100744211 Paul Wescher I Furti d Arte Napoleone e La Nascita Del Louvre

April 12, 2017 | Author: Aaron Perez | Category: N/A
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I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre di Paul Wescher

Storia dell’arte Einaudi

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Edizione di riferimento: Paul Wescher, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, trad. it. di Flavio Cuniberto, Einaudi, Torino 1988 Titolo originale:

Kunstraub unter Napoleon © 1976 Gebr. Mann Urlag, Berlin

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Indice

I furti d’arte Introduzione—Arte e campagne militari Introduzione—Un profilo storico I.

II. III. IV. V.

VI. VII. VIII.

IX.

La Rivoluzione francese (1972-95) Distruzione e conservazione Il Louvre come museo della Nazione Il contributo dei Paesi Bassi (1794-95) Furti su commissione: Napoleone in Italia (1796-98) e in Egitto Il saccheggio di Torino, Napoli e Firenze (1799-1800) Il «Musée Napoléon» e il riordino del bottino (1802-806) La politica museale di Vivant Denon È la volta del «contributo tedesco» (1806-807) Per arrotondare: le requisizioni in Spagna (1808-14) e la conquista di Vienna (1809) L’ultima missione di Denon in Italia (1811-12) «Una enorme massa di quadri...» La fine del «Musée Napoléon» (1814-15) Restituzioni e riconquiste

Indicazioni bibliografiche Elenco delle opere trafugate

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Introduzione Arte e campagne militari. Un profilo storico

La conquista di opere d’arte come bottino di guerra è una pratica che risale ai primordi della civiltà e che si è perpetuata fino ai nostri giorni. Ancora oggi si sente parlare spesso del ritrovamento di importanti opere d’arte sottratte nell’ultima guerra ai paesi occupati. Se durante la visita di un museo viene spontaneo domandarsi «come avranno fatto a mettere insieme tutte quelle opere», per dare una risposta bisogna appunto risalire, in non pochi casi, a episodi di guerra. Oltre alle grandi migrazioni di popoli di cui parla la storia, vi furono infatti periodi in cui tesori d’arte e biblioteche – i documenti piú tangibili delle grandi civiltà – furono allontanati con la forza dal loro luogo d’origine. In confronto ad altri episodi, non meno frequenti, di pura e semplice distruzione, si tratta di casi piú fortunati, a cui dobbiamo la conservazione di importanti capolavori. E poiché la storia tende, almeno fino a un certo punto, a ripetersi e a modellarsi sul già accaduto, non sarà inutile dare uno sguardo ai tratti essenziali di questa lunga vicenda, in cui l’opera d’arte compare come bottino di guerra. Sarà allora chiaro in che misura i precedenti storici abbiano influenzato le razzie compiute durante la Rivoluzione francese e l’era napoleonica, offrendo a queste una parvenza di giustificazione morale: il diritto di guerra appariva a Napoleone non meno indiscutibile che agli imperatori romani. Nei tempi piú antichi la razzia di opere d’arte ebbe

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anzitutto moventi di carattere religioso, poiché rimuovere i monumenti religiosi del nemico significava impadronirsi delle sue divinità e sottometterle alle proprie. E poiché i vincitori prendevano abitualmente il posto dei vinti, spesso uccidendoli, il mondo figurativo di questi ultimi e delle loro dinastie passava al servizio del nuovo signore, che sostituiva il proprio nome sui monumenti già consacrati al vecchio potere. Piú tardi, quando le arti figurative incominciarono a utilizzare materiali preziosi come l’oro e l’avorio – per esempio tra i sumeri, gli accadi e i babilonesi, o nelle statue colossali di Atene e dello Zeus Olimpico di Fidia – entrò in gioco anche l’avidità dei vincitori. Racconta Erodoto che il re di Persia Serse I, dopo la conquista di Babilonia portò via dal tempio della città la statua del dio Baal in trono, interamente d’oro e valutata 800 talenti, insieme a un’altra statua d’oro alta dodici piedi. In epoca piú recente si arrivò infine a trafugare opere d’arte, come in Grecia e a Roma, per il loro puro valore artistico o per la fama di cui l’artista godeva. Che i babilonesi, gli assiri e i persiani fossero soliti impadronirsi delle opere d’arte del nemico è dimostrato per esempio dai numerosi monumenti di origine straniera rinvenuti nelle loro capitali. Di questi saccheggi possediamo anche documenti figurativi, come i rilievi di Khorsabad, e letterari, come le tavole cuneiformi e le incisioni su pietra. Tra i tesori di cui Sargon II fece bottino durante la campagna contro il re di Urartu (Armenia) nella città di Urzana, si trovava, oltre a una quantità di oro e di pietre preziose, la statua del dio Haldia trafugata dal tempio, come anche una statua di bronzo proveniente dall’ingresso del tempio e raffigurante una vacca nell’atto di allattare il suo vitellino. Cosí riferisce lo stesso Sargon in una iscrizione votiva al dio Assur. Anche Assurbanipal, che grazie alla sua biblioteca di tavole cuneiformi interamente conservata e ai basso-

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rilievi del palazzo di Ninive è il meglio conosciuto tra i re assiri, compose un dettagliato resoconto della sua campagna contro gli elamiti nell’anno 714 a. C., descrivendo la presa di Susa, loro capitale, e le opere d’arte di lí trafugate. I rilievi assiri conservati al Louvre documentano in immagini il trasporto del bottino. Quando l’archeologo francese Claude Schaefer portò alla luce tra le rovine di Susa la stele di basalto nero del diciottesimo secolo a. C. col celebre codice di Hammurabi, insieme al ritratto del re, alla stele commemorativa di Naramsin, nipote di Sargon I, e ad altre opere babilonesi, fu chiaro che era stato un conquistatore elamita, probabilmente il re Shutruknahhunte, a portarvele intorno al 1200 a. C. Quando Susa era ormai capitale dell’Impero Persiano, vi si trovava come bottino di guerra un’altra celebre scultura, una anzi delle prime di cui si sia tramandato il nome dell’autore. Pausania (I 8,5) e Plinio (XXIV) riferiscono che gli ateniesi affidarono allo scultore Antenore il compito di immortalare con una statua di bronzo in grandezza naturale Armodio e Aristogitone, i due eroici giovinetti che nel 514 a. C. avevano ucciso il tiranno Ipparco, venendo a loro volta uccisi. Il monumento fu eretto tra l’Agorà e l’Acropoli come simbolo delle virtú civili. Ma nell’anno 480 Atene fu conquistata e saccheggiata dal generale persiano Mardonio, e tra le opere d’arte trafugate da Mardonio vi era appunto il gruppo dei tirannicidi, che fu portato a Susa per ordine del re di Persia. Gli ateniesi la sostituirono piú tardi con un’opera di Crizio e Nesiotes, su cui si basano le diverse copie a noi note. Tuttavia il furto di opere d’arte come pratica sistematica e su vasta scala risale alla conquista romana della Sicilia e dell’Oriente. Non possiamo fare di meglio, a questo punto, che citare un passo dal saggio di George Hanfmann, Roman Art: «Il desiderio di possedere i capolavori dell’arte greca, subentrando all’antica con-

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suetudine di impadronirsi delle divinità nemiche, fece sí che la conquista di Siracusa nel 212 a. C., il saccheggio di Corinto nel 146 e quello di Atene nell’86 diventassero altrettante pietre miliari nella storia dell’arte romana. Se in un primo tempo i romani desideravano semplicemente possedere quelle opere, in un secondo tempo cercarono infatti di emularle. I conquistatori dell’Oriente vollero non solo che Roma fosse degna delle capitali orientali, ma che le superasse [...] Come anche Livio fa osservare, l’arte era la manifestazione esterna del dominio romano: anche l’atteggiamento dei romani verso l’arte fu perciò condizionato dallo spirito di conquista». Parole, queste, che si potrebbero riferire letteralmente anche all’epoca dell’espansione francese durante la Rivoluzione e il governo napoleonico. Il console Marco Marcello fu il primo a ornare le piazze romane con le statue provenienti dal saccheggio di Siracusa del 212 a. C. A partire da questo momento, come racconta Livio nella sua Storia di Roma (XXV 31,2), l’entusiasmo per le opere dell’arte greca incominciò a diffondersi e il saccheggio di statue in edifici sacri o profani venne considerato un diritto non solo dei generali vittoriosi ma anche dei governatori e dei magistrati al loro seguito. Il console Marco Fulvio, conquistatore dell’Etolia e dell’Acarnania, portò a Roma 285 statue di bronzo e 230 di marmo, che furono consacrate nella Aedes Herculis Musarum di recente fondazione. Le divinità tutelari vi erano rappresentate da un gruppo dedicato alle Muse, proveniente da Ambracia, di cui possediamo alcune copie, e da un Ercole di Lisippo, trafugato nel tempio di Ercole ad Alizia. Un altro generale romano, Lucio Emilio Paolo, che nella battaglia di Pidna del 168 a. C. sconfisse Perseo re di Macedonia, portò nel suo corteo trionfale ben 250 carri pieni dei tesori raccolti in tutta la Grecia come «ricompensa» per la liberazione dal dominio macedone. Tra le sculture consa-

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crate da Emilio Paolo nel tempio della Fortuna figurava anche, secondo la testimonianza di Plinio, una statua bronzea di Fidia raffigurante Atena. Lo storico Polibio, che riferisce questi avvenimenti come anche Plutarco e Strabone, faceva parte dei mille ostaggi di rango sociale elevato portati a Roma al seguito del vincitore. Circa vent’anni piú tardi, tra il 148 e il 146 a. C., i cittadini assiepati lungo le strade per assistere al trionfo di Quinto Cecilio Metello poterono ammirare un altro grandioso bottino: erano le sculture di bronzo, d’avorio e di marmo requisite dal generale dopo la conquista definitiva della Macedonia e consacrate nel tempio di Giunone e di Giove sul Campo di Marte. Dalle testimonianze dettagliate degli scrittori antichi apprendiamo che del bottino facevano parte non solo due statue originali di Prassitele, una Diana e un Esculapio, ma anche un Giove e una Giunone di Policleto, mentre il tempio di Giove si arricchí in quell’occasione di uno Zeus eburneo di Pasitele, di un gruppo di figure con Pan di Eliodoro e di una Venere al bagno di Policarmo. Lo stesso spettacolo si ripeté quando il successore di Metello, il console Lucio Mummio, conquistò, saccheggiò e distrusse dopo la vittoria sulla lega achea la ricca città commerciale di Corinto. I ricercati vasi di Corinto diventarono da allora cosí rari da acquistare a Roma un prezzo elevatissimo. Dice Aurelio Vittore (De viris illustribus LXI) che Mummio «riempí l’Italia di statue e di quadri conquistati nel saccheggio di Corinto, senza portarsene uno solo a casa propria». Fino all’epoca imperiale infatti la legge prescriveva che le opere d’arte conquistate in guerra appartenessero allo Stato e dovessero servire unicamente ad abbellire Roma. La principale accusa mossa da Cicerone a Verre nella seconda delle sue orazioni fu quella di essersi arricchito personalmente: come vicegovernatore dell’Asia Minore Ver-

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re aveva non solo depredato delle sue statue l’antico tempio di Giunone (Era) sull’isola di Samo, ma anche quelli di Tenedo, di Chio, Alicarnasso ed Eretria. Il dittatore Silla fece trasportare a Roma colonne corinzie del tempio ateneise di Zeus (troveremo un esempio analogo durante le guerre rivoluzionarie), per sostituire quelle del tempio di Giove sul Campidoglio, distrutte durante la guerra civile. Nell’anno ’86 Silla si impadroní della statua di avorio, di grandezza superiore al naturale, di Atena Alkamene in Boezia, e inviò in Italia, secondo la testimonianza di Pausania e di Plutarco, migliaia di altre opere greche provenienti dalle città sottomesse. Nella loro ammirazione per l’arte greca i romani non si limitarono all’età classica, ma svilupparono verso la fine della Repubblica un gusto particolare per l’arte prepericlea e arcaica. Ne sono una prova le numerose copie romane arcaicizzanti. Nel 1959 alcuni muratori al lavoro in una strada del Pireo si imbatterono in un gruppo di statue di bronzo di varia epoca (oggi al museo del Pireo), tra cui la figura arcaica in grandezza naturale di un giovinetto o kouros. Poiché le statue si trovavano sulle rovine di un antico magazzino portuale distrutto da un incendio, se ne trasse la conclusione che era stato Silla a portarvele nell’86 dopo il saccheggio di Atene, con l’intenzione di imbarcarle per Roma. Dopo il saccheggio del tempio di Era a Samo da parte di Verre, Marco Antonio, governatore dell’Oriente, trafugò una scultura del celebre Mirone raffigurante Zeus, Atena ed Eracle. Dopo la battaglia di Azio, in cui Antonio fu sconfitto da Ottaviano, quest’ultimo fece restituire l’opera agli abitanti di Samo, priva però della figura di Zeus che lo stesso Ottaviano aveva fatto sistemare in bella mostra sul Campidoglio. Per punire quindi gli abitanti di Mantinea che erano stati costretti ad allearsi con Antonio, Ottaviano sot-

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trasse al tempio di Atena a Tegea la famosa statua della dea e la fece sistemare sul Campidoglio all’ingresso del nuovo foro. Secondo Pausania (I 430), si trattava di un’opera di Endoios tutta intagliata nell’avorio. Pausania enumera nell’ottavo libro altre opere d’arte che furono vittime dei saccheggi romani in questa e in altre occasioni. A testimoniare la conquista del regno dei faraoni da parte di Ottaviano stanno ancora oggi i tre giganteschi obelischi che dànno un’impronta inconfondibile a Piazza San Giovanni in Laterano, a Piazza del Popolo e alla Piazza di Montecitorio. In origine i tre obelischi svettavano nel Circo Massimo e sul Campo di Marte, e il loro trasporto via mare sulle triremi, navi non grandissime, rappresenta un’impresa che desta tuttora meraviglia. Ottavia, sorella di Augusto, era, come piú tardi l’imperatrice Giuseppina, moglie di Napoleone, una grande appassionata di arte antica. Poiché il suo palazzo, il portico e il giardino sorgevano su quella che era stata la proprietà di Metello, comprendente anche due templi, il luogo era diventato un vero museo di capolavori dell’arte greca. In effetti, pare che il portico di Ottavia fosse una specie di museo pubblico, dove i custodi, secondo la testimonianza di Plinio, rispondevano con la propria vita delle opere esposte. Il colonnato di Metello davanti ai due templi era stato abbattuto per fare spazio a una enorme quantità di statue, che, a giudicare dalle descrizioni dell’epoca, anticipavano gli splendori di Bisanzio: c’erano fra l’altro 75 statue equestri in bronzo, raffiguranti i compagni caduti di Alessandro Magno, opera dello scultore di corte Lisippo e della sua bottega. Tra i successori di Augusto fu soprattutto Nerone a procurarsi la fama di insaziabile cacciatore di tesori d’arte. Tra le rovine della Domus Aurea sul Foro, come anche della villa estiva di Anzio, furono ritrovate sculture celeberrime, tra cui la mirabile Fanciulla di Anzio

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di età ellenistica, una Sibilla intenta a leggere una iscrizione (oggi al Museo romano delle Terme), il Galata morente della scuola di Pergamo e l’Apollo del Belvedere del Vaticano. Nerone possedeva inoltre un Apollo di Scopas, che si trova riprodotto su una delle sue monete. Una figuretta di amazzone in bronzo del quinto secolo dell’ateniese Strongylion, era cosí cara a Nerone che l’imperatore, secondo la testimonianza di Plinio, non se ne separava mai: per la bellezza delle sue gambe era detta enkuynos. Nerone fece addirittura dorare una statua di bronzo raffigurante Alessandro fanciullo, ma l’oro venne piú tardi rimosso per riportare la statua alla condizione originale. Molte tra le opere piú famose della Domus Aurea trovarono posto piú tardi, secondo Plinio (XXXIV 84), nel tempio della Pace dell’imperatore Vespasiano. Quando Plinio scrisse nella sua Naturalis Historia i libri sull’arte greca (XXXIV-XXXVI) – era l’epoca di Vespasiano e di Tito – decine di sculture di bronzo e di marmo dei piú celebri maestri greci, da Fidia a Mirone, da Policleto a Scopas, da Eufranore a Prassitele a Lisippo e cosí via, erano ancora visibili in diversi luoghi di Roma, e in particolare nei due templi della Fortuna sulla Via Trionfale (la Aedes Fortunae e la Aedes Felicitatis huiusce diei). All’epoca di Cesare, inoltre, nelle case dei romani ricchi o influenti era consuetudine circondare di sculture i cortili interni, com’è possibile vedere a Pompei, a Ostia e a Villa Adriana. Alcune tra le opere piú celebri della Grecia furono rubate piú di una volta, come ad esempio, secondo il racconto di Pausania, la statua di Eros a Tespi, opera di Prassitele o di Lisippo. Il primo che la portò a Roma fu Caligola (37-41 d. C.): la statua fu piú tardi restituita da Claudio per essere nuovamente trafugata da Nerone e finire poi distrutta nel grande incendio di Roma dell’anno 64 d. C. Durante l’incendio tre quarti della città andarono distrutti coi loro templi e i loro forzieri, e

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numerosissime opere di valore giunte a Roma come bottino di guerra scomparvero per sempre. Ma subito dopo, per sostituire le opere perdute, Nerone mandò in Grecia e in Asia Minore i suoi agenti, che non si fermarono davanti a nulla pur di eseguire gli ordini ricevuti. Tra gli imperatori successivi, specialmente a partire da Vespasiano, la razzia di opere d’arte incominciò a segnare il passo, e si verificò un’inversione di tendenza. Adriano, che fu probabilmente il piú sottile intenditore d’arte fra gli imperatori romani, e straordinario ammiratore della cultura greca in genere, arricchí tutte le province e in particolare la Grecia di monumenti e opere d’arte. E quando l’imperatore Costantino fondò, nel 330 d. C., Costantinopoli, capitale orientale dell’Impero, volle fondare non solo una seconda Roma, ma una città che potesse competere con l’Urbe in bellezza e grandezza. Per arricchire di opere d’arte gli edifici, le chiese e le pubbliche piazze della nuova città, Costantino fece ricorso al vecchio sistema, depredando dei loro monumenti piú insigni le città e le campagne della Grecia sulle due sponde dell’Egeo, l’Asia Minore e l’Egitto. Fu cosí che Costantinopoli divenne l’ultimo forziere del mondo antico. Sebbene Costantino avesse abbracciato, verso la fine della sua vita, la religione cristiana, facendo della Chiesa il suo principale strumento di potere, le statue degli dèi pagani adornavano ancora la città come quelle degli imperatori, e l’Anonimo Banduri nomina nel settimo secolo alcune delle opere greche piú celebri allora visibili per le strade di Costantinopoli: le statue di Zeus di Olimpia e di Dodona, la Era di Samo, l’Apollo Pizio, la Pallade Atena di Lindo sull’isola di Rodi, le Muse dell’Elicona e quattro statue di ninfe provenienti dal tempio di Atena a Efeso. Lo Zeus di Dodona, le Muse e la statua di Atena sorgevano davanti all’edificio del Senato, mentre 427 statue circondavano la Chiesa di Hagia Sophia. La vista di tante opere di stile ed

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epoca cosí diversi ci apparirebbe oggi piú confusa che bella, e tuttavia doveva riuscire senz’altro congeniale al gusto sovraccarico ed eterogeneo della corte bizantina. Un gran numero di statue si trovavano raccolte anche nel foro di Costantino, tra cui dodici sirene, un elefante di provenienza probabilmente egiziana e altri animali. Nell’ippodromo fatto costruire da Costantino fu collocato il gigantesco tripode di bronzo usato dalla Pizia nel tempio di Delfi insieme a una statua di Apollo, e uno dei templi all’ingresso della piazza del mercato fu collocata la statua di Rea, consacrata secondo la leggenda da Giasone sulla montagna di Didima. Secondo il racconto di Zosimo, Costantino avrebbe fatto modificare le mani della dea, che in origine tenevano dei leoni, in un gesto di preghiera. In seguito alle misure di cristianizzazione decise dall’imperatore Giustiniano, tutti i templi pagani della Grecia e dell’Oriente furono chiusi. Ma se è fuori dubbio che in questo periodo molte opere d’arte furono vittima del fanatismo religioso, altri monumenti giunsero a Costantinopoli anche da località molto lontane, come il tempio di Iside a File, vicino alla prima cataratta del Nilo. Sappiamo inoltre che proprio in quegli anni fu trasportato nella capitale uno dei piú insigni capolavori dell’arte classica, anche a causa delle sue dimensioni monumentali che, fin dall’epoca di Costantino, rispondevano al gusto della corte d’Oriente. Si trattava dell’Atena Promachos, la statua di bronzo scolpita da Fidia che gli ateniesi avevano eretto sull’Acropoli dopo la vittoria sui persiani in onore della dea e come simbolo glorioso della città: la statua, alta trenta piedi, svettava tra il Partenone e l’Eretteo, ben visibile anche dalle navi lontane. Trasportata a Costantinopoli vi rimase per ben otto secoli, fino a quando venne distrutta dai crociati nel 1204: anno che per la tradizione classica in Oriente ha un significato non meno fatale della presa di Roma da parte dei barbari in Occidente.

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Per una delle tante ironie della storia, dovevano essere proprio i crociati cristiani a saccheggiare e incendiare la città che per tanto tempo aveva rappresentato il baluardo contro i Sasanidi e l’Islam. I motivi per cui la quarta crociata si diresse a Costantinopoli anziché in Terra Santa sono troppo complessi per essere ricordati in questa sede. Steven Runciman nella sua Storia delle Crociate e altri autori ne hanno discusso ampiamente. Basti qui ricordare che i cavalieri francesi e tedeschi, o piú semplicemente «franchi», guidati dal conte Bonifacio di Monferrato e da Baldovino di Fiandra, si unirono ai veneziani, i quali misero a disposizione la propria flotta, e che col loro impero coloniale sulle isole greche avevano buoni motivi per imbarcarsi nell’impresa. Inoltre, il doge Enrico Dandolo, che comandava personalmente la flotta, era stato accecato durante la sua prigionia a Bisanzio, e aveva quindi un preciso conto da saldare anche al di là degli interessi politico-commerciali della Repubblica. Testimoni oculari come il cavaliere francese Goffredo di Villehardouin o il cronista Niceta Coniate descrissero le distruzioni e i saccheggi compiuti dopo la conquista della città: si decise di comune accordo che il bottino venisse ammassato in tre chiese e spartito quindi tra i franchi e i veneziani. Viene ricordato in particolare l’altar maggiore di Santa Sofia fatto costruire da Giustiniano: il piano dell’altare e le colonnine, lavorati a «cloisonné» e oro, furono asportati e smembrati dai saccheggiatori, come anche i rilievi in bronzo sul piedestallo della colonna marmorea dell’imperatore Teodosio. Ma gli autori di questi resoconti non sono particolarmente interessati alle cose d’arte e dimenticano innumerevoli altre opere di cui la maggior parte finí senza dubbio ai piú accorti veneziani. Il Tesoro e la Biblioteca di San Marco a Venezia possiedono ancora oggi capolavori dell’oreficeria bizantina: vasi liturgici d’oro e d’argento, rilegature di corali, scrigni,

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grandi reliquiari a «cloisonné» e cosí via. Ed è noto l’influsso che queste opere esercitarono sull’arte veneziana posteriore. Gli oggetti piú ambiti dai crociati erano però le reliquie cristiane nei loro preziosi reliquiari: l’abate Günter di Pairis racconta che un certo abate Martino avrebbe trafugato di nascosto un’intera collezione di reliquiari dal Mausoleo della madre dell’imperatore Manuele. Grandi cammei intagliati furono staccati e portati via, come quello della collezione Rotschild a Parigi, che secondo l’iscrizione greca sarebbe un’immagine dei santi Sergio e Bacco, ma che piú probabilmente raffigura l’imperatore Costantino II e consorte. Filippo di Svevia, genero del deposto imperatore Isacco e uno fra i principali promotori della crociata, riportò a sua volta due cammei di straordinario valore, provenienti da un pettorale. Numerosi pezzi del bottino crociato si trovano tuttora nelle chiese cristiane d’Occidente. Cosí ad esempio il duomo tardoromanico di Limburg sulla Lahn possiede tuttora un reliquiario d’oro donatogli nel 1208 dal crociato Hochmar di Ulma, ed eseguito secondo l’iscrizione a Bisanzio tra il 919 e il 944. Anche il tesoro vescovile del Duomo di Halberstadt custodisce numerosi esempi di oreficeria bizantina, che secondo la tradizione il vescovo Corrado di Krosigk avrebbe ereditato dal patrimonio dei crociati. Uno dei piú famosi altari portatili lavorati in oro, la «chasse», che conteneva un frammento della Croce e un mosaico raffigurante l’imperatore Costantino con la moglie Elena e l’Arcangelo Michele, si trovava una volta alla SainteChapelle di Parigi prima di essere trafugato e distrutto durante la Rivoluzione. Mentre i cavalieri crociati si accontentarono in sostanza di portar via i pezzi materialmente piú preziosi dell’oreficeria bizantina, i veneziani imbarcarono sulle loro navi anche sculture di grandi dimensioni. Tra que-

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ste i quattro cavalli di bronzo dell’ippodromo, risalenti all’epoca classica della scultura greca: secondo una tradizione sarebbero giunti a Bisanzio dall’isola di Chio sotto Teodosio II, secondo un’altra li avrebbe portati dapprima Nerone a Roma e quindi Giustiniano a Costantinopoli. I veneziani li collocarono come trofei sulla facciata della Basilica di San Marco, dove, come vedremo, susciteranno in futuro altre cupidigie. Un’altra opera di bronzo di grande valore artistico si è conservata come per miracolo nella città pugliese di Barletta: rappresenta in grandezza superiore al naturale un imperatore bizantino del quinto secolo. La nave che trasportava la statua fece naufragio nei pressi di Barletta e la statua fu ritrovata sulla spiaggia dai monaci di Manfredonia, che le staccarono le braccia e le gambe per fonderle e ricavarne una campana. Il papa Pio IV, col suo vivo interesse per l’arte antica, la fece restaurare e collocare davanti alla Chiesa di Barletta dove si trova tuttora. Le gambe troppo corte e le mani troppo grosse, di cui la destra sorregge la Croce, tradiscono al primo sguardo il maldestro restauro di quella che rimane comunque un’opera straordinaria. Ancora a Venezia si possono vedere altri esempi di scultura bizantina giunta fin qui come bottino di guerra: cosí il rilievo lapideo raffigurante san Demetrio nell’atto di estrarre la spada, incorporato nella facciata di San Marco, consumato dal tempo ma sempre magnifico, e all’ingresso del Palazzo Ducale il gruppo dei Tetrarchi bizantini in porfido, nell’atto di abbracciarsi a due a due. Secondo le ultime ricerche il gruppo apparteneva a una colonna gigantesca eretta sul Forum Tauri, il punto piú alto della città, e simboleggiava la divisione del potere tra i quattro reggenti dell’Impero. Dopo il saccheggio di Costantinopoli, che segna in un certo senso la fine del mondo antico, non sentiamo piú parlare per oltre quattro secoli di razzie paragonabili a queste. Il motivo principale va ricercato nel po-

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tente influsso della Chiesa cattolica: essa infatti avrebbe considerato i furti di opere d’arte come una profanazione, dal momento che l’arte era solo arte sacra e non c’era interesse per altre forme artistiche. Quando, nel quindicesimo secolo, nacquero le prime forme di collezionismo in senso moderno, il codice morale era cosí mutato (anche per l’influsso dell’Umanesimo) che perfino tra i principi e i signori delle città italiane era giudicato sconveniente impadronirsi delle raccolte di un rivale sconfitto. Il saccheggio e la distruzione delle raccolte medicee a Firenze nel 1496 va inteso come una pura esplosione di rabbia popolare contro il potere autocratico. Anche durante le campagne militari di Carlo VIII e di Luigi XII, che per qualche tempo ridussero vaste zone dell’Italia in potere della monarchia francese, non si verificarono razzie significative, sebbene l’arte del Rinascimento italiano e l’arte classica godessero ormai in Francia di alta considerazione. Soltanto le biblioteche dei Visconti a Pavia e degli Aragonesi a Napoli furono trasportate a Parigi dove si trovano tuttora: i 1145 manoscritti aragonesi giunti in Francia al seguito del re Ferrante in esilio formano ancora uno dei fondi piú cospicui clella Bibliothèque Nationale. Nel sedicesimo secolo l’intolleranza degli iconoclasti protestanti e le guerre di religione nell’Europa del Nord provocarono nel complesso piú distruzioni che razzie. L’onnipotente Filippo II di Spagna, ad esempio, non si impadroní dell’altare dei fratelli Van Eyck a Gand, che pure avrebbe desiderato possedere, ma si accontentò di una copia di Michael Coexie. Tutti i grandi collezionisti del ’600, come il re Carlo I d’Inghilterra e i suoi favoriti, i duchi di Arundel e di Buckingham, l’arciduca Rodolfo II d’Asburgo e il re Filippo IV di Spagna, i cardinali Richelieu e Mazzarino in Francia, il re Augusto II, detto il Forte, di Sassonia, acquistarono o ricevettero in dono i loro tesori,

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sebbene le continue guerre offrissero in quel secolo ricche possibilità di conquista. Le uniche eccezioni furono i saccheggi compiuti dagli svedesi in Baviera e a Praga e il sequestro della biblioteca di corte del Palatinato ad Heidelberg durante la guerra dei Trent’anni. Com’è noto, il re si Svezia Gustavo Adolfo scese in Germania per venire in aiuto alle forze protestanti contro quelle cattolico-imperiali, e le alterne vicende della guerra portarono piú volte gli svedesi a raggiungere la Baviera e la Boemia. Nell’anno 1612 toccò alle preziose raccolte del principe elettore di Baviera Massimiliano II, e nel 1648, poco prima della Pace di Vestfalia, fu la volta delle collezioni asburgiche che Rodolfo II aveva trasferito nel suo castello di Praga. Il movente di questi saccheggi, per quell’epoca piuttosto eccezionali, va ricercato nel fatto che la Svezia, povera di opere d’arte e impegnata a diventare una grande potenza continentale, desiderava avere la sua parte anche nelle ricchezze dell’arte europea: solo cosí è possibile spiegare la scelta delle opere trafugate. Da Monaco e da altre residenze di corte gli svedesi portarono via alcuni dipinti del rinascimento bavarese, del tutto estranei alla loro cultura, che appartenevano a un ciclo di quadri storici sull’antica Roma commissionati dal duca Guglielmo IV tra il 1528 e il 1537. Il Museo Reale di Stoccolma possiede tuttora due tavole di Ludwig Refinger e Abraham Schöpfer e una scena di battaglia di Ruprecht Heller. Dalle chiese di Monaco furono trafugate fra l’altro una grande pala d’altare con una Deposizione e un Cristo deriso del pittore di corte Hans Muelich, attualmente nella Chiesa di Solna. Dalle residenze arcivescovili di Magonza e di Würzburg gli svedesi portarono via gran parte delle rispettive biblioteche, mentre sul fronte opposto il principe elettore di Baviera Massimiliano II fece dono al papa Gregorio XIV, per ottenerne alcuni favori, di un’altra

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biblioteca assai piú importante: la biblioteca palatina di Heidelberg, di cui si era impadronito il generale Tilly a capo delle truppe imperiali. Tra i manoscritti conservati ad Heidelberg si trovavano il cosiddetto Codex aureus, redatto all’epoca di Carlo Magno nel convento di Lorsch, il Codice Manesse con le sue splendide miniature, contenente una raccolta di liriche d’amore medievali del tredicesimo secolo, e oltre un migliaio di preziosi manoscritti e antiche opere a stampa. Ma il «colpo» piú sensazionale riuscí agli svedesi nel 1648, quando il conte Königsmarck conquistò il castello imperiale di Hradschin e il quartiere praghese di Malà Strana. L’impresa poteva suscitare l’invidia dei maggiori collezionisti europei, dal momento che Rodolfo II, collezionista appassionato, aveva fatto sistemare nel suo castello una parte cospicua delle collezioni pittoriche della casa d’Austria e delle proprie raccolte private. Appena la giovane regina Cristina, figlia del re Gustavo Adolfo caduto a Lützen, venne a sapere della presa della città, scrisse al cugino Gustavus Adolphus di assicurarle la biblioteca e le rarità della galleria d’arte di Rodolfo: il comandante in capo delle truppe svedesi conte Königsmarck fece in modo che la pinacoteca imperiale e le raccolte di oggetti preziosi gli venissero consegnate immediatamente e senza danni, e le fece subito inventariare. Siamo cosí in grado di stabilire con una certa precisione quali opere caddero allora nelle mani degli svedesi, benché naturalmente alcuni alti ufficiali provvedessero anche a requisizioni per conto proprio. Solo una piccola parte delle raccolte fu messa in salvo, prima dell’attacco svedese, dal conservatore imperiale Miseroni. A parte la ricchissima raccolta di medaglie e monete, che contava da sola 33 000 pezzi, nel mese di novembre, quando la pace di Vestfalia era già stata firmata, furono imbarcati sull’Elba e spediti a Stoccolma 470 quadri e un numero molto maggiore di sculture e

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di oggetti d’arte. Oltre a oggetti provenienti dalle due Indie (le Indie Orientali e l’America), immancabili nei gabinetti d’arte dell’epoca, la spedizione comprendeva 170 statue di marmo, 76 bronzi (tra cui opere del Giambologna e di Adriaen de Vries, i manieristi preferiti dall’imperatore), 197 oggetti di avorio intarsiato di varia epoca, 147 porcellane di Faenza e la raccolta degli strumenti matematico-astrologici costruiti da Keplero e da Tycho Brahe per Rodolfo II. Cristina di Svezia, «bas bleu» fin dagli anni della giovinezza, condivideva infatti la loro passione per le scienze occulte. Tra i preziosissimi manoscritti antichi della biblioteca di Praga, giunti in parte piú tardi alla biblioteca dell’Università di Uppsala, si trovavano il Codex argenteus, un evangeliario scritto in caratteri d’oro e d’argento e artisticamente decorato, realizzato a Ravenna nel sesto secolo probabilmente per il re dei Visigoti Teodorico, una copia di Rabano Mauro redatta nel nono secolo nell’abbazia di Fulda, un erbario tardoantico riccamente miniato, una «Bibbia del diavolo» poema del tredicesimo secolo e altri manoscritti che Cristina donò piú tardi alla biblioteca di Leida e al Vaticano. Poiché, come si è detto, la casa reale dei Vasa non possedeva raccolte d’arte degne delle sue ambizioni e del suo prestigio, i dipinti che la giovane regina fece venire da Praga non solo formavano di per sé un’importante galleria d’arte, ma suscitarono in lei una tale passione per la pittura italiana che alla sua morte (1689) ella lasciò una delle piú grandi e rinomate raccolte dell’epoca. Lasciando da parte i tardi manieristi olandesi e tedeschi, per cui Rodolfo II nutriva una particolare predilezione – come Bartholomäus Spranger, Hans von Aachen, Joseph Heintz e altri – il bottino della spedizione praghese comprendeva fra gli altri i seguenti capolavori della pittura europea: la Danae e la Leda del Correggio (oggi rispettivamente alla Galleria Borghese di Roma, e al Museo di Berlino); l’intera se-

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rie delle dieci scene erotico-mitologiche di Paolo Veronese, oggi distribuite tra la National Gallery di Londra, il Fitzwilliam Museum di Cambridge, il Metropolitan Museum di New York, il Museo Reale di Stoccolma, il Museo di Seattle (collezione Kress) e altre località; le due figure in grandezza naturale di Adamo ed Eva di Albrecht Dürer oggi al Prado; la Sacra famiglia di Hans Holbein il Vecchio, al Museo di Lisbona; lo splendido Ritratto di Tommaso Moro, di Holbein il Giovane, oggi alla collezione Frick di New York; due dei piú famosi quadri satirici di Pieter Brueghel il Vecchio, ossia Greta la pazza del Museo Mayer van den Bergh di Anversa e il Paese di Cuccagna della Pinacoteca di Monaco. Tra i quaranta dipinti della raccolta di Praga attribuiti a Tiziano riconosciamo oggi come autentici Venere e Adone della Galleria Nazionale di Roma, il ritratto di Laura Dianti detto La Schiavona, della collezione Kisters di Kreuzlingen, e una versione della Vanitas, probabilmente quella oggi posseduta dal conte di Normanton. Quando Cristina abdicò nel 1654 per passare al cattolicesimo e lasciò definitivamente la Svezia, portò con sé in esilio i piú preziosi dei suoi dipinti italiani. Il suo interesse per le scuole nordiche era scarso: questi dipinti rimasero perciò dov’erano, per esempio al castello di Skokloster, o furono donati dalla regina ai suoi favoriti come il conte Magnus de la Gardie, il quale ebbe fra l’altro il grande Mercurio di Hans Baldung (Stoccolma, Museo Nazionale) e la Danae di Jan Gossaert (Monaco, Pinacoteca). Le tavole di Adamo ed Eva di Dürer, oggi di valore inestimabile, andarono al re di Spagna, e la Sacra famiglia di Holbein al re del Portogallo. Volendo guadagnarsi il favore del cardinale Mazzarino per i suoi futuri progetti, Cristina si recò anzitutto a Parigi passando per l’Olanda, e fece avere al cardinale, noto collezionista e cancelliere di Luigi XIV, preziosi bronzi (de Vries), medaglie e libri. Tenne con

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sé il solo Ritratto di Tommaso Moro di Holbein il Giovane, ma certamente piú per il suo soggetto che per il suo autore. A Roma, dove la figlia fedifraga di Gustavo Adolfo fu accolta a braccia aperte – il papa per accoglierla fece addirittura rinnovare dal Bernini la Porta del Popolo e le donò il Palazzo Barberini – Cristina di Svezia continuò, nonostante le difficoltà economiche, ad ampliare la sua raccolta in grande stile. Ma poiché queste vicende esulano dal nostro campo d’indagine, ci limitiamo a ricordare che pochi decenni dopo la sua morte la parte piú cospicua e preziosa della sua collezione fu acquistata nel 1721 dal conte d’Orléans, reggente di Francia, e sistemata nel Palais Royal a Parigi, dove avremo ancora occasione di sentirne parlare. Come la grande raccolta del conte d’Orléans, tutte le collezioni principesche formatesi per lo piú nel corso del ’700 – quella del re di Sassonia a Dresda, quelle dei re di Prussia a Berlino e Potsdam e dell’imperatrice Caterina di Russia, le gallerie di Düsseldorf, Kassel e l’Aia e alcune altre – furono il risultato di una serie di acquisti. Nonostante le numerose guerre nessun principe pensava piú ad arricchire le sue raccolte d’arte col bottino di guerra. Questo stato di cose durò immutato fino alla cacciata dei gesuiti e alla confisca dei loro beni, alla successiva chiusura dei conventi olandesi ordinata dall’imperatore Giuseppe II e all’inizio della Rivoluzione francese, con la quale entriamo nel vivo del nostro argomento.

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Capitolo primo La Rivoluzione francese (1792-95). Distruzione e conservazione. Il Louvre come Museo della Nazione

Se nel ’600 e nel ’700, ossia in un’epoca che vide nascere molte raccolte principesche, l’acquisizione di opere d’arte per via militare fu un fenomeno inconsueto, le grandi razzie compiute durante le guerre rivoluzionarie e napoleoniche nei vent’anni compresi tra il 1794 e il 1814 implicano un preciso retroterra ideologico: quella ideologia rivoluzionaria di cui gli eventi del 1792-94 rappresentano per cosí dire la conseguenza automatica. La confisca e la statalizzazione dell’intero patrimonio reale, dei beni del clero e degli emigrati, ossia degli aristocratici e degli esattori generali delle imposte nelle cui mani si trovavano le maggiori raccolte d’arte, aprí la strada alle imprese degli anni successivi. Nel 1793 un decreto della Convenzione liberava le arti e gli artisti dai vincoli dell’Ancien Régime, accademie e corporazioni, e di qui alla «liberazione delle opere d’arte» il passo fu breve. Poiché inoltre i beni artistici erano possesso esclusivo dei ceti privilegiati, la gran massa del popolo non aveva alcuna sensibilità per l’arte, il cui significato le era estraneo, e questo spiega le distruzioni e i saccheggi avvenuti agli inizi della Rivoluzione. Dalla Francia il fenomeno si estese a tutti i territori conquistati, e l’espropriazione dei patrimoni artistici si verificò con una tale regolarità che i movimenti delle armate francesi si potrebbero quasi ricostruire partendo dai tesori d’arte inviati a Parigi.

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Anche altri aspetti dell’ideologia rivoluzionaria contribuirono a mettere in moto quello che fu il piú grande spostamento di opere d’arte della storia. È noto che i rivoluzionari francesi furono profondamente influenzati dal modello dell’antica Roma repubblicana, e che tale influsso si manifestò non solo nel culto di Gracco e di Bruto, ma anche nelle feste rivoluzionarie nella cultura artistica e nella moda del tempo. Ma – ironia della storia – erano stati proprio i romani, dall’antirepubblicano Silla agli imperatori, a depredare sistematicamente la Grecia e l’Asia Minore delle loro opere d’arte, fornendo cosí un modello e una giustificazione ai rivoluzionari e a Napoleone, che certo non aveva mancato di leggere il suo Plutarco. Sarebbe tuttavia un errore far cadere la responsabilità degli espropri soltanto sulla Rivoluzione. Già nell’ottobre del 1790 dunque ancora sotto la monarchia, l’Assemblea Nazionale aveva decretato con un drastico provvedimento la nazionalizzazione dei beni del clero, misura a cui la cacciata dei gesuiti dall’Europa aveva già aperto la strada. La nuova carta moneta degli assegnati era garantita dai latifondi e dalle rendite delle chiese e dei conventi e, successivamente, della corona. Non fu dunque solo l’ideologia antireligiosa, ma anche un cronico bisogno di denaro a provocare queste misure, come risulta con estrema evidenza dal trattamento riservato ai beni del clero. I quadri provenienti dalle chiese e dai conventi chiusi e abbandonati furono messi in deposito, e il principale punto di raccolta a Parigi fu il convento abbandonato dei Petits Augustins sul luogo dell’odierna École des Beaux-Arts. Ma i candelabri d’oro e d’argento, gli ostensori, i reliquiari e gli altari portatili d epoca – oggetti preziosi e ricchi in gran parte di valore artistico – finirono alla Zecca per essere fusi in monete. E dopo la dichiarazione di guerra agli alleati, Austria e Prussia, anche i fonti battesimali in bronzo, risalenti

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perlopiú all’alto Medioevo, vennero fusi coi loro rilievi per soddisfare l’urgente bisogno di cannoni. Perfino il reliquiario della patrona di Parigi santa Geneviève, fu trafugato dall’omonima chiesa (dove sorse poi il Pantheon di Soufflot) e fatto a pezzi per ricavarne l’oro e le pietre preziose. A Parigi come in tutta la Francia era cosí aperta la strada alle requisizioni degli anni successivi, che raggiunsero il culmine nelle distruzioni di massa e nei saccheggi della Rivoluzione propriamente detta. Quella che era stata in un primo tempo una misura ben calcolata si trasformò sotto l’influsso rivoluzionario in una pratica irrazionale dettata dalla passione e dal dogmatismo. Nello stesso anno 1793 in cui la chiesa millenaria di Saint-Denis, con la tomba del santo, fu vittima dei rivoluzionari, la cappella sepolcrale dei duchi di Borgogna fu venduta insieme alla certosa di Champmol presso Digione per essere abbattuta; le mirabili tombe scolpite di Filippo il Temerario e di Giovanni senza paura, il cui aspetto originario ci è noto dagli acquerelli di Jean-Baptiste Lallemand, furono trasferite dapprima a Saint-Bénigne, e piú tardi parzialmente mutilate e disperse. Le intense figure laterali dei «pleurants» furono in buona parte acquistate da amatori d’arte, come il futuro direttore generale Denon, per poi finire, in epoca piú recente, in vari musei. Dalla pura e semplice confisca delle chiese lo zelo rivoluzionario si rivolse quindi contro lo stesso passato feudale. Quando, nel 1792, la Rivoluzione esplose in tutta la sua violenza, il suo atteggiamento verso il passato era preciso: si trattava di cancellare tutte le tracce dell’Ancien Régime, ossia della monarchia, dell’aristocrazia e del potere feudale della Chiesa. Da un punto di vista moderno, puramente estetico, è difficile capire perché l’arte aveva servito il potere, e con esso veniva identificata. Il giorno dopo il saccheggio delle Tuileries – era il 10 agosto del 1792 – il «Moniteur» riferisce che il de-

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putato Sers prese la parola alla Convenzione dicendo: «Il popolo sta per abbattere tutte le statue che si trovano sulle pubbliche piazze. Questa azione, condotta da mani inesperte, può provocare gravissimi danni. Avanzo la proposta che ingegneri e architetti vengano incaricati di guidare l’operazione». Quando un altro deputato obiettò che non si poteva legalizzare l’abbattimento delle statue, gli fu risposto che bisognava dar prova di carattere e non avere scrupoli davanti alla distruzione di monumenti che rappresentavano il dispotismo, il pregiudizio e l’arroganza. Su proposta di Thuriot e Lacroix si decise pertanto di rimuovere, a Parigi e in tutta la Francia, i monumenti dedicati alla Chiesa, alla monarchia e alla nobiltà. Tra i primi a cadere vittima della rabbia popolare furono le statue equestri di Luigi XIV e di Luigi XV di Edme Bouchardon, rispettivamente sulla Place Royale e sull’allora Place Louis XV (poi Place de la Concorde), come anche il monumento equestre di Luigi XV in Place Vendôme, di Girardon, e la statua, sempre di Luigi XV, in Place Victoire. La famosa statua equestre di Enrico IV, opera di Tacca e Francavilla, che sorgeva in posizione eminente sul Pont Neuf, godeva fin dai tempi della Henriade di Voltaire di una larga popolarità come immagine di un monarca illuminato: ciò non impedí al fanatismo rivoluzionario di abbatterla – le quattro figure allegoriche di schiavi agli angoli del basamento ebbero senz’altro la loro parte nella decisione – e di portare il bronzo in fonderia per ricavarne cannoni. Quando il monumento equestre di Bouchardon venne fatto a pezzi sulla Place Royale, Sebastian Mercier, cronista del «Nouveau Paris», si limitò a osservare che la statua «era vuota come il potere». È vero che l’articolo 4 del decreto del 14 agosto raccomandava ai rappresentanti del popolo di provvedere alla tutela delle opere d’arte, ma poiché il decreto non specificava l’antichità e la provenienza

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delle opere da conservare il margine lasciato all’arbitrio era in realtà vastissimo. Che i simboli dell’odiata monarchia esposti nelle pubbliche piazze venissero distrutti malgrado il loro valore artistico è comprensibile; disgraziatamente però anche i re biblici che ornavano i portali delle cattedrali gotiche furono scambiati per precursori della monarchia francese. Accadde cosí che numerose e preziosissime sculture romanico-gotiche cadessero sotto il piccone o il martello degli iconoclasti. Possiamo dire oggi che si trattò della piú grave perdita di opere d’arte mai patita dalla Francia, perdita di cui Notre-Dame e Saint-Germain-des-Prés a Parigi, Saint-Denis, Sémuren-Auxerrois, Sens, Vézelay e numerose altre cattedrali conservano i segni indelebili. Nella Cattedrale di Sens la sola statua che sopravvisse alla distruzione fu quella del patrono della città, santo Stefano. L’Abbazia dei Celestini a Parigi, costruita con grande sfarzo all’epoca di Carlo V e seconda, per numero di monumenti, solo a Saint-Denis, perdette tre figure di re che adornavano il portale e le tombe scolpite di Giovanna di Borbone, sposa di Carlo V, e di suo figlio Luigi d’Orléans. Nella venerabile Chiesa di Saint-Germain-des-Prés, che poco piú tardi sarebbe stata adibita ad arsenale, furono distrutte le tombe dei re merovingi e le sculture del portale principale, mentre il timpano con rilievo romaníco dell’Ultima Cena subí varie mutilazioni. Le statue del re Salomone e della regina di Saba, oggi al Louvre, esempi perfettamente conservati della mirabile scultura del dodicesimo secolo, provenienti dal portale della Cattedrale di Corbeil, si salvarono per un caso fortunato: il pittore Sergeant-Marceau, membro della Commissione per le opere d’arte, era lí di passaggio proprio nel momento in cui un certo Nagel stava portandole via per distruggerle, e le comprò per sei lire.

