che hanno incollato tre pezzi di carta al muro di casa tua? Ragiona, don Camillo: potrebbe sembrare una manovra per impedire il libero andamento delle elezioni.» Don Camillo chinò il capo. *
Ci fu chi, il giorno dopo, vide i manifesti appiccicati nella saletta di don Camillo, e la voce corse e, per quanto don Camillo cercasse di tagliar corto alle chiacchiere per non rendere irrespirabile l'aria già calda, un bel giorno lo Smilzo arrivò ansimante alla Casa del Popolo e portò a Peppone e allo stato maggiore le novità: «Don Camillo è passato al contrattacco! Per vendicarsi della lezione ha detto che…». L'idea attribuita a don Camillo era così ridicola e puerile che tutti si spanciarono per il gran ridere. «Si vede davvero che è in piena crisi!» concluse Peppone. «Quando un prete è ridotto ad attaccarsi a simili rampini è finito! Questa è una vittoria morale straordinaria. È la distruzione completa dell'avversario.» La cosa venne discussa con piena soddisfazione e, alla fine, Peppone sollevò un'obiezione sensata: «Però si tratta di voci semplicemente. Per poter sfruttare adeguatamente la cosa ci vorrebbe una prova». Lo Smilzo tentennò il capo: «È una parola! Bisognerebbe, come minimo, fotografare il documento». «Non occorre» spiegò Peppone. «È sufficiente prenderne visione. Se le variazioni sono state fatte, noi possiamo sfidarlo a produrre il documento e tutti si accorgeranno delle modifiche. Ne riparleremo quando sarà ora. Per il momento, nessuno ne parli.»
Nessuno ne parlò più e così passarono parecchi giorni e pareva oramai che la cosa fosse completamente dimenticata. Ma, invece, c'era qualcuno che si ricordava benissimo di tutta la faccenda. Tanto è vero che, la volta in cui don Camillo rimase in chiesa fino a mezzanotte passata per studiare all'armonium un'arietta da adattare alla canzoncina che i ragazzini dovevano cantare per la venuta del Vescovo, sentì a un tratto che qualcosa non funzionava e, voltatosi di scatto, si trovò al cospetto di un intruso intabarrato. Balzò in piedi e agguantò un pesante candelabro di bronzo che stazionava nei paraggi. «Via di qui!» intimò don Camillo. «Se prima non ho visto il registro non mi muovo!» rispose l'intruso lasciando scivolar giù dalle spalle il tabarro. Aveva una grossa stanga fra le mani e la prospettiva di un duello a quell'ora non era allettante per don Camillo. «Peppone, sei diventato matto?» «Reverendo, voglio vedere il registro, se no lo divento.» «Il registro?» «Sì, il registro del battesimo. Voglio vedere se è vero che voi per vendicarvi avete cancellato i nostri nomi.» La cosa era così grossa che don Camillo lasciò cadere il candelabro. «Gesù!» esclamò volgendo gli occhi al cielo. «Costui è peggio che pazzo! È diventato cretino!»
«Voglio vedere il registro!» ripetè l'altro cupo. «Tutti dicono che voi avete cancellato i nostri nomi.» «E a quale scopo?» «Per eliminarci dall'elenco dei cristiani.» Don Camillo guardò sbalordito Peppone poi si avvicinò al grande armadio pieno di vecchi registri. Trovò quello che interessava (l'anno lo sapeva perché don Camillo era nato lo stesso anno di Peppone) e lo mise sull'armonium. «Guarda tu stesso.» Peppone sfogliò il libraccio. Controllò quanto voleva controllare. «E gli altri?» domandò. «Gli anni li sai: mentre io vado avanti col mio lavoro, trovati i registri e vedi tu.» Don Camillo tornò a sedersi all'armonium e riprese a comporre la sua canzoncina. E subito si accorse che, adesso, il motivo della canzoncina gli veniva fuori con enorme facilità. Sì che, dopo mezz'ora, aveva finito. Allora la provò tutta di seguito accompagnando la musica col canto. E quando ebbe terminato era eccitato. «Pare la Marsigliese!» borbottò Peppone che, controllati i registri, era rimasto lì a sentire. In realtà, se i bambini avessero accolto il vecchio Vescovo al canto di quell'inno, il vecchio Vescovo avrebbe sussultato.
Don Camillo se ne rese conto ma non se ne dolse, anzi se ne rallegrò. Non svelò lo stato d'animo a Peppone. Anzi lo guardò malamente e gli domandò brusco: «E allora?». «Va bene» rispose Peppone. «Il fatto di essere sempre nella lista dei cristiani non ti deve illudere. Alla fine pagherai tutte le porcherie che hai commesso!» «Questi sono affari miei» affermò Peppone. «L'importante è di essere in lista.»
199 BELLISSIMO Quella mattina Peppone saltò giù dal letto alle quattro. Si era addormentato con un chiodo piantato dentro il cervello e così non aveva avuto bisogno di caricare la sveglia per essere in piedi a quell'ora insolita. Poco prima della mezzanotte, quando già stava sull'uscio di casa, gli era arrivata la notizia che i clericali avevano tenuta una riunione segreta alla palazzina del Filotti. L'informatore, rimasto appostato negli immediati paraggi del luogo di raduno, era riuscito a carpire una frase che qualcuno dei pezzi grossi clericali aveva pronunciato ad alta voce mentre stava uscendo assieme agli altri: «Domani rideremo!». Cosa sarebbe successo l'indomani? Peppone non riuscì a dare una risposta a questo preoccupante interrogativo e, dopo aver fatto lavorare inutilmente tutte le rotelle del suo cervello, concluse che l'unica cosa da farsi era quella di andare a letto subito per poter essere in piedi alle prime luci dell'alba. Alle quattro e un quarto Peppone usciva di casa e iniziava il suo giro d'ispezione per le strade deserte del paese addormentato.
Non notò niente di strano: i manifesti appiccicati al muro erano quelli della sera prima. Idem per gli striscioni e i grandi tabelloni. Ciò tranquillizzò in un senso Peppone, ma lo preoccupò in un altro: se non si trattava d'un colpo propagandistico a base di carta da appiccicare ai muri, cos'è che avevano architettato i clericali? Probabilmente si doveva trattare di un colpo giornalistico e, stando così la faccenda, non rimaneva a Peppone che aspettare tranquillamente l'arrivo dei giornali. Attraversò la piazza e puntò decisamente verso la Casa del Popolo. Camminava a testa bassa, immerso nei suoi profondi pensieri, e così, quando, arrivato a destinazione, cacciò di tasca la chiave per aprire il portone della Casa del Popolo, fu colto di sorpresa e fece un salto indietro. Sul gradino, a piè del portone, c'era un grosso fagotto d'aspetto tutt'altro che rassicurante e Peppone pensò immediatamente a una macchina infernale. Ma, nel giro di pochi secondi, si verificò un fatto che demolì l'ipotesi di Peppone: il fagotto mise fuori una piccolissima mano e l'agitò. Peppone si avvicinò con diffidenza e, sollevato un lembo dello straccio nero che copriva il fagotto, scoperse che alla piccola mano era attaccato un piccolo braccio, e al piccolo braccio un piccolo bambino. Peppone non aveva mai visto un bambino così bello: non poteva avere più di tre o quattro mesi e gli mancavano soltanto due ali per sembrare un angelo.
Sulla vesticciola, qualcuno aveva appuntato con uno spillo da balia un foglio: «Se voi siete il partito dei poveri, questa è la creatura più povera dell'universo perché non ha niente, neanche un nome. Ve lo affida una madre infelice». Peppone, letto e riletto l'incredibile messaggio, rimase a bocca aperta il tempo strettamente necessario, poi cacciò un urlo. Arrivò subito da ogni parte gente che indossava poco più che la camicia e che aveva gli occhi ancora pieni di sonno. E tutti lessero il biglietto e rimasero sbalorditi. «È mai possibile che nell'era della bomba atomica si verifichino ancora cose di questo genere?» gridò a un bel momento Peppone. «Qui siamo in pieno Medioevo!» «Con la semplice differenza che nel Medioevo i bambini li lasciavano sui gradini delle chiese!» osservò lo Smilzo che era arrivato da pochi istanti. Peppone si volse e lo guardò perplesso. «E con questo» borbottò aggressivo «cosa intenderesti dire?» «Intendo dire che c'è un bel progresso, dal Medioevo a oggi» spiegò lo Smilzo. «Tanto è vero che le madri disgraziate costrette ad abbandonare i figli non si fidano più dei preti ma…» Peppone non lo lasciò finire: lo agguantò per il bavero e lo trascinò verso il portone. «Prendi il bambino e vieni dentro!» Lo Smilzo tirò su il fagotto e seguì Peppone.
«Capo» balbettò lo Smilzo quando fu nell'ufficio particolare di Peppone «perché mi tratti così? Ho forse detto una bestialità?» Peppone era eccitatissimo. «Smilzo» esclamò «prendi un foglio e butta giù il concetto. Non perdere un secondo! Rideremo noi, oggi!» La moglie del Lungo, chiamata d'urgenza, si occupò del bambino e lo Smilzo, presi un foglio e una matita, buttò giù il concetto. Lavorò duramente per un'ora e, alla fine, lesse a Peppone il risultato: «Cittadini! «Questa mattina, approfittando delle tenebre notturne, la mano ignota di una madre infelice ha deposto la sua creatura davanti alla porta della Casa del Popolo, dove il compagno Giuseppe Bottazzi la rinveniva. «Sul bambino abbandonato era appuntato questo biglietto: "Se voi siete il partito dei poveri, questa è la creatura più povera dell'universo perché non ha niente, neanche un nome. Ve lo affida una madre infelice". «Cittadini! «Nel mentre noi stigmatizziamo il gesto insano della madre ignota, noi denunciamo al mondo l'ingiustizia sociale per la quale i ricchi hanno troppo e i poveri non hanno neppure di che sfamare la loro creatura.
«Ecco i veri colpevoli! Il povero non ruberebbe il pane se il ricco non priverebbe il povero dei generi di prima necessità! «Il gesto disperato della madre che abbandona il figlio neonato è caratteristico della società feudale del Medioevo, ma la mentalità del popolo non è più medievale perché mentre nel Medioevo abbandonava il figlio davanti alla chiesa ora lo lascia davanti alla Casa del Popolo il che significa che la fiducia nei preti è finita e i poveri sperano soltanto nel Partito Comunista per il quale tutte le creature sono uguali e hanno diritto al loro posto al sole! «Cittadini, mentre noi assumiamo la tutela della creatura abbandonata, vi invitiamo a votare compatti per la nostra lista! La Sezione del PCI». Peppone si fece rileggere ancora un paio di volte il proclama, discusse sulla dislocazione di alcune virgole e poi mandò lo Smilzo dal Barchini con l'ordine di stampare cinquecento manifesti. Nel pomeriggio i manifesti erano pronti e la squadra degli attacchini partiva a tutta birra. *
Ci fu subito una complicazione perché il maresciallo dei carabinieri, appena letto il manifesto, andò da Peppone. «Signor sindaco, corrisponde a verità il fatto di cui parla il comunicato della sezione del Partito comunista?» «Maresciallo, le pare che io mi inventi una cosa del genere? Il bambino l'ho trovato io stesso.» «E perché non ha denunciato il rinvenimento?» Peppone lo guardò sbalordito. «Maresciallo, ma se il fatto è denunciato da cinquecento manifesti appiccicati per tutto il paese!» «Ho visto: ma noi dobbiamo redigere un verbale e inoltrare a nostra volta una denuncia. Chi abbandona i figli commette un reato. E poi chi le dice che quel bambino sia effettivamente figlio della donna che ha scritto il biglietto? E chi le dice che a scrivere il biglietto sia stata una donna? E se il bambino fosse stato rapito ai genitori e poi abbandonato?» Peppone fece la denuncia regolare al maresciallo che interrogò i testimoni e poi compilò il verbale. «E adesso dove si trova questo bambino?» disse alla fine il maresciallo. «A casa sua» rispose Peppone fiero. «Alla Casa del Popolo.» «Chi è che l'ha in consegna?» «Il Partito comunista. Il bambino lo abbiamo adottato noi.» «Un partito non può adottare dei figli. E non può neppure tenere in consegna dei bambini. Il bambino deve essere af-
fidato a un istituto autorizzato dallo Stato. Quindi, signor sindaco, noi riteniamo lei personalmente responsabile del bambino. Avvertiremo un istituto della città e lei, domattina, consegnerà il bambino agli incaricati dell'istituto stesso.» Peppone guardò cupo il maresciallo. «Io non consegnerò niente» disse. «Il bambino lo adotto io personalmente.» Il maresciallo scosse il capo. «Ammiro la sua generosità, signor sindaco. Ma ciò non è possibile fino a quando non siano state condotte a termine tutte le indagini del caso.» «Mentre lei fa le indagini del caso, il bambino può benissimo rimanere affidato a me e a mia moglie. Ne abbiamo allevati quattro, di figli, e, se non sbaglio, piuttosto bene. D'altra parte, del bambino non risponde uno sconosciuto, ma la più alta autorità del Comune, vale a dire il sindaco.» Il maresciallo non sapeva più cosa obiettare. «Andiamo a vedere il bambino» borbottò. «Non si incomodi, maresciallo: glielo faccio portare qui. Così lo consegniamo al sindaco.» Arrivò poco dopo la moglie del Lungo col bambino in braccio e, appena il maresciallo se lo trovò davanti, esclamò: «Accidenti! È un capolavoro! Non capisco come si possa abbandonare una creatura così bella!». Peppone sospirò. «Anche se sono belli, i bambini non vivono d'aria.»
* Il maresciallo ebbe poche indagini da fare: la sera stessa lo chiamarono d'urgenza perché presso Torricella, a tre chilometri dal paese, avevano trovato una poveretta morta sulla linea ferroviaria. Nella borsetta della sciagurata c'erano una carta d'identità e una lettera che incominciava: «È la solita storia della ragazza sola al mondo, tradita e abbandonata…». Dalla carta d'identità risultava tutto il resto e il maresciallo non ebbe che a scrivere ai carabinieri della lontana città nella quale la ragazza era domiciliata e attendere la risposta. La risposta venne: si trattava effettivamente di una ragazza sola al mondo e il bambino era registrato come figlio della ragazza. Il maresciallo comunicò a Peppone: «Se crede può iniziare le pratiche per l'adozione. Se invece avesse cambiato idea…». «Io non cambio idea.» * Il bambino era veramente un capolavoro e chiunque lo vedeva rimaneva sbalordito. Andò a finire che lo videro anche il Bicci e sua moglie e diventarono subito mezzo matti.
I Bicci erano pieni di soldi: nella vita tutto era andato bene per loro eccettuata una cosa. Non avevano avuto figli e, adesso, sognavano soltanto di averne uno. Visto il bambino dissero: «Ce lo manda il Padreterno! Non ha nessuno al mondo. È nostro!». Corsero da don Camillo e gli spiegarono tutto: «Soltanto lei può fare qualcosa. Peppone ascolta soltanto lei». E don Camillo dovette andare a bussare alla porta di Peppone. Peppone lo accolse con malgarbo: «Politica?» si informò. «No. Qualcosa di più serio. È per quel bambino.» «Peggio che se voleste parlare di politica.» rispose Peppone feroce. «Il bambino non ha bisogno di niente. Risulta che è già stato battezzato al suo paese. Posso dirvi semplicemente che si chiama Paolo.» «So tutto. Però non è vero che egli non abbia bisogno di niente: a me dà l'idea che abbia bisogno, come minimo, di un padre e di una madre. Mentre tu non hai bisogno di altri figli.» «Reverendo, impicciatevi degli affari vostri: alle cose mie di famiglia ci penso io. Io a quel bambino voglio bene come se fosse mio figlio. Anche di più.» «Lo so: e appunto per questo son venuto. Se gli vuoi bene cerca di dargli il miglior avvenire possibile. I Bicci
sono senza figli e senza parenti. Lo adotterebbero a braccia aperte e gli lascerebbero tutta la loro roba.» «Avete niente altro da comunicarmi?» si informò Peppone. «No.» «Allora, se volete sgombrare il locale, l'uscita è sempre là in fondo a destra.» Don Camillo aveva ancora qualcosa da dire: «Capisco: il bambino ti fa comodo come motivo di propaganda elettorale. A te non interessa il suo avvenire!». Peppone smise di lavorare all'incudine e gli si venne a piantare davanti: «Reverendo, io avrei il diritto di spaccarvi la testa con una martellata. Ma non concluderei niente di buono perché farei la figura del criminale. Invece ci tengo che la figura del criminale la facciate voi. Andiamo dal maresciallo». Peppone si avviò verso la porta e don Camillo lo seguì incuriosito. Trovarono il maresciallo alla palazzina. «Maresciallo» domandò Peppone «è vero, come hanno stampato i giornali, che nella borsetta di quella povera ragazza avete trovato una lettera?» «Certamente» rispose con diffidenza il maresciallo. «Era una lettera indirizzata all'Autorità giudiziaria e io l'ho trasmessa appunto all'Autorità giudiziaria.» «Benissimo: cosicché all'infuori dell'Autorità giudiziaria nessuno sa cosa ci fosse scritto, su quella lettera.»
«Nessuno.» «E allora io le dico che il sottoscritto sa perfettamente cosa c'è scritto su quella lettera.» Il maresciallo si rabbuiò: «Signor sindaco, vuol spiegarmi come può essere accaduto un fatto del genere?». «Il fatto è accaduto perché la poveretta, prima di buttarsi sotto il treno, ha imbucato a Torricella una lettera identica a quella che lei ha trovato nella borsetta. E la lettera era indirizzata a me.» «A lei? Allora lei conosceva la ragazza!» «No: la lettera era indirizzata al "Capo della Casa del Popolo". E il capo della Casa del Popolo sono io, e la lettera è arrivata a me personalmente.» Il maresciallo sorrise incredulo: «Che quella poveretta, lasciato il figlio davanti alla Casa del Popolo, abbia indirizzato una lettera al capo della Casa del Popolo può anche darsi. Ma lei come può dire che si trattasse della stessa lettera trovata nella borsetta e indirizzata all'Autorità giudiziaria?». «Per la semplice ragione che sulla lettera a me arrivata c'è scritto: "Una lettera identica a questa ho indirizzato anche all'Autorità giudiziaria ".» Peppone trasse di tasca un foglietto dattiloscritto: «L'originale è al sicuro. E la lettera dice esattamente: "È la solita storia della ragazza sola al mondo, tradita e abbandonata. Chi mi ha tradito è un uomo ricco egoista e disonesto. Prima di morire ho affidato mio figlio a coloro che com-
battono i ricchi, il loro egoismo e la loro disonestà. Voglio che ne facciano un nemico dei ricchi. Agisco in questo modo non per sete di vendetta ma per desiderio di giustizia". Non è così?». Il maresciallo rimase impassibile: «Io non so niente» affermò. «Io ho trasmesso la lettera a chi di ragione e, in merito alla lettera, può rispondere soltanto chi di ragione.» «D'accordo, maresciallo: però io ho in mie mani una lettera autografa della madre del bambino, con tanto di firma e tanto di indirizzo "Capo della Casa del Popolo". Nessuno avrebbe potuto impedirmi di far riprodurre fotograficamente la lettera e di cavarne fuori dei manifesti grandi così. Pensi, signor arciprete, che colpo io avrei potuto fare se io pensassi soltanto a sfruttare il bambino come motivo di propaganda elettorale! Non pare anche a lei, signor maresciallo?» «È una questione non di mia competenza, signor sindaco. Io le ho detto tutto quello che potevo dirle.» * Ritornando verso il paese, don Camillo e Peppone camminarono per un bel pezzo in silenzio. Alla fine Peppone disse: «Reverendo, avrei o no il diritto di spaccarle la testa con una martellata?».
«No: solo Dio ha il diritto di togliere la vita a una creatura umana.» «Va bene: allora il Padreterno avrebbe o no il dovere di togliere la vita alla creatura umana che copre la carica di arciprete di questa parrocchia?» «Dio non ha doveri: Dio ha solo dei diritti. E di fronte a Dio gli uomini hanno soltanto dei doveri.» «Perfetto!» gridò Peppone. «E nel caso presente, quale sarebbe il mio dovere di fronte a Dio? Dare il bambino ai Bicci perché ne cavino fuori un porco egoista e disonesto come loro?» «Oppure tenerlo tu e crescerlo alla scuola dell'odio?» replicò don Camillo. Erano arrivati davanti alla casa di Peppone: entrarono. Nella grande cucina c'era la culla e, dentro la culla, il bambino dormiva. Quando don Camillo e Peppone gli furono vicini, aprì gli occhi e sorrise. «Come è bello!» esclamò don Camillo. Peppone si asciugò il sudore della fronte, poi si allontanò e tornò con un foglio. «È l'originale della lettera della madre» spiegò Peppone. «Potete controllare se ho detto o no la verità. Guardate pure.» «Non darmi quel foglio!» esclamò don Camillo. «Se me lo dai ti giuro che lo distruggo!» «Io non voglio saper niente!» replicò Peppone. «Ecco: se volete guardare guardate.»
Fra don Camillo e Peppone stava la culla e Peppone allungò il foglietto a don Camillo. Ma una manina acchiappò al volo quel rettangolino di carta e lo strinse fra le piccole dita. Peppone allargò la manaccia e rimase a guardare sbalordito il bambino che, con le manine, riduceva a brandelli la lettera. «Gesù!…» ansimò don Camillo con gli occhi sbarrati. Entrò in quel momento la moglie di Peppone: «Chi è il disgraziato che gli ha dato quella cartaccia?» si mise a urlare indignata. «È scritta anche a matita copiativa! Roba che se se la mette in bocca si avvelena!» Raccolse i brandelli della lettera uno per uno e li buttò sul fuoco. Poi tolse il bambino dalla culla e lo levò in alto: «Reverendo, ha visto che capolavoro? Gli dica un po' a De Gasperi se è capace di farne uno uguale!». E lo disse come se l'avesse fatto lei. Don Camillo non raccolse la provocazione: se ne andò dopo aver salutato urbanamente tutta la masnada: «Buon giorno signora Bottazzi. Buon giorno signor Bottazzi. Buon giorno signorino Bottazzi». E il signorino Bottazzi rispose con un gorgheggio acuto e sottile che entrò nel cuore di don Camillo e glielo riempì di conforto e di speranza.
200 IL FIORETTO DELL'ELEFANTE Fulmine detto Ful era il cane di don Camillo. Cabazza Antenore, detto Fulmine, era invece uno degli uomini di Peppone. Tra i due Fulmini, quello che aveva più cervello era senza dubbio il cane di don Camillo; questo per dare un'idea del Fulmine a due zampe che interessa la nostra storia. Fulmine era un colosso tardo e massiccio, una specie di elefante che, una volta messo in moto, procedeva con la grazia e la decisione implacabile del pachiderma. Era un perfetto esecutore d'ordini, però la massima cura di Peppone nei riguardi di Fulmine era quella d'evitare di dargli degli ordini. Quindi Fulmine svolgeva la sua attività di militante comunista soprattutto all'osteria del Molinetto dove trascorreva giocando a carte quasi tutto il tempo che il lavoro gli lasciava libero. Aveva la fissa della scopa e, data la sua formidabile memoria, si presentava spesso come avversario pericoloso. Naturalmente, il gioco delle carte non è soltanto questione di buona memoria e Fulmine, ogni tanto, riceveva delle lezioni piuttosto dure. Ma non gli era mai successo quel che gli accadde il sabato che giocò con Cino Biolchi.
Infatti, dopo cinque ore di gioco, si trovò senza più una lira in tasca, e, allorché s'era messo a sedere al tavolo, aveva cinquemila lire. Fulmine, davanti a quel disastro colossale, rimase come rimbambito e non riusciva ad ammettere di dover tornare a casa completamente pelato. «La rivincita!» ansimò a un tratto agguantando le carte con le mani tremanti. «Te ne avrò date trentamila di rivincite!» rispose Cino Biolchi. «Adesso sono stufo.» «Facciamo la rivincita delle rivincite, così se vinco riprendo le mie cinquemila lire.» «E se perdi?» domandò Cino Biolchi. Fulmine si asciugò la fronte fradicia di sudore. «Soldi non ne ho più» balbettò. «Però ci gioco tutto quello che vuoi tu.» Il Biolchi si mise a ridere: «Non dire sciocchezze: torna a casa e dormici sopra». «Voglio la rivincita!» ruggì Fulmine. «Gioco quello che vuoi. Parla!» Il Biolchi era un tipo piuttosto singolare: «Sta bene, ci sto. Cinquemila lire contro il tuo voto». Fulmine lo guardò allocchito: «Il mio voto? Cosa significa?». «Significa che se tu vinci ti prendi le cinquemila lire. Se perdi tu ti impegni a dare il voto non al tuo partito ma alla lista che stabilirò io.»
Fulmine non voleva credere che il Biolchi parlasse sul serio, ma poi dovette convincersene. D'altra parte c'era per la gola: o così o niente. Il Biolchi mise sotto la lavagnetta un biglietto da cinquemila e porse a Fulmine un foglio e una penna stilografica: «Scrivi: "Io sottoscritto Gabazza Antenore mi impegno con la mia parola d'onore a votare il 7 giugno per la lista del…". Metti la data e la firma. Il nome del partito lo metterò io a mio gusto e quando mi parrà e piacerà». Fulmine scrisse quello che doveva ancora scrivere, poi guardò cupo il Biolchi: «Però resta una faccenda fra me e te, e io fino al 7 giugno ho il diritto di avere la rivincita». «D'accordo.» * Peppone stava per lasciare la Casa del Popolo quando gli comparve davanti Fulmine: «Capo, sono rovinato. Ho giocato col Biolchi e ho perso tutto». «Peggio per te. Sono affari che non mi interessano.» «Ti interessano invece. Ho perso i soldi e il voto.» Fulmine raccontò come stava la faccenda e Peppone, alla fine, si mise a ridere:
«Infischiatene: il voto è segreto. Quando sarai in cabina, voterai la tua lista e nessuno ne saprà niente». Fulmine scosse il testone. «Non si può. Ho firmato la carta.» «Che carta e carta! Non ha nessun valore.» «Ho dato la parola d'onore e ci siamo stretta la mano. Io sono uno di parola. Io non sono un birichino.» Fulmine era un ippopotamo ma non un birichino saltafossi. Al posto del cervello possedeva un motore da trattrice agricola, ma i motori, per quanto di ghisa e acciaio, hanno una loro logica implacabile che nessuno, a meno che non voglia fracassare il motore, può cambiare. Peppone, perfetto conoscitore di motori, si accorse che la faccenda era molto più grave di quanto non sembrasse a prima vista. Fulmine non avrebbe mai potuto mancar di parola. «Sta bene, Fulmine: domani ne parliamo con calma.» «A che ora?» «Alle dieci e trentacinque» rispose Peppone con rabbia. E disse «dieci e trentacinque»per non dire «va all'inferno tu e tutti i disgraziati come te» ma alle dieci e trentacinque della mattina seguente Fulmine compariva in officina dicendo: «Sono le dieci e trentacinque, capo». Fulmine evidentemente non aveva dormito e aspettava, fermo lì davanti all'incudine, con occhi pieni di stanchezza e di sgomento. La prima idea che venne in testa a Peppone fu
quella di pestare una martellata sulla zucca a Fulmine, ed era anche l'idea più logica e sensata. Poi il poveraccio gli fece pena e allora Peppone si limitò a buttar lontano il martello. «Sei un miserabile!» urlò Peppone «Meriteresti che ti cacciassi fuori dal Partito a pedate. Ma ci sono le elezioni di mezzo e non possiamo permettere che gli avversari sfruttino la storia. Eccoti cinquemila lire: va da quel porco e fatti restituire la carta. Se rifiuta di liberarti dall'impegno vieni ad avvertirmi.» Fulmine intascò il foglio da cinquemila e scomparve. Dopo neanche un quarto d'ora era di nuovo davanti a Peppone. «E allora?» domandò Peppone. «Non vuole.» Peppone si mise la giacca e il cappello e uscì di gran carriera dall'officina: «Tu aspettami qui». Il Biolchi ricevette Peppone con molta cortesia: «In che cosa posso essere utile al signor sindaco?». «Lascia perdere il sindaco! Qui si tratta di quel disgraziato di Fulmine: prendi le cinquemila lire e liberalo dall'impegno. Ieri era ubriaco.» «Non era ubriaco: era in pieno possesso di tutte le sue facoltà mentali. È stato lui a insistere. I patti sono chiari: fino al 7 giugno io sono a sua disposizione per la rivincita.»
«Biolchi» replicò Peppone «se io denunciassi questo sporco affare ai carabinieri, tu come minimo andresti dentro. Comunque, siccome non voglio che la cosa diventi di dominio pubblico, ti avverto che se non mi restituisci la carta io ti appiccico al muro come un manifesto.» Il Biolchi fece un risolino: «E ti pare che io non denuncerei l'aggressione ai carabinieri? Non ti conviene, Peppone». Peppone strinse i pugni ma capì che il Biolchi aveva il coltello per il manico: «Biolchi, sta bene. Però, se non sei l'ultimo dei vigliacchi, falla con me la rivincita invece che con quel disgraziato di Fulmine». Il Biolchi chiuse la porta del tinello, trasse da un cassetto un mazzo di carte e si sedette al tavolo. Peppone prese posto davanti a lui. Fu una scopa storica ma, alla fine, Peppone dovette cavar fuori un biglietto da cinquemila e andarsene a becco asciutto. La sera ci fu riunione dello stato maggiore, alla Casa del Popolo. Peppone impostò la questione con la serietà dovuta e concluse: «Quel farabutto non è di nessun partito però è decisamente contro di noi. Bisogna che noi liquidiamo l'affare senza cancan o ne salta fuori una farsa. Come possiamo accomodarla?».
«A scopa no di sicuro» borbottò lo Smilzo. «Il Biolchi a scopa ci mangia vivi tutti. Proviamo a trattare offrendo diecimila lire invece di cinquemila.» Era tardi ma andarono ugualmente a bussare alla porta del Biolchi. Il Biolchi era ancora alzato e pareva non avesse nessuna voglia di andare a letto. Doveva essergli successo qualche guaio. «Biolchi» disse con calma Peppone «gli affari sono affari. Perché non ci mettiamo d'accordo sul prezzo?» Il Biolchi allargò le braccia desolato: «Troppo tardi. È appena andato via Spiletti che mi ha vinto a scopa quindicimila lire e l'impegno di Fulmine». Peppone fece un balzo: «Biolchi, sei un farabutto: l'accordo con Fulmine era che la cosa doveva rimanere fra te e lui». «Appunto» replicò aggressivo il Biolchi. «La cosa doveva rimanere fra noi due e il primo a rompere i patti è stato proprio Fulmine mettendo di mezzo te. Quindi io sono a posto se ho messo di mezzo un altro da parte mia. Però io ho giocato la carta con l'impegno che Spiletti non può dare pubblicità alla faccenda e, fino al 7 giugno, deve concedere la rivincita a Fulmine.» Una parola! Il documento era tra le mani del capo dei clericali. Figuriamoci cosa ne avrebbe cavato fuori il dannato Spiletti.
Tornarono tutti in sede dove Fulmine li aspettava ansioso. «Qui c'è poco da discutere!» esclamò Peppone. «Bisogna mettere le mani avanti. Domattina pubblicheremo il comunicato con l'espulsione di Fulmine.» Fulmine guardò Peppone come se si trattasse di un fenomeno: «Capo, come hai detto?» balbettò. «Ho detto che da questo momento sei espulso dal Partito per indegnità. E la tua espulsione sarà retrodatata di tre mesi.» Peppone e la banda erano pronti a fronteggiare il cataclisma che la immancabile furia di Fulmine avrebbe scatenato. Invece non successe niente; Fulmine impallidì poi si strinse nelle spalle: «Hai ragione, capo» sospirò con una voce che non pareva neanche la sua. «Fai bene a mandarmi via come un cane.» Tolse dal portafogli la tessera del Partito e la depose delicatamente sulla scrivania. «Non ti mandiamo via come un cane!» esclamò Peppone. «Fingiamo di mandarti via per parare il colpo dei clericali. Dopo le elezioni tu fai la tua brava autocritica e noi ti riprendiamo.» «La mia autocritica la faccio subito: sono una bestia» disse tristemente Fulmine. «E se sono una bestia adesso lo sarò anche dopo le elezioni. Quindi è inutile sperare che io possa cambiare.»
Fulmine se ne andò e, prima di poter parlare, Peppone e soci dovettero aspettare un bel pezzo tanto la ritirata del povero bestione era stata straziante. «Noi adesso prepariamo il comunicato» disse lo Smilzo. «Però non mettiamolo fuori subito domani. Chi sa che Spiletti non mantenga la parola.» «Non conosci il tipo!» replicò Peppone. «Comunque facciamo come dici tu.» * Il giorno seguente non accadde niente di straordinario e parve che tutto dovesse rimanere tranquillo anche nelle ventiquattro ore successive: ma, verso sera, arrivò alla Casa del Popolo la moglie di Fulmine. Era agitatissima: «È diventato matto!» gemette. «Sono quarantotto ore che non mangia. Rimane continuamente coricato sul letto. Non parla. Non guarda nessuno.» Peppone andò a studiare il preoccupante fenomeno e, giunto davanti al letto sul quale stava sdraiato Fulmine, si trovò in presenza di una muta e immobile statua di carne. Lo scosse rudemente, lo pregò, lo insultò ma non riuscì a cavargli una parola. Non riuscì a farlo desistere per un solo istante dal suo atteggiamento di perfetta indifferenza per le cose di questo mondo.
Dopo un certo tempo, Peppone perdette la pazienza: «Se sei diventato matto, domattina faccio venire gli infermieri del manicomio così ti sistemeranno loro!». Fulmine lasciò cadere lentamente il braccio destro e pescò qualcosa nella strettoia fra il letto e il muro. Poi guardò Peppone e i suoi occhi dicevano: "Se vengono quelli del manicomio li ricevo io come si deve". Siccome Fulmine adesso stringeva nel pugno una scure, Peppone capì perfettamente il senso del muto discorso. Mandò via tutti e, rimasto solo con Fulmine, gli domandò: «A me, soltanto a me, lo puoi dire: perché ti comporti così?». Fulmine fece segno di no con la testa. Però rimise giù la scure e, aperto il cassetto del comodino, cavò fuori un notes, un lapis e incominciò a scrivere faticosamente. Indi porse a Peppone il foglietto: «Non posso parlare perché ho fatto un fioretto alla Madonna che fino a quando non posso riavere la mia carta io non parlo, non mangio, non bevo, non mi muovo e neanche vado a fare i bisogni. Saluti — Gabazza Antenore». Peppone lesse, mise in saccoccia il foglietto e poi chiamò la moglie e le figlie di Fulmine: «Ordine che nessuno entri in questa camera se non chiama lui. Ordine di lasciarlo tranquillo. Non c'è niente di grave: è un normale attacco di psicanalisi. È una specie d'influenza morale che ha bisogno soltanto di dieta e riposo».
Peppone tornò a trovare Fulmine la sera seguente: «Come ieri e come l'altro giorno» gli spiegò la moglie di Fulmine. «Bene» rispose Peppone. «Tutto regolare.» La stessa faccenda si ripetè la sera del quarto giorno. Allora Peppone, uscendo dalla casa di Fulmine, marciò diritto sulla canonica. Don Camillo era seduto alla scrivania e leggeva un grande foglio manoscritto. «Reverendo» disse Peppone «la sapete la storia di un cretino che ha perso a scopa il suo voto e poi…» «Non ti scomodare, la so» rispose don Camillo. «La sto leggendo qui su questo foglio. Pare che qualcuno ne voglia fare un manifesto.» «Ah, il signor Spiletti è dunque il solito farabutto: egli ha dato la parola d'onore che fino al giorno 7 non renderà pubblica la cosa e concederà la rivincita alla vittima.» «Non ne so niente. So che il manifesto risulterà interessante soprattutto per la riproduzione fotografica di un documento autografo rilasciato dal protagonista del fatto.» Peppone trasse di tasca il foglietto strappato dal notes: «Ecco, reverendo, dovreste pubblicare anche la riproduzione di quest'altro documento autografo che il protagonista ha rilasciato a me. La storia sarà più completa e istruttiva. Tanto più che presto il protagonista sarà, come minimo, crepato».
Peppone se ne andò e don Camillo continuò a rileggere le parole scritte sul foglietto. * Lo Spiletti arrivò in canonica un quarto d'ora dopo. «Reverendo, avete trovato qualcosa che non andava nel mio abbozzo?» «No. Il guaio è che dieci minuti fa Fulmine è venuto qui a chiedere la rivincita.» «La rivincita?» gridò lo Spiletti. «Non gli concedo un bel niente. Mi fa troppo comodo quel manifesto e non sono disposto a rinunciarvi.» «Capisco, ma i patti…» «I patti? Noi dovremmo preoccuparci di mantenere i patti con della gente che fa del tradimento e della menzogna la sua normale arma di offesa?» «D'accordo, caro Spiletti: lei ha centomila ragioni. Il fatto è che Fulmine è già preoccupante quando è normale, e adesso è diventato mezzo matto. Se lei gli nega la rivincita, è capace di farle la pelle come ridere. La propaganda è una cosa importante, ma la pelle è ancora più importante.» Lo Spiletti ci pensò su e ammise che don Camillo non aveva tutti i torti. «Giocare si può giocare: e se perdo?»
«Non bisogna perdere, caro Spiletti. Se lei è riuscito a battere a scopa Cino Biolchi, batterà facilmente quel bestione di Fulmine.» Lo Spiletti tentennò il capo: «Io non sono mai riuscito a battere Cino Biolchi, e il documento non gliel'ho vinto, me l'ha regalato. E lui ha recitato la commedia per liberarsi da Peppone. Reverendo, perché non gioca lei al mio posto? Io dico d'aver passato il documento a lei, dico che adesso il documento è suo. Con lei Fulmine non avrà niente da fare di sicuro». Don Camillo era il Giuseppe Verdi della scopa. Ridacchiò: «Se gioca con me, lo polverizzo. E non gli lascio neanche alzare la voce, a quel disgraziato. Spiletti, vinceremo!». * Don Camillo, il giorno seguente, andò a trovare Peppone: «Il documento adesso è in mani mie: se il tuo digiunatore lo rivuole, deve vincerlo giocando con me. Se accetta la rivincita adesso sta bene, altrimenti io uso subito il documento». Peppone lo guardò indignato: «Un disgraziato che da quasi una settimana non mangia, come può giocare una scopa con voi?».
«Tu sei disgraziato come lui però mangi regolarmente: la faccio con te, se vuoi.» «Magari!» «Accettato: cinquemila lire contro il documento.» Peppone cavò dal portafogli un biglietto da cinquemila e lo mise sulla tavola. Don Camillo pose sopra la banconota il "documento". Fu una partita dura e Peppone perdette. Don Camillo ficcò in tasca il biglietto da cinquemila e domandò: «Sei convinto o vuoi la rivincita?». Peppone cacciò di tasca un altro biglietto da cinquemila. Riprese a giocare e giocò come un cane. In compenso don Camillo giocò come due cani e, questa volta, Peppone vinse. «Ecco il foglio di Fulmine, compagno» disse don Camillo. «Io mi contento del tuo foglio da cinquemila.» * Peppone stava già da un quarto d'ora sorvegliando il pasto della liberazione di Fulmine allorché apparve don Camillo. «Fulmine» disse don Camillo «tu hai perso cinquemila lire col Biolchi, è vero?» «Sì» balbettò Fulmine.
«Eccoti le tue cinquemila lire. È la Divina Provvidenza che te le manda. Ricordatene quando stai per dare il tuo voto. Non votare contro i nemici di Dio.» «Sì, lo so: anche questo era compreso nel fioretto» spiegò l'infelice Fulmine. Peppone uscì e attese don Camillo fuori dalla porta: «Reverendo, siete l'essere più perfido dell'universo: voi fate fare bella figura alla Divina Provvidenza coi soldi miei!». «Le vie della Divina Provvidenza sono infinite, compagno!» sospirò don Camillo, levando gli occhi al cielo.
