05 Sylvia Day - Insieme a te.pdf
May 3, 2017 | Author: Elena Szilagyi | Category: N/A
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Il libro
L’attesissimo capitolo finale della serie “Crossfire”. Gideon Cross. Innamorarmi di lui è stata la cosa più semplice che mi sia mai capitata. È successo istantaneamente. Completamente. Irrevocabilmente. Sposarlo è stato un sogno. Rimanere con lui sarà la sfida della mia vita. L’amore è trasformazione: il nostro è sia un rifugio sia la più
violenta delle tempeste. Siamo due anime ferite legate insieme. Abbiamo condiviso i più profondi e inconfessabili segreti. Gideon è lo specchio che riflette le mie debolezze e tutta la bellezza che non riesco a vedere. Lui mi ha dato tutto. Ora devo essere io quella forte, voglio dimostrare che anch’io posso essere per lui un sostegno come lui lo è stato per me. Insieme possiamo affrontare chi sta cercando di intromettersi così crudelmente tra di noi. Ma la battaglia più dura sarà quella che intraprenderemo per mantener fede alle nostre promesse.
Giurarsi amore è stato solo l’inizio. Lottare per il nostro amore ci renderà liberi... o ci dividerà per sempre. Intenso e commovente, Insieme a te è l’attesissimo capitolo finale della serie “Crossfire”, la seducente storia d’amore che ha conquistato il cuore di milioni di lettori in tutto il mondo.
L’autore
Numero 1 nella classifica del “New York Times” e dei bestseller internazionali, Sylvia Day è autrice di oltre venti romanzi pluripremiati e tradotti in più di quaranta paesi. I suoi libri, complessivamente, hanno venduto più di dieci milioni di copie ed è stata al primo posto nelle classifiche di ventotto paesi. I diritti televisivi
della serie “Crossfire”, la più amata dalle sue lettrici, sono stati opzionati da Lionsgate. Dell’autrice, Mondadori ha pubblicato inoltre A nudo per te, Riflessi di te, Nel profondo di te, In gioco per te che compongono i primi quattro volumi della serie “Crossfire”, Sette anni di peccato, Orgoglio e piacere, Marito amante, e Chiedimi di amarti, Il brivido della passione, Soltanto per te e Irresistibile tentazione, i quattro romanzi che formano la serie “Georgiana”. Visitate le pagine dell’autrice: www.sylviaday.com facebook.com/authorsylviaday
twitter.com/sylday
Sylvia Day
INSIEME A TE Traduzione di Eloisa Banfi e Bianca Noris
Insieme a te
Questo libro è dedicato a Hilary Sares, presa con me nel fuoco incrociato del Crossfire, dalla prima all’ultima parola
1
New York era la città che non dorme mai, che non ha mai nemmeno sonno. Il mio appartamento nell’Upper West Side aveva un isolamento acustico degno della casa di un multimilionario, ma i suoni della metropoli – il ritmico sussultare degli pneumatici sulle strade rovinate, lo stanco lamento dei freni
ad aria compressa e l’incessante strombazzare dei taxi – riuscivano comunque a insinuarsi all’interno. Non appena uscii dal caffè all’angolo e misi piede sulla Broadway, affollata come al solito, mi assalì la frenesia della città. Come avevo fatto a vivere senza la cacofonia di Manhattan? Come ero riuscita a vivere senza di lui? Gideon Cross. Gli accarezzai la guancia e sentii che si strofinava contro la mia mano. Quella dimostrazione di vulnerabilità e di affetto mi emozionò profondamente. Poche
ore prima pensavo che forse non sarebbe mai cambiato, che sarei dovuta scendere a troppi compromessi per condividere la mia vita con lui. Ora, invece, di fronte al suo coraggio cominciavo a dubitare del mio. Avevo preteso da lui più che da me stessa? Mi vergognavo al pensiero di averlo spinto a cambiare mentre io ero rimasta ostinatamente la stessa. Era di fronte a me, alto e forte. In jeans e T-shirt e con un berretto da baseball calato sulla fronte, nessuno avrebbe potuto identificare in lui il magnate di fama
internazionale che il mondo credeva di conoscere, eppure aveva un fascino innato, che colpiva chiunque gli passasse accanto. Con la coda dell’occhio notai che la gente lo guardava, e solo dopo si rendeva conto di chi era. Che Gideon fosse vestito casual o che indossasse uno dei completi su misura che tanto gli piacevano, l’energia che emanava dal suo corpo snello e muscoloso era inconfondibile. Il modo in cui si comportava, l’autorevolezza che esercitava con un controllo impeccabile rendevano impossibile che restasse nell’ombra.
