16 - Ars Hermetica

September 16, 2017 | Author: Aristocratos | Category: Sun, Science, Philosophical Science, Religion And Belief
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Quaderni del Gruppo di Ur XVI ARS HERMETICA I Edizione Agosto 2006 - II Edizione Novembre 2007

L'Arcangelo Dada

Ogni quaderno del Gruppo di Ur raccoglie, in forma organica e sintetica, quanto emerso nell'omonimo forum, in relazione ad un determinato argomento. In esso si trovano, perciò, sia citazioni degli autori studiati, sia commenti. I quaderni si devono considerare in continuo aggiornamento, dal momento che l'emergere di nuovo materiale sull' argomento trattato può rendere opportuna una nuova edizione.

INTRODUZIONE La I edizione di questo quaderno prendeva in considerazione la produzione artistica dei membri di Ur, limitatamente ai componimenti presenti in Ur/Krur e ad altri ad essi in qualche modo correlati. Lo scopo era - si diceva - non sostituirsi "al lavoro degli specialisti in letteratura, ma solo fornir loro i giusti spunti ed esempi, affinchè lo studio della letteratura esca dallo stucchevole ambito, nel quale la critica materialistica e parolaia ha reiteratamente preteso di rinchiuderlo". In questa II edizione, si è pensato di aggiungere, come termine di confronto, alcuni inni antichi e moderni ed un cenno a quelle importantissime formule di invocazione che sono gli Indigitamenta. 1a) Venvs Genitrix ed Ea: I due periodi Artistici di J.Evola. 1b) Julius Evola: Stimmungen (a cura di Ea) 2a) Girolamo Comi: L'Urgenza della Luce (a cura di Gic) 2b) Girolamo Comi: Critica della critica (a cura di Gic) 2c) Girolamo Comi: Il Cantico del Suolo (a cura di Gic, con una nota di Fabritalp) 2d) Girolamo Comi: Dal Cantico del Tempo e del Seme (Estratti a cura di Gic) 3a) Arturo Onofri: Nuovo Rinascimento come Arte dell'Io (Sintesi a cura di Oso) 3b) Arturo Onofri: Una Volontà Solare (a cura di Oso, con una nota di Sipex) 3c) Arturo Onofri: L'Uomo Calorico cioè Saturno (a cura di Oso) 3d) Arturo Onofri: Fra il Glaciale Profumo del Sereno (a cura di Oso) 4a) Nicola Moscardelli: Le Ali Perdute (a cura di Sirio) 4b) Nicola Moscardelli: Resurrezione (a cura di Sirio) 4c) Nicola Moscardelli: Mesi e Segni (a cura di Sirio) 4d) Nicola Moscardelli: Il Sogno del Pastore (a cura di Sirio) 4e) Nicola Moscardelli: La Stella del Pastore (a cura di Sirio) 5a) Emilio Servadio: Da Segreti del Mestiere (Estratti a cura di Es, con una nota di Ea) 5b) Emilio Servadio: Angoscia (a cura di Es) 5c) Emilio Servadio: Canto dell'Ebreo Errante (a cura di Es, con una nota di Occhi di Ifà) 5d) Emilio Servadio: Fioritura (a cura di Es) 5e) Emilio Servadio: Liriche (a cura di Es) 6) Massimo Scaligero: Trasmutazione Calcarea (a cura di Massimo) 7a) Guido de Giorgio: I Poeti (a cura di Havismat) 7b) Guido de Giorgio: Salmo del Poeta (a cura di Havismat) 7c) Guido de Giorgio: O Tu (a cura di Havismat). 8) Inni e Indigitamenta: Introduzione di Abraxa 8a) Carmen Arvale (a cura di P. Negri, Sipex, Unltraviolet, Ekatlos, Tarquinio P. ed Ea) 8b) Ovidio: Dall' Inno a Mercurio e Invocazione del mercante a Mercurio (a cura di Ida La Regina) 8c) Mesomedes: Inno a Calliopea (a cura di Ekatlos) 8d) Costantino Kavafis: Itaca (a cura di Occhi di Ifà) 8e) Platone: Inno a Pan (a cura di Ekatlos) 8f) INDIGITAMENTA (a cura di Venvs G., Ekatlos e Sipex)

1a) I Due Periodi Artistici di Julius Evola Venvs Genitrix: Nel capitolo L'Arte Astratta e il Dadaismo, presente nella sua biografia, Il Cammino del Cinabro (1972), Evola, dopo aver ricordato l'edizione 1969 della sua raccolta di poesie "Raaga Blanda", ebbe a scrivere: "Non scrissi, però, poesie nè dipinsi più dopo la fine del 1922". Questo brano è piuttosto importante, perchè dimostra che i dipinti evoliani del suo "secondo periodo artistico" non furono realizzati prima degli anni '70 e che perciò è errata la datazione di alcuni di essi negli anni '60, che si può trovare anche in testi specializzati. Ovviamente, a meno di non pensare che egli abbia detto ... una bugia. Datazione a parte, non ho notizia di testi teorici di Evola sull'arte, scritti in questo secondo periodo e perciò è, almeno per me, un mistero il motivo di questo suo ritorno all'arte. Tra i suoi nuovi dipinti non mancano "paesaggi interiori", affini a quelli del primo periodo, ma compaiono anche altri temi: ad es. quello che è probabilmente il primo tra i nuovi dipinti (perchè se ne ha notizia già nella rivista Playmen del Marzo 1971) ha per titolo "Nudo di Donna (afroditica)". Esso fa coppia con un altro dal titolo "La Genitrice dell'Universo". Per completare il trittico degli archetipi femminili, ricordati da Evola in Rivolta contro il Mondo Moderno, manca solo il dipinto dell'Amazzone.

Evola-Nudo di Donna Afroditica

Evola-La Genitrice dell'Universo

EA: L'atteggiamento di Evola nei confronti dell'Arte è probabilmente uno degli aspetti chiave di tutta la sua esistenza. Iniziando la sua attività culturale proprio come artista, si pose il problema di quale ruolo l'Arte dovesse svolgere per lui. Ne propose una soluzione definitiva nella Fenomenologia dell'Individuo Assoluto, dove l' "Arte pura" appartiene alla II epoca (epoca della Personalità), superando per importanza 'coscienza' scientifica, filosofica e mistica, ma tuttavia non rientrando nella III epoca (epoca della Dominazione). Volendo imboccare con determinazione tale terza epoca, Evola, di conseguenza, abbandonò l'Arte. Per intendere tale decisione, occorre tener presente il solipsismo che pervadeva l'attività evoliana di quell'epoca. Non è che lArte occupasse necessariamente il posto assegnatogli da Evola, anzi nella maggioranza delle tradizioni essa svolge ruoli importanti anche nella III epoca: si pensi ad es. ai carmi rituali, che sono ad un tempo poesia e formula magica, e ai quadri di certi pittori-maghi, che costituiscono vere e proprie 'sigillazioni' della loro volontà. Dunque l'arte si chiudeva nella II epoca per Evola e solo per lui. Ci si può chiedere il perchè di una scelta così fuori del comune. Da un lato, potè trattarsi della volontà di purificarsi da quello che potè sembrargli un attaccamento, allontanandosi da una attività per la quale sentiva una naturale e forte propensione: l'Arte appunto. Ma c'è anche un altro motivo più profondo: Evola aveva notato che uno dei maggiori problemi degli occultisti era il cadere in forme di visionarismo e scelse di scavalcare a piè pari questo ostacolo, rinunciando alle visioni. Lo dice esplicitamente, scrivendo con lo pseudonimo di Iagla, in Introduzione alla Magia, in un brano del saggio "La Legge degli Enti", che altri hanno già citato: "Conobbi le 'presenze', conobbi ciò che è, senza avere corpo. Ma non sotto specie di imagini astrali, invece 'intensivamente', come sensazioni di 'campi di forza' - per usare questo termine molto espressivo dei fisici. Il mio atteggiamento costante di volontà mi portò a rapporti immedesimativi e 'sprofondamenti' che paralizzavano la visione. Conobbi, in ogni modo, che fulmini, tuoni e tempeste non vi sono soltanto nel mondo fisico. Divenni prudente. Seppi rinunciare a molto, a fine di tener fermo nel campo al quale via via mi restringevo". Poichè soprattutto l'arte pittorica, ma anche, in genere, quella poetica presuppongono invece le visioni, occorreva per coerenza allontanarsi da esse. Come abbiamo già detto, nel periodo di Ur, l'atteggiamento esageratamente solipsistico di Evola si era smorzato e l'Io era stato più appropriatamente sostituito dal "Noi" iniziatico. Perciò Evola, visti anche gli esempi di Onofri, Comi, Servadio etc, era perfettamente consapevole di ciò che l'arte poteva offrirgli, ma fu ugualmente irremovibile. Ne è una controprova l'altro saggio di Intr. alla Magia, "Poesia e Realizzazione Iniziatica", scritto poco dopo la morte di Onofri. Leggendolo, chiunque avverte che l'esposizione è frammentaria e 'trattenuta' e che si sarebbe potuto dire molto di più. Anche l'affermazione evoliana "dovremmo rilevare diverse 'irregolarità' negli elementi di 'scienza occulta' antroposoficamente influenzati accettati dall'Onofri (ci sarebbe impossibile sottoscrivere alle posizioni dottrinali da lui abbozzate nel libro Nuovo Rinascimento come Arte dell'Io)" lascia perplessi: come sta dimostrando il nostro Oso, [vedi oltre in questo stesso Quaderno], i significati di quel trattato sono esprimibili in un linguaggio assolutamente universale, e perciò prescindendo da specifiche coloriture antroposofiche. Si ha dunque netta l'impressione che, nel suddetto saggio, Evola sia restio ad aggiungere qualsivoglia argomentazione teorica, che lo indurrebbe necessariamente a dover riconsiderare anche le proprie posizioni. Fu senza conseguenze la sua scelta nei confronti dell'Arte? Ovviamente no: se tale determinazione gli fece scudo nei confronti di eventuali flussi visionari incontrollati, d'altro canto tagliò anche il contatto consapevole con gli elementi sottili (tanmatra), che hanno come precipua forma di manifestazione proprio quella dei colori interiori. Ricordiamo che appunto come uno svanire negli elementi-colori è spesso descritta quella "soluzione del corpo fisico", che è caratteristica della fase più avanzata dell'alchimia. A un livello più modesto dello svanire dell'intero corpo materiale, può collocarsi lo svanire di malattie e complessi morbosi, onde sempre l'alchimia fu connessa con la medicina. Evola, nel 1945 a Vienna a causa di un bombardamento, subì un incidente che gli arrecò una paresi parziale degli arti inferiori. A riguardo, ne Il Cammino del Cinabro (1972) scrive di tale contingenza: "...coglierne il suo senso più profondo per l'insieme della mia esistenza: questa sarebbe stata dunque l'unica cosa importante ... Del resto nel punto in cui, per via di una maggiore luce, un 'ricordo' del genere fosse affiorato o affiorasse, sarebbe data sicuramente anche la possibilità di rimuovere, volendolo, lo stesso fatto fisico. Ma la nebbia a tale riguardo non si è ancora sfittita". Sono convinto che, negli ultimi anni della sua vita, un barlume di quel platonico 'ricordo' dovette in lui affiorare: intuì quale scotto aveva pagato, rifiutando sic et simpliciter le visioni interiori. Tornò allora ad esse e all'Arte e a dipingere i suoi "Paesaggi Interiori", che stanno oggi a testimoniare il suo vecchio e nuovo Opus Lucis. Tuttavia, era troppo tardi per realizzare l'Opus Completum in una sola vita, "in un solo cranio", come si dice in Oriente. Riguardo ai due quadri sugli archetipi femminili, ritengo che si tratti proprio di un dittico e non di un

trittico incompiuto, perchè, più che alla sua tipologia delle "razze dello spirito", egli, in quei quadri, sembra rifarsi ad un passo della Metafisica del Sesso (già ricordato nel Quaderno sui Fedeli d'Amore): "... nel complesso di tutto quanto è evocazione e partecipazione possono venire distinte due vie che, rispettivamente, stanno nel segno dei due archetipi femminili fondamentali: Demetra e Durga. La prima via si basa sul principio femminile-materno considerato come scaturigine del sacro, e conduce verso una immortalità, una pace e una luce quasi sulla stessa linea di ciò che nello stesso ambito profano e umano può venire a chi prende rifugio presso la donna materna; ... La stessa figura di donna si potenzia nel mito nei termini della Vergine celeste e della Madre divina mediatrice. L'altra via passa invece per Durga, il femminile afrodisiaco abissale, e può essere tanto via di perdizione quanto via di superamento della Madre nel segno di quelli che noi abbiamo chiamato i Grandi Misteri in senso proprio". Orbene, tale doppia scelta non si presenta solo nel campo della metafisica del sesso, ma sulla via ermetica in genere ed Evola, nella nostra ipotesi, si accorse che, per quanto riguarda le visioni, egli da giovane aveva scelto proprio l'apparentemente sicura via 'materna', si era cioè protetto esageratamente da quei pericoli che le visioni interiori indubbiamente presentano. L'insegnamento basilare, concernente le visioni, è che esse non vanno "nè abbandonate, nè seguite". Nel suddetto Quaderno sui Fedeli d'Amore, parlando dei comuni sogni, è stato indicato che già l'interpretare le visioni, l'elucubrare su di esse, è un errore, perchè costituisce un aspetto del "seguire", dell'attaccarsi ad esse. Evola, nella fase centrale della sua vita, errò invece in senso opposto, imponendosi di "abbandonare" forzatamente le visioni. Solo negli ultimi anni probabilmente comprese del tutto questo aspetto dell'Arte della Bilancia. ***

1b) Julius Evola Stimmungen Stimmungen (tendenze) è un insieme organico di quattro brevi componimenti evoliani, che fanno parte della raccolta Raaga Blanda. Le poesie di tale raccolta risalgono al periodo 1916-1922 e le Stimmungen sono tra le primissime composizioni. Esse sono quattro istantanee di quattro diverse stagioni: un furioso temporale estivo che va scemando in riva al mare, un reiterato crepuscolo invernale ventoso e piovigginoso, una giornata primaverile del popolo dei fauni, un autunno di altra epoca ove il diminuire della luce solare e i primi freddi si rispecchiano nelle lente voluttà di un luogo riparato. Nell'opera "Rivolta contro il Mondo Moderno" Evola, in relazione alla dottrina dei cicli cosmici, dirà: - Vale rilevare che tutto ciò non rimanda ad un fatalismo; ...Anche per tal via si conferma ...la concezione qualitativa del tempo vivente, nel quale ogni ora e ogni tratto ha il suo volto e la sua "virtù" -. Ha cioè..."tendenze". I versi, eccezion fatta per i punti esclamativi, sono senza punteggiatura. Sono gli spazi bianchi e le iniziali maiuscole dei capoversi a indicare le pause di lettura.

1 Un vento incolore va per gli sbadigli della solitudine e asperge neri crisantemi Come sempre sorde e possenti sotto il cielo piovoso marciano senza meta grandi moltitudini Un mare sporco ribolle ancora dopo la tempesta esso ha lasciato relitti di ignoti naufragi sulle sponde e ora dei vecchi li raccolgono pei loro fuochi Vi è una sognante sfilata di vascelli-fantasma al tramonto, o mia anima! Una berceuse pallida e antica nel mio sangue verso i salici curvi sull'acquitrino.

2 Nei crepuscoli piovigginosi andava pel fangoso stradone suburbano Portava un peso troppo greve per lui il vento gli frustava il volto Mucchi di rifiuti addossati alla muraglia bruciavano insensibilmente mandando lente spire di fumo Ogni cosa era triste e grande e abbandonata Ogni cosa gli sembrava essere stata già vista già sofferta Nell'ombra dall'odor di resina coppie avvinte e un rotolio lontano di carri gli stringeva il petto Il cielo sbiadito agonizzava nel vento Come lui come lui 3 Tepide rose s'incurvano chiome aeree tessono in un opale stemperato mobili cerchi Vi sono festoni fra le piante pel passaggio di un popolo propizio in tulle freschezza di giovane primavera sotto un cielo celeste-maiolica ai balconi piccoli fauni applaudono alle orchestrine che se ne vanno alla campagna a passo di minuetto Al disopra delle cupole di raso vi sono grandi girandole Una lieve brezza sulle colline fra i fiori di pesco e le zàgare fa aprire grandi occhi stupiti Soltanto nell'iperbole silenziosamente scrosciante del meriggio alcuni servitori in nero escono a raccogliere veli scuri che sono distesi sul paesaggio e di cui forse nessuno si è accorto. 4 E' giunto il tema di novembre addio Ultime partenze di galee amaranto O vapori di pioggie ancora tepide sui viali deserti! I primi brividi e i primi tenui veli nel paesaggio interiore Nello scoloramento della seteria dell'anima si raccoglie la suadente sapienza di lente voluttà in questo buen retiro Nella sua mezza luce fluttuano spire azzurrine di sigaretta in specchi appannati violette e argento profumo caldo Chiudi chiudi le porte della serra Tu sei vicina strana cosa viziosa tu attendi distesa le mie mani che ti liberino dalle vesti per offrire le lunghe carezze al tuo giovane corpo nudo al sorriso ambiguo di quella testa di statua khmera che sola emerge là in fondo nella penombra dove già filtra una monotona ebrezza

2a) Girolamo Comi L'Urgenza della Luce Un concetto fondamentale della poetica di Girolamo Comi è quello di "Stato Poetico". Il termine fu ereditato, con ogni probabilità, da Paul Valéry con cui Comi fu in amicizia, nel periodo trascorso in Francia, antecedentemente alla I Guerra Mondiale. Tuttavia il suo significato fu inevitabilmente modificato dalle conoscenze esoteriche di Comi. Ad esso dedicò due opere in prosa: Poesia e Conoscenza, Roma 1932 e Necessità dello stato poetico, Roma 1934.

In un manoscritto, riportato da Donato Valli in G.Comi -Opera Poetica -Ravenna -1977 - p.397, così il poeta, negli anni '50, descrive sinteticamente il suddetto stato: "Lo stato poetico - e la poesia che ne discende - e quali io li intendo e li coltivo, sono pur sempre uno 'stato' di volontà e di possibilità 'progressiva' presieduta e nutrita di pazienti e amorose discipline". Dell'intima connessione di tale stato con la "luce" della presenza mentale così Comi parla in "Note in Attesa e in Vista dello Stato Poetico" (La Torre n° 2, 15 Febbraio 1930): "La luce supera e soffoca ogni nostra più solare ipotesi lirica, ma sembra che la superi e la soffochi per 'suggerirci' un respiro e una ispirazione più fitti, e una persuasione incorruttibile. Perchè la nostra efficienza centrale vibri e si ramifichi, ecco le stagioni inattese (per quanto previste e catalogate) ed ecco un tramonto più impetuoso degli altri (per quanto agli altri identico) e un'aura più palesemente fraterna di vetusti siti e d'immediato cielo. Realizzare ogni giorno più luce 'nella stessa luce' è riconoscere che in ogni uomo 'giace' un candidato fatale allo 'stato poetico'. " I medesimi concetti sono espressi nei versi de L'Urgenza della Luce, un breve componimento, che fa parte della raccolta Nel Grembo dei Mattini (1931): L'urgenza della luce nella mole dell'anima riaffiora fin negli occhi, ed ogni sguardo è un inno che ha del sole la risonanza aurea... E ne trabocca la sacra essenza in arcane parole. ***

2b) Girolamo Comi Critica Della Critica Nel 3° numero della rivista "La Torre" (1930) apparve l'articolo di Girolamo Comi (Momus) "Critica della Critica", riguardante la critica d'arte. La base di ogni critica d'arte è la fenomenologia dell'oggetto artistico, cioè lo studio e la descrizione dell'oggetto d'arte, così come esso appare. Sembrerebbe scontato, ma non lo è. Soprattutto i critici d'arte digiuni di esoterismo trascurano questa fase, tutti tesi a pervenire ad un giudizio di valore (che non di rado risente in larga parte dei loro preconcetti) o a trovare "influenze" da parte di questo o quell'altro autore del passato. Essi dovrebbero invece tenere ben presente che se è erroneo fermarsi al significato letterale e apparente di un'opera, perchè, come dice Comi, "la Tradizione autentica non sonnecchia nella lettera e nelle lettere, ma nello spirito non ancora identificato delle medesime"; tuttavia, come Dante evidenziò nel Convivio, il significato letterale di un'opera non è affatto trascurabile, giacchè esso racchiude gli altri tre (allegorico, etico e anagogico). Perciò è del tutto inutile tentare "interpretazioni" di un'opera d'arte, se lo studio fenomenologico di essa non è completo. Tale studio si serve di una delle più primordiali facoltà della mente umana e cioè del "notare" o "prender nota", facoltà basilare non solo nella comune vita quotidiana, ma anche nelle tecniche iniziatiche imperniate sulla presenza mentale. Il modo di usare correttamente tale facoltà venne poeticamente espresso dalle terzine zen di Basho. Dice ad es. il suo più noto haiku: Vecchio stagno Tonfo di rana Suono d'acqua *** La nostra critica letteraria considerata nei suoi sommi pontefici ufficiali e ufficiosi, non manca di «mestiere» né di strategia, né - in un certo senso - di agilità tecnica e culturale: ma difetta, visibilmente, di ossigeno (impagabile quello...) nonché di una persuasione interiore sua propria. Si può affermare che essa manca addirittura di fiato spirituale e che la sua ragione d'essere è circoscritta

e legittimata soltanto da necessità d'ordine giornalistico o dilettantistico, sindacale o professionale. In compenso fornisce e si gloria di una sensibilità epidermica di prim'ordine e di una suscettibilità «cerebro-spinale» notevolissima. Da una parte schiava di riferimenti universitari e cattedratici e di substrati pseudo-tradizionali (quando si capirà che la Tradizione autentica non sonnecchia nella lettera e nelle lettere, ma nello spirito non ancora identificato delle medesime?) dall'altra, presidiata dall'ombra monumentale dei soliti canoni «classici» sia d'ordine retorico che patriottico e moralistico, essa esita o si rinsangua fra la mezza stroncatura e la mezza apologia, fra la dissertazione prolissa e il sermone accademico, fra il paradosso truccato da luogo-comune e il luogo-comune truccato da paradosso. Sta fra il sì e il no, fra l'avere e l'essere, fra il pettegolezzo e il partito preso, fra la politica e il vangelo. Continua a lamentare inlassabilmente l'assenza dello scrittore-tipo, del vate dantesco dei tempi moderni e - salvo i soffietti d'uso che qua e là dispensa per amor patrio generico o per opportunismo specifico - lacrima e fa lacrimare sui destini della nostra era letteraria. Se gli autori non sanno quel che vogliono (tolti i premi, i banchetti e i battibecchi) non si sa molto meglio quel che vuole la critica; capacissima, d'altra parte, in un momento di buon umore o di isterismo, di consacrare per esempio un romanzo come Gli indifferenti o un poetucolo come il Bartolini. Noi che vediamo le cose un po' dall'alto - non solo perché abitiamo «LA TORRE », ma anche perché affrancati da ogni velleità d'arrivismo piazzaiolo - pensiamo che sarebbe il momento di smetterla con le lamentele e i rimpianti, con le statistiche e i paralleli, con le consacrazioni e le sconsacrazioni, e di liberare le terze pagine dei giornali, come le ultime pagine delle riviste, dalla falange dei becchini e degli esegeti. Se tale falange - per ragioni dipendenti da ingranaggi e da statuti irrevocabili - deve sussistere e imperare, ebbene, sia. Ma cambi panni e insegne e cominci, lei che predica, a esser compresa di un possibile stato di grazia o di dignità superiore. Si renda conto che lo stato aristocratico del pensiero e del giudizio non va confuso col mestiere democratico del pedagogo che fornica con la cultura grafica degli inventari, dei panorami e dei manuali letterari. Lo spirito, anche se unicamente invasato di letteratura, reclama un'altra tenuta e presuppone un'altra specie di dignità e di fervore.