201 AL PONTE In città doveva parlare, verso le cinque e mezzo del pomeriggio di giovedì, un pezzo grosso del Partito, uno venuto apposta da Roma per «galvanizzare» gli elettori. Quindi era necessario che trovasse una piazza adeguata alla circostanza. La federazione aveva inviato tempestivamente degli ordini categorici anche alle più efficienti sezioni della campagna perché raccogliessero tipi ben carburati da portare in città: Peppone aveva domandato a quelli della federazione se tre camion di merce scelta erano sufficienti, e gli avevano risposto che si sarebbero accontentati di due. Ma alle quattordici e mezzo del giovedì, Peppone era a malapena riuscito a completare un solo camion. Tutti avevano parecchio da fare nei campi, in quei giorni, ed è difficile strappare via dal suo lavoro un contadino. Peppone sbraitò come un maledetto poi, visto che, anche a urlare, la situazione rimaneva immutata, si mise al volante del Dodge e partì. Prese la strada vecchia, quella del Molinetto, perché alla strada nuova stavano lavorando. Inoltre si risparmiavano almeno cinque chilometri e, quando si marcia sulla via della rivoluzione proletaria, non bisogna sciupare energie.
Passato il Molinetto che era l'ultima casa del paese, la strada vecchia correva per una buona decina di chilometri fra sconfinati campi deserti. Terreno di bonifica, antica risaia. Per dieci chilometri non si incontrava una casa: si incontrava semplicemente, fra il quinto e il sesto chilometro, il ponte sul Rigola. Poi, traversato il ponte, riprendeva il verde Sahara che finiva a Torricella. Peppone era pieno di rabbia: per la prima volta gli succedeva di non mantenere un impegno preso con la federazione e la faccenda gli pesava sullo stomaco. Lo si capiva da come guidava: il camion sobbalzava paurosamente, ognuno badava a starsene ben zitto per non aggravare la situazione. Oramai si stava per traversare il Rìgola quando, a pochi metri dall'imbocco del ponte, Peppone dovette frenare perché un disgraziato gli sbarrava la strada e, agitando le braccia, gli faceva segno di fermare. Quando lo Smilzo e gli altri si accorsero di che cosa si trattava, diventarono smorti: ci mancava proprio don Camillo! Peppone, bloccato il camion, saltò giù dalla cabina e marciò furibondo contro don Camillo. «Reverendo» urlò Peppone arrivato davanti a don Camillo. «Vi avverto che non ho voglia di scherzare!» «Non si arrabbi, signor sindaco!» rispose sorridendo don Camillo. «Poca brigata, vita beata.» Peppone tornò indietro:
«Me ne vado se no mi comprometto!» urlò mentre risaliva sul camion. Ma don Camillo lo raggiunse: «Prima di andarsene, però, abbia la compiacenza di ascoltarmi. Lei non può rifiutarmi il suo aiuto. Credevo di avere il serbatoio del motorino pieno e invece, arrivato qui, sono rimasto a secco. Mi dia un goccio di benzina per farmi arrivare fino a Torricella». Peppone si volse alla masnada che assisteva allo spettacolo dall'alto del camion: «Avete sentito? Il reverendo è rimasto col macinino asciutto e io non posso negargli un goccio di benzina. Perché, se gli nego un goccio di benzina, il signor arciprete deve sciropparsi cinque chilometri a piedi, sotto questo sole tremendo. Pensate che barbarie sarebbe se gli negassi un goccio di benzina!». Peppone si volse di scatto verso don Camillo e cambiò registro: «Mi dispiace soltanto una cosa, reverendo! Che invece di cinque chilometri a piedi voi non ne dobbiate fare cinquanta. Ma mi contento ugualmente. Buon viaggio, reverendo». «Quello che tu stai compiendo è un gesto di inciviltà» replicò don Camillo. «Qui la politica non c'entra e non ci possono entrare le antipatie personali. Io non ti dico di regalarmi la benzina: io te la pago. Io ti evito ogni disturbo per-
ché, se mi dai la siringa, la cavo io stesso la benzina dal serbatoio. Mi bastano due bicchieri di benzina.» «Due bicchieri di arsenico!» urlò Peppone. «Sarei l'ultimo dei cretini se, avendo la possibilità di farvi fare cinque chilometri a piedi, io non ne approfittassi.» Risalì in cabina e mise in moto ma non potè ingranare la marcia perché don Camillo, afferrato il biciclo a motore che stava appoggiato al paracarro a mezzo metro dall'imbocco del ponte, lo aveva abbandonato in mezzo alla stretta strada. «Reverendo, tirate su quel catenaccio o ve lo fracasso!» urlò Peppone. «Io non tolgo niente: o mi dai la benzina o non ti do via libera.» Peppone ruggì e ingranò la marcia: il Dodge si mosse ma, arrivate le ruote anteriori a toccare il motobiciclo di don Camillo, si fermò. Peppone saltò giù e, agguantato il motobiciclo, lo sollevò e andò a depositarlo dentro il fosso, dietro il camion. «E adesso rimettetecelo, se siete capace!» gridò Peppone risalendo in cabina. «E adesso tu prova a mettere in moto la tua carcassa, se sei capace!» rispose don Camillo. Peppone fece gli occhi del pazzo furioso: «Reverendo, ridatemi la chiavetta del cruscotto o vi butto dentro il Rìgola».
«La chiavetta ce l'ho in tasca» spiegò don Camillo. «Se ti interessa vieni a prendermela. Se la rivuoi con le buone mi dai la benzina.» In verità, approfittando destramente del momento in cui Peppone s'era allontanato dalla macchina e del fatto che tutta la banda era occupata a osservare quel che stava combinando Peppone, don Camillo aveva sfilato la chiavetta dal cruscotto e se l'era messa in tasca. Però tutto ciò era avvenuto senza che egli se ne accorgesse. Si accorse semplicemente che questo era avvenuto e, mentre ascoltava se stesso imporre a Peppone le condizioni per la restituzione della chiavetta, don Camillo pensava: "Perché ho fatto questa fesseria? Perché mi sono messo in questi guai?". Comunque, adesso nei guai c'era e non poteva tirarsi indietro. Peppone si rimboccò le maniche della camicia e lentamente si avanzò: «Reverendo, ridatemi la chiave o qui finisce in un macello». Ma il sole della Bassa aveva già arroventato l'aria e i cervelli: don Camillo non poteva più ragionare come avrebbe dovuto. Si rimboccò le maniche anche lui. Gli altri che stavano sul camion non pareva neppure che ci fossero e rimanevano lì incantati a guardare lo spettacolo. Per fortuna lo Smilzo si riscosse e saltò giù dalla cabina:
«Capo» urlò «non fare il suo gioco! Non capisci che è tutta una commedia per provocarti?». Gli uomini del camion allora scesero e corsero tutti addosso a Peppone per trattenerlo. Peppone si divincolò un poco poi disse: «Lasciatemi». Lo disse con voce calma e lo lasciarono libero. Risalì in cabina. Chiuse la portiera. «Tenetevi pure la chiavetta, reverendo. Ne ho altre due. E badate a togliervi di mezzo perché sono stufo di scherzare. Stavolta passo!» Don Camillo rimase lì a gambe aperte in mezzo alla strada, davanti alla angusta imboccatura del ponte. «Io non mi muovo se non mi dai la benzina» spiegò con voce ferma. «Peggio per voi!» gridò Peppone ingranando la marcia. Ma don Camillo non si mosse e, arrivato a pochi centimetri da lui, il Dodge si fermò ancora. «Voglio la benzina» affermò don Camillo. Peppone si prese la testa fra le mani e incominciò a muggire: si sentiva diventar matto. «Capo» lo implorò lo Smilzo «dagliela, o quel maledetto ci metterà nei guai. Poi ne riparleremo. Denunceremo il fatto: siamo in trenta testimoni. Ci conviene non raccogliere la provocazione.» «Ebbene, dagliela! Io non voglio impazzire. Dopo ci arrangeremo.»
Lo Smilzo scese, aprì il tappo del serbatoio e, con la siringa, cavò una lattina di benzina. «Reverendo, vi serve anche l'olio per la miscela?» domandò a denti stretti. «No, l'olio ce l'ho» rispose don Camillo senza muoversi. «Portami la macchina. Mi toglierò di qui quando avrò messo la miscela nel serbatoio.» Lo Smilzo depose sulla pedana la lattina, si tolse il berretto, lo buttò per terra e lo calpestò con rabbia. Poi lo raccolse, se lo rimise in testa, andò a ricuperare il moto-biciclo di don Camillo. Arrivò fino all'imboccatura del ponte e consegnò il motobiciclo a don Camillo. Poi tornò indietro a prendere la lattina di benzina. Peppone, dalla cabina, seguiva con sguardo allucinato tutte le operazioni. Vide don Camillo mettere la benzina nel serbatoio. Lo vide togliere da una delle borse del motobiciclo un barattolo. Lo vide riempire di olio due misurini. Oramai pareva che la farsa fosse finita. Don Camillo consegnò la chiavetta del cruscotto allo Smilzo, poi salì sul motobiciclo e pigiò sui pedali. Ma, imboccato appena il ponte, si fermò e, sceso di sella, si ritrasse. Un grosso gregge di pecore aveva imboccato il ponte dall'altra parte. Bisognava lasciarlo passare. «Spicciatevi!» urlò Peppone ai pastori che procedevano in coda al gregge. «Spicciatevi perché io non ce la faccio più!»
L'avanguardia del gregge arrivò rapidamente a metà del ponte: e allora si udì come uno scroscio e l'arcata centrale del ponte crollò trascinando dentro il canale una valanga di pecore. * Lo storico discorso ci fu regolarmente e incominciò all'ora fissata, ma senza la rappresentanza della sezione di Peppone. La rappresentanza della sezione di Peppone, dopo aver aiutati i disgraziati pastori, era tornata verso casa e s'era fermata all'osteria del Molinetto. Avevano tutti bisogno di tirarsi su di giri perché il colpo era stato tanto grosso da lasciarli mezzo rimbambiti. Mentre, seduti sotto la pergola, stavano cavando il fiato alla terza ondata di bottiglie, arrivò don Camillo sul motorino: lo videro, corsero sulla strada e lo bloccarono. «Un bicchiere di vino non vi farà male» gli dissero e lo invitarono a entrare. «Le osterie non sono locali adatti ai sacerdoti» rispose. Ma poi fu costretto a mettersi a sedere alla tavola sotto la pergola. Mandò giù un paio di bicchieri poi si asciugò il sudore della fronte e sospirò: «Chi sa mai cosa avevo dentro la testa, in quel momento. Pensare che se non mi fossi intestardito a voler la benzina
da voi, il patrimonio zootecnico nazionale non avrebbe perso cinquanta pecore e, nello stesso tempo, il paese si sarebbe liberato delle peggiori facce proibite!». «E se io vi avessi dato subito la benzina?» esclamò di rimando Peppone. «Sareste passato per primo voi e avreste fatto crollare voi il ponte. Pensate che liberazione per il paese non avervi più tra i piedi!» Ma parlavano così, senza nessuna convinzione, per semplice dovere d'ufficio. E gli altri non li ascoltavano neppure. Si limitavano a fumare e a bere in silenzio. «Però» disse a un tratto il Bigio «a questo mondo succedono certi fatti…» «Figurati i fatti che succedono all'altro mondo» borbottò don Camillo. Lo Smilzo incominciò a parlare di materialismo storico, ma una pedata di Peppone lo fece smettere: «Non è il momento di scherzare!» gli disse cupo Peppone.
202 SPACCIO COMMESTIBILI CON ENTRATA CLANDESTINA Barchini, capo dell'ufficio spionaggio clericale, spiegò a don Camillo che la cosa che stava per rivelare era d'interesse eccezionale, e lo convinse a convocare i pezzi grossi in canonica. La riunione avvenne, naturalmente, a tarda sera e con ogni precauzione: «Il nemico sta organizzando un colpo gobbo» spiegò il Barchini quando lo stato maggiore delle forze bianche fu al completo. «Sta per aprire uno spaccio di consumo.» Lo Spiletti si mise a ridere: «Barchini, se arrivaste fino alla Casa del Popolo, vi accorgereste che lo spaccio di consumo i comunisti lo hanno già aperto da circa quattro anni». «Quello non è uno spaccio di consumo!» esclamò Barchini. «Quello è un bettolino da quattro soldi dove si vende semplicemente pane, salame e vino. Adesso ne aprono uno sul serio: hanno fondato la "Cooperativa dei Piccoli Produttori Indipendenti" e impiantano una grande bottega di vendita di generi alimentari. La chiameranno "La Proletaria", il banconiere sarà uno che non è iscritto al partito e che non si occupa di politica. Farina, uova, salumi, vino, eccetera saran-
no forniti dai mezzadri e dagli affittuari rossi. È questione di un mese sì e no e poi spareranno la cannonata.» Lo Spiletti si strinse nelle spalle: «Va bene: però io non capisco a che scopo lo facciano» osservò. «Il fatto di capire perché facciano questo non ha nessuna importanza!» disse don Camillo. «L'importante è di capire che se i «rossi» organizzano una certa faccenda, noi dobbiamo organizzare la stessa cosa meglio e più presto dei «rossi». Se un tizio salta fuori dalla siepe e ti viene contro con un bastone, non bisogna perdere il tempo a pensare perché mai il tìzio fa così, ma bisogna procurarsi un bastone più grosso del suo. Poi si vede.» Evidentemente se Peppone e compagni si mettevano in una impresa così importante non dovevano farlo per passatempo. Uno scopo dovevano averlo. «Fondiamo una cooperativa anche noi» concluse don Camillo. «Apriamo anche noi uno spaccio di consumo.» La discussione fu lunghissima ma, alla fine, veniva fondata la «Cooperativa dei Piccoli Proprietari Liberi», con bottega di vendita generi alimentari da denominarsi «La Popolare». Lo Spiletti possedeva una casa con portico nei paraggi della piazza: era molto malandata e nessuno si sarebbe insospettito vedendo incominciare dei lavori di restauro.
«E il permesso?» obiettò qualcuno. «Il permesso di apertura bisognerà pur chiederlo in Comune e allora i «rossi» scopriranno tutto.» «L'importante è che la domanda di permesso venga inoltrata prima della loro» rispose lo Spiletti. «Fino a prova contraria sono un consigliere comunale che viaggia con gli occhi aperti.» Venne inoltrata in Comune una richiesta di autorizzazione a generici «lavori di riparazione» da eseguire nella casa dello Spiletti, vennero scelti muratori fidati e, nello stesso tempo, fu commissionato a una ditta di città l'arredamento della bottega. Peppone intanto lavorava tranquillissimo e così, quando dopo una ventina di giorni si trovò sulla scrivania la domanda per l'apertura dello spaccio di vendita della «Cooperativa dei Piccoli Proprietari Liberi», quasi gli venne un colpo. Pestò un furibondo pugno sul tavolo e, radunato lo stato maggiore, si mise a urlare al tradimento. Poi, dopo aver pestato sul tavolo un altro pugno, stabilì: «A ogni modo, il coltello per il manico l'abbiamo noi: non si concede il permesso». «Va bene, capo» obiettò prudentemente lo Smilzo. «E quando arriva la domanda della "Proletaria", come facciamo? La respingiamo anche quella? E se non la respingiamo, cosa succede?» Lo Smilzo aveva ragione, disgraziatamente, e «La Popolare» ottenne l'autorizzazione richiesta. L'ottenne, beninte-
so, anche «La Proletaria» che inoltrò immediatamente la richiesta al Comune, e i bottegai del paese, appena saputa la faccenda, sputarono fuoco e fiamme. Una commissione andò a portare la sua fiera protesta a Peppone in persona e Peppone rispose: «E cosa dovrei dire io? Dato il carattere proletario e popolare dei due spacci, il maggior danneggiato non è forse lo spaccio della Casa del Popolo? Noi non facciamo i regolamenti, noi ci limitiamo a rispettarli e a farli rispettare: e qui, regolamento alla mano, i due spacci hanno diritto di aprire». La faccenda andò a finire in Consiglio ma, anche in questa sede, la protesta dei bottegai non ebbe miglior sorte; l'opposizione, ovvero Spiletti, si limitò ad allargare le braccia affermando: «Purtroppo la legge è questa volta dalla parte dell'Amministrazione. Non ci resta che inchinarci alla legge». * «La Proletaria» e «La Popolare» aprirono lo stesso giorno: non avevano grande assortimento nessuna delle due. Erano fatte entrambe per una clientela povera, che non cerca cose difficili, comunque potevano entrambe tirare avanti discretamente. Dopo un mese di gestione, ci fu riunione in canonica e lo Spiletti prese la parola:
«Se tutto funziona senza inciampi, noi arriveremo a fare pari e patta. Ora non capisco a che scopo noi ci siamo imbarcati in un'impresa che ci dà tanti fastidi e nessun utile pratico». «Se fossimo sicuri che Peppone e soci stanno facendo lo stesso ragionamento si potrebbe concludere che lei ha ragione» obiettò don Camillo. «Siamo nella stessa situazione dell'uomo che, minacciato da uno sconosciuto armato di bastone, sta sul chi vive, stringendo fra le mani il suo bastone. Se l'altro non si muove, il nostro brav'uomo dovrà concludere che è meglio buttar via il bastone?» «Speriamo che si muova» borbottò lo Spiletti. Ma Peppone non accennava a muoversi e allora don Camillo decise di muoversi lui. Oramai tutti, in paese, perfino i gatti, sapevano che «La Popolare» era dei «bianchi» e «La Proletaria» era dei «rossi». Si potevano tranquillamente scoprire batterie già scoperte e don Camillo, appena gli si offerse l'occasione, agì. E l'occasione gli si presentò, liscia e pulita, la volta in cui incontrò la moglie di Straziami che rincasava con la sporta della spesa sottobraccio. Don Camillo la fece chiacchierare e, naturalmente, la donna disse quello che dicono tutte le donne quando ritornano dalla spesa: che la vita è cara, che non si sa più come tirare avanti eccetera. Don Camillo le diede il suo disinteressato consiglio:
«Prova alla "Popolare": dicono tutti che c'è roba buona e a buon prezzo». «Mi piacerebbe, sì, provare, ma voi lo sapete reverendo: mio marito è di quella idea e io non posso far torto alla sua cooperativa.» «E tu non dirglielo!» «Glielo direbbero gli altri appena m'avessero vista.» «Certo, se ti vuoi far vedere, ti vedranno. Ma se non vuoi farti vedere, basta entrare dall'altra parte, per il cancello dell'orto. Sapessi quanta gente si serve alla "Popolare" e nessuno lo sa. Tu vai e vedrai che ti faranno un trattamento speciale. Se poi sarai rimasta soddisfatta fai girare la voce.» Quindici giorni dopo, don Camillo poteva annunciare trionfalmente ai soci della Cooperativa «La Popolare»: «L'idea di uno spaccio cooperativo bianco con porta segreta per i clienti rossi è stata, modestia a parte, una trovata formidabile. Se le cose continuano così porteremo via tutti i clienti alla "Proletaria". Qualunque fosse lo scopo di Peppone, un fatto è certo: il coltello per il manico l'abbiamo noi. Se Peppone con la sua "Proletaria" voleva spianare contro di noi un'arma insidiosa, egli adesso ha tra le mani un'arma scarica». *
La faccenda si metteva sempre meglio; l'organizzazione dell'entrata clandestina era stata perfezionata: i clienti irregolari potevano agire in tutta tranquillità senza correre il pericolo di fare in bottega incontri spiacevoli perché don Camillo aveva installato sulla porticina dell'orto una lampadina rossa e una verde che davano il segnale di via ingombra o di via libera, a seconda che il banconiere, dal retrobottega anticominform, schiacciasse un bottone piuttosto che l'altro. Inoltre don Camillo spesso si faceva trovare nel retrobottega dai clienti clandestini e, tra un fagottino e l'altro, infilava qualche parolina adatta a schiarire certe idee. Un lavorino calmo, tranquillo, non appariscente ma che, a lungo andare, avrebbe dato i suoi frutti. Ogni tanto don Camillo si fermava a «La Popolare» fino a tarda sera perché l'amministrazione l'aveva in mano lui. E una sera entrò dalla porticina dell'orto un cliente clandestino ritardatario. «Buona sera, reverendo» disse il cliente ritardatario. «È qui lo spaccio della "Cooperativa dei Piccoli Proprietari Liberi"?» «Sì» rispose don Camillo. «Questa è "La Popolare". "La Proletaria" è in un'altra strada.» «Lo so» spiegò Peppone «però disgraziatamente "La Proletaria" ha già chiuso e io avrei bisogno di un po' di roba urgente. Posso aver l'onore di essere almeno una volta cliente della sua bottega? In fondo faccio parte del popolo anche io.»
«Il banconiere è uscito. Mi spiace.» «Prendo la roba anche se me la dà lei, reverendo.» Don Camillo si alzò: «Cosa le serve?». «Tre chili di formaggio grana stravecchio, due salami, due chili di zucchero, una lattina d'olio, tre chili di burro, sei scatolette di carne e quel pezzetto di lardo lì.» Quel «pezzetto di lardo lì» era almeno sei chili: don Camillo guardò Peppone: «Lei parte per una spedizione polare?». «No, reverendo, devo confezionare dei pacchi viveri da mandare ai russi che muoiono di fame.» «Ha il camion fuori?» «No, ho il sacco: mano a mano che pesa la roba, me la passi.» Don Camillo rispettò il gioco con stile esemplare. Pesò, incartò come un banconiere professionista. Alla fine tirò giù dalla scansia sei pezzi di sapone da bucato e disse: «Se lei fa dei pacchi viveri per i russi, metta anche questo sapone: lo troveranno molto saporito». «È un'idea» approvò Peppone, buttando nel sacco i sei pezzi di sapone. «Serve più niente? Candeggina per condire i semi di girasole? Petrolio per rinfrescarsi la faccia dopo fatta la barba?» «No, in Russia non abbiamo ancora inventato il rasoio. Faccia pure il conto.»
Don Camillo fece la somma, controllò e porse il foglio a Peppone. «Bene» disse Peppone. «Lo marchi nel libro sotto il nome di Bottazzi Giuseppe. Passerò a pagare quando quei disgraziati dei suoi figli di Maria mi pagheranno la roba che vengono a comprare a credito alla "Proletaria".» Don Camillo spiegò che non aveva voglia di scherzare e allora Peppone cacciò fuori di tasca due manciate di libretti e li mise davanti a don Camillo: «Guardate, reverendo: ogni libretto ha il suo bravo nome e cognome; controllate pure e ditemi se non ci sono tutte le vostre più fide pecorelle! Naturalmente non si fanno vedere, quando vengono a comprare: entrano dal cortile perché dicono che non possono far torto a voi, arraffano roba e se ne vanno dopo aver fatto marcare sul libretto. E così fregano un disgraziato. Controllate pure, c'è il riepilogo: ottocentonovantamila lire!». Don Camillo diede un'occhiata ai libretti, poi aprì il cassetto dello scrittoio e mise davanti a Peppone una mezza bracciata di libretti. «Ci sono i nomi dei tuoi più fedeli compagni» spiegò. «Clientela clandestina di riguardo con una fregatura totale di lire novecentomiladuecento lire per il sottoscritto.» Peppone sfogliò i libretti poi disse: «Cosa volete che sia? Io, oltre ai conti in sospeso dei vostri, ho un milione e mezzo di conti in sospeso dei miei.
Quei disgraziati sono venuti a comprare da voi quando io gli ho detto che, se non pagavano, non gli davo più niente». Don Camillo cavò dal cassetto un altro blocco di libretti: «Idem per un totale di un milione e seicentomila lire. Quando io gli ho tagliato i viveri, i miei sono venuti da te». Peppone si asciugò la fronte col dorso della mano: «Bel pasticcio». «Bisogna aver fede, compagno. Adesso incominciano i lavori grossi della campagna: guadagneranno e pagheranno. È sempre stato così.» Peppone tentennò il testone: «E se quei disgraziati di Roma danno l'ordine dello sciopero agricolo di protesta contro i risultati delle elezioni?». «Quali disgraziati?» domandò con voce dolcissima don Camillo.
203 COMIZIO IN CASA Peppone non aveva ancora mandato giù l'ultimo boccone della cena, che già stava alzandosi da tavola per squagliarsela come tutte le altre sere. Ma, stavolta, la moglie non lo lasciò scappare. «Prima che te ne vai, parliamo.» «Non ho tempo» rispose Peppone. «Mi aspettano in sede.» «Che aspettino. In fondo hai sposato me, non loro. Sono mesi che non si riesce a scambiare una parola, qui in casa.» Peppone sbuffò: «Non farmi inquietare: lo sai benissimo che non vado fuori per divertirmi. Devo occuparmi delle elezioni. Ancora pochi giorni e poi, se Dio vuole, per cinque anni non se ne parlerà più». «D'accordo: ma se non ne parliamo un po' adesso, io domenica mi troverò con la scheda in mano e senza la minima idea nella testa. Vuoi dirmi cosa devo fare? Per chi devo votare?» Peppone sghignazzò: «Questa è straordinaria! Vuol sapere da me per chi deve votare!».
«E a chi vuoi che lo vada a domandare, al prete?» replicò la donna. «Sei tu che devi dirmi come stanno le cose.» «Le cose stanno esattamente come l'ultima volta!» «Allora si deve votare ancora per te?» «Ma no: hai votato per me perché erano le elezioni amministrative!» esclamò Peppone. «Adesso si tratta delle elezioni politiche, come nel '48.» «Ho capito: allora si deve votare per la lista di Garibaldi.» «Ma che Garibaldi! Non ci sono più liste con Garibaldi. Ogni partito ha la sua lista col suo simbolo. Li conosci almeno i simboli dei partiti?» «Li conosco sì.» «E allora tu non hai che a fare la crocetta sul simbolo del partito che hai scelto. Non so cosa ci sia da spiegare. Non è cambiato niente.» La donna tentennò il capo perplessa. «Anche adesso che lui è morto, il Partito è come prima?» Peppone pestò un pugno sul tavolo: «Come prima e più forte di prima! Gli uomini passano ma le idee restano». «Ma questo Malenkov» borbottò la donna «non mi pare che sia così in gamba come Stalin. Dà l'idea di uno che è disposto a venire a patti…» «Non ascoltare le chiacchiere!» urlò Peppone. «Tu lascialo fare e poi te ne accorgerai chi è Malenkov. Ha un'altra
tattica, ecco tutto: ma lo scopo è sempre lo stesso identico di prima.» «Allora tu credi che si continuerà a marciare verso la rivoluzione proletaria?» si informò la donna. «La rivoluzione proletaria è più vicina che mai!» affermò Peppone. «La tattica che ci vuole adesso è quella di togliere i sospetti ai nemici del popolo, di tranquillizzarli. Poi, al momento buono, si spara il colpo all'improvviso.» La donna non pareva ancora completamente convinta: «Allora tu dici proprio che la situazione è come nel 1948…». «La situazione è cento volte migliore per il comunismo. Se nel 1948 il comunismo era formidabile, oggi è tremendo. Stalin è morto ma il suo spirito è in testa alle armate della liberazione che si preparano a marciare sulla strada della vittoria finale.» La donna sollevò una obiezione: «Allora non è vero che i russi vogliono la pace come dicono loro». «È verissimo! Vogliono la pace: ma siccome fin che ci saranno dei guerrafondai al mondo non ci sarà mai pace, per avere la pace bisogna eliminare i guerrafondai occidentali. America, Vaticano, industriali, borghesi, preti, agrari, reazionari, fascisti, clericali, monarchici, liberali, socialdemocratici imperialisti, nazionalisti, re, papi, intellettuali, militaristi. È necessario un colossale bagno di sangue che purifichi questo lurido mondo medioevale. Bisogna distruggere un mondo
vecchio e marcio per costruirne uno nuovo e sano. Non badare alle chiacchiere degli sciocchi: non c'è più la lista di Garibaldi che è stata sostituita da quella col nostro simbolo di Partito, ma la situazione è identica a quella del 1948. Tu procedi tranquilla e, senza nessun dubbio, agisci come hai agito nel 1948.» «Va bene, capo» rispose la donna che nel 1948 aveva votato per i democristiani. Peppone si alzò: «Comunque» disse «io non ti impongo nessuna scelta, io ti lascio completamente libera di decidere di tua testa e non voglio saper niente delle tue decisioni. Anche come marito, io sono un democratico». «No, no» esclamò la donna. «Io la mia scelta l'ho già fatta allora e non cambio idea.» «Brava!» concluse Peppone avviandosi verso la porta. «E, per favore, stasera tirami fuori dal cassone il mio schioppo che lo debbo pulire. Perché se le elezioni le vinciamo noi, incominciamo subito a far fuori della gente. Gli ordini sono questi.» Peppone se ne andò e la donna rimase lì a guardare la porta per un bel pezzo. Poi levò gli occhi al cielo e balbettò: «Gesù, fate che perdano!». Peppone intanto camminava verso la Casa del Popolo; passando davanti alla chiesa mormorò: «Gesù, fateci vincere, se proprio lo volete. Però senza il voto di mia moglie».
204 IL RIBELLE Il padrone della «Maltagliata», uno dei più grossi poderi del paese, era il vecchio Cortàni: praticamente era il meno padrone di tutti perché, da una decina d'anni, viveva inchiodato su un seggiolone per via di un colpo che gli aveva bloccato le gambe. Chi comandava era il figlio maggiore Anselmo che, assieme agli altri due fratelli – come lui ammogliati e con prole – conduceva il podere. Però, mentre per gli affari di normale amministrazione il vecchio veniva lasciato tranquillo, quando c'era in ballo qualcosa di importante il vecchio partecipava alle assemblee di famiglia, ed era lui che decideva. La sera precedente la domenica delle elezioni, il vecchio Cortàni venne portato giù nella grande cucina: segno questo che la faccenda era di eccezionale importanza. Il maggiore dei figli entrò subito in argomento; spiegò rapidamente la situazione politica e concluse: «A conti fatti, non c'è che una soluzione: votare per i clericali. Tutti quindi voteremo per i clericali». Il vecchio intervenne: «Voi votate per chi volete. Io voterò per chi voglio io».
I tre uomini gli furono attorno e cercarono di convincerlo ad allinearsi, ma il vecchio scosse il capo: «Voi farete quello che vorrete: io voterò per il Re». Il figlio maggiore ebbe uno scatto di impazienza: «Non è questo il momento di pensare alle stupidaggini della monarchia e via discorrendo. Adesso bisogna pensare a tenere in piedi la baracca. Al Re ci penserete dopo». «Io ci penso adesso fin che sono vivo» obiettò il vecchio. «Quando sarò morto, ci penseranno gli altri.» Come propagandisti politici i tre fratelli non valevano una cicca: sapevano a memoria due o tre frasi sentite da qualche parte, ma evidentemente era ben poco per convincere una zucca dura come quella del vecchio. Gli argomenti portati dalle nuore potevano essere ben scarsi: inoltre le tre donne non riuscirono a metterli sul tappeto perché il vecchio non le lasciò nemmeno parlare. Allora uno dei nipoti venne spedito in cerca di soccorsi e, di lì a poco, tornò assieme a don Camillo. «Spiegateglielo voi reverendo» disse il maggiore dei Cortàni a don Camillo che lungo la strada era stato informato della questione. Il vecchio era sempre stato uomo di chiesa e aveva sempre avuto un grande rispetto per il parroco: don Camillo quindi gli parlò con molta dolcezza: «In senso assoluto non c'è niente di male se uno vota per il Re: tanto è vero che quando nel '46 si è trattato di scegliere tra la repubblica e la monarchia, io, se vi ricordate, non mi
sono permesso neanche di darvi un consiglio. Ma adesso la situazione politica internazionale esige che le forze cattoliche rimangano unite». «Io mica vado da un'altra parte» obiettò il vecchio. «Io rimango dov'ero e con le stesse idee e gli stessi sentimenti. Io non cambio registro.» «Non è questione di idee e di sentimenti» spiegò don Camillo «qui è una questione di voti: bisogna tenere uniti i voti, non disperderli. Dare i voti ai monarchici significa disperdere i voti. Cioè fare il gioco dei comunisti.» «No, no» ridacchiò il vecchio. «Io so che la prima cosa che fanno i comunisti quando si impadroniscono di una nazione è quella di ammazzare il Re. Quindi questo significa che i Re gli danno fastidio. Tanto è vero che dove comandano i comunisti sono tutte repubbliche. Dove comanda il Re non comandano i comunisti.» «D'accordo, ma la questione è un'altra: anche se voi votate per il Re, il Re non torna. Il Re rimane dov'è e voi buttate via un voto. Ci sono dei milioni e milioni di persone che pure avendo sentimenti monarchici si guardano bene dal votare per il partito dei monarchici. Il Re non può avere partito. Il Re è Re per la gente di tutti i partiti.» Il vecchio tentennò il capo: «Giusto: anche il Presidente della Repubblica non può avere partito ed è Presidente della Repubblica per tutti i partiti, però c'è il partito repubblicano che vota per il partito repubblicano. E allora io voto per il partito monarchico.»
«Fate una grossa sciocchezza!» «Perché? È forse peccato votare per i monarchici?» «In un certo senso sì» spiegò don Camillo. «Bene; allora io voterò per i monarchici in quell'altro senso.» Don Camillo si strinse nelle spalle: «Cosa posso farci?» borbottò. «Non volete intendere la ragione…» «Non voglio intendere la vostra ragione» replicò il vecchio. «La mia la intendo.» «Dovete intendere anche la mia: perché voi, se non mi volete ascoltare come cittadino, avete il dovere di ascoltarmi come cattolico: e io vi dico che votando per i monarchici, vi comportate da cattivo cattolico.» «Reverendo, voi me lo dite e sapete cosa faccio io? Non ci credo e voto per il Re. Anche nel 1946 c'erano i comunisti come e peggio di adesso e nessuno mi ha detto che se votavo per il Re ero un cattivo cristiano. Se ero buono nel '46 lo sono ancora. Quindi voterò ancora per il Re.» Il figlio maggiore era diventato pallido di rabbia; si avanzò e si piantò a gambe larghe davanti al seggiolone del padre: «E allora, se siete così testardo» disse «non voterete per nessuno perché domani, invece di portarvi a votare, noi vi chiuderemo nella vostra camera». Il vecchio guardò fisso il figlio:
«Tu devi rispettare la mia volontà. Fin che sono vivo il padrone sono io». «Voi non siete padrone di un accidente di niente!» sghignazzò il secondo dei figli. «I padroni siamo noi, qui!» «Il padrone di me stesso sono io» affermò duramente il vecchio. «E allora, se siete il padrone di voi stesso, domattina alzatevi dal seggiolone e andate a votare per conto vostro.» Due delle tre nuore si avvicinarono e, preso il seggiolone, lo sollevarono avviandosi verso la scala: «Ringraziate Dio se, invece di lasciarvi qui tutta notte, vi portiamo a letto!» disse una delle donne. «Ha bisogno degli altri perfino per fare i suoi bisogni e sentitelo con che superbia parla!» commentò la terza nuora aprendo la porta della cucina. * Il vecchio venne lasciato solo nella sua stanza fino alle nove della mattina seguente. A quell'ora i tre figli e le tre nuore l'andarono a trovare: «Se avete cambiato idea vi vestiamo e vi portiamo a votare» disse il figlio maggiore. «Se non l'avete cambiata, noi ce ne andiamo e rimanete a letto.»
«È meglio che ce ne andiamo senza perdere tempo» esclamò una delle donne. «Tanto si può star sicuri che se anche dice di sì, quando è là voterà come ha deciso.» «Voglio votare per il Re» affermò calmo il vecchio. Se ne andarono tutti e giù stavano ad aspettarli i ragazzi che avevano già l'età per votare. Si misero d'accordo: se qualcuno avesse chiesto perché il vecchio non c'era, avrebbero risposto che, durante la notte, gli era venuto un attacco. Fecero la strada in bicicletta e, quando arrivarono in paese, misero giù le macchine al deposito del Moretto e giunsero al seggio in tempo per vedere uscire dall'edificio scolastico nel quale si svolgevano le votazioni due giovanotti che portavano con cautela un seggiolone sul quale stava seduto il vecchio Cortàni. Allorché passò loro davanti, lo guardarono a bocca aperta, come se fosse un fantasma. Il vecchio Cortàni venne caricato su una grossa macchina e la macchina partì a tutta birra verso la Maltagliata. Nell'aia della Maltagliata vi era, ad attendere il ritorno del vecchio, don Camillo e, appena la macchina si fermò, don Camillo corse ad aprire la portiera, per aiutare a scaricare il vecchio. «Tutto bene?» domandò don Camillo al vecchio. «Tutto bene» rispose il vecchio. «Tutto come ho voluto io.»
«Tutto come ha voluto il Padreterno» precisò don Camillo. «Siate tanto gentile da ringraziarLo.» «RingraziateLo voi, reverendo, adesso che avete rimesso a posto la vostra coscienza.» «Dio sia lodato» sospirò don Camillo infilandosi dentro la macchina e chiudendo lo sportello. Ritornato in canonica, don Camillo corse a confidarsi col Cristo dell'aitar maggiore: «Gesù» sospirò don Camillo «Vi ringrazio d'avermi permesso di fare quello che ho fatto. Se non fossi riuscito a far rispettare la volontà del vecchio Cortàni, avrei dovuto votare io per il Re!» «In verità sarebbe stato per te un sacrificio non eccessivamente grave, se non sbaglio» rispose sorridendo il Cristo. «Gesù, Voi non sbagliate mai» affermò don Camillo.
205 FORZA EFFETTIVA E FORZA PRESENTE Il banco di famiglia era nelle prime file e la cosa non poteva davvero sfuggire né al Bolgotti né a sua moglie che stava impettita al suo fianco: tra le ragazze che avevano fatto la Comunione, la Cesarina non c'era. Né il Bolgotti né la moglie batterono ciglio: chi vive in un paese deve sapersi controllare in ogni istante, specialmente se ha un nome e una reputazione da difendere. I due coniugi si comportarono perciò come tutte le altre feste e, finita la Messa, uscirono dalla chiesa a braccetto, andarono al solito caffè per il solito aperitivo e le solite quattro chiacchiere coi soliti amici, indi si avviarono tranquillamente a casa. La Cesarina era lì ad aspettarli e, vedendoli arrivare così tranquilli, tirò un sospirone di sollievo. L'aveva fatta franca. Ma la tempesta si addensava sul suo capo e la tempesta scoppiò dopo il desinare, quando la donna di servizio, rigovernati i piatti, se ne andò a spasso. Allora il Bolgotti domandò alla ragazza: «Ieri sera non eri andata a confessarti?». «Certo che ci è andata!» esclamò la moglie. «L'ho accompagnata io fin davanti alla chiesa.» «E allora com'è che stamattina non hai fatto la Comunione?» si informò il Bolgotti.