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A Notre-Dame furono staccate e gettate nel vuoto le 28 statue gotiche dei re biblici sui tre portali principali. Dodici sculture mutile provenienti dal portale meridionale di Santo Stefano, oggi al Museo di Cluny, sono lí a testimoniare il vandalismo di quei giorni. Questo era però soltanto il preludio di quello che sarebbe accaduto piú tardi, quando l’architetto Varin fu incaricato, negli anni 1793-94, di «ripulire» Notre-Dame da tutte le tracce del dispotismo. Oltre agli otto angeli di bronzo in grandezza naturale dei pilastri furono allora rimosse 78 sculture di grandi dimensioni e dodici piú piccole, e di 25 monumenti sepolcrali uno solo rimase intatto. Per commemorare l’anniversario della presa della Bastiglia, la Convenzione stabilí, su proposta di Barère (1° agosto 1793), che tutti i monumenti sepolcrali o comunque legati alla monarchia dell’Abbazia di SaintDenis («ces effrayants souvenirs des ci-devant rois») venissero distrutti. Nel settembre del 1792 i monaci di Saint-Denis avevano celebrato la loro ultima Messa, e poco dopo gli iconoclasti incominciarono a fare a pezzi le statue dei re sui portali dell’abbazia: sei teste conservate nei musei americani (una al Fogg Art Museum di Harvard, due al Duke University Museum, North Carolina, tre alla Walters Art Gallery di Baltimora) ne sono una testimonianza eloquente. Il tesoro dell’Abbazia di Saint-Denis fu portato alla Convenzione l’11 novembre 1793 su diciassette carri pieni. La distruzione delle statue sepolcrali rappresentò una perdita gravissima che possiamo oggi valutare solo parzialmente, per esempio dalle tre piccole statue marmoree provenienti dalla tomba di Filippo IV, conservate al Metropolitan Museum di Liegi, al Victoria and Albert Museum di Londra, e dai frammenti superstiti messi in salvo da Alexandre Lenoir nel suo deposito al Museo dei Petits Augustins. Ma molte altre statue di bronzo, come i monumenti sepolcrali di Carlo IV, di Luigi XII o di

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Francesco I, andarono irrimediabilmente perdute. L’altar maggiore di Saint-Denis fu spogliato dei suoi antichi ornamenti e trasformato, con quanto rimaneva delle statue dei re, in un monumento per i martiri della Rivoluzione. Lasciamo ora le chiese per dare uno sguardo agli espropri che presero l’avvio con la nazionalizzazione del patrimonio reale e che diedero un contributo decisivo alla nascita delle future collezioni d’arte. Nonostante i molti quadri di soggetto religioso dati alle fiamme durante le prime esplosioni di violenza anticlericale, la maggior parte dei dipinti, a differenza delle sculture, furono trasportati in depositi e quindi al Louvre o in altri musei francesi. Dopo i segnali minacciosi del ’91 gli aristocratici incominciarono a lasciare la Francia in misura crescente, guidati dal principe ereditario il duca di Provenza e dall’odiato conte di Anjou: erano i cosiddetti «émigrés». Molti dei loro castelli in provincia e attorno a Parigi vennero saccheggiati prima ancora della destituzione del re, ma solo il 2 settembre 1793 la Convenzione decise l’esproprio in massa dei beni degli emigrati. La legge fu integrata poco dopo da un decreto che si riferiva alla conservazione dei monumenti di interesse scientifico e artistico e sul quale torneremo piú avanti. Poiché gli aristocratici emigrati avevano numerosi creditori che reclamavano i propri diritti, i loro beni mobili e di valore furono raccolti in uno speciale deposito all’Hôtel de Nesle. È difficile farsi un’idea dei tesori d’arte confiscati nei castelli, nelle palazzine di caccia, nei palazzi cittadini, nelle chiese e nei conventi, tesori che comprendevano non solo quadri e sculture ma anche oggetti preziosi di ogni tipo, manoscritti miniati e soprattutto mobili di lusso, allora splendidi e assai ricercati. Poiché i nuovi gusti dell’epoca e l’astio repubblicano contro ogni traccia di aristocrazia portavano a disprezzare l’arte del diciottesimo secolo, che era anche la piú rap-

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presentata, innumerevoli capolavori andarono distrutti. Le sculture, gli arazzi, i mobili preziosi, i candelabri e i terminali di bronzo provenienti dai castelli requisiti alla nobiltà e alla famiglia reale vennero portati a Parigi insieme ad altri oggetti di minor valore e messi all’asta. Molti quadri e gobelins del Settecento francese, capolavori di Watteau e della sua scuola, di Pater, Lancret, Boucher, Nattier, Jean-François de Troy, Fragonard e altri, di cui vanno orgogliosi i maggiori musei odierni, vennero staccati dalle pannellature in cui erano inseriti. Per un anno intero, dall’agosto 1793 al 1794, i mobili d’arte piú preziosi, confezionati da mobilieri di fama internazionale come Boulle, Crescent, Oeben, Riesener, Lacroix, Carlin e cosí via, e provenienti dai palazzi di Versailles e di Chantilly, Marly, Fontainebleau, Louveciennes e Meudon, come anche dal Garde Meuble Royal, vennero offerti al pubblico in aste permanenti sulla Place de la Concorde per riempire le vuote casse della Repubblica. Allo scopo di attrarre compratori stranieri e soddisfare cosí il pressante bisogno di valuta, queste vendite all’incanto furono pubblicizzate perfino sui giornali olandesi, inglesi e italiani, puntando sul favorevole corso dei cambi e sull’eccezionalità dell’occasione. Fu appunto in questa circostanza che il principe di Galles, il futuro Giorgio IV, spedí a Parigi il suo maggiordomo francese, e i mobili acquistati allora adornano ancora oggi i castelli di Windsor e di Buckingham Palace. L’ambasciatore inglese Sir William Hamilton e William Beckford di Fonthill Abbey, due tra i piú importanti collezionisti dell’epoca, non si lasciarono sfuggire l’occasione e acquistarono, insieme ad altri rappresentanti dell’aristocrazia inglese e russa, numerose opere dell’arte francese di corte, soprattutto Boucher e il «bureau» del re Stanislao di Oeben-Riesener, uno dei piú straordinari mobili artistici del ’700, oggi alla

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Wallace Collection di Londra. Insieme ai principi polacchi Lubomirski e Czartoritzki, fu soprattutto il ministro degli Esteri dello Zar, il principe Alessandro Bezborodko, a riempire di quadri francesi i saloni del suo palazzo di San Pietroburgo: ce ne informa nel suo diario la famosa pittrice Madame Vigée-Lebrun, che li poté osservare durante il suo esilio pietroburghese. Minor fortuna ebbero purtroppo le tappezzerie, e molte tra le migliori manifatture Gobelin di Parigi e di Beauvais furono distrutte o bruciate per ricavarne i fili d’oro e d’argento. Un paio di esempi caratteristici basteranno a mostrare come fosse soprattutto l’arte piú antica a fare le spese della situazione. Il mercante d’arte Birmann di Basilea, uno dei numerosi mercanti attivi sulla piazza parigina, acquistò non solo le due tavole provenienti dall’altare della Chiesa di Loches, realizzato da Etienne Chevalier, tesoriere di Carlo VII (ai musei di Berlino e di Anversa), dipinte dal piú grande maestro del quindicesimo secolo, Jean Fouquet, ma anche il suo splendido Libro d’ore miniato, oggi al Museo di Chantilly. Dopo che il Convento e la Chiesa di Saint-Germain-des-Près a Parigi furono espropriati e trasformati in un deposito di salnitro, scoppiò un incendio che distrusse la biblioteca e il gabinetto di antichità fondato da Montfaucon. Dei manoscritti salvati dall’incendio, alcuni tra i piú preziosi furono acquistati dal funzionario della legazione russa Pierre Dubrowski: la grande Cronaca di Saint-Denis, decorata con le miniature del «maître illumineur» Simon Marmion, l’Histoire de Troy con le miniature di Jean Colombe e le copie delle lettere di san Gerolamo preparate per la reggente Anna di Bretagna, con le ricchissime miniature del pittore di corte Jean Bourdichon (oggi tutte alla Biblioteca Nazionale di Leningrado). Dal tesoro della Cattedrale di Autun altri due ammirati capolavori finirono per fortuna nelle collezioni nazionali, e cioè la Madonna Rolin

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di Jan van Eyck e il mistico Sposalizio di santa Caterina di fra Bartolomeo della Porta, donazioni del cancelliere borgognone Jean Carondolet (entrambi al Louvre). Com’era da aspettarsi, le distruzioni e i saccheggi di opere d’arte dettati dal fanatismo provocarono l’intervento degli intellettuali piú ragionevoli, e dopo la caduta di Robespierre le voci di protesta si fecero ancora piú forti e pressanti. Ancora nel novembre del ’93 erano stati distrutti 434 dipinti nel deposito del Museo Centrale, e solo il coraggioso intervento del conservatore Lenoir permise di salvarne altri dalla distruzione. Ma nell’aprile del ’94, al culmine del Terrore, alcuni incaricati del Comitato di Salute Pubblica vennero a incendiare tutti i dipinti che per il loro contenuto ricordassero in qualche modo l’epoca feudale. Nell’agosto dello stesso anno tuttavia il deputato abate Henri Grégoire osò discutere pubblicamente all’Assemblea Nazionale i suoi tre «Rapporti sulle distruzioni operate dal vandalismo e sui mezzi per impedirle». Nella politica dello Stato francese verso i beni artistici ebbe cosí inizio una nuova fase. Grégoire dichiarò che l’apprezzamento per l’arte era tutt’uno con le virtú repubblicane, sostenendo (con qualche licenza retorica) che «les Barbares et les esclaves détestent les monuments des arts, les hommes libres les aiment et conservent». Si diffuse l’idea che era assurdo distruggere opere d’arte appartenenti al patrimonio nazionale, ossia, in altre parole, che la nazionalizzazione delle opere d’arte richiedeva altresí la loro conservazione per il bene della comunità. La Convenzione emanò un’ordinanza rivolta alle amministrazioni regionali in cui si diceva: «Voi siete soltanto i depositari di beni di cui la grande famiglia del popolo potrà chiedervi conto». Già l’anno prima l’Assemblea popolare aveva espresso il desiderio che le opere di interesse artistico o storico venissero conservate e che ne fosse anzitutto preparato un inventario: «Lorsque les inventaires de

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toutes les collections seront terminés, des agents responsables en seront nommés et toute dilapidation en deviendra dès ce moment impossible». La cosa era piú facile a dirsi che a farsi, anche perché non vi erano abbastanza esperti in grado di vagliare l’enorme quantità di oggetti confiscati: manoscritti, libri, sculture, quadri, strumenti scientifici, documenti storici, raccolte mineralogiche e zoologiche, monete, lavori di oreficeria e altri tesori, e lo zelo patriottico non poteva sostituire l’esperienza. Inoltre, come si è detto, i comitati rivoluzionari di provincia godettero a lungo di una relativa autonomia, e coloro che dovevano provvedere al trasporto delle opere d’arte a Parigi anteposero non di rado il proprio vantaggio personale al bene comune. Solo col Direttorio si giunse a un controllo piú severo e sistematico delle opere d’arte, e la nuova Commissione per i monumenti ebbe la possibilità di inviare a questo scopo una «colonna volante» in giro per la Francia. Della commissione facevano parte il pittore Doyen, l’esperto d’arte abate Le Blond e il loro protetto, l’architetto Alexandre Lenoir, ai quali si deve l’apertura del deposito nel Convento dei Petits Augustins. In particolare Lenoir, il «guardiano» o conservatore del Deposito, aveva fatto miracoli, negli anni caldi della Rivoluzione, per salvare opere di ogni epoca e soprattutto le sculture medievali. Correndo non pochi rischi aveva provveduto a trasportare nel suo deposito le tombe reali di Saint-Denis, come anche la Ninfa dormiente di Benvenuto Cellini, rilievo in bronzo proveniente dal castello di Anet di Diana di Poitiers, la famosa Diana con cervo di Jean Goujon, gruppo marmoreo proveniente da Fontainebleau (Parigi, Louvre), oltre a innumerevoli altre opere senza le quali la storia dell’arte francese sarebbe assai piú povera. È in effetti difficile sopravvalutare l’importanza dell’opera svolta da Lenoir per la conservazione e la comprensione di questo patrimonio, tanto piú se la confrontiamo col miope giudizio dei con-

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temporanei. Albert Louis Mille, direttore della Bibliothèque Nationale e autore di un’opera sulle Antiquités nationales aveva definito «indecenti e ridicole» le figure delle cattedrali medievali. Un ruolo simile a quello di Lenoir fu quello svolto in Champagne dall’abate Bergeat, il quale si adoperò affinché le opere d’arte delle chiese di Saint-Rémy, Saint-Nicaise e Saint-Pierre-des-Dames venissero raccolte nel nuovo Museo di Reims, fondato nel 1793. Dall’Hôtel Dieu fu messo allora in salvo un importante ciclo di raffigurazioni dedicate alla vita e alla morte di Pilato, realizzate tra il 1450 e il 1490 per la «Confrérie de la Passion» che intendeva utilizzarle nelle sue sacre rappresentazioni. In Piccardia, un pronipote di Antoine Watteau, Louis Watteau de Lille, che era presidente della Commissione per le opere d’arte di Lilla, confiscò 380 dipinti provenienti dai castelli, dalle chiese e dai conventi della zona per consegnarli intatti alla commissione centrale. Un’altra commissione per la tutela delle opere d’arte fu istituita nell’anno II (1794) su idea di Jean-Louis David; oltre a David, che ne era presidente, ne facevano parte i pittori Fràgonard, Wicar, Lesueur e Bonvoisin, un certo architetto Varin e il miglior restauratore del tempo, Picault. La Commissione per i monumenti e la Commissione per le opere d’arte diedero vita, nell’ambito del Ministero dell’educazione, al primo programma politico per la difesa dei beni culturali del nuovo governo francese, sebbene in un primo tempo gli interessi delle due commissioni fossero contrastanti. Il pomo della discordia era la creazione di un unico grande museo nazionale. La nazionalizzazione delle collezioni reali e l’accumularsi di opere d’arte provenienti dalle chiese e dalle raccolte dell’aristocrazia rendeva sempre piú urgente l’istituzione, a Parigi, di un museo centrale aperto al pubblico. Già l’ultimo intendente del re, il conte

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d’Angeviller, aveva progettato una pinacoteca che raccogliesse il patrimonio reale, e quando i beni ecclesiastici furono confiscati e ammassati nel deposito dei Petits Augustins, Lenoir concepí l’ambizioso proposito di trasformarlo in un «Musée des monuments français»: a tale scopo Lenoir compilò il primo catalogo delle opere messe in salvo, e in particolare delle sculture piú antiche. Il museo divenne realtà nel 1795, ma nello stesso anno anche la raccolta di quadri del Louvre fu trasformata in museo nazionale. Dopo il trasferimento della corte a Versailles sotto Luigi XIV il palazzo del Louvre aveva perso via via la sua importanza ed era stato usato per gli scopi piú disparati, che nulla avevano a che fare con la sua destinazione originaria. Vi era installata la stamperia reale, nell’ala sotto la Grande Galleria si trovavano alloggi per gli invalidi di guerra e per gli artisti favoriti dal re, e con le botteghe che riempivano i suoi cortili il Louvre assomigliava piú a un grande magazzino che a un palazzo. Quando la monarchia fu abbattuta e il ministro degli Interni Roland ritornò in carica, ordinò lo sgombero del Louvre e la sua trasformazione in un museo nazionale aperto al pubblico, nominando a tale scopo un’apposita commissione. Nel 1792 la commissione scelse i quadri che dovevano far parte della raccolta: dallo scrupoloso inventario pubblicato per l’occasione da Furcy-Raymond, in cui sono registrate le opere trasferite al Louvre dall’Hôtel de Nesle, si può vedere in che misura le opere confiscate abbiano arricchito le collezioni del museo. Cosí, ad esempio, veniamo a sapere che I viandanti di Emmaus e l’Evangelista Matteo di Rembrandt, come pure il Cristo nel sepolcro di Jacopo Tintoretto provenivano dalla raccolta del conte d’Angeviller, l’ultimo intendente reale. Altri preziosi quadri di Rembrandt e numerosi quadri di genere del ’600 olandese, allora di moda, venivano dall’importante raccolta della marchesa di Noailles-de-

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Cossé-Brissac, morta sotto la ghigliottina: tra questi Venere e Amore in grandezza naturale e il Ritratto di una coppia di Rembrandt, un grande Pastore e pastorella di Albert Cuyp, un doppio ritratto di Frans Hals, una Pastorella, opera di Govert Flinck e altri. Vari altri dipinti di scuola olandese si aggiunsero dalle collezioni del duca di Brissac (Rembrandt, Terborch, Metsu, Potter, Dou, Ostade), del barone di Breteuil e dell’esattore generale delle imposte Jean-Baptiste de Boulogne. Il castello di Vignerot presso Agen, di proprietà del conte di Richelieu, discendente del famoso cardinale e collezionista, fu saccheggiato nel 1792 e una parte dei suoi dipinti fu data alle fiamme, mentre la preziosa serie dei Vizi e Virtú di Mantegna, Costa e Perugino, proveniente dallo Studiolo della contessa Isabella d’Este fu messa in salvo e trasportata piú tardi al Louvre. Il castello di Anet, di proprietà del duca di Penthièvre fuggito in esilio, contribuí con una preziosa scelta di capolavori italiani del sedicesimo e diciassettesimo secolo (Paolo Veronese, Jacopo Tintoretto, Agostino Carracci, Michelangelo da Caravaggio, Barbieri-Guercino, Pietro da Cortona, Guido Reni e altri). Naturalmente anche la scuola francese si arricchí di opere notevoli; dalla raccolta de Brissac giunsero i due quadri di Claude Lorrain Il mattino e Il mezzogiorno, dalle proprietà della marchesa di Vintimille il Diluvio universale e il Ringraziamento di Noè di Nicolas Poussin, e da quelle del duca di La Vrilliére il Camillo e le Ninfe danzanti, sempre di Poussin. Insieme ad altri dipinti, come la squisita Famiglia di contadini di Louis le Nain (Louvre) o i due ritratti della famiglia Condé eseguiti da Nattier, Madame d’Orléans come naiade e Madame Vintimille con ninfe al bagno (entrambi al castello di Chantilly), vennero ad arricchire le raccolte nazionali anche numerose sculture francesi di Pigalle, Bouchardon, Houdon e i mobili sontuosamente decorati di Boulle.

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Nel primo catalogo a stampa del Museo del Louvre, uscito nel 1793, Jean-Baptiste le Brun, in qualità di responsabile della commissione per il museo, registrava 537 quadri, dei quali circa tre quarti dalle raccolte reali e il resto da fondi ecclesiastici e altre proprietà. Ma la maggior parte dei dipinti provenienti dalle raccolte degli emigrati, come pure dall’Accademia, a quel tempo soppressa, dovevano ancora aggiungersi al bottino. All’inizio i principali spazi espositivi furono la cosiddetta Galérie d’Apollon e le sale attigue, ma il luogo ideale per esporvi una grande raccolta di quadri in serie continua era naturalmente il corridoio, lungo diverse centinaia di metri, che collegava il Pavillon de Marsan con l’edificio del Louvre vero e proprio, corridoio noto come Grande Galleria. Il suo unico difetto risultò essere la scarsa illuminazione: lo stesso David fece notare che le finestre laterali, molto distanziate, fornivano una luce insufficiente. Come si presentasse allora la galleria ci è noto da un quadro di Hubert Robert, che ne fu anche il primo curatore. Lo stesso Robert ci ha lasciato, in un bozzetto a olio del 1796, il primo progetto in cui la galleria veniva illuminata dall’alto e suddivisa da archi. Come vedremo, questo progetto verrà realizzato piú tardi senza sostanziali modifiche. Il fatto piú importante è però un altro: il Louvre diventava, da allora, il museo della Nazione. Appena un anno piú tardi altri capolavori dovevano aggiungersi in seguito alla conquista dei Paesi Bassi da parte delle armate rivoluzionarie, proseguendo cosí in terra straniera un processo iniziato in Francia durante gli anni della Rivoluzione.

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Capitolo secondo Il contributo dei Paesi Bassi (1794-95)

Il 20 settembre 1794 il deputato e noto chimico Guyton-Morveau prese la parola all’Assemblea Nazionale di Parigi per annunciare la prima spedizione di quadri dai Paesi Bassi appena conquistati. Subito dopo fece entrare nella sala il pittore e sottotenente dell’armata rivoluzionaria del Nord Jean-Luc Barbier, che aveva personalmente provveduto alla raccolta e alla spedizione delle opere, e a cui fu concesso, per l’occasione, il privilegio di parlare all’Assemblea. Per dare un’idea dello stile retorico e dello spirito che animava queste campagne parallele condotte in nome dell’arte vale la pena di citare una parte del discorso: «Rappresentanti del Popolo! I frutti del genio rappresentano l’eredità della libertà, e questa eredità sarà sempre rispettata dall’esercito del popolo. L’armata del Nord si è fatta strada col ferro e col fuoco tra i tiranni e i loro alleati, ma ha custodito con cura le numerose opere d’arte abbandonate dai despoti nella fretta della fuga. Per troppo tempo questi capolavori sono stati insudiciati dalla vista della schiavitú: nel cuore dei popoli liberi ora troveranno pace. Le lacrime degli schiavi sono indegne della loro grandezza, e gli onori resi ai sovrani non fanno che disturbare il loro sonno di morte. Ma adesso queste opere immortali non sono piú in terra straniera; oggi esse sono giunte nella patria delle arti e del genio, della libertà e dell’uguaglianza, nella Repubblica francese. Io stesso ho raccolto e accompagnato

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questi quadri preziosi, e altri ne seguiranno. Vi prego, rappresentanti dei cittadini, di provvedere alla loro sistemazione, affinché io possa ritenere la mia missione compiuta e tornare a combattere il dispotismo. Lunga vita alla Repubblica». Un mese dopo, il prode sottotenente degli ussari Barbier era di nuovo ad Anversa, con l’incarico di requisire tutto ciò che gli sembrasse meritevole, come già aveva fatto dopo la seconda conquista del paese da parte dell’armata rivoluzionaria, avvenuta tra luglio e agosto. La guerra contro gli eserciti della coalizione (Austria, Prussia, Inghilterra) aveva preso in effetti un andamento sfavorevole per la giovane repubblica, e alle vittorie di Valmy (20 settembre) e di Jemappes (6 novembre 1792) avevano fatto seguito le dure sconfitte della primavera successiva. La sconfitta decisiva di Neerwinden e il tradimento del comandante in capo generale Dumouriez portarono al potere il partito giacobino, inaugurando cosí la fase del «Terrore». Soltanto dopo la vittoria del generale Jourdan sugli Alleati presso Fleurus (26 giugno 1794) e dopo il colpo di Stato del Termidoro (27 luglio 1794), che pose fine alla dittatura rivoluzionaria di Robespierre, l’Assemblea Nazionale riottenne i propri poteri, per essere quindi sostituita dal Direttorio. Può sembrare strano che in tempi cosí calamitosi un governo rivoluzionario sull’orlo dell’abisso coltivi ancora l’ambizione di conquistare opere d’arte per la sua capitale, ma la cosa fa parte delle contraddizioni e incongruenze proprie di questo periodo anomalo. Né potremo meravigliarci abbastanza dell’entusiasmo e dell’abilità con cui gli agenti francesi delle commissioni per le opere d’arte svolsero il loro compito, spesso in condizioni proibitive. D’altronde, solo una parte di essi erano artisti o esperti d’arte: altri erano scienziati, architetti e via discorrendo, e furono assistiti nella loro missione da «specialisti» come il pittore Jean-Baptiste

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Wicar e il mercante d’arte Lebrun, membri parigini della «Commission temporaire des Arts». I commissari potevano naturalmente disporre di guide e manuali, come la Galerie des peintres flamands di Lebrun (1792), il Voyage pittoresque de la Flandre et du Brabant di JeanBaptiste Decamps (ultima edizione 1792, ma uscito nel 1769), Le peintre amateur et curieux di Louis Mensaerts, uscito a Bruxelles nel 1763 e cosí via, che facilitarono il reperimento delle opere da requisire. Le requisizioni furono inoltre agevolate dal fatto che nei territori conquistati dei Paesi Bassi gli eventi avevano preso, sotto il dominio austriaco, un corso molto simile a quello francese. Le idee rivoluzionarie si erano diffuse rapidamente qui come in altre parti d’Europa, e le riforme introdotte dall’imperatore Giuseppe II dopo il colpo di Stato del 1787 avevano irritato vari strati della popolazione. Sopprimendo privilegi e libertà costituzionali antiche di secoli allo scopo di realizzare un sistema centralizzato e subordinato all’autorità imperiale, l’imperatore si inimicò i sentimenti della Nazione. La notizia della presa della Bastiglia infiammò l’opposizione, e quando, nell’ottobre del 1789, gli austriaci furono sconfitti presso Turnhout dai volontari brabantini, tutto il paese si sollevò. Solo la morte dell’imperatore nel febbraio 1790 serví a placare le acque, finché nel mese di dicembre l’esercito austriaco riconquistò Bruxelles senza incontrare grande resistenza. Sebbene le riforme non fossero state realizzate il dominio austriaco rimase estremamente impopolare, e all’arrivo del primo esercito rivoluzionario francese nel 1792 le scene viste a Parigi si ripeterono, comprese le distruzioni di monumenti, anche nelle città fiamminghe. Le statue principesche sulla facciata del Municipio di Bruges, opera di Claus Sluter o di Jean de Valenciennes, furono divelte, mentre nella Cattedrale di Anversa fu distrutta la tomba di Isabella di Borbone, spo-

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sa di Carlo il Savio. I tesori delle confraternite di Malines, Lovanio e altre località furono sequestrati e spediti a Lilla, l’ultimo baluardo della resistenza contro le forze alleate. Naturalmente i monaci in fuga cercarono di mettere in salvo tutto il possibile: il tesoro della Chiesa di San Pietro a Lüttich, ad esempio, fu scoperto piú tardi dal commissario Vaillant nel Convento di Maastricht in Olanda. I monaci di Stavelot, riparando in Germania, portarono con sé un famoso scrigno d’argento che fu poi fatto fondere per provvedere al sostentamento della comunità. Durante la prima occupazione del 1792 i francesi si interessarono soprattutto agli oggetti preziosi d’oro e d’argento, come i calici liturgici, le croci, i reliquiari, i candelabri, e una parte del bottino, come il tesoro della Chiesa di Santa Gudula a Bruxelles, fu messa in salvo nella precipitosa ritirata di Lilla. Quando poi i francesi incominciarono a secolarizzare e a confiscare i patrimoni delle chiese e dei conventi la reazione popolare fu modesta poiché quelle misure erano già state anticipate dai tentativi di riforma di Giuseppe II. A partire dal 1783 (anzi dal 1773, anno della cacciata dei gesuiti) Giuseppe II aveva decretato la soppressione di 163 comunità e confraternite religiose «inutili», col risultato che i loro beni andarono dispersi e le opere d’arte furono ammassate nei municipi, mentre le piú preziose tra queste furono acquistate dal governo di Bruxelles a titolo di contributo fiscale oppure vendute a privati e a mercanti d’arte. Fu in questa occasione che Vienna entrò in possesso di alcuni capolavori, come il gigantesco altare di Sant’Idelfonso di Rubens, proveniente dal Coudemberg di Bruxelles, o la Madonna del Rosario di Michelangelo da Caravaggio, dalla Chiesa di San Paolo ad Anversa. Come apprendiamo dal Piot, a partire dagli anni 178588 innumerevoli capolavori della pittura fiamminga furono messi all’asta a Bruxelles: un collezionista avve-

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duto poteva acquistare una preziosa tavola d’altare del quindicesimo o del sedicesimo secolo per una cifra irrisoria. La Madonna con santi di Gérard David (1509), proveniente dal Convento delle Carmelitane Scalze, fu venduta come un «Memling» per il prezzo ridicolo di 15 fiorini. Prima del ritorno dei francesi nel 1794 il governo austriaco si affrettò a spedire le opere piú preziose ancora invendute a Vienna, da cui non fecero piú ritorno, malgrado le successive richieste di restituzione. La maggior parte delle grandi raccolte conservate nei palazzi e nei castelli della nobiltà erano scomparse da tempo, con poche eccezioni come quella del duca di Arenberg. Ma nelle grandi chiese e nei municipi si erano accumulati nei secoli tesori d’arte che nemmeno il governo imperiale aveva toccato. Col disprezzo per le istituzioni religiose insegnato dalla Rivoluzione i conquistatori francesi non ebbero alcuno scrupolo a impadronirsene. Rubens, Van Dyck, Jacob Jordaens, Cornelis de Vos, Gaspard de Crayer, insomma l’intera cerchia di Rubens, apriva l’elenco delle opere piú ambite, secondo una gerarchia di valori immutata fin dall’età barocca. Tra i commissari che accompagnavano l’armata del Nord – nominati da rappresentanti del popolo, come Gouyton-Morveau e Charles Delacroix, o dalla «Commission temporaire des Arts» – vi erano, oltre al già citato Luc Barbier, l’architetto de Wailly, costruttore del teatro dell’Odeon, l’archeologo, geologo e professore al Musée d’Histoire Naturelle Faujas de SaintFont, l’antiquario Le Blond, il botanico Thouin e il pittore Tinet, che avremo ancora occasione di incontrare piú volte. Il primo agosto 1794, Barbier e Léger, un ufficiale dell’aiutante di campo, accompagnati da diversi soldati e operai, si recarono alla Chiesa di Sankt Walburg ad Anversa e staccarono dall’altar maggiore il trittico della Crocifissione: al parroco fu rilasciata in cambio una rego-

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lare ricevuta. Si trattava del primo dei grandi altari affidati a Rubens subito dopo il suo ritorno dall’Italia, negli anni 1610-12. L’opera, per la quale il pittore ricevette un compenso di ben duemila fiorini, è una prepotente dimostrazione del nuovo genio di Rubens, e segna, col dinamismo delle figure e l’audacia delle soluzioni luministiche, l’arrivo del barocco nei paesi nordici. Barbier si era informato bene: tre giorni piú tardi si presentò col suo seguito nel Duomo di Notre-Dame prima della messa di mezzogiorno e chiese che gli venissero consegnate le chiavi. Per tre giorni le porte del duomo rimasero chiuse, e con l’aiuto di corde, scale, ponti mobili, gli uomini di Barbier si impossessarono dei quadri esposti nelle cappelle, nel coro e sugli altari. Dall’altar maggiore di Colyn de Nole staccarono la Resurrezione di Cristo dipinta da Rubens nel 1618 per Jan Moretus. Dall’ala destra presero l’opera piú celebre, oggi esposta sull’altar maggiore: il trittico della Deposizione dalla Croce, dipinto piú o meno negli stessi anni della Crocifissione per la gilda degli archibugieri di Anversa. Seguivano altre opere dello stesso Rubens: il trittico della Vergine della famiglia Goubau (Tours, museo), il trittico della Deposizione eseguito in memoria di Jan Michielsen, morto nel 1617 (Anversa, museo), l’altare di San Giovanni sulla tomba della famiglia Moretus col ritratto del famoso stampatore ed editore Jan Moretus, per il quale Rubens aveva lavorato piú volte (Anversa, Notre-Dame). Come la maggior parte dei contemporanei, Barbier non aveva alcun interesse per l’antica pittura fiamminga, perché in caso contrario non avrebbe rinunciato al capolavoro assoluto del rinascimento di Anversa, cioè all’altare dipinto da Quentin Massys per la gilda dei falegnami, per il quale il re Filippo II di Spagna aveva offerto invano una forte somma nel 1577. Il quadro finí alla città di Anversa e nel 1798 il pittore Herrevns lo mise in salvo da ulteriori requisizioni nella scuola

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dei due Nethes. In compenso, Barbier portò via la parte centrale dell’altare di San Michele raffigurante La caduta degli angeli, dipinto nel 1554 dal piú famoso dei pittori italianeggianti, Frans Floris, per la gilda degli schermitori (Anversa, museo) e un altare della Resurrezione di Cristo di Cornelis de Vos (Lilla e Nantes), posto sulla tomba della famiglia Van der Aa. Nell’edificio dell’Accademia di Belle Arti, che ospitava l’eredità dell’antica gilda di San Luca, Barbier trovò un autoritratto attribuito a Quentin Massys (andato disperso), il forte ritratto del vecchio maestro della corporazione Cornelius Graphäus, dipinto da Cornelis de Vos (Anversa, museo), e soprattutto la splendida Sacra famiglia donata da Rubens alla gilda intorno al 1614-15. Alla Zecca e al Municipio era conservata una parte dei bozzetti a olio e delle grandi tele che il maestro aveva progettato per l’ingresso trionfale del cardinaleinfante Ferdinando, e realizzato con la sua bottega. Almeno tre di queste furono destinate a Parigi. La grande chiesa dell’abbazia medievale di San Michele, che rivaleggiava per ricchezza e importanza con la cattedrale e il cui campanile era un simbolo della città, custodiva il quadro votivo donato da Rubens per la tomba della madre e della prima moglie Isabella Brant: esso raffigurava la glorificazione di santa Domitilla e san Gregorio insieme alla Vergine Maria e numerosi altri santi (Grenoble, museo) ed era stato commissionato al maestro per la Chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma. Durante il suo soggiorno romano del 1607 Rubens dovette però sostituirlo con una seconda versione in marmo, mentre la tela, di cui era orgoglioso come di tutte le sue opere italiane, fu riportata ad Anversa. Oltre a questa opera giovanile di Rubens, la chiesa ospitava sull’altar maggiore una delle piú grandiose composizioni della sua maturità, l’Adorazione dei Magi terminata nel 1624 (Anversa, museo), per la quale l’abate Yrsselius aveva pagato 1500 fiorini

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fiamminghi. Insieme a un altare di Cornelis de Vos, donato dalla famiglia Snoeck nel 1630 (Anversa, museo) e a un ritratto del fratello di Rubens, Filippo (Detroit, museo), entrambe le opere si aggiunsero al carico destinato a Parigi. Un’altra chiesa di Anversa ricca di opere d’arte era quella dei Recolletti francescani, dalla quale Barbier sequestrò quattro importanti opere di Rubens e due di Van Dyck: tra le prime, la notevole pala d’altare dipinta da Rubens negli anni 1613-14 in memoria del suo protettore, il borgomastro Nicolas Rockox, e che era esposta sulla tomba di quest’ultimo. Nel riquadro centrale raffigurava Tommaso, l’apostolo incredulo, e in quelli laterali la famiglia donatrice. Sempre per Rockox il maestro aveva creato nel 1620 il quadro destinato all’altar maggiore della chiesa, raffigurante la Crocifissione di Cristo, e noto (a partire dal ’700) come Il colpo di lancia (entrambe le opere sono al Museo di Anversa). Quanto a Van Dyck, si trattava del Ritratto dell’abate Scaglia, appeso sopra la sua tomba, e del Compianto di Cristo con due angeli lasciato dallo stesso abate Scaglia al convento in cui morí. Alle Domenicane di Anversa Van Dyck aveva fatto dono di una grande Crocifissione coi santi Domenico e Caterina, in memoria del padre, che le monache avevano assistito durante la sua ultima malattia. Quando, nel 1785, il convento fu soppresso, anche questo quadro fu venduto, per essere poi riacquistato ed esposto nella Chiesa dei Domenicani di San Paolo. Fu appunto qui che il quadro cadde nelle mani dei commissari francesi (oggi è al Museo di Anversa), come pure la grande tela di Rubens Madonna con santi come portavoce dell’umanità, dal soggetto vicino allo spirito della Controriforma, e un ciclo di dipinti dedicati ai Quindici misteri del Rosario e del Nome di Gesú, che decoravano le pareti della sacrestia. Il ciclo era stato commissionato a Rubens e ai suoi collaboratori nel 1617 da Louis Cla-

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risse, e Barbier ne scelse cinque esemplari: la Natività di Cristo di Cornelis de Vos, la Flagellazione di Cristo di Rubens, la Salita al Calvario di Van Dyck e il Compianto di Cristo di Gaspard de Crayer . Allo stesso modo, dopo la consacrazione della chiesa abbaziale degli agostiniani nel 1618 Rubens era stato incaricato con la sua bottega di decorare i tre altari principali: Barbier se li portò via tutti e tre. Si trattava della tela di Rubens Madonna e santi in adorazione, alta ben cinque metri, della Visione di sant’Agostino di Van Dyck (entrambi nella chiesa degli agostiniani) e del Martirio di santa Apollonia di Jacob Jordaens . Anche in questo caso, come in altri, colpisce l’atteggiamento contraddittorio dei rivoluzionari repubblicani: mentre a Parigi l’ondata anticlericale continuava a imperversare spingendo alla distruzione delle opere d’arte, nelle Fiandre i dipinti di soggetto religioso furono accolti «en masse» con l’approvazione delle autorità parigine per essere trasportati nella capitale. L’assidua frequentazione delle opere di Rubens e della sua scuola permise a Barbier e ai commissari «olandesi» di affinare le proprie capacità critiche, che l’intenso lavoro «di bottega» e i numerosi imitatori di epoca piú tarda rendevano particolarmente necessarie. È proprio questo acume critico a spiegare, almeno in parte, il numero sorprendente di capolavori che la commissione riuscí a mettere insieme, e che formano tuttora la base delle nostre conoscenze sulla pittura tardofiamminga. C’era però un’altra circostanza che favorí le scelte dei commissari, anche se privi delle nostre attuali cognizioni storico-artistiche: essi ebbero la fortuna di trovare la maggior parte di queste opere nel luogo al quale erano state destinate, e la tradizione non si era, perlopiú, ancora interrotta. Nel Convento delle Beghine di Anversa, ad esempio, avevano passato i loro giorni le tre sorelle di Van Dyck, e quando l’artista, prima del suo ultimo viaggio

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in Inghilterra, fece testamento, stabilí di essere sepolto in quella chiesa, e donò alla chiesa, in memoria delle sorelle e di se stesso, la Deposizione dalla Croce, oggi al Museo di Anversa. Naturalmente Barbier non si lasciò sfuggire la Cappella Rubens nella chiesa patrizia di San Giacomo, sontuosamente adorna di opere d’arte. La cappella conteneva del resto anche la straordinaria pala d’altare della Adorazione della Madonna, che il maestro aveva realizzato da solo negli ultimi anni della sua vita per la Chiesa di San Giacomo, nonostante le mani impedite dalla gotta. L’audacia del disegno, la fusione dei valori cromatici e pittorici (luci e ombre) nella pastosità della loro orchestrazione rappresenta qui un testamento definitivo della maestria critica di Rubens. Tra san Giorgio, santa Caterina e san Francesco, il san Girolamo inginocchiato col putto in primo piano ricorda la figura di Crono, il dio del tempo, ed è assai probabile che Rubens, dipingendo la pala poco prima della sua morte, abbia giocato intenzionalmente con questa ambivalenza tra cristiano e pagano, caducità ed eternità. Dalle due chiese delle Carmelitane Scalze e delle Grandi Carmelitane scomparvero allora quattro dipinti di Rubens che si trovano oggi nei musei di Anversa e Bruxelles: L’educazione della Vergine Maria, Santa Teresa libera Bernardo di Mendoza dall’antinferno, la Santissima Trinità e l’Assunzione della Vergine. Ma sarebbe troppo lungo enumerare tutte le chiese che furono depredate in quegli anni: secondo gli elenchi ufficiali la commissione Barbier spedí a Parigi ben quaranta opere di Rubens, e il resoconto copriva solo una parte delle requisizioni eseguite negli interi Paesi Bassi. Lasciata Anversa, Barbier proseguí le sue ricerche nel circondario, in direzione di Malines, Lovanio e Bruxelles. Come antica residenza dei duchi di Borgogna e come sede dei vescovi di Fiandra Malines aveva chiese particolarmente ricche di opere d’arte. All’epoca di Rubens e di Van Dyck si erano arricchite di alcu-

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ne superbe pale d’altare che erano l’orgoglio della città. Per la Chiesa di Notre-Dame a Malines, la corporazione dei pescivendoli aveva commissionato a Rubens, negli anni 1618-19, il celebrato trittico con La pesca miracolosa nel riquadro centrale, il Ritrovamento della moneta d’oro e Tobia e il pesce in quelli laterali. Delle tre predelle rispettive, due sono conservate al Museo di Nancy, mentre la terza è andata perduta. Dalla Chiesa di San Romualdo a Malines, Barbier sottrasse l’altare dell’Ultima Cena di Rubens, donato nel 1630 dalla famiglia Lescuyer per la Cappella del Sacramento. Il riquadro di mezzo, di cui la chiesa parigina di Saint-Eustache conserva una versione migliore, fu dato piú tardi come cambio alla Pinacoteca di Brera, e le predelle con l’Ingresso di Cristo e la Lavanda dei piedi furono assegnate al Museo di Digione. Due predelle con la Natività e la Resurrezione di Cristo, oggi al Museo di Marsiglia, appartenevano anch’esse in origine a un grande altare sottratto da Barbier alla Chiesa dei Giovanniti di Malines; il riquadro intermedio, raffigurante l’Adorazione dei Magi, rimase a Parigi e fu restituito nel 1815. Quattro opere di Van Dyck furono sequestrate da Barbier nelle chiese dei Recolletti e dei Minnebroer sempre a Malines, e precisamente: una Crocifissione (oggi a San Romualdo), una Comunione di san Bonaventura (Caen, museo), il Miracolo dell’asino di sant’Antonio (Tolosa, museo) e una Salita al Monte Calvario. Dalla Chiesa dei Cappuccini furono inoltre prelevate una Sacra famiglia di Jacob Jordaens (Strasburgo, museo) e due opere di Gaspard de Crayer, l’Educazione della Vergine Maria e la Madonna con san Francesco (Nantes, museo). La Chiesa di Notre-Dame a Thermonde, costruita nel 1628, possedeva un altare di Anton van Dyck e una Natività portata a termine nel 1631 (ora alla Chiesa di Notre-Dame), che è una delle piú leggiadre tra le sue composizioni di soggetto religioso. Entrambe le

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opere furono aggiunte al bottino che si ingrandiva di località in località: la Chiesa di Saint-Gommaire a Lierre contribuí con altri due quadri d’altare di Rubens, la Madonna con san Francesco (Digione, museo) e il Martirio di san Giorgio (Bordeaux, museo) e con due opere di Jacob Jordaens che finirono alla Chiesa di Saint-André a Bordeaux. La maggior parte delle numerose opere di Jordaens visibili oggi nei musei francesi furono sottratte ai Paesi Bassi in quegli anni: cosí la Visitazione del Museo di Lione (dalla Chiesa di Ruppelmonde) e le due grandi opere tarde del Museo di Magonza, l’Adorazione dei Magi (dal convento, oggi distrutto, degli Agostiniani di Courtrai), e Gesú tra i Dottori (dalla Chiesa di Sankt Walburg a Furnes). Una Deposizione dalla Croce di Rubens, che i Cappuccini erano riusciti in un primo tempo a tenere nascosta nella loro chiesa, trovò piú tardi, negli anni dell’occupazione, la via di Parigi, e rimase al castello di Malmaison fino a quando venne acquistata dall’Ermitage di San Pietroburgo. A un’opera giovanile di Van Dyck, conservata nella chiesa della cittadina di Saventhem vicino a Bruxelles, era legata una leggenda romantica ancora molto viva fino all’Ottocento. Poco prima del suo viaggio in Italia del 1621 il giovane pittore si sarebbe innamorato della figlia di Ferdinando di Boischot, signore di Saventhem, e avrebbe dipinto il quadro San Martino divide il mantello per propiziarsene il favore in vista del matrimonio. In realtà, la pala d’altare, di cui il castello di Windsor possiede oggi una versione piú grande, fu un lavoro su commissione come tutti gli altri, ma la sua fama leggendaria contribuí a far sí che il quadro venisse spedito a Parigi nel 1794 e chiesto in restituzione nel 1815. Nell’Abbazia di Afflighem, anch’essa nelle vicinanze di Bruxelles, furono sequestrate la tempestosa Salita al monte Calvario, opera tarda di Rubens (1636-37) oggi al Museo di Bruxelles, e una serie di

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opere di Gaspard de Crayer, allievo di Rubens, che dopo la morte del maestro e il trasferimento di Van Dyck in Inghilterra assunse un ruolo di rilievo tra i pittori fiamminghi, in qualità di pittore ufficiale della città di Bruxelles e pittore di corte dei governatori arciducali. Le sue opere erano esposte soprattutto nelle chiese di Bruxelles e nelle sedi delle corporazioni: il quadro dell’altar maggiore della Chiesa di Santa Caterina, il Martirio di diversi santi eseguito nel 1642 per la gilda dei falegnami (Lilla, museo), La pesca miracolosa (Bruxelles, museo), dipinta nel 1639 per la gilda del pescatori e un altro quadro d’altare con lo stesso soggetto furono inviati via Ostenda a Parigi. L’incendio del municipio di Bruxelles, avvenuto durante il bombardamento francese del 1695, aveva distrutto alcuni capolavori come la Giustizia di Traiano di Rogier van der Weyden, Cambise e Sisamne di Rubens e il ritratto di gruppo dei consiglieri brussellesi dipinto da Van Dyck. Le opere rinascimentali conservate nelle chiese di Sablon e di Santa Gudula, come l’altare di Giobbe dipinto da Bernard van Orleys per la gilda dei falegnami (Bruxelles e Vienna), l’altare di Sant’Anna dipinto dallo stesso Van Orleys nel 1528 o l’altare della famiglia Thurn und Taxis di Jan Vermeyen, rimasero invece estranee al gusto dei commissari. In confronto alle requisizioni di Anversa il bottino di Bruxelles fu piuttosto povero: dal Convento delle Carmelitane fu trafugata una Assunzione di Maria in cielo di Rubens, una delle molte variazioni sul tema, oggi al museo di Bruxelles, come anche un’altra Salita al Calvario dalla Chiesa dei Cappuccini. Era inevitabile che, approfittando della confusione del momento, anche privati collezionisti cercassero di unirsi alla battuta di caccia spacciandosi per agenti francesi: si presentavano nelle chiese e nei conventi, apponevano falsi sigilli sulle opere da sequestrare sotto gli occhi dei religiosi intimoriti, e qualche giorno dopo passavano a ritirarle senza difficoltà, come fece a

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Bruxelles un certo Cobus. Nella Chiesa di San Bavone a Gand un altro impostore di nome Mersonne o Merresonne si impadroní della predella dell’altare della Crocifissione di Giusto di Gand con la Conquista di Gerusalemme, riscoperta solo di recente in una collezione privata di Gand (vedi l’«Exposition des collections gantoises», 1967, Musée des Beaux Arts, cat. n. 1). È vero che fin dal 1794 i commissari dovevano tenere un registro delle opere sequestrate e rilasciare in cambio una regolare ricevuta, ma non sempre la prassi veniva rispettata. In molti casi le requisizioni venivano affidate a soldati incompetenti con danni a volte irreparabili, come risulta dalla relazione che il prefetto di Herbonville inviò all’amministrazione dei musei di Parigi nel 1801: «L’église de Tongerloo, riche abbaye aux environs d’Anvers, renfermait, il y a quelques années, beaucoup de tableaux parmi lesquels il y avait plusieurs grands maîtres. Lorsque le gouvernement donna l’ordre que l’on transportât ces chefs-d’œuvres à Paris, on chargea plusieurs personnes de descendre les tableaux avec précaution pour les emballer. Ces barbares trouvent qu’il prendrait trop de temps de décrocher les tableaux avec leurs cadres, appuyèrent une échelle et découpèrent avec leurs sabres les toiles, qui tombaient sur le pavé humide de l’église et restaient là jusqu’au nouvel ordre. Lorsqu’on ensuite venait les chercher, ils étaient pourris, ruinés comme entre plusieurs de Rubens» (Piot, Rapport, pp. 6 sg.). Herbonville fa poi osservare che dei 39 quadri di Rubens e della sua scuola che si trovavano una volta nel suo dipartimento solo undici erano stati messi in salvo. Le statue ricevettero in generale un trattamento peggiore dei quadri, e venivano «tirate giú con delle corde intorno al collo come degli alberi». In anticipo su quanto diremo in seguito, è doveroso osservare che dopo il 1801-802 i prefetti francesi dei dipartimenti belgi di nuova istituzione si sforzarono di tutelare le

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opere d’arte sottoposte al loro controllo. Già nel 1795, su proposta del prefetto francese Gobel fu fondato il Museo di Bruxelles, in cui le numerose opere sequestrate trovarono riparo, e il cui primo curatore Boschaert si rivelò un direttore sensibile e previdente capace di farsi restituire dopo ripetuti tentativi ben 40 opere di autori fiamminghi inviate a Parigi. E cosí ad Anversa, su proposta del prefetto Dargonne e del pittore Herreyns, 328 dipinti sequestrati nei conventi nel 1797 furonò utilizzati piú tardi per la fondazione del museo locale. Tra le opere portate via dalla citata chiesa abbaziale di Tongerloo si trovava anche un altare del Giudizio Universale di Dierick Bouts; il riquadro di mezzo è oggi scomparso, mentre le tavole laterali, raffiguranti l’Ascesa dei beati e la Caduta dei dannati all’inferno si sono fortunatamente conservate nel Museo di Lilla e al Louvre. Si tratta di un caso inconsueto poiché gli antichi maestri fiamminghi, i «tableaux antiques», come allora venivano chiamati, non erano tenuti in grande considerazione: gran parte di essi, proveniente dai conventi soppressi, rimase accatastata per decenni nei depositi (quando non venivano semplicemente buttati via). Ciononostante alcuni capolavori dell’antica pittura olandese giunsero allora a Parigi. Il fatto curioso è che il merito non va agli agenti della Commissione per le opere d’arte ma a quelli della «Commission de commerce et d’approvisionnement», insediata a Bruges e a Gand negli stessi anni. Liberi dai pregiudizi della commissione artistica, i commissari per il commercio si lasciarono guidare dai libri di storia dell’arte e non poterono fare a meno di mettere le mani su capolavori famosi come l’altare di Gand. A Bruges, tra l’agosto e il settembre del 1794 furono consegnate ai commissari la grande tavola della Madonna van der Paele di Van Eyck, dalla Chiesa di San Donaziano (Bruges, museo), e una Adorazione dei Magi

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di autore anonimo ma allora attribuita a Van Eyck, dalla Chiesa di Notre-Dame. Di Hans Memling il trittico di Guillaume Morel del 1484 (Bruges, museo), un altare della Passione e un altare a portelle con San Cristoforo, Santa Barbara e le figure dei donatori (alcune parti dell’opera si trovano oggi nella Collezione Robert Lehmann del Metropolitan Museum); sempre dalla Chiesa di Notre-Dame proveniva infine la Madonna col bambino di Michelangelo, del 1504. Nel municipio di Bruges i commissari presero le cosiddette «tavole di giustizia», raffiguranti la storia erodotea di Cambise e Sisamne, dipinte da Gérard David nel 1498 per la sala degli scabini. Dello stesso David fu inoltre sequestrato il trittico col Battesimo di Cristo (Bruges, museo), che si trovava nella Chiesa di San Basilio sopra l’altare dei cancellieri. Per l’opera monumentale e oggi celeberrima dei fratelli Hubert e Jan van Eyck, il polittico dell’Agnello mistico della Chiesa di San Bavone a Gand eseguito nel 1431-32 per il borgomastro Jodocus Vydt, ebbe inizio un lungo periodo di peregrinazioni. A causa delle sue dimensioni l’altare fu smembrato, e la scarsa competenza artistica dei commissari fece sí che la parte destinata a Parigi non fosse la tavola laterale, storicamente importantissima, di Jan van Eyck con le figure di Adamo ed Eva, ma quella centrale, di aspetto piú arcaico, raffigurante l’Adorazione dell’Agnello. Le tavole straordinarie di Jan van Eyck, ai lati e alla sommità del polittico, non rimasero tuttavia per molto tempo a Gand: un sagace collezionista e mercante d’arte, il cavalier Nieuwenhuis, le acquistò alcuni anni piú tardi per poi venderle al collezionista inglese Solly, e insieme alla collezione di quest’ultimo giunsero infine al Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino. Dopo la prima guerra mondiale furono restituite a titolo di risarcimento e riunite al resto del polittico; durante l’ultima guerra tornarono nuovamente in Germania per essere

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poi definitivamente restituite. Può sembrare un miracolo che l’altare sia sopravvissuto a tutte queste traversie e che si trovi oggi, integro, a San Bavone. Nella stessa chiesa possiamo vedere oggi la grandiosa tela con la Conversione di san Bavone, dipinta da Rubens nel 1623 e aggiunta come pezzo forte al bagaglio in partenza per Parigi, bagaglio che comprendeva anche altre opere sequestrate a Gand: dal municipio l’Ercole e Onfale di Gaspard de Crayer (Marsiglia, museo); dalla cattedrale, dalla Chiesa di San Gregorio e da quella dei Recolletti cinque altre opere di Rubens, la Morte di Maria Maddalena (Lilla, museo), Cristo minaccia col fulmine i miscredenti (Bruxelles, museo), il Ritratto del vescovo Antoine di Triest, il Miracolo di santa Rosalia (Digione, museo) e la Madonna con san Francesco. Infine, una Crocifissione dalla Chiesa di San Michele, dipinta da Van Dyck nel 1630 per la confraternita della Santa Croce. A Lovanio i commissari ignorarono completamente i capolavori di Dierick Bouts, i «quadri di giustizia» conservati al municipio e l’altare dell’Ultima Cena nella Chiesa di San Pietro. Nella stessa Chiesa di San Pietro presero però il grande trittico della Sacra famiglia, dipinto da Quentin Massys nel 1508-509 per la confraternita di Sant’Anna e che segna una pietra miliare nello sviluppo della pittura olandese del Rinascimento. Poiché uno dei compiti della commissione era di arricchire la Bibliothèque Nationale di Parigi, furono subito sequestrati 5000 volumi rari della Biblioteca Universitaria di Lovanio. Lo stesso accadde alla biblioteca del Municipio di Bruges, piú piccola ma anche piú preziosa con i suoi manoscritti e le sue stampe antiche: biblioteca che risaliva, come anche il suo edificio, all’epoca dei duchi di Borgogna. Dobbiamo considerare del resto che non tutti i tesori d’arte furono inviati a Parigi durante l’occupazione, e che il processo continuò negli anni successivi, perlopiú in concomitanza con la