2c) Girolamo Comi Cantico del Suolo Durante il II anno della rivista Ur, venne pubblicata una composizione di G. Comi, il "Cantico del Suolo", che è assente in Introduzione alla Magia (Bocca, 1955) perchè, salvo piccolissime modifiche, quasi sempre di punteggiatura, era stata ripubblicata integralmente, appena l'anno prima, nell'antologia "Spirito d'Armonia" (Lucugnano, 1954). In tale antologia, il Cantico del Suolo è l'ultima composizione della prima raccolta, intitolata "LampadarioBoschività Sotterra - Smeraldi" (1912-1928) e precede perciò immediatamente il "Cantico del Tempo e del Seme" (1929-30). Chi possiede l'edizione Tilopa di Ur, può trovare il Cantico del Suolo a pag. 337 del II vol. Sgretolio d'arie mineralizzate nell'immobile impeto che arma la mia zolla di un'ansia antica e calma, perchè solare - e tutta vellutata d'inviolabile verginità, canti in alberi, in Parola e in prati infanti, la radice che mi è stata donata. Nell'edizione 1954, la lineetta dopo l'aggettivo "solare" è sostituita da una virgola. La virgola dopo "verginità" è invece sostituita da una lineetta. "Parola" non compare più in maiuscolo e il punto fermo dopo "donata" è sostituito da puntini di sospensione. Dunque sono variate

solo alcune pause, pur importanti, di lettura, ma non il contenuto, similmente a quanto vedremo per alcune delle prossime strofe. Comi gioca sul doppio significato delle parole: lo spettacolo naturale si fa simbolo della pratica interiore e questa sembra manifestarsi in quello. La densa e vibrante brezza salsoiodica (mineralizzata) che si frange sulla terra, immobile eppur protesa, da antica epoca, verso il mare, è immagine esteriore del moto immobile, dell'impeto statico della concentrazione mentale, che guida i venti sottili corporizzati, che si dividono e si dirigono in ogni direzione per vivificare l'immobile e calmo corpo saturnio. Esteriormente, le sementi germogliate (radici), dono della Terra in Primavera, solari nella loro espansione e, grazie alla loro cedevolezza, inviolate dal terreno che pur le stringe, daranno vita, in un ritmico e progressivo canto di vittoria sulla materia inerte, ad alberi, al verboso fruscio di rami e foglie e all'erba giovane dei prati. Interiormente, l'immaginazione concentrativa si porta sul centro-radice, igneo di luce, emanante beatitudine, inviolabile dalla comune coscienza. Il canto del mantra si snoda serpentino nell' "albero della vita" - centrale rispetto agli "alberi del bene e del male" - e si tramuta in diverso e più adatto logos, animando ciascun centro sottile e poi saturando di novella vita l'intera corporeità. Nel mio stare, rimuovermi e spaccarmi in memorie di scheletri e in volumi di letargici umori e buio d'occhi, io mi ripeto in spirito ed in carmi di forze caste e polari barlumi di calici di cielo ininterrotti. Nell'edizione 1954, "polari" è sostituito da "intensi" e "calici" è sostituito da "sapori". In questa seconda strofa emergono, e questa volta nettamente, altre modalità della pratica ascetica: l'alternarsi della immobilità meditativa e del movimento, il dividere l'attività meditativa stessa nella contemplatio mortis (memento mori) e nella esplorazione, ad occhi chiusi, degli spazi interiori (volumi) dell'area alta della testa. In essa tradizionalmente risiede, e da essa discende, l'umore flemmatico, causa, tra le altre cose, di una reattività calma e, all'eccesso, letargica. A proposito di questa localizzazione, dice Erodoto nel IV Libro delle Storie: "Ecco infatti cosa fanno i nomadi libici, se proprio tutti non saprei dirlo con certezza, ma certo parecchi di loro. Quando i loro bambini hanno quattro anni, con grasso estratto dalla lana di pecora gli cauterizzano le vene sulla sommità del capo, altri invece le vene delle tempie, allo scopo di impedire per sempre all'umore flemmatico che scorre giù dalla testa di nuocere alla salute del ragazzo. E dicono di essere sanissimi grazie a ciò. Ed effettivamente i Libici sono i più sani fra quanti uomini conosciamo; che questa ne sia la spiegazione non potrei affermarlo con certezza, ma è un fatto che sono sanissimi. Nel caso che i bambini, mentre li cauterizzano, vengano presi da convulsioni, hanno trovato un rimedio: li salvano aspergendoli con orina di capro". Le suddette meditazioni richiedono il reiterarsi dell'atto dello spirito, ma sono anche propiziate dalla ripetizione di carmi, costituiti di forze pure (parole di potenza, logodinami, mantra) e generanti intense luci interiori - barlumi "polari", cioè paragonabili ad aurore boreali - connesse ad un senso continuato di beatitudine (sapori o calici di cielo). Membra di luce spente in sordi suoni di magnetici passi, ed in figure di miti, di voleri, d'abbandoni pesano sulle inerzie vigili ed oscure dei miei corpi gremiti di stagioni. E la mia fonda purità si compie - fra climi inquieti e tra fami mute in selve di continua salute ed in spaziosità di tombe e d'ombre ...

Nell'edizione 1954, la virgola dopo "passi" è sostituita da una linea; "di voleri, d'abbandoni" diventa "di voleri e d'abbandoni,". Il punto dopo "stagioni" è sostituito da tre punti; l'aggettivo "fonda" è sostituito da "grezza". Dopo "mute" si trova una linea; "ed" diventa "e"; i puntini di sospensione dopo "d'ombre" sono sostituiti dal punto fermo. Viene descritta un'ulteriore tecnica. Un corpo di luce immaginale viene creato in corrispondenza e sulla base di quelli (fisico e sottile) già esistenti ed annosi, che sono sì sensibili (vigili), ma in gran parte oscuri per la coscienza e il controllo volitivo. Una volta creato viene "materializzato" (spento), cioè trasfuso nel corpo fisico, sia tramite "passi magnetici", consistenti esteriormente in un picchiettare delle mani su determinati punti del corpo, sia con l'ausilio della immaginazione, durante la quale il corpo divino, scelto tra varie e opportune figure mitologiche, viene volontariamente identificato con la propria compagine psico-fisica, per poi lasciar cadere la visualizzazione. Così la purità corporea prima potenziale (fonda o grezza) si realizza tra tempeste interiori e desideri resi silenti. Le località che propiziano queste pratiche sono i boschi sempreverdi, simboli dell'eterna vitalità del corpo glorioso, ma anche la vista di quei cimiteri di campagna, che con le loro tombe e le ombre dei cipressi offrono, in relazione alla comune corporeità, quel continuo "memento mori" (al quale l'autore ha già accennato in versi precedenti) che incita alla pratica. Saturo di cascami d'elementi mi seleziono in aridità d'aspri stati d'attesa - ed incrinato d'astri suscito nelle lave e nei fermenti delle mie moli e dei miei giacimenti respiri di diaspri e d'alabastri. E so volere e alimentare la potenza che langue nel marciume e vibra nei basalti del mio asse tutt'ossa e tutto smalti d'erbosi succhi e di sonora essenza. Nessun cambiamento di rilievo nella versione del 1954. Solo una virgola in più è presente dopo "elementi". In questi versi il linguaggio diventa decisamente alchimistico. La pratica del pilastro mediano, descritta in alcuni passi precedenti, sta portando taluni frutti. Come risultato secondario (cascàme) di quelle pratiche, il poeta è saturo dei cinque elementi e ne consegue un senso di svogliatezza, di aridità spirituale, di incapacità di continuare nella meditazione, di attesa penosa, da superarsi con un libero atto di volontà (selezione). Quando, al contrario, sono i difetti legati ai "pianeti" ad incrinare la quiete della meditazione, riscaldando i liquidi corporei e producendo irrequietezza nelle carni e nelle ossa, occorre dominarli, agendo con respiri che trasformano (diaspri) le sensazioni e accumulano (alabastri) nuova energia. In ogni caso occorre poi con determinazione tornare alla pratica principale e alimentare la potenza che langue in basso e vibra come in rocce ignee (basalti) alla base dell'asse centrale, che è osseo, ma scintillante di succhi vitali e risuonante di suoni interiori. Di particolare rilievo, in queste strofe, il simbolismo basato sulla classificazione delle rocce : metamorfiche (diaspri), sedimentarie (alabastri) e ignee (basalti). ... Solarità del mio quarzo - salive dei miei fossili sali - ère boschive dei miei catrami, dei miei crolli bruschi in falde di miniere velate di muschi ... tutte vi spremo donandovi il meglio d'ogni mio sonno e d'ogni mio risveglio. Fibre dorate di respiri - e linfe d'idee, di dei, d'animali e di ninfe, si son rifatte morbide strutture

d'anonimi equilibri - sono steli - nell'eco cava delle mie fratture di risonanze sottili di cieli. Nella versione del 1954 mancano i puntini all'inizio della strofa. Dei puntini di sospensione sostituiscono invece il punto dopo "risveglio" e quello dopo "cieli". I versi che iniziano con "Fibre dorate" costituiscono una strofa a sé stante. Non mancano tra le pratiche interiori del poeta quelle notturne: prima tra tutte quella del "sole di mezzanotte", di cui il quarzo citrino è simbolo, ma anche supporto materiale di preparazione alla pratica stessa, mediante concentrazione su di esso, prima di andare a dormire. La pratica vera e propria è quella che in sanscrito prende il nome di kechari mudra e consiste nel dirigere la lingua all'indietro, contro la parte superiore del palato. Sul piano sottile, le forze devolute normalmente alla fonazione, e al tipo di pensiero che la consente, si ritraggono, generando uno stato di quiete analogo a quello di sonno, ma creato volontariamente. Come effetto secondario della posizione della lingua si producono particolari salive (sottili e grossolane) che possono anche essere oggetto di relative pratiche. Temporalmente queste sono scandite dalle vigilie della notte, cioè dai turni delle sentinelle, che nell'antica Roma erano quattro, ma in altre tradizioni, ad es. quella buddhista, sono in numero di tre. E' questa anche la scelta di Comi, giacchè egli paragona le fasi della distillazione delle forze vitali (catrami) alle tre epoche vegetative (ere boschive) di Maggio, Luglio e Settembre. A pratica avanzata, sono certi eventi interiori a determinare l'evolversi della pratica, come ad es. il comparire di quel senso di vertigine o di precipitare, che fa sobbalzare l'uomo comune quando se ne accorge, e che il poeta ha imparato a dirigere, aggiungendovi fulmineamente una propria immagine interiore: quella di adagiarsi sul muschio che ricopre gli acquiferi di una miniera, simboli delle arterie sottili (1). Queste pratiche lo fanno partecipe di un mondo luminoso, fatto di luci a volte di forma astratta (fibre dorate) a volte aggregantisi in immagini più definite di ogni tipo ed equilibrate nei colori se i cinque elementi corporei sono in equilibrio. E' un mondo costituito anche di suoni che, pur sperimentabili localmente in connessione col corpo fluidico (si ripete il simbolismo delle fratture rocciose, sito degli acquiferi), sembrano eco o risonanze di eventi dei "cieli" sottili macrocosmici. (1) A proposito di eventi "interiori, nella monografia "Conoscenza delle acque" si legge: «Se questo sapere a te ti riconduce, e, ghiacciato da gelo mortale, senti l'abisso aperto [...]» e, similmente in "La via del risveglio secondo Gustavo Meyrink": «Irrigidisciti tutto, raccogliti bene e costringiti un momento solo alla sensazione che ti traversa con un brivido il corpo [...]». In effetti, leggendo e mettendo un po' in pratica quelle monografie, ho puntualmente avuto dei brividi. Fra l'altro mi è anche capitato con esercizi dei quali ho scritto altrove, come quello da me riportato sull'immaginarsi "al centro" e con uno sul potere della volontà. Probabilmente questi eventi sono dovuti alle stesse cause immediate/superficiali delle sensazioni comuni, ma sembra di intuire che dietro le quinte abbiano un'origine sottile, "occulta"... [N. d. Fabritalp]

Coi miei blocchi di vertebre montani e con le mie epidermidi sative combaciano tenacie votive di ritorni di soli e di fogliami: e ogni consumo di faune e di flore che mi solca e mi colma - m'affratella alla natività di una zolla gemella che si risolve in pollini d'aurore. Nella "versione Ur", dopo "fogliami" vi è un punto fermo, da ritenersi un probabile errore di

stampa, visto che il successivo "e" è minuscolo. Perciò riteniamo giusta e adottiamo la punteggiatura del 1954, cioè i due punti. Altre differenze tra le due versioni non ce ne sono. Il ciclo iniziatico del giorno e della notte prevede una pratica continua, comprendente anche i momenti di nutrizione. Anzichè abbandonarsi a posizioni curve o scomposte come fa l'uomo comune, occorre mantenere la spina dorsale eretta come una montagna e porre la propria attenzione alle parti della superficie corporea (epidermidi) "coltivabili" sensorialmente con la nutrizione: in questo modo vengono a coincidere la volontà magica di una riacquisizione di piene consapevolezze (soli) e quella di un ripristino di forze vitali (fogliami). Inoltre, ogni pasto, di alimenti sia animali sia vegetali, non solo migliora la consapevolezza del praticante, attraversando l'organismo e nutrendolo, ma può costituire anche possibilità di trasmissione iniziatica e di pratiche di catena (epulae iniziatiche).

2d) Dal "Cantico del tempo e del seme" di Girolamo Comi L'ultimo numero de "La Torre" (n° 10, 15 Giugno 1930) annunciava, in una nota, l'uscita del Cantico del Tempo e del Seme di G. Comi, presso la casa editrice "Al tempo della Fortuna", Via delle Convertite 18 (Libreria Modernissima) Roma, al prezzo di L. 10. Il Cantico, in questa veste definitiva, presenta una parte introduttiva in prosa ove, per quanto riguarda in specifico il titolo, si dice: "Seme e tempo sono luce affrancata dal peso dell'età atmosferica e umana; sono frutti e respiri sempre imminenti nell'antica gioventù delle carni e nella sempre attuale perennità dello spirito: in un battito solo riuniti celebrano e consacrano, nella segreta organicità di noi, l'universa salute dei miti e del sesso". Nel seguito elenchiamo i componimenti poetici presenti, intitolandoli con il primo verso. A fianco, in parentesi, è indicata l'eventuale anteprima in Krur o ne La Torre e/o l'eventuale presenza nella successiva antologia Spirito di Armonia (Lucugnano, 1954). Forze che vela un sonno risalite (Spirito d'Armonia.) Il vivo evento d'essere tessuti

(Krur)

Fulgori chiusi in te non mai svelati (Krur - Spirito d'Armonia.) Nel corridoio di non molte parole Dalle radici è luce la figura (Spirito d'Armonia.) Essenza d'ogni mondo (Spirito d'Armonia.) Rivuole il suo destino Gemme di vulve - sfrangiate in figure Forze fraterne dell'elemento e del verbo Si disegna uno scheletro votivo (Spirito d'Armonia.) Nel variare apparente dei nomi Il consumo fatale di me stesso (Krur) Se s'allontana il corpo gaudioso All'organicità di tutto riunito

Corpo celeste del tempo Il tempo non passa traspare (Krur - Spirito d'Armonia.) La gioventù di noi in noi permane (Spirito d'Armonia.) In un calice rutila il mistero D'alberi antichi le fossili spoglie Questo silenzio è luce virtuale (Spirito d'Armonia.) Il grande silenzio che cade Il frutto cade, va oltre se stesso Oh fiori, radiosa pazienza (Spirito d'Armonia.) La mattina disgrega le gemme Di questa polpa di giorni e di notti Nel'aereo tessuto dei colori La voce è un corpo ideale di luce Sillabe della luce - incluse ed echeggianti La luce dilatata in veemenze calme (Krur) Vivono i cieli del riflesso denso (La Torre - Spirito d'Armonia.) Il cielo ha una veemenza così netta (Spirito d'Armonia.) Nell'albero velato di generazioni (La Torre - Spirito d'Armonia.) Nella luce che qui perpetua il sole. Un estratto del poema "Cantico del Tempo e del Seme" , scritto nel periodo 1929-1930, uscì in anteprima sulla rivista Krur e si può ritrovare nel III vol. di Introduzione alla Magia. Il cantico ripropone lo stesso tema affrontato da Oso in "Appunti sul Logos": il tempo come durata, colta verosimilmente con la stessa tecnica, che Leo, in "Avviamento all'esperienza del corpo sottile", così descrive: " Noi dobbiamo cercare di avvertire accanto ad ogni impressione sensoria una impressione che la accompagna sempre, che è di un genere del tutto diverso - risonanza in noi della natura intima, sovrasensibile delle cose - e che ci penetra dentro silenziosamente." Nella prima poesia, il tempo è descritto come un trasparire. Ciò equivale a dire che l'evidenza è massima per gli avvenimenti presenti, senza per questo annullare gli avvenimenti passati, che sono solo meno visibili, situati in strati più o meno lontani della memoria; nè escludere quelli futuri, le probabilità dei quali appaiono come immagini non ancora distinte, anticipatrici dei medesimi. Gli avvenimenti, cioè le mutazioni dei corpi e della luce che li rende variamente visibili, sono percepibili come una sorta di composizione musicale, nella quale ogni nota è semenza di quella successiva e quest'ultima maturazione della precedente. Con la pratica esoterica, nasce un nuovo senso di sé: l'energia sottile, che muove il corpo, è avvertibile come un istinto luminoso, e il suo agire come canti, prodotti ad ogni scaturire della rinata parola vivente. Leo ha anche detto che tale nuova percezione "è un annullamento del senso dello spazio - mentre resta una attività di successione, un senso diverso, interiore, ritmico del tempo". Comi gli fa eco, dicendo che è all'orizzonte (agli orli di tutti i paesi) che lo spazio sembra esser sciolto dall'azione del divenire (la torrenzialità del tempo), in sonorità che si mescolano ai colori

del cielo. Ed è sempre il tempo che, con l'alternanza luminosa, modula la mercurialità cosmica (il segreto argento) nel succedersi dei giorni e delle notti in unità cicliche più grandi, come i petali nelle corolle. I Il tempo non passa: - traspare in inni d'eterna semenza nei corpi e nell'iride densa d'ogni stagione solare. Fa le tue membra raggianti d'un istinto di luce incisivo che scolpisce e riassume i suoi canti nelle albe del verbo nativo. Agli orli di tutti i paesi la sua torrenzialità scioglie lo spazio del suolo, le zolle in sonori orizzonti turchesi. Ed irrompe in fulgori dirotti nella tenebra dell'elemento, per sfrangiarne il segreto argento in corolle di giorni e di notti. Nella seconda composizione, l'attenzione si porta decisamente sulla scaturigine di quell'istinto luminoso al quale accennava la prima poesia. E' il mondo di quei fosfeni, che il mondo profano considera ingenuamente come residui dell'attività ottica. Si tratta invece di un aspetto di quella "materia" sottile (elementi elementanti) che ad occhi chiusi, da svegli, appaiono come barlumi cangianti e caotici, ma che si organizzano invece nelle immagini della nostra memoria e dei nostri sogni. Al poeta essi si svelarono, per la prima volta, come veste percepibile dell'agire delle forze vitali (gli aliti d'essenza). Viene ribadito che questo agire si presenta anche come un canto, un suono interiore, avvertibile soprattutto tra gli spazi esistenti tra un pensiero discorsivo e un altro, innumerevoli come i pensieri stessi (lo sciame dei silenzi) e che permette allo spirito di diffondere il suo atto, in vampe vitali, in tutto il suo microcosmo, fino alle sedi del sempre rinascente atto sensoriale. L'aura industruttibile di elementi sottili che proteggono il "corpo mercuriale" opera, seguendo il ritmo del respiro, quell'eterizzazione del sangue (cioè quella parziale trasmutazione, nel cuore, del sangue in luce) preludio, sia pur distante, di ciò che, nell'adepto perfetto, è l'eterizzazione di tutto il corpo grossolano II Fulgori chiusi in te, non mai svelati se non come barlume ed apparenza d'imponderabili aliti d'essenza gelosi del mistero in cui son nati, Cantano nello sciame dei silenzi l'evento dello spirito, disperso in vegetali vampe d'universo e nel nativo gemito dei sensi. Ma una indistruttibile aura di salute nella tenacia del respiro scande gli intervalli celesti e le volute del mistero nudrito del tuo stesso sangue.

Confrontando "Dal cantico del tempo e del seme" pubblicato su Krur con lo stesso Cantico presente nell'antologia "Spirito d'Armonia" (che raccoglie la produzione lirica di Girolamo Comi del periodo 1912-1952, secondo una scelta dello stesso autore) si può osservare che solo le prime due poesie della "versione Krur" del Cantico sono presenti, e in diverso ordine, nella suddetta antologia. Le ultime tre sono assenti e sostituite da un maggior numero di componimenti. Il diverso ordine delle prime due poesie indica che l'autore non dava molto peso all'ordine di lettura, essendo ciascuna da considersi compiuta in sé stessa, pur lumeggiando diversi aspetti del medesimo tema. La mancanza delle tre ultime composizioni nell'antologia indica probabilmente che Comi le riteneva più adatte al pubblico che leggeva Krur e non ad un pubblico più vasto. Perciò la "versione Krur" del Cantico può ritenersi, come peraltro è logico, una versione più sintetica e più esoterica. Ma passiamo all'esame della terza composizione. L'uomo non è un oggetto, ma un evento vivente e come tale sempre nuovo, tessuto di istanti inafferrabili di tempo. E' libero, senza regole ("sregolato") eppur, corporalmente, racchiuso in quella mineralità, frutto di compiuti cantici del Logos (il lettore tenga presente quanto dice Oso in "Appunti sul Logos"). Questo modo di essere scioglie e ricoagula di continuo gli involucri ("il peso") che avvolgono lo spirito, compenetrato in quel coro illimitato che genera ogni ricominciamento ("mattine"). Alla base di una tale descrizione c'è un'esperienza che in Oriente è chiamata conoscenza dell'aspetto tremendo della realtà (Vijnanabhairava) spesso personificata nel dio Shiva, il distruttore delle forme: all'occhio interiore dell'asceta si rende evidente che il cosiddetto mondo reale si dissolve e si ricrea ad ogni istante. Ogni ricreazione sembra alimentata da interiori ricominciamenti, da lente premonizioni, dall'ansia passionale, dalle promesse di un rifiorire. Questa struttura di base ritmica del tempo è il fondamento di altri ritmi più lenti ma altrettanto instancabili, primo fra tutti quello del respiro, piacevole perchè ci fa sentire vivi. Il suo cambiar di ritmo è legato alle modalità del pensiero ed esso sembra riposarsi, adagiandosi nella durata delle parole, o, come forza pronta a dispiegarsi in nuovi cicli vitali, nella semente. III Il vivo evento d'essere tessuti di palpiti impalpabili di tempo o sregolati - carne ed ossa - dentro le miniere di cantici compiuti, In noi consuma e rielabora il peso d'uno spirito ardentemente steso nella coralità senza confine di generazioni di mattine... Il tempo - alimentato in tutti i pori da mattudinità interiori di spazi intrisi di promesse lente d'ansia di sangue e promesse di fiori Ci ricollega inesauribilmente all'organicità voluttuosa d'ogni respiro che pensa o riposa nella parola e dentro la semente. Il ritmo del Tempo che invecchia il corpo grossolano e infiacchisce le emozioni appare alla conoscenza immaginativa del poeta come una compagine di figure, alcune oscure, altre di luminosità nascente, espressioni di due differenti livelli di energia. La realtà materiale, che esse scolpiscono, si mostra, a sua volta, come il riflesso delle "indistruttibili nature", cioè degli aspetti positivi, non-distorti, dell’essere che si configurano in un individuo illuminato : indistruttibilità della presenza della consapevolezza, indistruttibilità della facoltà di apparire agli altri, indistruttibilità della parola magica (logos), indistruttibilità del pensiero magico. L'essere è saldato ad ogni stadio di trasmigrazione ("scatto a scatto") all'immemorabile

flusso del divenire, come una gemma od una propaggine al suo tronco; ma tale vincolo lo lascia, in realtà, intatto ed ecco che si manifesta il seme dell'illuminazione nel frutto della manifestazione. Se si frammenta nell'arida struttura salina dello scheletro, risale anche, sotto forma di fluidi energetici ("linfe velate di cielo"), lungo quell'axis mundi che è la colonna vertebrale ("lo stelo"), trascinando la basale forza che opera in noi come sesso, ridistillandola in quella originaria "aria di proiezione", che è il potere del pensiero. IV Il consumo fatale di me stesso è compagine sacra di figure di notte e d'alba incise nel riflesso delle mie indistruttibili nature. Quest'essere saldato -scatto a scatto alle gemme e propaggini di tutto un tronco immemorabile - ma intatto dentro cui ridiventa seme, il frutto. Se si sgretola in sali aridi d'ossa, risale in linfe velate di cielo nella terrestre magia dello stelo che testimonia la nativa forza del sesso proiettato nel pensiero. Il poeta descrive i vari stadi di una visione della luce interiore. Dapprima una rosa di luce, luminosamente dilatata, i cui molti e fitti petali appaiono come una marea possente e calma ove ciascun elemento sottile e grossolano é permeabile agli altri. In uno stadio ulteriore, la luce cristallizza in formazioni stabili, simili a intricati grappoli di frutti, mentre le forze vitali si manifestano in una quieta beatitudine. Poi la visione viene rievocata, riportando alla memoria i vasi sottili ove le forze vitali mandano palpiti radiosi e fragranti. La presenza mentale risale i vasi sottili fino ai nodi dei centri di luce, astri infaticabili del corpo sottile, sempre luminosi, dove fermenta il germe dell'illuminazione. Esso riecheggia nei risvegli progressivi, precedenti la pratica "al di là dello sforzo", e matura nelle "indistruttibili nature". V La luce dilatata in veemenze calme di porose maree d'elementi e di carne, si cristallizza in grovigli di frutti ed in riposi estatici di succhi. La tua memoria che ne aspira i calici ed i radiosi palpiti aromatici. Risale verso i solchi e le fratture degli astri insonni e delle aurore eterne dove fermenta e riecheggia il germe dei tuoi risvegli e delle tue nature.