La Cesarina aveva oramai ventidue anni ma era una ragazza tirata su col sistema antico, e suo padre le faceva una paura tremenda. Arrossì, poi impallidì: «M'è venuto il capogiro proprio al momento di fare la Comunione» balbettò. Si vedeva lontano un miglio che mentiva. «Ti ho detto che voglio sapere per quale ragione tu stamattina non hai fatto la Comunione!» gridò il Bolgotti pestando un pugno sulla tavola. La ragazza guardò la madre ma incontrò due occhi duri, nemici. «Non ho potuto» sussurrò sgomenta. «Il prete non ha voluto darmi l'assoluzione. Ma non ho fatto niente di male.» Il Bolgotti balzò in piedi e si avvicinò alla ragazza: era alto e grosso da far spavento e alla Cesarina parve di essere ancora più minuscola. «Se non ti ha dato l'assoluzione qualcosa di male devi averlo fatto!» disse a denti stretti l'uomo. «Non ho fatto niente» ansimò la ragazza. «È per le elezioni… Mi ha domandato per chi votavo e mi ha detto che se voto per i monarchici non mi può assolvere.» L'uomo sghignazzò: «Non è mica trovata male la scusa: peccato che io non sia tanto cretino da crederci. Lascia perdere le stupidaggini e dimmi cos'hai combinato». La madre si avventò sulla ragazza e l'afferrò per i capelli:
«Parla, lazzarona! Parla o ti cavo gli occhi». «Ho detto la verità, lo giuro!» singhiozzò la Cesarina. «Andate da don Camillo, provate a domandarglielo e vedrete che la ragione è questa.» «Spudorata» ruggì la madre scuotendola con rabbia. «Se ne approfitta perché sa che il prete non può dir niente.» La Cesarina pareva diventata uno straccio tra le mani della madre, e la donna a un certo punto dovette mollare la presa. La ragazza si sfasciò sull'ottomana e continuò a insistere che la verità era quella, e che non aveva avuto l'assoluzione perché aveva detto a don Camillo che avrebbe dato il voto alla lista della stella e corona. «Io non sapevo che fosse peccato! Non lo sapevo!» gemette alla fine. Il Bolgotti, imbestialito, agguantò la ragazza per un braccio e la tirò su: «Prima che don Camillo te lo dicesse non lo sapevi. Ma dopo che don Camillo te l'ha spiegato lo sapevi. E allora bastava che tu gli dicessi: "Va bene, domenica non voterò per quella lista" e avresti avuto l'assoluzione. Non lo vedi che la tua storia non si regge in piedi? Avanti: fuori la verità». Ma anche a scuoterla e a spiegazzarla, la Cesarina non cedeva: s'era incupita in quella balorda favoletta e continuava a ripetere che non c'erano altre ragioni. Il Bolgotti e sua moglie stavano impazzendo per la rabbia, e la cocciutaggine della ragazza arrivò a tal punto che, a un bel momento, l'uomo, sfilatasi la cinghia dei pantaloni, in-
cominciò a staffilare la Cesarina e continuò fino a quando per l'affanno non gli mancò il fiato. «Non potevo» gemette la Cesarina «ho giurato…» «Giurato che cosa?» urlò il Bolgotti. «Ho giurato che voterò per la stella, domenica.» «E a chi l'hai giurato?» «A una persona…» «Una persona.» Il Bolgotti spalancò gli occhi sbalordito. Rimase come fulminato per qualche istante, poi il furore lo riprese. Afferrò l'attizzatoio che era lì vicino, nell'angolo del caminetto, e lo levò: «Chi è questa persona? Parla o ti ammazzo». La Cesarina parlò. In verità più che parlare singhiozzò, ma ciononostante si riuscì a capire che quella tal persona era un certo giovanotto, un bravo giovane col quale la ragazza aveva scambiato qualche parola. «Ha una relazione e non l'ha detto neanche a sua madre!» esclamò inorridita la moglie del Bolgotti. La ragazza venne spiegazzata per tutto quel che era ancora possibile spiegazzare, poi venne sepolta sotto una valanga di insulti spaventosi. «Ecco perché il prete le ha negato l'assoluzione!» concluse il Bolgotti. «Si è compromessa, ha disonorato la famiglia! Altro che elezioni!» Non era possibile maltrattare di più l'infelice ragazza; si trattava di una questione squisitamente tecnica: la ragazza era satura di botte e di insulti.
La mandarono via: «Sali nella tua stanza e scendi quando ti chiameremo noi». La Cesarina vide qualcuno soltanto la sera del venerdì: entrò nella stanza sua madre e le buttò davanti qualcosa da mangiare. Le disse una parola atroce e poi uscì sbattendo l'uscio. Le portarono un piatto di minestra e un pezzetto di carne verso il mezzogiorno del sabato: e fu ancora la madre e ancora le disse la parola infame. La ragazza sospirò: «Devo dire una cosa a mio padre». Il Bolgotti salì pochi minuti dopo. «Cosa vuoi?» domandò con voce minacciosa. «Non voterò per la stella ma per lo scudo crociato» rispose la ragazza. «Dio mi perdonerà se rompo un giuramento.» «E con questo?» ruggì il Bolgotti. «Se mi lasci andare a confessarmi, io domattina farò la Comunione.» La madre intervenne: «Non darle retta: è una svergognata. Ricomincia ancora con la sua favola. Non ci ha preso in giro abbastanza». «Se mi portate in chiesa a confessarmi, domattina farò la Comunione così sarete convinti che ho detto la verità. Se il prete mi assolve significa che non ho fatto niente di male.»
La madre ripetè al marito di lasciar perdere ma l'uomo scosse il capo: «No: voglio provare fin dove arriva la sfacciataggine di questa ragazza» disse. «L'accompagnerò io stesso adesso e domattina.» L'accompagnò difatti fino alla chiesa e rimase ad attenderla sulla porta. La ragazza uscì pochi minuti dopo. «Già fatto?» domandò sarcastico il Bolgotti. «Avevo ben poco d'altro da dire. Domattina accompagnami a votare appena aprono. Farò la Comunione alla Messa delle otto e mezzo.» Fu ricondotta nella sua stanza: «Quella sta architettando qualche trucco» concluse la madre sospettosa quando il marito le ebbe raccontato com'era andata la faccenda. «A ogni buon conto, questa notte dormirà assieme a me. Non mi fido.» L'indomani i Bolgotti uscirono di casa prima delle otto: andarono alla scuola comunale a votare e si sbrigarono in tempo per la Messa delle otto e mezzo. E alla Messa, fra le ragazze che fecero la Comunione, c'era anche la Cesarina. Quando il Bolgotti vide che don Camillo impartiva la Comunione alla Cesarina come se fosse la cosa più normale del mondo, diede un'occhiata alla moglie. Alla fine della Messa tutto si svolse come le altre feste: più rapidamente perché pioveva.
Rincasarono e rimasero tutti e tre seduti in silenzio davanti al focherello che la donna di servizio aveva acceso nel caminetto perché faceva freddo pur essendo i primi di giugno. A un tratto il Bolgotti disse con voce sommessa: «Cesarina, se tu avessi votato per la stella e corona invece di votare per lo scudo con la croce, tu saresti stata una disonesta, indegna di ricevere l'Ostia consacrata. E anche io e anche tua madre… Invece siamo onesti perché tutt'e tre abbiamo dato il voto al partito che ci ha indicato don Camillo. Dobbiamo esserne fieri. Cesarina, adesso che tutto è andato a posto, si potrebbe sapere come si chiama quel tal giovanotto a cui tu avevi promesso di votare per la stella?». «Sì, papà: si chiama Gigi Lamotti.» Il Bolgotti volse lentamente il capo fino a incontrare lo sguardo della moglie. «Gigi Lamotti?» domandò con voce sommessa. «Quel giovanotto che, il mese scorso, è morto in un incidente stradale a Fiumetto?» «Sì, papà. Ci parlavamo dalla finestra della cantina.» «Va bene, Cesarina» sussurrò il Bolgotti. «Era un bravo ragazzo. Pace all'anima sua.» Rimasero tutt'e tre muti davanti al focherello, fin che il focherello si spense. E a mezzogiorno non mangiarono. «Non si ha fame in certi momenti» spiegò il Bolgotti. «È l'orgasmo delle elezioni. La politica eccita.» Era già notte quando il Bolgotti arrivò in canonica.
«C'è qualche novità?» si informò don Camillo. «Qualche disgrazia?» «No, reverendo, tutto è andato a posto, tutto ha funzionato bene, alla fine. Abbiamo la coscienza tranquilla tutt'e tre in famiglia perché il nostro voto è stato dato come dicevate voi. Sono venuto a quest'ora perché non intendo dare scandalo; voglio che la cosa rimanga tra me e voi, reverendo. Vorrei raccontarvi una storia, sotto il suggello della confessione. Una faccenda curiosa che ci è capitata in questi giorni.» Il Bolgotti incominciò a raccontare con voce pacata e alla fine sospirò: «Non voglio neanche che mi diciate cosa ne pensate, reverendo. Vi chiedo soltanto di darmi una mano perché devo caricare una cosa sul camioncino che mi aspetta lì fuori». Don Camillo seguì il Bolgotti e non si stupì di niente e non disse parola. Diede l'aiuto che doveva dare e il Bolgotti se ne andò. * Passò del tempo e, una domenica, terminata la Messa, don Camillo rimase a parlare col Cristo dell'aitar maggiore: «Gesù» disse «i Bolgotti anche oggi non c'erano in chiesa. Probabilmente sarà difficile che Voi li rivediate qui. Conosco i tipi. Gran brava gente ma zucconi. Mi dispiace anche per il loro banco di famiglia: era qui dal 1805, da centocin-
quant'anni. Se lo son venuti a riprendere una sera… Veramente è venuto lui, il Bolgotti, perché aveva anche da parlarmi. Gesù, la loro casa è dirimpetto alla chiesa, dall'altra parte della piazza, e la finestra dell'andito del primo piano inquadra perfettamente la chiesa. Adesso il banco di famiglia è là, davanti a quella finestra, e, ogni domenica, i Bolgotti aprono la finestra e seguono la Messa di là… Me lo ha detto la vecchia Giuseppina che è la loro donna di fiducia… Tutte le domeniche fanno così… Gesù, capisco che non è una cosa regolare, ma io Vi pregherei di considerarli presenti». Il Cristo non rispose e don Camillo continuò: «Gesù, mi rendo conto di tutto, ma Voi dovete tener presente che io sono soltanto un povero caporale di giornata. Io non sono che l'ultimissima ruota del carro…». Don Camillo si strinse nelle spalle poi tornò a guardare in su e disse: «Gesù, fate che io non sia l'ultimissima ruota di un carro armato». Il Cristo non rispose e don Camillo si allontanò lentamente, e aveva il cuore pieno di tristezza.
206 PACE AGLI UOMINI DI BUONA VOLONTÀ Alla mezzanotte del famoso martedì, lo spaccio della Casa del Popolo era ancora zeppo di «rossi» in attesa che la radio desse i risultati delle votazioni per la Camera dei Deputati. Sotto il portico dall'altro lato della piazza, era appostato il maresciallo dei carabinieri che non perdeva d'occhio un istante la Casa del Popolo: inutile fatica perché Peppone e il suo stato maggiore avevano già da un bel pezzo trovato un rifugio più tranquillo. Il maresciallo li aveva visti entrare alla Casa del Popolo un paio d'ore prima, ma non li aveva visti quando, poco dopo, Peppone e soci, alla spicciolata, avevano tagliato la corda uscendo dalla porticina che dava sui campi. Il comando generale dei «rossi» aveva scelto come sede di emergenza una cascina isolata, vicino alla Corte del Campaccio, e qui si erano ritrovati tutti per attendere che lo Smilzo ritornasse da Castellina dove funzionava la radio da campo collegata, attraverso una lunga catena di posti-radio, alla centrale della città. Lo Smilzo apparve soltanto verso l'una di notte. «E allora?» domandò Peppone. «Ce l'han fatta per poco più di cinquantamila voti.»
Lo Smilzo cavò di tasca un foglietto e lo porse a Peppone: «Queste sono le cifre sicure». Peppone scorse il foglietto e pestò un pugno sul tavolo: «Abbiamo guadagnato quasi un milione e mezzo di voti, dal 1948, mentre i clericali e parenti ne hanno perso più di tre milioni, capite? E, per soli cinquantamila voti, il trucco del premio ha funzionato e così prendiamo meno seggi dell'altra volta». Incominciò la discussione: erano tutti gonfi di rabbia e urlavano come maledetti. «Anche se ci scanniamo a forza di gridare» osservò a un tratto il Lungo «non concluderemo niente. Invece bisogna concludere. La "legge truffa" non deve funzionare.» Peppone lo guardò perplesso. Il Lungo era il capoccia dei «duri», dei «decisi», e, quando parlava con quel tono di voce, significava che un temporale era in vista. «Capo» continuò il Lungo «qui non si tratta di fare dei colpi di testa e di proclamare la rivoluzione proletaria. Si tratta semplicemente di affermare i sacrosanti diritti della democrazia. Si tratta semplicemente di non tradire chi ci ha affidato la tutela dei suoi interessi materiali e morali. Circa dieci milioni di cittadini, stavolta, hanno dato il loro voto alle sinistre: un milione e mezzo più di cinque anni fa. Capo, cosa significa questo?» Peppone si grattò la pera.
«E, mentre noi in cinque anni abbiamo conquistato un milione e mezzo di voti, i clericali ne hanno perso circa tre milioni: cosa significa?» Peppone pestò un pugno sul tavolo: «Significa che i clericali sono dei porci!» gridò. «Significa che, se loro perdono fiducia mentre noi la guadagniamo, è una mascalzonata che i vantaggi elettorali vadano ai clericali e gli svantaggi a noi!» Il Lungo allargò le braccia: «Capo, come vedi, qui non si parla di colpi di testa o di colpi di stato. Il colpo di stato cercano di farlo loro. E se noi non glielo impediamo, lo faranno». Peppone si asciugò il sudore della fronte e rilesse due o tre volte il foglietto con le cifre. «Vecchio mondo!» concluse. «Se, in cinque anni di governo, i clericali hanno perso tre milioni di voti, questo significa che hanno governato male. Chi potrebbe negarlo?» «Nessuno, capo» affermò il Lungo. «Neanche l'America. Quando l'America tira le somme e vede che, nonostante i dollari ricevuti, nonostante l'intervento della Chiesa con la scomunica contro i marxisti, i clericali e soci hanno perso tre milioni di voti mentre i marxisti ne hanno guadagnato un milione e mezzo, cosa vuoi che possa dire l'America? E come può sostenere i clericali quando domani vedrà gli italiani ribellarsi a un trucco vergognoso come è quello del premio? Un trucco tanto vergognoso che perfino i più feroci antico-
munisti sono stati costretti a dichiararsi contro l'approvazione della legge?» Peppone guardò il Brusco, il Bigio e gli altri «molli»: vide che il ragionamento del Lungo li aveva molto colpiti. «Capo» disse lo Smilzo «se un barabba cerca di fregarti il portafogli, non è mica un colpo di testa intervenire per impedirgli di fare il colpo. È diritto di legittima difesa. E se poi dentro quel portafogli ci sono non soltanto i quattrini tuoi, ma anche quelli di un sacco di povera gente, allora diventa un dovere di legittima difesa. Non siamo mai stati forti come oggi: possiamo dimostrarci più deboli di ieri?» «Capo» esclamò il Lungo «se noi accettiamo il sopruso siamo tutti dei traditori. E non soltanto davanti al Partito, ma davanti al Paese e alla storia. Bisogna agire.» Peppone esitava ancora: «Agiremo quando arriverà l'ordine di agire». «L'ordine di agire c'è già: ce lo dà la nostra coscienza e ce l'ha dato il nostro Partito quando ha iniziato la battaglia contro la "legge truffa". È una cosa automatica, capo: una volta che il Partito ha detto: "Il popolo deve dire di no alla 'legge truffa'", al popolo spetta semplicemente di dire no alla "legge truffa". Bisogna agire immediatamente.» Intervenne il Bigio: «E cosa possiamo fare alle due di notte?». «Possiamo studiare quello che faremo domani. Quando domani la radio e i giornali avranno dato i risultati ufficiali
della votazione per la Camera, noi dobbiamo essere in grado di scattare senza attendere un minuto secondo.» Incominciò la discussione su quello che si poteva fare. Il frumento incominciava a ingiallire nei campi, i caseifici marciavano a tutta birra: la prima cosa da farsi era uno sciopero agricolo. Uno sciopero con squadre di sorveglianza disposte a pestare sul serio. Bloccare la vita della campagna, bloccare il traffico turistico. Iniziare un'azione di sabotaggio di tutto il sabotabile. «Abbiamo avuto la grande fortuna che il prestigio di don Camillo, in questo momento, ha avuto una sberla formidabile» spiegò il Lungo. «Molta gente che fino a poco tempo fa era con lui, adesso è contro di lui. È successo qui quel che è successo dovunque i preti sono stati costretti a prendere posizione contro tutti i cattolici che non volevano votare per la lista clericale. La posizione dei monarchici, per esempio, non è davvero quella di due mesi fa!» A sentir parlare di monarchici, il Nero strinse i pugni: «Compagno» disse con voce dura. «Passi per i monarchici, ma spero che non mi verrai a dire che anche la posizione dei fascisti è cambiata!» «Non te lo dirò mai!» gridò il Lungo. «Anzi, ti dirò di più. Ti dirò che prima ancora di pestare in testa ai fascisti, noi dobbiamo pestare in testa ai monarchici. E dobbiamo presentarli al Paese come i vigliacconi che, pur potendo senza nessun rischio intervenire contro il tentativo dittatoriale dei clericali, non hanno trovato neppure il coraggio di sputa-
re quei cinquanta o centomila voti di più che avrebbero impedito alla "legge truffa" di funzionare. I lavoratori hanno fatto il loro massimo sforzo per impedire il colpo clericale: lo dimostra il milione e mezzo di voti in più che noi abbiamo ottenuto. E i lavoratori, soltanto i lavoratori, dovranno domani presentarsi al Paese come i salvatori della libertà.» Lo Smilzo approvò con entusiasmo: «Bene! Botte in testa a tutti: ai fascisti perché sono fascisti, ai clericali e soci perché hanno attentato alla libertà, ai monarchici perché non l'hanno voluta difendere, ai preti perché hanno aiutato i nemici della libertà, all'America perché si è schierata dichiaratamente a favore dei nemici della libertà!». «Lascia perdere l'America» borbottò Peppone. «Non allarghiamo il conflitto. Manteniamolo nei confini nazionali.» «Va bene, capo» rispose lo Smilzo. «Per il momento trascuriamo l'America.» Il piano d'azione venne messo immediatamente allo studio. Fu una seduta veramente storica e il tono di essa venne tenuto altissimo da una quantità non trascurabile di bottiglie di vino. E quando dopo dodici ore tutto fu pronto, Peppone, che pure era il più calmo della banda, arrivò a dire perfettamente convinto: «O la va, o la spacca. Mi spiego?».
«Sì, capo» rispose lo Smilzo a nome di tutti. «Se occorre faremo della musica.» Ma il buon Dio intervenne; arrivò da Castellina una staffetta con un messaggio: «Comunicazione precedente da annullare per errore di ricezione. I risultati ufficiali definitivi sono i seguenti…». Peppone lesse ad alta voce il biglietto. «Sarà per un'altra volta» borbottò alla fine. «Per cinquantasettemila voti la "legge truffa" non ha funzionato.» «Peccato» dissero in parecchi. «Un'occasione simile non ci capiterà mai più.» «Bisogna aver fede, compagni» li consolò Peppone. «E poi il milione e mezzo di voti in più l'abbiamo avuto. La nostra resta sempre una vittoria.» Il Lungo sospirò: «Maledetti monarchici: ci hanno fregato!». * Il paese conobbe la notizia nel pomeriggio e don Camillo andò subito a sfogarsi col Cristo dell'aitar maggiore: «Gesù» disse «ecco: per quattro sconsiderati che invece di ascoltare la voce della ragione hanno ascoltato la voce della loro nostalgia, i nemici della religione hanno quasi cinquanta seggi in più alla Camera dei Deputati». Il Cristo sorrise:
«Don Camillo, lo sai che io non me ne intendo di faccende politiche. Cosa significa quello che tu mi hai detto?». «Gesù, significa che i monarchici, non votando per la lista governativa, hanno impedito il raggiungimento della vittoria totale.» «Capisco» replicò il Cristo. «Vuoi tu dire che, se i monarchici avessero votato tutti per la lista del Governo, i nemici della religione, invece di ottenere quasi un milione e mezzo di voti in più di cinque anni fa, avrebbero ottenuto dei voti in meno?» «No, Signore» rispose don Camillo. «Non mi avete inteso: io parlavo di seggi in più o in meno.» «Non mi hai inteso tu, don Camillo: Dio non si interessa di seggi, bensì di anime: Da mihi animas, cetera tolle.» Don Camillo si inchinò profondamente. «Perdonatemi, Signore, ma, in un certo senso, Voi ragionate come i monarchici.» «Agli effetti del Regno dei Cieli, in un certo senso sì. Adveniat Regnum tuum…» Don Camillo si inchinò ancora profondamente: «Gesù» disse don Camillo «se qualcuno Vi sentisse, Vi accuserebbe di scarsa sensibilità politica». «Il male è che nessuno mi ascolta» sospirò il Cristo. «Hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono…» Don Camillo levò gli occhi al cielo: «Gesù» disse angosciato «io Vi ascolto. Ma cosa posso fare io?».
«Va tra gli uomini e di' loro: Pax hominibus bonae voluntatis.» «Sì, Signore, io lo dirò. Ma sapeste quanta gente al mondo non vuol capire il latino…» * L'indomani mattina don Camillo, uscendo dalla canonica per celebrare la Messa, scoprì che durante la notte era accaduto qualcosa di terribile. L'alto campanile terminava con una lunga guglia a forma di cono: una cuspide rivestita di lastre di rame, sulla punta della quale era il piedistallo che reggeva l'angelo dorato del 1200. Qualcuno era salito fin lassù e aveva messo fra le braccia dell'angelo una grande bandiera rossa. L'urlo di don Camillo fece accorrere gente e, ben presto, la piazza fu piena zeppa e tutti stavano col naso in su a rimirare quell'orrore. Bisognava togliere lo straccio rosso e uno dei giovani di don Camillo corse su. Ma, arrivato in cima alla torre al piede della cuspide, il ragazzotto, dopo aver fatto degli strani gesti, ritornò giù. «Niente da fare» spiegò ansimando. «Hanno segato la scala.»
Dal piè della cuspide ricoperta, partiva infatti una di quelle scale volanti che si usano per discendere nei pozzi e per salir sugli altissimi camini delle fabbriche: delle graffe di tondino di ferro piegate a "U" e murate una sopra l'altra a distanza opportuna, sì da costituire un sicuro appiglio per le mani e un sicuro appoggio per i piedi. Lo sciagurato che, approfittando della notte nuvolosa e nera, era salito fin sulla cima della guglia per legare all'angelo dorato l'asta della bandiera rossa, doveva essere evidentemente attrezzato di una solida cintura con gancio se, nello scendere di lassù, aveva avuto agio di tranciare, una dopo l'altra, le graffe di ferro. E le aveva difatti tranciate accuratamente, in modo da non lasciare più nessun valido appiglio a chi volesse avventurarsi nella salita verso il culmine della cuspide. E doveva trattarsi di un individuo eccezionalmente robusto, non tanto perché occorrono muscoli non comuni per manovrare una trancia in quelle condizioni, ma perché, come era facile constatare, l'individuo, allo scopo di evitare che le graffe troncate cadessero facendo fracasso, le aveva tranciate soltanto per metà dello spessore spezzandone poi con le mani i gambi infissi nel muro. Comunque fosse accaduto, era praticamente impossibile salire sulla guglia perché, oltre alla forma della guglia stessa, la cornice sulla quale poggiava la base dell'alto cono era strettissima e non permetteva manovre con corde o con scale.
Per arrivare all'angelo di rame dorato e alla bandiera, bisognava cacciar fuori dai finestroni della cella campanaria delle travi, e su di esse creare un tavolato e usare il tavolato per rizzare tutt'attorno alla sommità della torre una impalcatura di leggeri tubi d'acciaio, fino ad arrivare all'altezza dell'angelo. Per il momento non c'era altro da fare che stare col naso in su a rimirare il preoccupante fenomeno. E la gente rimase lì a rimirare sgomenta la rossa bandiera sventolare in cima al campanile e anche don Camillo, dopo il suo urlo, se ne stette muto e immobile a guardare in su, come gli altri. «Io se fossi in lei, reverendo, spererei molto nelle tarme» disse una voce alle spalle di don Camillo. «Io, invece» disse un'altra voce «pregherei San Candido perché facesse piovere candeggina, così la bandiera da rossa diventerebbe bianca.» Don Camillo si volse e si trovò davanti Peppone e lo Smilzo: «Io, invece, signor sindaco» rispose «ringrazierò Dio di aver salvato la vita del povero pazzo che ha portato la bandiera, di notte, fin lassù». «Non può essere stato che un senzadio!» esclamò Spiletti con rabbia. «Non bisogna generalizzare» replicò calmo don Camillo. «Novanta volte su cento i cosiddetti "senzadio" sono semplicemente dei "senza cervello".»
Il tono dolce e pacato di don Camillo piacque allo Smilzo che borbottò: «Fino a un certo punto, il reverendo ha ragione». Effettivamente sia lo Smilzo che Peppone non erano dei senzadio. In quanto al cervello, lo avevano ma lo usavano senza metodo. La bandiera rossa rimase lassù per ricordare agli uomini di buona volontà ciò che, presi dal furore elettorale, avevano dimenticato. Pace agli uomini di buona volontà.
207 LA GIANNONA A don Camillo non piaceva per niente immischiarsi negli affari interni delle famiglie, ma il Grolini tanto insisté e tanto lo scongiurò che, un pomeriggio, preso il coraggio a due mani, marciò deciso sulla drogheria. Era un'ora morta, la più adatta per far due chiacchiere con la droghiera e, difatti, la Giannona abboccò facilmente all'amo e prese a parlare allegramente del più e del meno con don Camillo. «E Alfredo si comporta sempre bene?» domandò a un bel momento don Camillo. «Reverendo, non ne parliamo!» rispose la Giannona diventando improvvisamente cupa. Don Camillo trasse di tasca il grande fazzoletto bianco e rosso e si asciugò il sudore della fronte: un modo come un altro per farsi coraggio. «Se volete che sia sincero» borbottò don Camillo «ho l'idea che lo trattiate un po' troppo bruscamente.» La Giannona tirò su il fiato e gonfiò il petto: e non c'è da stupirsi se don Camillo si sentì intimidito perché bisogna tener presente che, se don Camillo era un omaccio con le mani grandi come badili, la Giannona era un tal pezzaccio di donna che, quasi, gli mangiava la pappa in testa.
«Ho capito!» esclamò con voce aspra la Giannona. «Quel farabutto è venuto in canonica a denigrarmi.» «Non vi ha denigrato» protestò don Camillo. «È venuto semplicemente a dolersi che voi lo trattiate come lo trattate.» La Giannona strinse i pugni: «E come lo tratterei, secondo voi, reverendo?». Don Camillo si strinse nelle spalle: «Se è vero quello che vostro marito mi ha detto» rispose «mi pare che lo trattiate non troppo bene. Io, naturalmente, non voglio ficcare il naso nei vostri interessi di famiglia…». «Mi pare che ce lo stiate ficcando anche troppo, reverendo!» esclamò la Giannona. «Faccio semplicemente il mio dovere» affermò don Camillo che incominciava a sentirsi le orecchie calde. «Se un galantuomo infelice chiede aiuto al parroco, il parroco non può rifiutarsi di intervenire. Tenete presente che vi ho sposati io.» «Non ci aveste mai sposati!» gridò la Giannona. «Il matrimonio è una cosa seria e bisogna pensarci parecchio prima di fare il passo. D'altra parte voi avete sposato un brav'uomo e dovete a lui la vostra posizione.» «Non gli debbo niente!» urlò la Giannona. «Chi tira avanti tutta la baracca sono io! Quando io sono venuta qui dentro, questa era la bottega più scalcinata del paese. Io l'ho tirata su. E, se gli affari vanno bene, il merito è tutto mio.» «Il merito è di tutt'e due perché anche vostro marito sgobba dalla mattina alla sera. A ogni modo, anche se la
maggior parte del merito fosse vostra, questo non vi dà il diritto di maltrattare quel poveretto.» «Poveretto? Avete il coraggio di chiamarlo "poveretto"?» «E come volete che chiami un marito che viene preso a sberle da sua moglie?» La Giannona alzò le erculee braccia al cielo: «Questa infamia, dunque, sarebbe arrivato a dirvi?». «Sì: e sarebbe anche arrivato a mostrarmi le ammaccature prodotte su di lui dalle vostre sberle.» «Mascalzone bugiardo!» urlò inorridita la Giannona. «Stasera gli rompo la testa!» Don Camillo cercò di calmare la Giannona scatenata. Ma la donna lo interruppe con violenza: «Reverendo, interessatevi degli affari vostri. Intendo che i miei affari di famiglia non diventino di dominio pubblico!». «Appunto per questo sono venuto» spiegò don Camillo. «Le cose sono giunte a un punto tale che vostro marito, un giorno o l'altro, farà qualche grossa sciocchezza. E allora vedrete che scandalo verrà fuori. E non sarà soltanto il parroco a impicciarsi dei vostri affari privati ma tutta l'Italia settentrionale e parte della centrale. Avevo l'obbligo di dirvelo e ve l'ho detto. Uomo avvisato mezzo salvato.» Dicendo «uomo avvisato» don Camillo intendeva alludere alla Giannona. Anche perché il Grolini Alfredo era non
un uomo, ma un ometto da quattro soldi, e doveva considerarsi non mezzo salvato ma completamente perduto. Uscito don Camillo, la Giannona si scatenò per la casa alla ricerca del marito. E, siccome non lo trovò, il suo furore aumentò. Alle undici di sera la Giannona era ancora in piedi, sveglia come non mai. Vana attesa perché Alfredo a tutto pensava fuorché a rincasare. Don Camillo gli aveva riferito per filo e per segno come si era svolta la scena in drogheria e Alfredo, alla fine, aveva scosso il capo: «Ho capito. È meglio che io rimanga lontano da casa». Don Camillo voleva dirgli di non fare stupidaggini, di non complicare la faccenda. Ma poi aveva guardato quell'omarino piccolo, magro e striminzito, aveva pensato alla Giannona immensa, smisurata, furibonda, e si era limitato a rispondere: «Fate vobis». * Alfredo dormì sull'ottomana nel tinello della canonica. O meglio: cercò di dormire senza peraltro riuscirvi. E passò la notte torturandosi il cervello nella ricerca disperata di una soluzione. Perché per una notte egli poteva rimaner fuori di casa; poteva anche rimaner fuori due notti. Ma poi avrebbe dovuto
per forza tornare. E, rientrando in casa, avrebbe trovato ad aspettarlo la Giannona. Una Giannona più Giannona del solito. Una Giannona pazza di rabbia. Alla prima luce dell'alba, Alfredo saltò giù dall'ottomana e uscì dalla canonica. Uscì dalla parte dei campi e zampettò in mezzo all'erba fradicia di rugiada. Oramai la decisione l'aveva presa. Era una decisione sciagurata ma non c'era che quella. E così Peppone, che stava ravvivando il fuoco della fucina, vide a un tratto apparire sull'uscio dell'officina il Grolini. E lo stupore fu tale che Peppone rimase lì come istupidito. «Cosa vuoi?» domandò aggressivo quando si fu reso conto che non si trattava di un fantasma. «Devo parlarti.» Peppone si avvicinò al Grolini. «Anch'io devo parlarti» gli disse quando gli fu a due passi. «E devo dirti una cosa soltanto: Porco!» Il Grolini incassò senza battere ciglio. «Peppino» implorò «non mi maltrattare anche tu.» Sentendosi chiamare «Peppino» Peppone diventò furioso: «Peppino è morto!» urlò. «Peppino era il tuo compagno d'infanzia, l'amico che ti ha sempre difeso da quelli che volevano picchiarti. Peppino è morto il giorno in cui tu l'hai tradito, porco maledetto.»
«Non ti ho mai tradito» replicò umile l'ometto che così, tutto spiegazzato, pareva ancora più misero e malinconico. Peppone lo afferrò per il bavero: «Camerata, abbiamo buona memoria!». Il Grolini si lasciò scuotere senza neppure accennare a resistere. «Peppino, sii giusto: cosa ti ho fatto di male?» «Piantala di chiamarmi Peppino o ti sbatto contro il muro! Dal giorno in cui ti è venuta la mania dell'orbace, degli stivaloni e del berretto col piccione non mi hai più chiamato "Peppino". Ti ricordi? Da allora, quando dovevi parlarmi, mi dicevi: "Voi, signor Bottazzi…". E, quando potevi, fingevi di non vedermi per non salutarmi. Allora io non ero più "Peppino": ero un "sovversivo"!» L'omarino si abbandonò su una cassa: «Peppino, ricordati che non ti ho mai fatto del male. E lo sai che, quando tu ne avevi bisogno, ho cercato di aiutarti». «Abbiamo già pagato questo debito, camerata Grolini Alfredo. Tanto è vero che nel '45, quando è venuto il nostro turno, il compagno Giuseppe Bottazzi ha dato ordine di non torcerti un capello. Ma il tradimento resta. Perché ti sei messo nella schiera dei miei avversari? Che bisogno avevi di iscriverti al Fascio? Cosa volevo io da te? Che tu diventassi "sovversivo" come me? No, porco maledetto. Volevo soltanto che tu non t'impicciassi di politica, volevo soltanto che tu rimanessi fuori dal pasticcio. Volevo avere in te almeno una
persona che non mi guardasse come un criminale pericoloso!» L'omarino scosse il capo: «Peppino, ero disperato: dovevo farlo». Peppone lanciò un urlo: «Dovevi farlo, tu? Un uomo che, per vivere, non aveva bisogno di nessuno? Un esercente con tanto di bottega che andava già a gonfie vele?». «Peppino, cerca di capirmi: non ne potevo più, non sapevo più a che santo votarmi. Aveva già incominciato a maltrattarmi… Aveva già incominciato a prendermi a schiaffi.» Peppone lo guardò sbalordito. «Ti prendeva a schiaffi? E chi?» «La Giannina…» Sentendo chiamare «Giannina» la Giannona, Peppone fu assalito da un convulso di riso. «E cosa c'entra la Giannina?» domandò quando potè riaver fiato. «Cosa c'entra lei col Fascio?» «C'entra perché, quando mi ha visto in divisa d'orbace, con gli stivaloni e l'aquila sul berretto, non ha più avuto il coraggio di maltrattarmi. Le facevo soggezione. Anche quando ero in borghese. Bastava che vedesse il distintivo. Se incominciava a gridare io dicevo: "Adesso devo andare al Fascio perché c'è una riunione di zona", e subito smetteva. Ha sempre avuto paura della politica.» Peppone era rimasto a bocca aperta.
«Peppino, lo giuro. Lo giuro che l'ho fatto per questo. Soltanto per questo. E quando il fascismo è finito, lei ha ricominciato a maltrattarmi. Se ne approfitta perché ha una forza da elefante e perché io sono un povero disgraziato che non sta neanche in piedi. Mi picchia. Mi dà degli schiaffi, delle bastonate.» Che la Giannona trattasse suo marito come un pedalino, Peppone lo sapeva perfettamente. Non credeva però che la Giannona fosse arrivata al punto di picchiarlo. «E tu, cretino, non reagisci?» urlò Peppone. «Non sei capace di dimostrarle che il padrone di casa sei tu?» L'ometto fece segno di no con la testa. «Ieri ho convinto il parroco a parlarle» sospirò. «Le ha fatto una predica seria.» «E allora?» «Allora non sono andato a casa a dormire perché, se tornavo, mi avrebbe spaccato la testa. E adesso sono qui. Se non mi aiuti tu, mi butto nel fiume.» Peppone si agitò: «Figurati! Se non è riuscito a convincerla don Camillo, che è il suo parroco, come posso convincerla io che sono per lei il "pericolo comunista" e l'Anticristo? Se vuoi che le vada a dare una carica di legnate, volentieri. Ma di più non posso fare». «Puoi» disse Alfredo. «Se vuoi puoi.» Peppone guardò pieno di compassione il poveraccio. «Di' pure.»
«Fammi iscrivere al Partito comunista.» «Tu? Tu che fino all'ultimo hai fatto il bullo vestito in orbace?» Alfredo allargò le braccia desolato: «Peppino, allora non è vero che il tuo partito difende gli oppressi…». * Alle nove del mattino la Giannona stava in negozio, pallida di furore, aspettando il ritorno del marito, quando entrò lo Smilzo. «Buongiorno» disse brusco lo Smilzo. «Devo parlare d'urgenza col compagno Grolini.» La Giannona lo guardò perplessa. «Quale compagno Grolini?» balbettò. Lo Smilzo si mise a ridere: «Signora, non scherziamo! Vostro marito si chiama o non si chiama Grolini Alfredo fu Amilcare, droghiere?». «Sì.» «E allora fate il piacere di chiamarlo. Bisogna che venga d'urgenza alla sede perché c'è il segretario federale che vuol parlargli personalmente.» «Adesso non c'è» rispose la Giannona intimidita. «Va bene: appena rientra dategli questa lettera.» Lo Smilzo porse alla Giannona una busta e uscì.
«Al compagno Grolini Alfredo — Urgentissima — Riservatissima»: la Giannona lesse e rilesse l'indirizzo. E non sapeva staccare gli occhi dalla busta che recava tanto di falce martello e stella e l'intestazione: «Partito Comunista Italiano». Squillò il campanello dell'uscio della bottega e la Giannona levò lo sguardo. Era Alfredo: così spazzolato e lucido e con quattro bicchierini di grappa nel serbatoio pareva un uomo normale. Inoltre aveva all'occhiello della giacca la scintillante patacca rossa con la falce e il martello. «Novità?» domandò Alfredo. La Giannona gli porse la lettera. «L'hanno portata adesso» balbettò. «Il segretario federale ti cerca…» «Bene. Tornerò appena libero.» «Alfredo» balbettò la Giannona «se ti vedono col distintivo perderemo un sacco di clienti.» «Noi ci preoccupiamo della giustìzia sociale, non della clientela!» rispose categorico Alfredo. Poi uscì fiero, solenne, fatale. E pareva il prologo della rivolutone d'ottobre. * Appena ebbe un momento libero, la Giannona corse in canonica.
«Don Camillo» implorò «aiutatemi. Alfredo ha fatto una pazzia. Si è iscritto al Partito comunista.» «È una cosa terribile!» rispose don Camillo. Ed era davvero una cosa terribile perché don Camillo aveva una voglia matta di mettersi a sghignazzare. «Cosa sarà di me?» gemette la Giannona. «E chi lo sa?» sospirò don Camillo. «Chi sa cosa può succedervi, povera signora, adesso che avete il Demonio in casa?» La Giannona ritornò sgomenta alla base: appena la sentì entrare, Alfredo, che stava pisolando sul seggiolone imbottito in saletta, si tirò su e spalancò l' Unità. E così, quando si affacciò alla porta della saletta, la Giannona rimase come colpita dalla folgore e rapidamente innestò la marcia indietro.