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chiusura e l’espropriazione di altre chiese e conventi. Cosí ad esempio il tesoro della Chiesa di San Pietro a Lovanio fu venduto nel 1798, cioè quattro anni piú tardi, per rimpinguare le casse francesi. Tra le opere piú preziose, esso conteneva un leggio di bronzo dorato oggi al Metropolitan Museum di New York. Nella parte meridionale dei Paesi Bassi, soprattutto nelle città medievali di Tournai e Courtrai, il pittore Tinet aveva fatto incetta di dipinti, limitandosi però esclusivamente ai maestri barocchi. Nella Chiesa dei Cappuccini di Tournai, Tinet trovò una altra Adorazione dei Magi di Rubens, non inferiore a quelle di Malines e di Anversa. Alcune parti di un altro polittico di Rubens furono sottratte da Tinet alla cattedrale di Tournai insieme al Martirio di Giuda Maccabeo (Nantes, museo) e Cristo all’antinferno (restituito), mentre nella Chiesa di San Martino requisí la Guarigione di un ossesso, un capolavoro di Jacob Jordaens dipinto nel 1630, oggi al Museo di Bruxelles. Nello stesso periodo l’incaricato del popolo Laurent scelse nell’Abbazia di San Martino numerosi manoscritti e stampe antiche da inviare alla Bibliothèque Nationale. Nella Chiesa di NotreDame di Courtrai i commissari scoprirono una insolita Crocifissione degli stessi anni, vicina, per il suo stile drammaticamente mosso, all’Adorazione dei pastori di Van Dyck di Thermonde. Questa pala d’altare (oggi di nuovo a Notre-Dame) fu realizzata nel 1631 per conto del canonico Rogier Braye in uno stile molto lontano dalla Crocifissione di Rubens. E con questi ultimi dipinti la nostra ricognizione del bottino artistico della campagna francese nei Paesi Bassi può dirsi conclusa. In seguito all’avanzata vittoriosa e inarrestabile delle armate francesi verso il Nord, il Reno divenne il primo obiettivo dei generali Moreau e Pichegru in quanto linea difensiva ideale. I confini dell’Olanda non rappresentavano un ostacolo, dal momento che la dichiarazione di guerra del ’93 all’Inghilterra e alla Prussia

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aveva coinvolto anche il governatore d’Olanda principe Federico Guglielmo V, imparentato con entrambe le case reali (sua madre era inglese, mentre la moglie era una principessa prussiana). Nei primi giorni del 1795 il paese fu occupato e il 18 gennaio il principe d’Orange fuggí in tutta fretta in Inghilterra. Nel mese di marzo il nuovo governo provvisorio lo espropriò dei suoi beni, e poiché le chiese olandesi erano state spogliate delle loro opere d’arte già all’epoca della Riforma; l’unica preda ancora accessibile ai commissari francesi erano le raccolte della casa d’Orange. L’antico patrimonio della città di Amsterdam, che comprendeva un tempo capolavori come la Ronda di notte di Rembrandt, rimase curiosamente (o in ossequio ai principî rivoluzionari) intatto, e formò piú tardi, sotto Luigi Napoleone, il primo nucleo del Rijksmuseum. Distribuite in vari castelli, le collezioni della casa d’Orange comprendevano, oltre ai consueti arredi di lusso subito messi all’asta, un gabinetto numismatico, uno di storia naturale e una delle piú notevoli pinacoteche principesche del tempo, frutto della passione amatoriale dell’ultimo governatore. Fondata all’epoca dei grandi pittori seicenteschi dal principe Federico Enrico di Nassau e dalla consorte Amalia di Solms – ai quali si deve anche la decorazione della sala d’Orange al Buitenhof dell’Aia, eseguita da Jacob Jordaens e da altri maestri olandesi – la galleria assunse la sua fisionomia definitiva con Federico Guglielmo V. Sotto la guida dell’esperto di pittura Terwesten, il principe diede vita, tra il 1750 e il 1770, a una delle piú importanti collezioni private di pittura «alto-olandese», che rappresentò insieme un notevole incremento del suo patrimonio personale. Alla fine di maggio i commissari avevano terminato il loro lavoro di selezione, e il 7 giugno 191 dipinti furono spediti a Parigi. Poiché la raccolta era formata in gran parte da maestri olandesi del Seicento, che i collezioni-

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sti francesi dell’epoca tenevano in grande stima, si offriva per il Louvre la preziosa opportunità di un grosso arricchimento settoriale. Il catalogo delle opere requisite elenca fra l’altro: alcuni quadri di Rembrandt, e precisamente Susanna al bagno, Simeone al Tempio, i ritratti dei genitori e due autoritratti; tre di Rubens, Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre (gli animali sono di Jan Brueghel), un paesaggio (Parigi, Louvre) e il bozzetto Alessandro spezza il nodo di Gordio; sei di Van Dyck, Rinaldo e Armida (Parigi, Louvre), i ritratti del pittore Quinten Simons e di sua moglie, quelli dei principi palatini, dei nipoti del re Carlo I d’Inghilterra in armatura e dei figli giovinetti di Carlo I d’Inghilterra; La lettera di Gérard Terborch; Marte, Venere e Amore di Jan-Lievens; la Giovane madre e la Cuoca di Gerard Dou; due paesaggi di Willem van de Velde; due quadri di animali di Paulus Potter tra cui il Giovane toro; quattro opere di Jan Steen, Il banchetto delle ostriche, Cosí cantavano i vecchi e due visite mediche; la Bevuta del cacciatore e una Compagnia di musicanti di Gabriel Metsu; il Ritratto di gruppo degli scabini di Amsterdam dipinto da Thomas de Keyser nel 1638 per la visita di Maria de’ Medici; la veduta dello Huys ten Bosch all’Aia e la Chiesa dei gesuiti di Düsseldorf di Jan van der Heyden; Il suonatore di violino di Adriaen van Ostade e Pietro guarisce gli infermi di Karel Dujardin. Per quanto riguarda la pittura «altotedesca» e italiana, la galleria ospitava già i due celebri ritratti di Hans Holbein il Giovane, quelli di Robert Chessman e di un altro falconiere anonimo di Enrico VIII; un ritratto di orefice di Antonis Mor; i ritratti di un architetto e di un musicista di Pietro di Cosimo, attribuiti allora a Dürer; la Sacra famiglia di Palma il Vecchio, il Sacrificio di Abramo di Andrea del Sarto (Lione, museo) e Cristo e l’adultera di Paolo Veronese. Quali fossero i gusti dell’epoca può dirlo il fatto curioso che fra i tesori riportati dall’Aia il Giovane toro

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di Paulus Potter era considerato il piú pregiato. Nell’introduzione al suo catalogo del 1828, il barone Steengracht, che diventò piú tardi direttore del Mauritshuis, riferisce: «Quando il quadro fu a Parigi si fece una classificazione dei dipinti del Louvre. La Trasfigurazione di Raffaello [oggi al Vaticano] occupò il primo posto, il Giovane toro il sesto». Dopo aver destinato a Parigi i migliori pezzi del gabinetto di storia naturale e della raccolta numismatica della famiglia d’Orange, Faujas de Saint-Font e Thouin accompagnarono l’armata della Sombre-et-Meuse nel suo cammino verso il Reno, passando per Spa e Acquisgrana. Ne nacque un variopinto e disordinato bottino di vecchi cannoni, oggetti sacri, antichi monumenti, rarità naturali, medaglie, incisioni, disegni e manoscritti, preziose e antiche opere a stampa, provenienti dai luoghi piú diversi. Il 2 frimaio dell’Anno III i due commissari scrivono a Parigi: «Les différentes visites nous ont produit un ccnvoi de plus de vingt chariots. Notre récolte à Cologne en bibliophiles et antiquités a été beaucoup plus variée que les précédentes». Il 5 novembre fu la volta dell’unica collezione pubblica esistente allora a Colonia, quella dell’ex collegio dei gesuiti. Oltre a una preziosa biblioteca e a un gabinetto numismatico, essa ospitava una vasta raccolta di incisioni e disegni; secondo un catalogo del 1778 le incisioni erano piú di 26 000 e i disegni 6113, raccolti in 208 volumi complessivi. Vennero confiscati in massa e spediti a Parigi insieme ai libri di maggior valore. Il bottino fu invece povero di dipinti, e proprio a Colonia, una delle capitali del Gotico, riaffiorarono i vecchi pregiudizi contro l’arte «primitiva». L’altare di Santa Colomba di Rogier van der Weyden, i due grandi altari della famiglia Hackenay di Joos van Cleve, e le opere di Stephan Lochner (come il quadro del Duomo ammirato da Dürer) rimasero nelle chiese della città. L’unico dipinto requisito fu ancora una volta un

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Rubens, e precisamente l’ultima grande pala d’altare con la Crocifissione dell’Apostolo Pietro, opera donata nel 1638 dal banchiere parigino Jabach alla Chiesa di San Pietro (oggi al Wallraf-Richartz-Museum, prestito permanente). Nel centro di Acquisgrana, la prima grande città tedesca toccata dall’armata rivoluzionaria, c’era la Cappella Palatina col mausoleo di Carlo Magno, il cui significato storico e simbolico non era inferiore per i francesi che per i tedeschi. I commissari sapevano che il Duomo di Acquisgrana, come eredità dell’imperatore dei franchi, incarnava la superiorità della loro razza, e che d’altra parte, essendo la chiesa in cui venivano incoronati gli imperatori tedeschi, simboleggiava le ambizioni di questi ultimi. Si comportarono perciò di conseguenza, e spedirono a Parigi non solo il sarcofago romano detto «di Proserpina», adorno di rilievi e considerato la tomba di Carlo Magno, ma anche il reliquiario d’oro a forma di braccio commissionato da Ottone III. Non rinunciarono neppure al cosiddetto Evangeliario dell’incoronazione, su cui per secoli gli imperatori tedeschi avevano prestato giuramento, e con un gesto singolarmente trionfale fecero portare in Francia anche dodici delle colonne di porfido italiane che sorreggevano il muro della Cappella. Piú tardi, quando Napoleone appena incoronato visitò l’antica città imperiale e il tesoro del duomo, il magistrato di Acquisgrana fece dono all’imperatrice del ciondolo di steatite, montato in oro e argento, che Carlo Magno portava al collo quando Ottone III fece aprire la tomba nell’anno 1000 (Cleveland, museo). Le colonne marmoree provenienti da Acquisgrana vennero invece collocate sotto la Galérie d’Apollon per l’apertura della sezione antica del Louvre. I quadri riportati dalla spedizione furono esposti al pubblico per la prima volta nell’anno 1799, dopo il restauro parziale della Grande Galleria, insieme alle ope-

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re provenienti dalla Lombardia e dall’Italia del Nord. Il catalogo stampato per l’occasione citava 55 grandi opere di Rubens, 18 di Rembrandt, la tavola centrale dell’altare di Gand di Van Eyck, i «quadri di giustizia» con la Giustizia di Cambise di Gérard David provenienti da Bruges, tre altari di Quentin Massys e dodici ritratti di Hans Holbein il Giovane (tra cui quelli della collezione reale). La campagna d’Olanda inaugurò dunque la politica delle grandi requisizioni, a cui si deve il piú massiccio spostamento di opere d’arte che si fosse mai visto in Europa.

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Capitolo terzo Furti su commissione: Napoleone in Italia (1796-98) e in Egitto

Le massicce requisizioni della campagna d’Olanda furono spesso condotte senza un criterio preciso: non sempre i commissari erano all’altezza del compito, e insieme a capolavori come quelli di Rubens poteva succedere che venissero spediti a Parigi anche oggetti di secondaria importanza, come la sedia su cui si diceva che il maestro avesse dipinto i suoi quadri. In Italia le cose andarono fin dall’inizio assai diversamente. Anzitutto, le esperienze degli anni precedenti e il nuovo corso della politica parigina suggerivano di procedere in modo piú sistematico. I bibliotecari della Bibliothèque Nationale arrivarono al punto di compilare elenchi dei libri italiani desiderati, elenchi che dovevano guidare le scelte dei commissari nelle varie tappe dell’occupazione. L’esperto d’arte del Musée Central, il già citato pittore Lebrun, impartí a sua volta direttive analoghe, che il rapido svolgersi degli eventi permise tuttavia di rispettare solo di rado. Ma la differenza fondamentale va ricercata nella personalità del «leader» che impresse il suo sigillo sull’intera campagna d’Italia, cioè in Napoleone stesso. È stato detto piú volte che nonostante le grandi vittorie successive la campagna d’Italia fu l’impresa piú felice di Napoleone. Se leggiamo la sua corrispondenza degli anni 1796-98, e in particolare le sue assidue relazioni al Direttorio, si rimane colpiti dal piglio autoritario, dalla perspicacia geniale e dalla presenza di spirito

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del giovane generale non meno che dal suo talento organizzativo. Da solo creò una nuova Italia, i cui effetti sul periodo della Restaurazione durarono fino al Risorgimento. Nato in Corsica da una famiglia di origine italiana – la sua madrelingua fu l’italiano prima del francese – Napoleone era vicino a questo paese piú di qualunque altro conquistatore straniero, e gli italiani comprendevano i suoi gesti e la sua lingua. Nello stesso tempo fu proprio la campagna d’Italia con le sue vittorie «romane» a suscitare in lui l’idea dell’Impero, idea che sull’esempio di Augusto doveva tradurre in realtà nel 1804. Da questo punto di vista è abbastanza facile capire in che modo lo stile rivoluzionario, improntato alla Roma repubblicana, abbia potuto trasformarsi senza difficoltà in una politica di potenza di stampo imperiale. Piú ancora che in Olanda, all’inizio della campagna d’Italia i francesi furono salutati dalla popolazione, e in particolare dagli intellettuali, come liberatori dal dispotismo e dalle forze della reazione. Se Napoleone disprezzava l’Italia decaduta del diciottesimo secolo, aveva letto però troppo bene il suo Plutarco per non ricordare la grandezza del passato romano e non vedere in essa uno sfondo ideale alle gesta eroiche delle sue truppe e sue personali. Questo singolare stato d’animo si comunicò non solo all’esercito conquistatore, ma anche ai conquistati, e permette di comprendere quel clima di romanticismo eroico che trova espressione negli scritti di un Ugo Foscolo (A Napoleone liberatore) o in pittori come David, Gros e Géricault. Pur non avendo, com’è noto, una grande cultura artistica, Napoleone capí subito quale valore, in termini di prestigio e di propaganda, potevano avere le arti e le scienze per un regime politico, e in particolare per un regime «illegittimo» in quanto rivoluzionario. L’antichità del patrimonio artistico italiano conferiva poi a

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eventuali confische un significato che in Olanda esse non avevano, e con un gesto di grande valore politico e simbolico Napoleone volle che le requisizioni di opere d’arte rientrassero fra le clausole degli armistizi e dei trattati di pace. Il significato di questa innovazione risulterà piú evidente in seguito. Da buon seguace degli ideali rivoluzionari, Napoleone perseguiva in questa fase della sua carriera un duplice obiettivo liberare gli Stati italiani dai vecchi regimi assolutistici e legarli strettamente alla Francia, magari facendone delle province francesi. La campagna d’Olanda, che aveva preparato questi obiettivi, era servita anzitutto ad assicurare i confini della Repubblica contro le potenze alleate. In Italia, i successi di Napoleone fecero da volano agli ideali espansionistici della rivoluzione. (Non va dimenticato però che i forti risarcimenti di guerra imposti da Napoleone agli sconfitti contribuirono in modo decisivo a risanare le finanze francesi sull’orlo della bancarotta). I paesi liberati dovettero pagare un prezzo molto alto, provvedendo al sostentamento materiale delle truppe francesi, versando le somme richieste a titolo di risarcimento e contribuendo ad arricchire i tesori culturali della comune capitale, Parigi. Napoleone desiderava, come ebbe a dire piú tardi, fare di Parigi la piú bella città del mondo, e questo desiderio nacque in Italia. Poiché in Italia, piú ancora che in Olanda, i beni artistici erano da sempre nelle mani dei principi, dell’aristocrazia e della Chiesa, sussistevano ampie possibilità di esproprio. Le «conquiste» artistiche seguirono cosí di pari passo quelle militari. E per dare a questi espropri una parvenza di legalità, Napoleone escogitò come si è detto il sistema geniale di includere le opere d’arte tra le clausole dei trattati di pace e di farle rientrare addirittura tra i contributi di guerra. Già il primo maggio 1796, dopo la firma dell’armistizio di Cherasco con il re di Sardegna e durante i pre-

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parativi per la successiva campagna contro gli austriaci, Napoleone scrisse dal suo quartier generale di Acqui al plenipotenziario Faypoult, di stanza a Genova, di procurargli un elenco dei principali gabinetti artistici e delle principali gallerie dell’Italia del Nord. Nello stesso tempo emanò disposizioni volte ad assicurargli il patrimonio artistico e scientifico dei territori ancora da conquistare. Jacques-Pierre Tinet, di cui abbiamo già fatto la conoscenza in Olanda, e ora presso la delegazione francese a Firenze, fu nominato nuovamente commissario con pieni poteri, col compito di provvedere alla requisizione delle opere d’arte e al loro trasporto. Ma Tinet non era l’unico agente: nelle varie commissioni troviamo nomi famosi, non solo di artisti ma anche di architetti, studiosi e scienziati. Cosí il botanico Thouin, già attivo in Olanda, e con lui tre dei piú importanti scienziati dell’epoca, Claude-Louis Berthollet, Pierre-Claude-François Daunou e Gaspard Monge. Il chimico Berthollet, che aveva tra l’altro perfezionato il metodo di Stahl e contribuito quindi a rafforzare il potenziale bellico francese, fece parte di numerosi comitati scientifici. Daunou, uomo dal sapere enciclopedico, era archivista e bibliotecario della Sainte-Geneviève, pubblicò una storia della letteratura francese dall’epoca merovingia in 16 volumi e fu per qualche tempo presidente del Consiglio dei Cinquecento, come anche socio fondatore dell’«Institut». Monge, matematico e fisico, scopritore della geometria descrittiva e professore all’Accademia Militare, fu ministro della Marina negli anni 1792-93 e stretto collaboratore di Napoleone. Tra i membri delle commissioni italiane si trovavano inoltre gli artisti Jean-Baptiste Wicar, Andrea Appiani, Jean-Baptiste Moitte, Marin e Berthélemy. In una lettera del 18 febbraio 1797 al generale Berthier, Napoleone dispone di versare uno stipendio mensile di 250 lire ai commissari sopra nominati e inoltre ai pitto-

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ri Gros e Gerli, al musicista Kreutzer (immortalato dall’omonima sonata di Beethoven), all’incisore Dutertre e al segretario della commissione Couturier. Il pittore Wicar di Lilla, già membro della commissione centrale parigina, era vissuto dal 1786 a Roma e a Firenze, dove preparò fra l’altro le incisioni dei capolavori di Palazzo Pitti per un importante catalogo e mise assieme una delle piú straordinarie raccolte private di disegni di Raffaello e Michelangelo. Era considerato uno dei migliori conoscitori dell’arte italiana, e le sue raccolte, oggi disperse tra Lilla, il Louvre, l’Ashmolean Museum di Oxford e il British Museum, ne dànno una brillante conferma. Gros, che ricevette piú tardi il titolo di barone e divenne il pittore preferito di Napoleone, soggiornò in Italia dalla fine del 1796 alla primavera del 1797, dedicandosi però soprattutto al suo quadro Napoleone sul ponte di Arcole. Andrea Appiani, patriota milanese conquistato alla causa della rivoluzione, dipinse il primo quadro allegorico del generale vittorioso dopo la battaglia di Lodi e fu piú tardi il vero fondatore della Pinacoteca di Brera. Il pittore Berthélemy, che vinse nel 1789 il Prix de Rome, dipinse a imitazione di David un Manlio Torquato condanna i propri figli, il ritratto dello sfortunato generale Custine e un ritratto di Napoleone, che accompagnò piú tardi nella campagna d’Egitto. Lo scultore Moitte è noto per i suoi rilievi del Louvre e del Panthéon, mentre l’altro scultore Marin tradusse in linguaggio classicistico le briose figure rococò del suo maestro Clodion, e fu apprezzato soprattutto dopo il Termidoro. La maggior parte di questi commissari aveva già avuto in precedenza contatti con l’Italia e il suo patrimonio artistico, e potevano disporre inoltre di guide e raccolte di incisioni, come il Voyage d’Italie di CharlesNicolas Cochin (edito a Parigi nel 1759 e nel 1773) o i resoconti di viaggio di Lalande e d’Argenville (M. Lalande, Voyage d’un Français en Italie, Parigi 1769), che enu-

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meravano le principali opere d’arte conservate nelle chiese, nei palazzi e nei municipi. Inoltre, lo stesso Louvre possedeva una raccolta di calchi in gesso e bronzi dei piú celebri artisti antichi, risalenti in parte all’epoca di Francesco I. Tra il maggio e il giugno del 1796 Napoleone occupò in rapida successione Milano, Modena, Parma e Bologna, capoluoghi di altrettanti principati. Due mesi piú tardi scrisse al Direttorio che 110 quadri erano sulla strada per Parigi, e precisamente 25 da Milano, 15 da Parma, 30 da Modena e 40 da Bologna, per non parlare dei numerosi oggetti grandi e piccoli – sculture, manoscritti, reliquiari, medaglie e monete, e cosí via – sequestrati nello stesso periodo. Mentre il presidio militare del Castello Sforzesco opponeva ancora resistenza, il commissario Tinet era già all’Ambrosiana, dove fece requisire un lungo elenco di opere: il disegno preparatorio di Raffaello per la Scuola di Atene al Vaticano, dodici manoscritti con disegni di Leonardo, come il Codice Atlantico e due ritratti a lui attribuiti, il preziosissimo manoscritto delle Bucoliche di Virgilio, illustrato con miniature di Simone Martini (secolo XIV), e un altro raro manoscritto papiraceo del sesto secolo, una delle prime copie della Storia della guerra giudaica di Giuseppe Flavio. Per quanto riguarda i quadri, Tinet scelse cinque dei venticinque paesaggi dipinti da Jan Brueghel per il suo mecenate, il cardinale Carlo Borromeo, fondatore della Biblioteca Ambrosiana, due opere dello scolaro di Leonardo Bernardino Luini, una Madonna e un Giovanni Battista (entrambi all’Ambrosiana), come pure numerosi vasi antichi dipinti, noti allora sotto la denominazione generica di vasi «etruschi». Anche le chiese di Milano non furono dimenticate da Tinet, e la grande Incoronazione di spine di Tiziano, proveniente da Santa Maria delle Grazie, testimonia ancora oggi al Louvre l’importanza di quel bottino, in-

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sieme a due portelle d’altare di fra 52 Bartolomeo al Museo di Ginevra e altre opere di Gaudenzio Ferrari e Salvator Rosa conservate in vari musei francesi di provincia. La ricca Cattedrale di Monza, non lontana da Milano, si vide imporre un risarcimento di guerra che ammontava a due terzi degli oggetti liturgici d’oro e alla metà di quelli d’argento: una volta fusi, il peso rispettivo risultò di 11 300 e di 184 000 chilogrammi. Assai piú di quella d’Olanda, la campagna d’Italia si autofinanziava e riempiva le casse della Repubblica. L’armistizio col duca di Modena Ercole III d’Este, firmato il 17 maggio, specificava all’articolo 3 che oltre a un risarcimento di due milioni di lire il ducato avrebbe dovuto consegnare venti dipinti della galleria ducale e di altre collezioni, a scelta dei commissari francesi. Tuttavia, poiché già nel 1745 un centinaio tra i capolavori piú importanti della raccolta estense erano stati venduti al re Augusto il Forte di Sassonia (con l’eccezione di un Cristo e l’adultera attribuito a Tiziano), le opere di prim’ordine non erano molte. Ben rappresentati erano solo i pittori locali del ’600, come Bartolomeo Schedoni e Francesco Barbieri detto il Guercino. Nato nella vicina Cento, il Guercino godeva ancora nel ’700 di una fama notevole, come risulta dai diari italiani di Goethe (1786). Da varie chiese e palazzi di Modena e Ferrara il commissario incaricato prelevò venti dipinti del Guercino, tra cui il giovanile altar maggiore della Cattedrale di Cento con la Madonna con santi (Bruxelles, museo), e alcune opere di soggetto mitologico, come Marte e Venere del 1634 (Modena, Galleria Estense). Dal Palazzo dei Diamanti di Ferrara furono portati via quattro dipinti a soffitto di Agostino e Ludovico Carracci con le raffigurazioni dei Quattro elementi (Modena, Galleria Estense), mentre alla Galleria Ducale di Modena la scelta cadde sull’Adorazione dei Magi di Agostino Carracci, già alla Cattedrale, e su due Sacre conversazioni, rispettivamente di Dosso Dossi e

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del Garofalo, entrambi pittori di corte della duchessa Isabella d’Este, amante delle arti. Insieme a quattro dipinti di Guido Reni, l’ideale degli accademici, fu inviata a Parigi anche una copia della celebre Madonna La notte del Correggio, eseguita da Giovanni Nogari prima che l’originale fosse trasferito a Dresda: scelta, questa, che fu oggetto delle comprensibili critiche dell’esperto Lebrun (come anche altre decisioni dei commissari). Se fino a questo momento il bottino era ancora abbastanza modesto, esso si arricchí non appena le truppe francesi misero piede nel principato di Parma e a Bologna, città dello Stato Pontificio. A Parma si trovavano ancora alcune grandi pale d’altare, capolavori del piú grande pittore parmigiano, il Correggio. La sua Madonna con san Gerolamo era un quadro ammiratissimo, e d’altronde la venerazione per il Correggio quasi eguagliava quella per Michelangelo e Raffaello. Si racconta che il duca di Parma avrebbe offerto a Napoleone un milione di franchi perché rinunciasse alla Madonna custodita nella raccolta ducale: cosí almeno riferisce Napoleone in una lettera al Direttorio, aggiungendo però di avere rifiutato la proposta. Il principe fu cosí amareggiato da quella perdita che non volle piú mettere piede nella sala in cui la Madonna era appesa. Oltre alla Madonna con san Gerolamo furono sequestrati tre altri capolavori del Correggio: la non meno famosa Madonna della scodella, dalla Chiesa del Santo Sepolcro, la Deposizione della Croce e il Martirio dei santi Flavia e Placido da San Giovanni Evangelista. Nella Chiesa di San Paolo si trovavano la grande pala d’altare del Cristo salvatore del mondo con quattro santi, attribuita a Raffaello ma opera, in realtà, del suo collaboratore Giulio Romano, e una Madonna di Agostino Carracci; nella Chiesa di San Rocco una tela di Paolo Veronese raffigurante i santi Rocco e Sebastiano. Il bottino fu completato da vari dipinti della scuola del

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Correggio – Anselmi, Bedoli, Mazzola e il Parmigianino – e da altri di Ribera, Schedoni, Guercino e Ludovico Carracci, raccolti all’epoca dei Farnese. Con quale rapidità procedessero le requisizioni è dimostrato dal fatto che Napoleone entrò a Bologna il 19 giugno, e già il 21 riferiva al Direttorio: «Les tableaux de Modena sont partis. Le citoyen Berthélemy s’occupe en ce moment à choisir les tableaux de Bologna. Il compte en prendre une cinquantaine, parmi lesquels se trouve la “Sainte Cécile” qu’on dit le chefd’œuvre de Raphael. Monge, Berthollet, Thouin sont à Pavie où ils s’occupent à enrichir notre Jardin des Plantes et Cabinet de l’Histoire naturelle» (Correspondance, vol. I, p. 418). La monumentale tela della Glorificazione di santa Cecilia, dipinta da Raffaello nel 1616 per l’omonima cappella nella Chiesa di San Giovanni al Monte sulla collina di Bologna, rappresentò in effetti un colpo grosso nella lotteria delle requisizioni, anche se è difficile farci oggi un’idea dell’ammirazione, per non dire venerazione, che circondava all’epoca la personalità di Raffaello. In ogni caso, anche le opere della celebre scuola bolognese (tardo Cinquecento e primo Seicento) con i nomi dei tre Carracci, del Domenichino e di Guido Reni godevano di un credito notevole tra i collezionisti e gli amatori d’arte. Berthélemy poté fare tranquillamente un’ottima scelta. Oltre alla santa Cecilia, questa comprendeva la Resurrezione di Cristo di Annibale Carracci (Parigi, Louvre), già celebrata da Cochin e d’Argenville e dipinta nel 1593 per il Convento del Corpus Domini, come anche La Madonna appare a san Giacinto di Ludovico Carracci, dalla Chiesa di San Domenico, e la movimentatissima Strage degli innocenti di Guido Reni (entrambe alla Pinacoteca di Bologna). In totale, alle chiese e ai conventi (ancora aperti) di Bologna furono sottratte sette opere dei Carracci, due del Domenichino, tre di Guido Reni e quattro del Guerci-

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no. E per concludere con una rarità, un quadro di Pietro Perugino in San Giovanni al Monte. Poiché a Bologna, come in tutti i territori occupati dalle armate francesi, chiese e conventi venivano secolarizzati, chiusi o distrutti, là dove non arrivavano i commissari ci pensavano i soldati o le stesse autorità cittadine: si impadronivano delle opere d’arte per poi venderle a collezionisti privati, locali o stranieri, che seguivano gli spostamenti delle forze di occupazione. Bologna apparteneva allo Stato della Chiesa, il cui governo era per giudizio unanime uno dei peggiori fra i principati italiani. Divisi tra «un’aristocrazia avviliante e un popolo mendicante», arretrati e invecchiati, gli stati italiani conoscevano, dal 1794, continue sollevazioni. Non c’è dunque da stupirsi se a Bologna i francesi furono accolti dalla maggioranza della popolazione con entusiasmo ancora maggiore che a Milano. Uno dei primi provvedimenti di Napoleone fu quello di restituire alla città gli antichi privilegi, che Roma aveva gradualmente ridotto, con risultato di guadagnare ulteriormente la città alla propria causa. L’arresto dei legati pontifici a Bologna e a Ferrara indusse il Vaticano, preoccupato, a firmare un precipitoso armistizio per impedire un’ulteriore avanzata nei suoi territori. Consapevole della propria forza, Napoleone pretese non solo la rinuncia a Bologna e Ferrara e 21 milioni di lire di risarcimento, ma anche (articolo 9) un centinaio di opere d’arte tra quadri, sculture, mosaici, vasi ecc., e cinquecento manoscritti che appositi commissari avrebbero scelto tra le collezioni pontificie. Prima che la clausola diventasse operativa trascorse molto tempo, ma l’accordo di Bologna segnò comunque un passo decisivo nei rapporti tra Napoleone e il Vaticano. Tra le opere espressamente indicate da Napoleone c’erano i due busti di Marco e Giunio Bruto, l’uno in bronzo, l’altro in marmo, e può sembrare un’ironia della sorte il fatto che il futuro imperatore desiderasse possedere i ritratti di un

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austero repubblicano e dell’uccisore di Cesare. Ma non bisogna dimenticare che erano, all’epoca, tra gli eroi piú venerati della Rivoluzione francese. Da Bologna Napoleone fece una breve visita al granduca di Toscana, Ferdinando II d’Austria, che fin dall’inizio aveva dichiarato la propria neutralità. Durante il ricevimento a Palazzo Pitti non poté fare a meno di gettare uno sguardo avido alla celebre raccolta che rappresentava l’eredità di Casa Medici. Il 2 giugno scrive a Parigi: «Ho visto a Firenze la famosa Venere Medici, che manca al nostro museo, e un gabinetto di modelli anatomici di cera che sarebbe non meno importante possedere». E poiché, come dicono i francesi «l’appetito vien mangiando», le nuove conquiste accrebbero la sua cupidigia, in un paese che era una miniera inesauribile di opere d’arte. Se in principio le requisizioni si erano mantenute entro limiti modesti, col progredire dell’occupazione si moltiplicarono, con o senza clausole che le prevedessero. I venti dipinti di Modena diventarono cinquanta, e nell’ottobre 1796 la Biblioteca Estense fu costretta a spedire a Parigi 86 disegni di antichi maestri. La Cattedrale di Monza custodiva intatto lo straordinario tesoro donatole nel sesto secolo dalla regina Teodolinda. Tesoro che comprendeva, oltre alla Corona ferrea del Regno longobardo – cosí chiamata perché secondo una tradizione conteneva un chiodo di ferro della Croce – le corone, le croci, le armature e i reliquiari d’oro e d’argento della regina e del suo sposo Agilulfo, vari dittici in avorio di grande valore, in stile tardoclassico o paleocristiano, e infine un esempio molto raro di oreficeria alto medievale: il gruppo in argento dorato di una gallina coi suoi pulcini in grandezza naturale, simboli della Chiesa di Cristo. Tutti questi oggetti furono spediti a Parigi nel gennaio 1797 insieme a 134 manoscritti e a 84 incunaboli della Biblioteca Capitolare. Le chiese di Cremona diedero un altro Perugino, la Madonna tra

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i santi Giacomo e Agostino (Cremona, Sant’Agostino), oltre a opere di Palma il Vecchio e Bernardo Strozzi. Quando i francesi entrarono a Verona, città che apparteneva alla Repubblica di Venezia, pretesero dieci tra rilievi e busti di bronzo, 70 medaglie, 46 incunaboli e 23 prime edizioni del famoso tipografo veneziano Aldo Manuzio, come pure 13 dipinti. I rilievi in bronzo erano gli otto comparti laterali del sarcofago di marmo sul sepolcro Della Torre nella Chiesa di San Zeno, ed erano opera dello scultore veneziano Andrea Rizzo. Si trattava, per l’epoca, di un’eccezione, poiché la scultura del primo Rinascimento non era quasi considerata, e perfino maestri come Donatello o Verrocchio non suscitavano alcun interesse. Sempre a San Zeno il commissario napoleonico mise le mani su un’altra opera di raro pregio e d’importanza ancora maggiore, ossia la pala dell’altar maggiore di Andrea Mantegna raffigurante nella tavola centrale la Madonna in trono circondata da angeli in forma di putti, quattro santi a figura intera nelle tavole laterali e scene della Passione nella predella. Per facilitare il trasporto della grande pala e renderlo piú sicuro, l’opera fu suddivisa nelle sue varie parti, e ciascuna di queste, perfino le piccole tavole della predella, fu trattata come un’opera a sé. Il risultato dell’operazione, già attuata nei Paesi Bassi, fu che al loro arrivo a Parigi le varie tavole non vennero piú riunite (cosa che sarebbe stata in contrasto col sentimento antireligioso della popolazione), ma si dispersero in vari luoghi. Soltanto il lavoro di varie generazioni di studiosi ha permesso di ricostruire il polittico nella sua interezza. A Mantova i commissari francesi si impadronirono di un altro capolavoro di Mantegna, la cosiddetta Madonna della Vittoria, oggi al Louvre. L’opera deve però questo nome non alla vittoria di Napoleone, ma alle circostanze della sua origine. Francesco Gonzaga, duca di Mantova e capo della resistenza contro l’esercito in-

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vasore di Carlo VIII, messo alle strette alla battaglia di Fornovo nel 1495, fece voto che in caso di vittoria avrebbe eretto una cappella con un altare in onore della Vergine. L’incarico di dipingere la pala d’altare, in cui lo stesso duca è raffigurato in preghiera, inginocchiato davanti alla Vergine, fu affidato a Mantegna. Sequestrata dai francesi, l’opera andò a raggiungere gli altri dipinti del maestro che con l’eredità di Richelieu erano giunti al Louvre dal castello di Mantova, e che appartenevano al ciclo poetico-allegorico commissionato a Mantegna, Perugino e Lorenzo Costa per lo Studiolo di Isabella d’Este, la piú raffinata intenditrice d’arte fra le principesse del suo tempo. Nel gennaio 1797, quando la fortezza di Mantova si arrese dopo un assedio durato dieci mesi, i commissari francesi la trovarono praticamente vuota dei capolavori che aveva un tempo ospitato, e che erano stati venduti nel diciassettesimo secolo al re Carlo I d’Inghilterra e al cardinale Richelieu. Essi dovettero perciò accontentarsi di quel poco che era rimasto nelle chiese della città. Nella Cattedrale trovarono un’opera giovanile di Paolo Veronese, le Tentazioni di sant’Antonio, oggi al Museo di Caen. La grande chiesa gesuitica della Santa Trinità fu trasformata in un deposito militare, e le tre tele monumentali dipinte da Rubens nel 1604 per la cappella del duca Vincenzo Gonzaga, il suo primo protettore italiano, furono rimosse. In questo suo capolavoro italiano Rubens aveva raffigurato la famiglia Gonzaga in adorazione della Santissima Trinità: la famiglia vi appare raccolta sotto una tenda sorretta da angeli. Per via delle sue dimensioni la tavola centrale fu tagliata in maniera vandalica, e nel castello di Mantova se ne conservano solo alcuni resti, non destinati al trasporto. Solo la tavola laterale con la Trasfigurazione di Cristo fu inviata a Parigi, e piú tardi, per i forti danni subiti, trasferita a Nancy dove si trova tuttora nel museo locale. La tavola gemella col Battesimo di Cristo

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fu invece venduta a un mercante italiano e giunse piú tardi al Museo di Anversa. Finito l’assedio di Mantova, e ottenuti nuovi rinforzi dall’armata del Nord per il controllo dell’Italia settentrionale, Napoleone si sentí abbastanza forte da fronteggiare il pericolo e l’ostilità crescente di Roma. È vero che il plenipotenziario francese Cacault due mesi dopo l’armistizio di Bologna aveva riferito da Roma che la scelta delle opere d’arte procedeva ed era in grado di spedire l’elenco. Ma le trattative di pace che dovevano seguire l’armistizio segnavano il passo, e nello stesso tempo Napoleone fu informato che il Vaticano stava preparando un nuovo esercito con l’aiuto di ufficiali austriaci e sotto la guida del generale austriaco Colli. D’altra parte il papa non aveva osservato le clausole dell’armistizio, che prevedevano il pagamento di ben 46 milioni di scudi (venti milioni di lire), e ritardava la spedizione delle opere d’arte e dei manoscritti. Quando il governo francese mandò a Roma un ultimatum – era l’8 settembre – il papa, seguendo il consiglio dei cardinali e segretari di Stato Mattei, Braschi e Albani, ruppe le trattative e dichiarò nullo l’armistizio di Bologna. Cosí agli inizi del febbraio 1797 un corpo di spedizione sotto la guida del generale Victor si mise in marcia lungo la costa adriatica attraverso gli stati pontifici della Romagna e delle Marche, dopo avere sconfitto il Colli e i suoi tremila soldati pontifici nella battaglia decisiva di Faenza, e occupò le città da Forlí ad Ancona. Poi attraversò l’Appennino, si ricongiunse con un secondo esercito proveniente da Nord e prese possesso dell’Umbria occupando Foligno, Cortona e Perugia. Il 12 febbraio gli emissari pontifici firmarono il trattato di pace di Tolentino nel quartier generale di Napoleone, che aveva seguito la facile avanzata delle sue truppe. Alcuni giorni piú tardi Napoleone stesso scrive al Direttorio riferendo gli ultimi avvenimenti: «La com-

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missione degli esperti [cioè la commissione per le opere d’arte] ha fatto un buon raccolto a Ravenna, Rimini, Pesaro, Ancona e Perugia. Queste opere verranno subito spedite a Parigi. Con queste, e con quelle che spediremo da Roma, tutto quello che c’è di bello in Italia sarà nostro, a eccezioni di alcuni pezzi che si trovano a Torino e a Napoli». Queste frasi spavalde mettono in luce l’idea approssimativa che Napoleone aveva del patrimonio artistico italiano, ma contengono pure un fondo di verità: le opere d’arte assicurate dagli accordi di Tolentino furono, per numero e importanza, una pietra miliare nella storia del Louvre, e lo stesso trattato di Tolentino serví da modello per le conquiste successive. Esso infatti stabiliva espressamente che la nazione francese diventava proprietaria a tutti gli effetti delle opere in questione. Mentre nell’Italia del Nord la scultura classica greca e romana, cioè l’unica che rispondesse ai gusti dell’epoca, era assai poco rappresentata (per esempio nelle gallerie di Modena e di Parma), giungendo a Roma i commissari si trovarono improvvisamente di fronte a una quantità di opere celeberrime, opere che, come il Laocoonte tanto venerato da Winckelmann, erano ben note a tutti gli intenditori d’arte del ’700. Per i commissari napoleonici si trattava dunque di scegliere il meglio dalla secolare abbondanza delle raccolte pontificie. Ma prima che i commissari Berthélemy, Daunou, Picault e Dutertre giungessero a Roma, Monge e Tinet erano già all’opera nelle Marche e nell’Umbria. Il 18 febbraio, con un’ordinanza scritta del generale Victor, Tinet presentò ai magistrati di Perugia un elenco di opere da confiscare nel loro territorio. Le autorità locali si piegarono alla richiesta, ma scrissero nello stesso tempo a Napoleone facendogli presente che già l’anno prima, a seguito degli accordi di Bologna, un Raffaello e un Perugino avevano lasciato la città alla volta di Roma. Come suole accadere in questi casi, il passo fu

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senza esito, e Tinet poté svolgere tranquillamente il suo lavoro incominciando a mettere sotto sequestro alcune pale d’altare di Raffaello provenienti dalle chiese di San Francesco e di Santa Maria di Monteluce. Si trattava della Incoronazione della Vergine e dell’Assunzione oggi ai Musei Vaticani (quest’ultima portata a termine da Giulio Romano), e infine della Deposizione con la predella delle Virtú teologali (Roma, Galleria Borghese). Sebbene la pittura italiana del Quattrocento con le sue varie scuole fosse allora pressoché ignorata o comunque tenuta in scarsa considerazione, il Perugino, come maestro del «divino» Raffaello, faceva eccezione alla regola. Opere del Perugino erano già state confiscate a Cremona e a Bologna, ma a Perugia quasi ogni chiesa ne conteneva una o piú di una, e poiché la maggior parte di esse è rimasta in Francia è facile ricostruire il bottino di allora. Tra i capolavori del maestro il Vasari cita lo Sposalizio della Vergine (Caen, museo), dipinto dal Perugino nel 1502 per la Cattedrale di Perugia e precisamente per la Cappella del Sacro Anello, che vi era custodito e venerato come reliquia. Già allora si riconosceva l’influsso che l’opera del Perugino aveva esercitato sullo Sposalizio della Vergine di Raffaello, dipinto due anni piú tardi e oggi a Brera. In totale furono sequestrate nove pale d’altare, intere o parziali, dalle chiese di Sant’Agostino, San Francesco, San Pietro, della Misericordia, e dalla Cappella del Palazzo Comunale di Perugia: opere oggi disperse tra i musei di Caen, Grenoble, Lione, Bordeaux, Rouen, Tolosa e Nantes. Anche in questo caso si vide con chiarezza quali effetti nefasti poteva avere lo smembramento delle pale d’altare. La tavola centrale dell’altar maggiore di Sant’Agostino, raffigurante l’Ascensione (altro motivo ripreso da Raffaello), si trova oggi al Museo di Lione, la parte superiore con Dio benedicente nella Chiesa di Saint-Gervais a Parigi, i Profeti delle parti laterali a Nantes, Perugia e Roma (Vaticano), e la

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predella al Museo di Rouen. Da Foligno e Loreto giunsero due opere tra le piú famose della maturità di Raffaello, due Madonne conosciute entrambe coi nomi dei luoghi di provenienza. Mentre però la Madonna di Foligno è ben familiare ai milioni di visitatori della Pinacoteca Vaticana, quella di Loreto scomparve misteriosamente. Quando la cassa che la conteneva fu aperta a Parigi se ne trovò, cosí almeno si racconta, soltanto una copia (scomparsa a sua volta), benché alcuni studiosi vogliano vedere l’originale in una tela, molto ridipinta, della collezione Paul Getty. Entrando a Città di Castello, il generale francese Lechi indusse l’amministrazione comunale a «donargli» un altro originale di Raffaello, il già citato Sposalizio della Vergine, che lo stesso Lechi vendette piú tardi per 50 000 lire alla Pinacoteca di Brera. L’avanzata fruttò anche numerose opere di Federico Barocci, che fu com’è noto, insieme al Correggio, uno dei precursori del Barocco ed esercitò un grande influsso su Rubens nel suo periodo italiano. Nella sua regione d’origine, le Marche, la Cattedrale di Pesaro e il Palazzo Apostolico di Loreto dovettero cedere due Annunciazioni quasi gemelle (oggi al Museo di Nancy e alla Pinacoteca Vaticana), il Convento della Confraternita del Sacro Nome una Circoncisione di Cristo del 1580 (Parigi, Louvre) e la Confraternita di Sant’Andrea una Vocazione degli apostoli Pietro e Andrea (Bruxelles, museo). Come risulta dalla corrispondenza col Direttorio, gli elenchi delle opere da sequestrare erano già pronti, a Roma, sin dalla fine di marzo, e il 10 aprile a Parigi la lista dei tesori già requisiti (Corr., vol. 16, pp. 511 e 525 sgg.). Poiché le opere dovevano essere imbarcate a Livorno, in territorio toscano, Napoleone incaricò il legato francese a Firenze, Manfredini, di chiedere al granduca una sorveglianza particolare. Almeno una parte dei quadri vaticani lasciò dunque Roma in questo

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periodo, mentre diversa fu, come vedremo, la sorte delle sculture. In un’altra lettera al Direttorio, spedita da Mestre il 21 maggio, Napoleone esprime la sua soddisfazione per il fatto che una parte delle opere romane era già in viaggio, e aggiunge: «Berthollet e Appiani sono a Verona e a Venezia, dove stanno raccogliendo vari oggetti d’arte». Questo accenno e lo stesso soggiorno di Napoleone a Mestre avevano un significato particolare: prima di seguire gli sviluppi della spedizione romana torneremo dunque a occuparci del Nord, dove intanto la situazione politica aveva subito un improvviso mutamento, non privo di conseguenze sulla campagna delle requisizioni. Subito dopo l’armistizio di Tolentino Napoleone fu richiamato verso Nord da nuove azioni militari austriache nell’alta Val d’Adige e nel Tirolo. Il secondo giorno della Settimana Santa del 1797 le città dell’entroterra veneziano con Verona in testa si ribellarono contemporaneamente all’occupazione francese, alle spalle delle truppe che erano ormai penetrate in Friuli. Sobillata dalla Chiesa e dall’aristocrazia e con l’appoggio segreto di Venezia che auspicava una vittoria austriaca nel Tirolo, la popolazione diede la caccia ai francesi, compresi i civili e i feriti negli ospedali. Napoleone ordinò al generale Augerau di reprimere la sommossa, e la sua vendetta contro Verona e Venezia fu drastica. Anche la Serenissima che, in quanto neutrale, era stata risparmiata dalle azioni militari, dovette subire la sorte delle altre città conquistate. Se Verona si era limitata in precedenza a modesti contributi di guerra, questa volta il prezzo fu molto alto: 170 000 zecchini di risarcimento per le perdite subite insieme a tutte le argenterie delle chiese e degli edifici pubblici e gli oggetti di valore della pubblica cassa di risparmio, il Monte di Pietà, tutti i quadri e opere d’arte, appartenenti a privati, a chiese e comunità religiose (Corr., vol. 3, p. 22). La Cattedrale di Verona

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dovette consegnare la pala d’altare dell’Assunzione di Maria di Tiziano, le chiese di San Giorgio di Braida e di Santa Maria della Vittoria tre grandi quadri di Paolo Veronese, rispettivamente il Martirio di san Giorgio, Barnaba risana gli infermi (entrambi al Museo di Rouen), e la Deposizione (Verona, Pinacoteca). Due ritratti del Veronese, come pure la Sacra famiglia con sant’Orsola (Parigi, Louvre) furono sequestrati nel palazzo dei nobili Bevilacqua insieme al notevole bozzetto a olio di Jacopo Tintoretto per il grandioso Giudizio universale del Palazzo Ducale di Venezia (Parigi, Louvre), e a una raccolta di 2250 monete d’oro e d’argento di varia epoca, dall’antichità al barocco. Napoleone stesso dettò a Mestre le condizioni per Venezia, il cui governo e i cui Inquisitori erano considerati i principali responsabili della rivolta. Gli inquisitori furono arrestati, il doge e il governo deposti, la flotta requisita; la città si vide imporre inoltre un risarcimento di sei milioni di sesterzi tra denaro contante e oggetti di valore, tra cui venti quadri e 500 manoscritti di proprietà dello Stato. Il generale Baraguay-d’Hilliers occupò con le sue truppe la città lagunare, e i commissari napoleonici poterono mettersi all’opera. Come già in precedenza, Napoleone aveva stabilito il numero delle opere da requisire senza conoscere l’entità effettiva del patrimonio artistico veneziano, col risultato che i commissari si trovarono ancora una volta di fronte a un compito quasi impossibile. Benché le clausole parlassero solo di quadri, sotto il controllo delle truppe francesi venne rimosso anche il leone di bronzo, simbolo della città, che fin dal Medioevo dominava piazza San Marco, e cosí pure i quattro cavalli di bronzo sulla facciata della basilica, che i veneziani avevano portato da Costantinopoli nel 1204 e di cui sentiremo ancora parlare. Per dare alla cosa una parvenza di legalità furono tolti dall’elenco due quadri, anche se poi, all’atto pratico, il numero rimase invariato.