Come si è già detto in precedenza, Il Cantico del Tempo e del Seme è stato presentato, da parte di Comi, in varie versioni. Nel quindicinale La Torre (n° 5 - 1 Aprile 1930) pubblicò, con il titolo"Secondo l'Albero", quel componimento che, nell'antologia "Spirito d'Armonia"

(1954), andrà a costituire la parte conclusiva del Cantico. Tale edizione de La Torre è particolarmente interessante, perchè contiene tre strofe (le ultime) che non si trovano più nella versione, meno esoterica, di "Spirito d'Armonia" (1954). Ma gli aspetti interessanti non finiscono qui, perchè nel numero precedente de La Torre (n° 4- 15 Marzo 1930 ) nella raccolta di Aforismi "Riferimenti e Associazioni", Comi stesso aveva fornito, nei primi due aforismi, alcune chiavi simboliche che sono in armonia con questa parte del Cantico. Le riportiamo come premessa: La pianta aspira al sole per (una) legge naturale. L'uomo si consuma e si realizza nel sole in virtù di un suo nativo (e inesauribile) impeto soprannaturale. *** Il 'tronco' dell'albero è 'padrone' di foglie e di frutti per cui il deperire e il perire rientrano nel piano del fenomeno bruto, senza conseguenze ulteriori. Lo 'scheletro' dell'uomo è schiavo di carni che vogliono riorganizzarsi e "riunirsi" in corimbi di magiche efficienze. In vista e in attesa di tale unità vediamo deperire e perire i corpi. ***

Nell'albero - velato di generazioni d'inni d'effimere stagioni circola una fragranza di tempo inviolato che satura le pause del tuo fiato d'una coscienza di perennità. Se ridiscendi verso le radici, ecco la pazienza duttile ed intatta d'una catena di germogli, fatta di sorde tempre di solarità. E l'albero si dona aereo e sotterraneo - virtù corale d'indiviso polline all'ansia dello spazio che ne accoglie il tronco immediato e l'umore lontano. L'imponderabile aura delle foglie è palpito di un simbolo solenne che collega le fibre delle gemme all'entità dello spirito umano; ed il tempo che lievita e dilata di sali d'astri la tenera forza d'ogni virgulto diventato ramo, scande ed eterna - per tutta la scorza della statura dell'albero - l'ebbro cantico del tuo corpo e del tuo verbo. La tendenza di Comi, in quel periodo, a commentare egli stesso la sua poesia, ha una conferma nel n° 7 de La Torre (1 Maggio 1930). Infatti le strofe de La Lettera e Lo Spirito, componimento che andrà a costituire, nell'edizione 1954, la terzultima parte del Cantico del Tempo e del Seme, sono precedute da un breve commento dello stesso Comi. Nella versione 1954, si notano varianti di non grande rilievo. In particolare, nell'ultima strofa, "Radioso" è sostiuito da "Ardente" e "d'immortalità" da "d'eterno". In entrambe le versioni, la punteggiatura dell'ultima strofa appare più basata sul ritmo che sulle abituali convenzioni grammaticali.

LA LETTERA E LO SPIRITO Una "semenza" e un "ritmo" universale di luce, che ne fa calici e frutti, bastano a rituffarci nella mitica maternità della sostanza che ci è data. Lo spirito accoglie e riproduce il travaglio epico di tutte le forze di cui esso è simultaneamente testimone e collaboratore: ma bisogna che la sua testimonianza e la sua collaborazione diventino "necessità organica" (nel sangue e nel pensiero) e combacino con le più sintetiche vitalità delle cose e degli esseri. Non basta accogliere e riprodurre: bisogna che in questa accoglienza e in questa riproduzione vibri la ininterrotta solarità germinale della terra e del cielo. Vivono i cieli del riflesso denso dell'età consumate - dilatati dall'ebrietà dei corpi e rinsanguati dal respiro del verbo e del silenzio. E in ogni astro è il peso vivo, il sale dello spirito che vibra o che tace ispirato dall'ausilio tenace dell'acqua, della zolla, della brace e dall'impeto del seme animale. Radioso scambio fra spirito e sesso, fra tombe e sole, fra notti e aurore intride e colma d'un doppio riflesso d'immortalità, l'ansia del seme e del fiore.

3) Arturo Onofri Nuovo Rinascimento come Arte dell'Io Sintesi a cura di Oso Il ciclo poetico conclusivo della poesia onofriana, che comprende, in ordine di pubblicazione, Terrestrità del Sole (1927), Vincere il Drago! (1928) e, postumi, Simili a Melodie rapprese in Mondo (1929), Zolla ritorna Cosmo (1930), Suoni del Gral (1932), e Aprirsi Fiore (1935), è preceduto dal fondamentale testo teorico Nuovo Rinascimento come Arte dell'Io (1925). La nascita di questo testo è ovviamente in connessione con l'adesione di Onofri all'Antroposofia steineriana, che ha ispirato anche altri artisti del Novecento, come Andrej Belyj e Vasilij Kandinskij. Altri ancora, come Fernando Pessoa o Piet Mondrian, hanno tratto invece ispirazione dalla Teosofia. Per comprendere anche solo quel poco della poesia onofriana pubblicato su Ur/Krur, penso sia necessario un sia pur schematico esame delle sue posizioni teoriche, espresse in Nuovo Rinascimento. Il primo capitolo del libro, intitolato "Arte Antica e Arte Moderna", si propone di indagare la distinzione esistente tra l'arte del presente e quella del passato. Onofri specifica che: "Per 'passato' s'ha da intendere non solo l'arte egizia, greca e latina, ma anche quella che attraverso Dante e Giotto impronta di sé il Medioevo e tutto il Rinascimento, e include, a un di presso, l'intero 1500" (p. 25). La prima caratteristica dell'arte moderna è di essere arte cosciente: "A differenza dell'antica, l'arte moderna deve prender coscienza del suo nuovo compito, se vuole realmente eseguirlo. Questo è il punto. Non si potrà più parlare di veri artisti ingenui, fanciulleschi, inconsci. Ciò non è possibile per il presente, e tanto meno lo sarà per l'avvenire" (p. 24).

Per questo motivo, l'artista moderno avverte in genere una certa insofferenza, perfino per le forme semplicemente esteriori dell'arte tradizionale, e si sforza di creare, a costo di cadere talvolta in aberrazioni formalistiche, qualcosa di profondamente differente: "Non è più possibile rivolgersi al passato e alla tradizione, per derivarne, magari come seguito, una spinta efficace alla creazione d'arte. Con ciò non si vuol negare la bellezza e la necessità che reggono le opere mirabili del passato: sarebbe stoltezza. E che alcuni artisti siano caduti nel tranello di negarle, dimostra soltanto che spesso le migliori intenzioni sono quelle che conducono all'opposto" (p. 24). L'artista antico viveva in simbiosi con la natura e con le forme sacrali della tradizione alla quale apparteneva, e da essi traeva spontaneamente ispirazione. L'artista moderno tendendo, per diversa struttura interiore, ad emanciparsi dai dogmi e dalle forme sacre ereditate, ed essendo figlio di un'epoca che ha sviluppato all'estremo l'aspetto razionale del suo essere, non ha altra scelta coerente se non quella di cercare di esprimere una spiritualità creata e vissuta coscientemente: "L'arte d'oggi è nata e nasce dallo sforzo che l'artista fa per mutare la costituzione dell'anima sua, attraverso il suo interiore lavorio individuale. E questo sforzo è tanto più creativo quanto più consapevole. Siamo giunti al punto in cui l'artista, se vuole efficacemente proseguire il suo sforzo creativo, deve prenderne coscienza in modo decisivo; deve trovare addirittura il metodo della sua individuale trasformazione progressiva verso la diretta comunione con la spiritualità cosmica (p. 33). ... Si sta trasformando l'intera costituzione dell'anima artistica, la quale, invece di guardare ancora verso il proprio passato, è ormai costretta non solo a guardare, ma a lavorare consciamente al proprio avvenire (p. 34). ... Noi conosceremo lo Spirito organicamente, quale vita reale, non lo penseremo più solamente per via di concetti filosofici" (p. 36). Ritornando sulla differenza tra artista antico e moderno, Onofri offre al lettore una efficace similitudine: "Come il bambino nell'utero materno vive della stessa vita della madre, ancora tutt'uno con lei, ma appunto perché è tutt'uno con lei, non può averne alcuna coscienza, perché non ha ancora una personalità sua, indipendente da quella della madre, così noi siamo dovuti uscire dal grembo della realtà divina, appunto per imparare a conoscerla in quanto esseri umani indipendenti da lei, e per questa via dobbiamo ora riconquistarla in noi stessi. Dunque una concezione cosmica che s'interiora nel sangue è una concezione che non si limita ad occupare l'intelletto umano in funzione di concettualità, ma trasforma e plasma, a sua propria stregua, l'interno essere dell'uomo, modificandone, oltre ai pensieri, anche le passioni, le abitudini, le convinzioni profonde e gli atteggiamenti spontanei nei rapporti umani, sia pratici sia di sentimento. È interiorata nel sangue quella concezione del mondo che in certo modo non ha più bisogno d'essere pensata intellettualmente per esistere nell'interno dell'uomo, ma è presente nella funzionalità attiva degli organi (anche fisici), in tutta la costituzione d'insieme dell'uomo stesso, nella sua viva realtà spirituale, animica e corporea (p. 42). ... L'uomo dovrà diventar conscio in sé medesimo dell'elemento divino del mondo" (p. 44). E conclude conseguentemente: "La differenza essenziale, dunque, fra arte antica e moderna è questa: che l'arte antica si attuava in quanto l'artista si disponeva in uno stato di accoglimento soprattutto passivo e inconscio; quella odierna esige, e sempre più esigerà, dall'artista uno stato di iniziativa interiore e di attività individuale che tenda all'auto-trasformazione cosciente dell'uomo-artista" (p. 48). Nel secondo capitolo, intitolato La Coscienza Critica dentro l'Opera d'Arte, Onofri passa ad esaminare più approfonditamente le caratteristiche dell'artista moderno, inerenti al suo nuovo e sofferto compito. Ribadendo affermazioni del precedente capitolo, Onofri nota che gli artisti del passato, come Dante o Raffaello, erano espressioni di forze e di tendenze che agivano nella loro epoca, e che confluivano in essi dall'esterno, potenziandone le facoltà estetiche: " E' verissimo che l'arte di un Dante o di un Raffaello è di gran lunga superiore, come risultato, all'arte odierna; ma si ingannerebbero assai coloro che dalla perfezione di quelle opere d'arte, quali appaiono a noi, volessero dedurre che Dante e Raffaello avevano una adeguata coscienza (come uomini individuali) delle forze divine che agivano in loro, ispirandoli come artisti, e che quelle forze fossero proprie della loro interiorità individuale cosciente. ... Quegli uomini divini appartengono ancora ad un'epoca artistica, in cui la creatività dello spirito operava, in grandissima parte, all'insaputa dell'artista stesso, non ancora orientata del tutto dal di dentro di lui. Non era ancora effettuato interamente il trapasso verso la coscienza singola, cioè verso l'auto-coscienza, come abbiamo detto, che si stava solo preparando (p.

50)". Come è stato indicato da qualcuno, nel Quaderno sui Fedeli d'Amore, Massimo Scaligero condivideva questa visione. Tuttavia, in quello stesso Quaderno, è stato anche sottolineato che, da questo punto di vista, soprattutto gli ultimi Fedeli d'Amore rivelano una certa continuità con i primi Rosacroce e che la forza magica legata a quel mirabile cosmogramma che è la Divina Commedia probabilmente non è estranea - se non nelle sue cause, nei suoi effetti - al definitivo trapasso, almeno in Occidente, alla coscienza di tipo moderno. Secondo Onofri, l'artista moderno si trova isolato rispetto alle forze ispiratrici agenti nell'antichità e perciò senza impulsi 'esterni' sostenenti la sua ispirazione, che può creare unicamente nella sua soggettività: "L'artista d'oggi non può non lavorare strenuamente con la sua coscienza e sulla sua coscienza, se vuole ritrovare le sorgenti della creazione artistica. Così egli arriva a comprendere di poter oggi realizzarsi artisticamente in proporzione di quanto riesce a realizzare (in sé uomo) la consapevolezza della spiritualità reale che vive in lui, nei suoi stessi sforzi d'uomo e d'artista, come anche nell'universo. (p. 57) ... Non è più l'elemento irrazionale (o prefilosofico) quello che costituisce l'essenza dell'arte, come moltissimi ancora opinano, bensì un elemento ultra-razionale, post-filosofico, che vuole sorgere dall'interna coscienza dell'uomo odierno. Fra l'antica arte irrazionale e la nuova arte ultra-razionale c'è, già oggi, un vero e proprio conflitto, e chi scrive ne sa qualche cosa (p. 60)". Come risolvere il conflitto? cioè il tentativo di far nascere, nella propria interiorità, il sole stesso della creatività artistica? : "Ecco che il duplice aspetto della nuova artisticità ci si manifesta simultaneamente: da una parte un'assoluta interiorità, e dall'altra un continuo prender coscienza della trasformazione vivente di questa interiorità, per manifestarla all'esterno adeguatamente, in un articolato divenire, che sia, nella tecnica artistica, la 'forma' stessa dell'opera d'arte. ... Non già, dunque, che l'artista non debba più guardare all'esterno, e debba negarlo o disinteressarsene. (p. 62) ... Gli esseri e i fatti del mondo circostante non sono più che le viventi immagini della sua ampliata interiorità: della sua interiorità cosmica. Ma prima egli deve aver trasformato se stesso e il suo sangue, mercé la superiore coscienza del cosmo, e precisamente mercé una coscienza dell'universo spirituale come di una unitaria gerarchia di esseri spirituali. Allora, dentro l'opera d'arte, vive ed opera la coscienza stessa dell'artista" (p. 63). Inutile dire che, perchè si possa apprezzare adeguatamente un tale tipo d'opera d'arte, il critico d'arte, deve avere anch'egli accesso alla medesima dimensione spirituale dell'artista: "Da ciò si comprende come la critica di un'opera non può essere fatta se non a questa condizione: che il critico non solo partecipi all'evento che s'è svolto nell'artista, ma sia in grado di osservarlo criticamente (e quindi valutarlo) dentro la propria interiorità cosciente. Altrimenti il fatto artistico o viene respinto, o viene più o meno passivamente subìto, vissuto, ma non conosciuto, compreso" (p. 64). Ne viene anche di conseguenza che l'arte moderna è spesso un po' oscuramente alla ricerca di se stessa, così come un po' oscuramente alla ricerca di se stesso è l'uomo moderno, soprattutto quando si mantiene distante dal pensiero iniziatico: "Ciò spiega anche perché la maggior parte delle opere d'arte odierne, nel loro intimo contenuto, non solo presentano errori, sforzi, deformazioni, arbitrî, oscuramenti, sproporzioni spesso gravissime, ma hanno altresì l'impronta caratteristica di ricerche e di studi. Rispetto ai perfetti capolavori antichi, le opere d'oggi, ripeto, sono sempre alquanto approssimative. (p. 66) ... L'artista non sapendo rendersi conto di quanto effettivamente avviene in lui come ispirazione nel sangue, vi legge dentro per approssimazione, cioè la sua ispirazione non è completamente reale, poiché per essere tale essa deve essere portata a piena coscienza dallo sforzo interiore auto-conoscitivo dell'artista medesimo. Gli artisti moderni, sentendo d'istinto questa interna sproporzione, hanno cercato per lo più di rimediarvi come hanno potuto (pp. 66-67) ... . Questa è la motivazione, ad esempio, del ben noto leitmotiv wagneriano, o delle teorie stereometriche (cono, cilindro, sfera) del Cézanne; questa è l'ossessione scientifico-medianica di Poe, o la famosa alchimia del verbo di un Rimbaud o il paradossalismo un po' perverso di un Wilde, o le inversioni di valori di un Nietzsche, o le dottrine sociologico-ereditarie di uno Zola, o il paganesimo letterario del Carducci, o le ricerche naturalistiche sulla luce e sui volumi in tutti i plastici, impressionisti, divisionisti, futuristi, cubisti, o le enumerazioni catalogiche di Whitman, o la scala esatonale di Debussy, ecc. (p. 67) ... L'ispirazione ne risulta mozza, frastagliata in compromessi intellettualistici, che la snaturano più o meno. L'artista si sbaglia, più o meno, nell'interpretazione di quella forza espressiva che in realtà agisce nel suo subcosciente, e che, per essere totalmente se stessa, reclama in lui il consapevole riconoscimento della

propria originale essenza sovrannaturale. Da questo errore della coscienza artistica sono nate le varie formule, le tecniche, le scuole, e tutte le programmatiche sopraffazioni intellettuali, proprie dell'arte odierna, che portano infinite denominazioni, ma sono sempre una sola ed unica deviazione. Tuttavia, se noi, pur tenendo fermo a questo carattere deformativo, indaghiamo la natura essenziale dello sforzo artistico moderno, dobbiamo arrivare a riconoscere che oggi, nelle correnti profonde dell'arte, c'è una vera tendenza di rinnovamento, un istinto novello" (pp. 67-68). Onofri è poi critico nei confronti dei molteplici fenomeni di "passatismo" e anche dell' "eclettismo" che spesso li accompagna. Egli li scorge soprattutto in ambito teosofico, ma li possiamo anche scorgere in taluni "storici delle religioni", troppo propensi ad accostare tra loro fenomeni temporalmente distanti; oppure in coloro che pretenderebbero, ancor oggi, di far rinascere forme culturali ormai scomparse e infine in studiosi dell'esoterismo, che hanno una visione statica del "tradizionalismo" o adducono a giustificazione dell'eclettismo l'unità trascendente delle religioni: "Ognuno sceglie secondo le sue preferenze personali, disputando poi, con perfetta accademia, contro le altrui convinzioni e preferenze parimenti personali: platonismo, bramanesimo, vedantismo, taoismo, zaratustrismo, buddismo, ermetismo, ebraismo, cattolicismo, protestantesimo, maomettismo, ecc., quasiché si trattasse di rivelazioni attuali dello spirito, senza tener conto del loro ordine storico, che solo ne dà l'intimo significato spirituale, nel corso d'evoluzione dell'umanità". Senza tener conto di tale trasformazione interiore dell'uomo, non è possibile comprendere ciò che è ancora valido in quelle forme spirituali e cosa no: "Gli uomini debbono rinnovarsi dall'interno della propria spiritualità operante, e non più richiedendo al passato, né all'esterno, i rimedi e le norme della vita. Bisogna volgersi alle reali sorgenti del rinnovamento, vincendo le illusorie opinioni tradizionali, e tutte le velleità dottrinarie, personali o settarie. Altrimenti ci si sentirà sempre più estenuati di forze" (p. 72). Naturalmente non si nega che esista una continuità iniziatica, che si è andata evolvendo nel corso dei tempi, adeguandosi alle trasformazioni interiori dell'uomo, ma si trova assurda e controproducente la pretesa di fissare tale continuità in forme antiche, ormai per noi inefficaci e di scambiare esse per l'attuale iniziazione: "Non più dunque dalla tradizione, né dalla polemica contro la tradizione, che è equivalente, ma da un auto-rinnovamento puramente individuale, può avverarsi un risorgere delle forze artistiche creative. Se l'artista vuole arrivare a plasmare artisticamente, deve prima riplasmare se stesso. Questa sarà la sua prima vera opera d'arte. E da siffatto auto-riplasmarsi egli può attingere l'energia creatrice dell'Arte (p. 75) ... . E allora, a mano a mano, saliranno novamente dall'interno di lui grandi immagini creative (analoghe a quelle che troviamo nell'Odissea, nel Partenone, nell'Orestiade e nel Prometeo, nell'Eneide, nella Commedia, nel Giudizio Universale, nel Cenacolo, nell'Amleto, nelle Sinfonie beethoveniane, nel secondo Faust, nel Tristano e nel Parsifal), poiché queste grandi immagini creative non nascono già dal mondo esterno, ma dal mondo interno dell'uomo, e sono espressioni del contenuto cosmico che è, allo stato subconscio, nell'uomo stesso" (p. 76). Da parte nostra, riteniamo che si possa benissimo continuare a parlare di tradizione, come si fa in questo Forum, a patto di identificarla con la continuità iniziatica, dinamicamente evolventesi con l'uomo e come tale ancor oggi presente. Non è un caso che molte tradizioni iniziatiche abbiano sentito il bisogno di evolversi nel tempo: si pensi, ad es. alle differenze tra il Buddhismo delle origini e lo Zen o il Tantrismo. La tradizione iniziatica occidentale si è evoluta in modo analogo, anche se spesso più sotterraneo, ovviamente adattandosi all'uomo occidentale. Se si ha invece una visione statica della tradizione e la si identifica di conseguenza con forme spirituali ormai morte, non si può far altro che concludere, come taluni infatti hanno concluso, che la tradizione stessa è morta. Ed è inutile prendere a scusa di tale atteggiamento l'immutabilità essenziale dello Spirito, perchè, in ogni caso, non è affatto immutabile il rapporto di tale Spirito con le sue modalità di manifestazione. Il terzo capitolo, intitolato La Volontà nell'Arte Moderna, mette in luce l'importanza, del tutto peculiare, che ha questa umana facoltà, nell'attuale processo di creazione artistica. Onofri comincia col notare che: "Qualunque sia il sistema di segni adottati - parole, note, linee, colori - l'arte è strumento di auto-rivelazione spirituale. La funzione autoconoscitiva ed espressionistica, che essa assume di fronte allo Spirito del mondo, è quella stessa che la coscienza umana riconosce in sé medesima quando guarda al cosiddetto 'mondo esterno' come ad un gigantesco alfabeto espressivo, ad un inesauribile cifrario in funzione di vita

vivente. Gli stessi ordini di spirituali potenze che hanno creato le forme e gli esseri del mondo esteriore (minerali, piante, animali, uomini, corpi celesti) manifestandosi via via attraverso di essi, nella lor propria essenza formativa e autoevolutiva, questi medesimi ordini di potenze si manifestano nell'uomo sotto specie di arte. ... L'uomo stesso, condotto a proseguire, per intimo impulso, per istinto, la volontà creatrice delle potenze spirituali, non ha fatto finora che ripeterne e proseguirne subconsciamente nell'arte la legge, il ritmo e l'essenza. D'ora in poi lo dovrà volere deliberatamente" (pp.78-79). Il problema dell'ispirazione artistica si identifica con quello della 'rivelazione': "Nell'arte antica è la rivelazione che scende, che si dà all'uomo; nella scienza posteriore è l'uomo stesso che vuole innalzarsi alla rivelazione. (p. 82) ... Di questo mutamento della coscienza la stessa sintesi creativa (l'arte) per quanto la sua natura glielo permetteva, non ha potuto non risentire" (p.83). La rivelazione è sempre presente nell'arte anche quando non è presa in considerazione dall'artista o addirittura negata: "Si può affermare che non c'è artista un po' degno di questo nome, il quale non conservi in un cantuccio (sia pure trascurato) della sua anima espressiva l'anelito della rivelazione. ... Non c'è impressione più penosa di quella che danno gli artisti che negano la rivelazione spirituale. È come se un orologio, potendo parlare, negasse di segnare le ore" (p.84). Onofri mette poi in evidenza le facoltà necessarie all'artista moderno, perchè possa realizzare una autentica sintesi creativa, come anche le deviazioni che facilmente possono presentarsi in chi si lascia sopraffare da certo utilitarismo: "Per riottenere una vera sintesi creativa, si presupporrebbe oggi un artista che fosse dotato di tre facoltà ben difficili a trovarsi riunite negli artisti: 1°) la coscienza dell'unione perduta (da riconquistare) fra fede e conoscenza, fra arte e scienza, fra grazia e verità; 2°) la volontà capace di trovare la strada e il metodo giusti per attuare consapevolmente l'unione, e attuarla prima di tutto nella vita, come uomo; 3°) tale un equilibrio di vita interiore da non perdere mai di vista, pur nello sforzo cosciente e disciplinato, l'insieme da raggiungere, soprattutto conservando l'essenziale armonia delle facoltà interiori e della vita, armonia senza la quale non è mai possibile arte vera. Dinanzi a un ideale tanto elevato, chi di noi non si sente modesto, e non tende a vacillare? Molti sono oggi gli artisti, che pur avendo intraveduto la luce della mèta, danno indietro e recalcitrano, fino a voltare le spalle alla luce intravista e a negarne beffardamente l'esistenza. Costoro non sono ancora maturi alla nuova creazione, poiché l'essenza d'ogni creazione è il sacrificio in nome del divino che c'è in noi, sacrificio di successo, di quattrini, di fama e perfino di risultati apprezzabili nell'ambito stesso dell'espressione artistica. Ma è gloria più vera aver solamente tentato la via buona, anziché esser riusciti sulla via falsa. Riusciti a che? A illudere se stessi. Questa tendenza auto-illusoria è effettivamente la tendenza odierna più difficile a vincersi. Tutto, intorno a noi, cospira a ingigantire in noi questa tendenza: dalla potenza meccanica alle pseudo-opinioni dei giornali, dal peso massimo che in tutte le attività della vita hanno oggi raggiunto gl'incompetenti (che sono il peso morto da vincere) fino alla dura lotta che richiede la quotidiana esistenza economica di ognuno. Tutto cospira a sospingere l'artista lungo la più facile china del successo esteriore; ovvero, ed è il meno peggio che possa capitargli, a stornarlo oltreché dalla soluzione, addirittura dal problema stesso, spingendolo verso altre attività, che non siano quelle dell'arte come rivelazione" (pp.84-85). Si deve riconoscere che sono parole ancor oggi attualissime. Ritornando al nostro artista ideale, che significato può assumere oggi, per lui, nel campo specialissimo dell'arte, il termine 'tradizione'? : "Ogni vera opera d'arte è, a se stessa, la sua propria tradizione, che nasce con l'opera stessa, in essa sola rimane vivente, e con essa si esaurisce. Ogni proseguimento, ogni perdurare di quella tradizione, fuori dell'opera che le ha dato origine, è contrasto, opposizione, negazione dello spirito creativo. (Non si parla qui di forme astratte: cioè di metri, di generi letterari, di argomenti di poemi, ecc. Si parla dell'intimo timbro spirituale, e della situazione essenziale che il suo creatore ha assunto nel mondo). Dunque: in arte indietro non si torna; né si dovrebbe tornare, anche se, per disavventura, si potesse. Allora non resta altra soluzione del problema fuori di questa: che l'artista sia cosciente del problema stesso. Egli cioè non può più ignorare che l'essenza della sua arte è la rivelazione spirituale del cosmo in lui uomo; e poiché l'antica capacità istintiva di questa rivelazione gli è andata perduta, egli deve diventar cosciente di ciò che ha da fare, con la sua propria volontà, per arrivare a riconquistarla. Egli deve imparare, liberamente, dalle forze interiori proprie, il metodo della rivelazione" (pp. 86-87).