208 IL RICOVERO Il Pocci, lo strozzino che aveva trascorsa tutta la vita ad accumulare roba, morì e, non potendo portare niente con sé, fece lo splendido e lasciò terra e soldi a istituti di beneficenza della città. «Carogna in vita e in morte» dissero quelli del paese quando seppero del testamento. Ma il Pocci era tanto gramo che non volle dare neanche quella soddisfazione al paese e, quando oramai più nessuno se l'aspettava, il notaio tirò fuori una busta sigillata «da aprirsi due mesi dopo la morte». Il Pocci destinava la sua casa, tre milioni in contanti e un podere di cento biolche a un erigendo ricovero dei vecchi. Esecutori testamentari il parroco, il sindaco e altri sei tipi scelti con estrema cura. Don Camillo, Peppone e i rimanenti membri del comitato si trovarono nell'ufficio del notaio per la lettura del testamento e fu un duro colpo per tutti quanti perché nessuna delle persone convocate sapeva degli altri. Si sbirciarono cupi e stettero ad ascoltare la lettura. Quando il notaio tacque, nessuno fiatò. «Chi tace acconsente» borbottò il notaio. «Quindi voi accettate di essere gli esecutori testamentari e vi impegnate a
istituire e ad amministrare un asilo-ricovero per i vecchi poveri del Comune.» «Un momento!» esclamò Peppone. «Qui bisogna parlarci chiaro. Il vecchio Pocci, anche in questa faccenda, si è comportato da quella gran carogna che è sempre stato.» «Signor sindaco!» lo interruppe don Camillo. «Rispetti i defunti!» «Signor parroco» rispose Peppone «quando il Pocci ha scritto di suo pugno autografo quella roba lì non era defunto ma vivo. Quindi era il carogna che ben conosciamo. E così, per darci l'ultima fregatura, ha scelto come esecutori testamentari otto persone ognuna delle quali ce l'ha a morte con le altre sette. Era difficile trovare una combinazione come questa; però il vecchio Pocci è riuscito a trovarla: questioni politiche, questioni di interesse, vecchie rivalità, diciamo, di carattere vario eccetera eccetera, il fatto è che se ciascuno di noi otto dovesse dare ascolto al proprio sincero impulso, sputerebbe in faccia agli altri sette. Ho reso l'idea?» «In un certo senso sì» borbottò don Camillo. «Bene» continuò Peppone. «Allora qui siamo in presenza, nominandolo da vivo e non da morto, di una carogna che col nobile pretesto della solidarietà umana e sociale tira a farci venire un fegato grosso così a tutti e otto, con l'obiettivo finale di spaccarci la testa l'uno con l'altro e di trasferire il comitato completo all'ospedale o in galera. Per cui io propongo che noi sottoscritti facciamo, con rispetto parlando,
tanto di salame al defunto provocatore e lasciamo ad altri l'incarico di realizzare il ricovero dei vecchi.» «D'accordo!» esclamarono con vivacità gli altri del comitato, don Camillo eccettuato. «Il signor arciprete non approva la nostra decisione?» domandò aggressivo Peppone a don Camillo. «Il signor arciprete si permette semplicemente di farvi presente che gli otto esecutori testamentari designati dal Pocci sono insostituibili. Il documento spiega che, se noi non accettiamo tutti, il lascito passa automaticamente al ricovero dei vecchi di Palermo.» «Palermo?» urlò Peppone. «Cosa c'entra la Sicilia?» «Bisognerebbe domandarlo al signor Pocci. Io ne so come lei, signor sindaco. Quindi, se noi non accettiamo, priviamo il paese di un grandissimo beneficio e tutto il paese sarà contro di noi otto, e ci riterrà responsabili del grave danno.» Peppone pestò un pugno sulla scrivania: «Ecco lo scopo vero del vecchio Pocci: fare un altro dispetto al paese e fregare noi personalmente!». «Non credo, signor sindaco» obiettò don Camillo. «Io credo invece che il Pocci fosse animato da tutt'altro intento. Da un nobilissimo intento: costringerci a dimenticare le nostre antipatie per il bene del paese. Fornirci cioè un argomento sul quale trovarci tutti d'accordo.» Peppone diede un'occhiata in giro:
«Per me» disse «lo scopo del Pocci era quello di fregarci. E allora io penso: accettiamo l'esecuzione testamentaria. I nostri rapporti privati rimarranno quelli che sono adesso; però, quando ci riuniremo per trattare del ricovero, noi dobbiamo impegnarci a fare ogni sforzo sovrumano per andare d'accordo!». «Bravo!» approvò don Camillo. «Dobbiamo farlo per il bene della comunità.» Gli altri sei rimasero tenacemente muti ma i loro occhi dicevano: «No!». «Il bene della comunità non mi interessa!» gridò Peppone. «Qui noi dobbiamo impegnarci ad andare d'accordo perché lo scopo finale è quello di fregare il vecchio Pocci.» «Se si tratta di far dispetto al Pocci, io ci sto a tutte le condizioni» affermò uno dei sei. «Anche io» disse un altro. Ci stavano tutti e allora don Camillo concluse: «Sia bene inteso, però, che io non ci sto per far dispetto al Pocci ma per il bene della comunità. Il bene non può essere usato come mezzo per ottenere il male». L'assemblea insorse: «Neanche per sogno! O anche voi ci state a far dispetto al Pocci, o noi ci ritiriamo». «Mi dispiace» replicò don Camillo. «Io non posso usare il bene a fin di male. Ciò è contrario al principio basilare della religione cristiana. Io devo combattere il male per ottenere il bene. Voi siete una schiera di malvagi che usano il bene
(istituzione di un ricovero) per far dispetto all'anima di un povero defunto. Io dovrei ritirarmi per rendere impossibile questa vostra sacrilega impresa. Ma, ritirandomi, darei grave danno a degli infelici vecchi bisognosi: allora io non mi ritiro e vi affianco ma solo nel caso in cui sia ben chiaro che io mi servo del male (vostro malvagio intento) per ottenere il bene rappresentato dal ricovero per i vecchi indigenti.» Peppone protestò: «E così, mentre voi fate il ricovero dei vecchi perché siete un galantuomo, noi lo facciamo perché siamo dei farabutti! Come al solito, il signor prete vuole una posizione privilegiata». «Nessuno vi impedisce di essere alla pari con me» replicò calmo don Camillo. «Basta che voi accettiate l'incarico non con l'intenzione di far dispetto a un morto, ma con quella di far del bene ai vivi.» «I vivi! I vivi!» urlò Peppone. «Bella gente i vivi! Quando io sono morto, i vivi se ne fregano di me!» Gli altri sei tentennarono gravemente il capo come per dire: «Hai proprio ragione». «Comunque» concluse Peppone «mi pare che sulle linee essenziali siamo tutti d'accordo. C'è qualcuno che si oppone all'iniziativa di un ricovero per i vecchi?» Nessuno si oppose. Usciti dall'ufficio del notaio gli otto se ne andarono ciascuno per conto proprio, senza neanche salutarsi.
Arrivato in chiesa, don Camillo andò a inginocchiarsi davanti al Cristo dell'aitar maggiore: «Gesù» esclamò dopo aver raccontato per filo e per segno tutta la storia «io Vi ringrazio di aver frustrato il malvagio intento del vecchio Pocci. Egli sperava che noi ci scannassimo e invece…». «Don Camillo» rispose severamente il Cristo «come puoi tu affermare che il Pocci quando fece il suo lascito fosse animato da malvagi intenti?» Don Camillo allargò le braccia: «Gesù» balbettò imbarazzato «lo dicevano tutti, là nello studio del notaio… Naturalmente io no. Io, anzi, l'ho difeso. Povero signor Pocci: che Dio gli renda più leggere le pene dell'Inferno». «Don Camillo!» «Signore» si giustificò in fretta don Camillo «io non mi permetterei mai di sostituirmi alla Giustizia Divina. Io mi limito a riferire quel che dice l'opinione pubblica.» * La casa del Pocci era una delle più belle, ampie e comode del paese e aveva anche un grande giardino. Pareva fatta apposta per essere trasformata in un ricovero. I quattrini liquidi furono ampiamente sufficienti per la trasformazione e l'attrezzatura. Il podere lasciato in dote al
ricovero era uno dei migliori del Comune, i mezzadri erano bravi e onesti e la rendita eccellente. Il comitato degli otto funzionò sin dalla sua prima seduta in modo esemplare: le discussioni furono sempre condotte nel modo più sereno possibile e i lavori marciarono magnificamente. In quattro mesi tutto fu approntato e, quando la commissione al completo ebbe compiuta la visita di collaudo e ogni cosa venne trovata di generale soddisfazione, si pensò al programma della cerimonia inaugurale. Qui don Camillo sollevò una seria obiezione: «Per me, il ricovero deve essere inaugurato non come semplice edificio pronto e attrezzato per ospitare dei vecchi bisognosi, ma come istituzione funzionante. Inaugurarlo così, a vuoto, sarebbe come varare una nave a secco senza mandarla in mare. La cittadinanza deve vedere il ricovero già in funzione, vale a dire con i ricoverati. Solo così la cittadinanza potrà avere una precisa idea della efficienza di ogni servizio. Comunque, fate vobis». Gli altri si grattarono la pera. «Per forza» esclamò Peppone. «Il ricovero senza ricoverati è come una linea elettrica senza elettricità, o un tronco ferroviario senza treno. E poi si sa come succede: vengono i giornalisti e intervistano i vecchi: quanti anni avete, come vi trovate, che mestiere facevate eccetera.» «Inoltre» disse uno degli altri sei «mettendo nel ricovero i ricoverati, si può fare il vero collaudo pratico. E rimediare a
tutti i possibili inconvenienti prima della inaugurazione ufficiale.» Era necessario trovare i vecchi da ricoverare e non era davvero un'impresa difficile perché i ricoverabili del Comune erano cinque e li conoscevano tutti: Giacomone di anni 75 residente nel paese, Ranieri di anni 78 residente a Torricella, Girardengo di anni 80 residente a Trecaselli, Joffini di anni 79 residente a Fiumetto e la Miràcola di anni 85 residente al Crociletto. Cinque poveretti che, pur non facendo gli accattoni, vivevano di elemosina. Giacomone, alto e magro, con le ossa che parevano bucargli la pelle, era una vittima dello sciopero del 1908: allora perdette il posto e da allora era rimasto disoccupato. E, per quarantacinque anni, aveva tirato avanti nutrendosi quasi esclusivamente di vino e dormendo nei fienili e nelle stalle. Ranieri, di media statura e con due gran baffi all'ingiù, in realtà aveva un altro nome, ma lo chiamavano Ranieri perché un paio di volte alla settimana «andava per rane» nel senso che lo trovavano ubriaco a dormire dentro qualche fosso. E il giorno che lo tirarono su dal fosso della Strada Quarta trovarono che una rana gli era entrata dentro una tasca della giacca. Girardengo era il più scarlingato della categoria: il suo nome era Bedetti ma poiché aveva i cuscinetti delle ginocchia ingranati e quelli delle anche arrugginiti, e così doveva camminare a passettini di dieci centimetri l'uno e per fare
mezzo chilometro ci impiegava una giornata, era stato ribattezzato Girardengo. A chi gli domandava dove andasse, Girardengo rispondeva immancabilmente: «Devo portare un espresso alla sporcacciona di tua sorella». Joffini era il più serio e laborioso. Sempre pulitino, passava la sua vita fra le stanghe di un carretto. Nessuno lo aveva mai visto senza il suo carretto: estate o inverno portava a spasso per le strade della Bassa il suo carretto e ogni duecento metri si fermava, si sedeva su una stanga, tirava fuori la pipa, l'accendeva, e se nella pipa c'era qualche cicca buttava fuori fumo dalla bocca. Se no si contentava di succhiare l'aria puzzolente del cannello. La vecchia Miràcola girava invece con una sporta infilata nel braccio ed era così piccola e minuta, e coi capelli candidi sempre così ben pettinati, che tutti le volevano bene. Era brava per «segnare» le risipole e le slogature: di qui il nomignolo di «Miràcola». I cinque ricoverabili agivano completamente indipendenti l'uno dall'altro. Ognuno aveva la sua zona, i suoi clienti, e non si incontravano mai. Si incontrarono per la prima volta il giorno in cui lo Smilzo, in qualità di guardia comunale aggiunta, andò a pescarli e li portò in Comune dove erano ad attenderli il sindaco e don Camillo e gli altri della commissione degli otto.
Era stato stabilito che avrebbe parlato, a nome di tutti, Peppone, e, quando i cinque poveracci gli furono davanti, Peppone disse con voce cordiale ma solenne: «Noi vi abbiamo qui convocati per darvi una bella notizia. Una notizia bella per voi e per noi. Perché se ad averne beneficio materiale sarete voi, noi ne avremo un beneficio morale per la soddisfazione di poter assolvere finalmente il primo dei doveri sociali: l'assistenza della categoria più bisognosa». I cinque continuavano a guardare con diffidenza Peppone, don Camillo e gli altri sei. «Come voi saprete certamente» continuò Peppone «sta per inaugurarsi il ricovero dei vecchi e per questo vi abbiamo chiamati qui.» «Io non sono vecchio» borbottò Giacomone. «Io non c'entro.» «Tu hai settantacinque anni compiuti» replicò Peppone «quindi sei vecchio.» «Quando uno è ancora capace di lavorare e di guadagnarsi un pezzo di pane, non è vecchio da sbattere in un ospizio» affermò Giacomone. Peppone si seccò: «Giacomone, non dire stupidaggini: tu non hai mai fatto niente da quando eri giovane, figurati adesso che sei vecchio. È da quando ero ragazzo che io vi vedo in giro a domandare l'elemosina, tu e i tuoi soci».
«Io non ho mai domandato l'elemosina!» protestò Giacomone. «Neanche io!» affermò Ranieri. «Io da cinquant'anni faccio il mio servizio col carretto e mi guadagno da vivere!» esclamò Joffini. Peppone diventò rosso come un papavero: «Basta! Voi da stasera andrete al ricovero. E se non ci volete andare vi ci faccio portare». «Tu mi ci fai portare e io scappo!» gridò con voce irosa Girardengo. La Miràcola si mise a piangere in silenzio e si asciugava gli occhi con un lembo del fazzoletto nero che portava sui capelli candidi. «E voi cosa avete da frignare?» domandò don Camillo. «Io voglio morire nel mio letto, non all'ospedale» balbettò la vecchina. «Ospedale?» schiamazzò imbestialito Peppone interpretando il sacrosanto sdegno di tutta l'assemblea. «Chi è quel vigliacco che ha il coraggio di parlar di ospedale? Smilzo, sbattili dentro l'autoambulanza e portali al ricovero così vedono!» A sentir parlare di autoambulanza la vecchina si mise a piangere più forte: «Signor Peppino» implorò «abbiate rispetto per una povera vecchia che vi ha portato in braccio quando voi avevate due mesi…».
A sentirsi chiamar Peppino, e in quel modo, Peppone sparò una bestemmia tale che don Camillo ruppe il patto di non aggressione e disse alla vecchia: «Invece di tenerlo in braccio, avreste fatto meglio a buttarlo giù dal ponte del Canalaccio». I cinque disgraziati vennero caricati sull'autoambulanza e portati via. Peppone, don Camillo e gli altri sei li seguirono a piedi. Erano tutti inferociti: «Noi ci arrabattiamo per fargli del bene, e loro ci trattano come se fossimo dei boia!». * «E allora?» I cinque disgraziati che stavano aspettando sperduti nel grande atrio del ricovero sussultarono udendo la voce di Peppone. Li accompagnarono a visitare l'edificio. «Questa è la cucina dove vi faranno il mangiare» spiegò Peppone. «Mangiare sano, pulito, sostanzioso. Abbondante.» «Colazione, desinare, merenda e cena» aggiunse don Camillo. «E tutti i giorni. Finita l'incertezza.» Passarono nel refettorio, ampio, pieno di luce: «Avete finito di mangiare seduti sulla riva di un fosso» spiegò Peppone. «Mangerete come i cristiani, seduti alla vo-
stra tavola apparecchiata, al caldo d'inverno e al fresco d'estate.» Poi passarono nel dormitorio coi letti in fila. «Gesummaria!» gemette la Miràcola. «Gesummaria che cosa?» domandò don Camillo. «Io non voglio dormire dove dormono degli uomini.» «Ma che uomini d'Egitto. Questo è il reparto maschile. Voi dormirete nel reparto femminile.» Poi fecero visitare i lavandini scintillanti di porcellana, l'infermeria per i malati, la bibliotechina, la stanza di soggiorno con le poltrone a sdraio e il guardaroba con la biancheria già pronta e gli abiti appesi agli attaccapanni. «Riscaldamento a termosifone, luce elettrica, acqua calda e fredda, radio e, quando ci sarà la stazione di Montepelli, anche la televisione. Giornali, libri, laboratorio se uno vuol passare il tempo facendo qualche lavoretto. E il suo bravo giardino per prendere l'aria e il sole. Vi pare ancora che noi siamo dei farabutti che vi vogliono fare del male? Dei mascalzoni che vi vogliono mandare in un ospedale? Degli assassini che vogliono chiudervi in galera? Questa è la vostra casa e avrete ogni giorno le vostre ore di libera uscita. Avanti: cosa avete da dire?» Peppone attese sicuro di sé. «È una meraviglia» disse Giacomone. «Proprio roba da signori» aggiunse Ranieri. «Bellissimo» sospirò Joffini. «Volendo ci sarebbe anche il posto per mettere il carretto.»
«Si capisce!» ridacchiò soddisfatto Peppone strizzando l'occhio agli altri sette. Girardengo continuava a guardarsi attorno: «Certamente» borbottò. «Certamente, meglio di così non si potrebbe pretendere.» «E voi, cosa ne dite?» domandò allegramente Peppone alla Miràcola. «Io sono una povera vecchia» gemette «cosa volete che sappia io?» «Vi piace o non vi piace?» «Mi fa soggezione tanto è bello.» «Vi ci abituerete, vi ci abituerete!» Don Camillo intervenne: «Siamo molto contenti tutti che la vostra casa vi sia simpatica. Fra una settimana i servizi funzioneranno e ci sarà il personale occorrente. Perciò restiamo intesi così: voi avete il tempo per liquidare tutte le vostre cosette e, fra una settimana, senza bisogno che vi mandiamo a chiamare, vi presentate qui e incominciate la vostra nuova vita». Peppone strizzò l'occhio all'amministratore che capì l'antifona e, fattosi avanti, consegnò a ognuno dei cinque un biglietto da mille: «Questo significa che da oggi siete in forza alla casa di riposo: vi servirà come sussidio per i giorni che dovete ancora aspettare. Giacomone e Ranieri: mi raccomando, non ubriacatevi».
I cinque disgraziati se ne andarono stringendo nel pugno il loro bigliettone. «Siamo a cavallo!» esclamò soddisfatto Peppone. «Bisogna aver pazienza con i vecchi.» «Specialmente con questi» aggiunse don Camillo. «Non hanno mai avuto niente di buono dalla vita e stentano a credere che la Divina Provvidenza si sia ricordata anche di loro.» * Oramai ogni cosa era a posto ma, allo scadere dei sette giorni, nessuno si fece vivo. Aspettarono ancora due giorni poi lo Smilzo venne inviato alla ricerca dei cinque ricoverandi. Ci vollero altri tre giorni per ripescarli e, quando li ebbe ripescati, lo Smilzo tornò a mani vuote: «Sì, li ho trovati, ma se volete riprenderli dovete andarci voi» spiegò all'assemblea. «Io non me la sento.» «Smilzo!» urlò Peppone. «Esegui gli ordini!» «Capo, non ho mai disobbedito a un tuo ordine. Il fatto è che stavolta è un ordine che io non posso eseguire. Io posso semplicemente accompagnarti là.» Partirono tutti e otto sul camion di Peppone pilotato dallo Smilzo: erano furiosi e intenzionati a usare anche la forza con gli ingrati pezzenti. Il camion navigò per le stradette pol-
verose e, passato il gruppo di case del Crociletto, si fermò davanti a una catapecchia isolata. «È la casa della vecchia» spiegò lo Smilzo. «Incominciamo col caricare questa disgraziata!» esclamò Peppone. «Poi pescheremo gli altri. Pianga o urli, fra un'ora sarà al ricovero.» La porta era chiusa col catenaccio: Peppone la prese a calci e, dopo qualche minuto, la porta si aprì e apparve la Miràcola: «Sbrigarsi senza fare tante storie!» le intimò Peppone. «Tirate su le vostre carabattole e marciare. Cinque minuti di te…» Peppone si interruppe trovandosi d'improvviso davanti a uno spettacolo davvero fuori dal comune. Entrato infatti nella stanza, Peppone si trovò non in una normale cucina, come credeva, ma in un laboratorio di falegnameria: Giacomone stava lavorando al banco. Ranieri stava lucidando a spirito il piano di un tavolino e Girardengo, seduto in un angolo, stava impagliando una sedia. «Abbiamo fatto una cooperativa» spiegò Giacomone tranquillo. «Ognuno si è ricordato del suo vecchio mestiere e ha ripreso il lavoro. La Miràcola ci ha messo la casa e fa da mangiare. Joffìni ci ha messo il carretto e si occupa di andare a prendere e riportare il lavoro. Con le cinquemila lire abbiamo comprato il banco e i ferri più necessari.» Peppone si avvicinò a guardare quello che stava facendo Giacomone. E si avvicinarono e guardarono anche gli altri. Era un lavoro modesto ma da artigiano in gamba.
«Bene» borbottò Peppone facendo marcia indietro. «Vuol dire che, quando avete bisogno di noi, sapete dove trovarci.» Uscirono e risalirono sul camion senza fiatare. Alla svolta della chiavica vecchia, appena imboccata la angusta stradetta del Pioppaccio, lo Smilzo dovette bloccare perché un carretto era fermo sul ciglio del fosso. Il carretto era carico di sedie rotte e di bigonci sfasciati. Su una stanga stava seduto Joffini con la pipa in bocca e, sulla sponda del carretto, stava scritto in vernice rossa: Cooperativa Artigiana LA LIBERA Lo Smilzo accostò tutto a destra e, passando davanti a Joffini, don Camillo si sporse dal camion e gli buttò in grembo mezzo toscano. L'altro mezzo se lo mise in bocca e lo accese, per non essere da meno di Peppone e degli altri sei che fumavano furiosamente come ciminiere.
209 NOTTE AL KREMLINO Le case del borgo erano addossate l'una all'altra come se nessuna se la sentisse di stare in piedi da sola, e le stradette che sfociavano tutte nella strada grande erano anguste e storte: eppure il borgo pareva un grano di riso buttato in mezzo a un biliardo perché la campagna, tutt'attorno, era piatta e sconfinata. Ma anche da quelle parti là la gente aveva la mania del "centro", e sembrava impossibile che uno, dovendosi costruire una casa, se la tirasse su a cinquanta o sessanta metri dal "centro". Anche la gente di campagna, quando appena abiti in un agglomerato urbano di quattro o cinque catapecchie, diventa stupida come quella di città e, invece di guardare ai campi verdi e liberi, chiude gli occhi e sogna grattacieli. Il Tavoni da anni e annorum voleva costruirsi una casa: ma, naturalmente, la voleva in centro e, in centro, di spazio libero esisteva oramai soltanto quello della piazza. Però aspettava pazientemente, pieno di fiducia, e l'attesa non fu vana. Esisteva, in centro, una decrepita chiesa sconsacrata da almeno cinquant'anni. Un brutto baraccone di mattoni fradici
che poteva servire, al massimo, come quartier generale dei topi del paese. Una scarafaggiaia dal tetto sfondato, nella quale nessuno aveva il coraggio di entrare per paura che i muri gli crollassero in testa. Mano a mano che il tempo passava, la chiesa sconsacrata diventava sempre di più un pericolo pubblico, e l'ultimo colpo gliel'aveva assestato la piena indebolendo le già troppo deboli fondamenta. Bisognava a ogni costo demolirla, ma anche per tirar giù una casa occorrono quattrini: tanto più quando la costruzione sorga nel cuore dell'abitato e dia su una strada stretta. Allora ci fu chi pensò al Tavoni e gli fece la proposta: demolisse la baracca a sue spese e gli avrebbero ceduta l'area a un prezzo conveniente. Il Tavoni non ci pensò un sol minuto: firmò subito il contratto e incominciò i lavori di demolizione. Per cinquant'anni tutti, in paese, avevano visto la pericolante chiesa che era stata sconsacrata e abbandonata appunto perché costituiva un pericolo per i fedeli né poteva essere riparata a causa del cedimento delle fondamenta: eppure soltanto quando il Tavoni ebbe incominciato i lavori la gente si accorse dell' affare e, dopo aver tentato invano di fregare l'affare al Tavoni facendo offerte pazze, disse che il Tavoni era un cretino. «Soltanto uno stupido» affermò la gente «può costruire una casa sulle fondamenta di una chiesa.»
Il Tavoni continuò tranquillo i suoi lavori di demolizione e, quando le macerie furono tutte portate via, parecchi vedendo quel magnifico spiazzo libero si sentirono divorare il fegato. Il colpo fu duro e la gente salvò la faccia asserendo che, nonostante tutto, l'idea di tirar su una casa sulle fondamenta d'una antica chiesa rimaneva sempre degna di un cervello svirgolato. Ma la storia durò poco perché il Tavoni, tirata giù la baracca, incominciò a far cavare le fondamenta. Voleva una casa nuova da cima a fondo. Per qualche giorno la gente masticò rabbia in silenzio ma, finalmente, si sparse in paese la buona notizia: «Morti! Sotto il pavimento della chiesa c'erano delle grandi tombe piene di ossa e di teschi». Ossa e teschi a vagoni, diceva la gente. In realtà si trattava di qualche sacco d'ossa, triste e magra mercanzia che venne subito portata al cimitero, ma per la gente era come se di ossa ne fossero state trovate a decine di tonnellate. E ci fu qualcuno tanto perfido da far apparire sul giornale provinciale la notizia del ritrovamento di una «antica necropoli». Notizia che terminava: «A quanto sì dice in paese, il Tavoni avrebbe interrotto i lavori per far sorgere al posto della progettata casa un cippo marmoreo a ricordo del macabro rinvenimento». Il Tavoni sputò arsenico ma non diede nessuna soddisfazione alla gente: fece anzi intensificare i lavori e continuò lo scavo fino a quando non trovò la terra purissima.
Allora tirò su le fondamenta in calcestruzzo e riempì quell'enorme vascone con ciottoli e ghiaione portato dal fiume. Arrivato a fil di terra, sigillò il tutto con una gettata di betone alta due spanne. La gente ghignò: «Non ha fatto la cantina sotterranea perché ha paura dei morti!». Ma, evidentemente, il Tavoni non aveva paura né dei morti né dei vivi, perché la palazzina incominciò a venir su con una rapidità straordinaria. E questo significava che il Tavoni non vedeva l'ora di entrare nella sua nuova casa. La gente rimase senza argomenti validi e il giorno in cui, finita la palazzina dentro e fuori e asciugati muri e vernici, il Tavoni fece solennemente il trasloco, la gente guardò al fatto come fosse un sopruso. E poiché il Tavoni, approfittando abilmente della sua vittoria, non trascurava occasione per spiegare pubblicamente che da quando era entrato nella palazzina gli pareva d'essere rinato tanto si trovava bene, la gente incominciò a soffrire atrocemente. Ma venne ben presto il giorno della riscossa. Chi fu il primo a lanciare l'allarme? Impossibile poterlo sapere: qualcuno ci fu, ecco tutto. E subito il paese entrò in agitazione. La gente si divise in due correnti: quelli che ci credevano e quelli che non ci credevano.
«Era logico che succedesse così» dicevano gli uni. «Non si fa una casa sulle ossa dei morti. I morti bisogna lasciarli in pace.» «Queste sono stupidaggini, chiacchiere di vecchie» dicevano gli altri. «Comunque non si deve mai costruire una casa sopra le ossa dei morti.» E così, chi in un modo e chi nell'altro, chi con aria di paura, chi con aria scanzonata, tutti andarono raccontando in giro che alla palazzina ci si sentiva. Porte chiuse a chiave sbattevano improvvisamente durante la notte, la luce ogni tanto si spegneva, si udivano rumori strani. Naturalmente gli unici che non sapessero niente di tutto questo erano il Tavoni e sua moglie, i quali non s'erano mai sognati di notare in casa loro fenomeni curiosi o preoccupanti. Ma ci fu chi si preoccupò di rendere nota la faccenda ai diretti interessati: «Brutta gente in questo paese» disse un giorno la droghiera alla moglie del Tavoni. «Gente che sta male quando vede qualcuno che sta bene. Sa cosa le ho risposto, neanche mezz'ora fa, a una certa persona che tirava fuori la storia degli spiriti? "Sarebbe meglio se ognuno badasse a quello che succede in casa sua!"» «La storia degli spiriti?» domandò incuriosita la moglie del Tavoni. «Che cosa sarebbe? Io non ne so niente.» «Ma sì, signora! Le solite stupidaggini. Adesso dicono che alla palazzina ci si sente. Porte che sbattono, rumore di
catene, luce che si spegne eccetera. Sempre per via di quei quattro ossi di morto che han trovato nel fare le fondazioni. Non ci badi, signora Tavoni, ci rida sopra come faccio io.» La moglie del Tavoni non ci rise sopra per niente: raccontò subito la storia al marito e aveva l'aria molto preoccupata: «Capisci?» concluse. «Dicono in giro che in casa nostra ci si sente.» «E lasciali dire!» ridacchiò il Tavoni. «In casa nostra ci abitiamo noi e sappiamo bene che gli spiriti sono soltanto nel cervello della gente che si mangia il fegato per l'invidia.» Non ne parlarono più. Alla sera, durante la cena, la luce si spense improvvisamente e la moglie del Tavoni lanciò un urlo straziante. Poi la luce tornò, ma, durante la notte, una porta sbatté e alla moglie del Tavoni vennero le convulsioni. Il giorno seguente la donna corse da don Camillo scongiurandolo di venir a benedire la casa. La gente vide don Camillo andare alla palazzina ed ebbe conferma del fenomeno: alla palazzina c'erano gli spiriti proprio come si diceva in giro. Tanto è vero che i Tavoni avevano chiamato il prete per benedire la casa. La storia degli spiriti della palazzina diventò l'argomento ufficiale di tutte le conversazioni e così Peppone, entrando una sera nel suo ufficio alla Casa del Popolo, sorprese lo Smilzo a parlar seriamente di spiriti col Bigio. Allora si indignò:
«Certe storie da vecchie rimbambite qui dentro non le voglio sentire. Che proprio nella Casa del Popolo si debbano trovare i rimasugli del più balordo oscurantismo medioevale è una cosa intollerabile!». «Capo» borbottò lo Smilzo «si stava semplicemente dicendo quello che dice la gente.» «Non se ne parla neanche di queste stupidaggini!» affermò Peppone. «Anzi, quando si sente qualcuno che ne parla gli si spiega che sono favole cretine. Il primo dovere di ogni compagno è quello di elevare spiritualmente il popolo, di liberargli il cervello dalla nebbia del miracolismo clericale. Fino a quando il popolo lavoratore crederà agli spiriti e ai fantasmi, non si potrà mai parlare di rivoluzione proletaria.» * La bagattella degli spiriti diventò ben presto – come affermò Peppone – la vergogna del paese. E quando Peppone vide una vecchia che, passando davanti alla palazzina del Tavoni, si segnava, diventò furioso e, arrivato di corsa in municipio, si chiuse nel suo studio e compose un significativo proclama: «Cittadini! «Per causa di qualche spiritoso che ha messo in giro per scherzo malvagio la chiacchiera, si è diffusa in paese la favo-
la della cosiddetta casa degli spiriti con manifestazioni di oscurantismo medievale degne del secolo scorso. Imprescindendo dal fatto del regresso sociale, il paese diventa oggetto di dileggio da parte dei Comuni attigui con grave danno morale e materiale. «Si fa quindi appello alla cittadinanza perché facci opera di persuasione nelle classi più ignoranti onde cessi l'udibrio del paese la quale, poco che continua questa reprimevole storia, diventa una barzelletta come Piolo, dove per spostare il campanile mettevano la paglia sotto i piedi spingendo, così pareva che il suddetto andasse mentre essi erano fermi scivolando in senso contrario. «Si prega di individuare i responsabili, affinché mettere fine allo sconcio. Il Sindaco Giuseppe Bottazzi». Lo Smilzo sistemò la punteggiatura quindi il proclama fu dato alle stampe e venne affisso alle cantonate. Disgraziatamente, due ore dopo l'affissione del proclama, il Tavoni e la moglie abbandonavano, armi e bagagli, la palazzina e ritornavano nella vecchia casa. Questo fatto incideva sull'opinione pubblica in modo tale da rendere completamente nullo il vibrato messaggio di Peppone e da convogliare alla volta del paese, da tutti i Comuni della zona, vaste comitive di amanti del soprannaturale.
Il Tavoni inchiodò sulla porta della palazzina un cartello: «Casa da affittare». Poi, visto che nessuno si faceva vivo, cambiò cartello: «Casa da vendere». Gente con quattrini ce n'era parecchia in paese e l'affare si presentava come eccellente: ma nessuno se la sentì di fare il colpo. Allora Peppone, una domenica mattina, entrò nel caffè dove dopo la Messa si davano convegno gli agrari e disse con sarcasmo: «E pensare che quando il Tavoni ha firmato il contratto tutti volevano portargli via l'affare. Adesso che il Tavoni vende la palazzina per una cantata nessuno si fa avanti. La fifa è più forte dell'egoismo». Rispose per tutti il Filotti che era il più spiccio: «Se ha tanto coraggio, perché non la compera lei?». «Il coraggio non basta, ci vogliono i quattrini. Io non ne ho.» «Il suo partito li ha: la faccia comprare al partito.» «Il mio Partito non è quello degli agrari: non ha soldi da buttar via.» «Però ha i quattro milioni che servono per far ingrandire e soprelevare la Casa del Popolo. Se lei la lascia stare così com'è e compera per tre milioni la palazzina, fa risparmiare al suo partito un milione e combina un grosso affare.» Effettivamente la Casa del Popolo stava per essere ingrandita e soprelevata. Tutti lo sapevano, in paese, e conoscevano per filo e per segno il preventivo.
«La palazzina sembra fatta apposta per metterci gli uffici, l'archivio eccetera» continuò il Filotti. «Il guaio è che l'oscurantismo medievale funziona anche per i progressisti.» Era una pubblica sfida e Peppone non potè che rispondere: «È un'idea». E davvero si trattava di un'idea brillante perché la palazzina era costata più di sei milioni e possedeva tutti i requisiti per ospitare il quartier generale dei «rossi». Così i «rossi» fecero il colpo e, pochi giorni dopo, Peppone con annesse carabattole si insediava solennemente alla palazzina. E immediatamente la gente trovava il nome adatto alla ex palazzina Tavoni: Kremlino. Sistemata ogni cosa al Kremlino, Peppone radunò dopo cena lo stato maggiore e disse: «Tutti i documenti importanti adesso sono qui: non possiamo certamente abbandonarli. Da ora entra in funzione il servizio notturno di guardia. Chi vuol rimanere stanotte?». Nessuno rispose. «Va bene» borbottò Peppone. «Rimani tu, Smilzo». «Se lo sapevo» rispose lo Smilzo «mi sarei fatto preparare un thermos di caffè da mia moglie. Non vorrei addormentarmi. E poi non ho sigarette.» «Poco male» lo rassicurò Peppone. «Va a prendere la roba che ti serve e poi torna. Io ti aspetto.»
Lo Smilzo se ne andò e, uno alla volta, se ne andarono anche gli altri. Peppone si ritrovò solo tra i muri silenziosi del Kremlino e si guardò attorno compiaciuto: era davvero una magnifica casa, ben costruita, comoda, ampia. Il Partito aveva fatto un grosso affare. "Anche gli spiriti possono servire a qualcosa!" pensò fregandosi le mani. Suonarono le ventitré al campanile: "Quanto tempo ci mette quel disgraziato a tornare col caffè?" pensò irritato Peppone. Peppone accese la radio, ma in quel momento una porta al primo piano sbatté: qualcuno doveva aver lasciato aperta una finestra. Peppone si alzò e tranquillamente si avviò verso la scala. Incominciò a salire e la luce elettrica attenuò la propria intensità, poi, dopo un breve palpitare, si spense. La porta sbatté ancora: nello stesso tempo un curioso cigolìo venne dal solaio. Peppone cercò nelle tasche la scatola dei fiammiferi e non la trovò. Continuò a salire: arrivato davanti a una porta cercò l'interruttore della luce che non trovò: del resto era inutile, c'era un guasto alla linea elettrica. Entrò nella stanza che era buia come una tomba e la porta si richiuse con un colpo secco come una revolverata. Prese a camminare a tentoni per trovare la finestra e, d'improvviso, si udirono delle urla al pianterreno. Urla tremende. Poi della musica.
Era tornata la luce, evidentemente, e la radio aveva ripreso a funzionare. Peppone cercò l'interruttore, lo fece scattare. La luce si accese e Peppone si trovò davanti a due grandi occhi che lo guardavano. Niente: il grosso ritratto di Stalin che qualcuno aveva appoggiato lì, contro il muro. Scese, andò a sedersi davanti alla radio che poi spense subito perché c'era temporale e le scariche disturbavano la ricezione. Guardò l'orologio ed era la mezzanotte: possibile che, per andar su al primo piano e tornar giù, ci avesse messo un'ora? Possibilissimo: tanto è vero che al campanile suonò la mezzanotte. Altri rumori strani dal primo piano: ma cosa faceva quel maledetto Smilzo? Perché non tornava? C'era caldo, nella stanza, e Peppone si sentì tutto sudato: si avvicinò alla finestra e aprì il telaio a vetri. Mentre stava per spalancare le gelosie, la luce mancò ancora. Stavolta di colpo. Cercò al buio di aprire le gelosie: la maniglia gli restò in mano. Spinse con tutte le sue forze ma le gelosie parevano inchiodate. La porta della stanza cigolò. Peppone si sentì soffocare: avvertiva la presenza, nella stanza, di un nemico sconosciuto, un nemico che si avvicinava ogni istante di più.
Rimase lì, fermo come un macigno, stringendo disperatamente i denti e i pugni. Resistè ancora per dieci minuti: e furono un secolo, e tutti i suoi nervi erano tesi come corde di violino e il cuore gli martellava tanto forte da fargli male. Resistè fin che non sentì sulla nuca il soffio gelido del respiro breve dello sconosciuto. Allora Peppone cedette e si fece il segno della croce. La luce tornò. La stanza era vuota. Le gelosie non potevano aprirsi a spingerle, perché erano di quelle a coulisse, rientranti nello spessore del muro. Peppone si addormentò sulla sedia e lo Smilzo arrivò che erano già circa le sei del mattino. «Capo» balbettò lo Smilzo «ho fatto troppo tardi?» «No, hai fatto troppo schifo.» Lo Smilzo allargò le braccia. «Si fa quel che si può» sussurrò umiliatissimo. Peppone uscì: aveva smesso di piovere e il sole veniva su, rosso e rotondo, dietro il leggero velo di nebbia disteso sulla ramaglia dei pioppi. "Se quel disgraziato di prete lo venisse a sapere" pensò Peppone passando davanti alla canonica "chi sa che soddisfazione!…" Ma don Camillo non lo seppe mai e così l'unico a essere soddisfatto di quella storia fu il buon Dio.
210 LA TRATTORIA Il territorio del Comune arrivava, dalla parte di mezzogiorno, fino allo Stivone, un torrente da quattro soldi ma che correva tra due alti argini perché andava a buttarsi nel grande fiume e, durante le piene, c'era il grave pericolo del rigurgito. Dall'altra riva del torrente incominciava il territorio del Comune di Castelpiano e, in linea d'aria, tra il nostro borgo e quello di Castelpiano c'erano sette chilometri. Però, se uno voleva arrivarci per via di terra, doveva sciropparsi quasi dodici chilometri. Guardando la faccenda dall'alto, ci si rendeva conto facilmente che la prima idea di chi, temporibus illis, aveva aperto la strada, era stata appunto quella di unire i due centri con un gran rettifilo. E difatti la strada, partita da Castelpiano, proseguiva per ben tre chilometri puntando decisa alla meta. Sennonché, dopo questi tre mila metri, la strada svoltava a sinistra e poi a destra e poi ancora a sinistra e via discorrendo, perdendosi in una tale schifezza di curve e controcurve da compiere in otto chilometri un percorso che poteva – a regola di logica – esser compiuto soltanto in tre. Arrivata al Fabbricone, la strada smetteva di far la matta e, allineatasi sui primi tre chilometri, percorreva gli ultimi mille metri e arrivava rinsavita alla meta.
Naturalmente esisteva un antichissimo progetto di rettifica: un progetto elementare che, dal punto di vista della spesa, rimaneva ampiamente nei limiti del possibile. Si trattava semplicemente di aprire tre chilometri di strada e di costruire un ponte sullo Stivone, a Casalta. Il progetto, che per un sacco d'anni aveva servito semplicemente da argomento per la propaganda elettorale, nel 1933 era stato messo finalmente in atto: il ponte era stato studiato in ogni suo particolare e il tracciato della rettifica era stato regolarmente picchettato. E dal picchettamento era risultato che, passato il nuovo ponte sullo Stivone, la strada sarebbe passata a tre metri precisi dalla facciata della casa colonica del Folini. Il Folini aveva allora quarantanni e, aiutato soltanto dalla moglie, conduceva le quindici biolche di terra di Casalta: era un lavoro da ammazzarsi e il Folini, che non ne poteva più e che vedeva la sua donna consumarsi come una candela, appena ebbe visti i picchetti piantati attraverso i suoi campi dai geometri e quando ebbe ricevuto, dalla pubblicazione del progetto definitivo, conferma che la strada sarebbe passata davanti a casa sua, non ci pensò sopra neanche un minuto: si tenne la casa e una fetta di area fabbricabile da tutt'e due i lati della futura strada, e vendette il resto. «È arrivato il nostro momento» spiegò alla moglie. «Arrangiamo per bene la casa e ne tiriamo fuori una trattoria in gamba. L'area fabbricabile lungo la strada rimane nostra, così evitiamo che qualcuno apra vicino a noi un'altra trattoria
per farci concorrenza. Tutto il traffico, appena finita la rettifica, passerà di qui: il mercato di Castelpiano è il più importante della zona e noi potremo vivere senza doverci scannare.» Anche alla donna l'idea di aprire una trattoria faceva gola parecchio: liquidato tutto quello che c'era da liquidare, il Folini e la moglie incominciarono la trasformazione della casa. Il padre della donna era muratore: da qualche tempo non lavorava più perché aveva passato i sessanta ma, dato il caso speciale, riprese la cazzuola: lo Stivone stava lì a due passi per la sabbia e la ghiaia e il Folini s'era tenuto il cavallo e il carretto. Aiutato dalla figlia e dal genero che funzionavano da manovali, il vecchio si mise all'opera. Ci impiegarono più d'un anno per sistemare la faccenda, ma la cosa riuscì bene parecchio. E, quando anche i serramenti, il mobilio, la cucina, la cantina eccetera, furono a posto, il Folini impostò il problema più importante: «Come la chiamiamo?». Il vecchio non aveva idee in proposito ma, sollecitato, suggerì di chiamarla «Trattoria Garibaldi». La moglie del Folini bocciò la proposta perché non voleva che all'impresa fosse mischiata la politica. Per lei «Cucina casalinga» sarebbe andato perfettamente. Il Folini era difficile da accontentare e don Camillo che, in tenuta da cacciatore, era arrivato lì Dio sa come, trovò i due a discutere animatamente. «Litigate?» domandò.