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Allo scopo di umiliare il governo della Serenissima furono sottratti cinque dipinti dai soffitti del Palazzo Ducale, opere del resto poco significative: si trattava dell’Allegoria del doge Antonio Grimani, attribuita a Tiziano ma dipinta dal suo aiuto Contarini, della Allegoria della Fede di Tiziano e di tre quadri di Paolo Veronese dal soffitto della Sala dei Dieci, Giove fulmina i vizi, San Marco incorona le virtú religiose e Giunone distribuisce doni a Venezia (Parigi, Louvre). Infine, dall’anticollegio del Palazzo Ducale fu sottratta la grande tela di Paolo Veronese col Ratto d’Europa (oggi nuovamente al Palazzo Ducale), una delle molte versioni eseguite dal maestro. Come in Olanda Rubens e Van Dyck, i pittori piú ricercati della scuola veneziana erano Tiziano, Veronese e, in misura minore, Jacopo Tintoretto. Due tra i piú grossi dipinti del Veronese – le Nozze di Cana (Parigi, Louvre) e la Cena in casa di Levi (Venezia, Accademia) furono prelevati rispettivamente dal Convento di San Giorgio Maggiore, sull’isola omonima di fronte al Palazzo Ducale, e dalla Chiesa di San Giovanni e Paolo. È un mistero come queste tele gigantesche, sia pure arrotolate, abbiano potuto raggiungere senza danni il porto di Livorno, percorrendo le strette strade appenniniche su carri trainati da buoi. Ma bisogna dire che i francesi fecero, in questo senso, veri miracoli. Sempre da San Giovanni e Paolo, uno dei luoghi d’arte piú ricchi della città, andò ad arricchire il bottino un dipinto di Tiziano allora tra i piú venerati, il Martirio di san Pietro, che sarà distrutto piú tardi da un incendio. Delle altre grandi pale d’altare di Tiziano, di cui Venezia abbondava, i commissari francesi ignorarono curiosamente la magnifica Madonna di Ca’ Pesaro, opera giovanile conservata nella Chiesa dei Frari, come anche l’Annunciazione e la Trasfigurazione della Chiesa di San Salvatore e i quadri dedicati a soggetti dell’Antico Testamento della Sacrestia della Chiesa della Salu-

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te, per soffermarsi su una tela piuttosto infelice, sia per le tonalità piuttosto scure che per il soggetto, come il Martirio di san Lorenzo della Chiesa dei Gesuiti. Una scelta a cui non fu probabilmente estraneo il giudizio del Vasari, che ne loda gli effetti di luce. Dalla Chiesa della Madonna dell’Orto, nota per due opere di Jacopo Tintoretto, a tutta parete, il Giudizio finale e l’Adorazione del vitello d’oro, fu sottratto solo un dipinto piú piccolo, sempre del Tintoretto, Sant’Agnese che resuscita Licinio. I commissari francesi non si lasciarono però sfuggire un’opera rivoluzionaria del maestro, il Miracolo di san Marco, dipinto nel 1548. Dallo stesso edificio, contiguo alla Chiesa di San Giovanni e Paolo, arriverà piú tardi La consegna dell’anello al Doge, di Paris Bordone. Una delle tre versioni del monumentale Cena a casa di Simone Fariseo di Paolo Veronese (a Brera), fu sequestrata nel refettorio del Convento di San Sebastiano, mentre la Chiesa di San Zaccaria dovette consegnare la Madonna in trono con santi, sempre del Veronese. E sempre a San Zaccaria fu prelevata l’unica pala d’altare del piú grande maestro veneziano anteriore a Tiziano, la Vergine in trono con santi di Giovanni Bellini, dipinta nel 1506: era la sua prima opera, e doveva dirigersi verso l’Europa del Nord. Poiché il Miracolo di san Marco del Tintoretto e il Paris Bordone furono scelti da un certo «cittadino Erdewardo», un inglese residente a Venezia che lavorava per i francesi come plenipotenziario della commissione artistica, e che lavorò piú tardi come esperto per la Pinacoteca di Brera, è probabile che anche l’inconsueta scelta del Bellini si debba a lui. Benché Napoleone, in una lettera spedita il 13 settembre da Montebello, dichiarasse che i commissari per le opere d’arte avevano concluso la loro missione in Italia, le requisizioni e i trasferimenti di opere d’arte erano ancora ben lontani dalla fine. Le trattative di

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pace con gli austriaci andavano a rilento, poiché questi ultimi speravano, dopo l’armistizio di Leoben (18 aprile 1797), in un colpo di Stato contro il governo di Parigi, e Napoleone, aspettando di ratificare il trattato, tenne Venezia in ostaggio. Insieme ai quattro cavalli di bronzo furono sequestrate altre sculture dall’antica raccolta conservata alla Biblioteca Marciana, tra cui un busto di bronzo dell’imperatore Adriano, di grandezza superiore al naturale, e un rilievo ellenistico raffigurante un sacrificio. Quando finalmente, il 3 ottobre 1797, fu firmata la pace di Campoformio che riuniva i vecchi principati dell’Italia settentrionale nella Repubblica Cisalpina, lasciando però Venezia agli austriaci, Napoleone incaricò il suo rappresentante generale Berthier, nuovo comandante in capo delle truppe in Italia, di assicurarsi «che i quattro cavalli di bronzo e il leone, insieme alle altre opere d’arte, venissero evacuati» (Corr., vol. 3, p. 466). Berthier gli rispose affermativamente: «Les fregates la Diane et la June sont ici, j’ai vu à bord de la Diane les quatre chevaux de Venise». Tuttavia, a eccezione di diciassette quadri già spediti, la maggior parte delle opere d’arte vaticane, già scelte e in parte imballate, si trovavano ancora a Roma. Quando Napoleone, vincitore non incoronato della campagna d’Italia ed eroe popolarissimo della Repubblica, fece ritorno a Parigi, il Direttorio organizzò in suo onore un banchetto con settecento invitati. Come cornice adeguata all’avvenimento fu scelta la Grande Galleria del Louvre, dove per l’occasione furono esposti per la prima volta in pubblico gran parte dei quadri fiamminghi e italiani conquistati «sul campo». L’esperto Lebrun compilò un catalogo a stampa che serví da modello per le esposizioni successive. Purtroppo, le centinaia di candelabri che illuminarono la serata ebbero l’effetto di annerire le pareti di fumo e di rendere necessaria la chiusura della Galleria.

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Mentre Napoleone veniva festeggiato a Parigi e progettava un’invasione dell’Inghilterra destinata a rimanere sulla carta, i rapporti con Roma peggiorarono al punto di richiedere un intervento immediato. Una parte del Direttorio auspicava che il papa venisse deposto e lo Stato della Chiesa trasformato in una repubblica, cosa che Napoleone aveva evitato per rispetto verso i sentimenti religiosi degli italiani. Dopo che già nel 1796 un legato francese a Roma era stato assassinato, un altro incidente portò la tensione al punto di rottura. Ai primi di settembre il fratello maggiore di Napoleone Giuseppe Bonaparte aveva preso il posto del plenipotenziario Cacault, portando con sé come aiutanti il figliastro di Napoleone Eugenio Beauharnais e il giovane generale Duphot, fidanzato con la cognata Desirée Clary. L’ambasciata si trovava a Palazzo Corsini in Trastevere, e i «patrioti» locali, che si immaginavano piú sicuri sotto la protezione dei francesi, organizzarono il 27 dicembre una dimostrazione a favore della repubblica davanti all’ambasciata francese: tra loro il fanatico scultore Caracchi che verrà poi impiccato a Parigi come sovversivo. Nel momento in cui Duphot usciva dall’ambasciata per calmare la folla, la polizia papalina aprí il fuoco e Duphot venne ucciso. Lo sciagurato episodio, sommandosi a vessazioni di ogni genere, fece traboccare il vaso. L’11 gennaio Napoleone ordinò al comandante in capo Berthier di entrare nello Stato della Chiesa con 20 000 uomini e di occupare Roma «dans le plus grand secret». Il 9 febbraio Berthier bivaccava a Monte Mario, con i cannoni puntati contro Castel Sant’Angelo, e pretese la resa e la consegna delle armi aa parte delle truppe papaline. Il giorno dopo i francesi entrarono nella città, e da allora Roma fu considerata a tutti gli effetti territorio occupato, e trattata di conseguenza. Berthier pretese un risarcimento straordinario di quattro milioni di piastre, pagabili in tre rate. Il papa e

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il governo papalino furono deposti e venne insediata una repubblica romana, gli innumerevoli ordini religiosi furono soppressi e i loro beni confiscati, come era già successo dappertutto. Mentre Berthier dichiarava nel suo appello alla popolazione che la guarnigione francese si sarebbe recata al Campidoglio per rendere omaggio ai grandi uomini della repubblica, in un altro documento si legge: «Il sera enlevé de la ville de Rome des tableaux, livres et manuscripts, statues et objets d’art qui seront dignes d’être transportés en France d’après l’ordre du généralen-chef sur l’avis d’une commission ad hoc». Benché un pubblico avviso assicurasse ai romani che nessuno avrebbe toccato i loro antichi monumenti, il generale Pommereuil propose di rimuovere le colossali statue di Castore e Polluce sui loro destrieri da Monte Cavallo, e lo stesso Daunou valutò la possibilità di smontare la colonna Traiana. Per fortuna entrambi i piani fallirono di fronte alle insormontabili difficoltà del trasporto. In compenso, fu spedito a Parigi l’obelisco egizio destinato alla Place Vendôme. Per provvedere alla scelta e al trasporto delle opere d’arte e dei libri, Napoleone raccomandò al ministro degli Interni di inviare a Roma una nuova commissione, proponendo in particolare i nomi di Berthélemy, Picault (il restauratore del Musée Central) e Dutertre. Dopo l’abdicazione e la partenza del papa i commissari furono incaricati di compilare un inventario dei tesori raccolti al Vaticano e al Quirinale. Una volta messi da parte i pezzi destinati a Parigi, gli antiquari al seguito dell’esercito di occupazione poterono fare le proprie offerte per le opere rimanenti delle collezioni pontificie. La celebre serie degli arazzi di Raffaello tessuti a Bruxelles con le storie degli Apostoli fu aggiudicata al prezzo di 1250 piastre per ogni arazzo. Resoconti di testimoni oculari, biografie, diari, lettere e cataloghi dànno un’idea abbastanza completa di

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questo sistematico saccheggio della città. Cosí il generale Thibaut: «Dès l’arrivée des troupes à Rome, c’està-dire le dix février, le commandant militaire laisse enlever sans bordereaux ou reçus les diamantes, tableaux, statues, objets d’art appartenant au Gouvernement, aux Anglais, à la maison Albani, aux émigrés et proscrits». Lo scultore svizzero Heinrich Keller, che teneva a Roma una scuola d’arte, scrive in una lettera a un amico: «La distruzione è spaventosa. I quadri piú belli vengono venduti per prezzi ridicoli [...] Quanto piú sacro è l’oggetto, tanto piú basso è il prezzo. Ieri sono andato al Campidoglio, dove lo spettacolo è disperante. Antonio [la statua di Marco Antonio] è in una cucina, con un collare di legno e guanti di paglia. Il Galata morente è completamente imballato nella paglia, la splendida Venere è sepolta nel fieno fino al petto, mentre Flora aspetta in un sotterraneo dentro una cassa di legno». Un catalogo sommario, stampato col titolo «Specchio generale di tutti gli oggetti d’arte che partono da Roma a Parigi», elenca sei statue colossali, 170 figure singole e gruppi di marmo, 36 busti, 180 erme e busti piú piccoli, oltre a una quantità di rilievi, mosaici, bronzi, vasi e terrecotte. Le antichità piú ammirate delle gallerie vaticane e capitoline e del Museo Pio-Clementino erano il Laocoonte, l’Apollo e il Torso del Belvedere, la Venus pudicitia del Campidoglio, l’Apollo sauroctono appoggiato al tronco di un albero e il Fanciullo che strozza l’oca, copia romana di un bronzo di Boeto di Calcedonia descritto da Plinio. A questi vanno aggiunti il celebre Spinario di bronzo, l’Amazzone di Villa Mattei, una delle molte copie della Amazzone ferita da Fidia, il gruppo ellenistico di Amore e Psiche giovinetti nell’atto di abbracciarsi, dell’Aventino, la Arianna dormiente, il cosiddetto sarcofago della Nereide, il Discobolo di Mirone, ritrovato pochi anni prima, nel 1792, il Galata morente, la Flora della Villa Adria-

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na, il Meleagro, rilievo con le Muse e Apollo proveniente dalla villa di Cassio, le statue colossali del Nilo e del Tevere ecc. Le biblioteche, e in particolare quella vaticana, diedero un bottino anch’esso incalcolabile di stampe antiche e di manoscritti in parte miniati, che furono spediti alla Bibliothèque Nationale di Parigi in 350 casse. L’erudito francese La Porte du Theil propose addirittura di trasferire a Parigi l’intero «fondo Regina», ossia la biblioteca che Cristina di Svezia aveva lasciato al papa in eredità, col pretesto che buona parte di quei volumi le erano stati venduti dal collezionista Peteau durante il suo soggiorno parigino. Daunou, che governava la città in qualità di plenipotenziario, riferí nel mese di maggio che le sculture di Villa Albani riempivano da sole 280 casse, e che in tutto le casse sarebbero state da 450 a 500. I cardinali Albani e Braschi, i quali, come si è detto, erano considerati i principali responsabili della politica antifrancese del Vaticano, dovettero pagare col sacrificio delle loro collezioni. Si trattava, anche a giudicare con un metro romano, di due tra le collezioni piú ricche del paese, frutto dell’instancabile passione archeologica dei rispettivi proprietari: i piú illustri conoscitori di scultura antica del ’700. In particolare, il cardinale Alessandro Albani, grande rivale di papa Clemente XII, fondatore del Museo Pio-Clementino, non solo inaugurò a proprie spese gli scavi di Villa Adriana e del Foro (per citarne solo alcuni), ma era in stretto contatto anche con i mercanti inglesi di Roma, Gavin Hamilton e Thomas Jenkins, i quali, in cambio del permesso di esportazione, gli lasciavano spesso i pezzi migliori. Nell’elenco delle opere sequestrate a Villa Braschi si trovano registrati, oltre alle innumerevoli sculture, anche alcuni dipinti, tra cui soprattutto il grande ritratto equestre di Francisco Moncada, eseguito da Anton van Dyck, tuttora al Louvre. Inoltre due Profeti di Ribera,

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un Caravaggio noto come Il venditore, una Cena di Emmaus di Bernardo Strozzi (Grenoble, museo), e una Madonna attribuita a Raffaello. Quest’ultimo dipinto racchiude un enigma: potrebbe infatti trattarsi di un quadro attribuito a Giulio Romano e oggi al Louvre (1419; anch’esso proveniente da Villa Braschi), ma potrebbe anche essere la Madonna di Loreto, di cui si tramanda che per metterla in salvo nel 1797 dalle mani dei francesi fu nascosta proprio a Villa Braschi. È difficile stabilire con esattezza quante opere d’arte di valore unico andarono distrutte o disperse in quei giorni. Tra i lavori di oreficeria sequestrati nelle chiese di Roma su ordine di Berthier figuravano le due effigi degli apostoli Pietro e Paolo di San Giovanni in Laterano, commissionate nel 1369 da papa Urbano V al senese Giovanni di Bartoldo. Furono spogliate delle pietre preziose che le rivestivano e l’oro venne fuso. Lo stesso Pio VII, per pagare i contributi di guerra previsti dagli accordi di Tolentino, aveva fatto fondere in precedenza la fibbia di oro lavorato del paramento liturgico di Giulio II, opera del Caradosso, e una spilla di Benvenuto Cellini. Per compiacere la moglie di Napoleone Giuseppina, di cui era noto l’amore per i preziosi, Berthier le inviò il celebre cammeo di onice con i ritratti di Cesare Augusto e della moglie Livia. Per quanto riguarda la pittura, Roma era, allora come oggi, una miniera di opere del tanto ammirato barocco seicentesco, e già l’anno prima i commissari avevano destinato a Parigi le piú importanti tra quelle conservate al Vaticano e al Quirinale: il Martirio di sant’Erasmo, insieme alla Crocifissione di san Pietro di Guido Reni e alla monumentale tela del Guercino Sepoltura e ascensione di santa Petronilla, del 1613 (tutte al Museo Capitolino di Roma); una tela del Domenichino di dimensioni analoghe, la Comunione di san Gerolamo del 1614 (sempre a Roma al Museo Capitolino) proveniente dalla Chiesa di San Gerolamo della Ca-

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rità, una Pietà di Annibale Carracci da San Francesco a Ripa, la Sacra famiglia di Giulio Romano dalla Chiesa di Santa Maria dell’Anima, e dalla Chiesa Nuova la celebre Deposizione di Michelangelo da Caravaggio, a cui Rubens si ispirò direttamente per un quadro di soggetto analogo. Curiosamente i commissari francesi lasciarono al loro posto i tre grandi quadri del Caravaggio della vicina Chiesa di San Luigi dei Fraricesi. Nessuna di queste opere poteva naturalmente competere con l’Ascensione o Trasfigurazione di Raffaello, proveniente dalla Chiesa di San Pietro in Montorio: l’ultima opera del maestro, portata a termine dopo la sua morte da Giulio Romano. Ancora Fuseli e Thomas Lawrence, rivedendolo a Parigi nel 1802, lo consideravano un capolavoro insuperabile. L’Incoronazione della Vergine di Monteluce, vicino a Perugia, attribuita allora a Raffaello ma probabilmente opera in buona parte di Giulio Romano, raggiunse piú tardi la Pinacoteca Vaticana, dove si trova tuttora. I commissari Thouin e Moitte insieme al pittore Gros scortarono i tesori romani lungo la via oggi consueta fino a Livorno e poi a Marsiglia via mare, per risalire quindi il Rodano, la Saône e i suoi canali fino alla Senna e a Parigi. Del trasporto da Marsiglia a Parigi si occupò un certo Vidal, fornitore militare, per la cifra di 17 400 franchi. Mentre le altre spedizioni di opere d’arte erano state accolte a Parigi senza particolare solennità, il loro arrivo si trasformò questa volta, su suggerimento di Thouin, in una grande festa popolare che ricordava insieme le feste rivoluzionarie e i trionfi romani. Il regista dell’avvenimento fu lo stesso Thouin, che aveva già assistito Jean-Louis David nell’organizzazione delle grandi solennità rivoluzionarie, e che in una lettera al Direttorio propose un piano dettagliato per l’ingresso trionfale delle opere d’arte italiane e del rimanente bottino di guerra. Nei giorni 27 e 28 luglio 1798 i parigini poterono

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cosí assistere, a bocca aperta, all’ingresso dei «Monuments des Sciences et Arts». Era un corteo interminabile: guidata dalle due statue colossali del Nilo e del Tevere, provenienti dal Vaticano, la processione si mosse dal Jardin des Plantes costeggiando la Senna fino al Champs de Mars e di qui al Louvre. Il contenuto delle casse era indicato da grosse scritte all’esterno, e tra le statue greche e quelle romane sfilava un manifesto con le parole. «la Grèce les céda, Rome les a perdu | leur sort changea deux fois | il ne changera plus». I quattro cavalli di bronzo di San Marco non erano imballati, ma come si vede in una stampa dell’epoca, vennero trasportati con un sistema di piattaforme e di rulli. Con una scenografia decisamente incongrua, i cavalli erano scortati dalle giraffe, dai cammelli e dagli altri animali esotici destinati al giardino zoologico. Furono quindi collocati su piedestalli marmorei all’estremità orientale delle Tuileries e infine, nel 1808, sull’Arc de Triomphe del Caroussel insieme a un carro della vittoria e ad altri accessori moderni. Il leone di bronzo di San Marco fu sistemato su una fontana agli Invalides. La grande Trasfigurazione di Raffaello aveva superato il lungo trasporto senza gravi danni, malgrado l’azione invisibile dei tarli, ma altri capolavori famosi, come la Glorificazione di santa Cecilia di Raffaello, proveniente da Bologna, il Martirio di san Pietro di Tiziano e la Vergine in trono con santi di Giovanni Bellini, dalla chiesa veneziana di San Zaccaria, furono trasferiti dal supporto di legno alla tela per opera dell’insigne restauratore del Louvre, Picault. Anche gli altri quadri furono in gran parte restaurati e liberati da secoli di vernici, di sporcizia e di ridipinture: una pratica allora inconsueta, che privava i quadri della loro patina anticheggiante, e che suscitò vivaci critiche fra gli artisti, abituati al loro aspetto tradizionale. L’artefice del trionfo, Napoleone, non poté vedere le dimensioni effettive del bottino romano, essendosi

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imbarcato il 19 maggio a Tolone per la Campagna d’Egitto. Tuttavia, l’esperienza italiana lo indusse a formulare progetti altrettanto grandiosi anche per il Vicino Oriente: per aprirsi la strada in quei paesi, e con l’idea di fondare un Istituto Orientale sul modello parigino, portò con sé 75 studiosi di vari campi, astronomi, geologi, economisti, agronomi e archeologi. Oltre al già citato Gaspard Monge, che fu eletto presidente, e ad alcuni dei commissari di cui abbiamo già fatto conoscenza, come Berthollet, faceva parte del gruppo anche Vivant Denon, allora sconosciuto, che doveva svolgere un ruolo di primo piano in tutte le imprese artistiche dell’Impero. Insieme all’architetto Lepère, all’incisore Dutertre e alcuni altri, Denon fu incaricato di studiare i monumenti archeologici dell’Egitto, di farne il rilievo e di disegnarli. Mentre l’esercito francese sotto la guida dei generali Desaix e Belliar, dopo la vittoriosa battaglia di Gizeh avanzava verso Tabe, Karnak e Luxor nell’Alto Egitto, Denon e i suoi collaboratori erano impegnati a studiare piramidi, templi, statue colossali e altri monumenti faraonici. L’aiutante di campo Savary riferí piú tardi nelle sue memorie: «[Denon] ci incaricava di misurare i monumenti, lui invece li disegnava, e di questi schizzi mandò al Cairo un intero carico di cammello». Uno di questi studi ritrae il tempio di Amenofi III, vicino ad Assuan: il tempio venne distrutto nel 1822 ed è merito di Denon se almeno il suo aspetto non ci è ignoto. Sia Denon che Lepère pubblicarono infatti i risultati del loro lavoro in grandi volumi di incisioni (1802 e 1809-23), che diedero all’Europa le prime immagini di una civiltà cancellata per secoli dalla storia. Ma fu soprattuto il Voyage dans la Haute et Basse Égypte di Denon a esercitare un influsso decisivo sulla nascita dello stile impero con i suoi motivi egizi e pseudoegizi. Quanto alle numerose opere d’arte raccolte durante i due anni di occupazione e custodite all’Isti-

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tuto Orientale del Cairo, passarono nelle mani degli inglesi dopo la capitolazione del corpo di spedizione napoleonico, e furono spedite a Londra anziché a Parigi. Con molta previdenza l’Istituto aveva fatto preparare dei calchi di gesso dei pezzi piú importanti, tra cui la cosiddetta stele di Rosetta, che i francesi avevano trovato nelle vicinanze di Alessandria e che con la sua iscrizione trilingue permise a Champollion di decifrare la scrittura geroglifica.

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Capitolo quarto Il saccheggio di Torino, Napoli e Firenze (1799-1800)

Ci sembra opportuno, a questo punto, iniziare un nuovo capitolo, benché gli avvenimenti successivi, fino al ritorno di Napoleone e alla pace di Lunéville, costituiscono un puro seguito di quelli finora descritti. Se il Direttorio nutriva il segreto desiderio di vedere Napoleone lontano dall’Europa, e proprio a tale scopo finanziava la sua piú che avventurosa spedizione in Egitto, non poteva però fare a meno, per ragioni di popolarità, di proseguire e rafforzare la sua brillante politica di conquista in terra italiana. Dopo che i territori austriaci e pontifici si erano trasformati in repubbliche sotto il controllo francese, gli unici principati ancora indipendenti erano il granducato di Toscana e i due regni di Savoia e di Napoli. Il Direttorio aspettava dunque l’occasione per modificare questo stato di cose e assicurarsi il controllo dell’intera penisola: soltanto, gli mancava l’intelligenza politica di Napoleone. Sia la Savoia che la Toscana avevano firmato nel 1796 un patto di neutralità e di amicizia con la Repubblica francese, e Napoleone non aveva ritenuto opportuno violarlo o mettere le mani sui patrimoni artistici dei due paesi. Ma l’8 dicembre il governo francese costrinse il giovane re Carlo Emanuele V di Savoia ad abdicare. Il padre Vittorio Amedeo I era morto da poco, e già da tempo si era ritirato in Sardegna, lasciando Torino, la sua capitale piemontese, nelle mani dei francesi. Il generale francese Clauzel, inviato per accogliere

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l’atto formale di abdicazione, pretese e ottenne a titolo di «omaggio» un quadro allora ammiratissimo della collezione reale la Donna idropica di Gerard Dou, di cui fece dono alla nazione francese, e dunque al Louvre. Ebbe cosí inizio il saccheggio della collezione sabauda, che solo 47 anni prima si era arricchita in modo decisivo, quando il re Carlo Emanuele III aveva acquisito dall’erede del principe Eugenio di Savoia la sua celebre raccolta di quadri conservata al Belvedere di Vienna. I francesi insediarono a Torino un governo repubblicano provvisorio, e il 19 aprile 1799 una commissione artistica scelse a Palazzo Reale 40 quadri, che furono inviati a Parigi in due tornate successive. Il governatore francese, generale Fiorillo, si impadroní a titolo personale di 27 dipinti. Tra le opere destinate al Louvre, e che vi furono esposte lo stesso anno, occupava il primo posto la piccola Annunciazione di Rogier van der Weyden, tuttora al Louvre, e appartenente a un trittico la cui portella di destra con la Visitazione fu lasciata stranamente a Torino. Attribuito in precedenza, come molti primitivi, a una generica «école allemande», l’Annunciazione fu esposta per la prima volta al Louvre col nome del suo vero autore, e catalogata già nel 1814 come opera di «Rogier de Bruges». Dalla raccolta reale furono inoltre sottratti due importanti quadri di Anton van Dyck, e precisamente i figli di Carlo I d’Inghilterra e un Baccanale ripreso da un originale tizianesco (entrambi a Torino); un piccolo quadro di Rembrandt attribuito a Jan Lievens (Torino); tre tele attribuite a Nicolas Poussin, di cui soltanto una, la Santa Margherita è riconosciuta oggi come opera sua (Torino); tre quadri di Guido Reni, l’Apollo e Marsia (Tolosa, museo), Adamo ed Eva e Giovanni nel deserto (entrambi a Torino); due ritratti di Bartholomaeus Bruyn attribuiti allora ad Hans Holbein (Tori-

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no), piú altre opere di Dou e svariati quadri di genere olandesi, dei due Mieris, Schalken, Slingeland e cosí via, provenienti quasi tutti dal Belvedere. Questa prima spedizione precedette di poco l’arrivo degli austriaci, che in assenza di Napoleone erano tornati alla vittoria e nel luglio 1799 occupavano anche la capitale piemontese. Ma quando, dopo la battaglia di Marengo, il regno di Savoia cadde nuovamente in mano francese, i generali Dupont e Jourdan, ministri straordinari presso il governo provvisorio di Torino, si impadronirono di altri 84 dipinti delle collezioni sabaude, tra i quali il giovanile Ritorno del figliuol prodigo del Guercino e una Annunciazione di Orazio Gentileschi (entrambi a Torino). Piú fortunato e piú intelligente fu però il generale Soult, che prima di partire per Genova si impadroní di dodici quadri tra cui la Visitazione di Rembrandt: quadri che passeranno poi al duca di Westminster e, in tempi, piú recenti, all’Art Institute di Detroit. Ritroveremo Soult in Spagna, dove poté dare libero sfogo alla sua passione per i capolavori. L’occupazione della Toscana, avvenuta nel marzo 1799, fu un atto arbitrario, privo di qualsiasi giustificazione, dato il comportamento rigorosamente neutrale mantenuto dal granduca Ferdinando III durante tutto il periodo della campagna d’Italia. Ma il granduca era un principe di sangue asburgico, ostacolava la liberazione dell’Italia e il pericolo di uno sbarco alleato sulle coste toscane poteva offrire un buon pretesto. Il 9 aprile 1799 fu innalzato davanti a Palazzo Vecchio l’albero della libertà. Ferdinando era fuggito, portando con sé la Madonna del Granduca di Raffaello e l’ambita Venere Medici. Tra le poche collezioni principesche ancora intatte, quella medicea era di gran lunga la piú importante, specie dopo l’acquisizione, avvenuta nel 1631, di buona parte della Pinacoteca di Urbino. La raccolta era sistemata, allora come oggi, parte a Palazzo Pitti e parte

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agli Uffizi, e la cosiddetta «tribuna» di questi ultimi, riprodotta con fedeltà fotografica dal pittore inglese Zoffany, era un fondamentale punto di attrazione per tutti i viaggiatori e gli amatori d’arte del ’700. Si trovavano qui il Giovanni nel deserto di Raffaello, la Venere di Urbino di Tiziano, la Natività del Correggio e l’ammiratissima collezione di sculture ellenistiche tra cui il gruppo dei Lottatori, il Fauno danzante, l’Arrotino e cosí via. Questa parte della collezione medicea però – e fu l’argomento usato dal direttore Tommaso Puccini – era stata donata dall’ultima principessa Medici, Anna Maria, nel 1793, alla città e alla municipalità di Firenze. Con un gesto di singolare discrezione i francesi rinunciarono a sequestrarla. Accanto ai commissari di nuova nomina, i pittori italiani Benvenuti e Fadi, c’era il pittore Jean-Baptiste Wicar, da noi già incontrato, ottimo conoscitore delle raccolte fiorentine, sulle quali aveva già pubblicato un primo volume in-folio corredato da incisioni. Fu probabilmente lo stesso Wicar a scegliere le opere piú preziose di Palazzo Pitti, opere del resto cosí famose che la scelta si imponeva da sé. Non meno di otto opere di Raffaello, tra cui i due ritratti di Leone X e di Giulio II, i ritrattí dei cardinali Bibbiena e Inghirami, la Madonna della sedia e la Madonna del Baldacchino, come pure la Sacra famiglia della Impannata partirono alla volta di Parigi. A questi vanno aggiunte cinque opere di Tiziano, la cosiddetta Bella del 1536, che ritrae l’amante del duca di Urbino Francesco Maria della Rovere, Cristo salvatore dell’universo e La Maddalena, il Concerto e la Maddalena penitente. Quanto agli altri maestri del Rinascimento italiano furono scelti Le tre età dell’uomo attribuite a Giorgione, la Resurrezione di Cristo e il San Marco di fra Bartolomeo, l’autoritratto di Andrea del Sarto, la Deposizione dalla Croce e le Scene dalla storia di Giuseppe, sempre di Andrea del Sarto, il cruento Martirio di sant’Agata di Sebastiano del Piom-

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bo, la Danza delle Muse e la Sacra famiglia di Giulio Romano. La collezione Pitti era però ricca anche di opere di Rubens, e qui la scelta cadde sui due notevoli paesaggi, sui cosiddetti Quattro filosofi, opera giovanile che raffigura in realtà lo stesso Rubens col fratello Filippo e i dotti di Anversa Lipsio e Grozio, le Conseguenze della guerra e la grande Sacra famiglia, oltre al ritratto del cardinale Bentivoglio di Van Dyck. In totale furono portati via da Firenze 63 quadri e 25 «pietre dure» (tavole intarsiate): queste ultime erano anzi tenute in tale considerazione che nel 1815, per riaverle, il commissario fiorentino Alessandri rinunciò ai primitivi italiani oggi cosí ammirati al Louvre. L’ultimo Stato indipendente della penisola era ormai il Regno di Napoli. La sua linea politica era oscillante. Nel 1796 il marchese del Vasco aveva deciso un accordo militare con Roma, ma quando, dopo l’armistizio di Bologna, la superiorità di Napoleone fu evidente, il governo di Napoli si affrettò a ritirare le sue truppe per riavvicinarsi ai francesi, e dichiarò guerra allo Stato Pontificio. Quando poi giunse la notizia della disfatta francese ad Aboukir, nell’agosto 1798, la regina Carolina, che era una principessa austriaca e amica dell’ambasciatore inglese Lord Hamilton e di sua moglie Emma (di cui sono celebri i ritratti), indusse il governo borbonico a un riavvicinamento con gli alleati. L’indipendenza fu di breve durata, e come nell’Italia del Nord anche qui i francesi fecero pagare il tradimento a caro prezzo. Il generale Championnet ebbe l’ordine di mettersi in marcia da Roma verso Napoli; la città fu occupata il 20 gennaio 1799 senza opporre particolare resistenza, e i rivoluzionari locali furono incoraggiati a proclamare la repubblica. Il re Ferdinando IV fuggì a Palermo, prendendo con sé alcuni dei migliori quadri della sua collezione. Il nucleo piú ricco era però conservato nella Galleria di Capodimonte, sulla collina di Napoli, galleria che nel 1734 aveva incorporato per

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lascito ereditario la collezione Farnese di Parma. Il comandante in capo generale Championnet era egli stesso un appassionato di opere d’arte – gli dobbiamo un importante libro di memorie – e ordinò senza indugio di requisire 30 quadri che furono inviati a Roma, dove ricevettero una sistemazione provvisoria nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, utilizzata come deposito di opere d’arte, e a Palazzo Farnese. È curioso che nessuna delle celebri sculture antiche della collezione Farnese – trasferita da poco a Napoli e comprendente opere famosissime come il Toro farnese o l’Ercole farnese – abbia trovato allora strada per Parigi. Anche i quadri requisiti a Napoli raggiunsero la Francia molto piu tardi, e poco mancò che non ci arrivassero affatto. Mentre le opere di Firenze e di Torino giunsero in territorio francese prima della controffensiva austriaca del ’99, le cose a Napoli andarono infatti diversamente. Entro il giugno di quell’anno le forze austriache avevano nuovamente occupato tutti i territori conquistati da Napoleone e ripristinato l’«Ancien Régime». Nello stesso tempo, il governo delle Due Sicilie sotto la guida del conte Ruffo di Calabria aveva organizzato la resistenza: il 13 giugno riconquistò Napoli con l’appoggio della flotta inglese, e il 30 settembre fu la volta di Roma. Un certo cavalier Venuti di Napoli fu incaricato, nello stesso mese, di recuperare le opere sequestrate, e poiché i francesi avevano lasciato Roma in gran fretta, nella Chiesa di San Luigi si trovavano ancora numerose casse coi dipinti imballati e la scritta «Pour la République Française». La maggior parte dei quadri di Capodimonte fu recuperata cosí, ma a un certo numero di essi si trovava, come sostenne Venuti, nelle mani di privati che li avevano comprati dai commissari francesi o da ufficiali e che egli riacquistò. Per compensare le perdite il Venuti sequestrò poi altre opere nella stessa Chiesa di San Luigi, tra cui la grande tavola con l’Adorazione del Bambino di Jacob Cornelisz di Amsterdam, ma

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allora attribuita a Dürer (Napoli, museo), e altre di antica scuola italiana: Perugino, Ghirlandaio, Luini ecc. In quell’occasione anche Wicar perdette la sua prima raccolta di disegni di Raffaello e Michelangelo. I francesi accusarono i napoletani di avere rubato e distrutto preziose opere d’arte durante la loro occupazione di Roma, e nel 1801 il re di Napoli si impegnò, come vedremo, a restituire le opere rimpatriate, che ora cambiavano nuovamente proprietario. Quando Napoleone tornò dall’Egitto dopo un’assenza di 19 mesi, trovò una Francia inquieta e preoccupata. Correvano voci di un possibile colpo di Stato, e la sconfitta egiziana aveva scosso gli animi piú della perdita dell’Italia e delle minacce che accerchiavano il paese. Colpa evidente del Direttorio, della sua debolezza e corruzione. Al suo arrivo nel novembre del ’99, Napoleone conservava la sua popolarità quasi intatta, ed era sempre considerato il salvatore della Repubblica. Sfruttando il momento favorevole Napoleone destituí il Direttorio col colpo di Stato del 18 brumaio e si proclamò Primo Console di un triumvirato. Il grande traguardo era raggiunto, il potere politico e quello militare erano ora entrambi nelle sue mani. Il seguito è noto. Nel maggio del 1800 Napoleone attraversò con un esercito di coscritti il valico del Gran San Bernardo e sorprese gli austriaci alle spalle. La vittoria di Marengo, benché in se stessa modesta, rappresentò una nuova svolta e riaprí ai francesi le porte dell’Italia settentrionale e centrale. Basandosi su un’interpretazione molto personale del diritto di guerra Napoleone sostenne che le opere d’arte di Capodimonte, già sequestrate e poi riprese dai napoletani, erano proprietà della Francia. Il nuovo trattato di pace, firmato il 28 marzo 1801 col re delle Due Sicilie, prevedeva espressamente la loro cessione, e Dufourny, segretario del Musée Central, fu inviato in Italia perché la clausola diventasse operativa.

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Una lettera di Dufourny, pubblicata da Sylvie Béguin insieme ad altro materiale documentario, e gli elenchi dello stesso Dufourny, riferiscono di 41 quadri ritrovati nella chiesa romana di San Luigi dei Francesi e di nove altri che furono spediti a Napoli in cambio di altrettante opere scomparse. Paragonato all’effettiva ricchezza delle collezioni Farnese e Capodimonte il bottino sembra però inferiore alle energie profuse. Il pezzo piú pregiato è forse l’incantevole Madonna della Colomba, attribuita allora a Domenico Ghirlandaio ma opera in realtà di Piero di Cosimo, oggi al Louvre (Fondo Farnese). Tra le opere del Cinquecento e del Seicento ricorderemo la Resurrezione di Lazzaro di Bonifacio Veronese (Parigi, Louvre), l’Adorazione dei pastori e l’Annunciazione del pittore spagnolo napoletanizzato Giuseppe Ribera, una Sacra famiglia del pittore caravaggesco napoletano Bartolomeo Schedoni, un ritratto virile di Bartolomeo Strozzi e una Sofonisba di Mattia Preti (Lione, museo). A seguito del nuovo trattato di pace il re di Napoli finí per cedere anche la Venere Medici, messa in salvo da Firenze e tanto ambita da Napoleone. Prima del 1803, altre opere, come la tavola della Sacra conversazione di Cima da Conegliano, fecero ancora in tempo a raggiungere Parigi e il Louvre. La campagna d’Italia si chiudeva con un bilancio largamente attivo: non solo permise di risanare le finanze dello Stato francese e di restituire alla Francia quel ruolo di grande potenza che aveva avuto ai tempi di Luigi XIV, ma aveva anche messo in movimento l’intero patrimonio artistico italiano, convogliandone verso la Francia una parte preziosa, se non addirittura la piú preziosa. Inoltre essa favorí una diffusione non effimera dell’arte italiana, diffusione che forse avrebbe avuto luogo comunque, ma che ricevette allora un impulso decisivo. Il ritorno a Roma del governo pontificio, che rappresentava, un fatto doloroso per i patrioti locali, ebbe

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tuttavia un risvolto positivo per il futuro del Louvre: l’arrivo a Parigi di uno dei piú importanti studiosi vaticani, Ennio Quirino Visconti. Il nome dei Visconti, grande conoscitore del mondo classico e tra i fondatori della moderna archeologia, è citato ancora oggi con venerazione. Nato nel 1751, nel 1771 era già bibliotecario in Vaticano, e nel 1784 fu nominato conservatore del Museo Capitolino. Fautore delle idee illuministe, egli salutò come molti intellettuali la liberazione dell’Italia, e al momento della proclamazione della repubblica fu nominato ministro degli Interni. Ormai compromesso col vecchio regime, quando la città fu riconquistata dai napoletani fu costretto alla fuga e si diresse naturalmente a Parigi, dove fu subito nominato conservatore della sezione antica del Louvre, ed esercitò questa carica fino alla fine dell’età napoleonica. A lui si devono i primi volumi della Iconographie grecque et romaine, una pietra miliare della moderna scienza archeologica, proseguita poi dal suo successore Clarac. Nello stesso anno in cui Napoleone otteneva i suoi rapidi successi sul fronte meridionale e fondava la Repubblica Cisalpina, il generale Moreau, comandante in capo dell’armata del Reno, stornava la minaccia austriaca ai confini orientali infliggendo una sconfitta decisiva presso Hohenlinden all’arciduca Johann. La sua avanzata attraverso la Baviera fino a Salisburgo mise quindi alla portata dei francesi le grandi ricchezze artistiche della Baviera e della Franconia. Non solo c’era Monaco, la città di Albrecht Dürer, il cui nome aveva un significato emblematico per la pittura rinascimentale tedesca e anche olandese, ma c’erano anche le collezioni riunite di Casa Wittelsbach, di Pfalz Zweibrüchen e Düsseldorf, che formavano una delle piú ricche raccolte pittoriche in assoluto. Il direttore del Museo di Monaco Christian von Mannlich, che aveva già fatto esperienza di una invasione francese, cercò di nascondere i quadri piú preziosi nel castello di Ansbach, non lontano da Norimberga.

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Quando il plenipotenziario francese per le opere d’arte Neveu, professore all’École Polytechnique di Parigi, giunse a Monaco, scelse 72 dipinti dalle Residenze di Monaco e Schleissheim, e poi ad Augsburg e a Norimberga. Non erano tutte opere di prim’ordine, ma comprendevano fra le altre alcuni capolavori, come l’Incoronazione di spine, opera tarda di Tiziano (Monaco, Pinacoteca), che Neveu volle per la propria tomba e che andò ad affiancare al Louvre la versione giovanile dello stesso dipinto. Tra le numerose opere di Rubens acquistate dal duca Massimiliano I, Neveu destinò a Parigi la giovanile Adorazione dei Magi (Lione, museo), Meleagro e Atalanta (Monaco), come anche le scene di caccia ai verri e alle tigri (Marsiglia e Rennes) che il maestro aveva dipinto nel 1616 per il duca con la collaborazione dei pittori di animali e di paesaggio Snyders e Wildens. Con La battaglia di Alessandro di Albrecht Altdorfer, con due tavole di Hans Burgkmair, tre tavole di Hans Baldung Grien e, non in ultimo, coll’autoritratto giovanile di Dürer (Louvre), giunsero al Louvre anche i «primitivi» tedeschi, dopo i ritratti di Holbein dell’Aia. Nel 1815 La battaglia di Alessandro si trovava nella stanza da bagno di Napoleone a Saint-Cloud: l’imperatore voleva averla ogni giorno davanti agli occhi, probabilmente piú per il soggetto che per il suo valore artistico. Tra le opere di seconda scelta citeremo soltanto il quadro di Maerten van Heemskerck San Luca che dipinge la Madonna, oggi a Rennes, e l’Assunta di Piazzetta, che fu ceduta piú tardi al Museo di Lilla, mentre il bozzetto rimase a Schleissheim. Conformemente agli ordini ricevuti, Neveu consegnò al governo bavarese un elenco scritto delle opere sequestrate, elenco che permetterà al ministro Thiersch, nel 1815, di ottenere la restituzione di alcune fra le piú importanti, mentre quelle non restituite furono rimpiazzate da altri quadri di proprietà francese. Va

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detto però fin d’ora che pochi anni piú tardi la Baviera diventerà il piú stretto alleato di Napoleone e nemico dell’Austria. Il giovane principe elettore Massimiliano IV, che prima della Rivoluzione aveva militato nell’esercito francese, non aveva perduto le sue simpatie per la Francia: nel 1803 la Baviera fu risarcita a spese dell’Austria per la perdita dei territori a ovest del Reno, e nel 1805 fu innalzata al rango di Regno. Le nozze del figliastro di Napoleone Eugenio Beauharnais con la principessa bavarese Augusta rafforzarono ulteriormente i legami fra i due paesi, e la Baviera rimase cosí al riparo dal pericolo di altre requisizioni.

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Capitolo quinto Il «Musée Napoléon» e il riordino del bottino (1802-806) La politica museale di Vivant Denon

Col trattato di pace di Amiens tra Francia e Inghilterra, firmato nel marzo 1802, i lunghi anni di guerra sembravano dare i primi frutti. Fu, per tutta la Francia, un momento di generale sollievo, mentre i nuovi confini e i territori conquistati alimentavano la fiducia e l’ottimismo nel futuro. Sotto la guida di Napoleone, nominato nel frattempo console a vita, si fece il possibile per recuperare, in campo industriale, economico e culturale, il tempo perduto negli anni della guerra. Monge, Berthollet e il chimico Chaptal fondarono la «Société d’encouragement pour l’Industrie nationale», furono aperte 21 camere di commercio e, nel mese di settembre, fu inaugurata nel cortile del Louvre la prima esposizione europea dell’industria. Le vecchie manifatture artigiane, per cui la Francia andava celebre sotto l’Ancien Régime e che la Rivoluzione aveva fermato per mancanza di clientela, furono richiamate in vita dal nuovo lusso della società parigina, pronta a seguire l’esempio dell’imperatrice Giuseppina e dei suoi gusti stravaganti. Dal classicismo della scuola di David, arrivato in Francia con la campagna d’Egitto, nacque lo stile impero, in anticipo sull’Impero propriamente detto. Ci sembra difficile caratterizzare il clima di quegli anni meglio dello storico inglese Denis Sutton: «Fu l’illegittimità del potere napoleonico che conferí allo stile impero il suo carattere specifico. Gli uomini nuovi, i ge-

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nerali, i fornitori militari, i banchieri, gente del ceto medio, aspiravano a uno stile che confermasse la loro nuova posizione sociale e si trovavano a loro agio in un ambiente che esprimeva un ideale di sfarzo». Napoleone aveva dichiarato di voler fare di Parigi la piú bella città del mondo, e il momento sembrava propizio a una simile impresa. Piú ancora che nel cosmopolita secolo diciottesimo, Parigi, la capitale d’Europa, diventò la meta di un flusso incessante di visitatori, curiosi di vedere le novità sopraggiunte nei lunghi anni dopo la Rivoluzione. Novità che ormai si imponevano in tutti i campi: nella moda, nell’aspetto urbano, nella vita privata e sociale. Probabilmente, furono soprattutto i viaggiatori e gli intellettuali inglesi a patire le conseguenze dell’isolamento che aveva posto fine agli intensi scambi culturali della seconda metà del secolo. Nei primi sei mesi del 1802 non meno di 16 000 visitatori inglesi approdarono in Francia: fra gli altri, membri della Casa Reale come il gran cancelliere duca di Argyll, politici come James Fox, leader del partito Whig, scrittori come Fanny Burny e Mary Berry, l’attore James Kemble e, non ultimo, numerosi artisti inglesi, curiosi di conoscere la nuova arte francese nata dalla Rivoluzione e i capolavori provenienti dai territori conquistati. Anche dalla Germania e dalla Svizzera giunsero a Parigi scrittori e studiosi, come i due Humboldt, Friedrich von Schlegel, Kotzebue, Ulrich Hegner e Karl von Bonstetten. Nell’agosto del 1802 si incontrarono a Parigi diversi artisti inglesi di fama, alcuni dei quali avevano intrapreso il viaggio insieme: Benjamin West e Henry Fuseli, direttore e professore della Royal Academy, i ritrattisti John Hoppner e James Opie, la pittrice Maria Cosway, il paesaggista Turner e lo scultore classicheggiante William Flaxman, insieme ad altri pittori e architetti come Shee, Smirke, Hall e William Farington,

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che ci ha lasciato nei suoi diari un limpido resoconto del proprio soggiorno parigino. Il giovane Turner copiò sul suo taccuino da disegno numerosi quadri del Louvre, soprattutto paesaggi; Fuseli prese appunti e coniò i giudizi apodittici che troviamo nelle sue Lectures on Painting, e Flaxman discusse con gli altri sull’originalità delle sculture antiche. Maria Cosway era impegnata a realizzare le incisioni per una grossa opera in-folio sulla galleria del Louvre, il cui primo volume, dedicato a una parte dei quadri di scuola italiana, fu stampato nello stesso anno 1802. Su queste tavole possiamo farci un’idea di com’erano esposti i quadri nella Grande Galleria. Dal 1801 la Grande Galleria era di nuovo accessibile al pubblico in tutta la sua lunghezza, ma benché i progetti volti a migliorarne l’illuminazione e la struttura interna risalissero al 1796 e gli architetti Percier e Fontaine fossero al lavoro, essa si trovava praticamente nello stesso stato in cui la commissione per i musei l’aveva trovata allora. In altre parole, la galleria prendeva luce dalle finestre laterali, col risultato di lasciare in ombra molti quadri appesi da quella parte. Le sculture erano disposte nelle nicchie delle finestre o nel mezzo della galleria che, essendo priva di interruzioni, appariva come un lungo corridoio. Poiché non si parlava ancora di ordinare i quadri secondo un criterio sistematico e cronologico, per paesi e scuole di provenienza (come oggi sarebbe naturale), ma la posizione dei quadri che riempivano le pareti dal pavimento al soffitto era decisa in base alla grandezza e al formato, questa processione interminabile di capolavori delle scuole piú diverse doveva avere sui visitatori un effetto grandioso ma anche frastornante. Per fare solo un esempio: Raffaello, i cui quadri di cavalletto erano rappresentati quasi al completo, vide i suoi quadri di formato piú piccolo raccolti intorno alla tela colossale dei Mendicanti, posteriore di un secolo, e soltanto due opere, la

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giovanile Incoronazione della Vergine e la tarda Trasfigurazione, furono accostate intenzionalmente a opere di soggetto analogo del suo maestro Pietro Perugino, in modo che il pubblico potesse effettuare il confronto. Per i visitatori piú esperti c’era poi un altro problema non secondario, lo stato di conservazione dei dipinti, su cui per esempio Fuseli, che conosceva alcune di quelle opere dai suoi viaggi italiani, espresse un giudizio fortemente negativo. Erano quadri che per la prima volta venivano portati dal buio delle chiese alla luce del sole: dopo le difficoltà del lungo viaggio gli abili restauratori del Louvre, Picault, Hacquin e il loro staff li pulirono e in alcuni casi particolarmente gravi, come la danneggiatissima Madonna di Foligno e la Glorificazione di santa Cecilia di Raffaello, o il Martirio di san Pietro, di Tiziano, li trasportarono addirittura su tela. Questo modo di procedere non corrispondeva però al gusto dei conoscitori. Dobbiamo infatti ricordare che ancora per buona parte dell’800 gli antichi maestri dovevano avere un aspetto «antico», prodotto dalla polvere e dalla vernice ingiallita, e che non esistevano altri mezzi all’infuori dell’occhio e della lente d’ingrandimento per distinguere il quadro originale dalle ridipinture. Capitava spesso, in passato, che artisti-restauratori «migliorassero» secondo il proprio gusto quadri lievemente danneggiati, aggiungendo magari intere parti al dipinto. I nuovi specialisti come Picault non solo misero fine a questa pratica, ma eliminarono tutte le aggiunte per riportare i quadri al loro aspetto originario. Per mostrare al pubblico il significato del nuovo metodo e mettere a tacere le critiche, già nel 1798 la direzione del Louvre aveva esposto due opere di Carracci e Perugino restaurate per metà. Analoghe controversie furono provocate anche dalle sculture antiche, sistemate fin dal 1800 al pianterreno, in quello che era stato l’appartamento della regina Anna. Qui però il problema era soprattutto un altro: ori-

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ginale greco o copia romana? Visconti, il direttore della collezione, aveva pubblicato per l’apertura del Museo di Antichità il suo primo catalogo: una descrizione esemplare delle fonti antiche su cui le attribuzioni si basavano. Ma poiché gli originali greci erano ancora poco conosciuti (fu proprio in quell’anno che l’ambasciatore inglese lord Elgin portò a Londra le sculture del Partenone), e quasi tutte le statue provenivano dal territorio italiano, le possibilità di un raffronto stilistico erano molto scarse. L’Apollo del Belvedere, che Flaxman dichiarò essere una copia romana, fu collocato nella sala che prese da allora il nome di «Salle d’Apollon» (insieme al cartone di Raffaello per la Scuola d’Atene), mentre l’Amazzone ferita (o Amazzone di Villa Mattei) del Vaticano e l’Antinoo si trovavano all’ingresso del museo. In un quadro, di qualche anno posteriore, di Hubert Robert, vediamo appunto l’ingresso con la scritta «Musée Napoléon» (cosí fu ribattezzato il Louvre nel 1803), e in fondo a una fuga di sale il famoso gruppo del Laocoonte dentro una nicchia. Per orientarsi nel museo i visitatori stranieri potevano comprare, per la prima volta, delle guide, che furono stampate per l’apertura della sezione antica e per la prima esposizione dei quadri fiamminghi e italiani trafugati. Alle Notices des tableaux des écoles de Lombardie et de Bologne, uscite nel 1801, fece seguito due anni piú tardi una guida dedicata ai quadri di Venezia, Firenze, Napoli, Torino e Bologna, guida che conteneva fra l’altro un lungo resoconto del restauro della Madonna di Foligno di Raffaello. Il 2 settembre 1802, Benjamin West, presidente della Royal Academy di Londra, invitò gli artisti francesi per una cena. Si voleva ricambiare in questo modo le molte cortesie ricevute dagli artisti inglesi a Parigi, e fu anche un’occasione per conoscere i due uomini che piú avevano contribuito a organizzare le nuove collezioni parigine: Alexandre Lenoir e Vivant Denon. Del