New York inghiottiva tutto ciò con cui veniva a contatto, ma Gideon teneva l’intera città legata a un guinzaglio dorato. Ed era mio. Anche se aveva il mio anello al dito, talvolta facevo fatica a crederci. Non sarebbe mai stato un uomo come gli altri. Era un concentrato di ferocia rivestita di eleganza, di perfezione venata di difetti. Era il fulcro della mia vita, il fulcro del mondo intero. Eppure, aveva appena dimostrato che per stare con me era pronto a piegarsi fin quasi a spezzarsi: ciò mi rendeva ancora
più determinata a dare prova di meritare la sofferenza che l’avevo costretto ad affrontare. Intorno a noi i negozi sulla Broadway stavano riaprendo. Il flusso del traffico si faceva più intenso. Le auto nere con l’autista e i taxi gialli sfrecciavano sul manto irregolare della strada. Anche i residenti cominciavano a uscire un po’ alla volta sul marciapiede, per portare a spasso il cane o diretti verso Central Park per una corsetta mattutina, cercando di rubare un po’ di tempo prima di iniziare la loro intensa giornata di lavoro. La Mercedes-Benz accostò al
marciapiede appena noi ci avvicinammo, al volante la figura scura e massiccia di Raúl. Angus infilò la Bentley subito dietro. Io e Gideon su due auto diverse, diretti verso due case separate: che razza di matrimonio era? Di fatto era il nostro matrimonio, anche se nessuno dei due voleva che andasse così. Avrei dovuto tirare una bella linea quando Gideon aveva assunto il mio capo portandolo via dall’agenzia di pubblicità per cui lavoravo. Capivo il desiderio di mio marito che entrassi anch’io a far parte della Cross Industries, ma cercare
di forzarmi la mano di nascosto... Non potevo permetterlo, non a un uomo come Gideon. O stavamo insieme, e prendevamo le decisioni insieme, oppure eravamo troppo distanti per riuscire a far funzionare la nostra relazione. Piegai la testa all’indietro e guardai il suo volto meraviglioso. Vi si leggevano rimorso, e sollievo. E anche amore, tanto amore. Era di una bellezza da togliere il fiato. I suoi occhi erano blu come il mare dei Caraibi, i capelli neri folti e lucidi sfioravano il colletto della camicia. Una mano adorante doveva avere scolpito ogni angolo e
ogni superficie del suo volto, portandolo a un tale livello di perfezione da farmi rimanere incantata, quasi incapace di pensare razionalmente. Ero stata catturata dal suo aspetto fin dalla prima volta in cui l’avevo visto, e ancora adesso di tanto in tanto mi mandava in tilt le sinapsi. Gideon mi aveva stregata. Ma erano le sue qualità interiori a fare la differenza, la sua forza e la sua instancabile energia, l’intelligenza acuta e la determinazione, insieme a un cuore che sapeva essere molto tenero. «Grazie.» Gli sfiorai la fronte con
la punta delle dita: ebbi un brivido, come tutte le volte che accarezzavo la sua pelle. «Per avermi telefonato. Per avermi raccontato il sogno. Per avermi incontrata qui.» «Ti incontrerei ovunque.» Quelle parole erano come un voto, pronunciato con intensità e passione. Tutti hanno dei demoni. Quelli di Gideon erano segregati dalla sua volontà di ferro quando lui era sveglio, ma quando dormiva lo tormentavano con incubi malvagi e violenti, che lui si tratteneva dal condividere con me. Avevamo tante cose in comune, ma gli abusi subiti