«No, stiamo cercando il nome.» «Che nome?» «Il nome del locale.» Don Camillo non sapeva niente e allora, dopo aver ottenuta l'assicurazione che non ne avrebbe parlato ad anima viva, i Folini gli fecero visitare la casa. «Reverendo, non vi pare una bella idea?» disse alla fine il Folini. «Bella idea certamente» borbottò don Camillo. «Però, io avrei incominciato una volta fatta la strada.» «La faranno, è questione di mesi» replicò il Folini. «E allora sarà un colpo grosso.» Correva l'anno 1934: nel 1939 il padre della moglie del Folini morì senza aver avuto la consolazione di vedere incominciati i lavori della nuova strada. Nessuno l'aveva più in mente, la rettifica. Poi scoppiò la guerra e i Folini non ebbero più neppure il coraggio di pensare che la rettifica potesse essere iniziata prima della fine del flagello. «Bisognerà aver pazienza» diceva il Folini «finita la guerra ogni cosa andrà al suo posto.» Intanto già da parecchi anni il Folini, finiti i soldarelli, si arrangiava come bracciante. Tutte le mattine andava al lavoro e, prima di mettersi in cammino attraverso i campi, diceva alla moglie: «Mi raccomando». «Non ci pensare» rispondeva la donna.
E, partito il marito, incominciava a spazzare e lucidare e spolverare. Il fatto che la «Trattoria del Sole» sorgesse in mezzo a una boscaglia, nel posto più desolato e deserto della terra, non aveva nessuna importanza. La strada non c'era ma l'avrebbero fatta finita la guerra, e allora ogni cosa doveva essere perfettamente a posto. *
Ful si inabissò dentro un macchione di gaggìe e don Camillo lo seguì schiantando i rami come un carro armato. Dopo un lungo e faticoso andare, don Camillo sbucò in una radura. Una fascia di tappeto verde e soffice. Un rettangolo esattamente squadrato, con una linda casetta verso il mezzo d'uno dei lati lunghi. S'incamminò verso la casa e un vecchio dai baffi bianchi apparve e gli venne incontro. «Guarda un po', Folini! Vi credevo morto chi sa dove. Come mai non vi siete mai più fatto vedere in chiesa? Eppure eravate un buon cristiano.» «Lo sono ancora, reverendo. Ma non ho un minuto di tempo.» «E cosa fate di bello?»
«Lavoro un po' dappertutto e il poco tempo che mi resta me lo porta via l'esercizio. Bisogna pure che dia una mano a quella poveretta di mia moglie.» Don Camillo guardò perplesso il Folini. «Non capisco bene di che esercizio parlate.» «La trattoria» spiegò il Folini. Erano arrivati alla casa che aveva sul davanti un bel pergolato con sotto le tavole e le panche pitturate di verde. «Reverendo, vi ricordate quando vi ho mostrato il locale vent'anni fa? Guardate un po' adesso!» Don Camillo seguì il Folini e si trovò in una bella sala pitturata di fresco con un alto zoccolo di legno lucido tutt'attorno alle pareti, le tendine a scacchi bianchi e rossi alle finestre, i tavolini ben disposti e, su ognuno di essi, un vasetto di fiori di campo. Dirimpetto all'entrata un grande banco dietro al quale c'era una scansia piena di bottiglie. «Non avete l'idea dei sacrifici che ci è costato, ma non bisogna lasciarsi superare dai tempi se si vuol andare avanti. Adesso la gente esige cose semplici, allegre, moderne. Ho già pronto anche tutto l'impianto elettrico compreso il ventilatore e l'aspiratore per il fumo: quando faranno la strada metteranno di sicuro la linea e così io non avrò che da allacciarmi.» Passarono in cucina. «Vedete, reverendo? Mattonelle bianche, cucina economica e cucina a bombola di gas. E anche il suo bravo frigori-
fero elettrico. Ho già pagato cinque rate. È dura ma ce la caverò.» Apparve una vecchia piccola e un po' curva, con un fazzoletto sui capelli e un candido grembiale davanti. «Avete visto, reverendo?» disse la vecchia. «E del gioco delle bocce cosa ve ne pare?» Uscirono: dietro la casa vi era un ampio giardino con un grande pergolato e con due giochi di bocce affiancati, lisci come biliardi. «Sono vent'anni che ci sacrifichiamo» spiegò il Folini «ma c'è la soddisfazione di avere un locale che non ha concorrenti in tutta la zona. Se mi va bene un certo affaretto e prendo la mediazione, metteremo qui fuori tutta l'illuminazione con quei tubi bianchi moderni che fanno una luce meravigliosa e consumano metà delle altre lampade.» «Prima delle lampade bianche» esclamò severamente la vecchina «devi sistemare il pozzo. Quello sì che è necessario!» «Bella roba!» ridacchiò il Folini «il pozzo è fatto, la pompa funziona, mancano soltanto il serbatoio e la conduttura fino alla cucina, al lavandino e al gabinetto di decenza.» Si rivolse a don Camillo: «Ne avremo uno di quelli moderni, di smalto bianco e con l'acqua, all'inglese. Se si vuol lavorare bisogna fare così». «Reverendo, accomodatevi» disse la vecchia. «Preferite un bicchiere di vino bianco o rosso?»
«Abbiamo del vino di vent'anni» spiegò trionfalmente il vecchio. «Non lo trovate da nessuna parte.» «Grazie, niente vino. Soltanto un bicchiere d'acqua.» La vecchia si allontanò e don Camillo si sedette a un tavolo sotto il pergolato. Non sapeva cosa dire. Anzi, non sapeva neppure se fosse opportuno o meno parlare. «Folini» disse alla fine «è bellissimo tutto quello che mi avete fatto vedere. Però io, se fossi in voi, adesso lascerei le cose come stanno e riprenderei quando avessero incominciati i lavori della nuova strada.» Il Folini fece segno di no scuotendo la testa: «In commercio bisogna essere come a caccia: sempre col fucile carico, pronto a sparare. Il giorno in cui cominciano i lavori noi dobbiamo essere in grado di aprire l'esercizio. Così ci facciamo subito dei clienti con gli operai della strada, con gli ingegneri del ponte e via discorrendo». Don Camillo sospirò: «Folini, ragionate un momentino. Sono vent'anni che voi e vostra moglie state dando il sangue per questa trattoria. E da vent'anni voi aspettate inutilmente che incomincino i lavori della strada. Folini: e se non li incominciassero mai?». La vecchia era arrivata, silenziosa come un'ombra: depose davanti a don Camillo il vassoio di ottone luccicante con la brocca piena d'acqua fresca e il bicchiere. «Reverendo» disse la vecchia «l'importante è aver fede. Noi non chiediamo niente di impossibile. Se fanno le strade bucando le montagne, perché non dovrebbero fare tre chilo-
metri di strada attraverso i campi? Se in questi vent'anni ci fossimo messi a sbadilare io e il mio uomo, l'avremmo già fatta noi da soli questa benedetta strada. Noi siamo sicuri che la Divina Provvidenza ci aiuterà e fra poco incominceranno i lavori della strada. Non è vero?» «Sicurissimo!» esclamò con vivacità il vecchio al quale era rivolta l'ultima domanda. «Oramai è questione di mesi, al massimo!» Don Camillo bevve la sua acqua e si alzò. «Aspettate, reverendo, vi vado a cogliere quattro pere» disse il Folini. «Un minuto soltanto.» Quando il vecchio si fu allontanato, la donna si appressò a don Camillo: «Per l'amor di Dio, reverendo» sussurrò «non gli mettete dei dubbi a quel poveruomo. Sono vent'anni che vive soltanto per la sua trattoria. Non me lo fate morire di crepacuore». La vecchia disparve silenziosa e poco dopo arrivò il Folini col cestello delle pere. Uscirono assieme nella radura soffice e verde, camminarono in silenzio fino all'inizio del sentiero nella boscaglia di gaggìe: «Reverendo» sussurrò il Folini «non vi fate più sentire a parlar così. Quella poveretta vive soltanto nella speranza che facciano la strada. Non avvelenatele l'anima». *
«Gesù» esclamò impetuosamente don Camillo quando fu davanti al Cristo dell'aitar maggiore «volete vedere l'uomo più cretino del mondo?» Si pestò due manate sul petto e spiegò: «Eccolo qui!». «Chi si umilia sarà esaltato» rispose sorridendo il Cristo. Don Camillo era furibondo: «Gesù» implorò «fatemi una grazia. Mettetemi in condizioni di prendermi a calci da solo». «Non posso assecondare insani propositi di violenza. Non ti maltrattare, don Camillo. Ama il prossimo tuo come te stesso. Ama te stesso come il prossimo tuo.» «No, Signore, io non posso amare un cretino come don Camillo!» «Al contrario, don Camillo: amalo più d'ogni altro perché egli, che crede di insegnare la via della fede agli altri, talvolta esce di strada e non se ne avvede.» Don Camillo protestò fieramente: «Signore, sono stupido, sì, ma la strada della fede la conosco bene!». «Chi si esalta sarà umiliato: alla prima occasione spiegagli anche questo a don Camillo» sussurrò il Cristo. A dire il vero, l'occasione non si fece aspettare: verso le cinque del pomeriggio, lo Smilzo venne ad appiccicare al muro della canonica un manifesto. Don Camillo se ne accorse subito e balzò fuori con intenti piuttosto bellicosi.
«Cittadini» incominciava il manifesto «l'amministrazione democratica ha l'orgoglio di annunciarvi che una vostra grande aspirazione sta per diventare realtà. Domani avranno inizio i lavori per la rettifica della strada di Castelpiano…». «Guarda e impara, pezzo di stupido!» esclamò don Camillo. Lo Smilzo che s'era fermato a guardare a distanza prudenziale domandò: «Come dite, reverendo? C'è qualcosa che non vi va?». «Non parlo con te.» «De gustibus non disputoribus» affermò lo Smilzo risalendo in bicicletta. «C'è anche gente che si diverte a parlare da sola.» «Gesù» disse don Camillo quando fu arrivato di corsa davanti all'aitar maggiore. «Bisogna che io vada subito a portare quel manifesto ai Folini!» «Non occorre» rispose il Cristo. «Essi non hanno mai avuto dubbi. Sempre hanno fermamente pensato che la strada sarebbe stata fatta. Ti hanno parlato a quel modo solo perché sapevano che tu non potevi credere in una fede così profonda. Sapevano che tu li avresti giudicati pazzi.» Don Camillo abbassò il capo: «Gesù» balbettò «in una cosa del genere, come si fa a capire se si tratta di fissazione o di fede nella Divina Provvidenza?».
«Son cose che non si possono capire ma si possono solo sentire. Impara a diffidare del buon senso, don Camillo. Molte volte esso è soltanto senso comune.» Don Camillo si allontanò rattristato. Ma ben presto pensò alla radura verde in mezzo alla boscaglia di gaggìa. Pensò alla strada che avrebbe tagliato la boscaglia e la radura verde e si sentì il cuore leggero.
211 SUOR FILOMENA Peppone era nei guai fino agli occhi. A dir la verità, i primi tre mesi dell'anno tutto aveva funzionato straordinariamente bene, tanto da convincere Peppone a impegnarsi col camion nuovo. Un impegno grosso perché, oltre ad aver dato fondo fino all'ultimo centesimo alle sue riserve, Peppone aveva firmato un certo numero di cambiali che doveva pagare a ogni costo anche se – com'era disgraziatamente avvenuto in un secondo tempo – gli erano scappati di mano quei contratti per trasporto bietole, pomodoro eccetera, sui quali Peppone faceva conto sicuro. A questo pasticcio se n'erano aggiunti altri più piccoli ma non meno fastidiosi e così, quando fu costretto a portar dal dottore il figlio più piccolo perché il poverino andava intristendo di giorno in giorno, Peppone era fuori dalla grazia di Dio. Il dottore visitò accuratamente il bambino poi scosse il capo: «Non va bene per niente» disse. «Ha assoluto bisogno di mare.» Peppone sghignazzò:
«Lei ha voglia di scherzare. Proprio la volta in cui il Partito organizza la colonia montana, il bambino ha bisogno di mare!». «Non ho nessuna voglia di scherzare» ribatté asciutto il dottore. «Se lei non si fida di me, lo faccia visitare da chi vuole. E se trova qualcuno che non sia d'accordo con me sulla necessità del mare, io do le dimissioni da medico.» «La fiducia non c'entra. Dico che io non lo posso mandare al mare per la semplice ragione che il Partito, quest'anno, ha organizzato la colonia montana. C'è poco da scegliere: andrà in montagna.» «Il bambino ha bisogno urgente di mare. Iodio ci vuole, per lui. Il parroco ha organizzato la colonia marina: lo mandi col parroco.» Peppone fece un gesto d'impazienza: «Non diciamo sciocchezze. Il prete ha lo iodio e il Partito no?». «Non è il prete che ha lo iodio: è il mare. E siccome il prete ha organizzato la colonia marina, allora…» «Allora niente!» lo interruppe con malgarbo Peppone. «Il prete vada dove vuole. Il mio ragazzo andrà in montagna. Meglio in montagna col Partito che al mare con il prete! La salute morale conta più di quella fisica.» Il medico perdette la calma: «Io non mi occupo di politica, mi occupo di malattie. E le dico che lei non può fare una sciocchezza del genere: mandare quel bambino in montagna significa rovinarlo».
«Io lo mando dove mi pare e piace: a mio figlio comando io.» Il medico, quello che chiamavano il dottorino, non era un tipo di quelli che si lasciano intimidire; guardò negli occhi Peppone ed esclamò con voce ferma: «Le sue questioni di partito non interessano la mia coscienza professionale. Farò il mio dovere fino in fondo». «Faccia quello che crede!» gridò furibondo Peppone. «Mi denunci all'ONU!» Il dottorino non si rivolse all'ONU: bussò a una porta assai più vicina. E quando si trovò davanti la moglie di Peppone, entrò immediatamente in argomento: «Ho visitato il suo bambino. Ha bisogno di mare e subito. Se, invece che mandarlo al mare, lo manda in montagna, lei lo rovinerà completamente. Molto meglio lasciarlo qui». La donna lo guardò con occhi pieni di diffidenza: «In queste faccende chi decide è mio marito. Lo vada a raccontare a lui». «Gliel'ho già spiegato e mi ha risposto che manderà il bambino in montagna perché a suo figlio comanda lui. Siccome il bambino è tanto del padre come della madre, io ho spiegato la faccenda anche a lei come era mio dovere. Così, se il bambino si aggrava o muore, la responsabilità è di tutt'e due.» La moglie di Peppone si mise a urlare:
«La responsabilità è di questo schifoso mondo pieno d'ingiustizie! Anche se volessimo mandarlo al mare, come si fa?». «Lo si iscrive fra i bambini della colonia marina» rispose il dottorino. «Ho già spiegato io il caso a don Camillo e lui è disposto ad accettare il bambino senza sollevare nessuna difficoltà.» La donna sbatté l'uscio in faccia al dottorino che però era pronto a questo e anche a qualcosa di peggio e che non se la prese molto. "Se dentro lo stomaco, anziché un mattone, avete una briciola di coscienza, il bambino avrà le cure che deve avere!", borbottò tra sé il dottorino. E, fortunatamente, sia Peppone che sua moglie non avevano un mattone dentro lo stomaco. Peppone andò a trovare don Camillo la sera stessa, in canonica. «Vorrei sapere che stupidaggini è venuto a raccontarvi quel disgraziato del dottorino» disse Peppone con voce minacciosa appena si trovò davanti a don Camillo. «Mi ha raccontato che vostro figlio ha urgente bisogno di mare» rispose calmo don Camillo. «Se questa è una stupidaggine, significa che il dottorino è diventato matto, oppure che sei diventato matto tu.» Peppone rise: «Sono nei guai fino agli occhi…». «Lo so.»
«Il bambino ha bisogno di mare mentre il Partito fa la colonia montana…» «Lo so.» «E il sottoscritto è costretto a scegliere: o tradire il figlio o tradire il Partito…» «Non lo so.» «Lo sapete, invece: per questo avete detto al dottore che accettate il mio ragazzo tra i vostri!» «No, compagno sindaco: io non faccio vigliaccate. A me interessa che tuo figlio stia bene. La salute del tuo partito non mi interessa.» Peppone lo considerò con disprezzo indicibile: «Sepolcro imbiancato di nero!» urlò. «Se io mando il mio ragazzino coi ragazzi della vostra colonia, lo sapete bene che colpo colossale sarà per la vostra propaganda! Lo sapete bene quali saranno i commenti della gente!» Don Camillo spalancò gli occhi stupito: «La gente? E che cosa potrà dire? Mica lo metto nella mia colonia, tuo figlio. Andrà a tre chilometri dalla nostra spiaggia, assieme ai bambini d'un Comune piemontese. Tuo figlio raggiungerà la sua sede prima che i nostri bambini partano. Ti pare che un bestione grande e grosso come me, un omaccio che con una sberla è capace di cambiare i connotati a te e a quel disgraziato che t'ha insegnato a tenere il cappello in testa quando sei in casa d'altri, ti pare che un tipo come me faccia delle speculazioni politiche sulle ossa da passerotto di un bambino malato?».
Peppone si tolse di testa il cappello: «Se non lo fate per speculazione, lo fate per avvelenare l'anima di mio figlio. Per guastarmelo! Per mettermi il nemico in casa!». Don Camillo scosse il capo: «Tuo figlio sarà trattato come se fosse in una colonia comunista». Peppone si mise a ridere: «Questa è straordinaria!». «Niente affatto: tuo figlio verrà accettato soltanto perché ha bisogno di mare. Bagni di sole e bagni d'acqua marina, giochi, passeggiate eccetera, tutto come gli altri. Niente altro.» «Niente preghiere del mattino, del mezzogiorno, del pomeriggio e della sera? Niente prediche? Niente santini? Niente inni clericali? Niente Messe? Niente Comunioni?» «Niente, compagno sindaco. Il dottore ha detto che il bambino ha bisogno di mare e noi ci preoccuperemo soltanto della sua salute fisica.» Peppone si asciugò la fronte allagata di sudore: «Reverendo» disse «voi avete voglia di scherzare e io no. Io ho un bambino malato e ci sono per il collo. Non approfittatene: sarebbe vigliaccheria». Don Camillo aperse il cassetto della scrivania e, toltane una lettera, la porse a Peppone. «È di suor Filomena, la direttrice della colonia di tuo figlio.»
Peppone si avvicinò alla finestra e lesse: «Reverendo, «il posto per il bambino c'è. Ho capito perfettamente essere la situazione del padre tale che, se non venisse fatto come Ella dice, il bambino non verrebbe inviato al mare e la sua salute ne soffrirebbe. «Con molto garbo, in modo che egli non se ne possa accorgere, il bambino verrà allontanato dai compagni ogni volta che a essi venga impartita in qualche modo, anche in forma indiretta, assistenza religiosa. «Quello che Lei mi fa fare è leggermente pazzesco: ma mi rendo conto che le colpe dei padri non debbono ricadere sui figli innocenti. Comunque voglio sperare che Lei non pretenderà che io legga al bambino pagine dei libri di Lenin o Stalin e che gli insegni che, quando sarà grande, dovrà ammazzare il parroco…». Peppone restituì la lettera: «Questo glielo insegnerò io!» borbottò. Rimase un po' soprappensiero poi ebbe uno scatto: «Reverendo» esclamò «questa è una faccenda che puzza di commedia lontano un miglio. Una cosa del genere non è possibile. Sotto c'è una fregatura propagandistica colossale. Voi tirate a rendermi ridicolo». Don Camillo mise la grossa mano aperta sul Breviario. «Sta bene» disse Peppone. «Cosa bisogna fare?»
«È tutto scritto su questo foglio. Alla gente spiegherai che lo mandi in pensione a spese tue.» «E il dottore?» «Segreto professionale. È un uomo serio.» Peppone era ancora pieno di sospetto: «Cosicché, se il bambino guarisce, io dovrò esservi riconoscente…». «No, compagno. Tu senti dei doveri di riconoscenza particolari verso il postino che ti porta una lettera? Fai conto che io sia il postino che ti ha portato la lettera di suor Filomena.» «Allora dovrò essere riconoscente alla suora.» «No, lei ha semplicemente scritto la lettera sotto dettatura. Il Mittente non è lei, è quello lì inchiodato sulla croce.» «Vedete? Lo sapevo io che c'era la fregatura!» esclamò Peppone. «No: obbligo di riconoscenza c'è soltanto per chi crede in Dio. Tu non ci credi quindi sei perfettamente a posto con la coscienza del tuo partito.» «Reverendo, incominciamo?» «Fine. Noi non ci siamo mai visti. Noi non abbiamo mai parlato di colonie. Riceverai notizie di tuo figlio direttamente da suor Filomena. No, non ti preoccupare: busta normale, non intestata, indirizzata a casa tua.» «Con copia conforme per il prete!» muggì Peppone. Don Camillo sospirò:
«Come vorrei che fossi tu ad aver urgente e assoluto bisogno di cure marine! Oh, la gioia infinita di portarti in alto mare e di farti fare un bel tuffo dopo averti infilato in un salvagente di ghisa. Addio, Beria!». «Reverendo, non offendete!» «Se io ti avessi chiamato Beria soltanto un mese fa tu ne saresti stato orgoglioso! Oh caducità delle cose sovietiche!» Il bambino di Peppone partì il giorno seguente accompagnato dalla madre e quando la donna fu di ritorno Peppone volle sapere tutto. «Chi ti ha ricevuto?» «Un'infermiera e un dottore. Hanno visitato il bambino. Hanno detto che bisogna mandarlo immediatamente al mare e dargli il vitto speciale.» «Ti hanno fatto delle domande?» «Hanno voluto sapere tutto del bambino.» «E di me?» La donna si strinse nelle spalle: «Non hanno neanche domandato se ha un padre. È gente seria che si interessa della salute dei bambini e basta». «Seria apparentemente» affermò Peppone. «Piangeva il bambino quando l'hai lasciato?» «Figurati! Hanno una manierina straordinaria coi bambini. E poi nell'istituto c'è un cortile con la giostra, le automobilette a pedali eccetera. Non si è neanche accorto che io me ne andavo.»
«Le giostre, le automobiline, eccetera!» borbottò ferocemente Peppone. «È così che fregano il proletariato.» * Passarono alcuni giorni ed ecco che arrivò la prima lettera: «Egregio Signore, «il Suo bambino si trova bene. Il mare non gli nuoce. È già qualcosa. Speriamo che gli giovi. «Noi ci comportiamo in tutto e per tutto secondo i Suoi desideri particolari. Ogni cosa è andata ottimamente fino a oggi. Il bambino dorme nella stanza della sorvegliante di turno che non è una suora ma una normale inserviente e così evita le preghiere del mattino e della sera e la Santa Messa. «Durante le ore di religione o altro egli va a spasso in paese accompagnato da una sorvegliante. Per i pasti lo facciamo arrivare un momentino dopo, così evita la preghiera e il Segno della Croce. «Ora ci capita un piccolo inconveniente: noi abbiamo sempre evitato che il bambino assistesse alla cerimonia mattutina e serale dell'alzabandiera e dell'ammainabandiera in considerazione del fatto che non si tratta di una bandiera internazionale ma della normale bandiera nazionale tricolore.
Il piccino però se ne è accorto perché ha visto dalla finestra e pretenderebbe di assistere anche luì alla cerimonia. «Siccome il piccino, che è davvero molto vivace e sveglio per i suoi sette anni, ha affermato: "Se non mi fanno vedere la sbandiera assieme agli altri, me scrivo a mio babbo che è sindaco e con un pugno vi spacca la testa a tutti" noi ameremmo che Lei ci dicesse come dobbiamo regolarci in proposito. «Molti cordiali saluti. suor Filomena». Peppone guardò la moglie: «Tu sei una scema, io no. Questa disgraziata di suora fa la spiritosa: ma se crede di aver trovato il tipo che si lascia prendere in giro, sbaglia». Prese un foglio e scrisse la risposta: «Gentilissima Signora Direttrice, «mi fa piacere che mio figlio stia bene. Mi pregio avvertirla che egli, essendo di nazionalità italiana, ha il diritto e il dovere di salutare la bandiera della Patria. «Laddove la impertinenza dello stesso figlio, deve essere punita, perché suo padre con un pugno non spacca la testa a nessuno, ma adopra le mani per lavorare onestamente». La seconda lettera dal mare arrivò una settimana dopo, assieme a una cartellina col rapporto del medico.
«Egregio Signore, «La ringrazio della Sua gentile risposta. Ci siamo uniformati secondo i Suoi desideri. Come vedrà dalla acclusa cartella medica, i progressi del Suo Piccolino sono sensibili. «Noi siamo invece preoccupati dei suoi "colpi di testa": stamattina, durante la cerimonia dell'alzabandiera, la funicella uscì dalla gola della carrucola che è in cima all'alto pennone e rimase impigliata. Mentre stavamo pensando a come rimediare, il Suo piccolino approfittò della confusione per arrampicarsi come uno scoiattolo fin sulla cima dell'antenna. «Abbiamo provato tutti una paura spaventosa e noi vorremmo che Lei scrivesse a Suo figlio di non commettere mai più imprudenze del genere. «Secondo i Suoi desideri, al venerdì non gli abbiamo dato pesce ma carne: ora egli pretende di essere trattato come gli altri perché il pesce gli piace molto. Attendiamo una Sua cortese lettera per poterci regolare. «Distinti saluti suor Filomena.» Peppone lesse la lettera ad alta voce e la moglie subito si disperò: «Guarda quel villanzone come ci fa figurare male!». «Ci fa figurare bene, invece!» urlò Peppone. «Tu non capirai mai niente!» La risposta di Peppone fu breve e vibrata.
«Signora Direttrice, «quando uno fa qualcosa per il prestigio della bandiera della Patria non commette nessuna imprudenza. Non si preoccupi: io alla sua età mi arrampicavo sulle antenne del telegrafo e arrivato in cima facevo la bandiera. «In 'oltre si ricordi che i Bottazzi hanno la pelle dura. «In quanto al pesce il venerdì non si tratta di propaganda politica e lo può mangiare. «Distinti saluti.» Poi arrivò la terza lettera: «Egregio Signore, «il rapporto medico Le dirà che fisicamente Suo figlio va di bene in meglio. Spiritualmente ci dà invece qualche preoccupazione: egli è un bambino che parla pochissimo e, dapprincipio, noi credevamo che questa sua taciturnità dipendesse da timidezza. Invece abbiamo scoperto che egli, rude e talvolta violento nelle sue manifestazioni esteriori, e quindi apparentemente superficiale e grossolano, nasconde un animo gentile incline alla meditazione. «Egli ogni tanto ci rivolge domande imbarazzantissime che noi cerchiamo affannosamente di eludere. Mezz'ora fa, ad esempio, mi ha domandato: "Perché delle navi prima si vede la cima e poi il resto?". «Gli spiegai che ciò dipende dalla rotondità della terra. Ed egli: "Se la terra è rotonda, dove poggiai".
«"Non poggia, è sospesa nel vuoto." «"E chi la tiene su?" «Come Ella comprende non è facile cavarsela quando non si possa, come per gli altri bambini, fare intervenire il Creatore. Ho lasciato in sospeso la faccenda: debbo rispondere che al culmine di tutto l'universo c'è Stalin, oppure debbo parlare genericamente di partito? «Distinti saluti suor Filomena». Peppone strinse i pugni: «Piglia un foglio e scrivi quello che ti detto! E non far storie!» urlò imbestialito alla moglie. «Avanti: "Egregia Direttrice, formo la presente per dirle che domenica mattina mio marito verrà a ritirare il bambino. Distinti saluti". Spedisci per espresso». La moglie tentò di protestare ma Peppone le saltò sulla voce: «Se quella non lo sa, glielo spiegherò io che, anche se sono un proletario, ho la mia brava dignità meglio degli altri. Io non ammetto che mi prendano per il bavero. Se loro vogliono divertirsi alle mie spalle, sbagliano». Non ci fu niente da fare: Peppone partì il sabato sera e, dopo un viaggio schifoso, si trovò in una piccola stazione fiorita.
Erano le sette del mattino e fu contento quando gli dissero che, per arrivare alla colonia, c'erano tre quarti d'ora di strada. Il furore che il disagio del viaggio aveva aumentato faceva camminare Peppone a passo di bersagliere e in mezz'ora se la cavò. Vide l'edificio in mezzo al verde, in fondo a un viale, e si mise a sedere su una panchina. Non era ancora un'ora decente. "Fra poco gliele canto io a quella pretaccia!" pensò mentre accendeva il mezzo toscano. Non tirò neppure due boccate perché udì una voce sommessa: «Signor Bottazzi?». Balzò in piedi e si trovò davanti una suora piccola piccola, sottile e minuta che pareva una bambina. Era ancora giovane e il suo viso era dolce e delicato. «Sono suor Filomena» disse. «È da tanto che l'aspetto. Ho ricevuto il suo espresso.» Peppone era gonfio di rabbia, ma come si fa a insolentire una robettina così minuscola e che parlava con una voce tanto sommessa e sottile? «Sono venuto a ritirare il bambino» borbottò Peppone a testa bassa. «Perché? Perché rubargli venticinque giorni preziosi per la sua salute? Cosa le abbiamo fatto?» «Io non voglio essere preso in giro» spiegò Peppone.
«E chi l'ha presa in giro?» «Le sue lettere… Specialmente l'ultima.» «Capisco. Perché le ho domandato se devo dire a suo figlio che l'universo l'ha creato Stalin. O il partito.» Peppone fece un gesto d'impazienza: «Lasciamo perdere: mi ridia il bambino e non se ne parli più». Suor Filomena sorrise: «Il padre è lei e io il bambino glielo ridò. Però non si risolve niente anche così. Il bambino, domani o dopodomani, lo chiederà a lei chi ha creato l'universo. E lei, scusi, cosa risponderà?». «Affari miei» ringhiò cupo Peppone. Suor Filomena scosse il capo: «Mi dispiace d'averla offesa. Se le domando perdono, mi perdona?». «No» disse Peppone guardandosi le punte delle scarpe. «Speriamo che mi perdoni il buon Dio. Posso chiederle almeno un favore?» Peppone fece capire che poteva chiederglielo. «Nella sua penultima lettera lei ha scritto che, una volta arrivato in cima al palo del telegrafo, lei "faceva la bandiera". Cosa significa?» Mica semplice spiegare. «È un gioco: consiste che uno mette il palo sotto l'ascella sinistra poi si appoggia sul gomito destro e butta in fuori le gambe tese.»
Suor Filomena lo guardò stupita: «Non capisco». Peppone cercò di rendere meglio l'idea ma non fece che complicare le cose. Allora si cavò la giacca e, abbrancatosi a una colonna della luce, fece vedere cosa significava praticamente «fare la bandiera». Suor Filomena lo guardava con occhi grandi come fanali: «Alla sua età e col suo peso le riesce ancora un esercizio di questo genere?». Poi, mentre Peppone grondante sudore per l'immane fatica cadeva a sedere sulla panchina suor Filomena volse gli occhi al cielo: «Gesù» disse «peccato che un uomo così forte sia tanto cattivo!». La voce sottile di suor Filomena fece fare un balzo a Peppone: «Basta!» implorò «mi restituisca mio figlio e sia finita!». «No!» disse autoritaria suor Filomena. «Me lo faccia almeno vedere!» «Dipende da come lei si presenterà qui alle ore nove.» Alle ore nove Peppone tornò con una faccia presentabile e suor Filomena lo fece entrare e gli permise di passare la giornata in spiaggia assieme al figlio. E quando Peppone la sera si accomiatò, suor Filomena gli domandò:
«E allora, se il bambino mi fa ancora quella domanda, cosa gli rispondo?». «Faccia lei, sorella» brontolò cupo e feroce Peppone. E suor Filomena fece lei.
212 «FESTIVAL»
La villa dei conti Rocchetta era in frazione Gariòla. Un palazzone ottocentesco assai in dentro rispetto alla strada provinciale e al quale si arrivava dopo aver percorso uno smisurato viale fiancheggiato da due file di pioppi colossali che mettevano soggezione. I conti Rocchetta erano doppiamente odiosi alle masse della zona perché, oltre a essere detestati come nobili, erano detestati come agrari. Possedevano infatti alcune migliaia di biolche di terra che conducevano a mezzadria con l'ausilio di alcuni di quei fattori che sembrano creati espressamente dal Padreterno per impoverire i padroni e per renderli antipatici ai contadini. Quando i Rocchetta erano in villa non si vedevano mai in giro né a Gariòla né in altri posti: si limitavano a passare velocemente, stravaccati come pascià in grossi macchinoni che facevano strangozzare la gente seppellendola sotto spaventosi nuvoloni di polvere. Più che cattivi, i Rocchetta erano stupidi e giudicavano il mondo circostante non attraverso le loro esperienze personali, ma attraverso le relazioni dei fattori, degli amministratori e degli informatori di fiducia. E, per evitare che la stirpe
avesse contatti impuri, avevano mandato i due ragazzi, Giorgio ed Elisabetta, a studiare all'estero. Durante le vacanze, li ritiravano dal collegio per spedirli al mare o ai monti o in crociera: e tutto andò perfettamente bene fino al giorno in cui Elisabetta, detta Betty, compiuti i diciassette anni, tornò a casa fornita di un inutile diploma attestante l'inutile corso di studi frequentato con onore. Elisabetta era nata lì, in quel casone giallo, e l'aria della Bassa le conferiva assai più di quella del mare o dei monti: oltre al resto, siccome a diciassette anni una ragazza non è più una ragazza e così non risulta più prudente mandarla in giro per il mondo con una istitutrice, i Rocchetta decisero di tenere la figlia in villa a Gariòla fino al termine della trebbiatura. Poi se la sarebbero portata sulla Costa Azzurra. Betty ricevette una quantità straordinaria di raccomandazioni: le fu spiegato che non doveva, per nessun motivo, uscire mai dai confini della proprietà. Le fu anche detto il perché e il percome. La ragazza rispose che aveva capito esattamente e il risultato fu che, il pomeriggio del giorno seguente, rintracciata la bicicletta da corsa del fratello, Elisabetta saltò in sella e partì verso l'ignoto. Il conte e la contessa le avevano spiegato che la zona era infestata di proletari rossi come il fuoco e la fanciulla, assennatamente, per non dar nell'occhio, trovata nella rimessa dei
trattori una tuta blu da meccanico, la indossò non dopo essersi annodato al collo uno sgargiante foulard rosso. Si rimboccò naturalmente le maniche e i pantaloni e principiò a pedalare tranquillissima, non sospettando neppur lontanamente che, così acconciata, l'avrebbero notata anche i sassi. Perché bisogna tener presente che Elisabetta era una bellissima ragazza: pur senza pittura in faccia e pur conservando la gentilezza e la freschezza della fanciulla, Elisabetta era un tipo formidabile. Girò in su e in giù per gli argini, andò a pasticciare coi piedi dentro l'acqua del fiume, traversò sei o sette piccoli paesi. E, siccome era domenica, in ogni paese c'era gente davanti ai caffè e alle osterie. Ciò significa che ogni passaggio di Elisabetta attraverso i centri abitati veniva salutato da acclamazioni: cosa che non turbò per niente la ragazza, sicura di sé e della sua perfetta mimetizzazione. Non s'era mai divertita tanto. * La contessa, che stava pisolando in giardino, venne bruscamente richiamata alla realtà dall'arrivo di una ragazza. Era la figlia d'una donna di servizio: grondava sudore e ansimava. «Cosa succede?» domandò la contessa.
«La signorina!» balbettò la poveretta. «La signorina?» «Sì… Stavamo passando, io e il mio fidanzato, davanti alla festa dell'Unità al borgo e allora abbiamo visto la signorina entrare nel festival. Aveva la tuta blu e un fazzoletto rosso al collo.» La contessa la guardò sbalordita: «Sei diventata matta?». «No, sono sicura. Aveva la bicicletta da corsa del signorino. Ho visto quando l'ha messa giù al deposito… Io non credevo: allora sono andata a guardare da un buco ed era proprio la signorina. Ballava e tutti volevano ballare con lei perché balla bene… Come balla bene!… Mi sono fatta portare qui subito dal mio fidanzato in motocicletta. Non vorrei che le succedesse qualcosa: quelli là sono tutti rossi e ci sono delle brutte facce di tutte le frazioni.» La contessa non perdette la calma: «Di' a Luigi di preparare la Millequattro e aspettami: vengo subito». Dieci minuti dopo la Millequattro partiva alla volta del Borgo, guidata da Luigi e con a bordo la contessa e la ragazza. «Cerchiamo di fare le cose senza fracasso» le spiegò strada facendo la contessa. «Io fermo la macchina prima del festival. Tu vai giù, entri nel festival, trovi modo di avvicinarti alla signorina e le dici che io sono qui ad attenderla.»
Arrivati alla svolta prima del festival, la contessa fece fermare la macchina e la ragazza scese: «Cerca di non dar nell'occhio» le raccomandò la contessa. La contessa era gonfia di rabbia e avrebbe volentieri urlato: si riservò di farlo non appena avesse ricuperata la sciagurata figlia. "L'abbiamo mandata a studiare all'estero per qualche cosa!" pensò. E le vennero in mente i particolari orrendi della tuta da meccanico, del fazzoletto rosso e della bicicletta da corsa. * Da parte sua, in quel preciso istante, la signorina Elisabetta non pensava a niente di orrendo: stava ancora divertendosi come mai s'era divertita. Scoppiava di caldo e sudava come due proletarie addette ai lavori pesanti, ma le sue gambette guizzavano instancabili. I giovanotti le facevano una caccia spietata e, appena incominciava a ballare con uno, già un altro veniva a "spartire". C'erano due orchestre, nel festival, e si davano il cambio, cosicché Elisabetta non aveva un istante di sosta. Tutti oramai non avevano occhi che per la brunetta in tuta blu e col fazzoletto rosso al collo e anche Peppone dovette, a un bel momento, interessarsene.
«La conosci quella lì?» domandò allo Smilzo. «Mai più vista da quando l'ho data a balia. Non è di qui, capo. Si vede lontano un miglio: è merce di città.» «Non c'è da sbagliare» borbottò Peppone. «Ce l'ha scritto in fronte: roba dell'Oltretorrente. Guarda come balla. Mica male davvero, in complesso.» «Sì, capo: ma è una bellezza ordinaria. E poi sono ragazze sguaiate. Mi hanno detto che è arrivata in bicicletta da corsa.» Peppone guardò l'orologio: «Spicciati, Smilzo: è il momento». Lo Smilzo arrivò fendendo la folla davanti all'orchestra e, con un gesto, fece troncare la sonata. Salì sul palco e, dopo un colpo di gong che zittì la gente, lo Smilzo spiegò: «Adesso tutti i ballerini lasciano le ballerine e si mettono in circolo. Le ballerine hanno ricevuto all'ingresso un cappello di carta colorata che porta un numero stampato. Le ballerine si mettono in testa ciascuna il suo cappello, poi si mettono in fila l'una dietro l'altra e fanno tre giri della sala. Ogni ballerino ha ricevuto all'ingresso una scheda: appena ha fatto la sua scelta scrive il numero stampato sul cappello dentro la scheda e viene a infilare la scheda suggellata in questa urna qui davanti. Tutto semplice, tutto chiaro, tutto democratico». I giovanotti si addensarono lungo i margini del baraccone e le ragazze, rimaste in mezzo, si accomodarono il cappelluccio di carta sui capelli e, mentre la musica suonava in sordina una marcetta, incominciarono la loro sfilata.