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ruolo svolto da Lenoir come conservatore del Musée des Petits Augustins si è già parlato. Denon, la cui prima pubblicazione sulle antichità egizie usciva proprio quell’anno, era certo sconosciuto agli inglesi nonostante la sua attività di incisore, e dovette suscitare non poca ammirazione, questo brillante signore non piú giovane, le cui conoscenze abbracciavano l’arte antica non meno di quella europea. Malgrado il suo passato vivace e i suoi 53 anni, la vera carriera di Denon ebbe inizio solo il 19 novembre di quell’anno, quando Napoleone lo nominò direttore generale unico dei musei francesi, assegnandogli, con la scomparsa delle vecchie commissioni, un incarico simile a quello degli intendenti regi, ma con poteri ancora piú ampi. Chi era dunque quest’uomo, che per tredici anni, fino alla caduta dell’Impero, guidò la politica francese nel settore dei musei e dei beni artistici? L’importanza straordinaria di Denon nella storia del Louvre giustifica un breve sguardo all’indietro, per seguire le varie tappe del suo complesso curriculum intellettuale. Dominique Vivant Denon nacque nel 1747 a Givry presso Châlons, nel cuore della regione vinicola della Borgogna. La sua famiglia doveva i propri beni e la propria posizione sociale privilegiata a un prozio, Vivant Jolliot, che produceva nelle sue cantine il celebre Chateau-Mouton. In qualità di «commissaire du vin» e fornitore di corte, Jolliot diventò un assiduo compagno di bevute dell’erede al trono, il Grand Dauphin: circostanza che non solo lo rese ricco, ma, per le consuetudini feudali di allora, gli valse anche numerosi feudi nelle vicinanze di Givry e di Châlons. Lo stesso Denon era solito raccontare questa storia nella sua maniera spiritosa: «Per mia fortuna il mio prozio si distinse soprattutto come cortigiano; se oggi ho da mangiare, lo devo al suo talento di bevitore e alle sue frequenti bevute col Grand Dauphin, che gli procurarono la ricchezza». Ai legami di un altro zio con la Corte

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Denon dovette il suo ingresso nella carriera, che gli permise di acquistare vaste conoscenze in campo artistico e di coltivare il proprio talento diplomatico. Avendo mostrato fin da ragazzo inclinazioni letterarie e artistiche, frequentò a Parigi i corsi di disegno e incisione di Noël Hallé. E poiché quest’ultimo dirigeva la collezione di medaglie e gioielli della marchesa Pompadour, anche Denon si avvicinò alla Corte di Versailles. Fu in quel periodo che Denon scrisse la novella Point de lendemain, un tipico prodotto, come le Liaisons dangereuses di Cholderlos de Laclos, del clima frivolo di quegli anni. Un lavoro destinato a cadere nell’oblio fino a una sua recente ripresa cinematografica. Appena venticinquenne, il favore del conte di Vergennes lo avviò alla carriera diplomatica. Fu dapprima addetto alla ambasciata di San Pietroburgo (1772), e successivamente a Stoccolma, dove Vergennes era ambasciatore. Con la nomina di Vergennes a ministro degli Esteri Denon fece ritorno per breve tempo a Parigi; nel 1775 fu inviato in Svizzera e nel 1778 a Napoli. I cinque anni passati a Napoli come consigliere d’ambasciata furono per lui, sotto molti aspetti, gli anni decisivi. Entrò allora in contatto con tutti gli artisti e gli amatori d’arte che visitavano allora il Regno di Napoli per via degli scavi di Pompei ed Ercolano, e acquisí una tale esperienza da accompagnare egli stesso in veste di guida gli ospiti piú illustri dell’ambasciata. Copiò, per ricavarne incisioni, numerose opere di scuola napoletana nelle chiese della città e aiutò l’abate di Saint-Non a illustrare i suoi resoconti di viaggio nel Regno delle due Sicilie. Nel 1780 la sua fama come conoscitore dell’arte italiana era tale che il sovraintendente alle belle arti di Parigi, conte d’Angeviller lo incaricò di acquistare vasi greco-etruschi per la manifattura di Sèvres e quadri per la collezione reale, come la Resurrezione di Lazzaro del Guercino. (Da questo quadro ricavò un’incisione che gli serví come prova

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d’esame per l’Accademia di Firenze). D’Angeviller lo raccomandò inoltre come esperto al direttore dell’Accademia di Francia a Roma, il pittore Vien, e nel 1787 Denon fu eletto, sempre su proposta del D’Angeviller, membro dell’Accademia dellè Arti e delle Scienze di Parigi. Quando Vergennes lasciò il suo incarico nel 1790, anche Denon abbandonò il servizio diplomatico per dedicarsi interamente alla sua attività artistica. Negli anni seguenti visse a Firenze, a Bologna e a Venezia, dove abitò presso il Ponte Baratteri. Dopo lo scoppio della Rivoluzione tutti i francesi a Venezia furono considerati sospetti dal maestro di lingua e di danza fino al portiere d’albergo, e anche Denon fu convocato il 12 agosto dalla polizia, che rimase però soddisfatta delle sue spiegazioni. Nel 1793, fu nuovamente denunciato per via dei rapporti che le sue proprietà in Borgogna lo portavano a intrattenere con l’ambasciatore francese Henin. Diffidato, Denon lasciò Venezia e riparò nei territori del granduca di Toscana, dove prese l’ardita decisione di fare ritorno in Francia per non venire registrato fra gli emigranti e perdere cosí tutti i suoi beni. Per sua fortuna, Denon conosceva il pittore JeanLouis David, amico di Robespierre, che lo protesse negli anni del Terrore e ottenne che il suo nome venisse cancellato dalle liste di proscrizione. David lo incaricò inoltre di ricavare un’incisione dal suo quadro di soggetto rivoluzionario il Giuramento della Pallacorda e gli sottopose i suoi progetti per le feste repubblicane. I suoi ritratti caricaturali delle vittime della rivoluzione, tuttora conservati, dimostrano che Denon sapeva adattarsi senza troppi scrupoli ai nuovi potenti e alla nuova situazione. L’incontro di Denon con Napoleone avvenne nel 1795 nelle seguenti circostanze. Il miniaturista Eugène Isabey lo pregò di prestargli il suo studio per esporvi il quadro Belisario mendicante dell’amico François Ge-

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rard. Isabey era un protetto di Giuseppina Beauharnais. Quando Giuseppina venne a vedere il quadro di Gerard le fu presentato anche Denon, che coi suoi modi brillanti seppe conquistarsene la simpatia, al punto da diventare ospite assiduo del suo salotto in Rue de Victoire, dove naturalmente poteva incontrare anche Napoleone. Abbiamo già visto che Denon faceva parte del gruppo di artisti e scienziati scelti da Napoleone per la spedizione in Egitto, e già in questa circostanza il futuro imperatore restò sicuramente impressionato dal sapere e dall’energia dello studioso. La pubblicazione della grande opera sulle antichità egizie illustrata con le incisioni di Denon (Descriptions des Monuments de la Haute et Basse Égypte), iniziata nel 1802, contribuí poi a rafforzare la sua stima, tanto piú che l’opera sottolineava il valore culturale e scientifico di una missione per il resto fallita. Denon disegnò fra l’altro anche una medaglia commemorativa, che fu realizzata dagli orafi Brenet e Janouin e che portava la scritta «L’Égypte Conquise». Quando Napoleone, nell’autunno di quell’anno, riorganizzò l’amministrazione del Louvre, abolendo le commissioni artistiche e l’ufficio dell’esperto Lebrun, offrí la direzione generale prima al pittore Jean-Louis David e poi allo scultore Canova, i quali, bisogna dire per fortuna, rifiutarono entrambi. La scelta cadde allora su Denon, e ancora una volta Napoleone dimostrò di avere buon istinto nella scelta dei suoi collaboratori: non poteva scegliere infatti una persona piú adatta per un incarico cosí impegnativo, vario e complesso. Mentre nel ’700 i responsabili delle gallerie venivano ancora scelti di regola tra i pittori, la nomina di Denon rappresentò anche sotto questo aspetto una novità: in lui possiamo vedere il prototipo del moderno direttore di museo di formazione storico-artistica. I compiti di Denon non si limitavano all’amministrazione del Museo del Louvre. Dipendevano da lui

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anche i musei di Versailles, quello dei Petits Augustins e i castelli reali, un gabinetto numismatico particolarmente caro a Napoleone che conteneva anche piccoli bronzi ed era sistemato (come ancora in tempi recenti) nel Palais Mazarin vicino alla Bibliothèque Nationale, e infine la direzione delle ex-regie manifatture di Sèvres, Beauvais e dei Gobelins. Per queste ultime, come anche per l’abbellimento di Parigi, era lui la persona da cui si attendevano le nuove proposte. Le commissioni per gli infiniti quadri di soggetto militare e dei ritratti ufficiali partivano dalla sua scrivania, come anche quelle relative alle opere scultoree del Louvre, ai nuovi monumenti e alla colonna di Place Vendôme, eretta per celebrare la vittoria di Austerlitz a imitazione della colonna Traiana e il cui rilievo era stato realizzato col bronzo dei cannoni nemici. Dal 1805 aveva inoltre il compito di seguire e portare avanti i rilievi topografici e i progetti per una colossale raccolta di incisioni: i Dessins des Campagnes de l’Empereur. Denon seguí questi lavori con energia instancabile e con l’obiettivo costante di arricchire le collezioni nazionali e di dare un’espressione artistica alla grandezza della Francia. Non poteva soddisfare meglio le aspettative di Napoleone, che gli concesse, a dimostrazione del suo favore, poteri pressoché illimitati: quei poteri appunto di cui Denon aveva bisogno per realizzare le sue idee piú ambiziose. Il rinnovamento del Museo del Louvre, che andava dai continui lavori di ristrutturazione alla sistemazione scientifica delle raccolte, era però il primo dei suoi compiti, e anche qui come negli altri vastissimi settori di sua competenza, Denon disponeva di un’équipe di collaboratori che, misurata con criteri moderni, appare molto esigua: il segretario generale già in carica Athenase Lavallée; tre conservatori tra i quali i già menzionati Lenoir per le antichità nazionali ed Ennio Quirino Visconti per l’arte antica, il restauratore Picault e il

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suo staff. Nei lavori di ammodernamento del Louvre collaborò con gli architetti Percier e Fontaine, che influenzarono in modo decisivo il nuovo stile non solo per quel che riguarda il Louvre, ma anche negli edifici pubblici e nei monumenti della città. Napoleone amava concentrare la responsabilità in poche mani, e questo ne fu un esempio. L’anno di pace 1802-803 vide poi due fatti che si sarebbero rivelati importanti per la politica francese in materia di opere d’arte. Con la firma del nuovo concordato col Vaticano le chiese ottennero la parziale restituzione dei beni artistici confiscati, a eccezione di opere come la Madonna Rolin di Van Eyck, considerate ormai patrimonio nazionale. Ma in questo caso esse furono risarcite con altre opere trafugate all’estero e provenienti dai ricchi depositi del Musée Central. Cosí ad esempio la Grande pala dell’altar maggiore del Guercino si trasferí dal suo paese natale di Cento nella chiesa parigina di San Tommaso d’Aquino. L’Ultima Cena di Rubens andò a finire nella Chiesa di Saint-Eustache, la Circoncisione di Cristo del Barocci proveniente da Pesaro (Parigi, Louvre) e l’Assunzione della Vergine di Salvator Rosa, come pure il San Bernardo salva la città di Carpi di Ludovico Carracci passarono da Modena a Notre-Dame, solo per citarne alcune. La scelta di queste opere fu affidata al solito Denon, come anche quella, storicamente assai piú importante, dei quadri da assegnare ai musei di provincia. Su proposte dell’allora ministro degli Interni Chaptal, già nel settembre del 1800 Napoleone aveva firmato un decreto per la creazione di 15 musei (portati poi a 22) nelle città della provincia francese. Alcune di esse, come Lilla, Douai, Angers, Tours, Tolosa, Le Mans e altre, avevano già iniziato durante la Rivoluzione ad allestire proprie raccolte con i beni confiscati, e nei primi anni dopo il decreto di Napoleone oltre 800 quadri delle eccedenze di Parigi e Versailles furono spediti

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in provincia. Il sopraggiungere della guerra impedí tuttavia che il piano venisse portato a termine. Poiché il nuovo territorio francese comprendeva anche il Belgio, i Paesi Bassi e la riva sinistra del Reno, anche Bruxelles e Magonza, oltre a Lione, Bordeaux, Montpellier, Caen, Angers, Rouen, Digione, Aix-en-Provence e Marsiglia, rientravano fra le città di provincia in cui affluirono i quadri provenienti da Parigi: quadri che in gran parte vi si trovano tuttora. Nell’autunno del 1802 furono distribuiti tra questi musei altri 846 dipinti, tra i quali numerose opere di altissima qualità. I Perugino, i Veronese, i Rubens, i Jordaens, i Van Dyck riempivano i depositi parigini, al punto che cederli fu piú un sollievo che una perdita per il Louvre. Lione, città di traffici commerciali, ebbe lo splendido Ritrovamento di Mosè di Paolo Veronese, Caen le Tentazioni di sant’Antonio dello stesso Veronese, provenienti da Mantova, e Rouen Barnaba risana gli infermi, sempre di Veronese, proveniente da Verona. Tra le molte opere di Rubens conservate nei musei di provincia merita un cenno particolare la Trasfigurazione di Cristo, opera giovanile, sottratta al grandioso altare di Francesco Gonzaga nella Chiesa dei Gesuiti a Mantova. A causa probabilmente del suo cattivo stato di conservazione l’opera fu assegnata a Nancy, una piccola Versailles allora residenza del re di Polonia Stanislao. Nancy ebbe inoltre la collezione del principe in esilio Salm-Salm, formata da opere altotedesche e altoolandesi di notevole valore. Su ordine di Napoleone, la città di Amiens, dove era stata firmata la pace, ricevette una serie di bozzetti e lavori preparatori di Boucher, Jean-François de Troy e altri maestri del Settecento, conservati nelle manifatture tessili di Beauvais e dei Gobelins, dove erano serviti per tutto il secolo da modello per i tessitori. Le spedizioni ai musei di provincia proseguirono, sia pure in misura ridotta, di mano in mano che le nuove conquiste militari portavano a Parigi altri quadri. Per otte-

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nere opere particolarmente ambite, al Louvre o nei musei di provincia, Denon era solito praticare scambi con altri musei, simile in questo a Wilhelm von Bode, che sarà alla fine dell’800 direttore generale dei musei di Berlino. Quando, nel 1803, il Louvre fu ribattezzato «Musée Napoléon» su proposta del secondo console Cambacères, non si trattò di un puro gesto formale. La logica sistematica che contrassegnava il nuovo orientamento della burocrazia francese si impose anche nello sviluppo del Louvre, dove la mano ferma di Denon, la sua intelligenza critica e i suoi piani di ampio respiro crearono le basi per quella continuità che è requisito indispensabile di ogni museo. Mentre in materia di opere d’arte Denon poteva lavorare in piena autonomia (con la sola eccezione delle opere destinate ai castelli, per le quali doveva consultare il futuro imperatore e l’imperatrice), per i progetti architettonici, e in particolare per i lavori di ristrutturazione del Louvre, Denon dipendeva dagli architetti Percier e Fontaine, con i quali era talvolta in disaccordo. Cosí, ad esempio, essi seguirono il progetto di Hubert Robert per la Grande Galleria solo in parte: invece di una illuminazione continua dall’alto praticarono delle aperture laterali sulla volta, mantenendo, del progetto originale, solo le due serie di statue su piedestalli con la funzione di articolare lo spazio. Inoltre, a partire dal 1804, quando ebbero inizio i lavori, alcune parti della galleria vennero chiuse al pubblico, e Denon si lamentò a ragione di doverne chiudere una metà per usare l’altra come deposito. In compenso, il trasloco dell’«Institut de France» dalla vecchia Salle des Cariatides al pian terreno gli permise di sistemare le statue colossali del Nilo e del Tevere in quella che si chiamò da allora Salle des fleuves. Nel complesso, gli anni tra il 1803 e il 1806 furono per Denon un periodo fruttuoso, in cui la necessità di

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vagliare un materiale ricchissimo, quale nessun direttore di museo prima di lui aveva avuto sotto mano, gli permise di estendere enormemente le sue conoscenze storico-artistiche. E se in questi anni egli si limitò ad acquisire poche opere significative, le nuove guerre e le nuove conquiste gli consentiranno in seguito di arricchire il museo su vasta scala e a suo piacimento.

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Capitolo sesto È la volta del «contributo tedesco» (1806-807)

Nel febbraio del 1806 Denon scrive all’architetto Fontaine: «La prego di farmi sapere se mi sarà possibile sistemare i quadri in quella parte della Galleria che è stata provvista recentemente di una illuminazione dall’alto. È probabile che Sua Maestà desideri vederli, e mi è stato comunicato che ha intenzione di aprirla a maggio, in occasione della festa della pace» Si trattava della pace di Pressburgo, firmata il 15 dicembre 1805: le vittorie sulle armate austro-russe di Ulma, Wagram e Austerlitz avevano posto fine all’egemonia austriaca sulla Germania sottomettendo la Germania meridionale e occidentale all’autorità di Napoleone. La nuova dichiarazione di guerra da parte degli inglesi nel 1803 non aveva sostanzialmente modificato la situazione in Europa, e le spedizioni di opere d’arte a Parigi si erano quasi del tutto interrotte già nel 1803, con l’arrivo da Napoli dell’ambitissima Venere Medici e delle ultime opere romane. Anche durante la breve occupazione di Vienna nel novembre 1803, prima della battaglia decisiva di Austerlitz, i francesi lasciarono curiosamente intatte le ricche collezioni imperiali. Dal momento della sua entrata in carica, l’attività di Denon si era limitata in sostanza a un vaglio sistematico delle opere già raccolte e al lavoro di organizzazione e conservazione. Solo nel 1806 le nuove folgoranti vittorie di Napoleone gli offrirono la sospirata opportunità di arricchire il Louvre in grande stile. Il

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Regno di Prussia era, fino a quel momento, l’unica potenza militare dell Europa centrale non ancora sconfitta, benché si fosse schierata contro la Francia fin dall’inizio delle ostilità, nel 1796. Con la sua tattica attendista il re di Prussia si era abilmente tenuto fuori dal conflitto con l’Austria. Tuttavia, Napoleone non aveva dimenticato il doppiogioco dei prussiani prima di Austerlitz, e c’erano anche altri motivi politici per uno scontro, come ad esempio la questione del ducato di Hannover, l’istituzione della Lega del Reno e cosí via, motivi che prima o poi dovevano portare a una guerra aperta. Se la conquista della Germania settentrionale dava inizio a una nuova fase dell’ambiziosa politica di Napoleone, le collezioni principesche della Germania del Nord rappresentavano per Denon un bottino non meno allettante delle raccolte italiane. In questa occasione, e in tutte quelle che seguirono, Denon dimostrò il suo istinto di conoscitore e di collezionista, una insaziabile curiosità e sete di sapere, la sua indipendenza dai pregiudizi accademici. Insieme al sovrintendente generale Pierre Daru seguí l’avanzata delle truppe francesi nell’immediata cerchia di Napoleone, cosí da sfruttare al meglio l’effetto psicologico della vittoria. Per quanto riguarda le requisizioni, Napoleone gli aveva concesso poteri illimitati. Dopo la doppia vittoria di Jena e Auerstädt (14 ottobre 1806), l’imperatore e il suo seguito raggiunsero alla fine di ottobre la capitale prussiana, Berlino, dove regnava una confusione totale. E mentre Napoleone secondo il «Bulletin Officiel» visitava la tomba di Federico II e pronunciava la celebre quanto banale frase «se tu fossi ancora in vita non sarei qui», Denon incominciava a vagliare i tesori delle raccolte regie. Il direttore del gabinetto numismatico Henry era riuscito a mettere in salvo nelle fortezze di Küstrin e Memel una parte della collezione, ma il nucleo piú cospicuo della

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ricchissima raccolta di monete, 12 363 pezzi in tutto (tra cui le 4000 monete greche e romane acquistate nel 1791 dal margravio di Ansbach) finirono nelle mani di Denon. Le collezioni pittoriche, distribuite fra i castelli di Potsdam, Berlino, Charlottenburg e Sanssouci, risalivano nel loro nucleo originario all’eredità degli Orange, che era toccata al principe elettore in quanto genero di Federico Enrico di Orange, e contenevano già allora importanti quadri olandesi e fiamminghi, tra i quali una serie di opere di Rembrandt, dalle piú giovanili alle piú tarde. La guida di Berlino e di Potsdam pubblicata da Nicolai nel 1786 e piú ancora il catalogo dei quadri conservati nei castelli reali, redatto da Matthias Oesterreich e ristampato ancora nel 1773, come pure le incisioni di Schmidt, facilitarono il compito di Denon. Pur sapendo, naturalmente, che Federico il Grande era stato un appassionato collezionista di Watteau e della sua scuola, e nonostante l’acquisto del Gilles per il Louvre, Denon lasciò intatta, per motivi ignoti, questa straordinaria raccolta del ’700 francese. Invece di far cadere la sua scelta sull’Insegna di Gersaint o sull’Imbarco a Citera si limitò alla Lettura da Molière, un piccolo quadro di Jean-François de Troy (Marquess of Cholmondely, Houghton Hall), il cui gemello La dichiarazione d’amore si trova ancora a Charlottenburg. Entrambi si trovavano nella sala delle udienze di Federico il Grande a Sanssouci, e poiché la Lettura si trova piú tardi registrata nella collezione privata di Denon, se ne può dedurre che il quadro gli fu regalato allora da Napoleone insieme allo scrittoio da viaggio in «vernis Martin», già donato da Voltaire al re di Prussia. In totale, i castelli di Berlino, Charlottenburg e Sanssouci fruttarono a Denon 123 dipinti, 28 statue, 56 busti e rilievi, oltre 500 gemme e 25 lavori in avorio. Per cominciare dai pezzi antichi, il piú prezioso era un bronzo, il Giovane orante (Berlino), amatissimo

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da Federico II che lo fece esporre a Sanssouci. Ritrovato nel Tevere da Clemente XI, era stato donato dal papa al principe Eugenio di Savoia, vincitore dei turchi. L’erede del principe Eugenio lo vendette poi al principe di Liechtenstein, che lo vendette a sua volta al re di Prussia. Già Winckelmann aveva celebrato questa figura greca del quarto secolo a. C., raffigurante un giovinetto con le braccia sollevate in preghiera. Un’opera estremamente affascinante di epoca ellenistica era una figura in marmo di fanciulla inginocchiata nell’atto di giocare ai dadi (Berlino, museo), ritrovata anch’essa a Roma nel 1730 e acquistata dal cardinale Polignac. Fu poi destinato a Parigi anche un cammeo romano di straordinario valore, il Trionfo di Settimio Severo. Per quanto riguarda i dipinti trafugati, solo una parte relativamente modesta – un quarto all’incirca – si possono definire capolavori, e tutti di scuola nordica. Le tre opere attribuite a Raffaello non erano di sua mano, e delle otto attribuite al Correggio soltanto una era un originale, precisamente la Leda della collezione Orléans. Che la critica stilistica del tempo lasciasse molto a desiderare lo dimostra, solo per fare un esempio, il fatto che il Giudizio di Mida della galleria di Berlino, oggi attribuito a Leonbruno, era ancora considerato opera del Correggio. In ordine di importanza seguivano la Leda del Correggio, un ritratto di giovane già noto come ritratto dell’Aretino, un’opera firmata di Tiziano, una Sacra famiglia di Andrea del Sarto, un Vertumno e Pomona attribuito a Leonardo ma opera in realtà del suo allievo Francesco Melzi, e infine le consuete opere di Annibale Carracci, Domenichino, Guido Reni ecc., conservate nei musei berlinesi (ma distrutte in parte durante l’ultima guerra). Tra i dipinti catalogati come Rubens e Van Dyck (piú di mezza dozzina), due si trovano oggi alla Pinacoteca di Brera, ossia il ritratto di Amalia di Solm, sposa del principe d’Orange Federico Enrico (Van Dyck) e il Sacrifi-

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cio di Isacco (oggi attribuito a Jacob Jordaens). Il Miracolo dei serpenti, nato negli anni 1618-19 dalla collaborazione di Van Dyck nella bottega di Rubens, finí nella famosa collezione Cook di Richmond. L’Incoronazione della Vergine e la Resurrezione di Lazzaro della galleria di Berlino (andati perduti nell’ultima guerra) e la Nascita di Venere di Sanssouci sono riconosciute tuttora come opere autentiche di Rubens. Col Cristo deriso, le figure dei due Giovanni e La discesa dello Spirito Santo (Berlino, museo; gli ultimi due perduti), Denon entrò in possesso di un importante altare di Van Dyck, appartenente in origine all’Abbazia di Dunes a Bruges e acquistato da Federico II al considerevole prezzo di 20 000 fiorini. Tra le opere originali di Rembrandt, provenienti in parte dall’eredità degli Orange, Denon optò per una singolare composizione del 1635, Sansone minaccia il suocero, nota nel ’700 come «Un episodio nella vita di un principe von Geldern», ed esposta piú tardi a Parigi col titolo Le prisonnier en colère; poi un Sansone e Dalila del 1628, che nonostante la firma di Rembrandt passava allora per opera di Lievens, e infine la Benedizione di Giacobbe (Berlino, museo), attribuita piú tardi a un altro allievo di Rembrandt, G. Horst. Accanto a queste opere significative per i gusti dell’epoca incomincia però a delinearsi anche un altro aspetto dell’attività collezionistica di Denon, ossia l’interesse per il primo Rinascimento nordico. Oltre a 16 quadri di Lucas Cranach il Vecchio, tra i quali soprattutto la vivace e aneddotica Fontana della giovinezza, il ritratto del cardinale Alberto di Brandeburgo, Venere e Amore, Il giudizio di Paride, Davide e Betsabea (tutti al Museo di Berlino), Denon destinò a Parigi anche una Caritas di Hans Baldung Grien, il Gerolamo penitente di Lucas van Leyden, un ritratto di Jan Mostaert (attribuito ad Altdorfer) e, probabilmente per i suoi tratti italianeggianti, la grande scena mitologica di Maerten van Heemskerck, Momo biasima le opere degli dèi, firmata e datata 1561.

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Poiché oltre alle gemme anche alcuni quadri erano emigrati nella fortezza di Küstrin, Denon si spinse fin là subito dopo l’occupazione della Prussia orientale, e di qui passò probabilmente a Danzica. Non si spiegherebbe altrimenti come abbia potuto raggiungere Parigi la tavola centrale del grande altare di Hans Memling proveniente dalla locale Marienkirche. Prima di arrivare a Danzica, l’altare di Memling, che raffigura il Giudizio Universale, aveva già alle spalle una storia avventurosa. Commissionata a Bruges intorno al 1470 dal rappresentante della famiglia Medici Jacopo Tani per la città di Firenze, l’opera fu catturata durante il trasporto davanti alle coste fiamminghe dal capitano anseatico Paul Benneke, che la portò a Danzica, sua città natale, dove sarebbe rimasta per secoli. Soltanto Denon, con la sua profonda conoscenza dei maestri fiamminghi del Louvre, poteva apprezzare adeguatamente quest’opera, non ancora attribuita a Memling ma conosciuta sotto il nome generico e mistico di Van Eyck. Ancora piú ricche delle collezioni prussiane erano, per molti aspetti, quelle dei principati autonomi dell’Assia-Kassel e di Braunschweig, che Denon incominciò a setacciare nel gennaio del 1807. La galleria di Dresda, di gran lunga la piú importante della Germania, sfuggí alla sua cupidigia per motivi politici. Subito dopo le vittorie di Jena e Auerstädt il re di Sassonia si era infatti schierato dalla parte di Napoleone, stringendo un accordo con la Francia. Meno fortunato fu il principe elettore dell’Assia, che pure aveva mantenuto un atteggiamento neutrale fin da prima della guerra. Poco fidandosi, e non a torto, di Napoleone, dopo la notizia della vittoria si diede alla fuga, col risultato che all’arrivo dei francesi le Residenze di Kassel e Berlino erano sguarnite. Il principe elettore aveva appena fatto in tempo a imballare 48 quadri tra i piú preziosi e a farli nascondere in una vicina palazzina di caccia.

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Malauguratamente per Denon il nome di questa località segreta fu rivelato al generale Lagrange, che guidava le forze di occupazione, e questi spedí le casse piene di quadri all’imperatrice, che attendeva a Magonza gli sviluppi della campagna militare. Ne sentiremo ancora parlare. Ci accontentiamo per il momento di elencare i pezzi piú notevoli, oggi ospitati, con poche eccezioni, all’Ermitage di Leningrado. Di Rembrandt: la Deposizione dalla Croce del 1634, dipinta, insieme a cinque scene della Passione, per il principe Enrico d’Orange, come pure il Cristo appare alla Maddalena (oggi a Buckingham Palace) e due Ritratti virili del 1634 e del 1661; di Rubens la spedizione comprendeva una Deposizione dalla Croce, proveniente in origine dal convento dei Cappuccini di Lierre; di Terborch la Bevuta del cacciatore; di Gerard Dou la Venditrice di aringhe e l’Eremita al lume di candela (alla Wallace Collection di Londra); di Jan van der Heyden un Canale di Amsterdam; di David Teniers il grande Trasloco della gilda degli arcieri di Anversa; e infine di Paulus Potter una Fattoria del 1649. Le casse contenevano inoltre alcuni dipinti di scuola francese e italiana, tra i quali l’Andata a Emmaus e del ciclo Le quattro ore del giorno: Il mattino e Il mezzogiorno di Claude Lorrain, e due Sacre famiglie, una di Piero di Cosimo, l’altra di Andrea del Sarto. Subito dopo il suo arrivo Denon si mise in contatto col celebre pittore e ispettore delle gallerie principesche J. H. Tischbein, cercando di mitigare con le proprie doti umane la penosità dell’operazione. Il castello di Kassel possedeva già nel ’700 una propria galleria in cui erano raccolti tutti i quadri piú importanti e che in certe ore era perfino aperta al pubblico. Il vero artefice della pinacoteca fu il landgravio Guglielmo VIII, che verso la metà del secolo aveva acquistato varie opere dalle collezioni olandesi – quadri di Six, Van Wassenaer, Looten, Lormier, Van Schijlenburg e Van der

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Zwieten – avvalendosi dei consigli e della mediazione del mercante d’arte olandese Gerard Hoet. Per la stessa via era àrrivato a Kassel nel 1749 anche l’intero gabinetto Valerius van Reuver, che conteneva da solo otto importanti opere di Rembrandt. Dopo avere esaminato i quadri Denon dichiarò a Tischbein: «Ce sont tous des perles et des bijoux et il m’est difficile de choisir». Non era pura adulazione: Denon sapeva che dopo l’arrivo dei quadri appartenuti alla galleria degli Orange all’Aia, non si era piú presentata un’occasione cosí favorevole per arricchire la sezione olandese del Louvre. Dei circa trecento quadri scelti da Denon la grande maggioranza apparteneva al ’600 olandese e fiammingo. Tra le poche eccezioni, una Leda attribuita allora a Leonardo, e ritenuta oggi una copia di Joos van Cleve da un originale leonardesco, una Mater dolorosa di Ribera, un Baccanale di Nicolas Poussin e il ritratto in grandezza naturale del cosiddetto Duca di Atri (già Acquaviva) di Tiziano (Kassel, museo). La parte piú preziosa del bottino erano le sedici opere originali di Rembrandt, rimaste nella collezione dopo il furto compiuto dal Lagrange. La serie comprendeva tre autoritratti degli anni 1634-55, un ritratto del padre e della moglie Saskia, le figure a mezzo busto del maestro di scrittura Coppenol, del poeta Jan Hermansz Krul e di Nicolas Bruyningh, dipinto nel 1652, oltre a cinque ritratti di personaggi sconosciuti; e poi ancora l’incantevole quadretto della Piccola sacra famiglia dietro la tenda del 1646, un Paesaggio invernale dello stesso anno, che ricorda Jan van de Velde, un Paesaggio con rovine piú tardo e di maggiori dimensioni, e il grande quadro La benedizione di Giacobbe del 1656. Dei sette quadri di Frans Hals Denon ne scelse quattro, e precisamente i Due fanciulli che cantano, due ritratti virili a mezzo busto e il tardo ritratto di un uo-

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mo appoggiato a una sedia col berretto da notte. Cinque dei dieci ritratti di Van Dyck furono destinati al Louvre, e tra questi i ritratti dei pittori Jan Wildens e Frans Snyders con la moglie e i ritratti, a mezzo busto e a figura intera, del sindaco di Bruxelles Van Meerstraeten e dell’ambasciatore Joost te Hertoghe. Sebbene Parigi possedesse già una quantità di opere di Rubens, Denon non poté fare a meno di sceglierne almeno quattro, tra cui il Trionfo del vincitore, destinato in origine alla grande sala della gilda di San Giorgio ad Anversa, la romantica e notturna Fuga in Egitto, opera giovanile e la composizione di soggetto sacro Abramo e Melchisedech (Caen, museo). La celebre Festa dei fagioli di Jan Steen, l’antica veduta del castello di Bruxelles di Jan van der Heyden, i popolarissimi quadri di genere come la Venditrice di pollame, la Suonatrice di liuto e l’Elemosina di Gabriel Metsu, gli intrattenimenti musicali di Gerard Terborch e Caspar Netscher, le scene popolaresche dei fratelli Ostade e i paesaggi di Ruysdael, Wouwerman, Van de Velde, Berchem ecc., erano scelte obbligate. Dei numerosi dipinti di Jacob Jordaens, il quadro raffigurante la famiglia del suocero Adam van Noort meritava di essere prescelto, e il piú antico tra i quadri olandesi, il Cristo appare alla Maddalena di Jacob Cornelisz non poteva non attirare l’attenzione di Denon, desideroso di approfondire la conoscenza di un maestro praticamente sconosciuto e non rappresentato al Louvre. Parigi possedeva già opere di Anthonis Mor, pittore di corte al tempo di Filippo II, provenienti dal fondo reale e dalla collezione degli Orange. A queste Denon aggiunse ora il ritratto firmato di Jan Lecocq e di sua moglie. Sotto il governo di Girolamo Bonaparte – Kassel era diventata la capitale del Regno di Westfalia – la galleria di Kassel patí ancora numerose perdite. Prima dell’arrivo di Girolamo Bonaparte il generale Lagrange si appropriò di cinquanta dipinti in qualita di governa-

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tore, e quando, nel 1808, l’edificio che ospitava la galleria venne utilizzato per alloggiare la guarnigione, le autorità francesi decisero senz’altro di mettere all’asta o di dar via oltre cento quadri della collezione principesca. Il Bevitore allegro di Frans Hals sfuggí a questo destino in extremis e per miracolo. Per sostituire le opere perdute e abbellire la propria residenza, Girolamo fece trasportare da Braunschweig a Kassel 252 dipinti che, al momento di fuggire, avrebbe in gran parte portato con sé per poi affidarli allo zio, il cardinale Fesch. Qualunque giudizio si voglia darè delle requisizioni, l’operato di Denon ebbe comunque il risultato pratico di preservare per la posterità la parte piú preziosa di queste collezioni. A differenza da quanto accadeva in passato, Denon era solito lasciare una ricevuta delle opere spedite a Parigi, ricevuta che nel 1815 servirà come base per le restituzioni. Ma fu proprio alla fine, e senza colpa di Denon, che la galleria di Kassel patí le perdite più gravi. Benché il duca Carlo Guglielmo Ferdinando di Braunschweig comandante in capo dell’esercito prussiano, fosse caduto nella battaglia di Auerstädt, i francesi non avevano dimenticato il suo odio per la Repubblica e il manifesto che nel 1794 aveva scatenato le prime ostilità nei Paesi Bassi. Si offriva a questo punto la possibilità di una rappresaglia, e le ricchezze artistiche del ducato di Braunschweig furono messe al sacco. La corte era fuggita e il sovrintendente Martial Daru, giunto per primo, fece subito occupare i castelli di Braunschweig, Wolfenbüttel e Salzdahlum, facendone sequestrare i beni. 2000 preziosi volumi dell’antica biblioteca di Wolfenbüttel furono messi da parte per Parigi insieme al catalogo compilato da Gotthold Ephraim Lessing. Stendhal, che era un nipote di Daru, prese parte al lavoro di cernita, e, curiosamente, la scelta cadde anzitutto sui 500 volumi che il cardinale Mazzarino aveva

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venduto al duca Augusto prima del 1660, benché la Bibliothèque Nationale di Parigi ne possedesse già vari doppioni. Il direttore delle collezioni ducali, il consigliere regio Emperius, era riuscito a spedire in Danimarca i pezzi piú preziosi del gabinetto di antichità e di quello numismatico, che di qui raggiunsero poi l’Inghilterra. Tuttavia, due sezioni del gabinetto di antichità, comprendenti 980 maioliche e 174 smalti, molti dei quali di Limoges, caddero nelle mani dei francesi, come pure una parte degli antichi avori. Il gabinetto delle stampe di Braunschweig dovette consegnare 230 disegni di antichi maestri, tre quarti dei quali di scuola tedesca. Per quanto riguarda la pinacoteca, fondata nel Seicento dal duca Anton Ulrich, era annoverata tra le piú ricche della Germania e particolarmente ben provvista, come Kassel, di grandi maestri olandesi, grazie anche agli acquisti fatti nel Settecento dal duca Carlo. L’ispettore artistico Weitsch di Salzdahlum, dove c’era la pinacoteca vera e propria, aveva tentato di mettere in salvo 91 casse di quadri, che però raggiunsero Braunschweig proprio all’arrivo dei francesi. Denon dedicò sei giorni alla visita del museo, fece catalogare tutti i quadri in francese e registrare le requisizioni nell’inventario del museo: cosa che non fu di grande utilità perché l’assistente di Denon li portò via entrambi, catalogo e inventario, al momento di lasciare Braunschweig. Nel frattempo Denon era diventato piú esigente, come dimostra il fatto che su un totale di 1400 opere poco piú di un settimo, ossia 271 quadri, furono destinati a Parigi. Non pago di quanto gli veniva mostrato egli volle esaminare personalmente i vecchi inventari, in cui scoprí un’importante acquisizione del 1788, l’Adamo ed Eva di Palma il Vecchio, attribuito a Giorgione e già menzionato nel 1512 a Venezia nella casa di Francesco Zio, e il cosiddetto Autoritratto di Giorgio-

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ne, questa volta autentico. Una Coppia di amanti registrata come opera di «Tiziano» fu già messa in dubbio al Louvre e riconosciuta piú tardi come opera di Annibale Carracci, mentre un’Ultima Cena di Jacopo Tintoretto risultò essere un lavoro preparatorio per il grande quadro veneziano di San Paolo. Il consigliere di corte Emperius rimase cosí colpito dal talento di Denon da dichiarare piú tardi: «Se il fatto di lavorare con lui non mi fosse stato cosí odioso, non mi sarebbe dispiaciuto approfondire la sua conoscenza». Come a Berlino e a Kassel, anche qui Denon non rinunciò ai maestri del primo Rinascimento nordico: il Ritratto di Cyriacus Kale di Hans Holbein il Giovane, il precoce Autoritratto di Lucas van Leyden attribuito anch’esso a Holbein e il quadro di soggetto mitologico Ercole e Onfale di Lucas Cranach il Vecchio. I pezzi di maggior richiamo erano anche qui cinque opere originali di Rembrandt, in particolare il grande quadro della famiglia Rembrandt della fine degli anni ’60: un lavoro della vecchiaia dell’artista che con il suo caratteristico stile a pennellata libera farà parlare i critici parigini di «un tableau fait en esquisse». Il Cristo appare alla Maddalena di Kassel sfuggito a Denon fu rimpiazzato a Braunschweig da un quadro di soggetto analogo del 1651, mentre il Paesaggio tempestoso del 1638 offrí un degno «pendant» al Paesaggio invernale di Kassel. Tra le opere di scuola Denon scelse due quadri di storia romana, realizzati da Ferdinand Bol come lavori preparatori per i monumentali dipinti del Municipio di Amsterdam: Il trionfo del console Decio Mure e Il re Pirro cerca invano di spaventare l’ambasciatore romano coi suoi elefanti. A questi vanno ancora aggiunti un Sacrificio di Isacco di Jan Lievens, Tobia risana il padre cieco di G. van Eeckhout, di Barent («Carel») Fabritius un quadro firmato dal titolo Pietro nella casa del console Cornelio, del 1653, tre Gerard Dou e un Bagno di Diana di Jacob van Loo.

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Una delle opere piú preziose della galleria di Braunschweig, la cosiddetta Ragazza col bicchiere di vino, o La visita del cavaliere di Jan Vermeer, sarà apprezzata in tutto il suo valore storico-artistico soltanto piú tardi, ma fu comunque spedita a Parigi insieme all’Aurora di Adam Elsheimer, il cui influsso sulla pittura europea era allora pressoché ignorato. Tra i quadri fiamminghi del ’600 Denon scelse fra l’altro la Giuditta con la testa di Oloferne e il Ritratto del marchese Ambrogio Spinola di Rubens, l’Allegoria della ricchezza e della povertà, di Cornelis de Vos, le Nozze di Tobia, già noto come il Contratto di matrimonio, capolavoro di Jan Steen proveniente dalla collezione del famoso scrittore d’arte Houbraken (tutti restituiti). Insieme ai dipinti arrivò in Francia un fondo residuo di 74 bronzi, 70 sculture in legno e 83 avori, e quando tutta la Germania del Nord fu occupata seguirono altre opere da Oldenburg e da Schwerin (209 dipinti). Se il Metropolitan Museum di New York possiede oggi la Madonna di Andrea Solario, lo deve in pratica al fatto che il quadro fu trafugato allora dalla galleria di Oldenburg. Nell’esaminare il suo bottino a Parigi, Denon poteva essere nell’insieme soddisfatto. Dei circa mille dipinti raccolti da Denon, 368 furono presentati ai parigini per volere dell’imperatore in una parte della Grande Galleria ormai ultimata: era il 14 ottobre 1807, anniversario della battaglia di Jena (una di quelle occasioni simboliche cui Napoleone era molto attento). Il catalogo dell’esposizione, preparato e stampato in gran fretta, è un documento del gusto e dell’intelligenza critica di Denon. Portava il titolo: Livret des statues, bustes, basreliefs, peintures, dessins etc. conquis par la Grande Armée dans les années 1806-1807. Comprendeva in totale 710 numeri, inclusi 33 disegni, sculture in marmo e in bronzo, lavori in avorio, vasi e smalti. In uno dei quadri di Hubert Robert dedicati al Louvre

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vediamo il bronzo berlinese del giovinetto orante al centro della lunga sala e in primo piano, tra i quadri italiani appesi alle pareti. Il quadro preferito da Napoleone era, c’era da aspettarselo, il Trionfo del vincitore di Rubens, proveniente da Kassel, che fu poi appeso nello studio dell’imperatore al castello di Saint-Cloud, proprio davanti allo scrittoio. Denon tentò inoltre, ma inutilmente, di portare al Louvre i quadri migliori tra quelli che Lagrange aveva inviato da Kassel all’imperatrice. Giuseppina li aveva ormai accolti nella sua galleria privata al castello di Malmaison ed era fiera di poter mostrare agli ospiti i suoi Claude Lorrain e i suoi Rembrandt. Quattro vedute di Varsavia del veneziano Bellotto, trafugate appunto a Varsavia ed esposte alla mostra del Louvre, davano ai parigini un’eloquente testimonianza visiva dell’ampiezza delle vittorie napoleoniche.

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Capitolo settimo Per arrotondare: le requisizioni in Spagna (1808-14) e la conquista di Vienna (1809)

Il trattato di pace firmato a Tilsit il 7 luglio del 1807 tra Napoleone e l’imperatore di Russia diede alla Francia solo un breve attimo di respiro, e le speranze che la propaganda ufficiale cercava di alimentare con la ben nota fanfara erano accolte con scetticismo dal pubblico politicamente piú avveduto. Mentre Parigi, indiscussa capitale del continente, si rinnovava e si abbelliva, mentre lo splendore e la pompa della Corte sembravano promettere una nuova Età Augustea, Napoleone incominciò a preparare in segreto nuovi piani. L’occupazione della penisola iberica era un passo obbligato per realizzare in pieno il blocco continentale proclamato a Berlino e chiudere definitivamente l’Europa al commercio britannico. A tale scopo Napoleone strinse col governo spagnolo un’alleanza ai danni del Portogallo, alleanza che gli serví solo da pretesto per poter intervenire sul territorio spagnolo. Seguirono i noti intrighi che portarono alla caduta dei Borboni, all’invasione delle truppe francesi guidate dai generali Junot e Murat e alla rivolta del popolo spagnolo. Giuseppe Bonaparte fu chiamato da Napoli per sedere sul trono di Spagna e tentò di adottare una linea politica moderata. Ma la guerra continuava, e dopo ripetute sconfitte – tra cui in particolare quella di Junot contro il generale inglese sir Arthur Wellesley a Vimeiro il 21 agosto 1808, che ebbe come conseguenza la perdita del Portogallo – Napoleone decise di assumere personal-

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mente la guida delle operazioni. Con un’armata multinazionale di 200 000 uomini, tra i quali si trovavano unità tedesche, polacche e italiane, travolse ogni resistenza e ai primi di dicembre raggiunse Madrid, che capitolò subito dopo. Vivant Denon, che come ormai d’abitudine si trovava al seguito dell’imperatore, era ben consapevole delle possibilità quasi illimitate che le ricchezze artistiche della Spagna rappresentavano per il Louvre e i musei francesi. Le collezioni reali ospitavano, dai tempi di Filippo II e Filippo IV, tesori di pittura antica, tra i quali la lunga serie delle ultime opere di Tiziano e di Rubens e i capolavori mantovani acquisiti con la messa all’asta della collezione del re Carlo I d’Inghilterra; inoltre, le chiese e i conventi spagnoli erano i piú ricchi d’Europa e si erano riempiti nei secoli di opere d’arte. Guide artistiche come quelle settecentesche di Palomino e Ponz ne davano un adeguato resoconto. D’altra parte l’antica nobiltà spagnola, legata al regno di Napoli, aveva sempre dimostrato interesse per l’arte italiana, e i palazzi dell’aristocrazia borbonica fuggita verso sud rappresentavano un bottino magnifico per i mercanti francesi. Negli anni 1808-10 il già citato Lebrun riuscí a portare in Francia 163 quadri, non pochi dei quali appartenevano certamente ai beni confiscati dalle autorità francesi. In un certo senso l’interesse dell’Europa per la pittura spagnola era già iniziato nel 1801, quando il fratello di Napoleone Luciano Bonaparte era giunto a Madrid in veste di ambasciatore. Del suo staff faceva parte infatti anche il pittore Letiers, il cui compito era di acquistare dipinti di antichi maestri spagnoli. Yriarte se ne lamentò in una lettera al ministro, menzionando il fatto che tra i 70 quadri comprati per conto di Luciano Bonaparte si trovavano fra l’altro il Ricevimento di Aranjuez di Bartolomeo Esteban Murillo (Prado), il Riposo durante la fuga in Egitto dello stesso Murillo, una Deposizione dalla Croce di Pedro Campagna

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dal Convento Domenicano di Siviglia (Montpellier) e la Dama col ventaglio di Velázquez (Londra, Wallace Collection) . Ben sapendo che i grandi maestri del Seicento spagnolo erano, con l’eccezione di Ribera, poco o nulla rappresentati al Louvre, Denon cercò soprattutto di avere nelle sue mani le opere migliori di Zurbarán, Velázquez, Murillo, lasciando da parte quelle di Tiziano e di Rubens che possedeva già in gran numero. Di Ribera, che per il suo lungo soggiorno a Napoli era annoverato fra gli italiani, erano giunte a Parigi numerose opere col bottino di Parma, di Napoli e perfino di Kassel: non solo al Louvre, ma anche nei musei di Amiens, Grenoble, Montpellier, Nancy, Rouen, Ribera è ancor oggi un pittore ben rappresentato. Per il resto, il nome di Murillo era l’unico che avesse avuto nel ’700 qualche risonanza fuori di Spagna, tant’è vero che il Louvre possedeva cinque suoi quadri già appartenuti alla collezione di Luigi XVI. Appena Giuseppe vide il suo trono consolidato, ordinò il trasferimento dei quadri reali dai diversi castelli a Madrid. Come già a Napoli, anche qui Giuseppe cercò di difendere le ricchezze che gli erano toccate in sorte, e le sue pretese causarono a Denon le prime difficoltà. Giuseppe proibí espressamente di portar via un solo quadro dai palazzi e dall’Accademia Reale di Madrid. Ci volle in effetti il permesso di Napoleone perché Denon potesse farsi assegnare un certo numero di quadri dalla collezione reale. In ogni caso, come la potenza militare francese conobbe in Spagna i primi ostacoli e poi la sua sconfitta definitiva, anche la politica di Denon incontrò qui le prime delusioni. Se ne attribuí la colpa alla brevità del suo soggiorno a Madrid, ma è vero che in Germania, e in un periodo altrettanto breve, Denon aveva fatto miracoli. Quanto gli sia costato piegarsi all’autorità di Giuseppe Bonaparte si può vedere da una lettera scritta all’imperatore da Valladolid

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il 18 gennaio 1809: «Se sul trono di Madrid non ci fosse il fratello di Sua Maestà, lo avrei pregato su Vostro ordine di aggiungere venti quadri di scuola spagnola per il museo [il Louvre], dove mancano del tutto». Tutto quello che Denon riuscí a ottenere fu una scelta di cinquanta quadri provenienti dalle collezioni reali e da quelle dell aristocrazia in fuga, numero fissato prima della sua partenza. Ma la scelta non era definitiva. Una commissione apposita creata da Giuseppe Bonaparte, e di cui era membro anche Francisco Goya, modificò piú volte l’elenco negli anni successivi con pretesti piú o meno validi (ne riferí a Parigi l’ambasciatore francese La Forest), finché dei tre Velázquez previsti in origine ne rimase uno solo, un’opera giovanile di soggetto religioso, La veste insanguinata di Giuseppe viene mostrata a Giacobbe. Oltre a questi cinquanta quadri, provenienti in gran parte dalla collezione reale, ne furono confiscati.per conto di Denon altri 250 da raccolte private e da edifici ecclesiastici, che giunsero però a Parigi solo quattro anni dopo la sua missione spagnola, e proprio in coincidenza con la fine dell’egemonia napoleonica sulla Spagna. Che l’insuccesso della missione di Denon sia da mettere in relazione con la brevità del suo soggiorno (appena due mesi) è comunque probabile: ne sono una controprova le vicende di alcuni generali francesi appassionati di opere d’arte e rimasti in Spagna vari anni. L’anarchia politica della Spagna offriva in effetti un terreno ideale per operazioni di questo tipo, e lo stesso maresciallo Soult, che già a Torino aveva dato prova dei suoi gusti raffinati trafugando la Visitazione di Rembrandt (Soult era già proprietario del Tributo di Tiziano, oggi alla National Gallery di Londra), mise assieme in quegli anni una raccolta di quadri spagnoli destinata a rimanere esemplare per tutto l’800. Oltre a Soult, anche i generali Sebastiani e Armagnac erano appassionati collezionisti di arte spagnola.