nell’infanzia erano un trauma condiviso che ci legava e nello stesso tempo ci allontanava. Ciò mi induceva a combattere più strenuamente per Gideon e per quello che avevamo. I nostri aguzzini ci avevano già rubato troppe cose. «Eva... tu sei l’unica forza al mondo in grado di tenermi a distanza.» «Ti ringrazio anche per questo» mormorai, con una stretta al cuore. La nostra recente separazione era stata crudele per entrambi. «So che non è stato facile per te concedermi spazio, ma ne avevamo bisogno. E
lo so, ho insistito tanto...» «Troppo.» Nell’avvertire quella sfumatura glaciale nella sua voce feci una smorfia. Gideon non era il tipo d’uomo abituato a sentirsi dire di no quando voleva qualcosa. «Lo so. E tu me l’hai permesso, perché mi ami.» Ma per quanto avesse detestato non potermi stare vicino, adesso eravamo insieme perché quella privazione l’aveva spinto a farsi avanti. «È qualcosa di più che amore.» Mi afferrò i polsi, e il modo autoritario in cui mi tenne stretta
costrinse ogni parte di me a un abbandono totale. Annuii: ormai non avevo più paura di ammettere che avevamo bisogno l’uno dell’altra a un livello che alcuni avrebbero potuto considerare malato. Era ciò che eravamo noi, ciò che avevamo, ed era una cosa preziosa. «Andremo insieme dal dottor Petersen.» Pronunciò quelle parole con un inconfondibile tono di comando, ma i suoi occhi cercarono i miei, come se mi avesse fatto una domanda. «Sei il solito tiranno» gli dissi, ma in tono scherzoso: volevo che ci
lasciassimo di buonumore. Mancavano solo poche ore alla nostra seduta settimanale con il dottor Petersen, e non poteva capitare in un momento migliore. Eravamo arrivati a una svolta, e ci avrebbe fatto comodo un aiuto per capire in che direzione muovere i prossimi passi. Mi mise le mani intorno ai fianchi. «E tu lo adori.» Afferrai l’orlo della sua T-shirt, stringendo la stoffa morbida. «Io adoro te.» «Eva.» Il fremito del suo respiro caldo mi sfiorò il collo. Manhattan era tutt’intorno a noi, ma non
poteva intromettersi. Quando eravamo insieme, non c’era posto per nient’altro. Mi lasciai sfuggire un suono che tradiva la mia brama. Anelavo a lui, lo volevo ardentemente, fremendo di piacere nel sentirlo ancora una volta premere contro di me. Inspirai forte, inebriandomi di lui, mentre con le dita gli massaggiavo i muscoli irrigiditi della schiena. La scarica d’eccitazione che mi attraversò fu inebriante. Ero drogata di lui – cuore, anima e corpo – ed erano ormai giorni che non mi facevo una dose, il che mi rendeva debole e un po’ sfasata,
non più in grado di fare bene nulla. Mi avvolse nell’abbraccio, il suo corpo era tanto più grande e solido. Mi sentivo al sicuro tra le sue braccia, coccolata e protetta. Nulla mi poteva toccare né ferire quando mi stringeva a sé. Volevo che lui provasse la stessa sensazione di sicurezza con me, avevo bisogno che sapesse che poteva abbassare la guardia, tirare il fiato, e che io ero in grado di proteggere tutti e due. Dovevo essere più forte. Più astuta. Più minacciosa. Avevamo dei nemici, e Gideon se la stava vedendo con loro da solo. Essere
protettivo era una tendenza innata in lui, uno dei tratti del suo carattere che ammiravo di più. Ma dovevo cominciare a far vedere alla gente che potevo essere un avversario altrettanto formidabile di mio marito. E, soprattutto, dovevo dimostrarlo a Gideon. Mi strinsi a lui, assorbii il suo calore. Il suo amore. «Ci vediamo alle cinque, asso.» «Non un minuto più tardi» replicò, come un burbero generale che impartisce un ordine. Non potei fare a meno di ridere, infatuata com’ero da quegli aspetti