Anche Elisabetta fece come tutte le altre: e il suo cappelluccio portava stampato il numero 108. Non si preoccupò di sapere quale fosse lo scopo di quella diavoleria. Era un gioco. La figlia della serva entrò nel festival quando già le ragazze avevano incominciato la sfilata. Non riuscì neppure a portarsi tra le prime file di spettatori. Attese ma, finiti i tre giri, lo Smilzo urlò: «Commissione a posto!» e diede l'ordine che le danze fossero riprese. E la ragazza dovette rinunciare ad avvicinare Elisabetta. Tre balli e poi di nuovo il gong risuonò. Riapparve sul palco dell'orchestra lo Smilzo con un foglio in mano. «Risultato della votazione» urlò lo Smilzo. «La commissione, esaminate le schede, le ha trovate tutte regolari e valide. Il 70 per cento dei voti è toccato al numero 108, il 10 per cento al numero 15, il 10 per cento al numero 80 e il 10 per cento al numero 93. Pertanto la signorina che porta il numero 108 è la prima classificata a schiacciante maggioranza e viene eletta Stellina dell' Unità.» Un applauso scrosciante salutò le parole dello Smilzo che continuò: «La signorina numero 108 si presenti alla commissione dove riceverà il primo premio costituito da una bottiglia di profumo e da un abbonamento annuo al grande settimanale
Vie Nuove! In più pubblicazione della foto sullo stesso settimanale». Lo Smilzo parlò anche per le altre tre classificate seconde a pari merito, ma la figlia della serva non lo udì: schizzò fuori e andò a fare il suo orrendo rapporto alla contessa. «E allora?» domandò la contessa appena la vide ricomparire. «Le hai parlato?» «Non ho potuto! L'hanno eletta Stellina dell' Unità e adesso le stanno dando il premio. Le faranno anche la foto da pubblicare su Vie Nuove.» Era necessario intervenire prima che fosse troppo tardi e la contessa, fattasi portare con la macchina fin davanti al festival, entrò decisa. Entrò implacabile e, fendendo faticosamente la folla, riuscì ad arrivare al palco della commissione proprio nell'istante in cui Peppone stava dicendo a Elisabetta: «Adesso dia a quel giovanotto il suo nome cognome e indirizzo per l'abbonamento a Vie Nuove. Sono sicuro che questo premio sarà ancora più gradito del boccetto di profumo. Nessun più soave profumo della cultura e della preparazione spirituale». Il fotografo era già pronto a scattare il lampo: la contessa con un ultimo sforzo riuscì a interporsi fra la figlia e il fotografo. Peppone riconobbe subito la contessa e rimase a bocca aperta.
«Signor sindaco» spiegò la contessa avvicinandosi a Peppone «la prego di scusare questa scioccherella. È appena tornata dal collegio, non sa niente di niente. Le sarei grata se evitasse ogni pubblicità… Lei mi comprende: la gente riderebbe di noi e di voi… Non mi neghi questo favore: annulli l'elezione… In quanto poi a mia figlia le prometto che avrà la punizione che merita la sua sfacciataggine.» La ragazza impallidì: «Mamma, io non credevo di fare male. Ero entrata per fare un ballo». «Vergognati» le disse con voce dura la madre. Un uomo anziano che era in primissima fila intervenne: «Perché dovrebbe vergognarsi?» esclamò. «Ma cos'è che ha fatto di brutto? Non siamo mica degli assassini!» La gente dietro levò un mormorio minaccioso; una donna gridò rivolta alla contessa: «Se qui c'è mia figlia che ha gli stessi anni della sua, perché non potrebbe starci anche sua figlia? Cosa crede, che mia figlia sia una sporcacciona?». Il mormorio minaccioso aumentò e la contessa si sentì battere forte il cuore. Ma passò subito al contrattacco: «Signora» disse sorridendo alla donna «c'è sua figlia ma c'è anche lei che è sua madre. Io non c'ero quando mia figlia è entrata». «Adesso però c'è anche lei, contessa» replicò la donna «quindi non trovi delle storie.»
Oramai tutti sapevano e il mormorio si faceva sempre più preoccupante. «Noi siamo fatti come tutti gli altri!» incominciò a urlare qualcuno. Peppone intervenne con la sua voce più autoritaria: «Basta! L'incidente è chiuso. Ognuno è libero di fare e pensare quello che crede. Quindi se la signora contessa non è contenta che sua figlia abbia il titolo di Stellina dell' Unità, padronissima! Siamo anche noi contentissimi che sua figlia non sia la Stellina dell' Unità». «Bene!» urlò la folla. «Silenzio!» continuò Peppone. «Stando così le cose, l'elezione del numero 108 a Stellina è annullata. Quindi ogni ballerino ritiri un altro biglietto e si proceda alla votazione immediatamente. Cioè: siccome le tre concorrenti classificate dopo il 108 (anzi: dopo l'ex 108) sono a pari merito, il pubblico scelga fra queste tre. Avanti il numero 15, il numero 80 e il numero 93!» Si fece cerchio e le tre ragazze si misero nel mezzo. «Numero 15, numero 80, numero 93! Ognuno dia la sua preferenza!» La votazione venne rapidamente ripetuta e poco dopo il gong risuonò. La gente tacque e, nel silenzio profondo, si udì la voce di Peppone: «Risultato della votazione: il numero 108 ha ottenuto il cento per cento dei voti. E siccome l'accordo non era questo ma questo tuttavia è il volere del popolo, la signorina nume-
ro 108 è eletta Stellina dell' Unità e riceve il primo premio consistente in una bottiglia di profumo e in un abbonamento annuale al settimanale Vie Nuove! Avanti il numero 108!». Un applauso formidabile si levò. Pareva un cataclisma. L'Elisabetta, che era rimasta lì vicino bloccata dalla folla assieme alla madre, impallidì: «Mamma!» implorò. «Cosa debbo fare?» «Vai, cretina!» rispose con voce sommessa la madre. L'Elisabetta andò, e vedendola sul palco così bella e gentile, la gente sparò un altro applauso colossale. Ripresero le danze: ultimo ballo con tutt'e due le orchestre. Valzer! Tutti ballavano, anche le vecchie scarlingate, e non c'era un centimetro libero, ciononostante, a un tratto, davanti all'orchestra la gente fece circolo e, al centro dell'oasi, Peppone ballava con la contessa. Con la "Stellina" madre. Un valzer da campionato mondiale.
213 LA FARINA DEL DIAVOLO Don Camillo andò a confidare le sue pene al Cristo dell'aitar maggiore: «Gesù» esclamò «grandine grossa come uova, dovevate mandare a questa gentaccia. È un peccato farle del bene». «Fare del bene non è mai peccato» rispose il Cristo. «Peccato è non farlo quando lo si può fare.» «Appunto. Non hanno mai avuto tanto frumento come quest'anno e mai come quest'anno io stento a raccogliere frumento per i ragazzini del ricreatorio. Otto chili, dieci chili, cinque chili: gente che ha cavato fuori fino a sedici quintali di grano per biolca. Il Filotti ha avuto il coraggio di offrirmene trenta chili: a momenti glielo sbattevo in faccia. Non ho ragione di arrabbiarmi?» «No, don Camillo. Chi si lascia vincere dall'ira ha sempre torto. Pazienza e umiltà: questa deve essere la tua divisa.» «Gesù, perdonatemi: ma con la pazienza e l'umiltà non si fa pane.» «Certamente, don Camillo: se pazienza e umiltà non sono sorrette dalla fede nella Divina Provvidenza, esse servono a ben poco.» Don Camillo aveva capito la lezione:
«Gesù» affermò «lascio fiatare il cavallo e poi continuo il giro». Era un pomeriggio di fine luglio e l'afa smorzava il respiro. Don Camillo diede da bere al cavallo poi risalì sul biroccio e, aperta l'ombrella grigia, partì. Uscito dal borgo deserto, svoltò subito per la strada della chiavica e, fatti cento metri, sentì rombare la trebbiatrice in un'aia vicina. «Signore» disse don Camillo «permettetemi di incominciare da una casa che non sia questa dei Tobazzi. Stanno trebbiando, sono indaffarati e io gli recherei troppo fastidio. Passerò da loro quando avranno finito di trebbiare.» In realtà don Camillo non aveva la minima intenzione di passare dai Tobazzi né dopo la trebbiatura né mai. I Tobazzi erano tipi da lasciar perdere. Merce malgarbata e tutti rossi come l'inferno. Poco prima di passar davanti all'aia, don Camillo orientò l'ombrella grigia in modo da rimanere il più possibile nascosto alla gente che si dava da fare bestemmiando in mezzo al polverone della trebbiatrice. Con la punta della frusta toccò anche il cavallo per scivolare via più rapidamente ma, proprio mentre don Camillo era in procinto di rallegrarsi per lo scampato pericolo, una voce urlò dall'alto della trebbiatrice: «Va a lavorare!».
Il cavallo si fermò di colpo e don Camillo, chiusa l'ombrella grigia, scese dal biroccio e marciò lento ma deciso verso la macchina trebbiatrice. "Pazienza e umiltà siano la tua divisa, don Camillo": le parole del Cristo Crocifisso gli tornarono alla mente e valsero a rendere più calma e pacata la marcia di don Camillo. Pazienza e umiltà. «Buon giorno» disse cordialmente don Camillo arrivato che fu sotto la trebbiatrice. Il Tobazzi capo, che stava gettando i covoni di grano dentro la botola della trebbiatrice, si arrestò un momentino e guardò giù. «Sono in giro per raccogliere un po' di grano per i ragazzini del ricreatorio» spiegò don Camillo. «Comunque se si tratta di dare una mano nel lavoro, eccomi qui. Cosa c'è da fare?» Quelli della squadra si misero a sghignazzare. «Qui si suda!» rispose il Tobazzi. «Quando fa caldo, si suda dappertutto» spiegò don Camillo. Davanti alla porta-morta c'era una gran distesa di sacchi pieni di frumento e uomini impolverati, grondanti sudore, si caricavano in spalla i sacchi e li portavano su in granaio: don Camillo si avvicinò e stette a osservare quel viavai infernale. «Brutto affare per chi non ha il filone della schiena lubrificato!» urlò il Tobazzi facendo sganasciare dalle risa la banda al completo.
«È difficile?» domandò don Camillo ai due omacci che tiravano su i sacchi da terra e li caricavano sulle spalle dei portatori. «Più difficile che dire Messa» rispose a voce alta uno dei due. «Vorrei provare» esclamò don Camillo facendosi sotto col groppone. I due rimasero perplessi qualche istante, poi sollevarono un sacco. Quando don Camillo ebbe in spalla il sacco, domandò: «E adesso cosa bisogna fare?». «Adesso viene il difficile!» sghignazzò il Tobazzi. «Adesso si tratterebbe di portarlo su per la scala fino in granaio.» Don Camillo si incamminò e arrivato sotto la porta-morta infilò la scala e disparve. Passò qualche minuto ed eccolo riapparire; aveva ancora il sacco pieno di grano in spalla: «Scusate» disse facendosi sotto alla macchina «ho dimenticato di chiedere cosa bisogna fare quando si è arrivati in granaio.» La gente della squadra sghignazzò in un modo diverso da prima e ciò seccò un poco il Tobazzi: «Quando si è arrivati in granaio» rispose aggressivo il Tobazzi «bisognerebbe vuotare il sacco nel mucchio e poi, se uno ce la fa, dovrebbe tornar giù e ripetere la storia con un altro sacco».
«Capito» borbottò don Camillo. «Allora vuol dire che, siccome il primo viaggio in granaio l'ho fatto per niente, mi rimetto in regola col secondo viaggio.» Si appressò ai due uomini che aiutavano i portatori a caricarsi in spalla i sacchi di grano. «Per piacere, buttatemene su un altro.» Tutti smisero di lavorare e stettero ad aspettare: i due omacci, dopo essersi guardati in faccia, agguantarono un sacco e lo issarono sulla spalla sinistra di don Camillo. «Prima pendevo tutto a destra e facevo una fatica matta» esclamò allegramente don Camillo. «Adesso che sono bilanciato vado molto meglio.» Si avviò con passo tranquillo e sicuro e disparve sotto la porta-morta. Ricomparve qualche minuto dopo: «Tutto lì?» domandò agli addetti ai sacchi. I due allargarono le braccia. «È più difficile dire Messa» affermò don Camillo. Nessuno rise eppure tutti avevano sentito perfettamente. «Ci vuol poco a fare una bullata!» gridò il Tobazzi. «Il difficile è continuare!» Don Camillo si fece caricare altri due sacchi in groppa e partì per il granaio. Dopo due o tre viaggi si volse verso il Tobazzi: «Anche a continuare non è difficile. Piuttosto levatemi una curiosità: quelli che portano su i sacchi lavorano gratis oppure ricevono un compenso? Se a portar su i sacchi si rice-
ve un compenso continuerei volentieri. Sento che mi fa bene». Il Tobazzi venne giù dalla trebbiatrice: «Grazie tante ma facciamo da soli. Non abbiamo bisogno di aiuto». «Bene. Piuttosto, già che sono qui, approfitto dell'occasione: sto raccogliendo grano per i bambini del ricreatorio. Ve ne cresce un po'?» Il Tobazzi scosse il capo: «Sono mezzadro e non posso toccare il grano se prima non si sono fatti i conti col fattore del proprietario. Ho un mezzo sacco di farina dell'anno scorso. È meglio di quella nuova». Don Camillo rispose che era molto riconoscente al Tobazzi: «Grazie a Dio, mi sono fermato per qualcosa!». Il Tobazzi chiamò uno dei figli e borbottò qualcosa. Il giovinastro scomparve e, poco dopo, ritornò con un sacco che depose ai piedi di don Camillo. Il Tobazzi allargò la bocca del sacco e, tirato su un pugno di farina, la fiutò e la mostrò a don Camillo: «Una farina così non la trovate da nessuna parte». Era una magnifica farina, fresca, fragrante, e don Camillo, arraffato il sacco e buttatoselo in spalla, se ne andò allegro come una Pasqua. Risalito sul calesse, invertì la marcia: era schiantato dalla fatica e non se la sentiva di continuare.
Aveva urgente bisogno di buttarsi su un letto e di dormire. Però, appena fu arrivato davanti alla canonica, il suo primo pensiero fu quello di ringraziare il Cristo e, caricatosi ancora il sacco in spalla, entrò difilato in chiesa. «Gesù» disse quando fu davanti all'aitar maggiore. «Voi avete sempre ragione. Con la pazienza e l'umiltà, sorrette dalla fede nella Divina Provvidenza, si può far pane!» Mostrò al Cristo il sacco che aveva deposto sul gradino della balaustra. «Don Camillo» rispose il Cristo «sei proprio sicuro che sia atto di umiltà fare sfoggio della propria forza fisica per umiliare il nostro prossimo?» «Signore, non le prove di forza fisica contano, ma le prove di forza morale. Io credo che sia atto di profonda umiltà possedere la forza fisica sufficiente per sbatacchiare contro il muro uno scalzacane e usarla pazientemente per portare svariati quintali di frumento su un granaio.» Il Cristo sospirò: «Don Camillo, il tuo cuore è pieno di veleno». Don Camillo abbassò il capo: «Perdonatemi, Signore. In fondo anche Tobazzi non è cattivo. Egli ha dato più di tutti gli altri. E io non pensavo neppure che egli potesse darmi qualcosa. Guardate, Signore, che farina bella, fresca e profumata!».
Don Camillo allargò la bocca del sacco e prese una manciata di farina mostrandola al Cristo. Ma, d'improvviso, il suo sorriso scomparve. Affondò ancora la mano dentro il sacco: «Gesù» esclamò con voce cupa «questa non è farina. Ci sono quattro dita di farina sopra mentre sotto è gesso. Gesso che ha preso l'umidità e non può servire più a niente». «Don Camillo, se è così» rispose il Cristo «tu hai avuto la mercede che il tuo atto meritava. Un sacco di gesso con un velo di farina per un sacco di tracotanza con un velo di umiltà.» «Signore» gemette don Camillo spalancando le braccia desolato «che io sia punito perché ho sbagliato, ciò è giusto. Ma il Tobazzi, così facendo, non ha punito me, bensì i bambini del ricreatorio. Per loro era la farina, non per me… No, Signore, io non credo però che il Tobazzi sia tanto perfido: evidentemente egli ha sbagliato sacco.» Don Camillo riprese il suo sacco, uscì dalla chiesa e risalì sul calesse, puntando sull'aia del Tobazzi. Stavano trebbiando e, appena don Camillo apparve nell'aia, la gente ridacchiò. Il Tobazzi stava ancora sulla macchina: «Scusate» gli domandò dal basso don Camillo «era proprio farina quello che m'avete dato o avete sbagliato sacco?». «No» replicò aggressivo il Tobazzi. «È proprio farina. Perché?» «Niente, una semplice curiosità.»
«Meglio così» borbottò il Tobazzi strizzando l'occhio agli altri. Don Camillo se ne andò. Arrivato al sagrato, legò il cavallo all'anello vicino alla porta della canonica e corse all'aitar maggiore: «Gesù» esclamò «anche stavolta ho sbagliato. È proprio farina. La stanchezza mi ha scosso il cervello». Don Camillo era stanco davvero e, staccato il cavallo dal calesse e scaricato il sacco, andò subito a chiudersi in casa. Allora si rimboccò le maniche, si mise davanti un grembialone e, scoperchiata la madia, vi gettò dentro una buona palettata della farina di Tobazzi. Bagnatala, prese a impastarla. Ben presto una bella micca fu pronta. La mise dentro il forno rovente della cucina economica. *
I Tobazzi stavano cenando e c'era attorno alla tavola tutta la banda dei trebbiatori: don Camillo apparve d'improvviso col suo fagottino tra le mani e nessuno mangiò più.
«Chiedo scusa del disturbo» disse don Camillo sorridendo. «Sentivo il dovere di ringraziare il signor Tobazzi per la sua generosità.» Sciolse il fagottino e, mentre stava armeggiando attorno all'involto, spiegò: «Ho voluto provare subito la vostra farina, caro Tobazzi: è veramente eccezionale. Spero che vorrete gradire una micca del vostro pane. È ancora calda: l'ho appena tolta dal forno». Don Camillo mise davanti al Tobazzi la micca di pane. «Vi prego, assaggiatelo: e ditemi se come fornaio ci so fare o no.» Il Tobazzi era con la mano destra sulla spalliera della sedia, pronto a scattare in piedi: «Assaggiatela e ditemi il vostro parere!» disse don Camillo. «Perdonatemi se insisto ma ho soltanto tre minuti di tempo.» Cavò l'orologio e fissò il quadrante. «Uno» borbottò. Quando disse "due" aveva nella mano sinistra sempre l'orologio, ma nella destra stringeva un grosso ferro da stiro che aveva tirato giù dal ripiano del camino. Il Tobazzi staccò dalla grossa micca un pezzo che doveva essere piccolissimo ma che disgraziatamente risultò di non indifferente mole. «Tre» disse don Camillo mentre il Tobazzi portava il pane alla bocca.
Don Camillo stette a guardare il Tobazzi che masticava lentamente. «Se qualcuno vuole assaggiare, si accomodi» esclamò don Camillo girando intorno l'occhio. Nessuno fiatò. Quando il Tobazzi ebbe finito d'inghiottire ed ebbe bevuto un grande bicchiere di vino, don Camillo gli domandò: «Ebbene, cosa ne dite?». «Buono» rispose il Tobazzi cupo. «Mi fa piacere. Credete che per i bambini del ricreatorio potrà andar bene?» Il Tobazzi si agitò: «Ma cosa c'entrano i bambini del ricreatorio? Che storie andate cercando?». «Per loro io raccolgo il grano, non per me.» Il Tobazzi si alzò: «Pigliatevi tutto il grano che volete e andate all'inferno!» urlò. Don Camillo salutò, uscì, si caricò in spalla due sacchi di grano e se ne andò a casa. Prima di piombare in un sonno di ghisa, ebbe la forza di sussurrare: «Sia ringraziata la Divina Provvidenza. La farina del diavolo non è andata in crusca.»
214 DUE SANTI DA MEZZA STAGIONE Il territorio del Comune amministrato da Peppone & compagni era diviso in sei frazioni e una repubblica. In origine, il gruppo di casipole della Pioppina faceva parrocchia: possedeva cioè, oltre alla chiesa, una casa parrocchiale e un benefìcio parrocchiale che permettevano al prete titolare di ripararsi dalle intemperie e di consumare i pasti con sufficiente regolarità. Ma, un brutto giorno, il fiume grosso s'incapricciò del podere che costituiva il beneficio e che, disgraziatamente, faceva parte della fertile fascia di terra tra il fiume e l'argine. Piacciono, al fiume grosso, questi scherzi: per mille anni lambisce una terra senza che niente succeda ed ecco che, d'improvviso, l'acqua incomincia a rosicchiare la sponda e, un boccone dopo l'altro, si mangia tutto. Oppure accade il contrario: il fiume d'improvviso prende a regalare terra e un poveretto che possedeva, tra l'argine e il fiume, una strisciolina di cinque o sei biolche di pioppeto, si trova a un tratto padrone d'un grande e grasso podere. Alla terra del beneficio parrocchiale il fiume giocò lo scherzo del primo tipo e smise di mangiar terra soltanto quando fu arrivato a una decina di metri dal fabbricato colonico che stava addossato all'argine e che nessuno volle più
abitare perché, era da prevedersi, l'edificio avrebbe seguito la sorte di tutto il resto. E difatti, quando venne la piena, la casa si sciolse dentro l'acqua. E quando l'acqua si ritirò, dell'edificio era rimasto soltanto un mucchietto di mattoni coperti di fanghiglia. Il vecchio parroco della Pioppina tirò avanti ugualmente perché, arrivati a una certa età, si vive per forza d'inerzia. Ma una brutta notte la canonica andò a fuoco e il poveretto salvò, delle cose sue, soltanto la pelle. Allora, visto che non era neppur possibile pensare di trovare i quattrini per ricostruire la canonica, il povero vecchio morì. E, col parroco della Pioppina, morì anche la parrocchia della Pioppina. Quelli della Pioppina, rimasti senza prete, andarono dal Vescovo a protestare ma il Vescovo allargò desolato le braccia: «Figlioli, non c'è nessuna ragione che giustifichi i grossi sacrifici che si dovrebbero fare per mantenere in vita la parrocchia della Pioppina». «Se la parrocchia della Pioppina è sempre esistita, significa che le ragioni ci sono» obiettò il più autorevole della commissione. «No, figlioli» rispose il Vescovo. «E per capirlo basta che voi ricordiate la storia della vostra parrocchia.» Quelli della commissione sapevano soltanto questo, della storia della chiesa della Pioppina: che era la loro chiesa.
Il Vescovo chiamò allora il segretario e si fece portare un grosso incartamento dell'archivio e mostrò a quelli della commissione delle vecchie carte: «Fino all'anno 1780» spiegò il Vescovo «la Pioppina non era parrocchia e non aveva chiesa: l'esiguo numero di abitanti e la vicinanza al borgo principale rendevano cosa inutile fare della Pioppina una parrocchia. Ma nel 1780 morì, solo e senza eredi diretti, un tal Negrini che possedeva una bella casa, un bel podere e un sacchetto di scudi d'oro. E il suo testamento, come avete visto, stabiliva in parole povere: "Lascio il mio danaro per erigere alla Pioppina una chiesa, lascio la mia casa perché essa sia adibita a canonica e lascio il mio podere per rendere possibile la costituzione e il mantenimento della parrocchia della Pioppina. Altrimenti ogni mio avere passi al tal dei tali, mio terzo cugino". E così nacque e visse la parrocchia della Pioppina. «Ma adesso che la canonica è distrutta e che la rendita del beneficio se la prende il fiume, tutto quello che noi possiamo fare è di incaricare don Camillo di venire a celebrare la Messa nella vostra chiesa per la festa di Sant'Ippolito e di San Mauro, patroni della Pioppina. Non vi nuoceranno, le altre volte, i quattro passi che dovrete fare per arrivare al borgo». «Non è una questione di distanza» risposero quelli della commissione. «È una questione di principio.» «Il principio di ogni buon cristiano è quello di cercar di conquistarsi il Paradiso anche se non può fruire del servizio
spirituale a domicilio. Alla Pioppina non c'è il veterinario: eppure, se una delle vostre bestie sta male, voi correte al Borgo a chiamare il veterinario. Volete dunque considerare la salute della vostra anima meno importante della salute di un vitello?» La commissione tornò al paese e riferì quel che il Vescovo aveva detto e la gente ascoltò attentamente senza far commenti. Ma quel silenzio cupo costituì – agli effetti della storia e della geografia – l'atto di fondazione della repubblica della Pioppina. Da quel giorno, infatti, la Pioppina iniziò l'azione di distacco morale dal Borgo grosso e il motto fu: «Non vogliamo dipendere dal Borgo né per quanto riguarda il prete, né per quanto riguarda il resto». Percorrevano tre volte tanto di strada ma ogni spesa l'andavano a fare al capoluogo del Comune più vicino. Nel frattempo, Cimossa, l'oste del Moro, si attrezzava aggiungendo all'osteria con gioco delle bocce e rivendita sale e tabacchi un reparto vendita di generi vari. Trovarono un giovane medico libero che, attrezzato alla Pioppina un piccolo ambulatorio, incluse gli abitanti della neorepubblica nel giro dei suoi clienti. Liberatisi del medico comunale, i pioppinesi cercarono di liberarsi del veterinario. Non ci riuscirono e allora decisero solennemente:
«Le bestie possono rimanere assoggettate al borgo grosso: l'importante è che abbiamo guadagnato l'indipendenza noi che non siamo bestie». Tutto questo fu fatto in silenzio, ma ben presto la manovra fu chiara, e ancor più chiara diventò quando Cimossa, padrone dell'osteria del Moro e capo della cellula comunista della Pioppina, andò a trovare Peppone e gli disse: «Capo, tutti i compagni della Pioppina non vogliono più dipendere dalla sezione del Borgo». «Questa è bella da ridere! I compagni delle altre frazioni dipendono tutti dalla sezione comunale: i compagni della Pioppina sono diversi da quelli delle altre frazioni?» «No, capo: i compagni sono uguali. È la Pioppina che è diversa.» I «rossi» della Pioppina erano una banda gagliarda; gente decisa, pronta a rimboccarsi le maniche a ogni momento. Peppone prese la cosa con garbo: «Compagno, capisco. Però tieni presente che il campanilismo è uno dei più gravi pericoli per il trionfo della causa. Niente deve dividere i compagni, neanche i confini che esistono ancora fra stato e stato. Un compagno della Pioppina deve considerarsi uguale identico a un compagno di Pechino, anche se ha la pelle di colore differente dalla sua». «D'accordo, capo. Ma fra la Pioppina e Pechino c'è meno distanza che fra la Pioppina e il Borgo.» Stando così la faccenda non era il caso di insistere.
«E cosa vorreste allora? Dipendere direttamente dalla federazione provinciale?» «No: la cellula della Pioppina si trasforma in sezione autonoma della Pioppina.» «Ho capito: ti è venuta la smania di diventare gerarca.» «No, capo: infatti, riconosciuta l'autonomia della sezione, noi ti eleggeremo fiduciario della sezione.» «Va bene: ma non resta tutto come adesso?» «No, tutto cambia. Noi infatti non dipenderemo più dalla sezione del Borgo, ma dal compagno Bottazzi.» In fondo si trattava semplicemente di far stampare un po' di carta da lettera con l'intestazione: «PCI Sezione de La Pioppina – Il fiduciario». E di usare la carta normale per inviare gli ordini alle altre frazioni e la nuova carta per inviare gli ordini alla Pioppina. Per evitare una scissione valeva la pena di sacrificare qualche lira. E tutto funzionò perfettamente. Si capisce che, il giorno in cui lo Smilzo sbagliò carta e alla Pioppina arrivò una lettera con l'intestazione della sezione del Borgo, la lettera venne rispedita a Peppone con questo chiarimento: «Al compagno Giuseppe Bottazzi. «Riceviamo una lettera di disposizioni per il tesseramento firmata dal fiduciario della sezione del Borgo. Come sai la nostra sezione è autonoma e riceve ordini soltanto dal proprio fiduciario compagno Giuseppe Bottazzi. Ciò per la regolarità».
Peppone, con carta intestata della sezione del borgo, rispose scusandosi per l'involontario errore e, con carta intestata della sezione di Pioppina, scrisse la lettera per il tesseramento. Quando oramai la repubblica della Pioppina era moralmente costituita e funzionante, giunse la festa di Sant'Ippolito, uno dei due patroni del paese, e don Camillo si presentò alla porta della chiesa per celebrare – come da ordini ricevuti – la Messa. Trovò inchiodato alla porta un cartello: «Chiuso fino al ritorno del Parroco titolare. La Popolazione». Don Camillo capì l'antifona e, risalito sulla bicicletta, tornò a casa. E la chiesa della Pioppina rimase chiusa, e nessuno della Pioppina andò più a Messa. Poi accadde qualcosa di imprevisto ma cui nessuno aveva pensato: nacque un bambino e si trattò di battezzarlo. «Piuttosto che andare a battezzarlo al Borgo non lo battezzo» affermò il padre del bambino. Trovò contro di sé l'intera parte femminile della famiglia e la discussione dopo due giorni finì in piazza, con partecipazione di tutti i pioppinesi. La discussione fu lunga ma alla fine parve che qualcuno avesse trovato l'argomento per chiudere la bocca a tutti: «Anche quando la Pioppina era parrocchia, le dichiarazioni di nascita si facevano non qui, ma in Comune. Adesso, dopo aver denunciato la nascita del bambino in Comune, non
volete denunciare la nascita a Dio. Ciò significa che voi considerate più importante il sindaco che Dio». L'osservazione fu meditata e il padre del bambino fu, oltre al resto, particolarmente colpito dal fatto che, non battezzando il pupo, si correva il rischio di sopravvalutare il sindaco del borgo grosso. «Domattina andrò a battezzarlo» concluse. Allora intervenne Cimossa: «Fino a oggi ogni nato alla Pioppina è stato registrato nel libro della parrocchia della Pioppina. Se lo battezzate al Borgo, il bambino sarà registrato nel libro della parrocchia del Borgo. Con questo atto ufficiale noi della Pioppina rinunciamo alla nostra cittadinanza e riconosciamo che la Pioppina non è più parrocchia e dipende in tutto e per tutto dal Borgo. La Pioppina accetta di diventare una colonia del Borgo». Il ragionamento preciso di Cimossa impressionò tutti, e il padre del bambino ritornò sulle sue decisioni: «Non lo battezzo! Mio figlio non sarà un traditore della patria!». Brutto affare per il povero neonato. Per fortuna, al momento giusto, venne a galla don Candido. *
Don Candido era un pretino giovane e magro. Forse più giovane che magro. Forse più magro che giovane. Era anche timidissimo e, appena sbucò nella piazzetta e si trovò davanti al consesso di gente agitata e vociante, gli venne l'ispirazione di tornare indietro. Ma oramai era stato avvistato e subito gli furono tutti attorno. «Chi vi manda?» gli domandò Cimossa squadrandolo con diffidenza. «Nessuno» rispose don Candido. «Sono di passaggio. Vado a trovare mio cugino a Torricella.» Qualcuno borbottò un nome e ci fu immediatamente un gran sussurro. «Sbaglio, o siete il figlio del povero Perini?» domandò una donna al pretino. «Sì. I miei sono morti tutti e a Torricella non ho più che mio cugino Dante Malasca.» «Capitate male, reverendo: l'hanno portato ieri mattina al cimitero.» Il pretino si asciugò il sudore: «Allora è inutile che io continui. Vado a salutare don Giuseppe e poi torno». «Potete tornare subito» borbottò Cimossa. «Don. Giuseppe è morto da sei mesi.» Il pretino si segnò. «Pace all'anima sua. Povero don Giuseppe. Mi ha aiutato tanto anche lui.»
«Aveva passato gli ottantacinque ed era la sua ora» esclamò una vecchia. «Peccato che i suoi ultimi giorni siano stati così disgraziati.» Raccontarono a don Candido la storia del beneficio inghiottito dal fiume, la storia della canonica bruciata. Il prete sorrise tristemente: «In fondo è andata meglio che a me». «Non credo!» affermò Cimossa. «È difficile che in una parrocchia possa succedere di peggio.» «Purtroppo è possibile» replicò il prete. «Io ero da due anni in montagna. Mi avevano dato la parrocchia di Rugino, un paesino sul fianco del Monte Doletta. Miseria nera ma aria buona e un paesaggio bellissimo. Due mesi fa, nella strada principale del paese si apre una crepa. Il giorno dopo la crepa si allarga e ne saltano fuori delle altre più a monte. «Sgombriamo tutti, con bestie e roba. Ci accampiamo in vista del paese e stiamo lì a guardare il fianco della montagna che smotta lentamente. Dopo tre giorni vien giù un'acqua terribile.» Il prete s'interruppe e sospirò allargando le braccia. «Tutto a valle: case, orti, canonica, chiesa. Ho aiutato quei poveretti fin che ho potuto: adesso che sono sistemati un po' da tutte le parti son venuto via. Aspetto che venga libera un'altra parrocchia.» Cimossa tentennò il capo pensoso: «In altre parole: siete disoccupato».
«Se si può dire che un sacerdote è disoccupato, ebbene, lo dico» rispose don Candido sorridendo. «Voi siete disoccupato e noi abbiamo bisogno di un parroco» esclamò Cimossa. «Fermatevi qui e tutto è sistemato.» «Magari! Ma io posso venir qui se mi ci manda il Vescovo.» «Il Vescovo non manderà né voi né nessun altro» replicò una donna. «Ha le sue buone ragioni, certamente. Però, anche noi abbiamo le nostre e chi ci va di mezzo? Gli innocenti.» Raccontarono al prete la storia del bambino che non poteva essere battezzato e glielo mostrarono. «Avete proprio deciso di non farlo battezzare?» domandò timidamente il pretino con una sottile angoscia nell'animo dopo aver constatato che il bambino era tanto pallido e striminzito da dar l'idea di un morticino. «O lo battezzano qui o niente!» rispose il padre del bambino con rabbia. «Sta bene» affermò don Candido. «Se le cose stanno così, allora debbo battezzarlo io.» Tutto nella chiesetta era perfettamente pulito e a posto perché il vecchio sagrestano continuava a tenere ogni cosa in ordine come se la chiesa fosse funzionante. E il battesimo riuscì il più solenne della storia di Pioppina perché vi partecipò tutto il paese.
Prima di uscire, ognuno volle leggere sul libro del battesimo la nuovissima annotazione che significava: «La parrocchia della Pioppina è ancora viva. La libertà non è morta!». Non vollero che don Candido si rimettesse in viaggio. Gli diedero da mangiare e gli misero a disposizione una stanza: sarebbe ripartito l'indomani. E, quando don Candido se ne andò a letto, tutti gli uomini della Pioppina si riunirono all'osteria del Moro, in seduta straordinaria, e Cimossa lanciò la proposta: «È giovane, non ha pretese, è disoccupato, sa fare il suo mestiere: ci mettiamo d'accordo e, quando ci serve, lo prendiamo a nolo a spese nostre». «E nei giorni in cui non ci serve, cosa fa per guadagnarsi da vivere? Il rappresentante di lucido per scarpe?» obiettò uno del consesso. Cimossa, che, essendo un fedelissimo gregario di Peppone, cercava di imitare Peppone anche nel modo di pensare, esclamò: «I difetti principali dei preti sono due: primo, quello di essere preti e quindi di non servire a niente. Secondo, quello di aver bisogno di mangiare anche quando servono a qualcosa. Io, a ogni modo, direi di parlargli, domattina». L'indomani gli parlarono: «Reverendo, noi saremmo disposti a offrirvi vitto, alloggio e pulitura della biancheria la domenica e nelle feste di precetto, più, si capisce, i servizi occasionali di battesimi, matrimoni, funerali».
«Mi piacerebbe» rispose don Candido. «La disgrazia è che io… io insomma non saprei cosa fare negli altri giorni.» Non disse che la disgrazia consisteva nel fatto che egli mangiava anche gli altri giorni. E la gente apprezzò questa sua delicatezza. Qui, però, Cimossa si ricordò improvvisamente di essere il capo dei «rossi» e, quindi, il più irriducibile nemico dei preti, e osservò con voce ironica: «Certo che se, invece di essere un prete, foste un uomo come noi, vi risponderei che, negli altri giorni, quando non avete niente da fare in chiesa, potreste lavorare…». Don Candido lo guardò: «Il problema per un sacerdote non è quello di lavorare, ma di trovare un lavoro che non pregiudichi la dignità della sua missione e del suo abito». «Tutti i mestieri onesti sono onorifici!» gridò Cimossa. «Non è questione di onestà» ribatté calmo il pretino. «Il mestiere del gelataio ambulante è un mestiere onesto, ma io non potrei farlo. Prima di tutto perché non so fare i gelati, secondariamente perché un prete che vada in giro pedalando su un triciclo da gelataio indurrebbe la gente al riso e ciò danneggerebbe il sacerdote e la Chiesa. Neppure potrei fare l'arrotino o il garzone da muratore. Sono figlio di contadini di queste parti e so come si lavora la terra. Datemi un po' di terra e lavorerò.»
«Il beneficio se l'è mangiato il fiume!» esclamò Cimossa. «E qui non ci sono proprietari terrieri ma soltanto affittuari e mezzadri. Nessuno può regalarvi terra.» «E chi parla di regalare terra?» disse don Candido. «Gli affittuari non danno forse qualche biolca di terra da lavorare a mezzo quando si tratta di coltivare roba come il pomodoro che richiede molta mano d'opera?» «Certo» rispose Cimossa. «Ebbene: procuratemi un po' di terra da lavorare a mezzo.» Cimossa lo guardò: «E voi credete di farcela, poi?». «Mio padre era più magro di me e chi l'ha visto lavorare sa che rendeva come due uomini.» Un vecchio coi baffi bianchi intervenne: «La razza è buona. La terra la do io. Però non ho il posto per dormire». «Una camera gliela darei io» esclamò Cimossa. «Ma come si fa ad alloggiare un prete in un'osteria?» «Per il dormire ci penso io» affermò don Candido. «So dove trovare il posto.» *
La mattina seguente, il primo che arrivò nella piazzetta trovò la novità; un giovanotto in tuta da meccanico stava lavorando tra le macerie della ex canonica: ed era don Candido. Un'ora dopo tutti i ragazzini della Pioppina lavoravano tra le macerie della ex canonica. Poi, verso sera, vennero a dare una mano anche gli uomini che erano tornati dai campi. «A me basta sgomberare lo spazio per tirar su una stanza» spiegò don Candido. «Le fondamenta sono solidissime e i muri per due metri da terra sono intatti. Mattoni ce n'è fin che si vuole. E anche tegole. Le tegole hanno il vantaggio sulle marsigliesi che fin che ce n'è una fetta grande quattro dita sono buone per far tetto. La sabbia e la ghiaia stanno lì a due passi, nel fiume. Per il resto c'è la bicicletta.» La bicicletta di don Candido era nuova e fu facile trovare un amatore: e coi soldi saltarono fuori la calce e un po' di tavole per combinare una porta e le imposte d'una finestra. Finito il lavoro di sgombero, don Candido incominciò a fare muro. Il legname del tetto fu racimolato facilmente, eccezion fatta per il trave maestro che doveva servire anche da colmareccio. C'erano due buoni pezzi di trave, ma come appiccicarli? Don Candido risolse facilmente la cosa creando in mezzo alla stanza un grosso pilastro cavo che serviva pure da cappa per la stufa da costruirsi in mattone e terra, alla campagnola.