L'autore si rende conto che già accettare ciò urta contro pregiudizi ereditari, che solo l'artista che abbia sviluppato in sé volontà di autodominio può superare. In tale direzione, Onofri indica necessario, innanzi tutto, operare per liberarsi da "tutto quel mondo complesso di immagini istintive, di pensieri e di sentimenti impulsivi, che vivono all'interno dell'uomo" (p.87) e che costituiscono un "insieme umano involontario, che ha la caratteristica di un mondo determinatosi in lui con la nascita dai suoi genitori, con l'ambiente che diventerà la cerchia personale delle sue abitudini e preferenze, dei suoi pregiudizi e passioni, innati e operanti nel sangue ereditario. L'uomo deve comprendere che in questo insieme caotico e non suo, che egli porta quale un involucro ostacolante, la sua reale volontà dorme un sonno profondo, come la pagliuzza d'oro nello spessore della sua ganga. Bisogna che questa ganga sia fusa col fuoco. Il primo atto che egli deve chiedere alla sua propria volontà è che essa riconosca umilmente di essere sepolta in una farragine arbitraria di elementalità naturali e aprioristiche, le quali le impediscono di manifestarsi. ... Quanti uomini parlano di libertà, e magari di libertà assoluta, e si credono liberi, perché si son formati un qualunque concetto filosofico della libertà!, ma poi nella realtà della vita non sono che i servi dei propri appetiti e delle proprie ambizioni: quasi mossi da fili esteriori. Ciascuno di noi comincia a conoscere che cos'è la volontà quando avverte l'antitesi fra ciò che in noi viene voluto da un complesso di fattori che non si possono chiamare col nome dell'Io, e ciò che proprio l'Io vuole in noi. Quando la volontà non si confonde più con gli appetiti, con le ambizioni, con le velleità, allora solo essa è la volontà. ... Una volontà dunque che esclude già ogni conflitto, avendo riportato tutto alla propria essenza, nella perfetta pacificazione e unione auto-divina; e che pure, malgrado ciò, anzi appunto per ciò, trova in sé sola le motivazioni irrefutabili dell'agire: solo questa è la volontà che agisce, e che è tutt'altra dalla volontà che è agita illudendosi di agire" (pp.87-89). Tuttavia l'assumere che ogni opera d'arte, per la creatività dell'artista, debba essere tradizione a sé stessa non implica affatto il rifiuto di ciò che rimane ancora dottrinariamente vero della passata religiosità ed iniziazione. Ad es. occorre riconoscere che le umane pulsioni non sono solo il risultato dell'ereditarietà e dell'ambiente fisico-sociale umano, ma dell'ambiente in generale, anche sottile e spirituale, e perciò anche della pressione che possono esercitare potenze ostili, "esseri spirituali avversi alla volontà superiore e che prendono nome ed aspetti di istinti, di passioni, di pregiudizi, di ostinazioni, di errori, ma che in realtà sono gli esseri spirituali del male, i quali si servono dell'uomo per i loro propri fini, e son essi che gl'impediscono di volere, perché sono essi che vogliono in lui, pur dando all'uomo l'illusione di volere" (p.91). Contro l'illusorietà di una libertà già in atto, Onofri arriva a parlare della 'marionetta umana' che è mossa "come da innumerevoli fili interni ed esterni, dei quali essa non si rende conto, e che spesso s'aggrovigliano inestricabilmente" (p.91) e della conseguente necessità di una presa di coscienza dell'effettiva situazione di partenza, sia dal lato delle possibilità volitive, sia da quello degli ostacoli esistenti, perchè possa poi attuarsi una concreta e non illusoria realizzazione di sé: "Tutto ciò nessuno può certamente accettarlo se non conosce, oltre che l'enunciato del processo, anche e soprattutto l'esperienza di questa interna e superiore realtà dell'anima, e nessuno può fare questa esperienza in luogo di un altro. ... Solo riportando la propria volontà umana all'accordo con se stessa, in quanto volontà divina, l'uomo trova l'unione e l'armonia interiore fra il suo io e l'Io dell'Universo. ... Ma l'enunciato, ripeto, conta ben poco, in sé e per sé. Conta solo in quanto noi cerchiamo di tradurlo in atto" (p.92). Il quarto capitolo, intitolato La Parola, è particolarmente interessante per tutti coloro che hanno apprezzato il saggio di Ur "Appunti sul Logos" e si interrogano su specifici collegamenti di esso con l'arte poetica. Non potevano mancare riferimenti al Vangelo di Giovanni e a Eraclito, che introducono a concetti simili a quelli da noi trovati nel saggio L'Uomo Calorico cioè Saturno (a suo tempo inviato al Forum): "La Parola-Fuoco era dunque la stessa volontà divina allo stato creativo primordiale .... Quello stesso mondo dunque che ci appare oggi allo stato minerale e contratto, si trovava allora allo stato diffuso di Parola-calore (p. 97) ... Da quello stadio immensamente-mondo, rarefatto, fluido e compenetrantesi, si è passati a fasi del mondo e a forme sempre più dense, delineate e disintegrate dall'insieme, fino a raggiungere la forma singola di oggetti e di creature densificate e distinte, che siamo oggi noi stessi, l'uno fuori dell'altro. Questa individuazione in singole creature è quella che ha dato all'uomo, depositario di quella Parola-fuoco dei primordi, la capacità di rendersi conscio del mondo nei suoi vari aspetti, e

di poter ritrovare, in virtù di quella stessa Parola, lo spirito unitario della creazione universale, per atto del suo proprio spirito d'uomo individuato in un corpo distinto da un altro" (p. 98). Se un giorno i supporti materiali, dei quali l'arte si serve, dovessero svanire, per il passare la terra a condizioni più simili a quelle della Parola-fuoco originaria, non per questo svanirebbero la concezione e la creazione spirituale originarie di quelle opere: "Insomma lo spirito, l'idea-madre, l'essere originario, l'archetipo vivente di ciascuna delle vere opere d'arte (sono vere perciò solo quelle che corrispondono allo spirito di sviluppo della terra) costituiscono la vera realtà di tutti i poemi e di tutte le opere; e sono eterni. Questi archetipi esistevano (spiritualmente) anche prima che quelle opere fossero attuate in terra dagli artisti, ed esisteranno, sebbene diversamente, anche dopo che l'odierna esistenza materiale sarà riassunta in ispirito. ... Come l'artista non fece che essere fecondato, nella sua ispirazione, da quell'archetipo a cui dette esistenza artistica (per gli uomini) nella materia visibile e udibile dai sensi, dentro l'opera d'arte, accogliendo quell'archetipo e come insufflandolo nella materia delle sue statue, delle sue tele, delle sue poesie, delle sue musiche; così quell'archetipo, però trasformato-umanizzato attraverso l'ispirazione e l'interiorizzazione dell'uomo-artista, sopravviverà eternamente, e anche dopo che la sua realtà materiale sarà andata dissolta col dissolversi della terra-minerale" (p. 99). Onofri fa poi una serie di considerazioni sulla Parola quale forza magica e quale valore e conclude: "L'uomo-artista dà forma al corpo sensibile ad un essere spirituale, ad uno spirito che esisterebbe solo nel mondo degli archetipi, nel mondo spirituale, ma del quale l'uomo non può prendere coscienza se non attraverso il velo della trasparente forma, attraverso il corpo di bellezza sovrasensibile che l'artista solo sa adeguatamente plasmare a quell'essere, esprimendolo attraverso l'opera d'arte. E quell'adeguatezza, quell'armonia, quell'accordo che nelle grandi opere d'arte noi intrasentiamo fra lo spirito e l'espressione artistica è l'essenza di ciò che chiamiamo bellezza. Cioè attraverso l'opera d'arte noi uomini possiamo vivere l'accordo fra il mondo terreno e il mondo spirituale, fra la terra e il cielo, in quanto questo accordo lo sentiamo realizzato nell'arte. Fuori di ciò, arte vera non può esistere. Dunque, l'artista nell'ispirazione è spiritualmente fecondato da un archetipo, al quale egli dà forma, dà corpo nella sua espressione artistica. Ma da allora in poi, attraverso questa espressione artistica attuale, attraverso quest'opera d'arte, quell'essere spirituale che vive entro la forma va a sua volta a fecondare pel tramite dei segni espressivi (parola, colori, linee, note, ecc.) innumerevoli altri esseri spirituali, che sono gli uomini capaci di vivere l'opera artistica. (Da ciò s'intravede con quale dedizione e meditazione andrebbero lette le opere dei poeti veri). In questo finissimo tessuto creativo, che si avvera fra gli uomini mediante l'artista, ciò che domina è dunque lo spirito di comunione, di fusione, di affratellamento spirituale: lo spirito d'Amore. In questo senso lo spirito di ogni creazione, e lo spirito insomma della Creazione stessa, cioè del mondo creato, non è che l'Amore. La Parola creatrice è l'Amore, come vita essenziale della creazione, e codesta parola creatrice circola e ricircola infinitamente nella creazione stessa attraverso e mediante la giusta articolazione interiore dell'Uomo, per via della parola umana. Solo per indicare una tendenza ch'è implicita e latente nella parola umana, solo per questo, ho voluto accennare ora ad un grado di sviluppo della parola, nel quale l'uomo insieme alla parola-suono emetterà la parola-spirito e coscientemente metterà al mondo, parlando, esseri spirituali che non possono venire ad esistere fra noi se non per via della parola umana. Parlando, spontaneamente l'uomo modificherà e modellerà anche le altre anime umane, e agirà sui suoi simili con una tale attività plasmante (edificatrice) sull'intimo mondo morale e spirituale di ciascuno dei veri ascoltatori che già si può indovinare come e perché l'essenza della parola sia tutta azione, e come l'etimologia di poesia sia poiein, cioè fare, agire. Infatti il linguaggio è tutto di origine divina-spirituale, e nelle parole, quali noi oggi le abbiamo, è racchiusa l'essenza stessa del mondo: solo che ne acquisteremo coscienza sempre più intensa e operante, affinché la Parola affluendo sempre più nel nostro interno dal Cosmo ne riesca in parole sempre più impregnate della nostra essenza umana cosciente" (pp. 101-103). Onofri accenna poi all'importanza della Parola in tutte le antiche tradizioni: "Tutte le leggende degli antichi popoli ci raccontano a chiare note che l'uomo aveva un barlume di questa potenza magica della parola. (p. 103) ... Certo, la poesia odierna non dimostra troppo di saperne gran che; ma bisogna aiutarla a svegliarsi dal suo dormiveglia, pieno d'incubi" (p.104). Il potere magico non sta tanto nelle parole, come ingenuamente credono coloro che vanno

alla ricerca di "formule magiche", ma nell'atto creatore che in esse si esprime. Solo ripetendo interiormente quell'atto le stesse "formule" possono eventualmente ripeterne l'effetto: "È esperienza propria del poeta che l'intimo significato, il vero senso delle parole che compongono una poesia, non è da cercarsi dentro le parole stesse che compongono la poesia. Quelle parole possono essere (ognuna in sé) di natura affatto ordinaria e, direi, convenzionale, ma il vero senso poetico consiste in un certo fluido liberatore, che circola fra le parole, e tesse miracolosamente, come una rete di musica e di luce, dalla quale le signole parole vengono, in certo modo, assunte in funzione più alta di vita, e, si può dire, trasumanate. Infatti tutti sanno come sia impresa disperata voler precisare in che cosa effettivamente consista l'incanto che emana da certi tratti dei più grandi poeti, e che non è mai possibile risolvere nel che cosa, nell'argomento, nel dettato, e tanto meno nelle singole parole, che per se stesse sono le solite che tutti usano; ma che s'indovina consistere in un come, in un modus loquendi, in una funzione che il linguaggio umano assume, trascendendo la funzione ordinaria, e facendo intrasentire una lingua angelica, celestiale, nella quale il parlare è un avvivare, un musicalizzare, un suscitare, un accordare il mondo con se stesso, e addirittura un creare il mondo parlando. Anzi, poiché in ogni punto e momento del mondo, tutto il mondo è attivo e presente, il vero argomento di qualunque vera poesia non è che questa sinfonica realtà dell'insieme, sia pure colta in un particolare istante. In tal senso il poeta, come diceva Novalis, non è che un illuminato dal linguaggio. E se noi vogliamo tentare di chiarire questa perfetta intuizione, dobbiamo soggiungere che il parlare è per il poeta (quando è poeta) come un arrivare a toccare con la magia delle parole l'essenza dell'universo invisibile, un comunicarsi col mistero divino, un partecipare, per amore parlante, all'atto originario del Verbo creatore. Questa musica trascendentale che è nella vera poesia, questa 'armonia delle sfere' che può vibrare fra le parole, è ciò che forma la sublimità della poesia. Allora le parole manifestano, al di là della loro terrestre natura, il rapporto arcano delle stelle e dei numeri, la sorgente sinfonica da cui sono scaturite tutte le creature, il fiat primordiale che sillabò in un atto di manifestazione perfetta il cielo e la terra. Il poeta si leverà con tutta la sua coscienza d'uomo, fino a raggiungere realisticamente la dignità di questo compito concreto di uomo fra gli uomini, di rivelatore parlante, di illuminato del Verbo, di conciliatore, armonizzatore, risanatore, compensatore e liberatore, in cospetto all'Io di tutti gli uomini; e assolverà tale compito con abnegazione perfetta, con amore immacolato e dedizione totale. Ecco un aspetto nel destino della futura poesia. Dicemmo che la poesia antica stimolava all'azione, si riferiva all'azione, cioè ad una certa azione sociale da attuare; la poesia futura sarà essa stessa azione, e sarà l'azione dello spirito che articolando sé nella parola attuerà sulla terra la sua legge, il suo ordine, la sua armonia universale. (pp. 108-110) ... Le più grandi rivelazioni e le più ricche musiche dovrà il poeta accogliere dalle creature che possono far vibrare l'aria col suono della loro interiorità; e talvolta il fremente nitrito d'un cavallo, il cinguettar d'un uccello o la parola più semplice di un umile ignorante, gli narreranno arcani che per nessun'altra via potrebbero venirgli palesati, poiché la sapienza e la potenza della parola non tanto sta nei libri della sapienza, quanto nella conformazionie di chiunque e di chicchessia. 'Tutte le cose furono fatte per mezzo della Parola, e neppure una delle cose fatte fu fatta senza di essa' " (p. 110). In particolare, riguardo al poeta-mago del futuro, Onofri così lo descrive: "Egli asseconda, stabilisce e perfeziona misteriose corrispondenze tra i fiori e le stelle, fra il destino dell'uomo e le antiche leggende, fra gli spiriti eccelsi del sacrificio e il povero sasso che sembra abbandonato a se stesso sul sentiero. Un mondo nuovo gli si schiude. ... La storia segreta della terra, e tutte le famiglie degli animali, e le tribù degli uomini, e le colonie di anime nelle stelle, e le immense razze e specie delle piante, si offrono collegate da riposti vincoli di affetto, parlano di sé come d'una sola biografia cosmogonica, e indicano le fasi dello sviluppo di ciascuno come i gradi d'una gamma celeste, le varie note di una sola tastiera; e sono esse stesse (le cose) lo scorrere, il salire e il discendere degli angeli in un solo immenso organo di musiche: sacro corpo del mondo. (p. 111) ... Un innamorato di parentele, uno scopritore di relazioni, per quanto apparentemente lontane, un maestro di simpatie, un'anima d'amore che anela a farsi ostia di comunione parlante fra gli esseri separati, un articolatore nel suono del cuore umano, un illuminato-illuminatore per mezzo della parola dell'uomo, la quale è l'immagine più alta del Verbo divino, un ministro della Parola: è questo il poeta dell'avvenire" (p.112). Incarnare un simile ideale di poeta richiede una identificazione con la propria vera essenza che, se si esprime individualmente, è tuttavia anche la medesima in tutti gli esseri: "Questa mutua e raggiante pienezza è in ogni attimo della catena eterna, in ogni particella della presenza infinita: essa è nel piccolo bruco che abita il filo d'erba, come nell'amore perfetto

dell'Io Unico che ha per sua casa l'universo. Una familiarità senza limiti unisce il più alto al più basso, e in ciascuno è attiva la confluente energia dell'insieme, quale condizione dell'esistenza sua propria. Tutte le creature e i pensieri sono indispensabili al galleggiar d'una nuvola negli oceani promiscui dell'aria. Negli organi brevi dell'uomo c'è l'assistenza delle costellazioni planetarie, la potenza dei monti, la fluidità dei fiumi, la conversazione e il ritrovo dei sublimi esseri che guidano le amicizie terrene e i celesti sistemi: organi dell'universo, corrispondenze giganti degli organi umani. Ma l'unità vera, l'intima realtà di tutto questo è solamente nello spirito dell'uomo che va pienamente risvegliandosi alla sua divina coscienza mondiale. Per questo il poeta non può restare più a lungo in un sentimento soltanto diffuso di pienezza panica, e sognare l'organismo del mondo in parvenze arbitrarie e casuali, che sarebbero la sua fantasia personale. Il pronunciatore, colui che articola il verbo di vita, deve giungere a conoscenza delle originarie intenzioni che sospingono ogni gruppo di creature, ogni tribù di fiori, ogni famiglia di spiriti verso il loro destino di redenzione, già manifestato nelle sublimi forme di tutte le cose. Egli cercherà di entrare in quella sublime scuola d'amore dove maestri incorporei insegnano la scienza e la storia della natura, la presenza cosciente dell'Io, lo sviluppo e le antecedenze del minerale, il metodo e l'arte d'impadronirsi del proprio corpo mortale come d'uno strumento destinato alla parola dei mondi, alla parola che spazia creatrice nelle sue musiche celesti, così come il linguaggio usuale si propaga palesemente nell'aria, ma in figure sonore che dobbiamo afferrare con l'anima veggente. (pp. 114-115) ... Questa grammatica della natura, questa prosodia celeste, questo immenso cifrario di esseri, questa sintassi cosmica, è la tecnica nuova del poeta, è il tirocinio della sua arte, la quale ha finalmente riconosciuto se stessa nelle sue proporzioni adeguate: come azione di articolatrice cosciente del cosmo" (p. 116). Come abbiamo visto, il presente capitolo accenna alla 'tecnica nuova del poeta' ma, prima di occuparsi in specifico di essa, Onofri indica al lettore l'intima relazione esistente fra Natura e Spirito: "La Natura è il vivente scenario ove si svolge questa sublime attività tutta Spirito, e l'attività dello Spirito è l'essenza reale della Natura terrena ... Madre dell'essere in ognuno di noi" (p.119). ... Dove l'inno articolato del veggente mòdula la realtà universale, ella scorre d'amore nel suo proprio discorso, fiumana della sua propria potenza, fluente verso quell'oceano dell'essere, che è culla della sua nascita, ma pure è nato da lei, dal suo proprio slancio di dedizione al Maschio Creatore del Mondo, che l'ha fecondata di sé nell'eterno" (p.123). E poichè essa, per la sua Potenza, è concausa della nostra piena realizzazione spirituale, l'Autore conclude il quarto capitolo con l'esclamazione: "O Madre piena di Grazia, salvaci dall'oppressione!" (p.123) In via del tutto logica, il capitolo successivo, cioè il quinto, è intitolato La Tecnica, da intendersi non solo come tecnica poetica, bensì artistica in generale, giacchè riferita "a una Parola nella quale tutti i segni di manifestazione siano compresi; e pertanto ogni pluralismo fra le varie arti, ogni tentativo di porre il problema in modo differente per ogni differente arte, sarebbe erroneo e porterebbe soltanto ad accentuare e sopravvalutare le particolari esperienze e preferenze empiriche di questa o di quella arte, senza risultato fecondo per l'essenza del problema stesso" (p.126). Onofri afferma che "in arte la tecnica è tutto" (p. 125), ma occorre approfondire in che senso: "Può forse esistere una tecnica d'arte, la quale risulti da una formula estrinseca che, una volta trovata, basti imparare, per poi applicarla a qualunque operazione e combinazione artistica, a quel modo che la tavola pitagorica si applica a qualunque moltiplicazione? La risposta, a meno di non vagheggiare non so quali soluzioni stregonesche o puerili, non può essere che una sola: no. Ma può esistere una tecnica di metodo, dalla quale la soluzione di ogni caso artistico emerga sempre differentemente dall'interno dell'artista, in ogni sua creazione, e che pure sia una tecnica essenzialmente identica ogni volta a se stessa? Vorrei appunto mostrare che questa tecnica, non solo può esistere, ma esiste di fatto" (pp 126-127). Essa consiste sostanzialmente "in una tecnica spirituale, in una tecnica di orientamento espressivo, di evocazione metodica dello spirito da manifestare artisticamente. Una tecnica dell'ispirazione del Verbo, non già una tecnica delle parole come strumenti ordinati a manifestare, caso per caso, codesta ispirazione" (p.127). Una sua caratteristica fondamentale è il giusto 'volume' di parole; infatti, "quand'è che il poeta può manifestare, articolare con le parole, l'essenza cosmica stessa, senza che egli scambi, intralci e confonda il mondo dela realtà spirituale con il suo mondo personale ed empirico di

sentimenti, di attività, di pregiudizi, di concetti, di bisogni pratici? ... Lo stato poetico positivo non sarà mai uno stato di fenesia passiva e inconscia ... (p. 128) Nulla di più personalistico e anti-creativo del cieco turbine di passioni e d'istinti ... Risultato tipico ne è il sovrabbondare della materia verbale in rapporto all'essenza, allo spirito dell'espressione, e in cento pagine si trova diluito ciò che avrebe avuto la sua giusta manifestazione forse in dieci o in cinque potenti tratti verbali. (p. 129) ... Ecco dunque che troviamo risolto un aspetto del problema: un'opera poetica esiste quando il volume, il numero delle parole che la compongono è quello esatto e necessario. Problema matematico dell'arte, che avrà però la sua giusta soluzione implicitamente, se lo porremo così: quando avviene che il poeta può giungere all'espressione poetica giusta, cioè attraverso un materiale verbale esatto? Quand'è che il corpo (di parole) di una poesia è perfetto e corrisponde esattamente allo spirito della poesia? La risposta a questa domanda è facile, e ci porterà di un passo verso la soluzione di tutto il problema tecnico. Si può affermare che il poeta realizza un corpo verbale perfetto quando si attiene assolutamente allo spirito della poesia che vuole manifestarsi attraverso di lui, e sa escludere dal campo della sua espressione tutto ciò che non è quel certo spirito espressivo. (p. 130) ... L'artista deve arrivare a lasciar agire spiritualmente in lui lo spirito di quella certa poesia che vuol nascere al mondo in parole attraverso di lui, e perciò deve portare la sua volontà a coincidere con la volontà di quel certo spirito poetico creativo, rinunciando ad ogni altra velleità personale, più o meno burrascosa. ... La miglior condizione per giungere a tanto sarebbe, evidentemente, che il poeta potesse conoscere quella volontà poetica quale un essere oggettivo, così come coi sensi si conoscono gli oggetti del mondo sensibile" (p. 131). Ciò ci ricorda da vicino quell'evocazione volontaria e cosciente di un 'corpo divino', "davanti a sé" e/o "in sé stessi", di cui si fa largo uso nella Teurgia, sia occidentale, sia orientale. E infatti Onofri specifica: "Già risulta chiaramente che non si tratta di una passività dello spirito, di una frenesia cieca, di un invasamento spirituale per lasciar che le cose avvengano come esse credono meglio ... bensì, al'opposto, di un'attiva volontà che riconosce una volontà superiore alla sua e fa uno sforzo cosciente per diventare essa stessa quella volontà superiore, la quale viene così ad essere accolta in lei, a identificarsi con lei, e può crearsi da sé stessa la sua forma di manifestazione nell'interiore dedizione del poeta. Novalis diceva che le rivelazioni autentiche sono piuttosto il frutto della fredda ragione tecnica e del calmo senso morale, anzichè il frutto di uno sbrigliamento sfrenato e caotico. E ciò facendo, il poeta compie una vera azione auto-creativa. Egli pel primo risulta trasformato dall'opera sua; ed egli stesso, nella sua continua trasformazione spirituale, è la riprova vivente che le opere da lui prodotte sono vive" (pp. 131-132) ... Uno stato di concentrazione volontaria, astratto da tutto il resto, è l'atto fecondatore per il quale, con la parola umana, si può mettere in moto una rivelazione divina. Questo stato di concentrazione è uno stato che nasce e si sviluppa in virtù di uno speciale allenamento interiore, il quale deve essere condotto e diretto dal poeta stesso con la sua propria volontà. (p. 132) ... Una vera scienza del Verbo, una logologia (per usare una parola di Novalis) dovrà sorgere via via nell'avvenire, ed è vero che i risultati, nelle varie tempre d'artisti, saranno differentissimi l'uno dall'altro, ma è pur vero che il metodo, la via, l'allenamento da seguire rimane uno" (p. 133). Come già abbiamo avuto modo di dire, la continuità iniziatica è connessa da un lato al riconoscimento di ciò che permane di valido delle precedenti tradizioni e, dall'altro lato, agli adeguamenti necessari al comparire di esseri umani interiormente e talora anche fisicamente diversi. Per quanto riguarda il primo aspetto, è da segnalare una importante distinzione dottrinaria che risale al Rig Veda, secondo il quale esistono quattro gradi della Parola (Vac) : al grado più basso c'è Vaikhari Vac, la Parola 'grossolana', quindi Madhyama Vac, la Parola 'mediana', o sottile, pensata ma non pronunciata, per arrivare al più alto livello del linguaggio individuale Pashyanti Vac, la Parola 'vedente' (dalla radice pash=vedere) identica all'oggetto significato (e perciò Parola magico-causale), oltre la quale c'è Para Vac, il Logos supremo, origine dei primi tre gradi e trascendente rispetto ad essi. Onofri allude ad equivalenti di tutti questi gradi, parlando del metodo interiore del poeta. Egli infatti distingue: - La parola come mero "sfogo psicologico" e come "mezzo di descrizione, di resoconto, di strumento didattico-espositivo" che, nei suoi due possibili aspetti di 'espressa esteriormente' e 'pensata', equivale ai primi due gradi. - La Parola creatrice umana, che è la parola umana 'nel suo più alto registro di possibilità attive', vero obiettivo del poeta e, in lui, punto di partenza delle manifestazioni più esteriori della sua attività poetica. La possiamo far corrispondere al III grado.