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Nel poderoso palazzo dell’Escorial fatto costruire da Filippo II, che ospitava allora la parte di gran lunga piú cospicua della quadreria reale poi trasferita al Prado, Sebastiani si impadroní della Morte della Vergine di Murillo, della Liberazione di Genova di Antonio Pereda (Madrid, Prado), della Madonna col san Giovannino di Raffaello e di una Madonna di Leonardo (?) citata da Buchanan come «pendant» della prima. Ma la piú importante tra le opere trafugate da Sebastiani era la Madonna con paesaggio, una delle opere piú notevoli della vecchiaia di Tiziano, che sarà poi acquisita nel 1815 dalla Pinacoteca di Monaco. Dalla chiesa del Monastero dell’Escorial il maresciallo Soult fece prelevare l’affresco con Abramo e i tre angeli (Dublino, National Gallery), dipinto da Juan Fernandez de Navarete (1526-79) insieme ad altre sette scene bibliche. Il generale Armagnac mostrò invece un’insolita predilezione per gli antichi maestri olandesi: nel convento di Miraflores vicino a Burgos riuscí a mettere le mani sulla pala della Vergine di Rogier van der Weyden, oggi al Museo di Berlino, poco prima che il convento venisse distrutto da un incendio. E in un’altra località a noi ignota si impadroní della pala di Jacques Floreins di Hans Memling, giunta in Spagna probabilmente già agli inizi del ’500 con la vedova del donatore. Il quadro fu comunque venduto nel 1855 dal lascito di Armagnac e donato al Louvre. La conquista dell’Andalusia nell’anno 1810 offrí al maresciallo Soult la rara opportunità di espropriare a suo vantaggio opere di cui Denon avrebbe voluto impadronirsi. Oltre a essere comandante in capo delle truppe francesi in Andalusia fu infatti governatore della provincia fino al 1813, e con poteri illimitati. La capitale Siviglia aveva visto nascere la piú importante scuola pittorica del ’600 spagnolo, ed era ricca di opere che ne documentavano i momenti piú alti: Herera, Ribalta, Zurbarán, Murillo e infine Velázquez. Zur-

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barán, praticamente sconosciuto, fu riscoperto proprio da Soult, un «dilettante», che ebbe il merito indiscutibile di comprendere il ruolo decisivo e pionieristico dell’artista andaluso nella pittura spagnola dell’epoca. Uno dei maggiori cicli della pittura spagnola, paragonabile a quelli veneziani di Jacopo Tintoretto, si trovava a Siviglia e raffigurava la vita di san Bonaventura in otto grandi quadri dipinti intorno al 1629 da Francisco de Zurbarán per la chiesa del seminario francescano. Soult si impadroní di cinque episodi della serie, andati poi dispersi in vari musei: quelli di Berlino (distrutto), di Dresda, di Genova e del Louvre (due episodi, tra cui la Sepoltura di san Bonaventura). Un altro capolavoro giovanile di Zurbarán, l’Apoteosi di san Tommaso d’Aquino, dipinto nel 1631 per l’altar maggiore della Chiesa del Colegio Mayor de Santo Tomás, fu esposto a Parigi nel 1813 per essere poi restituito e trasferito al Museo di Siviglia. Nel 1810 Soult fece riunire all’Alcazar di Siviglia numerosi quadri provenienti da chiese e monasteri, quadri che furono visti e descritti in quell’occasione da osservatori contemporanei interessati alle cose d’arte, come Céan. La scelta comprendeva in primo luogo numerosi santi a figura intera, caratteristici di Zurbarán, e i pezzi migliori finirono nelle mani di Soult e di altri generali. Il solo Soult ne possedeva circa una dozzina, tra i quali un San Pietro, un San Tommaso, un San Francesco e un San Cirillo di Costantinopoli provenienti dal Collegio Carmelitano di Sant’Alberto (ai musei di Boston e Saint-Louis); quattro sante martiri dal Convento di Sant’Orsola, tra cui appunto la Sant’Orsola oggi al Palazzo Bianco di Genova, e le Sante Elisabetta e Rufina, rispettivamente al Museo di Montreal e alla Hispanic Society di New York e Santa Eufemia (Madrid, Collezione privata). Il San Lorenzo del 1636 proveniva dal Convento delle Mercedarie Scalze ed emigrò dalla collezione Soult all’Ermitage di Leningrado, la Santa Apollonia finí inve-

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ce al Louvre e i Santi Gabriele e Agata, provenienti dal Collegio Carmelitano di Sant’Alberto al Museo di Montpellier. Ma l’obiettivo principale di Soult in Andalusia erano le opere, sempre molto ammirate, di Bartolomeo Esteban Murillo, e qui il suo successo fu smagliante: Soult riuscí infatti ad assicurarsi opere di prim’ordine per ogni periodo della vita del maestro. Dal ciclo di undici dipinti con cui il giovane Murillo decorò negli anni 1645-46 la crociera del convento francescano di Siviglia e raffiguranti la vita di alcuni santi francescani, Soult ne volle tre per sé, tra cui la nota Cucina dell’angelo o Il miracolo di san Diego de Alcalá (Louvre), e l’Estasi di san Diego davanti alla Croce (Tolosa, museo). Nel Convento dei Mercedari Scalzi, Colzada prese la Fuga in Egitto in grandezza naturale, capolavoro giovanile di Murillo realizzato in piú versioni (oggi rispettivamente a Budapest, Detroit, Genova, Leningrado). Per l’Hospital de la Caridad, della cui confraternita era membro, Murillo creò tra il 1665 e la sua morte un ciclo di otto dipinti con scene della Passione. Anche da questo ciclo Soult sottrasse quattro opere: Cristo guarisce il paralitico (Londra, National Gallery), L’angelo libera Pietro dal carcere (Leningrado, Ermitage), Abramo riceve i tre angeli (Saint Louis, Art Museum) e Giacobbe e Labano (alla Stafford House). Dalla Chiesa dell’Hospital de Venerables Sacerdotes di Siviglia arrivò l’Immacolata Concezione, già nota come «Concezione Soult» (Madrid, Prado), versione tarda (1679) di un motivo piú volte ripreso da Murillo, e dal Palazzo Arcivescovile di Siviglia una simile Madonna in gloria. Le ragioni di quest’ultima scelta da parte di un conoscitore come Soult non sono chiare: prima ancora dell’invasione francese la parte superiore della figura era stata ritagliata e venduta in Inghilterra, mentre al suo posto era stata inserita una copia. Solo nel 1862, quando l’erede di Soult, la marchesa de Morny, vendette il qua-

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dro a Lord Overstolz, già proprietario della parte mancante, l’opera fu restituita alla sua integrità originaria, cosí come possiamo vederla oggi al Walker Art Center di Minneapolis. Possiamo anticipare che nel 1813, quando la fine dell’egemonia napoleonica era nell’aria, Soult ritenne opportuno fare dono al Louvre di alcuni dei suoi quadri, di cui era probabile che sarebbe stata richiesta la restituzione. In questo modo il museo riuscí ancora a venire in possesso di alcuni tra i capolavori piú ambiti da Denon, come quelli provenienti dal ciclo di san Bonaventura di Zurbarán, due Murillo della Chiesa di Santa Maria la Blanca di Siviglia, il cui soggetto si riferisce alla fondazione di Santa Maria Maggiore, e la fantasiosa Allegoria della caducità dipinta da Pereda per l’Hospital de la Caridad. Nel 1826 Soult entrò in contatto col mercante d’arte inglese William Buchanan – alle cui Memorie dobbiamo alcune informazioni preziose – il quale vendette fra l’altro numerose opere di Zurbarán e Murillo al duca di Sutherland. Alla morte di Soult, che curiosamente aveva continuato a guidare la politica francese fino all’ultimo, la sua collezione era però ancora cosí ricca che il re Luigi Filippo la utilizzò per dar vita alla celebre «Galleria spagnola» del Louvre. La Galleria, aperta al pubblico nel 1838, contribuí in modo decisivo al crescente interesse per la pittura spagnola nella seconda metà dell’800. L’esempio del maresciallo Soult fu imitato da altri ufficiali francesi di stanza in Spagna; cosí il sovrintendente generale dell’armata, barone Mathieu de Favriers, requisí di sua mano altri quattro quadri del ciclo di Murillo dal convento francescano di Siviglia. Di questi, i due grandi quadri La morte di santa Chiara e Sant’Egidio davanti a papa Gregorio IX si trovano oggi rispettivamente nei musei di Dresda e di Raleigh, in North Carolina, e mostrano, soprattutto il secondo, l’evidente influsso di Zurbarán. Dalla Chiesa di Santa

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Maria la Blanca Soult e Favriers prelevarono i quattro quadri di soggetto eucaristico dipinti da Murillo nel 1655 per Don Justino de Neve, ossia La Fede e l’Immacolata concezione, oggi rispettivamente nella collezione di Lord Farington e al Louvre, Il sogno del senatore romano e la comparsa dello stesso davanti al papa per la fondazione di Santa Maria Maggiore (oggi al Prado; esposti a Parigi nel 1814 e poi restituiti). Per quanto riguarda re Giuseppe di Spagna, per molti aspetti il piú onesto e liberale tra i fratelli di Napoleone, non è possibile stabilire in che momento abbia deciso di appropriarsi delle opere d’arte della corona borbonica, stante il fatto che, fin quando fu sul trono, egli si considerò legittimo proprietario dei beni borbonici. È chiaro che fin dall’agosto 1812, quando, dopo la vittoria di Wellington a Salamanca, fu cacciato per la prima volta da Madrid, dovette riconoscere l’insostenibilità della propria posizione e prendere adeguate contromisure. Già nel 1809 aveva progettato per decreto la fondazione di un museo che, anni piú tardi, dopo la Restaurazione, sarebbe diventato il Prado. Ma per un simile progetto non c’era piú tempo Giuseppe Bonaparte poté solo mettere in salvo e portare in Francia un certo numero di opere del patrimonio reale, prima di doversi ritirare definitivamente da Madrid e dalla Spagna ormai perduta, nella primavera dell’anno successivo. Il bottino comprendeva fra l’altro una Venere di Tiziano e un’opera della vecchiaia, Tarquinio e Lucrezia (Cambridge, Fitzwilliam Museum), oltre a cinque dipinti attribuiti a Raffaello; per quanto riguarda la pittura spagnola, la Madonna col Pappagallo di Murillo (Madrid, Prado), la Riconquista di Bahia di Juan Bautista del Maino (Madrid, Prado), una Caccia al cinghiale nel parco del Buen Retiro, dipinta da Francisco del Mazo per l’omonima palazzina di caccia e altri quadri di Velázquez di soggetto analogo (Londra, Wallace Collection), un Ritratto di Filippo II di Spagna di

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Coello e l’Ultima Cena dell’allora apprezzatissimo Juan de Juanez (Madrid, Prado). Tra i quadri attribuiti a Raffaello sono considerati tuttora di sua mano la Madonna del pesce (Madrid, Prado) e la Salita al Calvario conosciuta anche come Spasimo di Sicilia, mentre la grande Sacra famiglia sotto la quercia e la Madonna con la Perla (entrambi a Madrid, Prado) vengono oggi attribuiti agli allievi e collaboratori di Raffaello Perino del Vaga e Giulio Romano. La maggior parte dei quadri, dei disegni e delle incisioni sottratti in fretta e furia ai castelli reali prima della partenza, accompagnarono Giuseppe Bonaparte nel suo viaggio di ritorno. Un paio di quadri erano nelle mani di generali fidati, ossia il ritratto giovanile di Filippo IV di Velázquez, consegnato al generale Deselle (Londra, National Gallery), e lo Sposalizio della Vergine di Murillo (Londra, Wallace Collection), affidato al generale Victor, duca di Belluno. Ma con l’ultima sconfitta, riportata presso la cittadina di Vittoria vicino ai Pirenei il 21 giugno 1813, anche il grosso del carico cadde in mano inglese. Giuseppe aveva dovuto abbandonare il suo bagaglio di viaggio per mettersi in salvo con la cavalleria: gli inglesi vi trovarono, oltre a cinque milioni di reali sottratti alle casse dello Stato, quasi duecentocinquanta dipinti arrotolati e bauli pieni di disegni e incisioni. Quando il duca di Wellington, comandante in capo delle truppe inglesi, venne a sapere del ritrovamento, fece spedire subito il bagaglio in Inghilterra, dove il fratello Henry lo prese sotto la sua vigilanza. All’inizio del 1814 egli poté rendere pubblico un elenco dei 165 quadri piú preziosi, già esposti nel frattempo da un esperto, il futuro direttore della National Gallery, William Seguier. Tra gli altri conoscitori che ebbero occasione di vedere i quadri, il già citato presidente della Royal Academy Benjamin West ammirò soprattutto un Cristo sul Monte degli Ulivi del Correggio, del quale conosceva un’altra versione nella

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collezione del noto banchiere Angerstein. Che i quadri provenissero dalla raccolta dei reali di Spagna era ormai cosa nota, poiché la serie conteneva quattro opere abbastanza conosciute di Velázquez: i ritratti del papa Innocenzo X e del poeta Francisco Quevedo, oltre alle due opere giovanili già citate dal Palomino nel Palazzo del Buen Retiro, ossia il Portatore d’acqua di Siviglia e il «bodegone» dei due fanciulli bevitori. Vi erano poi un paesaggio tiberino presso il Ponte Molle a Roma di Claude Lorrain, Isacco benedice Giacobbe di Murillo (Dallas, Virginia Meadows Museum), due quadri giovanili di Ribera col curioso Sabba, ispirato a un’incisione di Musi ripresa a sua volta da Raffaello, un Giulio Romano, due ritratti di Rubens tra cui l’arciduchessa Clara Eugenia vestita da monaca, oltre a numerosi altri fiamminghi e olandesi del Seicento in variopinta mescolanza. Lo stesso duca di Wellington non aveva evidentemente una chiara idea del valore di quelle opere, tant’è vero che nel marzo 1814 scrive al fratello, nominato nel frattempo ambasciatore a Madrid: «Da un rapido sguardo mi è sembrato che non ci fosse nulla di eccezionale. Non ci sono in ogni caso i dipinti migliori di Raffaello e altri che avevo visto a Madrid, e preferisco le incisioni e i disegni di scuola italiana. Questo mi fa pensare che l’intera collezione sia stata trafugata in Italia e non in Spagna». Accanto alle opere «piú preziose» degli antichi maestri, nell’elenco di Seguier si trovano citate oltre una cinquantina di opere di pittori «moderni», sistemate nella residenza di campagna del duca, Stratfield-Saye House. Solo in tempi recenti è stata riscoperta tra queste ultime un’importante opera di Goya, raffigurante la marchesa di Santa Cruz, figlia del protettore di Goya duca di Ossuna, in veste di Musa che suona la lira, seduta su un divano. Benché lo stesso duca di Wellington fosse stato ritratto due volte da Goya, nel ri-

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tratto a mezzo busto della National Gallery e un’altra volta a cavallo, quest’ultimo ritratto rimase nascosto nella sua residenza di campagna fino al 1958, quando fu acquistato dal Los Angeles County Museum. Una volta appurata l’origine dei quadri, il duca di Wellington si rivolse ripetutamente al governo spagnolo per avviare le pratiche di restituzione. Nel novembre del 1816 si vide però rispondere che Wellington ne era venuto in possesso in modo «retto e onesto», e che il re Ferdinando VII gliene faceva dono come ricompensa per il ruolo svolto nella liberazione della Spagna. I quadri si trovano tuttora alla Apsley House, residenza londinese del duca. Gli ultimi avvenimenti descritti seguono di alcuni anni il periodo piú felice delle conquiste napoleoniche. Torniamo dunque in Spagna, e vedremo che il breve soggiorno di Vivant Denon e i suoi non eccellenti risultati si spiegano con la situazione politica di quei mesi. Nell’inverno 1808-809, mentre Napoleone ristabiliva con un grande sforzo militare l’egemonia francese in Spagna, giunse la notizia che gli austriaci si preparavano con un massiccio arruolamento di truppe a una nuova offensiva militare. Come il conte di Metternich, ambasciatore a Parigi, aveva lasciato capire abbastanza chiaramente, la corte austriaca non aveva mai riconosciuto la legittimità del trono di Giuseppe Bonaparte, e questo fatto, insieme a un vecchio desiderio di rivincita e al blocco continentale, forní un buon pretesto per riaprire le ostilità con Napoleone, che gli austriaci credevano impegnato sul fronte spagnolo. Con una di quelle decisioni fulminee a lui peculiari, al sopraggiungere di queste notizie allarmanti Napoleone affidò il comando nelle mani del maresciallo Soult e si diresse in tutta fretta verso Parigi, dove giunse il 22 gennaio. Il 6 aprile l’Austria dichiarò guerra alla Francia e l’arciduca Carlo invase la Baviera, alleata dei francesi. Dopo le vittorie di Landshut e di Eckmühl e la con-

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quista di Ratisbona gli austriaci si ritirarono in Boemia, e il grosso delle truppe francesi poté marciare senza gravi ostacoli su Vienna, che capitolò il 10 maggio. Il giorno successivo un ufficiale francese occupava il castello del Belvedere, dove fin dal 1785 era stata sistemata la pinacoteca imperiale, che fu subito messa sotto sequestro. Il 7 giugno arrivò Denon accompagnato dal sovrintendente Daru, e si presentò al direttore del museo, il pittore Füger, esibendogli le proprie credenziali. Il giorno dopo, mentre Füger era a pranzo dal governatore generale (nonché esperto d’arte) Andréossy, Denon incominciò il suo lavoro d’ispezione, basandosi sui ricchi cataloghi di Mechel e Rosa, predecessori di Füger. Il direttore del Belvedere era però riuscito, ai primi di aprile, a mettere in salvo 45 casse con 624 quadri imbarcandole su un battello danubiano diretto a Pressburgo: le casse contenevano tutti i famosi capolavori della collezione asburgica, compresi i quadri di soggetto religioso acquistati nei Paesi Bassi durante il regno di Giuseppe II. La parte rimanente era comunque abbastanza ricca da riempire un intero museo. Per motivi ignoti Füger non aveva messo al sicuro tutti i grandi quadri di Pieter Brueghel il Vecchio, e Denon si affrettò a requisire per Parigi le quattro tele rimaste a Vienna, ossia l’Estate (New York, Metropolitan Museum) e l’Autunno (Vienna) dal ciclo delle Stagioni, il Ladro di uccelli e le Nozze contadine (entrambi a Vienna). Né si lasciò sfuggire il Ritratto dell’orefice Jan de Leeuwe (Vienna) di Jan van Eyck, attenendosi ancora una volta al principio per cui un direttore di museo deve tener conto di tutte le epoche della storia dell’arte, non solo di quelle alla moda. Tra le altre opere del primo Rinascimento olandese scelse poi il San Girolamo a mezza figura di Quentin Massys, due Tentazioni di sant’Antonio di Hieronymus Bosch, San Luca che dipinge la Madonna di Jan Gos-

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saert del 1537 e la grande Vocazione di san Matteo di Jan van Hemessen, come pure il ritratto di Margherita di Parma, governatrice dei Paesi Bassi, di Anthonis Mor e quello di re Carlo IX di Francia di François Clouet. Poiché le celebri opere di Dürer appartenenti alla collezione dell’imperatore Rodolfo II non erano piú a Vienna, Denon dovette accontentarsi di un disegno del maestro per la Cappella Fugger di Augsburg (Sansone rimuove le porte di Gaza) e di alcuni quadri della sua cerchia o coevi: un ritratto di giovinetto di Hans Baldung Grien del 1515, l’Erezione della Croce di Barthel Beham, una Natività di Hans von Kulmbach e l’incantevole Notte Santa di Altdorfer (tutti a Vienna). Evidentemente piú per interesse personale che per il museo fece aggiungere infine un paio di quadri piú antichi, ossia due Padri della Chiesa da un ciclo realizzato intorno al 1370 da Teodorico di Praga e proveniente dal castello di Carlstein e una tavola della Crocifissione attribuita a Nicolas Wurmser. Il classicista Füger, evidentemente non molto interessato a questi quadri, si scusò per la povertà del bottino. La migliore tra le opere di Tiziano rimaste a Vienna era la cosiddetta Violante, che era però registrata nel catalogo Mechel come opera di Palma il Vecchio, e che probabilmente per questo motivo fu lasciata da parte. Due altre opere di Tiziano erano state scartate in quanto repliche: l’una, probabilmente di mano del maestro, riprende la versione Bridgewater della Diana e Atteone dipinta per Filippo II (alla collezione Paul Getty di Sutton Place, Essex), l’altra è invece una Madonna coi santi Gerolamo, Stefano e Maurizio, eseguita con aiuti di bottega, di cui esisteva già una versione al Louvre. I due quadri furono però ugualmente selezionati da Denon insieme a un ritratto di cortigiana di Palma il Vecchio (Marsiglia). Facevano parte della serie anche il Fanciullo con la freccia, attribuito a Giorgione, due scene allegorico-mitologiche di Andrea

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Schiavone (Amore e Psiche e Allegoria della musica, entrambe a Vienna), e due di Paris Bordone, Marte disarma Amore e Marte, Venere e Amore nelle sembianze di una coppia di amanti (Vienna), oltre ad altri seicentisti e settecentisti come il ritratto di Salviati di Francesco di Santacroce e una Madonna di fra Bartolomeo (entrambi a Vienna). A differenza di queste ultime opere, la maggior parte dei quadri viennesi non fecero piú ritorno e fanno tuttora bella mostra nei musei della provincia francese. Cosí ad esempio Digione, Caen e Grenoble possiedono tre opere di Andrea del Sarto; Lione, Bordeaux e Bruxelles quattro Tintoretto e Veronese; Tolosa la Madonna di Loreto di Agostino Carracci, oltre a opere del Parmigianino, di Bernardino Luini ecc. Il Museo di Grenoble custodisce, accanto a una Madonna di Solario, una delle perle allora misconosciute del bottino viennese, ossia l’Ebbrezza di Noè, opera tarda di Giovanni Bellini, che fino all’attribuzione di Roberto Longhi portava il nome di Lorenzo Lotto. Tra le moltissime opere di Rubens conservate nella collezione imperiale, l’Assunzione della Vergine proveniente dalla Chiesa dei Gesuiti di Anversa era rimasta a Vienna a causa delle sue dimensioni colossali. Denon decise senz’altro di tagliarla in tre parti e di trasportarla a Parigi, insieme alla tavola dei Santi Pipino e Bega, a mezza figura. La lista delle requisizioni non cita nemmeno una delle numerosissime opere di Van Dyck presenti nella galleria: Füger si era preoccupato di sottrarle alle mani dei francesi, come anche le rare sculture di marmo e di bronzo e gli innumerevoli oggetti d’arte preziosi appartenenti al tesoro di famiglia degli Asburgo. Per quanto riguarda le armi e le armature di gala, Napoleone era particolarmente interessato a quella di Francesco I, che nella battaglia di Pavia era stata rubata dai lanzichenecchi imperiali. L’antico sarcofago delle Amazzoni della raccolta viennese fu usato al Louvre come supporto per il Galata morente del Campidoglio.

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Il fatto che Denon abbia assegnato ai musei di provincia la maggior parte delle opere requisite a Vienna, dimostra che egli non sopravvalutava il suo bottino. Persino i grandi quadri di Pieter Bruegel il Vecchio, oggi cosí amati, testimoniano certo il gusto personale di Denon, ma erano allora ben lontani dall’incontrare il favore generale del pubblico: non ci risulta che siano mai stati esposti al Louvre, e anche le altre opere viennesi non ebbero al Louvre vita facile. Quando giunsero a Parigi, la Grande Galleria era stata chiusa da un anno per grandi lavori di ristrutturazione, e fu riaperta solo il 2 aprile 1810, in occasione dei festeggiamenti per le nozze dell’imperatore con la principessa Maria Luisa d’Austria. Ma non era certo quello il momento piú adatto per esporre i dipinti della Casa d’Austria, dato che proprio il Louvre, la Grande Galleria e il Salon d’Apollon fecero da cornice alla cerimonia nuziale. Lo sfarzo di quell’avvenimento superò se possibile anche quello della vecchia corte di Versailles. Fu il punto culminante della carriera di Napoleone, il cui astro doveva andare incontro, negli anni successivi, a un sempre piú rapido declino. Il disegnatore Benjamin Zix, alle cui doti di minuzioso cronista Denon amava ricorrere in queste occasioni, raffigurò in un foglio lungo un metro la processione solenne della corte e degli alti dignitari mentre sfilano per la Grande Galleria tra due ali di ospiti illustri, sotto gli sguardi, per cosí dire, dei grandi maestri antichi. La passione di Napoleone per i gesti simbolici era altrettanto spiccata quanto la sua incompetenza nelle cose d’arte. Racconta un aneddoto che durante i preparativi per i festeggiamenti Denon cercò di spiegare all’imperatore com’era difficile spostare una tela di grande formato come le Nozze di Cana di Paolo Veronese per fare posto a una seconda tribuna. Napoleone gli avrebbe risposto: «Alors brûlez-les». Anche se la battuta, riferita dal prefetto di palazzo de Bausset, non

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va presa del tutto sul serio, può dare un’idea della scarsa considerazione in cui erano tenuti a quell’epoca capolavori oggi inestimabili. Quasi vent’anni di ruberie, confische, svendite all’asta, avevano determinato un eccesso di offerta con effetti negativi sulle quotazioni di mercato, effetti destinati a protrarsi anche dopo la fine dell’età napoleonica. Nello stesso tempo, tuttavia proprio il ribasso dei valori di mercato favorí un aumento della domanda, che grazie anche all’opera di abili mercanti d’arte come Lebrun, Buchanan, Nieuwenhuis, creò le condizioni per un nuovo tipo di collezionismo. Nonostante le approfondite ricerche degli ultimi cinquant’anni, i percorsi seguiti da questo nuovo collezionismo sono ancora spesso in gran parte oscuri. Se ad esempio sappiamo che la celebre Venere davanti allo specchio di Velázquez, confiscata all’ex-ministro spagnolo Godoy, passò prima nelle mani del generale Murat, cognato di Napoleone, e poi in quelle di Lord Rockeby, approdando infine alla National Gallery di Londra nelle vicissitudini dell’Estate di Brueghel (già registrata con questo titolo nel catalogo viennese di Mechel) manca un anello intermedio: quello che dovrebbe congiungere il deposito del Louvre al Metropolitan Museum di New York. È un problema su cui ritorneremo nel capitolo delle restituzioni.

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Capitolo ottavo L’ultima missione di Denon in Italia (1811-12). «Una enorme massa di quadri...»

Per seguire l’ultimo viaggio intrapreso da Vivant Denon come direttore generale dei musei francesi, dobbiamo tornare ancora una volta in Italia. Denon aveva in mente un obiettivo preciso. Col suo straordinario istinto di conoscitore era ben consapevole del relativo insuccesso delle sue ultime due missioni, e d’altra parte la lunga frequentazione dei vari periodi e delle varie forme artistiche aveva modificato i suoi criteri di giudizio. Come si legge nella prefazione del suo ultimo catalogo, Denon si rendeva conto ormai che solo una prospettiva storica poteva consentire uno sguardo libero e imparziale sull’arte antica e che un gusto prevenuto non poteva fare a meno di limitarne la comprensione. In altre parole, che l’imperante gusto classicistico impediva di comprendere la perfezione dei cosiddetti primitivi. Aveva letto gli autori antichi delle Vite del Vasari fino all’opera del Borghini e del Lanzi, e col suo modo di procedere sistematico sentiva venuto il momento di colmare quella grave lacuna. Nel suo studio fondamentale sulla missione di Denon, Marie-Louise Blumer ha sottolineato l’importanza del lavoro svolto da Denon nella riscoperta dell’arte italiana primitiva, trascurata per secoli, e nell’ambito piú generale della storia dell’arte. Da questo punto di vista le acquisizioni di Denon nel corso del suo ultimo viaggio furono le piú ricche di conseguenze per il collezionismo ottocentesco e moderno. Come vedremo piú

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tardi, a partire dal 1814-15, quando incominciarono a formarsi i primi musei nazionali sul modello del Louvre, i loro acquisti appaiono segnati dall’esempio di Denon. Ha inizio praticamente con lui quell’assalto ai fiorentini e agli altri primitivi italiani che caratterizza l’epoca postnapoleonica. L’ultima spedizione di opere italiane, del resto poco conosciute, era giunta al Louvre nel 1803. Nel 1808 furono acquisite per via pacifica duecento opere della famosa Galleria Borghese, cedute dal principe Camillo Borghese, marito della bella Paolina Bonaparte, per una somma di otto milioni di franchi versati in parte sotto forma di possedimenti nel Piemonte e nella Slesia. Si trattava però quasi esclusivamente di sculture, perlopiú antiche, e di alcune moderne come il monumento marmoreo con statua equestre di Sigismondo Malatesta. Denon era però al corrente da tempo della brillante attività collezionistica del pittore Andrea Appiani, direttore del museo milanese di Brera, fondato nel 1806. Appoggiato e incoraggiato dal viceré e figliastro di Napoleone Eugenio Beauharnais, Appiani aveva iniziato nel 1805 col suo assistente Edwards una ricognizione sistematica dell’Italia settentrionale da Venezia ad Alessandria, cercando opere d’arte nei conventi secolarizzati, nelle chiese e nei municipi. Le ricerche di Appiani fruttarono circa settecento dipinti, che vennero vagliati criticamente e contribuirono a creare il primo nucleo di una galleria destinata a occupare una posizione di primo piano tra gli Uffizi e le raccolte vaticane. I successi di Appiani suscitarono, com’è comprensibile, l’invidia di Denon. Ma l’occasione per una nuova spedizione artistica in Italia gli fu data dalla secolarizzazione dei beni ecclesiastici nei nuovi dipartimenti di Genova, dell’Arno-Toscana e del Mediterraneo-Appennino: secolarizzazione disposta da Napoleone dopo il passaggio dell’ex-granducato di Toscana a diparti-

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mento francese. La nuova ordinanza dell’imperatore specificava inoltre che tutte le opere d’arte conservate nei conventi soppressi dovevano essere inventariate e raccolte dai prefetti in appositi magazzini. I prefetti chiesero al Ministero degli interni direttive piú precise, e nell’estate del 1811 Denon ottenne di essere inviato ancora una volta in Italia a selezionare opere per il Louvre. Malgrado i suoi 56 anni Denon intraprese il viaggio, che era il suo settimo e ultimo, con fervore giovanile: questa volta non era piú al seguito di un esercito invasore e non c’erano piani politico-militari a intralciare i suoi movimenti. Denon poteva dedicarsi con la massima libertà e con tutta calma a un compito che egli stesso si era assegnato. Partí da Parigi ai primi di agosto del 1811 e fece ritorno solo nel gennaio 1812. Lo accompagnava, col compito di rilevare i campi di battaglia italiani per la sua grande raccolta di incisioni il disegnatore Benjamin Zix, che però morí durante il viaggio. Dopo aver toccato Lione Denon proseguí lungo la valle del Rodano in direzione della Riviera, dove percorse la nuova strada della Grande Corniche tra Nizza e Livorno. Durante una sosta a Savona scelse sei dipinti, tra cui l’Assunzione della Vergine di Luigi Brea e un Noli me tangere, unica opera firmata di Giovanni Massone, singolare pittore alessandrino (oggi al Museo di Torino). Dello stesso Massone acquistò piú tardi per la somma di 3000 franchi la pala d’altare della cappella fatta costruire da papa Sisto IV per la sua famiglia nella Chiesa di Savona: pala raffigurante, oltre allo stesso papa e al cardinale Giuliano della Rovere in veste di donatori, la Nascita di Cristo nella tavola centrale. Una Madonna in trono con santi datata 1487 e registrata nell’inventario come opera di Andrea da Tuccio, proveniente dalla chiesa di San Giacomo, è andata perduta. Arrivando a Genova pochi giorni dopo, Denon vi trovò già raccolte numerose opere provenienti dalle

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chiese della città e dai conventi dei dintorni. Tra queste furono scelti l’imponente altare tripartito con la Deposizione o il Compianto di Cristo nella parte centrale, l’Ultima Cena nella predella e le Stigmate di san Francesco nella lunetta, dalla Chiesa di Santa Maria della Pace, capolavoro di Joos van Cleve oggi al Louvre; una Madonna con angeli adoranti di Filippino Lippi (oggi al Palazzo Bianco di Genova), proveniente dalla Chiesa di San Teodoro, una Ascensione oggi perduta del manierista senese Domenico Beccafumi e una Natività di Luca Cambiaso. Durante il viaggio di ritorno aggiunse ancora l’altar maggiore della Chiesa di Santo Stefano col martirio del santo di Giulio Romano (oggi al Louvre, Parigi): «le plus beau Jules Romain qui existe», come Denon stesso ebbe a esprimersi. Proseguendo il viaggio lungo la costa ligure, Denon trovò a Carrara, dove intendeva anche procurarsi del marmo per i monumenti parigini, un rilievo di terracotta di Luca della Robbia, che volle prendere con sé, e verso la metà di ottobre raggiunse la prima grande città d’arte toscana, Pisa. Un incisore di nome Lasinio aveva già riunito e inventariato alcuni quadri nella cappella del Camposanto, tra cui la grande Madonna in trono di Cimabue, fiancheggiata da tre coppie di angeli e proveniente dalla Chiesa di San Francesco, «inventorié pour être vendu la somme de cinq francs», come annotò Denon nel suo diario di viaggio. Le quotazioni dei capolavori del Trecento erano allora decisamente basse! Dallo stesso convento della Maestà di Cimabue proveniva la tavola di Giotto San Francesco riceve le stimmate: le due opere si fanno oggi ammirare nella prima sala della sezione italiana del Louvre. Dalla chiesa sconsacrata di Santa Croce presso Pisa Denon prese l’Incoronazione della Vergine di Zenobi Machiavelli, firmata e datata 1473, oggi al Museo di Digione, dalla Chiesa di San Paolo il trittico di Taddeo di Bartolo anch’esso firmato e datato 1390, oggi a

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Grenoble, e dal Convento di San Silvestro la Madonna del raro pittore pisano Turino Vanni, che porta la sua firma (Parigi, Louvre). Com’è facile vedere, Denon mirava a un obiettivo piuttosto inconsueto per quegli anni: mettere le mani su opere antiche e firmate dell’arte pisana, allora in gran parte sconosciuta. Benché il Duomo di Pisa non fosse stato secolarizzato, Denon non si fece scrupolo di trafugare anche la tavola di Benozzo Gozzoli col Trionfo di Tommaso d’Aquino celebrata dal Vasari. La tavola risaliva all’epoca del ciclo di affreschi per il Camposanto di Pisa, che impegnò Benozzo Gozzoli per vari anni, ed era appesa in origine dietro il trono dell’arcivescovo. Un altro quadro conservato al Duomo, ma di epoca piú tarda, il Sacrificio di Isacco di Giovanni Bazzi detto il Sodoma, fu destinato anch’esso a Parigi perché il Louvre non possedeva ancora nessuna opera dell’importante pittore senese. Infine, sotto l’impressione suscitata dal grande pulpito del Duomo e da altre opere di Nicola e Giovanni Pisano, Denon ordinò prima di partire per Firenze di trasportare anche un rilievo raffigurante una Madonna, che fu il primo esempio di antica scultura pisana a raggiungere un museo nordico. Come si ricorderà, agli inizi della Rivoluzione francese Denon aveva vissuto a lungo a Firenze e conosceva bene le sue chiese e i suoi monumenti antichi. La lunga esperienza accumulata gli permetteva ora di vedere le cose con altri occhi: in particolare tutte le opere del primo Rinascimento, che allora, prima del grande fervore collezionistico ottocentesco, dovevano presentare un quadro di una ricchezza per noi inimmaginabile. Tra i numerosi artisti che soggiornavano in Italia, solo i tedeschi della Confraternita di San Luca a Roma e i loro seguaci avevano incominciato a rivalutare e a imitare i pittori primitivi o «gotici» della Toscana, e nella cerchia dei conoscitori Denon costituiva un’ecce-

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zione rarissima. Ecco quanto riferisce verso la metà di ottobre al ministro degli Interni: «A Pisa e a Firenze ho trovato quadri assai preziosi: conformemente alle vostre disposizioni i quadri di Firenze erano già stati assegnati all’Accademia. Ho avuto un colloquio col signor Alessandri, direttore di questo istituto e delle altre gallerie, e gli ho trasmesso un memorandum di cui allego una copia, pregandolo di mettere a nostra disposizione un’opera per ciascun maestro indicato nell’elenco, e suggerendogli soprattutto opere che per qualità e stato di conservazione siano degne della collezione di Sua Maestà. Ho l’onore di informarla che l’elenco non contiene nessuna delle opere insigni conservate nella Galleria [ossia agli Uffizi]. Sono tutti quadri prelevati dai conventi e dalle loro chiese. Il signor Alessandri mi ha consentito di esaminare il deposito di San Marco, che contiene un migliaio di quadri: opere perlopiú di scuola e non abbastanza significative da arricchire le nostre raccolte». In un’altra lettera, posteriore, Denon dirà di aver preso un solo quadro per ogni maestro, per non privare la città dei suoi tesori piú preziosi. Se si considerano le straordinarie ricchezze artistiche di Firenze, Denon agí in effetti con una discrezione insolita. Ecco nei suoi punti essenziali l’elenco delle opere requisite, quasi tutte ben note ai visitatori del Louvre: l’Incoronazione della Vergine del Beato Angelico proveniente dalla Chiesa di San Domenico a Fiesole, il convento in cui l’artista visse e operò per diciotto anni; una predella di Agnolo Gaddi con la Crocifissione e scene della Vita di san Giovanni Battista e san Giacomo dalla Chiesa di Santa Maria degli Angeli a Firenze e una parte della predella dello splendido altare dell’Adorazione dei Magi, dipinto da Gentile da Fabriano poco prima di morire per la Chiesa della Santa Trinità: raffigura la Presentazione al Tempio, e anche in questo caso, come in tanti altri, non si capisce perché le altre

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due parti della predella (raffiguranti la Natività e la Fuga in Egitto) siano state scartate e la tavola smembrata. L’opera piú ragguardevole di cui Denon, non senza difficolta, riuscí a impadronirsi è la grande pala d’altare a tre archi realizzata da Filippo Lippi tra il 1437 e il 1443 per la cappella dei Barbadori nella Chiesa di Santo Spirito; possiamo ammirarla ancora oggi al Louvre. La Madonna in piedi tra due colonne è circondata da angeli, davanti a lei sono inginocchiati in adorazione i santi Frediano e Agostino. Ma anche in questo caso la tavola centrale fu separata dalla predella, che ne è in qualche modo la continuazione narrativa tripartita, e si trova tuttora agli Uffizi. Invece della tavola scelta da Denon fu però inviata a Parigi, piú o meno intenzionalmente, un’altra Madonna di Filippo Lippi, che certo non corrispondeva alle aspettative di Denon, e solo dopo ripetute insistenze l’errore fu rettificato. Di un’altra pala d’altare di Filippo Lippi, dipinta per il monumento funebre del suo protettore Cosimo de’ Medici e la sua cappella in Santa Croce, giunsero a Parigi solo due parti della predella con scene della vita dei santi Francesco, Damiano e Cosimo: scene dipinte, oltretutto, non dallo stesso Lippi ma dal migliore dei suoi collaboratori, Francesco Pesellino. Con la grande tavola della Visitazione della Vergine di Domenico Ghirlandaio e la Madonna in trono tra i santi Giuliano e Nicola di Lorenzo di Credi, il Louvre venne in possesso di altre due opere di sicura autenticità e del periodo piú fulgido del primo Rinascimento fiorentino, realizzate entrambe negli anni 1490-91 per il ricco commerciante Lorenzo Tornabuoni e la sua cappella nella Chiesa di Santa Maria, Maddalena de’ Pazzi. Benché tagliata ai lati, la Visitazione di Domenico Ghirlandaio appare di gran lunga piú vivace e artisticamente riuscita dell’arido Lorenzo di Credi, scolaro del Verrocchio. E non si capisce per quale motivo Denon non abbia richiesto in quell’occasione nessuna delle molte e impor-

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tanti opere di Sandro Botticelli, il piú geniale, dopo Lippi, dei maestri fiorentini, mentre poco piú tardi lo stesso Denon inviò allo zar Alessandro I di Russia l’Adorazione dei Magi della collezione Giustiniani (già a Pietroburgo, ora alla National Gallery di Washington). La colpa non fu però, evidentemente, del solo Denon, il quale aveva scelto – probabilmente all’Accademia – una Madonna a mezza figura di forma quadrata, e si vide invece spedire un anno piú tardi un tondo che risultò essere una replica di bottega della nota Madonna botticelliana. Mentre Denon continuava in tutta calma a selezionare altri quadri fiorentini, come la Madonna con santi datata 1504 di Mariotto Albertinelli (da Santa Trinità), una Salita al Monte Calvario di Benedetto Ghirlandaio e il Cristo appare alla Maddalena di Angelo Bronzino, entrambi da Santo Spirito, o la Sacra famiglia del Pontormo, dal Convento di Sant’Anna vicino a San Frediano (tutti al Louvre, Parigi), lo raggiunse l’ordine inatteso di recarsi a Roma passando dall’Umbria. Il motivo era il seguente: da quando i dipartimenti del Tevere e del Trasimeno (Roma, Umbria, Perugia), prima sottoposti al Ministero degli interni, erano diventati «biens de la couronne», il decreto sulla confisca dei beni conventuali aveva perso la sua efficacia. L’imperatore aveva perciò firmato un nuovo decreto esteso anche a questi territori e dichiarava senz’altro proprietà della corona tutte le opere d’arte degli istituti messi sotto sequestro. L’incarico di Denon consisteva dunque nell’ispezionare queste opere e nel decidere del loro destino. Sapendo inoltre che l’imperatore, per motivi politici, intendeva ridurre l’enorme numero di chiese e conventi esistenti a Roma, Denon era preoccupato di metterne in salvo le opere d’arte e pensava addirittura di farne staccare gli affreschi dalle pareti. Arrivò cosí a proporre seriamente di trasferire su tela i 48 affreschi di Do-

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menico Zampieri, detto il Domenichino, dal convento di Grottaferrata e di usarli per la decorazione della Galérie d’Apollon al Louvre. Denon sapeva però che i conventi e le chiese di Roma non erano ricchi di altari e pale di quel primo Rinascimento che era allora al centro dei suoi interessi. Si limitò perciò a scrivere a Parigi: «J’ai trouvé une immense quantité de peintures qui, si elles vous étaient adressées, vous embarasseraient plus qu’elles ne pouvaient vous servir», e diede disposizioni al prefetto e all’intendente, barone Roederer e conte di Tournon, su come conservarli in futuro. Accompagnato dal segretario generale del dipartimento del Trasimeno che aveva diretto l’inventario dei conventi soppressi, Denon si mise quindi sulla via del ritorno, che lo portò a Milano passando per Spoleto, Assisi, Foligno, Perugia, Arezzo, Bologna e Parma. A Foligno scoprí la singolare forza espressiva del pittore locale Niccolò Alunno e scelse una Madonna con santi; a Città di Castello riconobbe la Madonna del dimenticato Luca Signorelli in una Natività citata dal Vasari. A Todi trovò invece tre Spagna attribuiti al Perugino e a Perugia dieci quadri, tra cui una Visitazione oggi perduta di Rosso da Sant’Agostino, due scene da una predella con la Vita di san Nicola di Bari del Beato Angelico (oggi al Vaticano; la pala corrispondente è invece alla Pinacoteca di Perugia) provenienti dalla Chiesa di San Domenico, due Miracoli di san Bernardo attribuiti al Pisanello dalla Chiesa di San Francesco (Perugia, Pinacoteca; polittico oggi attribuito a Francesco di Lorenzo). Come omaggio a Giorgio Vasari, padre della storiografia artistica italiana, scelse ad Arezzo la sua Annunciazione, e durante un breve pernottamento a Parma fece in tempo a «pizzicare» una Madonna con santi di Cima da Conegliano allo scopo di completare l’altare della Vergine proveniente dalla Cattedrale, che era a Parigi già dal 1803. A Milano fu ricevuto in udienza dal viceré Eugenio di Beauharnais, e dopo una visita minuziosa della galle-

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ria di Brera sollecitò uno scambio di dipinti tra i due musei, sostenendo che il Louvre aveva fiamminghi e olandesi in soprannumero (che invece mancavano a Brera), e presentava lacune che la «sovrabbondanza» milanese avrebbe permesso di colmare facilmente. Tra le opere piú ambite da Denon vi era la Madonna della famiglia Casio di Giovanni Boltraffio (con l’eccezione dello stesso Leonardo, la scuola leonardesca era al Louvre poco rappresentata), come anche la grande tavola con la Predica di santo Stefano di Vittore Carpaccio, appartenente a una serie di quattro quadri (a Brera, al Louvre, a Berlino e a Stoccarda) che fin dal 1518 adornavano la chiesa del santo a Venezia; e infine due quadri di Marco d’Oggiono, altro pittore di scuola leonardesca. Nello stesso anno 1811 il direttore di Brera Andrea Appiani entrò in possesso dell’opera forse piú importante della galleria, la Madonna in trono del duca Federico di Montefeltro, un capolavoro di Piero della Francesca che evidentemente non fu mostrato a Denon. Benché Denon avesse offerto in cambio tre opere che oggi giudicheremmo piú che degne, ossia l’Ultima Cena di Rubens proveniente da Malines, la Madonna con sant’Antonio di Van Dyck da Anversa e il Sacrificio di Isacco di Jordaens, che lo stesso Denon aveva portato da Berlino (attribuendolo a Rubens), Appiani non ne fu soddisfatto, e soprattutto non volle separarsi dalla Madonna della famiglia Casio. Alla fine Denon fu costretto ad aggiungere due ritratti di Rembrandt, tra cui quello della sorella, e un altro Van Dyck: cosa che, non del tutto a torto, provocò la sua indignazione. In una lettera del marzo 1812 al sovrintendente imperiale, il duca di Cadore, scrive infatti Denon nello stile che gli è caratteristico: «Di che si tratta in realtà? L’imperatore prende dal suo museo di Brera cinque quadri per il suo museo di Parigi, dove cerca di completare la piú straordinaria raccolta che sia mai esistita, e che deve in fondo la sua esistenza proprio alle vittorie dell’impera-

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tore. Sua Maestà avrebbe potuto prendere questi quadri senza dover mandare in cambio quelle tre belle opere di scuola fiamminga». Sentiamo parlare qui il diplomatico e il cortigiano, che non solo sfrutta il monarca per i propri scopi, ma sa nasconderli dietro la facciata dell’adulazione. Quest’ultimo bottino di «primitivi» italiani, che arricchí il Louvre di alcuni dei suoi piú importanti capolavori, si deve quasi esclusivamente ai meriti di Denon. Col suo arrivo il Louvre aveva raggiunto in effetti il culmine del suo splendore. Come spesso accade nella storia, questo punto culminante coincide col graduale declino dell’egemonia francese sull’Europa. Mentre Denon si dedicava spensieratamente alla propria missione italiana, si svolgeva la disastrosa campagna di Russia: i quadri italiani giunsero a Parigi poco dopo il ritorno della «grande armée», ridotta all’ombra di se stessa. Nel tentativo di far dimenticare la disfatta, che vide impegnato il governo per tutto il 1812, anche Denon si affrettò a mostrare ai parigini i nuovi tesori provenienti dall’Italia. L’esposizione e l’accurato catalogo comprendevano 124 quadri, 82 dei quali appartenevano alle prime scuole italiane, mentre gli altri erano «primitivi» tedeschi e fiamminghi non ancora esposti in pubblico, oltre a 16 spagnoli già consegnati. A differenza dei vecchi cataloghi, Denon non si limitò a registrare i quadri con la semplice indicazione dell’autore e del soggetto ed eventuali cenni alla località di provenienza, ma aggiunse brevi biografie degli artisti, accompagnate dall’indicazione sistematica del luogo d’origine e da accenni alle fonti piú antiche, dal Vasari al Borghini, al Lanzi, al Milizia ecc. Il catalogo di Denon del 1812 si presenta dunque come il prototipo di tutti i successivi cataloghi di museo, preceduto su questa strada solo da alcuni archeologi come Ennio Quirino Visconti.