Visto da sotto, il tetto faceva schifo, però non lasciava passare una goccia d'acqua. «Ed ecco la canonica» disse soddisfatto don Candido quando la baracca fu finita. Era arrivata la stagione giusta per cominciare a lavorare il pezzo di terra da coltivare a mezzo. Don Candido smise di fare il muratore e prese a fare il contadino. «Se tutti i preti fossero agricoltori come voi» gli disse un giorno Cimossa che era andato di persona a rendersi conto di come funzionasse il contadino don Candido «il giorno della riscossa proletaria potremmo sistemare facilmente il clero e migliorare l'agricoltura.» Ciò voleva significare che, anche come agricoltore, don Candido sapeva il fatto suo. La parrocchia della Pioppina andò avanti almeno per sei mesi senza che ci fossero guai. E Cimossa e compagni, non potendo entrare in chiesa per disciplina di partito, assistevano puntualmente alla Messa di ogni domenica standosene davanti alla porta spalancata. «Ciò vuol significare non un ossequio al prete, ma un atto di solidarietà col lavoratore» spiegò Cimossa a Peppone. «Va bene: però stai attento a distinguere bene dove finisce il lavoratore e dove incomincia il prete.» «Capo, lo so: il lavoratore finisce quando il prete smette di lavorare nei campi. Il prete invece incomincia sempre e non finisce mai.»
«Bene, compagno. Cordiale diffidenza: questo è il motto.» Tutto comunque andò bene fino a quando alla gente della repubblica della Pioppina non venne l'idea di cambiare i Santi. *
In verità l'idea nacque nel cervello del più interessato nella faccenda: l'oste Cimossa. Le feste di Sant'Ippolito e di San Mauro, patroni della Pioppina, cadevano rispettivamente in pieno agosto e in pieno gennaio. E così le due sagre annuali della repubblica risultavano le più disgraziate di tutta la zona. La sagra del troppo caldo e la sagra del troppo freddo. E chi ci smenava di più era Cimossa: e ciò perché se per San Mauro non era possibile impiantare il festival a causa del freddo, risultava inopportuno impiantarlo per Sant'Ippolito a causa del caldo che induceva la gente a evitare di avventurarsi lungo strade arroventate e polverose. La Pioppina, perciò, non aveva mai una vera giornata di sagra con ballo, bancarelle e movimento di forestieri. E, mentre gli altri ne avevano solo danni morali, Cimossa, padrone dell'osteria del Moro, ne aveva anche notevoli danni materiali.
Così fu lui a darsi da fare per montare la gente. E ci riuscì tanto bene che un bel giorno Cimossa e i principali esponenti del paese andarono in commissione da don Candido e gli spiegarono cosa voleva la popolazione. «Cambiare i Santi patroni?» balbettò don Candido. «E perché? Vi hanno fatto qualcosa di male?» «Né male né bene. Noi non vogliamo più né santi estivi né santi invernali ma santi da mezza stagione, che diano soddisfazione al popolo e gli permettano di godersi allegramente la sagra come se la godono gli altri.» Don Candido s'ingarbugliò: «In un caso come questo bisogna rivolgersi al Vescovo» riuscì a dire alla fine. «Il Vescovo non c'entra» gli risposero. «Questa è una parrocchia libera e indipendente boicottata dall'autorità ecclesiastica ma voluta dal popolo. Il vostro Vescovo è il popolo e il popolo vuole cambiare i Santi.» «Cambiare i Santi? E come si fa?» gemette don Candido. «Si tolgono i Santi vecchi e si mettono al loro posto i Santi nuovi.» «Quali Santi nuovi?» «San Venanzio e San Virgilio» esclamò Cimossa. «Sono già pronti e pagati dal primo all'ultimo centesimo. A Cimelio, di là dal Po, c'è una chiesa sinistrata che non sarà ricostruita perché anche il paese è stato rovinato dalla piena. I due Santi di Cimelio erano quindi disoccupati, come voi, re-
verendo. Li abbiamo comprati e gli daremo una occupazione qui. Sono i Santi che fanno per noi: Santi da mezza stagione. Metà di maggio: San Venanzio; fine settembre: San Virgilio. Non vi resta che preparare la cerimonia solenne che avverrà il 26 settembre con grandi festeggiamenti che aiuteranno moltissimo il turismo. Si fa un corteo di barche infiorate che parte di qui, traversa il fiume, va a ritirare i Santi nuovi che aspettano sull'altra riva e li porta qui. Arrivati qui, voi fate ai Santi il discorso di benvenuto, gli presentate il paese. I Santi sbarcano e si forma la processione con musica che li porta fin davanti alla chiesa. I Santi nuovi aspettano fuori dalla porta. Voi entrate in chiesa seguito dai fedeli e fate il discorso di addio ai Santi vecchi. "Avete servito con fedeltà e onore, avete fatto tanto per noi"… eccetera. Li liquidate, insomma, elegantemente e poi vengono avanti i Santi nuovi che prendono il posto dei vecchi. Quindi Messa solenne cantata, con un organista che facciamo arrivare dalla città.» La commissione approvò con entusiasmo. La grandiosità della festa li eccitava. «Per via dei Santi state tranquillo» aggiunse Cimossa. «Sono meglio che nuovi perché li abbiamo fatti riverniciare da uno specialista. Inoltre sono una bella spanna più alti dei vecchi.» «Va bene» balbettò don Candido «lasciatemi il tempo di pensare a come posso sistemare la cosa.» *
Don Camillo, appena vide il pretino, fece la faccia scura. «Sono don Candido» spiegò timidamente il pretino. «Io sarei il parroco… il parroco interinale…» «Il parroco interinale della sparrocchia della Pioppina» continuò don Camillo calcando la voce sulla "s" di sparrocchia. «Ho capito: e allora?» «Allora succede che la popolazione della Pioppina vuol cambiare i Santi» sussurrò sgomento don Candido. «Dite alla popolazione che invece di cambiare i Santi si cambi la testa. Comunque sono affari vostri.» «Lo so: ma ho bisogno che mi aiutiate.» «Io aiutare voi?» urlò don Camillo. «Io aiutare un sacerdote che è uscito dalla retta via e cammina sul sentiero della perdizione? Io aiutare un sacerdote ribelle? Un prete irregolare?» Don Candido diventò pallido come un morto e gli occhi gli si riempirono di lacrime: «Monsignore» balbettò «perché mi dite tante cose cattive? Cosa vi ho fatto di male?». «Ma che monsignore d'Egitto!» urlò don Camillo. «Io non sono monsignore e non c'entro. Il male non lo fate a me, lo fate alla Chiesa, mettendovi contro il Vescovo!» «Io non mi sono messo contro nessuno, ve lo giuro» esclamò angosciato don Candido. «Io faccio il prete in una parrocchia dove il prete manca perché è morto.»
«E i preti, secondo voi, chi li assegna alle parrocchie? Il Vescovo o il fiduciario della sezione comunista?» «La parrocchia di Pioppina non è più riconosciuta come parrocchia dall'autorità ecclesiastica…» «Appunto per questo! Voi vi siete arbitrariamente proclamato parroco di una parrocchia soppressa. Avete quindi preso posizione contro le decisioni della autorità ecclesiastica. Comunque riceverete presto dal vescovado il pagherò.» «Non credevo di aver fatto male. Domattina lascerò la Pioppina e non mi farò più vivo.» «Dovreste farvi vivo, invece! E andare dal Vescovo a spiegare le cose e a scusarvi del vostro atto incosciente.» «Non ne ho il coraggio.» Don Candido uscì a testa china e don Camillo rimase nell'andito della canonica a camminare in su e in giù. "È giovane e scriteriato" decise tra sé alla fine. "Bisogna riportarlo sulla giusta strada." Sul sagrato c'era il figlio del Filotti col motocarrozzino. «Portami per piacere fino alla Pioppina» gli disse con Camillo. Don Candido non era in "canonica": don Camillo, dopo aver bussato alla porta per tre o quattro volte, si ritrasse per guardare la facciata della strana baracca. «Se l'è tirata su lui con le sue mani» spiegò una vecchia sopraggiungendo. «Sapete dov'è adesso?» «È al podere dei Bissi.»
Don Camillo risalì sul carrozzino e si fece portare al podere dei Bissi. Qui gli indicarono una carrareccia: «In fondo a destra». Don Camillo si incamminò e, arrivato in fondo alla carrareccia, sostò davanti a un grande campo di pomodori. Un giovanotto che stava lavorando in mezzo al campo, visto don Camillo, si avvicinò. «Cosa state facendo?» si stupì don Camillo quando scoperse che il giovanotto era don Candido. «Sto guadagnandomi la mia giornata.» Don Camillo guardò la camicia lacera, i calzoni rattoppati e le scarpe scalcagnate di don Candido. «Non fate storie: c'è il motocarrozzino sull'aia. Vi accompagno dal Vescovo io.» Don Candido non fiatò e si incamminò. Arrivato sull'aia disse: «In pochi minuti sono pronto: mi lavo le mani e mi vesto. Dovrò mettere i guanti perché il pomodoro macchia spaventosamente le mani». Don Camillo lo agguantò per il collo e lo ficcò dentro il carrozzino. «Venite così, se non siete un vigliacco!» Don Camillo montò in sella: «Fatti prestare una bicicletta e torna a casa. La moto serve a me» spiegò al Filotti che lo guardava a bocca aperta. *
«Eccellenza» spiegò don Camillo quando fu davanti al vecchio Vescovo «vorrei presentarvi un uomo impresentabile.» «Don Camillo, per caso, non hai preso un colpo di sole?» «No, Eccellenza.» «Allora scendiamo.» Scesero nel giardino del vescovado. «Fai entrare di lì l'impresentabile» spiegò il vecchio Vescovo indicando a don Camillo una porticina che si apriva nell'alto muro di cinta. Dopo due minuti don Camillo era di ritorno rimorchiandosi don Candido. «Eccellenza, lo vedete questa specie di miserabile che io ho trovato un'ora fa in mezzo a un campo di pomodoro?» Il vecchio Vescovo si accomodò gli occhiali sul naso e considerò attentamente don Candido che tremava di paura. E don Camillo, agguantando l'infelice per una spalla, gli fece fare dietro-front sì che il Vescovo potesse anche ammirarne la parte posteriore. «Eccellenza, per quanto ci pensiate, voi non riuscirete mai a indovinare chi sia questo sciagurato.» Il vecchio Vescovo squadrò ancora attentamente l'infelice e poi disse: «È il parroco della Pioppina». Don Camillo non si aspettava quella risposta e rimase perplesso.
«Eccellenza» balbettò alla fine «se avete qualcosa da dirgli io posso aspettare fuori.» «E perché?» esclamò stizzito il vecchio Vescovo. «Quello che dovevo dirgli gliel'ho già detto. È il parroco della Pioppina.» Il vecchio Vescovo si alzò dalla panchina e si incamminò verso il palazzo. «Eccellenza» esclamò don Camillo «i fedeli della parrocchia della Pioppina vogliono cambiare i Santi. Non vogliono più né Santi invernali né Santi estivi. Vogliono due Santi da mezza stagione.» Il Vescovo si fermò colpito dalla singolarità della notizia: «Due Santi da mezza stagione?» domandò. «Sì, Eccellenza» spiegò don Camillo: «San Virgilio e San Venanzio. Li hanno trovati in una chiesa sinistrata d'oltre Po e li farebbero arrivare in barca con una grande cerimonia.» «In barca?» «Sì, Eccellenza, in barca. E lui dovrebbe fare il discorso di benvenuto per i Santi nuovi e poi il discorso di commiato per i Santi vecchi. Così ha deciso la popolazione.» «E lui ci sta?» domandò il Vescovo indicando col bastoncello don Candido. «No, Eccellenza.» «E cosa fa?»
«Lascia la parrocchia e abbandona al loro destino le anime di quegli squinternati della Pioppina.» «Se toccate San Mauro e Sant'Ippolito sconsacro la chiesa!» disse, agitando il bastoncello in aria, il vecchio Vescovo. «In quanto a San Virgilio e a San Venanzio… Ebbene, se li prendano. La Pioppina avrà quattro Santi protettori. Gente così balorda è meglio che ne abbia quattro di Santi protettori anziché due. Comunicalo al parroco della Pioppina.» «Sarà mio dovere, Eccellenza» rispose don Camillo. Il vecchio Vescovo si allontanò e don Camillo, agguantato per una spalla don Candido che continuava a stare inginocchiato sul ghiaietto, lo tirò su e, uscito per la porticina, lo scaraventò dentro il carrozzino. Alla Pioppina arrivarono i due Santi da mezza stagione. Arrivarono in barca e fu una cerimonia grossa. Ricevettero un caldo benvenuto e poi furono presentati al Santo invernale e al Santo estivo e si insediarono in chiesa al fianco di essi. Presenziò anche don Camillo, come semplice osservatore, e, la mattina seguente, corse in vescovado a fare una precisa relazione. Alla fine porse al vecchio Vescovo un cestino pieno di stupendi pomodori: «Li manda a Vostra Eccellenza il giovane contadino che è stato qui tempo fa».
Il vecchio Vescovo prese il cestellino e si avviò verso la porta. Allora il segretario si precipitò: «Dia a me, Eccellenza». «Vade retro!» esclamò il vecchio Vescovo puntando il bastoncello contro il petto del segretario. «Questa è roba mia e guai a chi la tocca.» Andò a chiudersi nel suo studiolo privato e, sedutosi al tavolo, rimase lì a rimirare la cestellina di pomodori. E aveva sempre davanti agli occhi la figura del giovane contadino pallido e lacero, inginocchiato nel giardino. Poi notò che i frutti turgidi, rossi e lucenti, parevano tanti cuori. E gli parve di vederli palpitare. "Beato paese di Pioppina" sussurrò. "Avevi due Santi protettori, ora ne hai quattro. Più di quattro… Quasi cinque." In quello stesso istante un giovane contadino inginocchiato al margine di un campo del più remoto podere della Pioppina pregava: «Signore, fammi la grazia che io rimanga sempre povero sì che io possa sempre avere la consolazione del mio lavoro». Poi si segnò e, rizzatosi, prese la vanga che stava appoggiata all'olmo capofilare e incominciò a vangare. Sull'argine passò un angelo e si fermò a guardare don Candido che vangava…
Non mi fate scrivere stupidaggini, fratelli! Gli angeli non passano sugli argini. Però, qualche volta, dovrebbero passarci. Non è soltanto una mia idea, ma è anche quella del vecchio Vescovo.
215 LA NICCHIA Il giorno in cui la Desolina delle Pianche lasciò l'amministrazione terrena per raggiunti limiti d'età, tutti in paese si domandarono: «Chi sarà il disgraziato che erediterà il Crostone?». Il podere detto Crostone toccò a uno di città, e il galantuomo non ci mise molto a capire che razza di eredità gli avessero appioppato. Arrivò una bella mattina al Crostone, in macchina, assieme alla moglie, al ragazzo e alla bambina. Il vecchio Goffi, il mezzadro, stava scortecciando dei pali di pioppo in mezzo all'aia e, appena vide comparire il forestiero, buttò giù la grinta. «Buongiorno» disse il cittadino appressandosi seguito dalla piccola tribù. «È questo il podere Crostone?» Il Goffi lo squadrò: «Perché?» domandò aggressivo. Il cittadino rimase perplesso: «Scusi» balbettò «evidentemente ho sbagliato aia. Credevo che questo fosse il Crostone». «Lo è!» esclamò il Goffi riprendendo a scortecciare i pali. «E con questo?»
Il cittadino guardò la moglie; poi spiegò sorridendo al Goffi: «Io sarei il nipote della signora Desolina…». «Se la signora Desolina vuol parlare di affari, venga qui lei!» gridò il Goffi troncando con un feroce colpo di roncola la cima del palo. «La signora Desolina è morta» disse il cittadino. «Era ora!» sghignazzò il Goffi. Arrivata la conversazione a questo punto, era difficile poter riagganciare decentemente il discorso. Ma la moglie del cittadino intervenne e comunicò al Goffi: «La signora Desolina è morta e adesso questo podere è di mio marito». Il Goffi non rispose e continuò il suo lavoro. «Se non disturbiamo» domandò il cittadino «potremmo dare un'occhiata al podere?» Il Goffi piantò la roncola sul ceppo e si avviò. «Il podere è questo» spiegò arrivato all'imbocco di una lunga carrareccia. «Due quadri: uno di qua e uno di là. Il confine è quella siepe che gira tutto intorno.» I cittadini guardarono. «Bello» esclamò la signora. «Bello da guardare» muggì il Goffi. «Non da lavorare.» Ritornò verso il fabbricato ed entrò sotto la porta-morta. «Questo è il fabbricato civile» disse il Goffi spalancando un uscio di ferro. «La stalla, vorrete dire» obiettò la signora.
«No!» urlò il Goffi. «Questo è il fabbricato civile. La stalla è quest'altra qua di fronte!» Spalancò un uscio sgangherato e invitò i cittadini a entrare. «Avanti, avanti, senza paura! Noi ci viviamo da anni in questa specie di porcile. Avanti, avanti signora, così può fare dei confronti con la sua casa di città. Avete visto, bambini, dove è costretta a vivere la povera gente che si scanna per guadagnare un pezzo di pane?» La cucina si era riempita di gente: uomini dalla faccia cattiva, donne malgarbate, qualche ragazzino malcreato. La casa era veramente brutta e il cittadino allargò le braccia desolato: «Mi dispiace sinceramente: ma ho ereditato questo podere da una settimana e non posso fare altro che darle ragione». «La ragione si dà agli stupidi!» sghignazzò uno degli uomini più giovani. «Dato che lei è il padrone può fare qualcosa di più.» Il cittadino era un galantuomo piuttosto timido e riservato: «Sta bene» rispose. «Manderò un tecnico per vedere.» «E cosa dovrebbe vedere il tecnico?» gridò il vecchio Goffi. «Non ha già visto lei?» «Sì, ma occorre un tecnico per stabilire l'entità dei lavori, fare un preventivo. Io non ho un'idea di quale possa essere la spesa.»
Il vecchio guardò i figli: «Cinquanta biolche di terra regalate, con quello che costa adesso la terra! E gli scoccia spendere i soldi che occorrono per aggiustare il fabbricato!». «Forse aspetta di ereditare anche quelli!» ridacchiò una delle donne. «Non ne ha bisogno!» spiegò la vecchia. «Ha tre palazzi in città e una villa al mare. Lo conosciamo bene.» «Domani manderò il mio tecnico» assicurò il cittadino. «Quel che si potrà fare sarà fatto.» I Goffi accompagnarono i cittadini fin sul limitare della porta-morta e lì si fermarono lasciandoli al loro destino. «Se dai retta a me, lo vendi subito» disse la signora quando la macchina fu uscita dall'aia. «Non conviene» rispose il marito. «Il podere è tenuto molto bene e la terra è ottima.» «Quelli sono tipi che ti faranno sputare l'anima. Non ci hanno neanche offerto un bicchiere d'acqua. È gente senza creanza.» «A vivere qui in mezzo e nella bicocca dove abitano quei disgraziati, non si può essere molto cordiali.» «Fai come credi. Io qui non ci metterò mai più i piedi. E non voglio che vengano neppure i bambini. Avevano l'Unità sulla tavola: è un covo di comunisti.» «Tutto il mondo è un covo di comunisti» borbottò il cittadino.
* Due giorni dopo il tecnico approdò al Crostone accompagnato da un aiutante e misurò tutto quel che era possibile misurare. «E allora?» domandò alla fine il vecchio Goffi. «Le fondamenta e i muri sono buoni: il resto è tutto da rifare.» «Lo sapevamo anche noi: non c'era bisogno di un tecnico per scoprirlo.» «C'è sempre bisogno del tecnico in ogni cosa» replicò il geometra. «Anche quando uno è morto lo sanno tutti che non tira più il fiato. Eppure c'è bisogno del dottore che faccia la dichiarazione di morte.» «Verrà il giorno in cui non ci sarà più bisogno del tecnico per stabilire che un mangiasangue del popolo è morto ammazzato!» gridò con ferocia uno dei Goffi. «Glielo faremo noi il lasciapassare per il cimitero! Anche se non abbiamo la laurea in medicina.» Il tecnico si strinse nelle spalle e, risalito in macchina, tagliò la corda. «L'unico lavoro di miglioria che si potrebbe fare» spiegò all'aiutante «sarebbe quello di mettere una bomba al tritolo sotto la casa quando loro sono a letto. Il podere raddoppierebbe, come minimo, il suo valore.»
Ma il padrone del Crostone non approvò questo progetto e ne volle uno dei soliti; diede anzi le sue precise direttive al tecnico e così, un mese dopo, arrivarono al Crostone materiali e muratori. «I lavori vengono fatti in due tempi» spiegò il capomastro ai Goffi riuniti attorno a lui. «Prima si fa la parte nuova: finita la parte nuova voi abbandonate la vecchia e si incominciano le riparazioni.» Illustrò il progetto e il vecchio Goffi borbottò: «Si vede che gli crescono i soldi, a quel macaco. Sono tutti così quei cretini di città». I lavori della parte nuova incominciarono e tutto pareva dovesse funzionare tranquillamente ma, improvvisamente, scoppiò la grana. I muratori già avevano tirato su i muri fin quasi all'altezza del primo piano, quando il vecchio lanciò un urlaccio al muratore che stava lavorando sopra quella che sarebbe stata la nuova porta d'ingresso. «Cosa stai facendo?» «La nicchia» rispose il muratore. «Che nicchia?» «Quella segnata qui nel disegno: la nicchia della Madonna.» I Goffi, sentendo starnazzare il vecchio, arrivarono tutti in branco. «Niente nicchie!» ordinò il vecchio Goffi. «Le tue Madonne mettile in chiesa.»
«Io non metto niente» borbottò il muratore. «Io faccio quel che trovo sul disegno.» «Riempi quel buco se non vuoi avere dei guai!» Sopraggiunse il capomastro: «Io sono agli ordini del proprietario» disse. «È lui che mi paga e devo fare quello che vuole lui. Non dovete parlare con noi, ma col proprietario.» Il caso volle che il cosiddetto proprietario arrivasse proprio in quel momento. Scese dalla macchina e, tranquillo e beato, si appressò al gruppo: «Tutto bene?» si informò. «No» rispose cupo il Goffi. «Tutto male.» «Perché?» «Niente nicchie, niente Madonne. Niente politica.» Il padrone impallidì: «Cosa c'entra la politica?». «C'entra. Se io venissi in città e facessi sopra la porta di casa sua una nicchia e ci mettessi Maometto, lei cosa direbbe?» «Maometto? Ma noi siamo cristiani…» «La Madonna è per noi quello che per lei è Maometto. Niente nicchie. Niente Madonne.» Il proprietario era un uomo timido e riservato. Poche parole, dette sottovoce, sempre con garbo: «Non sapevo» si dolse. «Mi dispiace.» «Niente di male: non si fa la nicchia e tutto va a posto.»
«Non immaginavo» continuò il cittadino. «Credevo foste cristiani come me.» «Siamo quel che siamo. Affare liquidato.» «Affare liquidato» approvò il cittadino. Poi, voltosi al capomastro, spiegò: «Smetta. Tiri giù tutto quel che è stato fatto. Le fondamenta è inutile cavarle. Carichi i materiali nuovi e di ricupero. Da questo momento pago soltanto i lavori di demolizione e di ricupero». I Goffi rimasero sbalorditi. «Ehi, ha voglia di scherzare?» domandò alla fine il vecchio. «Io non scherzo mai» rispose timido e garbato il cittadino. «Non si tocca niente!» urlò il Goffi, «il primo che ha il coraggio di toccare un mattone va via di qui con la testa rotta!» Il cittadino impallidì ancora di più. Salì lentamente sul ponte poi, agguantato un martello, incominciò a demolire il muro ancor fresco. Quando fu stanco, lasciò il martello e scese. «Mi dispiace» esclamò. «Ma troppe volte la Madonna mi ha aiutato quando mi lanciavo col paracadute in guerra. Non posso farle un dispetto così grosso.» Il cittadino si allontanò, risalì in macchina e partì senza che i Goffi aprissero bocca. Ritrovarono la parola quando la macchina disparve:
«Avremo il tempo di regolare privatamente i conti con quel bullo» disse il vecchio. «In quanto a voi, badate a quello che fate.» Il capomastro si strinse nelle spalle: «Io non cerco grane. State tranquilli che io qui non ci metto più piede. Arrangiatevi con lui». «Idem anche noi» borbottarono i muratori raccogliendo gli arnesi. «Arrivederci presto!» esclamò il vecchio Goffi. «Vedrete che a quel tipo gli faremo rimangiare nicchia e mattoni.» Passarono tre giorni senza che nessuno si facesse vivo. Finalmente arrivò un camion con una decina di giovanotti forestieri. I Goffi balzarono tutti nell'aia ma, in quell'istante, apparvero anche quattro carabinieri. I giovanotti saltarono giù dal camion e si appressarono all'impalcatura. Quello che funzionava da capo impartì degli ordini e i giovanotti incominciarono il loro lavoro di demolizione. I Goffi perdettero la testa e si buttarono tutti contro i giovanotti. Ma costoro erano troppi e troppo decisi per lasciarsi impressionare. Inoltre, i carabinieri si interposero subito. «È un sopruso! È una provocazione!» urlò esasperato il vecchio Goffi. «L'autorità non può aiutare dei delinquenti che vengono a distruggermi la casa!» «Nessuno toccherà la vostra casa» replicò il capo dei giovanotti. «Quel che avevate prima lo avrete ancora. Non vi
togliamo niente. Noi ritiriamo dei materiali che non vi serviranno mai in quanto la casa nuova non sarà mai più costruita.» «Lo dici tu!» ruggì uno dei Goffi. «Non lo dico io: lo ha detto il principale. E quando il principale dice una cosa, la fa.» Venne a galla improvvisamente Peppone, cui lo Smilzo aveva segnalato spostamenti sospetti di forze nemiche verso il Crostone. «Cosa succede?» s'informò Peppone saltando giù dalla moto. «Capo!» urlò uno dei Goffi. «Guarda cosa stanno facendo questi delinquenti! E i carabinieri li proteggono.» «I carabinieri non proteggono i delinquenti!» precisò una voce. E si trattava di quella del maresciallo. Peppone cercò di accomodare la faccenda: «Maresciallo, l'intenzione di questo giovanotto non era di offendere i tutori dell'ordine. La prego di tener conto dell'esasperazione di un lavoratore che si vede distrutta la casa dal capriccio di un proprietario. Questo è un sopruso che indigna l'intera massa lavoratrice. La casa è sacra». «Noi non tocchiamo la casa» ripetè paziente il capo dei giovanotti. «Noi ricuperiamo materiale inutilizzabile qui e utilizzabile altrove. Se il mezzadro ha il diritto di non volere la nicchia, il proprietario ha il diritto di non volere una casa senza nicchia.»
«Sono trent'anni che io abito in questa casa e nessuno mi ha imposto di fare degli altarini sulla porta» urlò il Goffi. «Continuate ad abitarci senza altarini» replicò il giovanotto. «Il principale voleva la nicchia nella casa nuova. La casa vecchia non l'ha mica fabbricata lui. Se l'avesse fabbricata lui, la nicchia ce l'avrebbe fatta.» Il giovanotto fece un cenno e i suoi compagni ripresero la demolizione. Ma il lavoro non durò molto: «Alt!» gridò il Goffi. «Io il mio dovere l'ho fatto. Io ho denunciato all'opinione pubblica il sopruso del proprietario. Della casa ho bisogno: proseguano pure i lavori e si faccia pure la nicchia; però si sappia che io la Madonna non è che l'accetto, la subisco!» «Bravo!» approvò Peppone. «Sia fatta la casa e abbia sulla porta l'emblema clericale; passando davanti a questa casa la gente libera dirà: "Ecco la Madonna del sopruso!"». I giovanotti smisero lo smantellamento e se ne andarono. I lavori ripresero il giorno seguente e, quando la casa fu finita, il proprietario si rifece vivo. Aveva una scatola: ne trasse una Madonnina di ceramica e la mise lui stesso dentro la nicchia. «È bellissima» osservò quando fu disceso dalla scala a pioli. «Domenica farò ancora una scappata: voglio che la vedano i bambini. L'hanno comprata loro.»
I Goffi fecero finta di non sentire. E forse non sentirono neppure perché stavano lavorando come maledetti per sistemare il mobilio nella casa nuova e in quella rinnovata. La domenica mattina il proprietario arrivò con la moglie e i bambini. Fermò la macchina nell'aia e, tirata giù la tribù, si avviò verso la casa. «Guardatela, non è stupenda?» domandò ai bambini indicando la Madonnina della nicchia. «Guard…» Si interruppe, ma era troppo tardi: orrendamente nera e mostruosa nella nicchia candida, al posto della Madonnina dal manto azzurro, stava una bottiglia con l'etichetta: «Lambrusco». Qualcosa di abominevole, di diabolico: tanto che ne ebbero tutti paura e, risaliti in macchina, fuggirono sgomenti. I Goffi, appostati dietro le gelosie socchiuse, si tenevano la pancia per il gran ridere. «Così impari, porco maledetto!» urlò il vecchio. Era la festa dell'inaugurazione della casa nuova e i Goffi rimasero a tavola tutta la giornata. E quando fu vicina la mezzanotte tutti se ne andarono a letto perché erano pieni di vino e di mangiare fino agli occhi e il vecchio rimase solo a guardare la gran sfilata di bottiglie vuote sulla lunga tavola. Bottiglie di vetro nero, orrendamente nere sulla tovaglia bianca. Si sentì mancare il respiro e si alzò per andare nell'aia.
Uscì e camminò senza voltarsi: poi, dopo alcuni passi, dovette voltarsi per guardare la bottiglia nera nella nicchia sopra la porta. La luna picchiava contro la facciata bianca e illuminava la nicchia, ma non successe niente di quel che sperava il vecchio; il Goffi vide quello che c'era nella nicchia: l'orrenda bottiglia nera che egli aveva messo quel mattino al posto della Madonnina di ceramica. E non un nervo gli si mosse. Allora si sentì l'animo invaso da una tremenda angoscia: la paura di dover vivere.
216 TRIPLO CONCENTRATO Tutto faceva pensare che sarebbe stata un'annata straordinaria anche per il pomodoro. Invece, a un bel momento, incominciò a piovere e non smetteva più, e così i pomodori che stavano maturando e avevano bisogno soltanto di sole si immagonarono e intristirono. Appena il Cornetti vide arrivare in fabbrica i primi carichi di pomodoro, si mangiò le mani. Il Cornetti era un galantuomo e, piuttosto che inscatolare porcheria, ci stava a rimetterci il cotto e il crudo: non poteva buttare nelle bolle quella roba e diede ordine di fare una scelta rigorosa. Gli rimase ben poco tra le mani e, lavorato il pomodoro, gli venne da piangere. «A inscatolare quella roba c'è da rimetterci scatole e reputazione» disse al capofabbrica. «Se il raccolto si accomoda, col prodotto nuovo aggiusteremo il vecchio. Se il raccolto continua con questo andiamo, butteremo via tutto, il nuovo e il vecchio.» La fabbrica della Bovara era piccola ma lavorava meglio di tutte le altre e il triplo concentrato «Tre cuori» godeva la piena fiducia di una vecchia clientela affezionata e,
quindi, esigente: il Cornetti non poteva sgarrare e, quell'anno, visse i giorni più duri della sua esistenza. Alle quattro della mattina era già in macchina e per tutto" il giorno, fino all'ultimo barlume di sole, si scannava a girare da un podere all'altro per andare a controllare il pomodoro nei campi. Se la giornata fosse stata di ventiquattromila ore anziché di ventiquattro, il Cornetti avrebbe controllato il pomodoro pianta per pianta, perché gli pareva che, per il solo fatto di sentirsi guardato dal padrone della fabbrica, un pomodoro non potesse non migliorare. Il Cornetti aveva l'idea che la luce dei suoi occhi dovesse dare al pomodoro quel calore che il sole negava. Poi, oltre al pomodoro, bisognava controllare i coltivatori: tutta brava e buona gente ma che, davanti ai quattrini, non ragiona più. E il Cornetti sapeva per esperienza che quello era un momento critico. Quando il pomodoro va male, tutte le fabbriche di conserva vorrebbero del frutto sano per tirar su di tono il prodotto tratto dal frutto malato: allora pagano qualunque somma per il frutto buono e il coltivatore, che è vincolato per contratto alla fabbrica X, tira a portare il frutto scadente alla fabbrica X e a vendere di nascosto ad altra fabbrica il frutto scelto. Nei periodi critici del pomodoro viaggiano, nottetempo, per le strade secondarie della Bassa, camion misteriosi che, a un certo momento, svicolano in una carrareccia e si perdono
in mezzo ai campi fino ad arrivare al punto ove c'è gente che aspetta per caricare le cassette piene di pomodoro. E, una volta caricato il contrabbando, i camion riprendono la strada e si perdono nel buio. Il Cornetti stava con gli occhi bene aperti e, quando il momento critico venne, se ne accorse immediatamente: il pomodoro visto nei campi dava segni di indubbio miglioramento, ma a guardare il frutto che arrivava in fabbrica niente pareva migliorato. Allora si mise a girare anche di notte e mandò in giro due guardie giurate e riuscì a pizzicare parecchi villani traditori con le mani nel sacco e a ricuperare grossi carichi di frutto scelto, già in marcia di trasferimento. Questo valse a chiudere molte falle della barca: non tutte. E tra le falle rimaste aperte figurava naturalmente quella del Filotti. Il Filotti era il coltivatore più importante e, per quanto il Cornetti riscontrasse nella coltura del Filotti un continuo miglioramento del pomodoro, in fabbrica continuava ad arrivare prodotto scadente. Al Cornetti dispiaceva mettersi in urto col Filotti, e cercò in tutti i modi di fargliela capire con bella maniera. Ma, poiché la storia non accennava a finire e il salasso minacciava di compromettere tutta la produzione, il Cornetti decise di adottare la maniera forte. Chiamò le guardie giurate:
«Lasciate perdere il resto e controllate giorno e notte il Filotti». I due fecero una faccia poco allegra. «C'è qualcosa che non va?» si informò il Cornetti. I due si guardarono, poi uno borbottò: «Non ce la sentiamo di metterci nei guai». «Nei guai?» gridò il Cornetti. «Filotti non è forse uguale a tutti gli altri?» «Lui sì» rispose l'uomo. «Ma c'è di mezzo qualcuno al quale volentieri spareremmo una schioppettata ma che, per cose nostre personali, è meglio non incontrare.» «Va bene» esclamò il Cornetti. «Ci penso io. Voi continuate il solito servizio.» Appena il sole cadde dietro i pioppi del fiume grande, il Cornetti partì. Non prese l'automobile per non dar nell'occhio, saltò sulla moto del capofabbrica e navigò per vie traverse. La tenuta del Filotti era a casa di Dio, isolata completamente, e, per arrivare all'aia, bisognava, finita la comunale, percorrere un vialone lungo più d'un chilometro. Quella era l'unica via autocarrabile che uscisse dall'aia di Filotti e il Cornetti, giunto a metà viale, nascose la moto dentro il fossatello laterale e attese appostato dietro il tronco d'uno degli alti pioppi che costeggiavano il vialone. Dovette aspettare quattro ore intere, ma non aspettò invano. Infatti, verso la mezzanotte, un autocarro proveniente dall'aia del Filotti venne avanti a fari spenti.
Il Cornetti lo lasciò passare per assicurarsi che si trattava di un carico di pomodoro e, quando se ne fu assicurato, saltò sulla moto e, raggiunto l'autotreno, lo superò e gesticolando e urlando fece capire al guidatore che fermasse. L'autotreno si arrestò e il guidatore mise fuori la testa dal finestrino della cabina. «Cosa c'è?» Il Cornetti si avvicinò. «Fermo lì!» intimò il guidatore. «Di notte non mi piace la confusione.» Il compagno del guidatore stava sulla difensiva allo sportello dell'altro lato del camion. La luce di una lampadina elettrica tascabile sbatté sulla faccia del Cornetti che s'era arrestato. La luce si spense e il guidatore scese dalla cabina. «Cosa vuole lei?» domandò minaccioso. «Vorrei sapere dove va quel pomodoro.» «Dove mi pare e piace. Affari miei.» «Affari più miei che suoi perché quel pomodoro l'ho comprato io e mi spetta di diritto.» «Io non so neanche chi lei sia, sgomberi il passaggio.» «Io invece lo so chi è lei, signor sindaco» rispose il Cornetti. L'omaccio si appressò: «Il sindaco riceve domani in municipio. Qui non ci sono sindaci e non si deve parlare di sindaci». «Sta bene, signor Bottazzi: parliamo di pomodoro.»
Peppone si mise a ridere. «Ne parli con chi commercia in pomodoro. Io faccio l'autista e lavoro per chi mi fa lavorare.» «Siccome chi la fa lavorare è il Filotti…» «Siccome niente! Cosa c'entra il Filotti?» «C'entra per la semplice ragione che lei sta arrivando da casa del Filotti dove ha caricato questo pomodoro.» Peppone sghignazzò: «Smilzo!» urlò. «C'è qui un tipo il quale dice che noi abbiamo caricato questo pomodoro dal Filotti!» «È pazzo!» rispose lo Smilzo affacciandosi. «È pomodoro che abbiamo caricato a Cremona e al quale facciamo fare un giro turistico per visitare le bellezze artistiche del nostro Comune.» La battuta rallegrò Peppone che si spanciò dalle risa. «Lei ha voglia di scherzare ma io no» replicò il Cornetti. «Questo pomodoro è mio e deve essere portato alla mia fabbrica. Io la avverto come stanno le cose: se il pomodoro non verrà alla mia fabbrica, anche lei sarà responsabile dei danni che il Filotti mi procura con la sua azione disonesta.» Peppone si tirò sulla fronte la tesa del cappello e, appressatosi al Cornetti, lo agguantò per gli stracci del petto inchiodandolo contro il tronco del grande pioppo ai piedi del quale l'uomo si era arrestato. «Non mi rompa l'anima né adesso né mai, o io approfitto dell'occasione per saldare il vecchio conto che è rimasto in sospeso fra noi due.»
Il Cornetti che era magro come un chiodo stentava a respirare. «La politica non c'entra!» balbettò. «Non avrebbe dovuto entrarci neanche allora, quando lei era quello che era e mi ha fatto quella passata. Quindi la politica c'entra. Io non voglio più avere a che fare con lei, né con quelli della sua famiglia, né con quelli della sua azienda.» Non allentò la stretta ma spinse ancor più forte il disgraziato contro il tronco del pioppo gridando: «Smilzo, sistemagli il motociclo. Il tipo ha voglia di fare una passeggiata a piedi fino a casa». Lo Smilzo scese dalla cabina, sgonfiò i pneumatici della motocicletta e, svitato il tappo del serbatoio, adagiò la macchina per terra. «Qui non ci sono testimoni» disse cupo Peppone «e io potrei farle la pelle e buttarla in un fondone dello Stivone. Mi accontento di avvertirla che se lei, direttamente o indirettamente, mi capita ancora tra i piedi, le cavo le budella e gliele metto al collo così ci attacca per pendaglio il brevetto della marcia su Roma.» «Io non le ho fatto niente di male» ansimò il disgraziato. «Quella volta le ho detto semplicemente quello che dovevo dirle.» «È il tono che fa la musica!» gridò Peppone. «Se io fossi ancora un dipendente della sua sporca fabbrica, adesso lei di sicuro non mi parlerebbe col tono di allora.»
«Se lei facesse il suo mestiere male come lo faceva allora, le direi le stesse cose.» «Basta! Discussione finita» disse Peppone mollando il disgraziato. «Smilzo, metti in moto.» «Mi meraviglio che lei si faccia complice del campione mondiale di quelli che il suo partito chiama "agrari sfruttatori".» «Mi servo di una pellaccia per danneggiare un'altra pellaccia. Attento ai calli e dica ai suoi scagnozzi di starmi lontano perché, se sparano, sparo prima io.» Risalì sul camion e, chiusa con un colpo maledetto la portiera, ingranò la marcia. Il Cornetti arrivò a casa verso le due di notte e la moglie che lo aspettava ancora alzata appena lo vide rimase senza fiato. «Cosa t'è successo?» «Niente.» Quando alle donne si spiega che non è successo niente, quella è proprio la volta in cui esse vogliono sapere tutto dall'a alla zeta. Il Cornetti dovette raccontare tutto per filo e per segno e la moglie alla fine esclamò: «Lascia perdere il Filotti e quell'altro maledetto. Non ti mettere nei guai, non esporre a rappresaglie fabbrica e famiglia». «Lascio perdere tutto» rispose il Cornetti con tristezza. «Sono stanco, non ce la faccio più. Sono solo contro tutti.