- La Parola creatrice divina, equivalente al IV grado: "Questo metodo è indicato nelle prime linee del Vangelo di S.Giovanni, quando il Verbo divino viene chiamato il principio creatore di tutte le cose e di tutte le creature. Un'immagine del Verbo creatore è appunto la parola umana, ma essa ne è un'immagine in movimento, un'immagine vivente che tende a riprodurre in sé l'attività creatrice divina, in quanto pel tramite della parola l'uomo può compiere interiormente un'azione la cui efficacia, sul mondo spirituale stesso, si manifesta come modificazione di quel mondo, in qualità di creazione che opera sull'intero mondo spirituale. C'è dunque un parola creatrice umana, come c'è una parola creatrice divina. Ma mentre quest'ultima agì direttamente sul mondo come creazione di creature, di cose e di avvenimenti, la parola può agire solo indirettamente su di esso attraverso lo spirito umano, in quanto la parola si fa consapevolmente azione spirituale dell'uomo che la pronuncia, e che trasforma, attraverso la parola, la propria coscienza d'uomo. Bisogna dunque che la parola dell'uomo sia illuminazione spirituale dell'uomo stesso, sia veicolo, tramite di auto-rivelazione; e colui che userà la parola nel suo più alto registro di possibilità attive, userà la parola come strumento di illuminazione su quella realtà di presenza che opera in tutto il mondo sotto specie d'uomo. Il poeta, dunque ha da diventare un auto-illuminato del linguaggio, un auto-illuminato 'dal' linguaggio. Non soltanto la parola in quanto mezzo di descrizione, di resoconto, di strumento didattico-espositivo, e tanto meno di sfogo psicologico personale, ma la parola in quanto iniziatrice ai misteri, in quanto strumento d'auto-iniziazione ai mondi superiori. Questo è l'interno metodo del poeta. La parola come azione per giungere alle verità soprannaturali: ecco il culto della nuova poesia, e ad esso deve mirare coscientemente colui che vuol assumere il nuovo grande compito della poesia" (pp.133-134). Uno degli effetti degli stati di coscienza connessi alla realizzazione spirituale è l'accesso a superiori piani di esistenza, per l'iniziato reali quanto e forse più del piano dell'esistenza fisica: "Una presa di possesso, mediante la parola poetica, dell'attualità spirituale operante nei mondi superiori, è il risultato volontario, e alla fine naturale e spontaneo, che nascerà dalla poesia; giacché la bellezza stessa dell'ordine verbale euritmico, che è realizzata in un poema, non è che la perfetta rispondenza tra l'avvenimento spirituale interno compiutosi nel poeta, e la sua stessa capacità di conformarvi adeguatamente la figura verbale che è il suo corpo di parole, bennato e armonioso. Questa proporzione intima, questa concordanza e corrispondenza nativa, che è l'incanto e la persuasione di un'opera poetica, nascerà ormai dal supremo accordo cosciente tra il Verbo creatore e la Parola umana, nella libera fantasia creatrice dell'artista. E siffatta intima rispondenza e perfezione, non c'è tecnica di verso o di prosa che possa artificialmente produrla, laddove il poeta non l'abbia conquistata come illuminazione interiore sua, e alla quale non abbia saputo innalzarsi, con sforzo progressivo e deliberato, nel più profondo della sua aspirazione d'uomo e d'artista, in piena comunione col mondo spirituale" (p.136). Continuiamo l'esame dei capitoli rimanenti. Nel capitolo sesto - L'arte nella vita come espressione della socialità cosmica - Onofri indaga sulla funzione sociale dell'arte e sul concetto stesso di socialità. E' uno dei capitoli che, dopo le esperienze di "conoscenza ispirativa", che trapelano dalla lettura di Appunti sul Logos, avrebbe potuto forse esser riscritto con maggiore maturità, se l'autore non fosse prematuramente scomparso. Manca infatti ancora al suo linguaggio un rigore espositivo, che permetta, in tutti i passaggi, una interpretazione univoca al lettore. Esistono tuttavia dei punti sufficientemente fermi: per Onofri, partecipare al corpo sociale dell'umanità significa prendere coscienza del Sé cosmico che è in tutte le esistenze, e in questa fondamentale unità, percepire se stessi e gli altri esseri come parti di quel più vasto Sé. Più precisamente: "L'uomo terrestre sarebbe l'opera d'arte degli esseri creatori divini. Questi esseri creatori non sono altro se non sommi artisti che hanno voluto suddividersi in tante scintille divine e abitare esse stesse nella propria opera d'arte, proseguendo a farla vivere, fino a che gli uomini stessi riconoscendosi spiritualmente come Uno, attueranno in terra questa Unità divina cosciente. E l'opera d'arte vivente creata dagli esseri eccelsi è appunto la vita degli uomini con il loro divenire terrestre (p. 153). ... Così l'uomo terrestre, dapprima opera d'arte (creatura) degli spiriti divini, diventa, via via, creatura sua propria, opera di sé stesso: opera d'arte auto-cosciente e interamente umana: come uno scultore che avesse dapprima creato la sua statua, ma solo per infondervi la sua stessa essenza scultoria creatrice, affidando con ciò alla statua medesima il compito di rimodellarsi da sé, rimodellando anche il mondo da cui fu attinta la sua materia: la sostanza terrestre della sua primitiva figura (p. 171). Come si vede è proprio il concetto

dell'Unità che si vuol realizzare ad essere incerto, l'indeterminatezza abituale di ciò che è ancora di là da venire.

naturalmente

anche

per

Nel capitolo settimo - Il mondo come opera d'arte dell'Io cosmico - si trova una esposizione dei principali stati di coscienza (veglia, sonno e morte), più o meno nei termini che si possono trovare nelle opere di R.Steiner e, in parte, nei saggi di Ur/Krur. Si parla poi del concetto dell'Uomo Cosmico "originario", un concetto antichissimo, appartenente a molte tradizioni, e centrale in quelle Testamentarie (Adam Kadmon) e nell'Antroposofia. Secondo un inno vedico, il Purusha-Sukta del Rig veda, gli dèi fecero l'universo sacrificando l'Uomo Cosmico. La luna è nata dalla sua mente (manas), il sole (surya) dal suo occhio, dal respiro il vento, dall'ombelico l'atmosfera. dalla sua testa il cielo, dai suoi piedi la terra. Da lui vennero anche le diverse caste brahmana, ksatriya, vaisya e sudra, rispettivamente, dalla bocca, dalle braccia, dalle cosce e dai piedi. Il Purusha Sukta dichiara che la Divinità ha migliaia di mani, migliaia di occhi e migliaia di piedi. Ciò significa che la forma collettiva dell'Essere Cosmico, l'Umanità, non e altro che la Divinità e che servire l'Umanità vuol dunque dire servire la Divinità. Gli uomini attuali sono divisi su un mucchio di inezie, il Purusha-Sukta afferma invece che siamo uniti, interdipendenti e ci propone questa ferma volontà: "Resteremo uniti, cresceremo uniti, condivideremo la conoscenza che abbiamo appreso, vivremo uniti senza malevolenza". E' in questi termini che si può concretamente pensare l'Unità in Terra, che Onofri auspica già dal capitolo precedente. Peccato che in quel capitolo come in questo, in modo del tutto analogo a quanto accadeva nei testi evoliani dello stesso periodo, taluni influssi della allora in auge filosofia idealista vadano più a deformare la dottrina tradizionale, che a spiegarla. La premessa della costituzione di questa Unità risiede, secondo l'autore, soprattutto nel mistero dell'Amore, nell'unione dell'uomo e della donna, per tornare ad essere insieme un individuo umano completo "e quest'ultimo non è solo il loro figlio carnale, ma un figlio spirituale", dedizione di ciascuno "al proprio destino celeste" (p.188). L'ottavo capitolo, "Conclusione", porta a compimento le riflessioni che percorrono l'intero testo. Più delle conclusioni filosofico-teologiche, appaiono interessanti quelle relative al ruolo della poesia futura, intesa quale poesia-teurgia: "L'uomo artista a questo punto impara a conoscere le creature e gli esseri del mondo terrestre e del mondo spirituale, entrando in questi esseri stessi senza perdere il suo Io; e allora le sue rappresentazioni ed esperienze interiori non sono più personali, ma sono oggettivamente reali, quanto e più degli esseri fisici che son percepiti dai sensi, ma hanno altresì il carattere della piena certezza, perchè oltrechè oggettive, codeste esperienze sono assolutamente interiori. Queste rappresentazioni sono 'immagini reali' : sono gli esseri spirituali, dei quali è tessuto il mondo. (pp. 205-206) L'Arte futura tende a diventare espressione di un'interiorità universalmente umana, realizzata in quanto oggettivamente cosmica, in quanto l'interiorità dell'artista, nata a nuovo spiritualmente, ed uscita addirittura dalla sua personalità corporea, prenderà attraverso i segni espressivi (linee, colori, note, parole, gesti) una persona estetica composta dai suoi propri segni espressivi. Sarà l'insieme stesso di un vero quadro a costituire, nell'interno del contemplatore, una personalità oggettiva formata di linee e colore che appunto gli si manifesterà attraverso i colori e le linee. Una musica creerà un avvenimento animico di coscienza, e formerà una concreta attuazione spirituale. Una poesia non sarà che il corpo spirituale (tessuto di parole) d'una interiorità assolutamente reale, e costituirà un essere realmente esistente col quale noi saremo uniti, in forza della nostra comunione verbale cosciente. Tutte le opere d'arte saranno tanti corpi reali, manifestanti veri e propri esseri spirituali. Poichè l'uomo al pari di Colui che rinasce come Spirito Creatore dal suo proprio interno umano, è destinato a creare veri e propri esseri spirituali". (pp. 209-210) Anche se è troppo entusiastico e poco realistico pensare che "tutte" le opere d'arte possano avere veramente tali caratteristiche, è certamente un bell'augurio per gli artisti-maghi del futuro.

***

3b) Arturo Onofri Una Volontà Solare Dopo aver illustrato in sintesi il trattato teorico onofriano "Nuovo Rinascimento come arte dell'Io", dovrebbe essere agevole comprendere il componimento poetico "Una Volontà Solare", che si trova in Introduzione alla Magia. Aggiungiamo perciò solo pochissime note a pie' di pagina.

I L'alto movente ch'eccita ogni stasi del passato a riprender contatto col volere che intìma nuove fasi in avanti alla terra, urta di scatto le resistenze nere illuse di volere.

1

5

Volontà d'uomo è solo movimento verso il proprio rinascere immortale; e il desistere è morte, è il fuoco spento d'antichi dei nel corpo minerale 10 ove l'uomo è feticcio irreale, e terriccio. Dal cherubico volto di Michele splende in mondialità, senza arrestarsi, l'uomo che crea divine parentele 15 fra il suo futuro e gli esseri scomparsi che fu lui stesso, ma senza sua volontà. Raggia, da quel divino aspetto, il fuoco della parola-dio, che uccide il mostro 20 superstite nel nostro sangue fioco; e in quel volto risuscita, ma nostro, l'onnipotente aiuto già da noi ricevuto. Ora il nostro risveglio umano è l'atto 25 che induce, fatta spada eccelsa, stasi del passato a riprendere contatto col voler nostro, ch'eccita altre fasi in avanti alla terra. E santa è questa guerra. 30 Note: 5) Vuole un principio della chimica (detto di Le Chatelier o dell'Equilibrio Mobile) che un sistema chimico-fisico in equilibrio, in cui si induca dall'esterno un cambiamento di una delle sue variabili, modifichi il suo equilibrio, in modo da minimizzare il cambiamento stesso. In campo sociale, abbiamo l'equivalente principio del "tutto cambia perchè nulla cambi" di gattopardesca memoria. Nel campo dell'ascesi, resistenze oscure legate alle abitudini, da vincersi mediante la luce del "conosci te stesso",

giocano un ruolo del tutto simile. 11) Come si sa, un feticcio sostituisce l'oggetto reale, con il quale è legato da una qualche forma di associazione di idee, spesso di carattere simbolico. Ebbene il corpo minerale, nell'uomo che vi si identifichi, è per l'appunto un feticcio, che sostituisce l'uomo reale e integrale. 20) Si veda l'esercizio della Rosacroce di R.Steiner. 30) La "guerra" interiore è l'autentica guerra santa. Giova ripeterlo, visto che da molti secoli si prende a scusa la religione per uccidere e sterminare i propri simili e si ha il coraggio di parlare di guerra santa. Non ci si faccia illusioni: la guerra santa interiore e la guerra esteriore raramente coincidono. II La cerchia oppugnatrice che si stringe intorno alla tua vita immeritoria, dà forma alla dubbiezza onde eri sfinge, scattandone impeto atto alla vittoria.

1

La ferrea stretta, è quella, anzi, che spinge 5 la tenebrosità di ogni tua scoria a esprimer sé mercè la tua laringe: sciogliendo la sua morte in forza ustoria. Tanto più vinci, quanto più ti serra l'ostacolo del mondo che ti plasma lavorandoti a fuoco, in piena terra.

10

Ora che il voler tuo non ti costerna, ma stringe e sbozza un dio dal tuo fantasma, la tua vittoria è pertinacia eterna. Note: 1-4) La guerra santa della strofa precedente è rivolta contro "l'avvolgente schieramento nemico" che, se da un lato ci schiaccia nell'abituale vita immeritoria, dall'altro, proprio come un incubo notturno, può indurci in quel dubbio che determina il risveglio. Prima di quest'ultimo, nella fase ancor dubbiosa, l'uomo è come una Sfinge accovacciata, che si chiede incredula se quelle nuove possenti zampe che intravede, così diverse da quelle umane, siano veramente sue. Quando un fulmineo, impetuoso balzo testimonierà della loro presa di possesso, sarà la vittoria contro i limiti umani, il risveglio. Il simbolo è del tutto analogo a quello, ricordato da Leo, del Serpente Piumato, che riprendendo coscienza delle sue ali, smette di strisciare al suolo e torna "Aquila". 5-8) Secondo R.Steiner, il "loto" della laringe ha sedici "petali", dei quali solo otto funzionano nell'uomo comune. Gli altri otto vanno resi attivi, tramite le "otto rettitudini". A chi ha praticato i "Cinque Esercizi" (vedi in Intr. alla Magia "La liberazione delle Facoltà") si offre ora la possibilità di "trasmutare il veleno in farmaco". Val forse la pena di dir qualcosa più in dettaglio: - Osservando i pensieri vani, irrazionali, frutto di illogiche associazioni, si giunge a coltivare solo i pensieri pieni di significato e di verità: si ottiene così la Retta Rappresentazione. - Osservando l'oziosità frustrata dalla necessità esteriore e i programmi astratti che si rivelano chimere, si impara a fissare l'ordine delle cose che si intende realizzare nell'immediato futuro; a prendere, con calma, decisioni equilibrate, lontane da ogni eccesso e da ogni irrazionalità: si ottiene così la Retta Decisione. - Osservando le ubriacanti parole dei momenti di presuntuosa profezia, nonchè il torrente di parole della logorrea difensiva o compiaciuta, si impara ad amare un parlare sobrio ed urbano, chiaro ed incoraggiante: si ottiene così la Retta Parola. - Osservando come da ogni azione derivino degli effetti positivi o negativi, nonchè la falsa noia o l'imbarazzo della mente egoica nell'adempiere i compiti quotidiani, si impara ad agire dopo attenta riflessione, con nobili intenti, e a portare a compimento con energia le azioni, piccole o grandi, che son state decise: si ottiene così la Retta Azione.

- Osservando i risultati negativi di un'impropria mortificazione del corpo, così come le delusioni nella ricerca della felicità terrena, si apprende l'equilibrio tra i doveri e le aspirazioni spirituali da un lato e le inclinazioni naturali dall'altro: si ottiene così il Retto Sistema di Vita. - Osservando l'inutilità degli ideali astratti, che si concretizzano in frasi fatte e retoriche, si impara che gli ideali debbono essere concreti, sia in campo terreno, sia spirituale: si ottiene così la Retta Aspirazione. - Osservando gli errori del passato, si apprende a non sbagliare, osservando ciò che si è fatto di buono, si apprende a come fare ancor meglio: si ottiene così la Retta Memoria. - Osservando i limiti delle possibilità umane, si apprende ad amare l'esercizio spirituale; osservando che l'oscura fede religiosa conferma quei limiti, si impara a ricercare la chiarezza nell'esperienza interiore: si ottiene così la Retta Contemplazione.

III L'erba, che spirita aliti lucenti, trilla d'uccelli in iridi di schiume. Ogni zolla è una stella senza lume, che c'invola dal petto ali e concenti, dando un quadruplo volo all'uomo triplo e un solo.

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Concordanza magnetica mareggia le sue sonorità d'istinti sordi nelle faune stellari, i cui ricordi errano sulla terra, a grèggia a grèggia, 10 finchè noi non s'indulga al fio che le promulga. Le promulga animal, in terra e in acqua, sparpagliandole in gruppi numerati; ma, in parvenza di corpi, son peccati 15 d'uomo, che in sue fantasime scialacqua onnipotenza infusa, ch'egli stesso ricusa. Note: 1-2) L' "erba" di cui si parla non è quella dei prati, ma quella che anima "soffi di luce", cioè il "corpo eterico" o vitale, che appare nell'esperienza del poeta come un armonia di suoni interiori ("trilla d'uccelli") e di colori impalpabili ("iridi di schiume"). 3-4) Il corpo saturnio (zolla) è "oro inverso" (stella senza lume). E' dalla "sede del cuore" che origina, ora in via naturale (sonno, morte) ora in via artificiale (soluzione alchimica), la separazione del mercurio volatile (ali), che talvolta reca con sé, secondo occulte armonie (concenti), altri "corpi" alchimici. 5-6) L'espressione "quadruplo volo" indica i quattro modi (da quello comune a quello perfetto, vedi quaderno "La porta ermetica di Roma") di andarsene da questa terra, che sono disponibili per l'uomo il quale, secondo una delle possibili "ripartizioni", è trino (coesistendo in lui assoluto, ritmi e forme) ed uno (nella sua integralità). 7-12) Gli zodiaci animali (la più famosa "fauna stellare" è probabilmente quella cinese) sono il simbolo di quel "locus" del cosmo, che contiene gli insiemi armonici (in "concordanza magnetica") degli impulsi archetipici delle specie animali. E' per questo motivo che l' "anima animale" è anche detta "corpo astrale". Come le immagini della nostra memoria sono copie delle percezioni originarie, così gli animali terreni sono copie-ricordo di quegli impulsi archetipici, plasmate dalle forze mediatrici e formatrici eteriche. E ciò finchè noi non si rimeriti (uno dei significati del latino indulgere) il "feudo" (fio, dal latino feudum) che le emana. 13-18) Proprio come è impossibile pensare che il Sole sia un'evoluzione dei pianeti, ma al contrario sono i pianeti ad essersi staccati dalla massa solare, allo stesso modo è erroneo pensare che l'uomo sia un'evoluzione degli animali. Al contrario, per la Scienza dello Spirito, gli animali (a livello astrale e terreno) sono aspetti che l'essere umano evolvente abbandonò nella sua evoluzione ("peccati

d'uomo") e lasciò nel suo ambiente. Come dice la strofa precedente, lo "zodiaco animale" è un "feudo" dell'uomo. Onofri usa il termine fantasime (variante femminile, meno usata, di fantasmi), secondo una tradizione letteraria, che vuole che fantasia sia "immaginazione di quel che è" e fantasma o fantasima "immaginazione di quel che non è", di ciò che è realmente illusorio.

Se riprendi entro te, volontà buona, sfavillante al mio sangue senza quando, 20 gl'impeti che, da sempre, vai versando in suoli e fiori e faune, onde persona breve ti sei scolpita, da quella immensa vita; tu salvi delinquenze, ch'hai già sparso in polpa d'animali, e passioni d'oro, trasfuse in floride stagioni, e fissità d'errori, ond'è sì scarso di vita il minerale che fu fuoco mondiale.

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Nota: Questi versi riprendono e ampliano il concetto precedente, cioè l'opportunità di rimeritarsi quanto dall'uomo è stato emanato durante la sua evoluzione: non solo nel regno animale, ma anche il quello vegetale e minerale. Artefice di ciò la "volontà buona", il "volere puro" dirà Massimo Scaligero nelle sue opere. E' essa a permettere la percezione del corpo sottile e, nel centro eterico del cuore, dell'eterizzazione del sangue, cioè della trasformazione di una parte del sangue in luce ("sfavillante al mio sangue"), indizio iniziale della possibilità della "soluzione" integrale del corpo fisico.

Reintegri lo spirito indiviso che ha sparso a terra stelle eccelse in bruti, e il sole in fusti vegeti e fronzuti, e il suolo (ch'era te nel paradiso) in pietre senza fiamma: 35 teatro del suo dramma. Il tuo dramma è che torni teco, in alto, trasfuso in sangue tuo d'uomo risorto, il regno della terra, ove sta, morto in narcòsi tellurica di smalto, il fuoco dei primordi, di cui già ti ricordi. La tua memoria cosmica, infinita in qualità di scheletro, scompone con volontà di resurrezione, e rioffre al Signore della Vita, il Corpo Universale libero d'ogni male.