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Capitolo nono La fine del «Musée Napoléon» (1814-15). Restituzioni e riconquiste

La fine del «Musée Napoléon», il piú grande museo d’arte d’Europa, coincise logicamente con la caduta dell’Impero. La dispersione delle ricchezze raccolte nel Museo non fu però immediata, e in quest’ultimo capitolo cercheremo di vedere come si giunse, dopo l’abdicazione dell’imperatore e il ritorno di Luigi XVIII nel maggio 1814, alla graduale restituzione dei «trofei di guerra». Come quasi sempre accade nelle dittature in declino, anche in Francia la poderosa macchina statale continuò a funzionare per qualche tempo, nonostante la disfatta politico-militare e l’occupazione del paese da parte degli Alleati: la Francia aveva vissuto troppo a lungo sotto il potere di Napoleone perché la sua eredità potesse essere eliminata in un batter d’occhio. Sebbene la Restaurazione borbonica mirasse a sbarazzarsi per quanto possibile di questa eredità, c’erano alcune innovazioni, specie in campo amministrativo e culturale, di cui essa per puro orgoglio nazionale non poteva fare a meno. Le parole che Luigi XVIII pronunciò davanti al Parlamento il 4 giugno 1814 dopo la firma dell’armistizio potrebbero essere dello stesso Napoleone: «La gloria dell’esercito francese non è stata macchiata; i monumenti del suo valore rimangono, e i capolavori delle arti ci appartengono da questo momento con un diritto piú forte del diritto di guerra». In effetti, se Napoleone non fosse tornato dall’Elba, è probabile che la maggior parte delle opere d’arte con-

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quistate sarebbero rimaste in Francia. Gli uomini politici riuniti al Congresso di Vienna pensavano al futuro politico dell’Europa piú che alle sue opere d’arte. I timidi tentativi fatti da alcuni rappresentanti per discutere anche questo problema caddero nel vuoto, in parte perché le grandi potenze, Austria, Russia e Inghilterra, non intendevano scuotere ulteriormente la già debole popolarità della monarchia borbonica. Cosí per circa un anno il Museo del Louvre rimase praticamente intatto, e Denon proseguí indisturbato la sua attività, come se nulla fosse accaduto e come se il suo regno personale fosse del tutto indipendente dal corso della storia. Quando il grosso dei dipinti spagnoli giunse finalmente a Parigi nel settembre 1813, e la Spagna a quell’epoca era già perduta, Denon si lamentò del fatto che solo sei dei cinquanta quadri della collezione reale di Madrid selezionati a loro tempo per Parigi fossero degni di venire accolti nel Louvre. Quanto poi ai 250 quadri confiscati all’aristocrazia e al clero, soltanto due furono giudicati di prima qualità, mentre gli altri gli sembrarono appena degni di abbellire le residenze imperiali. Tra questi ultimi c’erano i bozzetti dipinti da Rubens per gli arazzi dei Carmelitani Scalzi di Madrid e due dei quali si trovano tuttora al Louvre. Tra i primi, che al Louvre non furono mai esposti, c’era probabilmente La veste insanguinata di Giuseppe di Velázquez. Le ultime spedizioni di opere, successive ai viaggi di Denon in Italia del 1811, giunsero a Parigi solo nel febbraio del 1814 quando cioè, dopo la sconfitta decisiva di Lipsia, il destino di Napoleone era ormai segnato. Questi segni premonitori non impedirono a Denon di progettare e di preparare una nuova esposizione che fu inaugurata nel Gran Salon del Louvre il 25 luglio 1814, tre mesi dopo che gli Alleati avevano occupato Parigi. La novità assoluta della mostra erano i maestri italiani del Trecento e del Quattrocento, frutto dell’ul-

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tima missione di Denon, oltre ai primitivi olandesi, tedeschi e spagnoli, e l’iniziativa ebbe un grande successo. Come nel 1802 dopo la pace di Amiens, anche in questa circostanza affluirono al Louvre masse di visitatori stranieri, militari e civili, e, ironia della sorte, Denon ricevette perfino i complimenti dell’imperatore di Russia e del re di Prussia Federico Guglielmo III. Non c’è dunque da stupirsi se Denon pensava che il suo Museo fosse al sicuro, convinto com’era che i vari trattati di pace conferissero una piena legalità alle sue acquisizioni, e ben sapendo che né lo zar, né il governo inglese, né lo stesso Metternich si interessavano al problema delle restituzioni. Su pressione dell’ambasciatore prussiano von der Goltz, che in una lettera al ministro Blacas esaltava il contributo della Germania alla restaurazione della monarchia borbonica, Luigi XVIII diede comunque ordine di restituire 39 dei quadri prussiani e 85 tra quelli di Braunschweig. Avuta assicurazione che anche il resto delle raccolte prussiane sarebbe stato restituito, von der Goltz fece sapere a Blacas che la Prussia poteva anche rinunciare alla restituzione delle opere ancora esposte al Louvre e alle Tuileries – tra cui il bronzo greco del giovinetto in preghiera e altri oggetti antichi – purché queste venissero sostituite da altre, e la cosa avvenisse in tutta segretezza. Insieme ai quadri furono restituiti anche i cammei, i vasi, gli avori, i bronzetti appartenenti alle due collezioni e i 174 smalti di Limoges provenienti da Braunschweig, come pure la maschera funebre e il busto di Federico il Grande trafugati da Potsdam e la raccolta di minerali preziosi e di oggetti d’arte orientali. Nel settembre del 1814 l’imperatore Giuseppe II d’Austria si fece presentare l’elenco dei quadri trafugati, mentre da Parigi giungeva la proposta di scambiare una parte dei quadri con altri di uguale valore presi dalle raccolte di Francia. Il direttore Füger preparò una lista di desiderata, soprattutto maestri francesi del

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Seicento, poco rappresentati al Museo di Vienna, come Nicolas Poussin, Claude Lorrain, Gaspard Dughet, Philippe des Champaigne, Lebrun, Lesueur ecc. In una lettera all’ambasciatore d’Austria a Parigi Metternich diceva di approvare l’idea dello scambio. Ma poiché l’Austria era tornata in possesso dei suoi territori italiani, la corte viennese non fece altri passi in questa direzione, a parte uno scambio di opere tra Vienna e Venezia, Firenze e Milano. Quanto al Vaticano, che pure aveva inviato a Vienna il direttore dei suoi musei, il celebre scultore Canova, il governo di Roma era troppo felice per il ritorno dei Borboni, e non intendeva certo alterare il nuovo equilibrio. Questo clima piuttosto conciliante mutò col ritorno di Napoleone dall’Elba, il governo dei Cento Giorni e la sanguinosa battaglia finale di Waterloo. Tra gli Alleati vittoriosi si impose a questo punto uno spirito di rivalsa, per non dire una volontà di vendetta. Quando gli eserciti alleati entrarono a Parigi fu sottoscritto un accordo militare in cui i tre rappresentanti del governo francese cercarono di garantire, oltre alla sicurezza dei beni privati, anche quella del patrimonio pubblico, e quindi dei musei. Ma il principe Blücher si oppose nel modo piú energico, sostenendo che al Louvre si trovavano ancora quadri di cui Luigi XVIII aveva promesso la restituzione, cosa che però non era mai avvenuta. La vecchia obiezione di Denon, secondo la quale il Louvre era proprietà della corona, e perciò inalienabile, diventò insostenibile. Il giorno dopo l’ingresso delle truppe prussiane, l’8 luglio, il capo di stato maggiore von Ribbentrop mandò da Denon il suo rappresentante per le questioni artistiche Jacobi per sollecitare la restituzione delle opere d’arte prussiane ancora a Parigi e farsi indicare il luogo dove erano custodite. Essendosi Denon rifiutato di obbedire a ordini che non fossero quelli dei suoi diretti superiori, fu minacciato di arresto, e il governato-

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re militare di Parigi von Müffling dispose che una compagnia di granatieri occupasse il Louvre. Le antichità berlinesi furono riunite, ma i quadri piú importanti non si trovavano piú al Louvre, che già l’anno prima ne aveva spediti sei, bensí al castello di SaintCloud, che i prussiani scelsero come loro quartier generale. Qui vennero sequestrati fra gli altri il cosiddetto Prisonnier en colère (Sansone minaccia il suocero) di Rembrandt, Vertumno e Pomona attribuita a Leonardo (Berlino, museo), il Contratto di matrimonio di Jan Steen e il ritratto di Guglielmo di Nassau di Jan Terborch. Sempre a Saint-Cloud, e precisamente nel bagno di Napoleone, i prussiani trovarono La battaglia di Alessandro di Albrecht Altdorfer, trafugata come si ricorderà a Monaco. A Saint-Cloud la commissione prussiana prese inoltre un autoritratto di Ribera, che in realtà apparteneva all’Austria e il famoso quadro di Jean-Louis David Napoleone a cavallo al valico del Gran San Bernardo; un gesto di rappresaglia che intendeva vendicare il sequestro del busto di Federico il Grande a Sanssouci. Entro la fine di agosto le richieste degli stati tedeschi erano grosso modo soddisfatte. Fin dal 1814 l’ambasciatore austriaco von Thiersch aveva insistito soprattutto sulla promessa scritta fattagli da Neveu di uno scambio con le opere trafugate, mentre la Baviera, alleata di Napoleone, aveva ottenuto già prima alcune opere di proprietà francese. Fu quindi raggiunto un accordo per cui i capolavori della collezione Wittelsbach, 28 quadri in tutto, dovevano fare ritorno, e il direttore del Museo di Monaco, il pittore paesaggista Dillis, dichiarò che non era il caso di andare a cercare anche gli altri, la maggior parte dei quali si trovavano nei musei della provincia francese. È comprensibile che Dillis non attribuisse molto valore a quadri come, ad esempio, il San Luca che dipinge la Madonna di Maerten van Heemskerck (Rennes, museo) trafugato a Norimberga,

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ma è vero che in questo modo rimase in Francia anche l’autoritratto giovanile di Dürer, anch’esso proveniente da Norimberga (Parigi, Louvre). Tra quelli restituiti si trovavano, oltre alla Battaglia di Alessandro di Altdorfer, la tarda Incoronazione di spine di Tiziano, Meleagro e Atalanta di Rubens, ma non la sua grande Adorazione dei Magi (Lione, museo). Il piú danneggiato tra i principi tedeschi restava il landgravio dell’Assia-Kassel. Mentre i dipinti requisiti da Denon al Museo di Kassel furono interamente restituiti, quelli trovati dal generale Lagrange prima dell’arrivo di Denon ebbero una sorte assai diversa. In tutti quegli anni avevano abbellito la residenza dell’imperatrice, a Malmaison, e qui furono visti dallo zar Alessandro I di Russia, che rimase colpito dalla qualità dei quadri non meno che dal fascino di Giuseppina. Alla morte di quest’ultima, sopraggiunta poco dopo (maggio 1814), lo zar acquistò per l’Ermitage 22 dipinti della galleria, di varia provenienza, versando a Eugenio Beauharnais una somma di 400 000 franchi. Inutili furono gli sforzi del landgravio per riottenere i quadri o per avere quelli ancora in possesso degli eredi Beauharnais, che piú tardi finirono ugualmente in Russia. Eugenio, che aveva assunto il titolo di duca di Leuchtenberg, aveva trovato rifugio presso il suocero, il re di Baviera. Entro l’agosto 1815 anche i commissari artistici degli altri paesi interessati si riunirono a Parigi per sollecitare la restituzione delle proprie opere: ebbe cosí inizio l’ultima battaglia per il possesso dei quadri conquistati dai francesi. La maggior difficoltà che i commissari stranieri incontravano nel far valere i propri diritti nasceva dal fatto che né i ministri degli esteri, che si incontravano quotidianamente a Parigi, né i monarchi avevano preso misure che riguardassero tutti i paesi interessati e le loro opere d’arte. Ciò permise a Denon e al suo segretario generale Lavallée di opporsi,

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col beneplacito dei loro superiori, a ogni nuova richiesta o di bloccarla con pretesti piú o meno validi. Poiché inoltre essi erano i soli ad avere una visione completa delle migliaia di opere ancora in Francia, la loro collaborazione si rivelò indispensabile. Gli argomenti escogitati da Denon per salvare le sue opere dalla restituzione appaiono spesso cosí tirati per i capelli da sfiorare il ridicolo, tanto piú se si considera la mutata situazione politica di quei giorni. Per esempio, se i quadri dell’Aia andavano restituiti agli Orange – cosa che, dopo il trattato di pace di Amiens, Denon riteneva del tutto ingiustificata – quelli affluiti sotto Luigi Napoleone nel nuovo Rijkmuseum di Amsterdam e pagati con denaro francese (in realtà, con le tasse degli olandesi) dovevano appartenere alla Francia. Con la stessa ingenua giustificazione Lavallée pretese la restituzione dei 70 quadri assegnati da Parigi al Museo di Bruxelles, dimenticando che in gran parte erano stati trafugati in Italia o nello stesso Belgio. Per la Santa Elisabetta risana gli infermi di Murillo (proveniente dall’Hospital de la Caridad di Siviglia), Denon sostenne di fronte all’ambasciatore spagnolo che il quadro apparteneva al Louvre in quanto dono di Soult, il quale lo aveva a sua volta ricevuto in dono dalla città di Siviglia. Quando il commissario del re di Sardegna Luigi Costa sequestrò, oltre ai quadri torinesi, anche il Martirio di santo Stefano di Giulio Romano, scelto dallo stesso Denon nel 1811, questi affermò che si trattava di un omaggio della municipalità a Napoleone. La varietà delle richieste complicava, com’è ovvio, le pratiche di restituzione, e rendeva tanto piú necessario un provvedimento di carattere generale, soprattutto per quei paesi, come gli stati italiani, che non avevano a Parigi una rappresentanza militare. Ma le opinioni dei ministri degli esteri impegnati nelle sedute quotidiane del Congresso di Parigi erano divise come quelle dei rispettivi sovrani. Il conte Pozzo di Borgo,

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rappresentante dell’imperatore di Russia, si oppose a ogni restituzione, e anche il comportamento di Metternich fu piuttosto tiepido una volta sistemata la posizione dell’Austria. In confronto all’intransigenza dimostrata dai prussiani, i commissari artistici dell’Austria, ossia il direttore dei musei di Vienna Joseph Rosa e i suoi assistenti Adriani e Pozzi, come pure i rappresentanti degli Stati italiani legati all’Austria, i fiorentini Degli Alessandri e Benvenuti e il ministro Karcher si mostrarono estremamente disponibili, malgrado la persistente ostilità di Denon. La proposta di scambio con Vienna diventò operativa e le piú importanti tra le opere d’arte viennesi furono consegnate. Diversi quadri del Belvedere (vedi sopra), di cui esiste un elenco nell’ottimo studio di Lhotzky, rimasero in compenso nei musei francesi di provincia. I quadri celeberrimi di Palazzo Pitti a Firenze, sulla cui identità non potevano sussistere dubbi, tornarono tutti indietro, come anche la celebrata Venere Medici, che secondo le pretese di Denon era stata ceduta con regolare contratto da Ferdinando IV di Napoli. Ma per avere una serie di tavole intarsiate con «pietre dure», a cui la corte toscana teneva in modo particolare, il commissario Alessandri rinunciò, con una scelta per noi inconcepibile, ai maestri del Trecento e del Quattrocento raccolti da Denon nel 1811, ossia alle grandi opere di Cimabue, Giotto, Beato Angelico, Gozzoli, Filippo Lippi, Ghirlandaio ecc., che formano ancora oggi il nucleo storico della prima sala italiana del Louvre. Col pretesto che la tela con le Nozze di Cana di Paolo Veronese era troppo grande per poter sopportare un altro viaggio fino a Venezia, Lavallée riuscí a convincere il commissario Adriani a prendere al suo posto la Maria Maddalena ai piedi di Gesú, di analoghe dimensioni: oggi lo giudicheremmo senz’altro un buon affare. L’inviato di Parma arrivò al punto di restituire al Louvre alcuni dipinti della Galleria Ducale di Parma già pronti

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per partire, convinto da Lavallée che i Bartolomeo Schedoni (Compianto, Parigi, Louvre), i Michelangelo Anselmi (Madonna con Angeli, Parigi, Louvre), i Cima da Conegliano e i Guercino presenti nella galleria di Parma erano anche troppi. Nella seconda metà di settembre si fece strada finalmente la convinzione, a Parigi come a Vienna, che era ormai necessario un provvedimento di carattere generale sulle opere d’arte. Furono soprattutto gli inglesi, lord Liverpool, presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri visconte di Castlereagh e il capo di stato maggiore duca di Wellington a insistere in modo decisivo, nell’intento di appoggiare i Paesi Bassi e gli Stati pontifici. Il vecchio Stato della Chiesa, ossia il Vaticano, e i Paesi Bassi ora unificati erano, dal punto di vista della Francia, i piú legati agli accordi di Tolentino e di Amiens, e fu necessaria da parte alleata una esplicita dichiarazione sulla nullità di questi accordi, che d’altronde lo stesso Napoleone aveva piú volte violato. In una lunga lettera al visconte di Castlereagh – riprodotta per intero nel libro di Piot e Gould – il duca di Wellington descrive gli avvenimenti che portarono a questa iniziativa a lungo differita. Il motivo piú o meno immediato che indusse gli inglesi a intervenire furono le richieste dei Paesi Bassi che, col Vaticano, avevano subito le perdite piú gravi. Non avendo essi ottenuto soddisfazione per l’intransigenza dimostrata dall’amministrazione del Louvre e dal ministero, il 19 settembre Wellington mandò le sue truppe a raggiungere quelle prussiane che presidiavano il Louvre, e fece sapere al ministro Talleyrand e a Denon che egli, come rappresentante del re dei Paesi Bassi, aveva dato ordine ai suoi uomini di staccare dalle pareti i quadri fiamminghi e olandesi. Per non lasciare il pubblico francese all’oscuro, il contenuto della lettera fu pubblicato nel «Journal des débats», come anche sull’ufficiale «Moniteur».

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Accadde cosí quello che Denon aveva giudicato impossibile: i grandi maestri della galleria degli Orange, gli Holbein, i Rembrandt, gli Jan Steen, gli Ostade, i Van Dyck, i Terborch e il Giovane toro di Paulus Potter che lo stesso Denon aveva riprodotto in una incisione, tornarono tutti all’Aia (con l’eccezione di 68 quadri minori o introvabili). Le gigantesche pale d’altare e tele di Rubens, che per vent’anni erano state il vanto della Grande Galleria, furono staccate dalle pareti senza tante cerimonie. La posizione dei commissari belgi, i pittori Ommeganck, Odevaere e Van Regemorter, non era facile, nonostante la protezione militare di cui godevano. Mentre Regemorter, salito su una scala, cercava di staccare uno dei grandi quadri di Rubens, Denon, in un accesso di collera, diede una spinta alla scala e il malcapitato commissario dovette aggrapparsi al cornicione per non cadere. Se le confrontiamo però con l’enorme bottino mietuto dai francesi durante la campagna d’Olanda, le restituzioni si mantennero entro limiti modesti, come dimostrano le molte opere di Rubens, Jordaens, Van Dyck e della loro cerchia tuttora visibili nei musei francesi di provincia. Poiché tre dei cinque commissari venivano da Anversa, e nessuno conosceva quelle opere meglio di loro, il Museo di Belle Arti di Anversa, appena fondato, vide formarsi proprio allora il suo nucleo storico. Restavano le opere d’arte del Vaticano, per le quali il papa aveva inviato a Parigi il suo ispettore generale Canova. Pio VII, che vedeva ristabilita in Francia la vecchia egemonia cattolica, avrebbe probabilmente lasciato perdere, ma fu convinto ad agire dal segretario di Stato cardinal Consalvi: la colonia artistica internazionale di Roma fu mobilitata a favore del ritorno e anche il popolo romano fu coinvolto. Poiché le casse pontificie erano vuote, il governo inglese si assunse le spese di trasporto e respinse la proposta vaticana di ac-

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cettare alcuni oggetti antichi a titolo di indennizzo. Lo stesso Canova donò piú tardi ai principali interessati alcune delle sue apprezzatissime opere, per ringraziarli dell’appoggio ricevuto nella sua difficile missione. Giunto a Parigi verso la fine di agosto, Canova aveva subito fatto visita al ministro e ambasciatore prussiano Wilhelm von Humboldt, già incontrato a Roma, ottenendone però scarsi incoraggiamenti. Come apprendiamo dalla corrispondenza di Denon fu il suo amico Richard William Hamilton, noto mercante d’arte ed esperto di antichità, e ora sottosegretario attaché al visconte di Castlereagh, a influenzare i politici inglesi in senso favorevole alla causa pontificia. Per due mesi, dalla metà di settembre alla metà di novembre, non passò quasi giorno senza che l’una o l’altra delegazione si presentasse all’amministrazione del Louvre con i suoi elenchi di opere da restituire. Data l’intransigenza di Denon, il compito di trattare con i rappresentanti stranieri ricadde in questo periodo sul segretario generale Athenase Lavallée. Dopo che il direttore dei musei viennesi Rosa aveva tentato inutilmente di vedere Denon, il 23 settembre si presentò un aiutante del principe di Schwarzenberg, comandante in capo delle truppe austriache, con l’ordine di consegnare gli oggetti d’arte trafugati a Venezia, Parma, Firenze e Piacenza. Nonostante la promessa fatta dagli Alleati di rispettare i monumenti parigini, gli austriaci non poterono fare a meno di mettere le mani sui quattro cavalli di San Marco, che coronavano l’Arco di Trionfo sulla Place du Caroussel in direzione delle Tuileries. Comunque il gesto possa essere giudicato, i cavalli e il leone di bronzo di San Marco, collocati nel giardino del Dom des Invalides, erano troppo legati al ricordo della grandezza napoleonica per poter rimanere al loro posto. Per evitare attriti con la popolazione parigina, i quattro cavalli furono staccati nottetempo dal carro di trionfo e quando, il giorno successi-

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vo, furono portati via, le vie d’accesso alla piazza furono bloccate per lungo tratto dai militari. Curiosamente, delle pitture dei soffitti del Palazzo Ducale di Venezia non fu chiesta la restituzione, mentre il ritorno dell’ammiratissima tela di Tiziano, Il martirio di san Pietro, si rivelò a posteriori un episodio infelice poiché il quadro andò distrutto in un incendio verso la fine dell’800 nella Cappella del Rosario della Chiesa di San Giovanni e Paolo. E mentre l’Assunzione di Maria, sempre di Tiziano, ritornò nella sua sede originaria alla Cattedrale di Verona, l’Incoronazione di spine proveniente dalla chiesa milanese di Santa Maria delle Grazie rimase a Parigi (Louvre). Evidentemente i commissari austriaci per l’Italia del Nord, Adriani e Pozzi, non erano abbastanza informati, o, se lo erano, preferivano per motivi politici adottare una linea piú conciliante. Della partenza della Venere Medici abbiamo un resoconto drammatico in una cronaca londinese: «Lunedí scorso la Venere fu caricata su un carro [nel cortile del Louvre] alla presenza di sir Lawrence [Thomas Lawrence, il famoso ritrattista inglese] e dei signori Chantry e Canova. Questi ultimi scoppiarono in lacrime, ma un ufficiale tedesco si mise a ridere e a schernirli, mentre la folla radunata scagliava ingiurie all’indirizzo dei soldati inglesi di guardia». Le opere d’arte erano diventate una passione nazionale. Verso la fine di settembre tre o quattro commissioni erano impegnate contemporaneamente a staccare i loro quadri dalle pareti del Louvre: Lavallée era indaffaratissimo a controllare e registrare, mentre Denon stilava inutili resoconti ai ministri. Oltre agli austriaci c’era anche il plenipotenziario del re di Sardegna Luigi Costa, impegnato a recuperare i quadri della Galleria Sabauda di Torino e a rivendicare, come si è già visto, il suo Giulio Romano genovese. Costa si dimenticò tuttavia della piccola Annunciazione dal dittico di Rogier van der Weyden, che oggi non esiteremmo a giudicare

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piú importante del Giulio Romano. Anche l’ambasciatore del re di Spagna, marchese d’Alava, chiese infine la restituzione dei dipinti giunti al Louvre attraverso Giuseppe Bonaparte e il maresciallo Soult e non inclusi nella precedente spedizione del 1814. Il 2 ottobre anche Canova poté finalmente incominciare a esaminare le opere d’arte trafugate a Roma e negli Stati vaticani; operazione che, per la grande quantità di dipinti, sculture, vasi, oggetti d’arte, manoscritti e stampe preziose durò fino alla fine del mese. Per dimostrare la propria buona volontà, l’amabile scultore rinunciò fin dall’inizio a 23 dei quadri vaticani che furono distribuiti fra castelli, chiese e musei di provincia. Nella cernita delle sculture antiche Canova lasciò da parte anche altre opere che per le loro dimensioni, come il Tevere, Melpomene o i colossi di tre imperatori romani, erano troppo ingombranti per il trasporto. Quanto la situazione fosse confusa risulta da una lettera in cui Denon comunica al conte Pradel che il cavaliere d’Este, accompagnatore di Canova, voleva riavere a Roma alcune statue antiche per la famiglia Braschi (Denon scrive «Draschi»). E poiché il governo francese nel 1802 – ossia alla firma del Concordato – aveva versato al principe Braschi alcune centinaia di migliaia di franchi a titolo di risarcimento, Denon dice di non poter accettare la richiesta. La stessa lettera spiega inoltre per quale motivo il ritratto equestre di Francisco Moncada, dipinto da Anton van Dyck, come pure una Madonna di Giulio Romano proveniente dalla collezione Braschi non abbiano mai lasciato il Louvre. Attraverso un ambasciatore, il cardinale Albani propose invece al Louvre di riscattare la sua collezione di 28 statue, 19 busti piú un certo numero di pezzi vari per la somma complessiva di 300 000 franchi. Visconti preferí scegliere alcune delle opere migliori, che furono acquistate per il museo; le altre furono vendute al re Luigi I di Baviera per la Pinacoteca di Monaco.

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A prescindere dal fatto che l’enorme numero e la varietà dei dipinti e delle sculture trafugati negli Stati della Chiesa, da Bologna a Pesaro, a Perugia, a Roma, avrebbero richiesto comunque l’intervento di piú esperti, Canova era troppo legato al classicismo di quegli anni per valutare in modo obiettivo opere d’arte estranee al gusto neoclassico e accademico. Canova e i suoi collaboratori non si preoccuparono di rintracciare tutte le opere trafugate nei conventi e nelle chiese secolarizzate: secondo i dati forniti da Marie-Louise Blumer, su 506 dipinti di provenienza italiana, ben 248, ossia circa la metà, rimasero in Francia, e buona parte di questi provenivano dagli Stati della Chiesa. Ancora piú sorprendente è però un altro fatto, a cui del resto abbiamo già accennato: i commissari italiani non si preoccuparono di ricomporre gli altari smembrati. Non solo restarono in Francia parti di predelle come quelle dell’altare Strozzi di Gentile da Fabriano (Firenze, Uffizi) o dell’altare di San Zeno a Verona del Mantegna, ma anche le numerose tavole isolate del Perugino e di altri maestri, che troviamo oggi nei musei francesi, testimoniano questa curiosa dimenticanza. Dopo lunghi indugi le opere d’arte italiane furono finalmente pronte per il rientro, e il 24 ottobre un convoglio di 41 carri con 200 cavalli da tiro partí da Parigi per Milano con una scorta di soldati tedeschi. A Milano il carico fu distribuito e proseguí per le diverse località d’origine: 16 carri si diressero verso i vecchi Stati austriaci, 12 verso Roma, otto verso Torino e cosí via. Il Museo Vaticano ne trasse i maggiori vantaggi, poiché numerose tavole d’altare e quadri devozionali già appartenuti a chiese e conventi non furono restituiti alla loro sede d’origine ma rimasero nelle collezioni pontificie del Belvedere, del Campidoglio o del Quirinale. Il 15 novembre il segretario generale Lavallée poté informare il ministro conte Pradel che le operazioni di restituzione erano ultimate, e trasmettergli i relativi

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inventari. Dei 5233 complessivi, almeno 2000 tra dipinti e sculture antiche potevano annoverarsi, secondo Lavallée, tra le opere di prima qualità. L’inventario di Lavallée permette inoltre di dare un ultimo sguardo d’insieme alla massa dei tesori requisiti: la Spagna e l’Austria riottennero rispettivamente 248 e 325 dipinti, Berlino 258 bronzi (oltre a pezzi di altra natura), Braunschweig 243 disegni (quelli di Modena rimasero a Parigi), come pure 1154 smalti e maioliche, sebbene il commissario di Braunschweig Schütz dichiarasse ancora il 6 ottobre che dei 538 cammei conservati alla Bibliothèque Nationale di Parigi ne mancavano ben 240. Poco prima dell’arrivo degli Alleati a Parigi, Napoleone aveva inviato al Louvre il suo aiutante Flahaut con l’ordine di nascondere i pezzi piú preziosi, e non c’è dubbio che l’ordine sia stato eseguito. Del resto, le enormi proporzioni del bottino, la varietà dei luoghi in cui era conservato e la passione collezionistica dell’imperatrice Giuseppina ma anche dei generali e dei suoi favoriti impedivano allo stesso Denon di tenere la situazione sotto controllo. Oltre a questo fatto e alla confusione generale, la scomparsa di alcuni pezzi fu poi facilitata anche da un’altra circostanza: l’identificazione delle singole opere non avveniva come oggi attraverso il rapido mezzo fotografico, ma si avvaleva di descrizioni o piú raramente di riproduzioni a stampa. Anche con gli elenchi sottomano i commissari incontravano spesso serie difficoltà a stabilire la raccolta di provenienza di questa o quella Adorazione dei Magi attribuita a Rubens, di questa o quella Crocifissione di Van Dyck, dei molti Adamo ed Eva sotto il nome di Cranach o degli interni olandesi cosí difficili da descrivere. Non c’è dunque da stupirsi se una Salomè di Andrea Solario, appartenuta in origine alla galleria granducale di Oldenburg, sia finita al Metropolitan Museum di New York passando da Malmaison, come anche la Mietitura di Pieter Brue-

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ghel il Vecchio, appartenuta in origine agli Asburgo, e precisamente a quella serie di quadri a cui Füger aveva generosamente rinunciato in cambio di alcune opere del Seicento francese. Il grande Museo di Napoleone non finí tuttavia con la dispersione materiale dei suoi capolavori. Il suo esempio stimolante gli sopravvisse a lungo, contribuendo in modo decisivo alla formazione di tutti i musei europei. Il Louvre, museo nazionale di Francia, aveva dimostrato per la prima volta che le opere d’arte del passato, anche se raccolte dai principi, appartenevano in realtà ai loro popoli, e fu questo principio (con l’eccezione della collezione reale britannica) a ispirare i grandi musei pubblici dell’800. Persino i Borboni, di cui si diceva che non avessero dimenticato nulla e imparato nulla, non ebbero il coraggio di ripristinare la loro vecchia raccolta privata. Il re di Prussia, la Corte viennese, il re di Spagna e i re di Baviera e di Sassonia aprirono tutti, prima o poi, le loro raccolte al pubblico. L’esempio del Louvre non contribuí solo, del resto, alla nascita di nuovi musei, ma diede anche impulso a un nuovo spirito critico (per esempio attraverso la pubblicazione di cataloghi) e a quella nuova forma di cultura storico-artistica che troverà espressione verso la metà del secolo in figure come quella di Waagen, direttore del Museo di Berlino. Mentre nel Settecento il dilettantismo amatoriale e il gusto dell’epoca avevano determinato in larga misura l’attività collezionistica, il movimento massiccio di opere d’arte provocato dalla politica di conquista rivoluzionaria e napoleonica imposero nell’Ottocento la necessità di una classificazione storica e di una elaborazione critica del patrimonio artistico. Nomi generici come quelli di «Van Dyck» o di «Dürer» cedettero il passo ad attribuzioni piú precise, come nel caso della piccola Annunciazione del Museo di Dresda, registrata ancora nel 1835 come opera di Dürer o di «scuola te-

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desca», è indicata nel catalogo del 1840 come opera di Hubert van Eyck, che è un’attribuzione molto piú vicina alla verità. Il ritorno delle opere d’arte trafugate ebbe poi, di per se stesso, un effetto notevole e inatteso. Confondendosi col clima di entusiasmo patriottico suscitato dalla vittoria e dalla liberazione, esso contribuí a creare la coscienza di un patrimonio artistico nazionale, coscienza che nel ’700 non esisteva. Quasi dovunque, nelle Fiandre e in Olanda, a Berlino e a Roma, l’avvenimento fu festeggiato con mostre pubbliche e articoli di giornale. A Berlino, nel palazzo dell’Accademia, fu allestita una mostra a favore dei veterani feriti, il cui catalogo elencava 59 dipinti e portava il titolo significativo: Elenco dei quadri e delle opere d’arte riconquistate dal valore delle patrie truppe. Al centro dell’esposizione si trovava l’altare di Danzica col Giudizio Universale di Hans Memling. Nel novembre 1817, dopo essersi prodigato a lungo e non del tutto inutilmente, Denon sentí che era venuto il momento di ritirarsi: la sua missione era finita e il nuovo clima della Restaurazione non era piú favorevole ai personaggi di spicco del periodo napoleonico come lui o come Talleyrand. Fu sostituito da un uomo di corte, il conte Forbin, e il re lo ringraziò per il servizio prestato. Il suo piú fedele collaboratore Lavallée andò in pensione nel giugno dell’anno successivo e morí poco dopo, come anche l’archeologo Ennio Quirino Visconti, direttore da lunga data del Museo di Antichità. Visconti trovò in Clarac un successore in grado di proseguire la sua Iconografia dell’antichità classica, opera che dopo quasi due secoli conserva ancora la sua utilità. L’ultimo servizio che Denon poté prestare al suo vecchio signore, Napoleone, fu un elenco dei libri che l’ex-imperatore desiderava portare con sé in esilio. Tra questi, l’opera dello stesso Denon sulla conquista dell’Egitto e le incisioni delle battaglie napoleoniche preparate per una

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raccolta che non fu mai portata a termine. Il giovane pittore inglese Charles Eastlake, che nel 1815 si trovava a Parigi come Sir Thomas Lawrence e che fu nominato piú tardi direttore della Royal Academy, ci ha lasciato da testimone oculare l’ultima immagine dell’imperatore deposto dal trono: sulla nave «Bellerofonte», ormai massiccio nella persona, mentre guarda nella sua posa abituale verso remote lontananze. Denon sopravvisse all’era napoleonica di dieci anni, e il grande romanziere Anatole France, che abitò nella stessa casa di Denon sul Quai Malaquais, ha lasciato una descrizione, per la verità piuttosto fantasiosa, dei suoi ultimi anni di vita. Era conosciuto in tutta Europa come il maggior conoscitore di arte antica, e lo zar di Russia, che aveva già fatto ricorso al suo aiuto nel 1811 per l’acquisto di un Botticelli (Adorazione dei Magi) da destinare all’Ermitage, lo consultava sempre prima dei suoi acquisti. Tra i visitatori che passavano a rendergli omaggi ricorderemo Lady Morgan, che nel suo libro di memorie La France (1817, p. 307) riferisce le impressioni riportate durante la visita. Ma l’occupazione principale della sua vecchiaia fu comunque l’inventario delle numerose opere d’arte che Denon aveva in parte raccolto coi propri mezzi, in parte ricevuto a titolo di dono. Come suole accadere per i grandi collezionisti, furono queste opere la gioia e la compagnia dei suoi ultimi anni. Pur avendo avuto una vita molto ricca Denon non lasciò, a differenza del suo maestro Napoleone, libri di memorie. Il suo ricordo piú personale è affidato invece al catalogo delle sue opere d’arte e a un saggio di storia dell’arte, anche troppo ambizioso per la sua epoca, pubblicato dal nipote Amoury-Duval subito dopo la sua morte, nel 1829, col titolo Monuments des Arts du dessin chez les peuples tant anciens que modernes, pour servir l’histoire de l’art. Le tavole che illustrano il volume riproducono perlopiú opere della sua collezione privata. Sulla collezione di

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Denon uscí nel 1826 un volume dal titolo Objets d’Art qui composent l’une des parties du Cabinet du feu M. le baron Denon (editore L.-J. Dubois), che testimonia ancora una volta la versatilità e l’ampiezza dei suoi interessi artistici. La raccolta abbracciava in effetti quasi tutti i periodi di cui Denon si era occupato al Louvre, dall’antichità al gotico, dalla pittura egizia al Settecento, dagli oggetti dell’arte orientale all’arte europea di ogni epoca. Possedeva il Ritratto dell’orefice Giovanni Candida di Memling (oggi al Museo di Anversa), una figura femminile inginocchiata di marmo e due «pleurants» dalle pareti laterali del monumento funebre di Louis de Male a Digione (oggi al Museo di Cleveland), un dittico consolare paleocristiano in avorio, con la figura di Adamo seduto e circondato da animali (Firenze, Museo del Bargello), sarcofagi e ritratti di mummie e papiri dipinti, sculture egizie in pietra e in bronzo, pietre mesopotamiche intagliate e vasi greci ed etruschi dipinti, e circa trecento opere greche e romane dei generi piú diversi. E per finire, pezzi di arte precolombiana dal Perú e dal Messico. Se cerchiamo di abbracciare con lo sguardo l’intero arco di quegli anni, nessuno meglio di Jean-Louis David – il vecchio rivoluzionario e il grande pittore dell’era napoleonica – poteva tenere la sua orazione funebre: l’orazione funebre dell’età eroica in cui crebbero Géricault e Délacroix. La morte di David, avvenuta in quello stesso anno 1825, segnava la fine di un’epoca.

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Indicazioni bibliografiche

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G. von Pairis, Geschichte der Eroberung Konstantinopels, traduzione e commento di E. Assmann, Köln 1956 (pp. 109 sgg.). G. Hanfman, Roman Art, Cambridge 1964. H. von Hülsen, Römische Funde, Göttingen 1960. J. Kollwitz, Oströmische Plastik der theodosianischen Zeit, Berlin 1941 (p. 109). R. Mely, Reliques de Constantinople au 13e siècle, Lille 1902. A. Parrot, Archéologie mésopotamienne, Paris 1946-53. Pausania, Descrizione della Grecia. Plinio, Naturalis historia. M. Rosenberg, Zellenschmelz, Frankfurt am Main 1921-22. J. Runciman, A History of the Crusades, vol. 3, Cambridge 1954. W. Treue, Der Kunstraub, 1960. W. Unger, Quellen der byzantinischen Kunstgeschichte, vol. I, libri 1-3, Wien 1878. L. von Urlichs, Griechische Statuen im Republikanischen Rom, Würzburg 1880. P. Verzone, I due gruppi di porfido di San Marco in Venezia ed il Philidelphion di Costantinopoli, in «Palladio», vol. 8, 1958, pp. 8 sgg. W. F. Volbach, Elfenbein-Arbeiten der Spätantike und des frühen Mittelalters, Mainz 1952. W. F. Volbach e H. Hirmer, Frühchristliche Kunst, München 1958. R. Watson, Queen Christina’s Pictures, in History Today, 1964, pp. 828 sg. W. Wunderer, Maniliae Alexandrinae. Eine Studie zur Geschichte des römischen Kunstraubes, Würzburg 1894. Catalogo della mostra «Byzantine Art», Athens 1964 (Consiglio d’Europa). Catalogo della mostra «Regina Cristina», Stockholm 1969 (Consiglio d’Europa).

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Mitteilungen der K. K. Zentralkommission, vol. 12, Wien 1867 (inventario praghese del 1637).

Capitolo primo A. S. Blum, Le Louvre, du palais au musée, Paris 1946. M.-L. Blumer, Histoire sommaire du Musée du Louvre, in «Archives de l’Art français», n.s., vol. 20, 1946, pp. XI-XLIII. G. Brière e J.-J. Marquet de Vasselot, Vues de la Grande Galérie du Louvre par Hubert Robert, in «Bulletin de la Société de l’Histoire de l’Art français», 1920, pp. 241-45. L. Courajod, Alexandre Lenoir, son Journal et le Musée des Monuments français, Paris 1978. E. Despois, Vandalisme révolutionnaire, Paris 1868. M. Furcy-Raynaud, Les tableaux et objets d’art saisis chez les émigrés et condamnés, in «Archives de l’Art français», n.s., vol. 6, 1912, pp. 245-343. L. Hautecœur, Histoire du Louvre. Le Château, le Palais, le Musée. Des origines à nos jours, Paris 1928. J.-J. Marquet de Vasselot e M.-L. Blumer, Répertoire des Vues des Salles du Louvre de 1793 à 1815, in «Archives de l’Art français», n.s., vol. 20, 1946. B. de Montfaucon, Les Monuments de la Monarchie française, 5 voll., Paris, 1729-33. L. Réau, Les Monuments détruits de l’Art français. Histoire du Vandalisme, 2 voll., Paris 1952. H. Stein, État des Objets d’Art placés dans les Monuments religieux et civils de Paris au début de la Révolution, Paris 1890. E. Steinmann, Die Zerstönung der Königsdenkmäler in Paris, in Monatshefte für Kunstwissenschaft, vol. 10, 1917, pp. 337 sgg. A. Tuetey e J. Guiffrey (a cura di), La Commission du

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

muséum et la création du Musée du Louvre (1792-93), in «Archives de l’Art français», n.s., vol. 3, 1909. A. Lenoir, Description historique et chronologique des Monuments de sculpture, Paris 1803 (catalogo delle opere sistemate nel Musée des Monuments français, insieme ad alcune altre come il sarcofago di Proserpina, contenente le ossa di Carlo Magno). A.-L. Millin, Antiquités Nationales ou Recueil des Monuments, Paris 1790 (grande repertorio dei monumenti nazionali con numerose incisioni).

Capitolo secondo J. van den Branden, Geschiedenis der Antwerpsche Schilderschool, Antwerpen 1883, vol. 3, pp. 320 sgg. G. Brière, Le peintre J.-L. Barbier et les conquêtes artistiques en Belgique (1794), in «Bulletin de la Société de l’Histoire de l’Art français», 1920, pp. 204-10. J.-B. Descamps, Voyage ptttoresque de la Flandre et du Brabant, Paris 1769. P. de Decker, Quelques épisodes de l’histoire de l ‘art en Belgique, Bruxelles 1893, pp. 5 sgg. E. van Even, Catalogue du Musée d’Anvers, 1874. E. Fetis, Catalogue descriptif et historique du Musée Royal de Belgique, 1865. G. Glück, Anton van Dyck, Stuttgart 1931. A. Rosenberg, R. Oldenbourg, P. P. Rubens, Stuttgart s.d. L. Gonse, Les chefs-d’œuvre des Musées de France, Paris 1900-904. C. Gould, Trophy of Conquest. The Musée Napoléon and the Creation of the Louvre, London 1965. R. van Luttervelt, Holländische Museen, München 1961, pp. 39 sgg. J. R. Martin, Rubens. Antwerp Altarpieces, London 1969.

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G.-P. Mensaert, Le Peintre amateur et curieux..., Bruxelles 1763. C. Piot, Rapport à M. le Ministre de l’Interieur sur les tableaux enlevés à la Belgique en 1794 et restitués en 1815, Bruxelles 1883. Id, Les tableaux enlevés à la Belgique en 1785, in «Bulletin de l’Académie Royale des sciences, des lettres et des beaux-arts de Belgique», serie II, vol. 44, 1877. H. Pirenne, Histoire de Belgique, voll. 5 e 6, 1900-932. C. Saunier, Les conquêtes artistiques de la Révolution et de l’Empire, et les reprises des Alliés en 1815, Paris 1902 (pubblicato anche sulla «Gazette des BeauxArts», dal 1899 al 1901. A. Thouin, Voyage dans la Belgique, la Hollande et l’Italie, Paris 1841. J. de Wit e J. de Bosschere, De Kerken van Antwerpen, Antwerpen 1910.

Capitolo terzo P. Batiffol, G. Marini et les collections du Saint-Siège en 1798, in «Bulletin de la Société des Antiquaires de France», 1889. F. Beaucamp, Le peintre lillois Jean-Baptiste Wicar (1762-1834), Paris 1841. M.-L. Blumer, Catalogue des peintures transportées d’Italie en France de 1796 à 1814, in «Bulletin de la Société de L’Histoire de l’Art français», 1936, pp. 244-348. Id., La Commission pour la Recherche des Objets des Sciences et de l’Art en Italie (1796-97), in «La Révolution française», gennaio-luglio 1934. C.-N. Cochin, Voyage d’Italie ou Recueil de Notes sur les ouvrages de peinture et sculpture qu’on voit dans les villes principales d’Italie, 3 voll., Paris 1758.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Correspondance des Directeurs, vol. 16, pp. 447 e 46167; elenco completo alle pp. 467 sg. Correspondance de Napoléon, voll. 32, Paris 1858-69, vol. 3. K. L. Fernow, Sitten- und Kulturgemälde von Rom, Gotha 1802. C. Gould, Trophy of Conquest cit. L. de Launay, Monge, fondateur de l’École polytechnique, Paris 1933. A. Legrand, Galerie des Antiquités etc. fruit des conquêtes de I armée d’Italie, Paris 1803 (92 tavole con 160 illustrazioni). F. Milizia, De l’Art de voir le Beau dans les Beaux-Arts, trad. francese del generale Pommerueil, Paris 179798 (con un elenco di quadri). E. Müntz, La Bibliothèque du Vatican pendant la Révolution française, in Mélanges Julien Havet, Paris 1895. Ch. Papin, Les Monuments d’Italie transportés à Paris, Bruxelles 1832. L. Pastor, Geschichte der Päpste, vol. 16, pp. 595 sgg. A. Rossi, Documenti sulle requisizioni dei quadri fatte a Perugia dalla Francia ai tempi della Repubblica e dell’Impero, in «Giornale di erudizione artistica», vol. 5, 1876, pp. 224-56, 288-303; vol. 6, 1877, pp. 325, 65-110. G. A. Sala, Diario romano 1798-99, Roma 1882. E. Steinmann, Die Plünderung Roms durch Bonaparte, in «Internationale Monatshefte», 1917. A. Thouin, Voyage dans la Belgique, la Hollande et l’Italie cit. W. Treue, Der Kunstraub, 1960.

Capitolo quarto F. Beaucamp, Le peintre lillois Jean-Baptiste Wicar (1762-1834) cit.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

S. Béguin, Tableaux provenants de Naples et de Rome en 1802, restés en France, in «Bulletin de la Société de l’Histoire de l’Art français», 1959, pp. 177-98. J.-E. Championnet, Souvenirs du général Championnet 1792-1800, a cura di M. Faure, Paris 1904. A. Filangieri di Candia, La Galleria di Napoli, in Gallerie Nazionali italiane, vol. 5. A. Gotti, Le gallerie di Firenze, Firenze 1872. J. Marcelly, Championnet et la conquête de Naples, in «Revue hebdo madaire», 1902. A. Vesme, La regia Pinacoteca di Torino, in Gallerie nazionali italiane, vol. 3, 1897, pp. 3-68

Capitolo quinto L. Armaud-Calliat, Vivant Denon, Châlons 1964 (col catalogo della mostra). M. Berry, Extracts of the Journals and Correspondence, London 1865. J. Billiet, Catalogue d’une Exposition «La Direction générale du Musée Central», 19 novembre 1802, Malmaison, Paris 1952. G. Brière e J.-J. Marquet de Vasselot, Vues de la Grande Galerie du Musée du Louvre par Hubert Robert cit., pp. 241-55. G. Brière, Vues de la Grande Galene du Musée Napoléon par Benjamin Zix, in «Bulletin de la Société de l’Histoire de l’Art français», 1920, pp. 256-63. J. Farington, The Farington Diary, a cura di J. Greig, London 1923-28 - Lille 1939. L. Gillet, Trésors des Musées de Province, Paris 1934. L. Gonse, Les Chefs-d’œuvre des Musées de France, Paris 1900. C. Gould, Trophy of Conquest cit. P. Lelièvre, Vivant Denon, Directeur des Beaux-Arts de Napoléon, Paris 1942.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

J.-J. Marquet de Vasselot e M.-L. Blumer, Répertoire des Vues des Salles du Louvre de 1793 à 1815 cit. O. Merson, Les Musées de peinture et de sculpture de province, Paris 1860. F.J.L. Meyer, Briefe aus der Hauptstadt und dem Innern Frankreichs, Tübingen 1802. L.-G. Pelissier, Vivant Denon, in «Archives de l’Art français», 1912, p. 260. J. F. Reichardt, Vertraute Briefe aus Paris geschrieben in den Jahren 1802 und 1803, 3 voll., Hamburg 1804. E. Steinmann, Raffael im Musée Napoléon, in «Monatshefte für Kunstwissenschaft», vol. 10, 1917, pp. 8-25. Denis Sutton, Napoleon and the Arts, in «Apollo», settembre 1964. G. Vautier, Denon et le gouvernement des arts, in «Annales Révolutionnaires», 1911, n. 4, pp. 344 sgg. J. Vergnet-Ruiz e M. Laclotte, Petits et grands Musées de France, Paris 1963. H. R. Yorke, France in 1802, a cura di J.A.C. Sykes, London 1906. Catalogo della mostra «Peintures méconnues des églises de Paris», Musée Galliera, Paris 1946.

Capitolo sesto H. Degering, Französischer Kunstraub in Deutschland 1794-1807, in «Internationale Monatsschrift für Wissenschaft, Kunst und Technik», vol. II, 1916, coll. 1 sgg. A. Dunker, Zur Geschichte der Kasseler Kunstschätze, vornehmlich in den Zeiten des Königreichs Westphalen, in «Deutsche Rundschau», 1883. J. F F. Emperius, Über di Wegführung und Zurückkunft der braunschweigischen Bücherschätze, in «Braunschweiger Magazin», 1816, coll. 1 sgg.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

A. Fink, Geschichte des Herzog Anton Ulrich-Museums in Braunschweig, 1954 (pp. 90 sgg.). O. Glauning, Neveu und der Raub der Nürnberger Kunst- und Bücherschätze im Jahre I80I, in «Mitteilungen des Vereins für Geschichte der Stadt Nürnberg», 1918, pp. 174-243. C. Gould, Trophy of Conquest cit. G. Gronau, Die Verluste der Casseler Galerie in der Zeit der französischen Okkupahon 1806-13, in «Internationale Monatsschrift für Wissenschaft, Kunst und Technik», vol. II, 1916. M. Oesterreich, Beschreibung aller Gemälde... so in den beiden Schlössern in Potsdam und Charlottenburg erhalten sind, Potsdam 1773. W. von Schadow, Verzeichnis der Gemälde, welche durch die vaterländischen Truppen wieder erobert wurden, Berlin 1815. J. H. Tischbein, Aus meinem Leben, Leipzig 1861.

Capitolo settimo Archivo Español de Arte, 1936-37, sull’attività collezionistica di Luciano Bonaparte, estratti dai Mémoires secrets sur la vie etc. de L. B. prince de Canino, Bruxelles 1818. C. B. Curtis, Velazquez and Murillo, London 1883. W. Buchanan, Memoirs of Painting, with a chronological history of the importation of pictures of great masters into England since the French Revolution, London 1824. S. Canton, Un cuadro de Goya en elequipaje del Rey José, in «Archivio Español de Arte», vol. 25, 1952, pp. 85-87. B. J. A. Céan, Diccionario historico de los mas illustres professores de la Bellas Artes en Espagna, Madrid 1800.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Th. von Frimmel, Kleine Galeriestudien, vol. III, Leipzig 1898, pp 298 sgg. C. Justi, Diego Velazquez und sein Jahrhundert, 2 voll., Bonn 1922-233. Id., Murillo, Leipzig 1892. H. Kehrer, Francisco de Zurbaran, München 1918. P. Lafond, Alonso Cano, in «Monatshefte für Kunstwissenschaft» vol. 2, 1909, pp. 242-63. A. Lhotsky, Festschrift des Kunsthistorischen Museums, vol. II, Die Geschichte der Sammlungen, Wien 194145, vol. 2, pp. 511-23. M. de Madrazo, Historia del Museo del Prado 1818-68, Madrid 1945. A. L. Mayer, Die Sevillaner Malerschule, Leipzig 1911. Martin J. Soria, The paintings of Francisco Zurbarán, New York 1954. Evelyn Wellington, A descriptive catalogue of the collection of pictures and sculptures at Apsley House, London 1901. A. A. Palomino de Castro y Velasco, El museo pictorico y escala optica, Madrid 1715-24 (1795-97). A. Ponz, Viaje de España, Madrid 1772. Catalogo della Collezione Soult, duca di Dalmazia, pubblicato da Christie’s, London 1852. Catalogo della mostra «Spanish Old Masters», alle Grafton Galleries, London 1913-14.

Capitolo ottavo M.-L. Blumer, La Mission de Denon en Italie (1811), in «Revue des Études Napoléoniennes», novembre 1934. Id., Catalogue des peintures transportées d’Italie en France de 1796 à 1814 cit. F. Lelièvre, Vivant Denon cit.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

W. e E. Paatz, Die Kirchen von Florenz, 5 voll., Frankfurt am Main 1940-54.

Capitolo nono S. Béguin, Tableaux provenants de Naples et Rome en 1802 restés en France cit. M.-L. Blumer, Histoire sommaire du Musée du Louvre cit. A. Campani, Sull’opera di Antonio Canova nel ricupero dei monumenti d’arte italiani a Parigi, in «Archivio storico dell’Arte», 1892, pp. 189-216. J. F. F. Emperius, Über die Wegführung und Zurückkunft der braunschweigischen Kunstund Bücherschätze cit. A. Gotti, Le gallerie di Firenze cit. C. Gould, Trophy of Victory cit. S. Grandjean, Les collections de l’Impératrice Joséphine à Malmaison et leur dispersion, in «Revue des Arts», vol. 9, 1959, pp. 193-98. A. Lhotsky, Festschrift des Kunsthistorischen Museums cit. E. Muentz, Les Invasions de 1814-15 et la Spoliation de nos Musées, in «Nouvelle Revue», 1897. C. Saunier, Les Conquêtes artistiques de la Révolutionet de l’Empire cit. W. von Schadow, Verzeichnis der Gemalde, welche durch die vaterländischen Tnuppen wieder erobert wurden cit. A. Vesme, La regia Pinacoteca di Torino cit. H Vlieghe, Het verslag over de toestand ven de in 1815 uit Frankrijk naar Antwerpen terruggekeerde schilderijen, in «Jaarboek van het Koninklijk Museum voor schone Kunsten Antwerpen», 1971, pp. 273-83.