Chiudo la baracca. Qualche Santo mi aiuterà. Se Paolo, invece di dodici anni, ne avesse venti, non ci penserei un minuto a imbarcarmi per l'Argentina, mi sembrerebbe di ritornare giovane. Adesso mi pare di avere non cinquantacinque anni, ma un secolo. Povero Paolino… Vedi di non fargli capire niente. Ha tutta la vita davanti per rodersi l'anima.» Ma Paolino incominciò proprio in quel momento a rodersi l'anima perché aveva sentito tutto, parola per parola. * La sera seguente Peppone ritornò all'aia del Filotti perché un altro carico era pronto. Stivato l'autocarro si avviò per la strada del ritorno: era sicuro che il Cornetti aveva perfettamente capito l'antifona. A ogni buon conto c'era lo Smilzo che, stavolta, non stava in cabina con lui ma gli faceva da avanscoperta in motocicletta. Tutto pareva funzionasse perfettamente e c'era la più smagliante luna d'agosto che mai si fosse affacciata dal finestrino del cielo. Il Dodge di Peppone procedeva a gonfie vele lungo il viale dei pioppi e ben presto giunse allo sbocco nella strada comunale. Qui, per non finire dentro il fosso, bisognava fare la strettissima curva a passo di lumaca in prima e lavorando anche con la frizione.
E fu proprio nella curva che successe il fatto: la portiera di destra si aperse e qualcuno sgusciò dentro la cabina. Peppone bloccò la macchina e si volse per agguantare lo sconosciuto e stritolarlo. Ma non si trovò niente, o poco più di niente, tra le mani, e, mollata la presa, domandò: «Da dove salti fuori, macaco?». Lo sconosciuto non rispose. «Ebbene? Cosa vuoi?» «Mi porta a casa, per favore?» disse una voce esitante di ragazzino. Peppone si strinse nelle spalle: «Dove stai?». «Alla Bovara.» «Non passo di lì» spiegò Peppone. «Non è vero, signore.» A sentirsi chiamar «signore» da una vocina così gentile, Peppone rimase imbarazzato. «Perché dici che non è vero?» domandò. «Perché lei sta portando i pomodori del signor Filotti alla fabbrica, e la fabbrica è alla Bovara.» Peppone accese la lampadina del cruscotto e guardò in faccia il ragazzino. «Come ti chiami?» domandò parlando fra i denti. «Paolo Cornetti.» Peppone spense la lampadina. «Chi ti ha mandato qui?» domandò con voce sorda.
«Nessuno, signore! Lo giuro. Sono scappato senza che nessuno lo sappia. Io, ieri sera, ero ancora sveglio quando papà parlava con la mamma e ho sentito tutto.» «Sono affari che non mi interessano» gridò Peppone con malgarbo. «Io non so niente. Io so soltanto che non passo dalla Bovara.» In quel momento arrivò lo Smilzo che accostò fin sotto la portiera della cabina. «Capo, cosa ti succede?» «Smilzo, prendi questo ragazzino e portalo alla Bovara. Poi mi raggiungi.» Il ragazzino non si mosse. «Spicciati!» gli disse Peppone. «Non ho tempo da perdere.» Il ragazzino continuò a rimanere immobile, allora Peppone spalancò la portiera e, sollevato di peso il ragazzino, lo allungò allo Smilzo. Ma lo Smilzo non fu lesto a catturarlo e il ragazzino sgusciò via e si allontanò di corsa. «Va' all'inferno!» gridò Peppone. «Tu e tutta la tua razza.» Lo Smilzo riprese il servizio di avanscoperta e Peppone, rimesso in moto il Dodge, si avviò. Dopo trecento metri raggiunse il ragazzino che camminava lestamente sul ciglio della strada.
Dire lestamente è poco perché, per quanto Peppone si sforzasse, non riusciva a sorpassarlo e gli rimaneva sempre alle spalle e la storia continuò per cinquecento metri buoni. E il fenomeno diventò ancora più singolare quando il ragazzino si fermò. Allora, infatti, anche il Dodge si fermò. Questo fece perdere la pazienza a Peppone che, saltato giù dalla cabina, affrontò il ragazzino e urlò: «Se io fossi tuo padre ti prenderei a schiaffi!». «Perché?» domandò il ragazzino timidamente. Peppone non se l'aspettava una domanda così difficile e non seppe trovare una risposta decente. «Perché non sei montato in moto?» borbottò Peppone tanto per cavarsela. «Ho la bicicletta» spiegò il ragazzino. «L'ho lasciata qui dietro la siepe.» Il ragazzino imboccò il ponticello di una carrareccia e, di lì a poco, riapparve conducendo una bicicletta. «Buona notte» disse il ragazzino salendo in sella e incominciando a pedalare. Peppone risalì e avviò il Dodge. Cosa avesse nella pancia quel maledetto Dodge Peppone non riusciva a capirlo: il fatto è che per raggiungere il ragazzino ci impiegò quasi cinque chilometri e non ebbe neanche la soddisfazione di sorpassarlo perché, quando era lì lì per raggiungerlo, il ragazzino gli sgusciò via scomparendo in un vialetto.
E poiché Peppone si accorse di trovarsi proprio sul piano della pesa della fabbrica della Bovara, bloccò il Dodge e, sceso dalla cabina, incominciò a urlare come un satanasso che lui non aveva tempo da perdere, e che si sbrigassero a pesare quel cànchero di pomodoro altrimenti lui metteva in moto l'elevatore del cassone ribaltabile e gli scodellava le cassette lì sul cortile. Corsero in dieci a pesare il carico e a scaricare le cassette. E quando gli porsero la bolletta di ricevuta, Peppone scosse il capo: «Dategliela voi al Filotti: io non ho più occasione di passare da lui». Mentre Peppone stava per risalire sul camion già scaricato, apparve il Cornetti che, sentito tutto quel fracasso e quelle urla, s'era buttato giù dal letto rivestendosi in fretta e furia. «Cosa succede?» domandò. «Niente» gli rispose Peppone senza voltarsi. Salito in cabina, si sporse e, a voce bassa, spiegò al Cornetti: «Prima mi servivo della pellaccia A per fregare la pellaccia B, adesso mi servo della pellaccia B per fregare la pellaccia A. Cambiando gli ordini del fattore il prodotto non cambia». Partì a tutta birra facendo una giravolta da togliere il fiato e imboccando il cancello di stretta misura. «Capo!»
Appena sulla strada dovette bloccare perché lo Smilzo lo aveva chiamato. «Capo» balbettò lo Smilzo «è un'ora e più che ti sto cercando.» «E mi hai trovato?» «Sì, capo.» «Bene. Allora puoi smettere di cercarmi.» Intanto, con tutte queste storie, era arrivata l'alba e Peppone, volgendo l'occhio verso il viottolo nel quale era scomparso il ciclista, si accorse che il viottolo era lungo sì e no cinque metri e portava all'ingresso d'una palazzina. E si accorse pure che, a una finestra del primo piano della palazzina, era affacciato il ragazzino famoso. «C'è poco da ridere!» borbottò Peppone ingranando la marcia. In realtà il ragazzino non rideva, sorrideva. Ma Peppone era un estremista e portava tutto all'esasperazione. Il Dodge partì con un balzo da Alfa Romeo e lo Smilzo, visto che anche a pensarci non riusciva a capirci un accidente di niente, risalì in moto e se ne andò a letto mormorando: «Credere, obbedire e combattere. Dove non arriva il ragionamento subentra la fede nella sacra causa della rivoluzione proletaria». E la fede subentrò e accompagnò a letto lo Smilzo. Buon riposo, compagno.
217 GERDA Una mattina dell'ottobre del 1944, arrivò al Palazzone una squadra di soldati tedeschi. Erano in piena tenuta da guerra, con una quantità incredibile d'armi addosso e li comandava un sottufficiale alto un metro e ottanta che urlava come un maledetto. Il vecchio Rolli, investito da una raffica di parole tedesche, allargò le braccia: «Io non ho fatto niente» balbettò. «Voi italiani non fate mai niente!» ruggì lo scatenato in un italiano molto approssimativo ma assai efficace. «Voi italiani tutti angioletti con le ali.» Finì il suo discorso in tedesco ma il vecchio Rolli, pur non comprendendo una sola parola, capì ugualmente il senso dell'invettiva e si preparò al peggio. Il sottufficiale fece cenno al Rolli di seguirlo e si avviò decisamente verso il parco, dietro al palazzo. Qui giunto, si fermò e si guardò attorno; poi borbottò qualcosa a due della squadra indicando la pianta più grossa. E i due, con la rotella metrica, misurarono la circonferenza del tronco a una spanna da terra e urlarono la misura al sottufficiale. Il guerriero prese nota su un libretto: «Nome!» intimò al Rolli.
«Antonio Rolli» rispose il vecchio. «Non il vostro nome! Lo so. Voglio il nome dell'albero.» «Noce d'America.» Il sottufficiale scribacchiò qualcosa sul libretto poi spiegò al Rolli: «Far tagliare subito l'albero e dopodomani portarlo a Torricella. Tagliarlo a venti centimetri da terra». Il noce americano dei Rolli era una pianta secolare stupenda. Qualcosa di fenomenale, di incredibile: e se al Rolli avessero permesso di scegliere fra l'abbattere la casa e l'abbattere il noce americano, avrebbe preferito mettere una tonnellata di dinamite sotto il palazzo. Il Rolli era vecchio e malandato, vedovo da anni e annorum e con l'unico figlio prigioniero in Germania: la faccenda del noce americano rappresentava, in fondo, una sciocchezza al confronto degli altri guai. Eppure, sentendosi ordinare di segare il noce, il Rolli strinse i pugni. «Ha capito bene?» domandò minaccioso il sottufficiale. «Perché dovrei tagliare quella pianta?» replicò il Rolli. Era una domanda stupida, perlomeno. I tedeschi si preparavano alla difesa a oltranza e pareva che il loro piano fosse quello di difendersi a bastonate o a pancate tanta era la loro smania di accumulare riserve di legname. Il sottufficiale guardò ferocemente il vecchio: «Gli ordini non si discutono!» urlò. «Tagliare l'albero! Questo è l'ordine.»
«Va bene» disse il vecchio Rolli. «È facile tagliare quell'albero. Ma poi, il Grande Reich, sarà capace di rifarmene uno uguale alla fine della guerra?» Il sottufficiale seppellì il Rolli sotto una valanga di prosa tedesca concludendo in italiano: «Dopodomani, l'albero tagliato a Torricella!». La squadra se ne andò e il Rolli rimase nel parco a guardarsi il noce americano. * Tre giorni dopo, il sottufficiale tornò al Palazzone. Era furibondo: «Perché lei non ha fatto tagliare l'albero?». Il Rolli per tutta risposta si strinse nelle spalle. «Dopodomani se l'albero non è tagliato io la faccio fucilare» urlò il sottufficiale. «Può fucilarmi subito perché io non farò tagliare l'albero» rispose tranquillo il Rolli. Il tedesco sghignazzò: «Vedremo se dopodomani sarà della stessa idea». Ma il vecchio Rolli era testardo e non cambiò idea. Quando, allo scadere del termine, il sottufficiale tornò, lo trovò seduto ai piedi del noce americano.
Il tedesco guardò il vecchio, poi guardò il noce colossale, poi ancora guardò il vecchio. Sputò per terra in segno di profondo disprezzo: «Il Grande Reich vincerà la guerra anche senza il vostro albero» affermò. Se ne andò e parve non dovesse farsi più vedere ma, un mese dopo, ritornò a galla: «Il nostro comando è stato avvertito con otto lettere anonime che, mentre tutti gli altri proprietari hanno eseguito l'ordine di tagliare gli alberi, lei non lo ha eseguito. Se la cosa risulterà vera, io sarò punito dai miei superiori». Il Rolli scosse il capo: «Va bene» rispose. «Se le cose stanno così, oggi farò tagliare la pianta e domani la farò portare a Torricella.» Il sottufficiale non disse niente: andò nel parco a rimirarsi il noce americano e, nell'atto di risalire sulla motocicletta, ordinò perentorio al Rolli: «Lei non tagli l'albero se prima non ha ricevuto la nostra autorizzazione». Di lì a due ore era di nuovo al Palazzone assieme a un giovane ufficiale al quale, carta topografica alla mano, spiegò un sacco di cose indicando spesso il gigantesco noce. Il giovane ufficiale, alla fine, parve completamente convinto. Evidentemente lo fu perché, la settimana seguente, il sottufficiale si insediava al Palazzone assieme a una piccola squadra di soldati comunicando con voce terribile al Rolli:
«Noi requisiamo il suo albero perché ci serve come osservatorio». Sul noce americano fu costruita difatti una piccola piattaforma alla quale si accedeva con un ingegnoso sistema di scale a pioli. «L'aquila tedesca ha fatto il nido sul noce americano» commentò il Rolli quando l'osservatorio incominciò a funzionare, e il sottufficiale sorrise. Ma c'era tanta tristezza nei suoi occhi che il vecchio sentì il dovere di sussurrare: «Mi scusi». * Arrivò rapidamente la primavera e, con la primavera, arrivarono i giorni del pasticcio finale. Quando il noce americano incominciò a rimettere le foglie, il sottufficiale e la sua squadra caricarono la loro roba sul camioncino e lasciarono il Palazzone. L'ultimo a partire fu il sottufficiale che, lanciato il razzo, avrebbe seguito l'autocarro in motocicletta. E così avvenne: l'autocarro con la squadra, arrivato oltre il ponte sullo Stivone, si fermò e attese che il sottufficiale, rimasto di vedetta in cima al noce, desse il segnale di via libera. Visto che tutto in giro era tranquillo, il sottufficiale fece partire il razzo verde. Poi discese e, giunto ai piedi del noce
americano, cavò di tasca un coltello e, ripulito un pezzettino di corteccia, vi incise: «Franz -10 aprile 1945». Quand'ebbe finito e si volse, si trovò davanti il vecchio Rolli che gli tese la mano e gli disse: «Dio la protegga». Il sottufficiale saltò sulla moto e schizzò via. Passato lo Stivone, si fermò un momento per dar fuoco alla miccia che già i suoi uomini avevano preparato e si accucciò dietro l'argine. Dopo un minuto il pilone centrale del ponte si sgretolò trascinando nel letto del fiume tutta la baracca. Allora il tedesco risalì in moto e partì, ma, prima, volle rimirarsi ancora una volta il suo noce. «I ponti si rifanno in poche settimane» borbottò. «Per rifare una pianta così ci vogliono dei secoli.» Il figlio del Rolli tornò dalla Germania nell'agosto e trovò suo padre che l'aspettava ai piedi del noce americano. E il padre strinse la mano al figlio reduce, stando coi piedi proprio lì dov'era quando aveva stretto la mano al tedesco. E fu sotto quel noce che il vecchio trascorse gli ultimi giorni della sua esistenza quando, cinque o sei anni dopo il ritorno del figlio, se ne andò per sempre dal Palazzone. Così il giorno in cui il mediatore Tognone venne a dire al giovane Rolli che c'era un tizio di Milano disposto a dargli
un milione per il noce americano, il Rolli lo cacciò via come un cane. Tagliare il noce americano sarebbe stato come fare un dispetto alla memoria del vecchio Rolli. E poi quella pianta aveva assistito a tanti fatti importanti da diventare quasi un personaggio di famiglia. Ma non c'è razza più tremenda di quella dei mediatori. Non esiste al mondo gente più malcreata dei mediatori. Se li cacciate dalla porta, rientrano dalla finestra. E, quando credete di aver concluso un affare senza che ci sia stato di mezzo ombra di mediatore, ecco che ne saltano fuori come minimo tre. E uno urla che, quel mercoledì, mentre voi passavate in macchina nel tal posto, vi ha gridato che «quella cosa là era matura». L'altro giura che l'affare l'aveva in mano prima lui e voi l'avete saputo perché lui ve lo ha fatto dire dal figlio del mugnaio. E il terzo geme che, se non c'era lui a lavorare sotto sotto, avreste speso un milione di più. E tutti vi dicono queste cose in pubblico. E gridano come maledetti, picchiandosi grandi manate sul petto, atteggiandosi a galantuomini imbrogliati da un emerito mascalzone. E minacciano citazioni, tribunali, e spiegano al popolo che vi mangeranno perfino la camicia. Non c'è razza più infida di quella dei mediatori: se un disgraziato cade nelle loro grinfie è finito. Naturalmente ci sono anche delle persone per bene, fra i mediatori: ma hanno scarso successo e sono essi stessi le vittime dei mediatori in gamba.
Tognone era un mediatore in gamba e, quando si vide messo alla porta dal Rolli, non si sgomentò. «Deve pagare la tassa di successione per l'eredità e ha bisogno di baiocchi sonanti: mollerà.» Oltre a questo c'era il fatto che il tipo di Milano voleva il noce a ogni costo. Si trattava d'un grosso industriale del legno, di quelli che espongono in Fiera i cadaveri di colossali alberi assassinati: una pianta come il noce americano del Rolli, esposta in Fiera, avrebbe giovato al prestigio della ditta. Tognone ritornò quindi all'assalto offrendo non più uno, ma due milioni. Lo cacciarono via e rispuntò fuori con l'offerta colossale di tre milioni. Al Rolli tre milioni in contanti avrebbero fatto comodo specialmente per via della tassa di successione che era pesante. Ma tenne duro. E Tognone per la quarta volta tornò all'assalto accompagnato da due compari. «Le vengo a fare una proposta che, se lei non l'accetta, si mangerà poi le mani per la rabbia» disse tirando fuori dalla tasca interna del panciotto l'enorme portafogli a fisarmonica. Mise sulla tavola un foglietto: «Questo è un assegno in bianco» spiegò. «La cifra ce la scriva lei.»
Il Rolli tentò di rispondere ma Tognone lo prevenne: «Non dica niente: io l'assegno glielo lascio lì. Siamo fra galantuomini e poi ci sono due testimoni: ci pensi sopra. Domattina alle dieci passeremo a prendere la risposta». Se ne andarono e il Rolli rimase lì nel suo studio a camminare in su e in giù. Ogni tanto guardava il foglietto che Tognone aveva deposto in mezzo alla tavola. Erano le dieci del mattino: aveva ventiquattro ore davanti. Ventiquattro ore sono troppe per resistere alla tentazione di scrivere su un foglietto di carta: «Lire cinque milioni». Mentre il Rolli stava facendo per la centesima volta queste considerazioni, bussarono alla porta dello studio ed entrò il cameriere: «Ci sono al cancello due girovaghi che vogliono parlare con lei». «Girovaghi?» «Sì, di quei forestieri che fanno il giro del mondo in motocicletta. Ne passano tanti.» «Mandali all'inferno.» «Ho provato, ma sono duri. Dicono che devono parlare col signor Rolli.» Il Rolli, seccato ma incuriosito, uscì e arrivò fino al cancello. I girovaghi erano tutt'e due in calzoncini corti e camiciola e biondi tutt'e due. Però il primo era un pezzo d'omac-
cio alto un metro e ottanta e il secondo un pezzo di ragazza veramente importante. Viaggiavano con un mucchio di fagotti sotto i quali spuntavano le ruote di qualcosa che doveva essere una motocicletta ma che avrebbe dovuto essere – data la quantità enorme dei bagagli – almeno un trattore Caterpillar. «Signor Rolli?» domandò sorridendo l'omaccio. «Sono io.» L'omaccio scosse il capo. «Non lei. Il signor Rolli è molto più vecchio. Forse suo padre?» «Sì, mio padre. È morto l'anno scorso.» L'omaccio parve profondamente colpito dalla notizia. «Mi dispiace molto» disse. «Non sapevo. Non immaginavo.» Parlottò in lingua straniera con la donna, poi si volse al Rolli che ancora non aveva aperto il cancello e rimaneva lì a guardare i due come fossero bestie rare nel giardino zoologico. «Mi dispiace infinitamente» disse l'omaccio. «Io le sarò molto grato se lei ci lascerà vedere un momentino l'albero.» «L'albero? Quale albero?» «Il noce americano» spiegò sorridendo l'omaccio. «Mi piacerebbe fotografarlo da vicino. Il tronco. I rami visti da sotto.» Il Rolli si mise a ridere: ma cos'era diventato, quel benedetto albero? Il personaggio del giorno?
Aperse il cancello: non poteva tenerlo chiuso davanti al sorriso smagliante di un pezzo di ragazza così. «Prego.» L'omaccio si inchinò e, aiutato dalla ragazza, spinse la moto someggiata nel cortile. La issò sul cavalletto poi seguì il Rolli che s'era avviato verso il parco. Al cospetto del noce americano, i due stranieri si fermarono: pareva, quel giorno, che il noce americano fosse ancora più straordinario. La ragazza parlò a lungo con animazione all'omaccio che la stava ad ascoltare tentennando il capo. «Mia moglie è molto contenta d'aver visto l'albero» spiegò sorridendo l'omaccio al Rolli. «Io le avevo parlato tanto di questo albero e lei si era incuriosita. Allora abbiamo fatto molte economie e siamo venuti a vederlo. Ci siamo sposati nel 1949 ma questo è il nostro viaggio di nozze.» Il Rolli guardò perplesso l'omaccio che rispose sorridendo alla muta domanda espressa dagli occhi del Rolli. «Il 10 aprile del 1945 ho stretto la mano di suo padre qui, in questo punto» disse l'omaccio. E col dito toccò la corteccia sulla quale stava inciso: «Franz -10 aprile 1945». Il Rolli si sentì bruciare dalla vergogna di non aver capito subito; mille volte suo padre gliel'aveva raccontata, quella storia! «Mi scusi!» balbettò stringendo la mano dell'omaccio e poi quella della donna. «Prego, prego, si accomodino in
casa! Sono felice di averli miei ospiti. Come sarebbe contento mio padre se fosse ancora qui! Parlava sempre di lei…» L'omaccio tradusse ogni cosa alla moglie cui, via via, il viso si illuminava. Alla fine l'omaccio si rivolse al Rolli: «Grazie dell'invito, anche a nome di mia moglie. Però se lei vuole veramente farci un regalo, deve permetterci di piantare la tenda sotto il nostro albero. Qui sotto mi pare di essere un po' a casa mia. Mi sento…» Non trovava la parola e allargò le braccia. «Mi sento…» «Coperto?» suggerì stupidamente il Rolli. «No coperto. Più che coperto.» «Protetto?» «Protetto. Sì, protetto.» Il Rolli voleva che entrassero in casa ma i due crucchi erano testardi. L'omaccio andò a prendere la moto e, aiutato dalla moglie, incominciò a disfare i fagotti. La tenda sorse rapidamente ai piedi del noce americano. * L'indomani il Rolli, appena alzato, corse giù nel parco: ma i due girovaghi erano scomparsi. Già ripartiti verso il Nord.
Ai piedi del noce americano una mano gentile aveva deposta una coroncina di fiori di campo. E il Rolli comprese per chi erano quei fiori. E nella corteccia, vicino a «Franz -10 aprile 1945», era stato inciso: «Franz und Gerda -10 agosto 1952». «Franz und Gerda» esclamò il Rolli. «Gerda… Gerda…» Tutto questo gli riempì il cuore di sottile commozione: ciononostante il Rolli rise perché, improvvisamente, si era accorto di sapere con esattezza quello che avrebbe scritto sull'assegno in bianco. E ve lo scrisse a stampatello. E, quando Tognone venne a ritirare l'assegno, lesse la parola a stampatello e capì che non era il caso di insistere.
218 IL COLOSSO COI PIEDI DI CRETA Di uva moscatella ce n'era una vite soltanto, nell'orto della canonica: e don Camillo aveva un debole particolare per l'uva moscatella. Orbene, accorgendosi che un tizio stava gingillandosi con le mani e con la bocca attorno alla sua uva moscatella, don Camillo si seccò. Don Camillo rimase lì un bel pezzetto, appostato dietro le gelosie della finestra di cucina, con la speranza di vedere la faccia dello screanzato: legittima curiosità resa ancor più giustificata dal timore di non arrivare in tempo ad agguantare il franco-vendemmiatore. Ma il criminale continuava a mostrare due spalle prive della minima espressione e allora don Camillo abbandonò il suo osservatorio e, camminando a passettini leggeri e cauti, uscì nell'orto e incominciò la marcia di avvicinamento. Un trattore arrivò nei paraggi dell'orto facendo un fracasso maledetto e ciò permise a don Camillo di concludere felicemente l'operazione. «Scusi, disturbo?» La voce di don Camillo fece trasalire l'assassino che si volse lentamente, ed era lo Smilzo.
Don Camillo lo stette a guardare qualche minuto poi esclamò: «Come mai da queste parti?». «Passavo di qui e mi sono fermato un momento a piluccare. È roba vostra?» «Il fatto che questa vite sia dentro l'orto della canonica avrebbe dovuto fartelo sospettare.» «Ero soprappensiero, non me ne sono accorto.» Don Camillo tentennò gravemente la testa: «Capisco. Dovevi essere davvero molto soprappensiero se non ti sei neanche accorto di scavalcare la rete metallica della siepe». «Non ho scavalcato nessuna rete metallica» precisò lo Smilzo continuando a piluccare il grappolo che aveva fra le mani. Pareva che la presenza di don Camillo non lo interessasse un accidente tanto era tranquillo: ma, d'improvviso, lo Smilzo si inabissò come inghiottito dalla terra e disparve sotto la vite. Fu svelto: e, saettando in mezzo all'erba come una lucertola, raggiunse in pochi secondi il punto preciso dove la rete metallica era sollevata dal terreno di due buone spanne e si infilò nel sottopassaggio. Disgraziatamente don Camillo stava sul chi vive e, scattato all'inseguimento, riuscì ad afferrare un piede dello Smilzo.
Tirò con energia il piede e lo Smilzo rientrò a marcia indietro. «In fondo avevi ragione» disse don Camillo quando, uncinato lo Smilzo per gli stracci, lo ebbe rimesso in posizione verticale. «Per entrare qui tu non hai scavalcato la rete metallica. Vuol dire che la scavalcherai nell'uscire. Bisogna potenziare l'aviazione sovietica!» «Reverendo» replicò lo Smilzo cui non sorrideva per niente l'idea di essere afferrato per il coppino e per il fondo dei pantaloni e poi spedito a volo oltre cortina di fil di ferro. «Non cavate speculazioni politiche da un fatto occasionale.» «Ah: tu lo chiami fatto occasionale una violazione di domicilio con annesso furto?» «Non buttiamola nel tragico: io non ho commesso un furto. Io mi sono limitato a prendere un anticipo. Il giorno della riscossa proletaria è vicino e tutti i diseredati avranno la loro parte.» Oramai a don Camillo era passata: «Smilzo» affermò «se le cose stanno così, prenditi pure un altro anticipo. Se poi tu volessi un anticipo di vino, ho una bottiglia di bianco amabile in fresco dentro il pozzo». Era un pomeriggio di fine agosto e non si muoveva una foglia neanche a soffiarci sopra. Un caldo da crepare. Don Camillo si avvicinò al pozzo e tirò su la secchia con dentro la bottiglia poi entrò in casa.
Lo Smilzo lo seguì e quando don Camillo, stappata la bottiglia, ebbe riempiti i due bicchieri che erano già pronti sulla grande tavola della cucina, domandò: «Reverendo, dove volete arrivare?». «Smilzo, voglio semplicemente arrivare a sedermi e a bere un bicchiere di vino fresco. Se vuoi arrivarci anche tu, mettiti lì e bevi. In agosto, alle tre del dopopranzo, non si fa della politica.» Lo Smilzo si sedette e mandò giù d'un fiato il vino del suo bicchiere. «Se non è avvelenato è buono» osservò. Don Camillo non gli diede retta: bevve anche lui e tornò a riempire i due bicchieri. Cavò di tasca un toscano, lo tranciò fra le unghie dei pollici e ne offerse mezzo allo Smilzo. «No» spiegò lo Smilzo. «Fumo soltanto sigarette. Anche cicche di sigarette.» Don Camillo si alzò e, dopo aver frugato in due o tre cassetti, buttò un pacchetto di Nazionali davanti allo Smilzo: «Bisogna tenere in casa anche questa roba: c'è sempre qualche stupido che preferisce le sigarette al sigaro». Lo Smilzo non accusò ricevuta: aveva vino e sigarette. Tutto il resto non contava un fico secco. Fumò e bevve. «Se Peppone sapesse che sono stato qui!» esclamò a uh tratto. «Vìvi tranquillo: io non glielo vado certamente a dire. E poi è un secolo che non ci parliamo più. In confidenza, un
po' mi dispiace. Con tutti i suoi difetti non è il peggiore. C'è gente più balorda di lui, in paese. E non soltanto fra voi scatenati.» Lo Smilzo non rispose; bevve un lungo sorso di vino poi sospirò: «Mah!». Quel «mah» fece drizzare le orecchie a don Camillo che riempì i bicchieri e poi disse asciugandosi il sudore: «Non mi va di alzarmi: d'altra parte la bottiglia è vuota e, per averne un'altra, bisogna andarla a prendere. La porta della cantina sarebbe quella lì». «Bianca o rossa?» domandò lo Smilzo alzandosi. «Rossa.» «Io starei sul bianco per via di non fare delle mescolanze.» «Troviamo una via di mezzo: rossa corretta da un salame.» Lo Smilzo partì a razzo e riapparve con una bottiglia e un salame. «Il pane è lì dentro nella credenza. Troverai anche l'asse e la coltellina» comunicò con voce stanca don Camillo. Alla Bassa, quando agosto fa sul serio, le gole sono bruciate per la sete, e bisogna bere. E, per poter bere come si deve, non c'è niente di meglio che far la punta a un buon salame che mette addosso una sete tremenda. Il salame era straordinario e don Camillo osservò:
«Perché non prendi la mia bicicletta e non vai a chiamare Peppone? Davanti a un salame così, sono sicuro che ci troveremmo d'accordo». Lo Smilzo scosse il capo. «Smilzo» esclamò don Camillo «non mi fraintendere. Non ho la minima intenzione di fare brutti scherzi. Va bene: domani ci scanneremo, ci sbudelleremo; intanto chi ci vieta di mangiare due fette di salame in compagnia? Di' la verità: non avrai mica l'idea che io pensi in ogni momento alla sporca politica?» Lo Smilzo scosse ancora il capo: «Reverendo, non è per questo. Lasciate perdere Peppone. Non parliamone più». Don Camillo lo guardò: «Non sapevo che aveste litigato. Se è così, come non detto». «Non abbiamo litigato! Caso mai si dovesse litigare, sarebbe lui a litigare con me perché io non litigherei mai con lui. Altre cose.» «Smilzo, beviamoci sopra e cambiamo sinfonia: oggi la politica non mi interessa.» Lo Smilzo ci bevve sopra ma, quand'ebbe bevuto, si sentì in dovere di rettificare: «Non si tratta di questioni politiche. Cose private. Stupidaggini senza importanza ma che, a uno come me, danno fastidio». Don Camillo tentennò il capo:
«Mi dispiace davvero. Non credevo che anche lui, a un bel momento, si mettesse a far la carogna con gli amici. Tu sei un barabba, però, nei riguardi di Peppone, ti sei sempre comportato più che da amico. È un ingrato a trattarti male». Lo Smilzo protestò: «Non ci siamo intesi: non è che mi tratti male. Lui si comporta sempre come prima con me. Però non è più quello di prima. Reverendo, come faccio a spiegarvi? Sarebbe come voi foste amico intimo del campione mondiale di ciclismo. Non succede niente fra voi e il campione mondiale di ciclismo, l'amicizia è identica, il trattamento è identico. Però succede che il campione mondiale di ciclismo si invacca e incomincia a perdere le corse. E la vostra amicizia per lui non è più quella di prima». «Se ragionassi col tuo cervello sballato, forse sì» rispose don Camillo. «Ma siccome io ragiono con un cervello normale, la mia amicizia non cambia perché io sono amico dell'uomo e non del campione. Anzi: più è sfortunato e più mi sento amico suo.» «Sì» gridò lo Smilzo. «Però vi dispiace che lui stia perdendo il campionato! Sarebbe come se vostra moglie perdesse i denti. Voi volete sempre bene a vostra moglie ma vi spiace che perda i denti!» Don Camillo scosse il capo: «Peppone non è né un campione di ciclismo né tua moglie: secondo me tu hai preso un colpo di sole». Lo Smilzo si mise a urlare:
«Reverendo, ma è possibile che voi non riusciate a capire?». «Se vuoi che capisca, spiegati!» rispose brusco don Camillo. Lo Smilzo mandò giù in una sorsata un bicchiere di vino e incominciò a spiegarsi: «Reverendo: la colpa di tutto è di quel disgraziato che ha messo in testa alla moglie di Peppone di rinnovare la sala…». *
Era un soffocante pomeriggio di agosto. Un altro rovente pomeriggio di agosto. Don Camillo grondava sudore ma non mollava l'osso: era lì da più di un'ora, appostato dietro il Siepone. Aveva visto il suo uomo entrare e lo voleva vedere uscire. E, quando il buon Dio volle, l'uomo uscì e, mentre stava per risalire in bicicletta, si trovò davanti don Camillo. «Buon giorno, signor sindaco.» Peppone guardò don Camillo con occhio pieno di sospetto. «Buon giorno, signor prete.» Don Camillo si strinse nelle spalle:
«Non credevo di averle mancato di rispetto salutandola» si dolse. «Lei è uno che manca di rispetto alla gente qualunque cosa faccia. Lei è una provocazione permanente.» Don Camillo levò gli occhi al cielo: «Signore» esclamò «è mai possibile che questa gente sia sempre in servizio? È mai possibile che questa gente veda ogni cosa esclusivamente in funzione della politica? Signore: cosa pensa questa gente quando vede un tramonto, o un'alba, o un'eclissi di luna? Cosa pensa questa gente quando in primavera vede rifiorire i ciliegi? Neanche davanti a una eruzione, a un terremoto, a una tromba marina, a una valanga, questa gente non può dunque avere nel cervello un pensiero che non riguardi il partito e le ultime direttive?». Peppone ascoltò corrucciato lo sfogo di don Camillo poi disse: «Questo ragionamento non lo dovete fare voi a me. Son io che lo debbo fare a voi. A voi, reverendo, che avete il sangue avvelenato dalla politica». «Peppone» spiegò pazientemente don Camillo «è un secolo che non ti vedo: mi ha fatto piacere rivederti in perfetto stato di salute e l'unica mia colpa è stata quella di dimostrare la mia sincera contentezza.» «Reverendo, come si fa a sapere quando voi siete sincero e quando no?» Don Camillo era a piedi e Peppone camminò al suo fianco rimorchiandosi la bicicletta.
La strada era piena di polvere e polvere era sospesa nell'aria e seccava la gola. Don Camillo dava sul serio l'idea di essere animato dalle più oneste intenzioni e così, poco alla volta, Peppone abbandonò ogni diffidenza e la conversazione diventò sempre più serena. Parlarono di cose quanto mai generiche e, quando furono arrivati davanti alla canonica, don Camillo trovò naturale invitare Peppone a entrare per bere un bicchiere di bianco amabile. E a Peppone parve naturale accettare. Bevvero una bottiglia e quando uscirono don Camillo disse a Peppone: «Debbo andare dal Bicci: ti accompagno fin davanti a casa tua». Presero la scorciatoia, un sentieraccio che, con tutto il caldo che assassinava la gente, riusciva a essere fangoso, perché era in una bassa dove moriva l'acqua degli scoli dei campi attorno. Arrivato davanti a casa sua e visto che don Camillo ansimava, Peppone trovò naturale invitarlo a entrare per bere un bicchiere. L'andito era semibuio e fresco: «Ci mettiamo qui?» domandò don Camillo. «No, no, andiamo di là.» Di là voleva dire «in sala». In quella stanza che alla Bassa chiamano «la sala». Lì dentro ci sono i mobili della camera da pranzo, gli ingrandimenti fotografici dei parenti
morti, le carabattole vinte alle lotterie e ricevute in regalo. Di solito è la stanza dove nessuno della famiglia va mai perché dà soggezione con tutte le magnificenze in essa contenute e poi è la più triste e meno ospitale della casa. Ma quando Peppone aprì la porta della sala, don Camillo rimase a bocca aperta. Non si aspettava – nonostante la descrizione dello Smilzo - una faccenda del genere: intonaco nuovo, lampadario '900, mobili nuovi, tende ricamate alle finestre e, meraviglia delle meraviglie, un pavimento di mattonelle a marmettoni. Un pavimento che scintillava come fosse di cristallo. Incredibilmente liscio, incredibilmente nitido e pulito. «Ebbene?» disse Peppone vedendo che don Camillo non accennava a entrare. «Peppone!» esclamò don Camillo. «Ma questa è una cosa straordinaria. Una sala che così bella e moderna è difficile trovarla anche in un palazzo di città!» «Non esageriamo!» ridacchiò Peppone. «Avanti, avanti! Non fate storie.» Don Camillo entrò cautamente e Peppone fece per seguirlo ma, in quell'istante, si udì un urlo quasi disumano e apparve la moglie di Peppone. Si aggrappò a lui e lo bloccò sulla soglia. Poi guardò inorridita le scarpe impolverate e inzaccherate di Peppone e farneticò a lungo lanciando strida da aquila ferita.
Allora Peppone fece un passo indietro e, quando riapparve, aveva sotto i piedi le pattine. Quei maledetti rettangolini di panno inventati dalle brave signore borghesi di città per salvare la lucentezza dei pavimenti. Don Camillo guardò Peppone che camminava come un pattinatore e che, così grosso e forte com'era, e col fazzoletto rosso cupo al collo e i capelli spettinati e incollati sulla fronte e con le mani grandi come badili scure per il sole e per l'unto delle macchine, avrebbe dovuto far ridere, mentre faceva quasi pena. Don Camillo era venuto lì per ridere ma non sentì nessuna voglia di ridere. Tornò invece indietro e, messe sotto le suole due delle pattine che stavano in attesa sulla soglia, pattinò anche lui sul pavimento luccicante. Si sedettero senza dir niente alla tavola col piano splendente come il pavimento. E stettero lì zitti fin che non riapparve la moglie coi bicchieri e la bottiglia sul vassoio. La donna depose il tutto sulla tavola, riempì due bicchieri poi se ne andò spiegando con voce autoritaria: «La bottiglia sul vassoio e i bicchieri sulle sottocoppe». Don Camillo asciugò, prima di bere, il piede del bicchiere sulla manica e poi depose con garbo il bicchiere al centro della sottocoppa. Nessuno dei due sapeva come incominciare. Per fortuna apparve sulla porta lo Smilzo che sventolava una gran busta gialla.
«Capo, urgentissima da parte della direzione del Partito.» «Porta qui!» ordinò Peppone riscuotendosi. «No, la lascio lì» rispose lo Smilzo facendo l'atto d', mettere la lettera sulla sedia imbottita che stava a fianco dell'uscio. Peppone ritrovò la voce tonante dei bei tempi: «Smilzo, portala qui!» urlò. Lo Smilzo esitò un istante poi, imbarcatosi sul terzo paio di pattine stazionante nei paraggi della soglia, pattinò sul pavimento lucido verso il capo. «Siedi e bevi!» gridò Peppone riempiendo un bicchiere. Lo Smilzo strinse i denti e si sedette. «Bottiglia sul vassoio e bicchiere sulla sottocoppa!» urlò ancora Peppone allo Smilzo buttandogli davanti un centrino di panno ricamato. Peppone lesse la lettera urgentissima e la ripose in tasca. Poi bevve il suo vino tutto d'un sorso e, dopo una sufficiente pausa di silenzio totale, affermò: «Reverendo, piantatevi bene nella testa che, il giorno della rivoluzione proletaria, noi cammineremo senza pattine!». «C'era scritto nella lettera del partito?» si informò don Camillo. «È scritto nella storia dei popoli!» rispose Peppone. E lo disse con tanta fierezza e tanto nobile decisione che lo Smilzo si sentì rianimato dalla fede nella vittoria finale.
«Bene, capo!» approvò lo Smilzo.
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