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Nota: Si ricorderà (si è già detto in questo forum) che, nel Canone Pali, la formazione di questo mondo è connessa inizialmente con la perdita di luminosità da parte dei Deva Raggianti e con il conseguente apparire di luminari esterni (sole, luna, stelle). Ciò si può connettere ad uno dei processi più elementari e più potenti di ciò che chiamiamo presenza mentale, cioè alla cosiddetta variazione del rapporto figura-sfondo. L'originaria percezione dei Deva Raggianti fu relegata sullo sfondo, quando essi divennero uomini. Ma è sempre latente. Ce lo conferma uno dei testi più venerati dell'antichità, gli Oracoli Caldaici,

che al versetto 147 affermano: "Se me lo ripeterai più d'una volta [il logodìnamo, la parola di potere], vedrai ogni cosa in forma di leone [di corpo solare, dotato di luce propria]. Perché allora non è più visibile la massa ricurva del cielo, gli astri non brillano più [per contrasto], la luce della luna è velata, non si regge la terra [le cose perdono la loro parvenza materiale]: tutto si vede per folgori". Che la condizione dei Deva Raggianti o della Visione Leonina sia solo una reintegrazione nello stato primordiale e non una completa realizzazione è appena il caso di dirlo. Per inciso, anche quanto si è detto sulla Sfinge (che è uomo con corpo di leone) è da riconnettersi con quanto qui accennato. Sipex: Una specie che sembra aver conservato, in parte, la "Visione Leonina" è quella del serpente a sonagli. Esso ha due occhi normali posti ai lati della testa; inoltre ha, sotto di essi, due cavità tappezzate da un tessuto nervoso sensibile al calore (raggi infrarossi). Le ricerche hanno rivelato che tali organi del serpente a sonagli sono capaci di captare differenze di temperatura piccolissime, anche di un centesimo di grado. Il serpente elabora automaticamente queste informazioni, ottenendo così una buona immagine del suo ambiente, che gli consente ad es. di distinguere perfettamente, anche in quella che per noi è l'oscurità più completa, un cespuglio da un topo che si nasconde dietro ad esso. Poichè ogni corpo, che non si trovi allo zero assoluto della scala Kelvin, emana raggi infrarossi, per il serpente a sonagli qualunque oggetto "brilla", in diversa misura, di luce propria. E' noto che, secondo taluni paleontologi, in diverse altre specie, tra le quali si può includere l'uomo, l' "occhio termico", sensibile ai raggi calorifici, era l'epìfisi o ghiandola pineale, non a caso detta sovente "terzo occhio".

3c) Arturo Onofri L'Uomo calorico cioè Saturno Nel saggio "L'Uomo Calorico cioè Saturno", Onofri si servì proprio dell'esempio della percezione di differenze di temperatura, come forma originaria di distinzione dei corpi, per fornire un idea del primordiale "manvantara del calore", cioè della condizione originaria o "saturnia" del mondo fisico. Riproponiamo di seguito la lettura di questo scritto postumo di Arturo Onofri, al quale abbiamo aggiunto un paio di note e una tavola esplicativa.

La fisica naturalistica odierna distingue tre stati di materia soltanto, e questi stati si chiamano stato solido, stato liquido, e stato gassoso o aeriforme, denominazioni che tutti conosciamo bene, e che rivestono per la nostra esperienza i caratteri della più assoluta certezza. Tutti defmiamo il ferro un corpo solido, l'acqua un corpo liquido e l'aria un corpo gassoso o aeriforme. La scienza spirituale, oltre questi tre stati di materia, ne distingue anche un quarto, che in ordine di rarefazione precede tutti gli altri e costituisce per così dire il primordiale stato della materia universale nel grande momento cosmico in cui l'universo uscì fisicamente dall'essenza della divinità creatrice per diventare da universo potenziale puramente spirituale un universo fisicamente esistente. Questo primordiale stato della materia è il calore. La nostra scienza fisica non lo riconosce come stato di materia in se stesso perché la scienza fisica è esclusivamente basata sui sensi fisici e sul loro coordinatore che è l'intelletto, e con questi sensi fisici non si può più percepire uno stato di materia che sia puramente calore. Noi percepiamo oggi bensì delle sensazioni caloriche, ma le percepiamo, direi, appropriate agli stati più densi della materia. Così diciamo l'aria calda, il marmo freddo, l'acqua tiepida, il ferro rovente ecc. Invece l'iniziato sa per , esperienza diretta che oltre questi aspetti calorici dei cosiddetti tre stati della materia, esiste un vero e proprio quarto stato indipendente della materia, la quale si presenta allo stato di puro e semplice calore. Pensate di poter vivere in immaginazione in un mondo in cui non esistesse altro che corpi di calore, e che voi poteste distinguerli l'uno dall'altro soltanto per il variare della temperatura.

Supponiamo ora di avere dinanzi a noi una figura umana della quale ogni elemento solido, ogni elemento liquido ed ogni elemento gassoso, siano risoluti in calore. Pensate che non c'è nulla di visibile, di palpabile, di udibile in questo uomo di calore, ma soltanto una manifestazione che voi percepireste come grado di temperatura differente dall'ambiente circostante. Questa figura umana, composta di null'altro che di calore, se voi la pensate in modo giusto, dovete giungere a sentirla così tenue e rarefatta che le sue dimensioni sono molto, ma molto più ampie delle dimensioni dell'uomo attuale: tanto più ampie che l'Uomo di calore si può concepire della vastità stessa dell'universo cosicché non solo i futuri regni animale vegetale minerale sono contenuti potenzialmente in lui ma anche tutti i futuri corpi celesti dello spazio cosmico sono composti anch'essi di null'altro che di calore tutti al di dentro di lui e costituiscono, per così dire, i suoi organi di calore, dentro quest'uomo puramente calorico, proprio dentro di lui si troverebbe non solamente che ci sono figure di calore dei corpi celesti e il disegno calorico dei futuri regni fisici (solido, liquido e gassoso) ma si troverebbe bensì che dentro quest'uomo calorico agiscono anche gli esseri divino-spirituali delle gerarchie nella loro essenza spirituale. Possiamo dire dunque che come gli organi di quest'uomo calorico sono i corpi celesti di calore così la sua essenza spirituale è costituita dagli esseri divini-spirituali. Abbiamo perciò dinanzi a noi un essere umano di calore il quale è l'universo stesso, ed è un essere composto di esseri: esseri di calore dentro i quali agiscono le entità spirituali. Questo immenso essere umano di calore e di spirito, che è l'universo stesso, si chiama occultamente Saturno. Abbiamo detto che già questo stato di calore dell'universo è uno stato fisico, e in un certo senso si può dire che esso sia il primo stato fisico per noi concepibile, cioè il primo stato fisico in cui si è manifestato l'universo passando da universo increato, o potenziale, allo stato di universo creato. Questo essere incommensurato, fisicamente manifestato in solo calore è il più lontano antenato dell'uomo fisico quale noi lo vediamo oggi dinanzi a noi. Ma per poterlo sia pure approssimativamente concepire, badate che non dovete pensare un essere delimitato intorno al quale ci sia poi un certo ambiente fisico, comunque poi questo ambiente debba concepirsi. No, dovete sforzarvi di pensare un uomo di calore che abbia le proporzioni dell'universo, e al di fuori di quest'uomo-universo nessuna altra manifestazione fisica, nessun ambiente fisico. Quest'uomo incommensurato, questo Saturno, è immerso nel grembo della divinità spirituale, e al di fuori di lui non c'è nulla che possa comunque percepirsi fisicamente. Questo essere Saturno, questo universo Saturnio non dovete dunque pensarlo come fornito di gambe, di braccia ecc. quale un uomo d'oggi, giacché egli non doveva fisicamente trasportarsi in nessun luogo, né doveva con le mani afferrar nulla che si trovasse fisicamente fuori di lui. Perché le cose siano più facili potete pensare una immensa sfera di calore, e nulla al di fuori di essa, nulla di fisico, ma dentro e fuori di essa, gli esseri divino-spirituali. Se noi volessimo definire questa sfera di calore, non potremmo definirla altrimenti che dicendo così: L'essenza di questa sfera di calore è volontà. Il primo progetto, il rudimento del corpo fisico umano fu il Saturno., cioè un corpo di puro calore, la cui essenza è volontà. Questa essenza-volontà fu data in sacrificio appunto dai Troni o Spiriti della volontà, perché potesse esistere il primo disegno del corpo umano. Si può dire che il corpo umano ha potuto esistere, perché all'inizio primordiale del mondo i Troni o Spiriti della volontà sacrificarono qualche cosa della loro essenza, e la sacrificarono esteriorizzandola appunto in forma di calore. Questa sfera di calore non aveva in sé movimento alcuno, ma in certo modo si può dire che all'interno vibrasse tutta quanta della spiritualità divina che in lei si specchiava dal circostante mondo divino spirituale. E questa vibrazione all'interno della massa di calore voi non l'avreste percepita col vostro orecchio oggi, perché era una vibrazione che solo l'orecchio spirituale può ascoltare, era la vibrazione della volontà divina quella che vibrava nella sfera calore di Saturno. Le potenze divino-spirituali riflettevano sé stesse nella sfera calorica di Saturno, e questo loro riflettersi verso l'interno della sfera la faceva risuonare tutta della divina musica spirituale (verbo). Ora possiamo dire che come l'essenza del calore è volontà, così l'essenza di questa vibrazione spirituale o musica spirituale è una certa tendenza, è la tendenza ad organizzare internamente questa sfera o essere di calore, è la tendenza ad organizzare questo essere di calore in organi più densi e a metterli in movimento. Badate bene che è solo una tendenza ad organizzare, e a condensare il calore.

Pensate alle celebri figure di Chladni (1). Come si formano esse? Si formano così: se prendete una sabbia fmissima o limatura di ferro sottile e la distribuite in uno strato leggero sopra una lastra di metallo isolata, e passate poi sull'orlo del metallo un archetto di violino, vedrete che secondo la nota che risuonerà dal metallo la sabbia si disporrà in figure perfettamente simmetriche e di differente aspetto a seconda del suono. Tornando a Saturno, pensate che quel suono non era un suono fisico bensì spirituale e che andava a muovere una sostanza molto meno densa della limatura e della sabbia: andava a muovere una sostanza di puro calore. Le figure di calore che si formavano in Saturno per effetto della musica divino-spirituale che lo trapassava e permeava tutto, erano in perenne mutamento e perciò non erano vere e proprie figure ma tendenze di figure. Quelle figure di calore, o tendenze di figure, erano le prime disposizioni le prime tendenze alla formazione degli organi del nostro corpo fisico in proporzioni cosmiche. Ricordatevi sempre che non si debbono pensare tali cose attribuendo loro la densità la materialità pesante con la quale si presentano oggi i nostri organi, il cuore, i polmoni, il cervello ecc. Si trattava allora di tendenze all'aggregazione, di tendenze riguardanti una fisica la cui massima densità era rappresentata dal calore. Ripeto, non v'erano corpi gassosi, non v'era aria, e tanto meno liquidi e meno ancora solidi, ma solo corpi di calore. Tenete ben fermo inoltre che le dimensioni di questo essere umano o di questo Saturno, o di questa sfera unica erano incommensurate poiché altro non c'era, e quell'essere di Saturno o, se vi piace meglio, quella sfera calorica Saturno era l'universo, era il macrocosmo. Orbene dentro questo universo-uomo, dentro questa sfera cosmica di calore, dentro questo macrocosmico uomo di calore pensate il formarsi di quelle prime tendenze (solo tendenze) alla costituzione di giganteschi organi di calore. Queste tendenze alla formazione di organi, queste tendenze di calore sono il primo rudimento di ciò che noi oggi portiamo in noi come organi fisici del nostro corpo, cervello, polmoni, cuore(2) ecc. (1) Ernst Florenz Friedrich Chladni (30 Novembre1756 - 3 Aprile 1827) fu un fisico tedesco. Per gli esperimenti sulle lamine vibranti e per il calcolo della velocità del suono in differenti gas è considerato il fondatore dell'acustica moderna [n.d.c.].

Figure di Chladni

(2) E se voi pensate alla vastità di questi rudimentali organi dell'uomo futuro vedrete che essi sono tutta una cosa con le future costellazioni. [n.d.a.] Vedremo in seguito perché da un unico essere fisico di calore o Saturno si arriva via via alla scissione in più esseri umani, alla scissione in moltissimi esseri umani in tanti esseri quanti sono gli odierni uomini. Per ora basti tener presente questo accenno: gli uomini singoli non c'erano, ma c'era invece un solo immenso uomo di calore che aveva dentro di sé le disposizioni, le tendenze a differenziarsi caloricamente in organi. Questi immensi organi calorici erano, diciamo così il campo d'azione delle gerarchie spirituali alle quali i Troni avevano sacrificato la loro essenza di volontà esteriorandola in calore per dare agli altri esseri spirituali un campo d'azione per la loro attività. Questo stato di cose durò un tempo incommensuabilmente lungo, poi tutto Satumo fu riassorbito nel grembo divino spirituale e anche la manifestazione fisica di calore (o manvantara del calore) scomparve per un lungo tratto, tratto che occultisticamente si chiama Pralaya, o sonno cosmico. Poi di nuovo tutto riemerse nella manifestazione fisica calorica e dopo una breve ripetizione dello stato Satumo, accadde qualche cosa di nuovo, che possiamo descrivere come segue (3). (3) La seconda parte del saggio non fu mai scritta [n.d.c.].

***

3d) Arturo Onofri Fra il Glaciale Profumo del Sereno Nel numero I del quindicinale La Torre (1 Febbraio 1930) venne ricordata, come già in Krur, la recente scomparsa di Arturo Onofri, con la pubblicazione di una sua Lirica. Venne tratta dal volume "Zolla ritorna Cosmo", pubblicato successivamente nel medesimo anno (edito da Buratti-Torino), ma composto già nel 1927. Come fa già intuire il titolo, Onofri cerca di descrivere come la riconquista di sé conduca l'uomo-zolla a reintegrarsi nella sua condizione primordiale. Nella lirica considerata, emerge pienamente quel simbolismo, che accomuna Onofri a Comi e Servadio, in base al quale i "regni della natura" si sostituiscono, nella descrizione, ai corrispondenti aspetti del composto umano. Fra il glaciale profumo del sereno, che raggela di veglia minerale ogni sogno di nascerne erbe, in pieno brio di colori, il suolo ànsio trasale. Semi argentei, sepolti nel suo seno, sospirano agonia: son prenatale fremito d'esser frùtici di fieno, da rinascerne slanci d'animale. L'Uomo-tutto, universi veglia ancora quest'emisfero d'arie intirizzite che di flore irreali s'accalora;

e prima del suo sonno àlita un etere d'oro, ch'esala tante margherite per quante primavere ha da ripetere.

4a) Nicola Moscardelli Le Ali Perdute Dalla stessa raccolta (L'altra Moneta, Modena 1933) nella quale vennero ripubblicati i saggi di Ur/Krur, "La nebbia e i simboli" e "Il rumore", trascriviamo il breve saggio "Le ali perdute". In esso, con molta semplicità, Nicola Moscardelli indica la funzione che accomuna il poeta al santo: "Rammentare agli uomini che ... hanno perso le ali!" Se noi camminando per via perdiamo il bastone, l'ombrello o il cappello, c'è subito pronta una persona cortese la quale lo raccatta e ce lo restituisce: e se per caso noi perdiamo un oggetto senz'accorgercene, è raro che, presto o tardi, non ci giunga all'orecchio una voce: "Chi ha perduto una borsetta di cuoio? Chi ha perduto una chiave?" A quella voce noi ci volgiamo preoccupati, tastandoci le tasche per assicurci di non aver perduto nulla: e se invece siamo proprio noi ad aver smarrito l'oggetto, presto ci accostiamo a chi l'ha ritrovato e ce lo facciamo restituire. Di tanto in tanto si sente nel mondo una voce che grida "uomini perchè avete perduto le ali?" Nessuno, o quasi si volge a quel grido. La voce incalza: "Uomini, non v'accorgete che avete perduto le ali?" Qualcuno, raro, si volta a quel grido: ma la grande maggioranza prosegue per la propria strada senza voltarsi. Eppure le ali dovrebbero essere care all'uomo più di un cappello o di una busta di cuoio: perchè con le ali si vola, ci si solleva dalla polvere e dal fango della terra, si tocca o almeno ci si avvicina al cielo. No: al poeta che così grida - perchè quel grido è lanciato dal poeta e dal santo - risponde il sorriso dei sapienti o la trascuranza degli ignoranti: in questo almeno fratelli. E nessuno vuol rammentarsi del tempo in cui le ali alleggerivano le sue spalle e il cielo inazzurrava le sue pupille. Nessuno? No, ciò non è vero. Senza che l'uomo lo sappia egli cerca dal mattino alla sera di farsi ricrescere sugli òmeri le ali perdute. Nel buio della sua giornata egli corre ansimando, nella speranza inconfessata che a sera si senta più leggero per l'incredibile presenza di due ali sulle sue spalle curve. Invece, egli rientra in casa più pesante di come ne è uscito. Perchè egli somiglia ad uno che desidera aprire una porta e spinge, spinge, senza accorgersi che invece di spingere la porta spinge il muro. E invece di fare le cose che fanno crescere le ali, fa le cose che fanno rientrare ancor più nella carne i monconi a cui una volta erano appiccicate.

4b) Nicola Moscardelli Resurrezione Ci si può chiedere come mai, in Ur/Krur, siano comparsi solo saggi e non poesie di Nicola Moscardelli. Ad Evola piaceva pubblicare delle anteprime poetiche (come avvenne per gli estratti de "Il Cantico del Tempo e del Seme" di G.Comi, che vide la luce solo verso la fine del 1930); nel caso di Moscardelli la cosa era praticamente impossibile visto che, contemporaneamente a Ur/Krur, Moscardelli pubblicò due raccolte: una di prose e poesie: "Le Grazie della Terra (Carabba, Lanciano 1928), l'altra di sole poesie "Il Ponte" (Al tempio della Fortuna, Roma 1929). Dalla seconda raccolta trascriviamo una lirica, eloquente dal punto di vista iniziatico, intitolata "Resurrezione". Allorchè aprile batte alle porte ma l'inverno non è ancora spetrato nella terra s'inizia un travaglio e i semi dolorano ansiosi di dissuggellare la zolla l'invoglio d'ombra che cela la luce nascente del fiore. Alto combattimento tra il movimento vitale e l'indurimento mortale. E' il combattimento finale chè ormai lo spessor della crosta terrestre è meno di un velo: ancora uno slancio, e lo stelo emergerà dalla zolla come il raggio d'un sole terreno fratello del canto del gallo che insieme annuncia il mattino. Uguale battaglia ogni dì si combatte tra l'uomo morto e il risorto nell'aprile infinito della vita. Come Lazzaro l'uomo alza il capo del sepolcro e batte la fronte contro la pietra che lo rinserra: dentro le sue gelide membra il nuovo sangue già corre ma le ossa impietrate son lente a disciogliersi e il lor movimento non segue l'onda del sangue pulsante che dentro già disegna la figura del prossimo passo ma s'inizia e s'arresta di scatto come un singhiozzo. Vinta alfine l'ultima forza franta la scorza tenace dal sepolcro egli il capo solleva e sulle tenebre assiso riceve sulle pupille il fulgore del suo paradiso.

4c) Nicola Moscardelli Mesi e Segni

La raccolta "Le Grazie della Terra" (Carabba, Lanciano 1928) è divisa in 12 parti, ciascuna intitolata con il nome di uno dei mesi dell'anno, a partire da Gennaio. Molti dei componimenti, in prosa o in poesia, indicano la stretta relazione che il poeta vede tra le caratteristiche dei mesi e il simbolismo dei segni zodiacali. Per darne un'idea, abbiamo trascritto di seguito le brevi poesie, senza titolo, che Moscardelli adopera come proemi di ciascuna delle 12 parti. (Gennaio-Acquario) Tante saranno le grazie dell'anno tante le gioie e tanti i dolori quante son l'onde che versa sul mondo ininterrottamente il buon gigante. (Febbraio-Pesci) Lungo le arene, lucon frutti e fiori anemoni, conchiglie, pesci morti: son a vederli simili ai pensieri venuti a noi dalle remote età. (Marzo-Ariete) In mezzo al prato il gregge ammusa (1) l'erba come s'essa mutasse di sapore: l'Ariete sente dentro le sue vene come l'albero dentro le sue rame (2) sciogliersi il fuoco della primavera. (1) Ammusare= dar di muso, come in Dante, Purg. c. 26. "Così, per entro loro schiera bruna, s' ammusa l' una con l' altra formica". (2) Rama è forma femminile di ramo, spesso indica un ramo secondario.

(Aprile-Toro) Il Toro muglia (3) nella glauca sera e fino i fiori sembrano tremare: quel grido è il grido della primavera che di sé inebria terra cielo e mare. (3) Mugliare è forma alternativa di Mugghiare, Muggire. (Maggio-Gemelli) Sotto gli alberi ricchi d'ombre e foglie passano a coppia gl'innamorati: gli uomini in terra e le stelle nel cielo vanno per un medesimo cammino: il silenzio della sera è così grande

che sembra quello di due bocche unite. (Giugno-Cancro) Il figlio delle tranquille riviere che a fatica risale la corrente invidia forse il suo fratello assunto tra due rive di fiamme e di diamanti. (Luglio-Leone) L'aria bollente somiglia al respiro del leone affamato: simile ai crini della fulva giubba è il grano non falciato. (Agosto-Vergine) Come l'erba si muta di colore ad una lieva carezza del vento così trasale a un subito rossore la guancia della Vergine sentendo errare in aria parole d'amore. (Settembre-Bilancia) Sulla bilancia che misura il tempo tanto pesa la luce e tanto l'ombra: nati da una medesima sorgente da opposte bande guardano la terra. (Ottobre-Scorpione) L'insetto abominevole e perverso che striscia lungo il muro tramutato in diamante imperituro spande la luce sua nell'universo. (Novembre-Sagittario) Sotto i dardi del gigante Sagittario i cuori delle foglie si dissanguano e lungo i piani e sopra i monti gli alberi sembrano arsi da un interno incendio. (Dicembre-Capricorno) Nell'alta notte dormono gli armenti e a quando a quando abbaiano i mastini: un altro gregge su nel firmamento pascola l'oro dei prati divini. ***

4d) Nicola Moscardelli Il Sogno del Pastore Come è noto Sirio (Alpha del Canis Major) è la stella più brillante del cielo, così luminosa che il suo splendore é mediamente nove volte superiore a quello di una tipica stella di prima magnitudine. Nei periodi e luoghi adatti è facile osservarla in pieno giorno anche con un piccolo telescopio. Il nome Sirio (lat. Sirius) deriva con ogni probabilità dal greco "Seìrios" che, oltre ad essere uno dei nomi greci di

questa stella, (l'altro è Sothis, dall'egizio Sopdet) significa anche "ardente", "bruciante". E' probabile che tale nome derivi da una associazione con il caldo dell'estate e ciò rimanda, per la sua origine, ad un'epoca in cui il levarsi eliaco di Sirio, cioè il suo sorgere all'alba in congiunzione con il sole, si verificava nei mesi estivi. Infatti, in epoca classica, il momento di maggiore calore estivo fu detto "canicola" proprio da una delle tante denominazioni di Sirio, che è "Stella del Cane". Il levarsi eliaco di Sirio è ovviamente soggetto alla precessione equinoziale, per cui si calcola che ad es. nel 5500 a.C., si verificò all'equinozio di primavera (segnando, secondo taluni, l'inizio del Kali-Yuga). Tuttavia l'attributo "ardente" potrebbe derivare anche dal fatto che, come testimoniano diversi autori dell'antichità, tra i quali Cicerone, Orazio, Seneca e Claudio Tolomeo, Sirio era una stella rossa (oggi Sirio appare invece bianca). Il Testo delle Piramidi 965° descrive Sirio come la figlia di Osiride. Inoltre viene detto che Sirio si unì con il Re/Osiride dando alla luce Venere che, nel più ristretto ambito planetario, è, proprio come Sirio, "la stella del mattino". Per la sua unione con Osiride, Sirio fu presto identificata con Iside (Ast in Egizio). Nelle Lamentazioni di Iside e Nephthys, ritrovate in un papiro del IV secolo a.C., Iside asserice di essere Sirio, che fedelmente seguirà Osiride nella sua manifestazione come Orione nel cielo. Plutarco, nel De Iside et Osiride [par. 359.C-359.D] afferma: "I sacerdoti egiziani non dicono solo di questi , ma anche degli altri dei, quanti almeno non siano non-generati ed esenti da morte, che i loro corpi esausti giacciono presso di loro e sono oggetto di culto, mentre le loro anime splendono in qualità di astri nel cielo e chiamano Sothis quella di Iside, per i Greci è il Cane, Orione quella di Horus, l'Orsa quella di Tifone". Nei Testi dei Sarcofagi, Sirio viene identificata con la propria anima e invocata con l'espressione "...o mia anima, Sirio, preparami una via, costruisci una scala che giunga a te, Grande Polo, tu che sei mia madre, che io possa andare al posto dove sorge Orione..." Nell'ode del Pascoli "Il Ciocco" è rivelato il segreto di ciò: "... Sirio: occhio del Cane che veglia sopra il limitar di Dio". Sirio è dunque "Sidus vigilans", "Stella vigilante". Sin dal tempo dei Caldei Sirio è "la Stella Cane che apre il cammino". Dice il papiro di Ossirinco: "Guardiana e guida dei mari e signora delle foci dei fiumi, o signora Iside, la più grande delle dee, il tuo primo nome è Sirio. Tu conduci il sole dall'Oriente all'Occidente e tutti gli dei ne gioiscono. Allo spuntar delle stelle tutti gli abitatori della terra indefessi ti venerano, e gli animali sacri del santuario di Osiride si rallegrano al tuo nome. Tu mandi la rovina a chi tu vuoi, ma ai rovinati dai grazia e tutte le cose purifichi. Ogni giorno hai tu fissato per la gioia. Tu hai disposto i luoghi umidi e secchi di cui l'universo si compone. Tu hai ricondotto felicemente tuo fratello (Osiride) pilotando da sola e degnamente seppellendolo. Tu hai stabilito i tuoi santuari in tutte le città, per sempre, e a tutti hai dettato le norme ed un ciclo annuale perfetto". Presso i Cristiani il posto del morto-risorto Osiride, ma anche del figlio Horus, fu preso da Cristo e quello di Iside-Sirio da Maria Vergine, Regina Coeli. La nascita di Cristo fu annunciata, come si sa, da una stella e, secondo la tradizione, nell'anno 813, un eremita di nome Pelagio scoprì la tomba dell'apostolo Giacomo, in Galizia, guidato da fenomeni straordinari: musiche celestiali, ma soprattutto lo splendore di Sirio, onde il nome di Compostela (campus stellae) dato a quel luogo. Come vedremo, nella poesia di Nicola Moscardelli, il tema egizio-cristiano di Sirio e della Stella del Mattino hanno grande importanza. La levata eliaca di Sirio, cioè la sua prima apparizione al mattino, sull'orizzonte ad Est, poco prima del sorgere del Sole, varia sia con la latitudine dell'osservatore sia, per la precessione equinoziale, con l'anno di osservazione. A Roma (+41°54' lat. Nord) Sirio si leva eliaco nel mese di Agosto, a partire da circa il 900 d.C. Per la precessione equinoziale, la levata si posticipa approssimativamente di 1 giorno ogni cento anni. Così che attualmente si verifica in data 11 Agosto. Ed è infatti tra le poesie di Agosto de "Le Grazie della Terra" (1928) che Nicola Moscardelli ha posto il componimento "Il Sogno del Pastore". In esso Sirio è chiamata con l'appellativo, datole nell'antica Babilonia, "Stella del Cammino", termine rimasto in ambiente cristiano, perchè come abbiamo visto Sirio è la stella che guida il Cammino di Santiago (San Jacopo di Compostela). Moscardelli, se da un lato fa proprio il simbolismo cristiano di Gesù come "Agnus Dei" e, a sua volta, "Pastore di Anime" e quindi il simbolismo Gregge=Anime, dall'altro lato ricorre ad uno dei simboli più arcaici del "cammino", cioè quello della Via lattea=Cammino delle anime. Una caratteristica delle Piramidi di Unas (ultimo re della V dinastia) e di Teti (primo sovrano della VI dinastia) è la presenza dei cosiddetti "Testi delle Piramidi", forse i più antichi testi religiosi scoperti sino ad oggi. La scoperta risale al 1881 e si deve a Gaston Maspero. I Testi, in forma geroglifica, ricoprono le pareti delle due piramidi. Risalgono all’epoca preistorica egizia e sono perciò molto più antichi rispetto al Libro dei Morti. Testimoniano l'antica religione stellare di Osiride-Orione. Secondo questi testi, il re morto sarebbe rinato similmente a Osiride. L'anima del defunto avrebbe raggiunto le stelle di Orione (il Duat) viaggiando nel cielo e per proteggere il suo viaggio viene dato un insieme di formule e riti. Nei Testi di