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Elenco delle opere trafugate

L’elenco non ha pretese di completezza. Per ogni opera sono indicati il luogo d’origine e tra parentesi, il luogo dov’è attualmente conservata. I nomi di città senz’altra indicazione si riferiscono al museo locale o comunque al principale museo. Ad esempio: Londra, National Gallery; Berlino, Staatliche Museen; Anversa, Musée Royal des Beaux-Arts; Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum ecc. Per maggior completezza, l’elenco comprende anche alcune opere non citate nel testo. Gli autori sono citati in ordine alfabetico, utilizzando il nome piú diffuso e corrente (Correggio anziché Allegri, Orazio Gentileschi anziché Orazio Lomi ecc.). Le opere sono registrate secondo le attuali attribuzioni, mentre quelle scomparse non sono comprese nell’elenco (salvo eccezioni). L’asterisco rimanda all’illustrazione; le cifre si riferiscono ai numeri di pagina.

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ALTDORFER, ALBRECHT

Monaco La battaglia di Alessandro (restituita), 94, 144, 145. AMBERGER, CHRISTOPH

Vienna Trittico di san Sebastiano (restituito). ANGELICO, BEATO

(Giovanni da Fiesole) Fiesole, Chiesa di San Domenico Incoronazione della Vergine (Parigi, Louvre), 136. Perugia Due scene della Vita di san Nicola di Bari, dalla predella dell’altare di San Domenico (Roma, Vaticano), 138.

BALDUNG, HANS

Berlino Caritas (restituito), 18. Praga, Castello Mercurio (Stoccolma), 18. BAROCCI, FEDERICO

Perugia, Duomo Deposizione dalla Croce (restituito). Pesaro, Confraternita del Sacro Nome

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Circoncisione di Cristo (Parigi, Louvre), 69, 101. – Cattedrale e Loreto, Palazzo Apostolico Due annunciazioni (Nancy, Musée des BeauxArts e Roma, Vaticano), 69. – Confraternita di Sant’Andrea Vocazione degli Apostoli Pietro e Andrea (Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts), 69. BARTOLO, TADDEO DI

Pisa, San Paolo all’Orto Altare della Vergine (Grenoble, Museé de peinture et de sculpture), 134. BARTOLOMEO, FRA E ALBERTINELLI

Autun, Cattedrale Sposalizio di santa Caterina (Parigi, Louvre), 29. Firenze, Palazzo Pitti San Marco e Resurrezione di Cristo (entrambi restituiti), 85. Milano Annunciazione (in due parti, completata da Mariotto Albertinelli; Ginevra, Museé d’Art), 60. Vienna Madonna (restituita), 128. BEHAM, BARTHEL

Vienna Erezione della Croce (restituita), 127. BELLINI, GIOVANNI

Pesaro, San Francesco Pietà (Roma, Vaticano) Venezia, San Zaccaria Vergine in trono con santi (restituito), 73, 80. Vienna Ebbrezza di Noè (Grenoble, Museé de peinture et de sculpture, attribuita a Lorenzo Lotto), 128.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

(copia romana da) Roma, Museo Capitolino Fanciullo che strozza l’oca (restituito), 77.

BOETO DI CALCEDONIA

BOL, FERDINAND

Braunschweig Due bozzetti a olio per il Municipio di Amsterdam, Il trionfo del console Decio Mure e Gige e Candaule (restituiti), 114. L’Aia Il profeta Elia (restituito) Monaco Un filosofo (Bruxelles, Museés Royaux des Beaux-Arts). Torino Ritratto di una coppia (restituito; attribuito a Rembrandt). BOLTRAFFIO, GIOVANNI ANTONIO

Milano, Pinacoteca di Brera Madonna della famiglia Casio (Parigi, Louvre), 139. BORDONE, PARIS

Firenze, Palazzo Pitti Ritratto di donna (restituito). Venezia, Scuola di San Marco La consegna dell’anello al Doge (Venezia, Gallerie dell’Accademia), 73. Vienna Marte, Venere e Amore e Marte disarma Amore (restituiti), 128. BOUCHARDON, EDME

Parigi Monumenti equestri dei re Luigi XIV e Luigi XV (distrutti), 24.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre BOURDICHON, JEAN

Parigi, Saint-Germain-des-Près Manoscritto miniato delle Lettere di san Gerolamo per Anna di Bretagna (Leningrado, Biblioteca Nazionale), 28. BOUTS, DIERICK

Abbazia di Tongerloo Tavole laterali di un trittico della Crocifissione con l’Ascesa dei Beati (Lilla, Musée des Beaux-Arts) e la Caduta dei dannati all’inferno (Parigi, Louvre), 47. BRONZINO, AGNOLO DI COSIMO

Firenze, Santo Spirito Cristo appare alla Maddalena (Parigi, Louvre), 137. BRUEGHEL, PIETER IL VECCHIO

Praga, Castello Greta la Pazza (Anversa, Museo Mayer van den Bergh), 18. Il paese di Cuccagna (Monaco, Alte Pinakothek), 18. Vienna Nozze contadine, Ladro di Uccelli, Autunno e Inverno (Vienna, Kunsthistorisches Museum), 127. L’estate (New York, Metropolitan Museum), 127, 130. BRUYN, BARTHOLOMAEUS IL VECCHIO

Torino Palazzo Reale Ritratto di una coppia (attribuito ad Hans Holbein, restituito), 83.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre BURGKMAIR, HANS

Vienna I santi Sigismondo e Sebastiano (Norimberga, Stadt Nürnberg Museen), 90. CAMPAGNA, PEDRO

Siviglia, Convento dei Domenicani Deposizione dalla Croce (Montpellier), 117. CANO, ALONSO

Siviglia, Santa Paula Due Visioni dell’Apostolo Giovanni (da un ciclo di cui due pezzi al Ringling Museum di Sarasota, gli altri alla Wallace Collection di Londra). CARAVAGGIO, MICHELANGELO DA

Anversa, San Paolo Madonna del Rosario (Vienna, Kunsthistorisches Museum), 38. Roma, Chiesa Nuova Deposizione (Roma, Vaticano, Pinacoteca), 79. CARPACCIO, VITTORE

Milano, Pinacoteca di Brera (cambio) Predica di santo Stefano (da un ciclo destinato in origine alla Scuola di Santo Stefano a Venezia; ora a Parigi, Louvre), 139. CARRACCI, AGOSTINO

Bologna, San Salvatore Resurrezione di Cristo (Bologna, Pinacoteca Nazionale). – Certosa Comunione di san Gerolamo (Bologna, Pinacoteca Nazionale).

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre CARRACCI, ANNIBALE

Berlino Ercole tra il Vizio e la Virtú (restituito), 107. Bologna, Corpus Domini Resurrezione di Cristo (Parigi, Maison Laffitte), 62. Braunschweig Coppia di amanti (restituito con attribuzione a Tiziano), 113. Modena, Palazzo Ducale I quattro elementi (Modena, Galleria Estense), 59. La Madonna appare a santa Caterina e a san Luca (Parigi, Louvre). Parma, Chiesa dei Cappuccini Pietà (Parma, Galleria Nazionale). CARRACCI, LUDOVICO

Bologna, San Domenico La Madonna appare a san Giacinto (Parigi, Louvre), 62. Modena, Galleria Estense Martirio degli apostoli Pietro e Paolo (Rennes, Musée des Beaux-Arts). Piacenza, Duomo La sepoltura di Maria e Gli apostoli trovano rose nella sua tomba (Parma, Galleria Nazionale). CIMA DA CONEGLIANO

Parma, Cattedrale Madonna con santi (Parma, Galleria Nazionale), 138. CIMABUE

Pisa, San Francesco Madonna in trono (Parigi, Louvre), 133.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre CLEVE, JOOS VAN

Genova, Santa Maria della Pace Deposizione dalla Croce (Pala d’altare, Parigi, Louvre), 133. CLOUET, FRANCOIS

Vienna Ritratto del re Carlo IX di Francia (Parigi, Louvre), 127. COELLO, ALONSO

Madrid Ritratto del re Filippo II di Spagna (restituito), 123. COLOMBE, JEAN

Parigi, Saint-Germain-des-Près Manoscritto miniato della Histoire de Troy (Leningrado, Biblioteca Nazionale), 28. CORNELISZ, JACOB

Kassel, Castello Cristo appare alla Maddalena (Kassel, Staatliche Kunstsammlungen), 111. L’Aia, Mauritshuis Salomè (attribuito a Lucas van Leiden, restituito). Napoli (dalla Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma) Adorazione del Bambino (attribuito a Dürer; Napoli, Museo di Capodimonte), 87. CORREGGIO, ANTONIO ALLEGRI

detto il

Madrid, Collezione Reale Cristo sul Monte degli Ulivi (Londra, Apsley House), 124. Parma, Reggia

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Madonna con san Gerolamo (Parma, Galleria Nazionale), 61. – Chiesa del Santo Sepolcro Madonna della scodella (Parma, Galleria Nazionale), 61. – Chiesa di San Giovanni Evangelista Martirio dei santi Flavia e Placido (Parma, Galleria Nazionale), 61. Praga, Castello Danae (Roma, Galleria Borghese), 18. Leda (Berlino, Staatliche Museen), 18, 107. CRANACH, LUCAS IL VECCHIO

Berlino, Collezione d’Orange Adamo ed Eva Il giudizio di Paride, Venere e Amore, David e Betsabea, Ritratto del Cardinale Alberto di Brandeburgo, La fontana della giovinezza (Berlino, museo), 108. Braunschweig, Collezione Ducale Ercole e Onfale (Braunschweig, Herzog Anton Ulrich Museum), 114. CRAYER, GASPARD DE

Anversa, Chiesa dei Domenicani di San Paolo Compianto di Cristo (restituito), 42. Bruxelles, Corporazione dei pescatori La pesca miracolosa (Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts), 45. – Chiesa di Sablon Madonna (Bruxelles, Musées Royaux des BeauxArts). – Chiesa di Santa Caterina Martirio di diversi santi (Lilla, Musée des BeauxArts), 45. Santa Caterina (Lilla, Musée des Beaux-Arts), 45. – Convento degli Alessiani

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Gli eremiti Paolo e Antonio (Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts). Gand, Municipio Ercole e Onfale (Marsiglia, Musée des BeauxArts), 49. – St. Peter Incoronazione della Vergine con santa Rosalia e angeli (Museo). Madonna con santa Caterina (Grenoble, Musée de Peinture). Lovanio, San Pietro San Carlo Borromeo (Nancy, Musée des BeauxArts). Malines, Chiesa dei Cappuccini Educazione della Vergine Maria (Nantes, Musée des Beaux-Arts), 44. Malines, Chiesa dei Capuccini Madonna con san Francesco (Nantes, Musée des Beaux-Arts), 44. e NESIOTES Atene Gruppo dei Tirannicidi (ubicazione ignota), 5.

CRIZIO

CUYP, ALBERT

Parigi, Collezione della marchesa di Noailles-deCossé-Brissac Pastore e pastorella (Parigi, Louvre), 32. DAVID, GÉRARD

Bruges, San Basilio Altare dei cancellieri col Battesimo di Cristo (Museo), 48. – Municipio Giustizia di Cambise (Bruges, Groeningemuseum), 48, 54.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre DOMENICHINO, FRANCESCO ZAMPIERI

detto il

Bologna, San Giovanni al Monte Madonna del Rosario (Bologna, Pinacoteca Nazionale). – Sant’Agnese Martirio di sant’Agnese (Bologna, Pinacoteca Nazionale) Roma, San Gerolamo della Carità Comunione di san Gerolamo (Roma, Museo Capitolino), 79 DOSSI, DOSSO

Modena, Galleria Ducale Sacra conversazione (restituito), 61. DOU, GERARD

Braunschweig, Galleria Ducale Autoritratto, Vecchio che legge (Il padre di Rembrandt) e Astronomo (restituiti), 114. Kassel ll padre e la madre di Rembrandt (restituito). Venditrice di aringhe (due versioni, entrambe a Leningrado, Ermitage), 109. La trappola per topi (Montpellier). L’Aia Giovane madre (1658), e Cuoca (restituiti), Ragazza alla finestra (Torino), 52. Oldenburg Ritratto virile (restituito). Schwerin Cinque tele, tra cui Il dentista (restituito). Torino, Palazzo Reale Donna idropica (Parigi, Louvre), 82. Ragazza col grappolo d’uva e Geografo (restituiti), 83.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre DÜRER,ALBRECHT

Vienna Salita al Calvario, disegno (restituito). DYCK, ANTON VAN

Anversa – Chiesa dei Domenicani di San Paolo Crocifissione coi santi Domenico e Caterina (restituito), 41. Salita al Calvario (Anversa, Museo Meyer van den Bergh), 42. – Chiesa dei Recolletti Ritratto dell’abate Scaglia (Parigi, Louvre). – Chiesa di Sant’Agostino Visione di sant’Agostino (restituito), 42. Compianto di Cristo con due angeli (Pala d’altare, restituito), 41. Braunschweig Ritratto del pittore Van Uffel (restituito). Bruges Pala d’altare col Cristo deriso (Berlino), La discesa dello Spirito Santo e i due Giovanni (in origine all’Abbazia di Dunes, perduti), 107. Miracolo dei serpenti (già alla Collezione Cook di Richmond), 107. Courtrai, Notre-Dame Erezione della Croce (restituito), 50. Firenze, Palazzo Pitti Ritratto del cardinale Guido Bentivoglio (restituito), 85. Gand, San Michele Trittico della Crocifissione (restituito), 49. L’Aia, Palazzo Reale Rinaldo e Armida (Parigi, Louvre), 52. Ritratti del pittore Quinten Simons e di sua moglie, dei due principi palatini in armatura, dei figli giovinetti di Carlo I d’Inghilterra (restituiti), 52.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Madrid, Palazzo Reale San Gerolamo e angeli (Stoccolma, museo). Malines Chiesa dei Recolletti e Chiesa dei Minnebroer Crocifissione di Cristo (Malines, San Romualdo), 44. Comunione di san Bonaventura (Caen, Musée Royaux des Beaux-Arts), 44. Miracolo dell’asino (Tolosa, museo), 44. Salita al Monte Calvano (Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts), 44. Roma, Collezione Braschi Ritratto equestre di Francisco Moncada (Parigi, Louvre), 152. Saventhem, Chiesa San Martino divide il suo mantello (restituito), 45. Thermonde, Notre-Dame Natività (1631) e Altare di san Francesco (restituiti), 44, 50. Torino, Palazzo Reale Amarilli e Mirtilo (da Tiziano) (Torino). I figli di Carlo I d’Inghilterra (Torino, Galleria Sabauda), 83. EECKHOUT, JAN VAN

Braunschweig Sette quadri, tra i quali Tobia risana il padre cieco e Il fiorino della vedova (restituiti), 114. ELSHEIMER, ADAM

Braunschweig Aurora (restituito), 114. ENDOIOS

Statua eburnea di Atena Alea di Tegea (collocazione sconosciuta), 8.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre EYCK, HUBERT E JAN VAN

Autun, Cattedrale Madonna Rolin (Parigi, Louvre), 28, 101. Bruges, San Donaziano Altare della Madonna van der Paele (restituito), 48. Gand, San Bavone Tavola centrale dell’altare di Jodocus Vydt (restituita), 48, 54. Vienna Ritratto dell’orefice Jan de Leeuwe (restituito), 127. FABRITIUS, BARENT

(«Carel»)

Braunschweig Pietro nella casa del console Cornelio (restituito), 114. FIDIA

Atene, Acropoli Atena Promachos (Costantinopoli, distrutta), 11. Roma, Portico di Ottavia Venere (scomparsa). FLINCK, GOVERT

Parigi, Collezione della marchesa di Noailles-deCossé-Brissac Pastorella (Parigi, Louvre), 32. FLORIS, FRANS

Anversa, Notre-Dame La caduta degli angeli (Anversa), 40. FOUQUET, JEAN

Loches, Chiesa Altare della Vergine di Etienne Chevalier (Anversa e Berlino).

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Libro d’ore di Etienne Chevalier (Chantilly, Musée Condé), 28. GAROFALO, FRANCESCO

Modena, Galleria Estense Sacra conversazione (restituito), 61. GENTILE DA FABRIANO

Firenze, Santa Trinita Presentazione al Tempio, predella dell’Adorazione dei Magi degli Uffizi (Parigi, Louvre), 136, 152. GENTILESCHI, ORAZIO

Torino Annunciazione (restituito), 84. GHIRLANDAIO, BENEDETTO

Firenze, Santo Spirito Salita al Monte Calvario (Parigi, Louvre), 137. GHIRLANDAIO, DOMENICO

Firenze, Santa Maria Maddalena de’ Pazzi Visitazione della Vergine (Parigi, Louvre), 136, 137. GHIRLANDAIO, RIDOLFO

Firenze, Convento delle monache di Ripoli Incoronazione della Vergine (Parigi, Louvre). GIORDANO, LUCA

Vienna Ripudio di Agar (restituito). GIORGIONE, GIORGIO BARSARELLI DA CASTELFRANCO

detto Braunschweig, Castello

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Autoritratto (Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum), 113. Firenze, Palazzo Pitti Le tre età dell’uomo e Il concerto (restituiti), 85. GIOTTO DA BONDONE

Firenze, San Francesco San Francesco riceve le stimmate (Parigi, Louvre), 134. GOSSAERT, JAN MABUSE

Praga, Castello Danae (Monaco, Pinacoteca), 18. Vienna San Luca che dipinge la Madonna (restituito), 127. GOYA, FRANCISCO

Madrid Ritratto della marchesa de Santa Cnuz come «musa» (Los Angeles, County Museum), 125. GOZZOLI, BENOZZO

Pisa, Duomo Trionfo di Tommaso d’Aquino (Parigi, Louvre), 134. GUERCINO, GIOVANNI FRANCESCO BARBIERI

detto il

Bologna, San Gregorio San Guglielmo di Aquitania prende l’abito monacale (Bologna, Pinacoteca Nazionale). Cento, Chiesa di Santo Spirito Pietro riceve le chiavi della Chiesa (Cento, Pinacoteca Civica). Madonna con santi (Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts), 61. Modena, Galleria Estense Marte e Venere, Amnone e Tamara (restituiti), 61.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Roma Sepoltura e ascensione di santa Petronilla (1631) (Roma, Museo Capitolino), 78. – Vaticano L’incredulità di Tommaso (restituito). Torino Il Ritorno del figliol prodigo (1618, dipinto per il cardinale Ludovisi, restituito), 84. HEEMSKERCK, MAERTEN VAN

Berlino Momo biasima le opere degli dèi (restituito), 108. Norimberga, Municipio San Luca che dipinge la Madonna (Rennes, Musées des Beaux-Arts), 90, 145. HEYDEN, JAN VAN DER

Kassel Il vecchio parco di Bruxelles e Veduta della Piazza del Duomo a Colonia (restituiti), 111. Canale di Amsterdam (Leningrado, Ermitage), 109. L’Aia Huys ten Bosch e la Chiesa dei gesuiti di Düsseldorf (restituiti), 52. HOLBEIN, HANS IL GIOVANE

Braunschweig Ritratto di Cyriacus Kale (restituito), 114. L’Aia Ritratto del falconiere Chessman, Ritratto di un falconiere (restituiti), 52. Praga Ritratto di Tommaso Moro (New York, Frick Collection), 18.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre HOLBEIN, HANS IL VECCHIO

Praga, Castello Altare della Sacra famiglia (Lisbona, museo), 18. JOOS VAN WASSENHOVE

(Giusto di Gand)

Gand, San Bavone Crocifissione (restituito; Gand, proprietà privata). JORDAENS, JACOB

Alost, San Martino Tre scene dalla vita di san Rocco (restituite). Anversa, Chiesa di Sant’Agostino Martirio di santa Apollonia (restituito), 42. Courtrai, Convento degli Agostiniani Adorazione dei Magi (Magonza, museo), 45. Furnes, Sanckt Walburg Gesú tra i Dottori (Magonza, museo), 45. Kassel La famiglia del pittore Van Noort, Contadino col Satiro (restituiti), 111. Lierre, Saint-Gommaire Crocifissione (Bordeaux, Saint-André, insieme a un’altra versione dello stesso tema), 44. Natività (Lione, Musée des Beaux-Arts), 44. Malines, Chiesa dei Cappuccini Sacra famiglia (Strasburgo, museo), 44. Ruppelmonde, Chiesa Visitazione (Lione, Musée des Beaux-Arts), 44. Tournai, San Martino Guarigione di un ossesso (Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts), 50. JUAN DE FLANDES

Madrid Ultima Cena (Londra, Apsley House).

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre JUANEZ, JUAN DE

Madrid Ultima Cena (Madrid, Museo del Prado), 123. KEYSER, THOMAS DE

L’Aia Ritratto di gruppo degli scabini di Amsterdam (restituito), 52. KULMBACH, HANS VON

Vienna Natività (restituito), 127. LEONARDO DA VINCI

Berlino Vertumno e Pomona (attribuito allora a Leonardo, ora a Melzi, restituito), 107, 144. Milano Pinacoteca Ambrosiana Codice Atlantico (un volume alla Bibliothèque Nationale di Parigi, gli altri restituiti), 59. LIEVENS, JAN

Braunschweig Sacrificio di Isacco (restituito), 114. L’Aia Marte, Venere e Amore (restituito), 52. LIPPI, FILIPPINO

Genova, San Teodoro Madonna con angeli adoranti (Genova, Museo di Palazzo Bianco), 133. LIPPI, FILIPPO

Firenze, Santo Spirito Sacra Conversazione (Parigi, Louvre), 136.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

(e scuola) Macedonia 75 statue equestri dei compagni caduti di Alessandro Magno (Roma, Portico di Ottavia, distrutte), 6.

LISIPPO

LOO, JACOB VAN

Braunschweig Bagno di Diana (restituito), 114. LORRAIN, CLAUDE

El Escorial (Madrid) Paesaggio tiberino presso il Ponte Molle (Londra, Apsley House), 125. Kassel, Castello Le quattro ore del giorno; Il mattino, Il mezzogiorno (Leningrado, Ermitage), 33. Parigi, Collezione de Brissac Il mattino e Il mezzogiorno (Parigi, Louvre), 33. LUCAS VAN LEYDEN

Berlino San Gerolamo (restituito), 108. Braunschweig Autonitratto (restituito), 144. LUINI, BERNARDINO

Milano, Pinacoteca Ambrosiana Madonna e san Giovannino (Milano, Pinacoteca Ambrosiana), 60. MAINO, JUAN BAPTISTA DEL

Madrid Riconquista di Bahia (Madrid, Museo del Prado), 123.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre MANTEGNA, ANDREA

Mantova, Santa Maria della Vittoria Madonna della Vittoria (Parigi, Louvre), 65. Verona, San Zeno Altare della Vergine con santi (restituito, le parti della predella sono a Parigi, Louvre e a Tours, Musée des Beaux-Arts), 65, 152. MARTINI, SIMONE

Milano, Pinacoteca Ambrosiana Manoscritto miniato delle Bucoliche di Virgilio (restituito), 59. MASSONE, GIOVANNI

Savona, Chiesa dei Recolletti Tavola d’altare (non ritrovata), 133. MASSYS, QUENTIN

Lovanio, San Pietro Altare della Sacra famiglia (1500), (Anversa), 49, 54. MAZO, JUAN BAPTISTA

(da Velázquez)

Madrid Caccia al cinghiale nel parco del Buen Retiro (Londra, Wallace Collection), 123 MELZI, FRANCESCO

Berlino Vertumno e Pomona (restituito con attribuzione a Leonardo), 107. MEMLING, HANS

Bruges, Notre-Dame Scene della Passione e trittico della Vergine di Guillaume Morel (restituiti, Bruges, Stedelüke Museo), 48.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Altare a portelle coi santi Cristoforo e Barbara (New York, Metropolitan Museum, Lehmann Collection), 48. Danzica, Marienkirche Altare con il Giudizio Universale di Jacopo Tani (restituito), 108, 155. Parigi, Collezione Denon Ritratto dell’orefice Giovanni Candida (Anversa), 157. Spagna, trafugato dal generale Armagnac Altare di Jacques Floreins (Parigi, Louvre), 120. METSU, JAN

L’Aia Bevuta del cacciatore e Compagnia di musicanti (restituiti), 52. MICHELANGELO BUONARROTI

Bruges, Notre-Dame Madonna col bambino (restituita), 48. Firenze, Palazzo Pitti Le tre Parche (ora attribuite a Rosso Fiorentino, restituite). MIRONE

Roma, Vaticano, Museo Chiorimonti Copia del Discobolo (restituita), 77. Samo, Tempio di Era Gruppo di Zeus, Atena ed Ercole (distrutto), 8. MOR, ANTHONIS

Kassel Ritratti di Jan Lecocq e di sua moglie (restituiti), 111. L’Aia Ritratto virile (restituito), 111.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre MOSTAERT, JAN

Berlino Ritratto virile (restituito con attribuzione ad Altdofer), 108. MUELICH, HANS

Monaco Cristo deriso e Deposizione (Svezia, Chiesa di Solna), 16. MURILLO, BARTOLOMEO ESTEBAN

El Escorial, Madrid Morte della Vergine (ignoto), 119. – Collezione Reale Isacco benedice Giacobbe (Dallas, Virginia Meadows Museum), 125. Sposalizio della Vergine (Londra, Wallace Collection), 124. Madonna col Pappagallo (Madrid, Museo del Prado), 123. Due ragazzi che mangiano per la strada (Parigi, collezione privata). Siviglia, Palazzo Arcivescovile Madonna in gloria (Minneapolis, Walker Art Center), 122. – Convento di San Francisco Cucina dell’angelo (Parigi, Louvre), 121. Estasi di san Diego davanti alla Croce (Tolosa, Musée des Beaux-Arts), 121. Morte di santa Chiara (Dresda), 122. Sant’Egidio davanti al papa Gregorio IX (Raleigh, North Caroline Museum of Art), 122. – Chiesa del Convento dei Mercedari Scalzi Fuga in Egitto (Detroit, Institute of Art), 121. Siviglia, Palazzo Arcivescovile – Chiesa di Santa Maria la Blanca

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Quattro quadri di soggetto eucaristico (1665) (Parigi, Louvre), 123. Due quadri sulla Leggenda della fondazione di Santa Maria Maggiore (Collezione di Lord Farington, in parte restituiti), 122, 123. – Chiesa dell’Hospital de Venerables Sacerdotes Immacolata Concezione (Madrid, Museo del Prado), 121, 123. – Hospital de la Caridad Cinque quadri con le Opere di misericordia. Cristo guarisce il paralitico (Londra, National Gallery), 121. L’angelo libera Pietro dal carcere (Leningrado, Ermitage), 121. Abramo riceve i tre angeli (Saint Louis, Art Museum), 121. Giacobbe e Labano (Stafford House), 121. Santa Elisabetta risana gli infermi (Madrid, Museo del Prado), 146. NAVARETE, JUAN FERNANDEZ DE

El Escorial, Madrid Abramo e i tre angeli (Dublino, museo), 119. OSTADE, ADRIAEN VAN

L’Aia Il suonatore di violino (restituito), 52. PALMA IL VECCHIO

Braunschweig Adamo ed Eva (restituito come «Dürer»), 113. Vienna Cortigiana (Marsiglia, Musée des Beaux-Arts), 128. PARMIGIANINO, FRANCESCO MAZZOLA

detto il

Bologna, Santa Margherita

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Madonna con santa Margherita (Bologna, Pinacoteca Nazionale). Firenze, Palazzo Pitti Madonna con Angeli (Madonna dal collo lungo) (restituito). PASITELE

Grecia Statua di Zeus nel tempio di Metello, Roma (ignoto), 7. PEREDA, ANTONIO DE

Madrid La liberazione di Genova (Madrid, Museo del Prado), 119. Siviglia, Hospital de la Caridad Allegoria della caducità (Parigi, Louvre), 122. PERUGINO, PIETRO VANNUCCI

detto il Bologna, San Giovanni al Monte Madonna con diversi santi (restituito; Bologna, Pinacoteca Nazionale), 63. Cremona, Sant’Agostino Madonna tra i santi Giacomo e Agostino (restituito), 64. Firenze, Palazzo Pitti Pietà (restituito). Perugia, Cattedrale Lo sposalizio della Vergine (Caen, Musée des Beaux-Arts), 68. – Cappella del Municipio Madonna con i santi della città (1496; Roma, Vaticano). – Chiesa di San Pietro Tavola d’altare con l’Ascensione (1496; Lione, Musée des Beaux-Arts), 69. Predelle della stessa tavola col Battesimo, l’Ado-

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

razione dei Magi, e la Resurrezione (Rouen, Musée des Beaux-Arts), 69. – Chiesa di Sant’Agostino Madonna con i santi Gerolamo e Agostino (Bordeaux, Muséedes Beaux-Arts), 69. – Chiesa della Misericordia Sant’Anna Selbdritt Metterra (Marsiglia, Musée des Beaux-Arts), 69. PESELLINO, FRANCESCO

Firenze Due parti della predella della pala di Filippo Lippi agli Uffizi coi santi Cosima e Damiano e le Stimmate di san Francesco (Parigi, Louvre), 136. PIERO DI COSIMO

Kassel Sacra famiglia (Leningrado, Ermitage), 109. L’Aia Due ritratti virili (restituiti con attribuzione a Dürer), 52. Napoli, Galleria Farnese Madonna della Colomba (Parigi, Louvre, già a Strasburgo come opera di Ghirlandaio), 88. PIOMBO, SEBASTIANO DEL

Firenze, Palazzo Pitti Martinio di sant’Agata (restituito), 85. POLICARMO

Roma Venere al bagno, dono di Metello per la consacrazione del Tempio di Giove (ubicazione ignota), 7. POLICLETO

Roma, Tempio di Giunone Statue di Giove e Giunone (ubicazione ignota), 7.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre PONTORMO

Firenze, Convento di Sant’Anna presso San Frediano Sacra famiglia (1543; Parigi, Louvre), 137. POTTER, PAULUS

Kassel Fattoria (Leningrado, Ermitage), 109. L’Aia Giovane toro (restituito), 52, 149. Torino Quattro toni (restituito). POUSSIN, NICOLAS

Kassel Baccanale (restituito), 110. Parigi, Collezione della marchesa di Vintimille Ringraziamento di Noè (Parigi, Louvre), 33. – Collezione del duca di La Vrilliére Camillo e Ninfe danzanti (Parigi, Louvre), 33. Roma, Vaticano Martirio di sant’Erasmo (restituito), 78. RAFFAELLO SANZIO

Bologna, Chiesa di San Giovanni al Monte Glorificazione di santa Cecilia (Bologna, Pinacoteca Nazionale), 62, 80, 94. Firenze, Palazzo Pitti Madonna della sedia; Sacra famiglia dell’impannata; Ritratti di papa Leone X, del cardinale Bibbiena e del cardinale Inghirami; Madonna del Baldacchino; Visione di Ezechiele (restituiti), 85. Foligno, Chiesa Madonna di Foligno (Roma, Vaticano, Pinacoteca), 69, 96. Madrid Madonna del pesce; Madonna sotto la quercia (di

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Giulio Romano su progetto di Raffaello) (restituiti), 123. Madrid Sacra famiglia «La perla» (in collaborazione con Francesco Penni o addirittura di quest’ultimo). Salita al Calvario o Spasimo di Sicilia; Visitazione della Vergine (scuola) (tutti restituiti), 124. Milano, Pinacoteca Ambrosiana Cartone per la Scuola di Atene (restituito), 59, 95. Perugia, San Francesco Incoronazione della Vergine, altare e tavole della predella con l’Annunciazione, l’Adorazione dei Magi e la Presentazione al Tempio (Roma, Vaticano, Pinacoteca), 68. Deposizione dalla Croce (Roma, Galleria Borghese) e relativa predella con le quattro Virtú teologali (Roma, Vaticano, Pinacoteca), 68. – Chiesa di Monteluce Assunzione e incoronazione della Vergine (in gran parte di Giulio Romano; Roma, Vaticano, Pinacoteca), 68, 79, 94. Roma, San Pietro in Montorio Trasfigurazione (Roma, Vaticano, Pinacoteca), 79, 80. – Collezione Braschi Madonna di Loreto, 78. REFINGER, LUDWIG

Monaco Manlio Torquato e Orazio Coclite (Stoccolma), 16. REMBRANDT VAN RIJN

Berlino Sansone minaccia il suocero; Sansone e Dalila (Berlino, Staatliche Museen), 107, 108, 144. Braunschweig

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Cristo con Maria Maddalena (1651); Ritratto della famiglia Rembrandt; Paesaggio tempestoso, 114. Firenze, Palazzo Pitti Ritratto di vecchio (restituito). Kassel Piccola sacra famiglia detta «Famiglia Holzhacker»; (1646); Autoritratto con elmo; Ritratto di Saskia Van Uylenburgh; Ritratto di Van Coppenol; Ritratto del poeta Krul; Ritratto di Nicolas Bruyningh; Ritratto di giovane donna con garofano; Paesaggio invernale; Paesaggio con rovine (Kassel, Staatliche Kunstsammlungen), 110, 114. Deposizione dalla Croce (1634); e due Ritratti virili del 1634 e del 1661 (Leningrado, Ermitage); Cristo appare alla Maddalena (Londra, Buckingham Palace), 109. L’Aia Susanna al bagno; Simeone al Tempio; Autoritratto; ritratti dei genitori (restituiti), 51, 52. Ritratto di un vecchio. Parigi, Collezione del conte d’Angeviller I viandanti di Emmaus e l’Evangelista Matteo (Parigi, Louvre), 32. – Collezione della marchesa di Noailles-de-CosséBrissac Venere e Amore e Ritratto di una coppia (Parigi, Louvre), 32. Torino Visitazione (Detroit, Institute of Art), 84, 119. Ritratto di vecchio (restituito; ora attribuito a Samuel van Hoogstraeten, 84. RENI, GUIDO

Bologna, San Domenico La strage degli innocenti, 62 – Chiesa dei Mendicanti

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Pietà con santi (entrambi alla Pinacoteca Nazionale di Bologna), 62. Fano Gesú consegna a Pietro le chiavi della Chiesa (Perpignano). Firenze, Palazzo Pitti La morte di Cleopatra (restituito). Modena San Rocco in carcere (Modena, Galleria Estense). Roma, Quirinale Crocifissione di san Pietro (Roma, Museo Capitolino), 78. Torino Apollo e Marsia (Tolosa, Musée des Beaux-Arts); Adamo ed Eva (restituito), 83. RIBERA, GIUSEPPE

Madrid Sabba, da un’incisione di Antonio Musi (Londra, Apsley House), 125. Napoli, Capodimonte Adorazione dei pastoni (1650; Parigi, Louvre), 88. Siviglia Sacra famiglia e Santissima Trinità; San Sebastiano guarito da sant’Irene (Bilbao, museo). Vienna Autoritratto (già a Berlino, proprietà privata), 144. ROMANO, GIULIO

Firenze, Palazzo Pitti Danza delle Muse (restituito), 85. Genova, Santo Stefano Martirio di santo Stefano (restituito), 133, 146. Madrid Sacra famiglia sotto la quercia (Madrid, Museo del Prado), 124.

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Spasimo di Sicilia (Madrid, Museo del Prado), 124. Perugia, Chiesa di Monteluce Incoronazione di Maria, in collaborazione con Raffaello (Roma, Vaticano), 68. Roma, San Pietro in Montorio Trasfigurazione di Cristo (Roma, Vaticano, Pinacoteca), 79, 80. – Collezione Braschi Madonna con san Giovannino (Parigi, Louvre), 152. RUBENS, PETER PAUL

Afflighem, Abbazia Salita al Calvario (Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts), 45. Alost, San Rocco I Santi Rocco e Martino (restituito). Anversa, Notre-Dame Deposizione dalla Croce (restituito), 39. Trittico della Deposizione di Jan Michielsen (Anversa, Musée des Beaux-Arts), 39. Trittico della Vergine della famiglia Goubau (Tours, Musée des Beaux-Arts), 39. San Giovanni della famiglia Moretus (restituito), 40. – Chiesa dell’Annunziata Morte di san Giusto (Bordeaux, Musée des BeauxArts). – Chiesa di Sant’Agostino Madonna e santi in adorazione (restituito), 42. – Chiesa dei Domenicani di San Paolo Flagellazione di Cristo (restituito), 42. – Chiesa delle Carmelitane Scalze Santissima Trinità (Gand, museo), 43. – Abbazia di San Michele Glorificazione dei santi Gregonio e Domitilla (Grenoble, Musée de Peinture), 40. Adorazione dei Magi (1624) (Anversa), 41, 145.

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Anversa – Chiesa dei Recolletti Crocifissione di Cristo dall’altar maggiore di Nicolas Rockox, detta «Il colpo di lancia» (Anversa, Musée Royal des Beaux-Arts), 41. Trittico di Nicolas Rockox (Anversa, Musée Royal des Beaux-Arts), 41. Incoronazione della Vergine (Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts), 43. Comunione di san Francesco (1619; Gand, museo), 43. – Chiesa di Sankt Walburg Altar maggiore con la Crocifissione (Anversa, Notre-Dame), 39. – Convento delle Carmelitane Scalze Educazione della Vergine (Gand, museo), 43. Santa Teresa libera Bernardo di Mendoza dall’antinferno (Gand, museo), 43. – Chiesa di San Giacomo Madonna con santi sulla tomba di Rubens (restituito), 43. Berlino-Potsdam Nascita di Venere; Incoronazione della Vergine; Resurrezione di Lazzaro (restituiti), 107. Braunschweig Ritratto del marchese Ambrogio Spinola (restituito), 114. Bruxelles, Convento delle Carmelitane Scalze Assunzione della Vergine (Gand, museo). – Chiesa dei Cappuccini Salita al Calvario e Pietà con san Francesco (1620; Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts), 46. Colonia, San Pietro Crocifissione dell’Apostolo Pietro (in prestito al Wallraf-Richartz- Museum), 53. Firenze, Palazzo Pitti Sacra famiglia; Venere e Marte; I quattro filosofi (Ru-

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bens col fratello e i dotti Lipsio e Grozio); Paesaggio con Ulisse; Ritorno dai campi (restituiti), 85. Gand, San Bavone Conversione di san Bavone (restituito), 49. – Chiesa dei Gesuiti Martirio di san Livino (Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts). – Chiesa dei Recolletti Ritratto del vescovo Antoine di Triest (Digione, Musée des Beaux-Arts), 49. Morte di Maria Maddalena (Lilla, Musée des Beaux-Arts), 49. Miracolo di santa Rosalia (Digione, Musée des Beaux-Arts), 49. Cristo minaccia col fulmine i miscredenti (Bruxelles, Musées Royaux Beaux-Arts), 49. Kassel Abramo e Melchisedech (Caen, Musée des BeauxArts), 111. Fuga in Egitto e Trionfo del vincitore (Kassel, Staatliche Kunstsammlungen), 111, 115. L’Aia Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre (paesaggio di Jan Brueghel, Parigi, Louvre), 52. Bozzetto ad olio per Alessandro spezza il nodo di Gordio, 52. Lierre, Saint-Gommaire Trittico della Madonna con san Francesco (Digione, Musée des Beaux-Arts), 44. Martirio di san Giorgio (Bordeaux, Musée des Beaux-Arts), 44. – Convento dei Cappuccini Deposizione dalla Croce (Leningrado, Ermitage), 45, 109. Madrid, Convento dei Carmelitani Scalzi di Loeches Sei bozzetti a olio di soggetto eucaristico per arazzi

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(due a Parigi, Louvre, quattro al Museo di Sarasota, gli altri restituiti), 142. Malines, Notre-Dame Altare dei mercanti di pesce con La pesca miracolosa (restituito); parti della predella a Nancy, Musée des Beaux-Arts), 43. – San Romualdo Altar maggiore con l’Ultima Cena (Milano, Pinacoteca di Brera; due parti della predella con l’Ingresso di Cristo e la Lavanda dei piedi a Digione, Musée des Beaux-Arts), 44, 101, 139. – Chiesa dei Giovanniti Adorazione dei Magi (tavola centrale restituita, quelle laterali a Lione Musée des Beaux-Arts), 44, 90. Natività e Resurrezione di Cristo (Marsiglia, Musée des Beaux-Arts), 44. Mantova, Chiesa della Santa Trinità Trasfigurazione di Cristo (Nancy, Musée des Beaux-Arts), 66, 102. Monaco Adorazione dei Magi (Lione, Musée des Beaux-Arts). Meleagro e Atalanta (restituito), 90, 145. Tournai, Cattedrale Martirio di Giuda Maccabeo (Nantes, Musée des Beaux-Arts), 50. Cristo all’antinferno (restituito), 50. – Chiesa dei Cappuccini Adorazione dei Magi (Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts), 50. Vienna (già alla Chiesa dei Gesuiti di Anversa) Assunzione di Maria (restituito), 128. San Pipino (restituito), 128. RUYSDAEL, JACOB VAN

Braunschweig Tre paesaggi (restituiti), 111.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre SARTO, ANDREA DEL

Firenze, Palazzo Pitti Autoritratto; Storia di Giuseppe; Sacra famiglia; Deposizione dalla Croce e Resurrezione di Cristo; San Marco (restituiti), 85. Kassel Sacra famiglia (Leningrado, Ermitage), 107, 109 Vienna San Sebastiano (Caen, Musée des Beaux-Arts). San Giovanni il Battista (Digione, Musée des Beaux-Arts). SCHEDONI, BARTOLOMEO

Napoli Sacra famiglia, 88. Parma, Collezione Farnese Deposizione (Parigi, Louvre), 148. SCHIAVONE, ANDREA

Vienna Amore e Psiche; Allegoria della musica (restituiti), 128. SCHÖPFER, ABRAHAM

Monaco Muzio Scevola davanti a Porsenna (Stoccolma), 16. SKOPAS

Roma, Palazzo di Nerone Apollo (sconosciuto), 9. SODOMA, GIOVANNI BAZZI

detto il

Pisa, Duomo Sacrificio di Isacco (restituito), 134. SOLARIO, ANDREA

Oldenburg Salomè (New York, Metropolitan Museum), 154.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre STEEN, JAN

Braunschweig Nozze di Tobia (il Contratto di matrimonio) (restituito), 115, 144. Kassel La festa dei fagioli (restituito), 111. L’Aia Il banchetto delle ostriche; Così cantavano i vecchi; Visita del medico (restituiti), 52. STRONGYLION

Roma Statua di amazzone nel Palazzo di Nerone (ubicazione sconosciuta), 9. STROZZI, BERNARDO

Cremona, Convento dei Domenicani Circoncisione di Cristo (Parigi, Saint-Philippe-duRoule). Roma, Collezione Braschi Cena di Emmaus (Grenoble, Musée des BeauxArts). TEODORICO DI PRAGA

Vienna, Castello di Karlstein Padri della Chiesa (restituito), 127. TERBORCH, GERARD

Kassel La suonatrice di liuto (restituito), 111. L’Aia La lettera (restituito), 52. TENIERS, DAVID IL GIOVANE

Kassel Trasloco della gilda degli arcieni di Anversa (Leningrado, Ermitage), 109.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre TINTORETTO, JACOPO

Parigi, Collezione d’Angeviller Cristo nel sepolcro (Parigi, Louvre), 32. Praga Le Muse (Hampton Court Palace). Venezia, Scuola di San Marco Miracolo di san Marco (Venezia, Gallerie dell’Accademia), 73. – Chiesa della Madonna dell’Orto Sant’Agnese che resuscita Licinio (restituito), 73. Verona, Palazzo Bevilacqua Bozzetto a olio per il Giudizio Universale del Palazzo Ducale di Venezia (Parigi, Louvre), 71. TIZIANO

Braunschweig Coppia di amanti (oggi attribuito ad Annibale Carracci; restituito), 113. El Escorial, Madrid Madonna con paesaggio (Monaco), 119. Firenze, Palazzo Pitti Il Concerto; La Bella; Maddalena penitente; Il cardinale Ippolito de’ Medici in costume ungherese; Il Cristo salvatore (restituiti), 85. Kassel Ritratto di Giovanni Francesco Acquaviva, detto Il duca di Atri (restituito), 110. Madrid Tarquinio e Lucrezia (Cambridge, Fitzwilliam Museum), 123. Venere col suonatore d’organo (restituito), 123. Milano, Santa Maria delle Grazie Incoronazione di spine (Parigi, Louvre), 60, 150. Monaco Incoronazione di spine (restituito), 90, 145. Venezia, Palazzo Ducale

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre

Allegoria del doge Antonio Grimani (con G. Contarini), 72. – Chiesa di San Giovanni e Paolo Il martirio di san Pietro (distrutto da un incendio), 72, 80, 95, 150. – Chiesa dei Gesuiti Martirio di san Lorenzo (restituito), 72. Verona, Cattedrale Assunzione di Maria (restituito), 71, 150. Vienna Violante; Diana e Atteone (replica della versione Bridgewater); Madonna coi santi Stefano, Gerolamo e Maurizio (bottega); (restituiti), 127, 128. TROY, JEAN-FRANCOIS DE

Potsdam, Castello di Sanssouci Lettura da Molière (Inghilterra, proprietà privata), 106. VELAZQUEZ, DIEGO

Madrid Ritratto di Filippo IV di Spagna; Dama col ventaglio (Londra, Wallace Collection), 117. Il Portatore d’acqua di Siviglia; Bodegone e Ritratto di Don Francisco Quevedo (Londra, Apsley House), 124. La veste insanguinata di Giuseppe (Madrid, Museo del Prado), 119, 142. VERMEER, JAN

Braunschweig Ragazza col bicchiere di vino (restituito), 114. VERONESE, BONIFACIO

Roma, San Luigi dei Francesi Resurrezione di Lazzaro (Parigi, Louvre), 88.

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Paul Wescher - I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre VERONESE, PAOLO CALIARI

detto il

Mantova, Cattedrale Tentazioni di sant’Antonio (Caen, Musée des Beaux-Arts), 66, 102. Parma, San Rocco Cristo in gloria coi santi Sebastiano e Rocco (Rouen, Musée des Beaux-Arts), 62. Pesaro, Oratorio di Sant’Antonio Abate Madonna (Digione, Musée des Beaux-Arts). Praga, Collezione Imperiale Dieci allegorie dalla Vita amorosa degli dèi (in parte a Stoccolma; New York Metropolitan Museum; Seattle, Art Museum), 18. Venezia, Convento di San Giorgio Maggiore Nozze di Cana (Parigi, Louvre), 72, 130, 147. – Chiesa di San Giovanni e Paolo Cena a casa di Levi (Venezia, Gallerie dell’Accademia), 72. – Convento di San Sebastiano Cena a casa di Simone Fariseo (Milano, Pinacoteca di Brera), 73. – Palazzo Ducale Ratto d’Europa (restituito); Giunone distribuisce doni a Venezia; 72. Giove fulmina i vizi; San Marco incorona le virtú teologali (Parigi, Louvre), 72. Verona, San Giorgio in Braida Martirio di san Giorgio (restituito), 71. Barnaba risana gli infermi (Rouen, Musée des Beaux-Arts), 71, 102. – Chiesa di Santa Maria della Vittoria Deposizione (Verona, Pinacoteca), 71. – Palazzo Bevilacqua Ritratto di giovane donna (Parigi, Louvre), 71. Sacra famiglia con sant’Orsola (ora attribuito al Brusasorci) (Parigi, Louvre), 71.

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Vienna Sposalizio di santa Caterina (Bordeaux, Musée des Beaux-Arts), 128. VOS, CORNELIS DE

Anversa, Notre-Dame Resurrezione di Cristo (Lilla, Musée des BeauxArts); Altare della famiglia Van der Aa (Nantes, Musée des Beaux-Arts), 40. – Chiesa dei Domenicani di San Paolo Natività (restituito), 42. – Abbazia di San Michele San Norberto recupera i vasi liturgici nascosti, dono della famiglia Snoeck (Anversa), 41. – Accademia di Belle Arti Ritratto del segretario Graphäus (Anversa, Museo Mayer van den Bergh), 40. Braunschweig Allegoria della ricchezza e della povertà; Incoronazione di un eroe (restituiti), 114. WERVE, CLAUS DE

Parigi, Collezione Denon Due «Pleurants» dalla tomba di Louis de Male alla Certosa di Digione (Cleveland, Museum of Art), 157. WEYDEN, ROGIER VAN DER

Burgos, Convento di Miraflores Altare della Passione (Berlino, museo), 120. Torino, Palazzo Reale Annunciazione (Parigi, Louvre) e Visitazione (restituito), 83, 151. ZURBARÁN, FRANCISCO DE

Siviglia, Colegio Mayor de Santo Tomás Altar maggiore con l’*Apoteosi di san Tommaso

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d’Aquino (1631) (Siviglia, Museo Provincial de Bellas Artes), 120. – Collegio Francescano Cinque scene dalla Vita di san Bonaventura (Berlino, Dresda, Genova e due a Parigi, tra cui la Sepoltura di san Bonaventura), 120, 122. – Convento delle Mercedarie Scalze Quattro figure di santi: Lorenzo e Apollonia (Leningrado, Ermitage e Parigi, Louvre), 121. Agata e L’arcangelo Gabriele (Montpellier), 121. – Collegio Carmelitano di Sant’Alberto San Cirillo di Costantinopoli, San Pietro, San Tommaso e San Francesco (St. Louis, museo) (Boston, museo), 12 1. – Convento di Sant’Orsola Quattro sante martiri: Orsola (Genova, Palazzo Bianco); Eufemia (Madrid, collezione privata); Elisabetta (Montreal, museo), Rufina (New York, Hispanic Society), 121.

Altre sculture antiche Venere Medici, copia in marmo da Fidia (Firenze, Uffizi), 84, 88, 104, 147, 151. Amazzone di Villa Mattei, copia da Fidia (Roma, Vaticano, Museo Pio-Clementino), 77, 95. Apollo sauroctono, copia in marmo da Prassitele (Roma, Vaticano, Museo Pio-Clementino), 77. Apollo del Belvedere (Roma, Vaticano, Museo PioClementino), 9, 76, 95. Laocoonte, marmo ellenistico (Roma, Vaticano, Museo Pio-Clementino), 68, 76, 95. Amore e Psiche, marmo ellenistico (Roma, Museo Capitolino), 77. Fanciulla che gioca ai dadi, marmo ellenistico, (Berlino, Staatliche Museen), 106.

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Ermes, detto Antinoo (Roma, Museo Capitolino), 95. Galata morente, marmo da Pergamo (Roma, Museo Capitolino), 9, 77, 129. Quattro cavalli di bronzo, greci, IV-III secolo a. C. (Venezia, San Marco), 150. Sarcofago romano detto di «Proserpina» (Acquisgrana, Duomo), 54. Giovane orante, bronzo greco, IV-III secolo a. C. (Berlino, Staatliche Museen), 106, 115, 143. Spinario, bronzo ellenistico (Roma, Museo Capitolino), 77.

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