Unas si legge ad es.: "O Re, tu sei la grande stella, compagno di Orione, che attraversa il cielo con Orione". Ma se Orione è la "meta", cosa simboleggia la "via"? Il "Nilo Celeste", cioè la Via Lattea, si snoda nel cielo, toccando varie costellazioni, tra cui Orione. E la splendente Sirio, "vicina" alla meta, ... illumina il Cammino. Il latte nelle zàngole s'accaglia, il cacio s'insapora nelle còscine, cola il siero dalle fiscelle: e sogna il pastore. S'accende all'improvviso la stella del cammino, e ad una ad una si levano assieme le pecore morte, sbiancate dagli anni e dagli anni: quelle che i nonni dei nonni e i padri dei padri pascerono lungo i prati sommersi immobili stanno dinanzi al pastore che non osa toccarle, e lo guardan con gli occhi per ove è passata tant'ombra quant'acqua passa dalla sorgente alla fonte: repente s'ode la musica dei campani al collo degli arieti lontani e subito l'armento si mette in cammino come il torrente di marzo che sgela, senza rumore sull'erba novella che pesta manda più odore sì che par d'esser in mare in un mare profondo con onde di pecore chiare che montano sempre come se il monte si facesse armento. Dèstasi il pastore e gli pare d'udire ancora la pioggia del gregge, mentre vanisce entro il suo petto un biancore di velli come il colore dei secoli dei secoli passati dentro la terra sepolti nella profonda terra che tace nella sua inaccessibile pace. Tanto vicino che quasi gli pare partir dal costato alzasi il lagno di un redo (1): levato sui cùbiti guarda il pastore l'armento dormente come la spuma immota del monte, e volti gli occhi al cielo la via Lattea gli appare come il tratturo degli armenti morti. (1) Puledro o vitello nel periodo di allattamento.

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4e) Nicola Moscardelli La Stella del Pastore Come abbiamo già visto, nel culto "stellare" egizio, Venere è "figlia" di Sirio e di Osiride e, per la sua luminosità, ha funzioni analoghe a Sirio nell'ambito del nostro sistema planetario. Da un punto di vista simbolico, nell'esoterismo cristiano, Venere (la "stella" del mattino, la prima che vede sorgere il Sole) è in relazione con la figura di Maria Maddalena (la prima a vedere il Cristo risorto). La Vergine Maria e Maria Maddalena rappresentano rispettivamente lo "speculum sine macula" (la Sophia più alta) e lo "Speculum cum macula" (la Sophia "caduta", ma in grado di riscattarsi per la sua potenziale identità con l'altra); come tale, Maddalena-Venere è più vicina all'uomo e mediatrice tra questi e la Vergine. Moscardelli dimostra di conoscere tale simbolismo e nella poesia "La Stella del Pastore" (in "Le grazie della terra"1928) parla della funzione di Venere come mediatrice tra l'iniziato e Maria-Sirio. Indica anche nella medtazione di quiete ("calma tu splendi senza mutamento") ottenuta con la ripetizione di un solo nome ("come una voce che ha un solo accento") quella trasformazione in "speculum sine macula", che renderà possibile e senza errori la successiva meditazione di conoscenza.

Venere che fosti un giorno regina dell'amore carnale or sei la regina del cielo mattutino e serale: e il pastore che scende lungo il tratturo sotto il tuo occhio si sente sicuro. Calma tu splendi senza mutamento come una voce che ha un solo accento. Al primo accenno della glauca sera brilla di gioia la tua chiara spera e dietro te trascini il firmamento come il pastore trascina l'armento. Sei tu che ci ricordi la luce della casa e il canto della rondine sotto la cimasa, il gracilar della gallina nell'aia e il vecchio mastino che abbaia: sei tu la stella di tutti i campanili lo stollo di tutti i fienili: chiara e serena, lontana eppur vicina del nostro cielo ancella e regina che come oggi insegni la strada al pastore di tutte le contrade così un giorno insegnerai la via per riposar sulle ginocchia di Maria.

5a) Da Segreti del Mestiere di Emilio Servadio "Segreti del mestiere" è un saggio pubblicato, da Emilio Servadio, nei primi due numeri della rivista La Torre (1930). Firmò tale scritto, mantenendo lo pseudonimo di Es, già utilizzato in Krur e formato dalle sue iniziali. Il saggio in questione non è un trattato o un trattatello, ma una serie di note, nelle quali Servadio allude, spesso simbolicamente, alla sua attività poetica, rinunciando ad una trattazione sistematica, semplicemente impossibile ponendosi dal suo punto di vista teorico. E' qui inutile riportare l'intero saggio. Preferiamo evidenziare, "accostandoli" tra loro, alcuni concetti che si trovano in note successive. Da "Segreti del Mestiere" C'è chi ha definito Dio attraverso una serie di negazioni: è probabile che questa sia la sola strada per giungere a definire il poeta. Il sentimento della poesia come atto sacro, e del poeta come levita, ha fuorviato, per esempio, un certo numero di scrittori di qualità. E' perfettamente giusto che, secondo una tradizione ben nota, ogni uomo in ogni momento della vita, qualunque sia la sua parola, è nelle condizioni del sommo sacerdote, chiuso nel Sancta Sanctorum il giorno dell'Espiazione, che pronuncia il Nome divino. Ma il poeta deve saperlo sempre, e dimenticarsene all'atto della creazione. L'equilibrista che si pone dei problemi di statica, cade. Occorre però che questi problemi li abbia immanenti fuori del circo: che non dimentichi cioè di essere un equilibrista (è il suo modo di risolverli). Se dovessi definire la caratteristica di ciò che vorrei fosse alla base della poesia (moderna) direi: la semplicità - destinandomi così a essere frainteso. C'è la semplicità dell'acqua e quella dell'alcool assoluto. Un cristallo a cui si tolgono le scorie che lo rivestono è semplice. Della poesia si potrebbe dire, parafrasando Leonardo, che occorre liberarla dalla prigione delle espressioni superflue. Il pubblico confonderà sempre semplicità con vuotaggine, con insufficienza. Il dadaismo è lo sforzo più interessante dei tempi moderni contro il feticcio dell' "amore che spira" così com'esso è inteso dalla pluralità. Mentre il surrealista è il tiratore bendato, che può magari far centro, il dadaista non accetta nè la benda nè le regole del tiro, che ricompone a sua guisa, sparando magari nella luna: entrambi i sistemi sono sbagliati, ma vi sono gerarchie anche negli errori. Quanto a noi, crediamo che il vero modo sia ancora quello solito, di sparare chiudendo un occhio, e tenendo l'altro ben aperto: ma piuttosto che tirare bendati rivolgeremmo l'arma contro il proprietario del baraccone, o contro noi stessi. Ogni vera creazione poetica è il risultato di una lotta. L'avversario è qui rappresentato da una serie di ostacoli invisibili: anzitutto la pagina "che il suo candor difende", secondo quanto scrisse Mallarmè e che occorre violare con impeto, anche se gli dèi non "donano" il primo verso, come qualcuno forse ancor troppo ottimista vorrebbe. Vi sono poi le assonanze, i luoghi comuni, le false immagini, le associazioni spontanee di deboli idee - tutto un mondo larvale e informe contro cui lo sdegno non serve, e che bisogna respingere con la calma immobile con cui la roccia infrange il torbido torrente in piena - sinchè il livello si abbassa, le acque diventano sempre più chiare, e sul fondo appaiono tremanti le prime pagliuzze d'oro. EA: Il giudizio di Servadio su Dadaismo e Surrealismo concorda in larga parte con quello di Evola che ne "Il Cammino del Cinabro" scrive: "In realtà il movimento a cui mi ero associato, tenendo Tristan Tzara in alta stima, doveva realizzare ben poco di ciò che io in esso avevo visto. Se rappresentò di certo il limite estremo e insuperabile di tutte le correnti d'avanguardia, tuttavia esso non si autoconsumò nell'esperienza di una effettiva 'rottura di livello' di là da ogni arte e da ogni consimile espressione. Al dadaismo fece séguito il surrealismo, il cui carattere dal mio punto di vista era regressivo, perchè esso per un lato coltivò una specie di automatismo psichico gravitando verso gli stati subconsci e inconsci dell'essere, tanto da solidarizzare con la stessa psicanalisi, e dall'altro lato si ridusse a trasmettere sensazioni confuse di un "dentro" inquietante e inafferrabile della realtà (specie nella cosiddetta 'pittura metafisica') senza nessuna vera apertura verso l'alto". Si notano comunque due differenze: a) Evola, se si eccettua il suo secondo periodo artistico (anni '70), ritiene che l'arte, ad un certo punto,

debba autoconsumarsi. Servadio no. b) Il giudizio negativo sul surrealismo non impedisce a Servadio di aderire alla psicoanalisi. Evola è invece critico sia nei confronti del surrealismo, sia nei confronti della psicoanalisi. ES: Non c'è da stupirsi della posizione di Servadio, perchè se il Surrealismo si riconosceva "figlio" del pensiero psicoanalitico di Freud, questi non accettò minimamente tale paternità. Andrè Breton, autore nel 1924 del primo "Manifesto Surrealista", incontrò Freud a Vienna nel 1921 ed ebbe con lui anche un breve scambio epistolare. L'incontro non ebbe l'esito che Breton avrebbe voluto, perchè i due erano ideologicamente distanti: per Freud i "matti" sono malati che debbono essere curati; per Breton invece sono da studiare e salvaguardare così come sono, perchè costituiscono un esempio di come dar libero sfogo a processi mentali irrazionali: esempio da imitarsi nella produzione artistica. La posizione di Freud rimase praticamente la stessa anche quando, a Londra nel 1938 (cioè un anno prima di morire), Stefan Zweig gli fece conoscere Salvador Dalì. Il loro incontro avvenne in un caffè, dove Dalì, su un tovagliolo, fece rapidamente un ottimo ritratto di Freud. Durante l'incontro, Freud fece due semplici affermazioni complementari: "Nelle opere classiche ricerco l'inconscio, in quelle surrealiste il conscio". Più o meno come dire che le tecniche surrealiste si illudono di poter effettivamente riprodurre volontariamente i processi inconsci, che entrano invece, proprio perchè non ricercati, in gioco nell'arte classica. Pertanto, l'unica cosa sensata di fronte alle opere surrealiste è ... cercarne il movente conscio! Dalì ebbe in seguito ad affermare che il giudizio di Freud, riguardo all'arte surrealista, era la condanna a morte delle posizioni dottrinarie, che stavano alla base di questa corrente e che, di conseguenza, occorreva ritornare al classicismo. In realtà, Freud era stato probabilmente diplomatico con Dalì, perchè, riguardo ai surrealisti, aveva sempre pensato cose persino peggiori. Il 20 luglio 1938, in una lettera a Stefan Zweig, Freud scrisse: "Caro signore, bisogna realmente che io vi ringrazi della parola di introduzione che mi ha condotto il visitatore di ieri. Poiché fino a quel momento ero tentato di considerare i surrealisti, che apparentemente mi hanno scelto come santo patrono, come dei pazzi integrali (diciamo al 95%, come per l'alcool puro). Il giovane Spagnolo, con i suoi candidi occhi di fanatico e la sua indubbia padronanza tecnica, mi ha incitato a riconsiderare la mia opinione. In realtà, sarebbe molto interessante studiare analiticamente la genesi d'un quadro di tal genere. Dal punto di vista critico si potrebbe tuttavia dire che la nozione d'arte si rifiuta ad ogni estensione quando il rapporto quantitativo tra il materiale inconscio e l'elaborazione precosciente non si mantiene entro limiti determinati. Si tratta qui, in ogni caso, d'un serio problema psicologico." Dunque, anche per non deludere completamente Zweig, Freud ammise che l'innegabile maestria tecnica di Dalì lo tentasse, per un attimo, a riconsiderare il suo giudizio negativo, per poi però sostanzialmente riconfermarlo subito dopo. Infatti, pur non conoscendo le vicissitudini interiori di Dalì, affermò, in base alla sua esperienza, che qualcosa, nel corso della vita del pittore, doveva averlo seriamente intaccato dal punto di vista psicologico.

5b) Emilio Servadio Angoscia

Emilio Servadio cominciò a scrivere poesie molto presto. Già nel 1921, quando cioè aveva 17 anni, un suo testo poetico, intitolato Ritmi, comparve sul settimanale genovese La Chiosa (1919-1927), diretto da Flavia Steno. Servadio pubblicò il suo primo libro in versi, Licheni (ed. Fratelli Ribet, Torino) nel 1928. Se le prime poesie del libro manifestano una probabile risonanza con quelle dell'amico Montale, le ultime evidenziano una sintonia con il Gruppo di Ur e, in specie, con Comi e Onofri. Lo stile di Servadio è tuttavia molto più sobrio di quello degli altri poeti di Ur, come si evince dalla composizione che trascriviamo, Angoscia, nella quale si colgono tentativi della pratica dell'Ars Dormiendi. Suoni: sussulti di sangue nel sogno tormentoso Che mi intristisce; zolle di colori arcani Affioranti da strati sotterranei e da orizzonti lontani

Al mio giacere senza riposo. Dibattersi - nella densa prigione dell'osso e del tessuto Di un Dio prigioniero che vorrebbe staccarsi E volare - e cadere o disintegrarsi Entro invisibili abissi di tenebra e di velluto. ***

5c) Emilio Servadio Canto dell'Ebreo Errante Chiude la raccolta "Licheni" il Canto dell'Ebreo Errante, personaggio mitico che, avendo dileggiato Cristo, è condannato a non morire, finchè Egli non farà ritorno. E' il simbolo del trasmigrare dell'ente mercuriale, finchè l'avvento del Sole interiore (l'Emmànuel, il Dio in Noi) non ponga fine alla "peregrinazione". E m'accompagnano all'uscio della dimora e chiudono presto come se una strana Paura li invada a un tratto che il mio male agli altri si estenda E che l'inestinguibile fuoco che arde nella mia anima, anche nella loro si accenda, E che anch'essi, lasciata la casa, e intrapresa la via, Non abbiano più come pane quotidiano che lo struggimento delle mutazioni, e la malinconia... Ma resto solo. Milioni di nuovi aspetti nelle antiche strade E, qualche triste sera, un bisogno di pregare che mi invade. Nota sull'Ebreo Errante di Occhi di Ifà: Matteo di Parigi, monaco e cronista del XIII sec., scrive, nella Historia Maior, che nel 1228 un arcivescovo d'Armenia si recò in Inghilterra e colà narrò di un certo Giuseppe, presente alla Passione di Cristo, che viveva ancora, tanto da esser stato ospite alla mensa dell'arcivescovo prima che egli partisse. Più precisamente "... ai tempi della sentenza contro il Cristo, quell'uomo, chiamato allora Cartafilo, era portinaio del pretorio di Ponzio Pilato. Quando Gesù, condannato e trascinato dagli Ebrei, traversò la porta del Pretorio, Cartafilo gli diede con disprezzo un pugno nella schiena e gli disse ghignando: Cammina dunque, Gesù, cammina più spedito. Perchè sei così lento? E Gesù guardandolo con fronte e occhi severi, rispose: Io vado, e tu, tu aspetterai ch'io torni". Da questo episodio nacque la leggenda dell'Ebreo Errante, suffragata dalle parole dei Vangeli: "In verità io vi dico, che tra i qui presenti vi sono di quelli che non morranno, prima che vedano il Figlio dell'uomo venire nel suo regno". (Matteo, XVI, 28). "Vi dico in verità che ci sono alcuni dei presenti i quali non gusteranno la morte prima di aver veduto il regno di Dio venire con maestà". (Marco, VIII, 39). "Or vi dico in verità, che ci sono alcuni qui presenti i quali non gusteranno la morte finchè non vedano il regno di Dio". (Luca, IX, 27). Si è creduto per secoli che, mentre ad alcuni venne concesso di vivere come premio per la loro fede (ad es. di S.Giovanni Gesù disse a S.Pietro "Io voglio ch'egli dimori fin ch'io torni"), ad altri fu ugualmente concesso, ma per l'espiazione dei loro peccati. Matteo di Parigi, riferendo le parole dell'arcivescovo, spiega che dopo quelle parole di Gesù, Cartafilo aspetta e ogni tanto vaga per il mondo: "Aveva all'epoca dei fatti narrati circa trent'anni e ogni qualvolta arriva all'età di cento anni è preso da una particolare specie di

estasi e dopo un periodo di malattia ritorna all'età che aveva quando il Cristo venne mandato a morte. Si dice che sia stato battezzato da Anania, lo stesso che battezzò S.Paolo, ed abbia ricevuto il nome di Giuseppe. Abita per lo più in Armenia o in altri paesi dell'Oriente, sempre fra vescovi e prelati. E' religioso e conduce una vita santa, parla assai poco e solo quando lo richiedano i vescovi o persone assai religiose. Racconta fatti antichi e circostanze della Passione, e ciò senza scherzo e senza parole frivole, perchè è per lo più piangente. Vengono a vederlo da paesi lontani per intrattenersi con lui; e se si trova con uomini rispettabili risponde a tutte le domande ed alle questioni che gli vengono proposte. Rifiuta quanti doni gli sono offerti, contento di una veste e di un cibo semplici. Tutte le sue speranze vede nel fatto che egli peccò per ignoranza".

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5d) Emilio Servadio Fioritura Nel numero 6-7 di Krur (1929) apparve, di Emilio Servadio, la poesia "Fioritura", dedicata a Girolamo Comi (G.C.) . Venne scritta sotto lo pseudonimo di Es, che peraltro non compare nè in testa nè in fondo alla poesia (che riporta invece la data di composizione), ma esclusivamente nel sommario della copertina. Questo componimento può considerarsi come una prosecuzione di quanto già espresso in "Angoscia". Ritorna infatti, mostrando più maturi frutti, il tema dell'Ars Dormiendi. La quartina finale esprime invece sinteticamente l'alto compito della Poesia Ermetica. Fioritura a G. C. Coppie intrecciate di virginee mani Passano sul mio capo e sul mio petto Irrorando di stelle e fluidi strani Lo scarso corpo che giaceva inetto. Lo scender lento dell'umana rete Sembra togliere e dare alito e spazio Al sangue ed alle falde più segrete Del fusto che ritrovo e che ringrazio. Sollevato in un calice ed offerto Più alto a consumarsi in sacrifizio Il mio corpo terrestre ancora incerto S'equilibra in riflessi di solstizio. L'aridità dell'essere mortale Si placa e si distende in un respiro Non interrotto, lieve e floreale Che scende da un silenzio di zaffìro. Mi ridesto , o rinasco, in progressivo

Dilatarsi di sensi e di orizzonti E mi contemplo nuovo e primitivo Permeato di nuvole e di fonti. Di là dal tempo, in sempiterna messe Il vento soavissimo raccoglie I miei respiri e li confonde e intesse Con gli aromi dei fiori e delle foglie. Così il canto degli atti e dei portenti Ricongiunge lo spirito del rito All'incorporeità degli elementi E lo consacra in dignità di Mito. giugno 1929 ***

5e) Emilio Servadio Liriche Nel numero 3 (1Marzo 1930) del quindicinale La Torre, diretto da J.Evola, comparve una composizione poetica di Emilio Servadio, intitolata Liriche. E', per il contenuto, affine alle poesie da noi già esaminate. L'Ars Dormiendi si riconferma anche qui un aspetto costante della fenomenologia iniziatica descritta da Servadio. S'accenna, in particolare, ad un certo grado di controllo del mercurio alato ("presenza d'ali"), connesso ad una risalita delle forze sottili ("Sale e s'afferma in fervido brillare"), già sperimentata precedentemente ("Spingendo ai cieli il fusto mio d'allora"), ma ora più specificamente connessa ad uno "schiudersi", tra gli altri, del centro coronale ("nuova vita in forma di corona"). I Fragilità delle cime, o fluire D'equoree carezze, son chimere Degli ultimi germogli! Le miniere Confondono gli eventi, e l'avvenire ... Nascer di nuove cellule, o svanire Di sistemi solari - attimi od ere Ignora o non discerne il mio giacere Di roseo mondo in lento divenire. Miriadi d'esistenze, empireali Sonni uniscono in me palpiti e tombe, Lieviti d'astri e succhi minerali; E le ascese perenni ed immortali Entro la falda che mi cela e incombe Dànno ai miei rami una presenza d'ali. II Vergine tremo all'alito solare Che mi desta e m'attira, oltre le zolle, Muto ancòra e difeso tra le avare

Palpebre delle mie chiuse corolle. Pur, se una linfa da segrete polle Sale e s'afferma in fervido brillare Di gemme, amo la forza che in me volle Con rami e foglie vivere e parlare. Nella verde parola oggi discerno Quel che al seme sembrò spento e distrutto, Vigile ritmo d'estate e d'inverno; E m'abbandono al ricorrente flutto Per divino durare, oltre l'eterno Aprirmi fiore e ritrovarmi frutto. III Credo alla morte, che sepolto ancòra M'offerse un velo iridescente e molle. E simile ai virgulti oggi mi volle Nudo e rinato ai soffi dell'aurora. Il mio corpo vetusto anima e dora La stessa forza che plasmò le zolle E schiuse i bocci, e fecondò le polle Spingendo ai cieli il fusto mio d'allora. Sento il raggio che penetra - e ridona Linfe perdute e vividi fermenti Al germe chiuso nelle antiche scorze. Or s'apre intatta dalle oscure forze Per mille bocci fragili e lucenti La nuova vita in forma di corona!

6) Massimo Scaligero Trasmutazione Calcarea L'attività poetica ha accompagnato la vita di Massimo Scaligero (Antonio Scabelloni, 1906-1980) sin dalla fanciullezza. La sua prima poesia pervenutaci, "Primavera", è datata 22 Marzo 1914. Molte delle sue poesie sono poesie d'amore, che vanno arricchendosi, con il passar del tempo, di contenuti iniziatici, e fanno di Scaligero uno dei principali esponenti del'esoterismo poetico nell'Italia del Novecento. Egli è poco noto in tal senso, perchè a differenza di Onofri, Comi e altri, la sua produzione poetica è stata pubblicata solo postuma (La Pietra e la Folgore, Tilopa, 1985). Scaligero si può considerare, per il contenuto delle sue poesie, come una sorta di moderno Fedele d'Amore. La poesia che proponiamo "Trasmutazione Calcarea", parla di quella "Pietra Vegetabile" che, come dice Kremmerz, "conserva il carattere di un minerale ... eppure è un vegetabile, poiché alla vita vegetativa non ripugna".

Un figlio di creta, un corpo d'antica creta con soffio impietrato nel profondo, nell'intimo delle ossa di calce: creta e calce. Rinascere dall'antica creta, soffio delle ossa, in magica fiorescenza di luce che riprende vita dall'abisso: materia dell'infinito, lampeggiamento solitario di Giva (1) nel grumo dei mondi sofferti, tornare in alto alito celeste per aereo spazio d'immenso. Amore riprende sogno interrotto, smagato, dimenticato, per primavera imperitura nel ciclo dell'immateria che un tempo fu creta: creta e calce. (1) Termine sanscrito, più frequentemente traslitterato in Jiva, che è in relazione con "jivah" = vivente, e sta ad indicare l'anima individuale.

7a) Guido De Giorgio I Poeti Penso non si possa definire completa una analisi delle forme poetiche che gravitarono attorno al Gruppo di Ur, senza accennare alla poesia di Guido de Giorgio. Tutti i suoi scritti sono in fondo poesia, giacchè la sua stessa prosa segue spesso dei ritmi poetici. Guido De Giorgio non ha mai scritto nessun trattato sistematico sulla poesia. Tale non è, nonostante il titolo, l'opera "Dio è il Poeta", che è piuttosto una raccolta di inni, di salmi sui generis, nei quali "si pensa cantando e si canta pensando". Proprio come un pesce, che non si cura della formula chimica dell'acqua in cui nuota, egli probabilmente non avvertì mai la necessità di un siffatto trattato. In un suo romanzo inedito si trovano, però, delle interessanti e sufficienti considerazioni sui poeti (ora in Aforismi e Poesie, Milano 1999). Esse confermano la via essenzialmente devozionale di De Giorgio. Probabilmente convinto che la possibilità della sua epoca fosse ri-innalzare la religiosità cristiana ad una forma di Bhakti Yoga, egli tace di altre possibilità (Raja Yoga, Jnana Yoga, Karma yoga) che pur, di certo, conosceva. Il limite della sua proposta sta ovviamente nel fatto di generalizzare il suo tipo umano, con un ego (ahamkara) non ancora del tutto cristallizzato e d'altro canto non più spontaneamente centrato nella coscienza (purusha). Tuttavia è da ritenersi proposta valida per chi, anche se forse raro ai tempi d'oggi, ha una struttura interiore come la sua. I poeti, dopo i Santi, si capisce, mi pare che siano più vicini a Dio perchè, in un certo senso, spiritualizzano la materia, l'alleggeriscono, la rendono eterea, impalpabile. La Poesia è la corona della vita, la Santità è la corona del cielo. Il poeta è più che l'uomo, ma il Santo è più che poeta. Ma una volta il Poeta era anche Santo, quando non cantava del mondo, ma di Dio, quando mirava il mondo in funzione

di Dio, quando la creazione era permeata di Dio, quando si pensava cantando e si cantava pensando. Dice Platone che il Poeta è un "essere alato e leggero" che vaga, come ape, nei boschetti delle Muse, e vi coglie il nettare e lo trasforma in miele ... E canta come un invasato, agitato dal Nume, che - direbbe Dante - gli ditta dentro, e questo nume è Amore... E' la vita rinnovata dallo Spirito, non più luogo di erramento, ma di conquiste, di redenzione. Pensate a Virgilio: quanti poeti non aveva egli distolto dall'errore, avviati sul cammino della Verità, di Dio, egli che andava, dice Dante, come un uomo, che ha una lampada in mano e rischiara quelli che lo seguono ma non se stesso: Facesti come quei che van di notte che porta il lume retro a sé non giova Ma dopo sé fa le persone dotte Ed ecco il dramma terribile dei poeti che talvolta salvano ma non si salvano, che illuminano gli altri ma non se stessi, che tornano essi, in prigione, dopo averne svincolati gli altri...Chi canterà mai il dramma di Virgilio che all'apparizione di Beatrice, lascia Dante e riprende la via del Limbo?... Egli, lucifero, ritorna nelle tenebre a vivervi "senza speme e in disio...". E Brunetto Latini? I Maestri d'eternità che dall'eternità gaudiosa sono esclusi... Questi sono tra gli arcani più terribili della Giustizia di Dio che potrebbero indurre i più saldi al dubbio...Bisogna credere terribilmente in Dio per non esitare, non dubitare, per accettare ciò che ripugna alla nostra ragione umana, per esaltare il Signore in ogni cosa, nel bene, nel male che permette, nella implacabilità della Sua giustizia e nell'ingiustizia apparente della sua Misericordia. Egli che si nasconde a noi per indurci in tentazione; per provare la nostra fermezza, per rafforzare la nostra fede, infiammare la nostra carità a dare le ali alla nostra speranza. ***

7b) Guido De Giorgio Salmo del Poeta Da "Dio e il Poeta", pubblicato postumo (Milano 1985) come la maggior parte degli scritti di G. De Giorgio, estraiamo il "Salmo del Poeta", che riprende alcuni dei temi già visti, come la funzione di guida (che è a un tempo il sacrificio) del poeta. Si possono notare anche alcuni passi di sapore "vedantino", come quelli relativi al mondo come "Sogno" di Dio. In questo salmo è particolarmente evidente quell'indistinguibilità di prosa e poesia che, come abbiamo già detto, è caratteristica di molti scritti di De Giorgio. O Signore che mi desti la follia, Dio abbi pietà di me! O Signore che morte mi darai, liberami da morte, morendo, perchè la morte cantai e vita feci in ciò che morte era, e i morti svegliai per cullarli colla nenia dell'infinito, e se cantai e se delirai, Signore della pazzia mia, abbi pietà di me! C'eri tu e c'eran loro, tu ricco, tu tutto, loro poveri, loro briciole, scelsi loro e lasciai Te a Te, affinchè, guidati da me, ritornassero a Te, essi che di te figli abbandonarono te per correre a ciò che non è, in oblio di Ciò che è. O tu che mi facesti pazzo, abbi pietà di me! Per i miei canti e per la mia follia, Dio abbi pietà di me! Io che cantai la morte, sia libero da morte, io che cantai la vita mi abbia la vera vita, quella che è Te in Te, perchè Tu sia Tu e io non più! Io che cantai in sogno, sia accolto in verità, io che cantai in morte giunga alla vera vita, io che cantai di pianto abbia la bella gioia, quella che di Te solo vive, che in Te solo dimora, quella che è pace in guerra, sia tutta pace in Te! Io che cantai il tuo sogno, ch'io veda il Sognatore, il teste dell'eternità, l'invisibile dio dei mondi, e Colui che solo è, liberi me da me, sciolga i miei canti in Sé, lavi le mani mie nell'onda Sua che tutto monda, chiuda i miei occhi al pianto; apri i tuoi occhi a me. Tu che sei solo in me quel che io non sono in Te, anima povera mia, rifammi Tuo dopo avermi dato alle creature del Tuo sogno, nuvole, fiori e venti, occhi d'amore, occhi di morte, creature tue, Signore; per me, cessi il Tuo Sogno, cessi il mio canto, scioglimi tutto in Te!

7c) Guido De Giorgio O Tu La poesia di De Giorgio è in genere diversa da quella degli altri collaboratori di Ur. Infatti, nei loro componimenti, è posto al centro l'attività dello Spirito nella pratica esoterica; in De Giorgio, che segue una via prevalentemente devozionale, è posto al centro il rapporto con Dio e i suoi intermediari e perciò la sua poesia si avvicina maggiormente a quella di carattere religioso. Rimandando inevitabilmente alla lettura diretta delle sue opere, concludo trascrivendo la prima strofa di "O Tu", un inno dedicato alla Madonna (Aforismi e Poesie, Milano 1999). O Tu che sei l'alcova dell'amore impolluto Castissima figlia della luce incolore Prato che falce non rade che piede non calpesta Vergine santa, Vergine buona, Vergine pura ... T'avevo vista santa, buona, ma non bella, finora ... E ora, come una folgore, bella, bella ti vedo Vergine bella di Monte Vergine salva me! D'improvviso: luce che si fa amore, amore che si fa bellezza.

8) INNI E INDIGITAMENTA Introduzione di Abraxa Come abbiamo appena visto, la poesia di Guido De Giorgio si differenzia da quella degli altri membri di Ur per due motivi: per il contenuto, più religioso che ermetico, e per la forma, più evocativa del divino che riproduttiva di stati iniziatici. Ciò ci conduce a parlare, in maniera più ampia, degli inni e di quelle peculiari forme di invocazioni agli Dei che furono gli Indigitamenta nella religione di Roma. Nel nostro forum, diversi interventi hanno evidenziato che, se si vuole che la religiosità classica politeista riprenda, anche pubblicamente, la sua eterna funzione di guida della civiltà occidentale, non basta limitarla (sempre pubblicamente) al ristretto ambito degli studi di mitologia e simbologia ove il cristianesimo cercò di circoscriverla. Occorre ricorrere, sempre più frequentemente, al rito pubblico. Un aspetto frequente di questo è l'inno.

8a) CARMEN ARVALE Pietro Negri: Per ''Fratres Arvales'' si intende un collegio di dodici sacerdoti, che il mito fa risalire ai 12 figli di Acca Larentia, nutrice di Romolo e Remo. Romolo stesso era divenuto membro del collegio alla morte di uno dei dodici. Portavano attorno al capo una corona di spighe con fasce di lana bianca (infulae) e celebravano ogni anno gli Ambarvalia, sacrifici alla dea Dia, officiati in un bosco sacro presso Roma. Qui la dea aveva un tempio rotondo e una statua che veniva unta durante i riti. Il culto si svolgeva alternativamente il 17, 19, 20 o il 27, 29, 30 maggio. Questa dea è in pratica nominata soltanto negli Atti dei Fratelli Arvali. La stessa etimologia del nome Ambarvalia fa comprendere il legame di questi riti con la terra che circondava l'urbe (amb='intorno' e arva='campi'). Dopo il solenne sacrificio di due porche, di un'agnella grassa e di una bianca giovenca, i sacerdoti prendevano i libri e, danzando,

cantavano un antico inno scandito su un ritmo ternario, implorando protezione degli Antenati -(Lases=Lares) protettori della proprietà dei campi- e del dio Marte. L'antico testo (si ritiene del VI secolo a.C.), è stato scoperto nel 1778, su una lapide, che riporta il verbale dell'intera cerimonia eseguita nell'anno 218 d.C. e che si trova oggi nei Musei Vaticani. La lingua dell'inno è arcaica e Mars è invocato anche coi nomi antichi di Marmar e Marmor, aventi relazione con l'umbro Mavors, l'osco Mamers, l'etrusco Maris, tutti dei italici arcaici protettori dei campi, delle attività agricole, del raccolto, della rinascita primaverile, ma anche, in quanto difensori dei campi, guerrieri. Da qui la corrispondenza col dio Olimpico greco Ares, che però sembra aver avuto un carattere più specificamente guerriero. Nell'inno Marte è invocato come dio della soglia (limen): sia a difesa da "epidemie e rovine", che possono diffondersi nelle moltitudini (pleores=plures) umane, animali e vegetali, sia come regolatore della semina, naturale e umana. Gli si chiede infatti, quando sta sulla soglia, di battere ripetutamente (berber equivale all'imperativo verbera), gesto che richiamerà (advocapit=advocabit) alternativamente i Semoni (Semunis=Semones) divinità che presiedono alle varie semine (etimologicamente, il loro nome è infatti connesso con semen,'seme'). L'ultima invocazione chiarisce che il gesto magico che il dio è chiamato ad eseguire è un triplice battito del piede. Da tale verbo arcaico (triumpere), indicante il predetto gesto vittorioso, derivano, per il tramite del latino classico, i termini "trionfo" e "tripudio". CARMEN ARVALE (dagli Acta Arvalium, 218 d.C.) ENOS LARES IVVATE (ter) NEVE LVE RVE MARMAR SINS INCVRRERE IN PLEORES (ter) SATVR FV FERE MARS LIMEN SALI STA BERBER (ter) SEMVNIS ALTERNEI ADVOCAPIT CONCTOS (ter) ENOS MARMOR IVVATO (ter) TRIVMPE (quinquies) Traduzione: Aiutateci o Lari! (tre volte) Né peste nè rovina, o MarMar, permetti che si diffonda nella moltitudine! (tre volte) Sii fruttifero, o fiero Mars, raggiungi di slancio la soglia, fermati là, batti ripetutamente (tre volte) I Semòni, a turno, convocherà tutti (tre volte) Aiutaci MarMor! (tre volte) Batti tre volte il piede! (cinque volte). Sipex: Tra le espressioni arcaiche del Carmen è di particolare rilievo la forma "enos" al posto del classico "nos". Non deve stupire quella "e" iniziale, perchè il singolare di "enos" (noi) è "ego" (io) ed è perciò evidente che la "e" fa parte della radice della parola. La scrittura "enos", anzichè "egos" fa pensare che in origine la "g" di "ego" avesse una pronuncia "nasale", come dimostrano anche il genitivo e gli altri casi del singolare (mei, mihi, me, me), altrimenti foneticamente inspiegabili. Alcuni traduttori, troppo legati al latino classico, nel tradurre il Carmen Arvale, hanno separato, arbitrariamente, "enos" in due parole ("e nos"), interpretando in genere la "e" come una esclamazione, che oltretutto è semanticamente superflua. Ultraviolet:: Quando ho letto, nel forum, il Carmen Arvale, ho approfondito un po’ l'argomento leggendo tutto quello che ho trovato sul web - pochissimo, ma forse sufficiente per inquadrare a grandi linee di che si tratta. Ho in mente una delle mie domande da asilo (ma non è detto...): ma il ripetersi delle frasi (a parte l'ultima) per TRE volte? Sipex: In relazione al motivo generale delle "ripetizioni", tanto nei riti quanto nei testi iniziatici, potresti rileggere "Ripetizioni di frasi e di significati" - messaggio a suo tempo inviato da Breno ed ora parte finale del quaderno La Tradizione Estremo Orientale - che, pur sinteticamente, lo esprime molto bene. Ekatlos: Se poi Ultraviolet intende riferirsi al significato del "tre volte" e del "cinque volte" nella specificità di quel rito, è nozione che gli attuatori o (a seconda delle epoche) i conservatori del rito stesso si tramandano esclusivamente nel loro ristretto ambito. Tarquinio Prisco: Cosa si sa, dal punto di vista storico, della misteriosa dea Dia? Ea: Dea Dia è l'aspetto femminile dell'arcaico Dies-piter, il Padre Cielo, il cui culto fu, in epoca classica, assorbito in quello di Juppiter. Diespiter divenne allora uno dei più importanti attributi di Giove, tanto che il sacerdote di quest'ultimo era detto Flamen Dialis. Diespiter è una divinità del tutto equivalente al dio vedico Dyaus Pitar, la cui "sposa" è Prithivi, la Terra. Anche Dea Dia è una divinità della Terra e viene perciò spesso assimilata a Tellus e Cerere. Ma le assimilazioni rischiano di coprirne la specificità. Il fatto

che Dia conservi la stessa radice di Dies indica che qui la Terra è considerata proprio nell'atto di unirsi al Cielo, nell'atto di formare il binomio Dies-Dia. E' tale binomio a generare la realtà intermedia in cui viviamo, che partecipa del Cielo e della Terra. Da un punto di vista agreste ciò significa, ad es., che gli eventi atmosferici non dipendono solo dal cielo (ad es. dall'attività solare), ma anche dal modo in cui la terra ne accoglie l'attività. Questa realtà è oggi perfino più evidente che al tempo dei Romani, dal momento che tutti sanno ad es. che è ben diverso l'effetto dei raggi solari su una terra che, per l'attività dell'uomo, immetta nell'atmosfera poca o molta anidride carbonica. Dunque i rituali di Dea Dia miravano ad assicurare che la Terra dei Romani accogliesse sempre nel modo migliore l'attività celeste. Dal punto di vista alchimistico ciò significa purificare il mercurio, affinchè accolga nel modo migliore lo zolfo. Passando cioè dal punto di vista agreste grossolano a quello sottile, i rituali di Dea Dia miravano a rendere atta la mercurialità o psichicità collettiva del popolo romano (Evola direbbe la "razza dell'anima") ad accogliere gli obiettivi spirituali (la "razza dello spirito") che si incarnarono nel medesimo popolo. Dunque i Romani, per curare gli eventuali difetti della "razza dell'anima", usavano il Rito, e non la "camera a gas": isterico gesto materiale, che solo la follia di un ambiente materializzato potè attuare.

Dies-Dia

*** 8b) Dall'Inno a Mercurio Ovidio, Fasti (V, 663 e sgg) a cura di Ida La Regina

Clare nepos Atlantis, ades, quem montibus olim edidit Arcadiis Pleias una Iovi, pacis et armorum superis imisque deorum arbiter, alato qui pede carpis iter, laete lyrae pulsu, nitida quoque laete palaestra, quo didicit culte lingua docente loqui. ... Vieni o illustre nipote di Atlante, che un tempo a Giove partorì una delle Pleiadi sui monti dell’Arcadia, arbitro di pace e di guerra per gli dèi celesti e inferi, che percorri lo spazio coi piedi alati, lieto del suono della lira e lieto anche della lucente palestra, tu per il cui insegnamento la lingua apprese a parlare con eleganza. ... Invocazione del mercante a Mercurio (P. Ovidius Naso Fasti 681 sgg): Ablue praeteriti periuria temporis, ablue praeteritae perfida verba die. Sive ego te feci testem falsove citavi Non audituri numina magna Iovis, sive deum prudens alium divamve fefelli, abstulerint celeres improba verba Noti, et pateant veniente die periuria nobis, nec curent superi si qua locutus ero. Da modo lucra mihi, de facto gaudia lucro, et fac, ut empori verba dedisse iuvet. Lava gli spergiuri del tempo passato, e lava anche le parole perfide dette ieri. Sia che abbia evocato te a testimone, o invocato Falsamente il grande nume di Giove sperando che non mi udisse, sia che, astuto, abbia ingannato alcun altro degli dei o delle dee, i rapidi venti disperdano le mie sacrileghe parole: e domani mi si schiuda la liceità di nuovi spergiuri, né badino i Celesti se ne avrò pronunciato qualcuno. Concedimi solo guadagni, concedimi di godere di essi, e fa che mi giovi l’aver gabbato l’acquirente.

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8c) Mesomedes: Inno a Calliopea a cura di Ekatlos Tra i pochi brani musicali dell'antica Grecia che ci sono pervenuti sono da segnalarsi quelli del cretese Mesomedes, musicista della corte di Adriano (che regnò nel 117-138 d.C.) e degli Antonini. L'Inno qui riportato è dedicato a Calliopeia (o Calliopea o Calliope) Musa della poesia epica. Il testo originale, compresa la musica in notazione antica e una trascrizione nella notazione moderna, si trova in Pohlmann (1). Nell'inno viene invocato anche Apollo, mediante tre attributi: "guida del mistero esoterico", "figlio di Leto" (Latona) e "Peana di Delo". Apollo viene altresì definito "peana" anche da Dante nel Paradiso (Pd. XIII, 25), giacchè nell'inno che era cantato in suo onore, veniva rivolto a lui il grido rituale "Iè Paiàn!". (1) Pohlmann, Egert. Denkmäler Altgriechischer Musik: Sammlung, Übertragung und Erläuterung aller Fragmente und Fälschungen. Nürnberg: Verlag Hans Carl, 1970, pp. 14-15. Oh venerata Musa, canta con me, dai inizio e armonia alla mia canzone. Le fresche brezze che esalano dai Tuoi boschetti ispirino il mio petto e risveglino il mio cuore. Tu saggia Calliopea principale delle leggiadre Muse e anche tu, guida al mistero esoterico, figlio di Leto, Peana di Delo, siate propizi e restate con me.

*** 8d) Costantino Kavafis: Itaca a cura di Occhi di Ifà Oltre che Inni agli Dei, esistono Inni ai luoghi, in genere evocativi del Genius Loci. Invece, nella seguente poesia del poeta greco Costantino Kavafis (Alessandria d'Egitto 1863-1933), Itaca è la meta inizialmente necessaria per giustificare il viaggio, che poi si rivela essere, in sé stesso, il vero scopo. Analogicamente, nella realizzazione iniziatica, la meta è in realtà la pratica di ogni istante. Dunque questo componimento può considerarsi un “consiglio” sulla pratica della cosiddetta "Via-Meta". Se l’Inno ha in genere la veste di una “chiamata” o di una “domanda”, qui si ha invece la forma complementare della “risposta”, dell'insegnamento. ITACA Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga fertile in avventure e in esperienze. I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere d'incontri se il pensiero resta alto e il sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. In Ciclopi e Lestrigoni, no certo né nell'irato Nettuno incapperai se non li porti dentro se l'anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga che i mattini d'estate siano tanti quando nei porti - finalmente e con che gioia toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre tutta merce fina, anche aromi penetranti d'ogni sorta, più aromi inebrianti che puoi, va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti. Sempre devi avere in mente Itaca - raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo,per anni, e che da vecchio metta piede sull'isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos'altro ti aspetti? E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso Già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

*** 8e) Platone: Inno a Pan a cura di Ekatlos Come abbiamo visto nella poesia di C. Kavafis "Itaca", la ricchezza terrena, per ovvia trasposizione, può esser presa a simbolo di quella spirituale. Kavafis non è certo il primo ad usarla in tal senso. Un esempio celebre ed esplicito è contenuto nel breve "Inno a Pan", che conclude il Fedro di Platone: "O caro Pan e voi altri Dei che siete in questo luogo, concedetemi di diventare bello di dentro, e che tutte le cose che ho di fuori siano in accordo con quelle che ho dentro. Che io possa considerare ricco il sapiente e che io possa avere una quantità di oro quale nessun altro potrebbe nè prendersi nè portar via, se non il temperante". L'Oro=Sapienza deve essere dunque ottenuto tramite la temperanza, quell'atteggiamento equilibrato verso se stessi e il mondo, su cui spesso si insiste in Introduzione alla Magia e alla coltivazione del quale è in specifico dedicato ad es. il saggio "Liberazione delle Facoltà" (III vol.).

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8f) INDIGITAMENTA

Venvs Genitrix: Scrive Renato del Ponte nel saggio "Aspetti del lessico pontificale: gli indigitamenta" (1): "Paolo Diacono, nel suo commento a Festo, può asserire che gli indigitamenta "sono formule incantatorie" (incantamenta) e dei "segni" (indicia)". Comprendo che l'argomento è riservato e che perciò Del Ponte, in quel saggio, si limiti ad accennare solo a qualche aspetto delle formule incantatorie, ma è possibile sapere, sia pure molto genericamente, di che segni si trattava? (1) Diritto e Storia, Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, N° 1 - Maggio 2002 Ekatlos: Analogo concetto degli indigitamenta è espresso da Gesner, Johann Matthias nel "Novus Linguae Et Eruditionis Romanae Thesaurus" - Leipzig, 1749: "INDIGITAMENTA, orum. n. Festus, vel Paullus potius, Festi interfector interpretatur incantamenta, vel indicia. etc". Per gli storici digiuni di esoterismo, gli "indigitamenta" - concepiti nella loro interezza - sono un rebus praticamente insolubile. Per gli esoteristi, come giustamente osservi, vi sono problemi di riservatezza. Tuttavia qualche indicazione può essere data. Ciò che porta facilmente fuori strada gli studiosi, è probabilmente un errato percorso etimologico. Essi di solito traducono l'espressione "Di Indigètes" con "Dei Indigeni", per l'apparente somiglianza linguistica tra "indiges" e "indigenus". Così facendo, non possono far altro che concludere che gli indigitamenta fossero, almeno in origine, semplicemente le invocazioni agli dei locali. Invece, il percorso etimologico deve partire proprio dal termine indigitamenta, che deriva dal sostantivo "digitus", cioè "dito". Ancor oggi, intendiamo col termine "digitare" il premere i tasti con le dita. Perciò, il verbo latino "indigeto", o "indigito" non significa semplicemente "invoco", ma "invoco, mentre compio un gesto o una pressione con le dita". Per farsene una idea, si pensi alle "mudra", che accompagnano la recitazione dei nomi divini in sanscrito. Pertanto, "Di Indigètes" non significa - almeno come significato primario - "Dei Indigeni", ma indica invece "quegli dei che sono invocabili tramite gli indigitamenta". Essi si distinguono dai Novénsides, nuove divinità, in genere straniere, per le quali non si conoscevano specifici indigitamenta. Per essere invocate, era necessario prima identificarle con qualcuno dei "Di Indigètes", in modo da poter utilizzare il medesimo segno delle mani, mentre diversa era ovviamente la formula verbale. Sipex: Attività di identificazione, che costituisce un aspetto caratteristico e distintivo degli autentici Pontifices e la base teorico-pratica del Pantheon.

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