un po’ rudi del suo carattere. «Altrimenti cosa succede?» Si staccò da me e mi lanciò un’occhiata che mi fece rabbrividire. «Altrimenti vengo a prenderti io.» Sarei dovuta entrare nell’attico del mio patrigno in punta di piedi e trattenendo il fiato, dal momento che a quell’ora – poco dopo le sei del mattino – le probabilità di essere beccata mentre rincasavo furtivamente erano piuttosto alte. Invece varcai la soglia bella decisa, con la mente tutta presa dai cambiamenti che dovevo fare. Il tempo per una doccia veloce
c’era, ma decisi di non farla. Era passato tanto tempo dall’ultima volta in cui Gideon mi aveva toccata. Troppo da quando le sue mani si erano posate su di me, e il suo corpo era entrato nel mio. Non volevo lavare via il ricordo delle sue carezze. Sarebbe bastato quello a darmi la forza per fare ciò che andava fatto. Una lampada da tavolo si accese con un clic. «Eva.» Sobbalzai. «Oddio.» Mi girai e vidi mia madre seduta su uno dei divani del salotto. «Mi hai fatto prendere un colpo!» la accusai, portandomi una mano
all’altezza del cuore che batteva furiosamente. Si alzò in piedi. I riflessi della vestaglia color avorio creavano un contrasto con le gambe appena abbronzate. Ero la sua unica figlia, ma potevamo essere prese per sorelle. Monica Tramell Barker Mitchell Stanton era ossessionata dal suo aspetto fisico. Era una moglie trofeo in carriera; la sua bellezza giovanile era la sua arma vincente. «Prima che tu cominci» esordii «sì, dobbiamo parlare del matrimonio, ma adesso devo prepararmi per il lavoro e fare i
bagagli, per poter tornare a casa stasera...» «Hai un amante?» Quella domanda così secca mi sconvolse più dell’agguato che mi aveva teso. «Che cosa? No!» Sospirò, adesso visibilmente più rilassata. «Grazie al cielo. Mi vuoi dire cosa diavolo sta succedendo? Quant’era serio il litigio che hai avuto con Gideon?» Tanto. Per un attimo, avevo temuto che con le sue decisioni avrebbe messo fine alla nostra storia. «Stiamo chiarendo tutto, mamma. È stato solo un intoppo.» «Un intoppo che ti ha tenuta
lontana da lui per giorni? Non è il modo più sensato per affrontare i problemi, Eva.» «È una storia lunga...» Incrociò le braccia. «Non ho nessuna fretta.» «Be’, io sì. Devo prepararmi per andare in ufficio.» Un’espressione sofferente le attraversò il viso, e io mi sentii subito in colpa. Un tempo volevo diventare uguale a mia madre. Passavo ore a provare i suoi vestiti, a barcollare sui suoi tacchi, a impiastricciarmi la faccia con le sue costose creme e i suoi trucchi. Cercavo di imitare la
sua voce ansimante e la sua affettazione sensuale, sicura che fosse la donna più meravigliosa del mondo, un esempio di perfezione. E come ci sapeva fare con gli uomini, il modo in cui loro la guardavano e cadevano ai suoi piedi... Be’, anch’io volevo avere lo stesso tocco magico. Alla fine, da adulta, ero diventata identica a lui, a parte l’acconciatura e il colore degli occhi. Ma era solo una facciata. Come donne, non avremmo potuto essere più diverse e, purtroppo, avrei finito per essere orgogliosa di questa differenza. Avevo smesso di chiederle consigli,
tranne quando si trattava di vestiti o di altre questioni estetiche. Era arrivato il momento di cambiare. Adesso. Per gestire la mia relazione con Gideon avevo provato molte tattiche diverse, ma non avevo mai chiesto aiuto all’unica persona di mia conoscenza che sapeva com’era essere sposata con uomini potenti e importanti. «Ho bisogno di un consiglio, mamma.» Le mie parole rimasero sospese a mezz’aria. Poi vidi mia madre sgranare gli occhi per la sorpresa, una volta che il messaggio arrivò a
segno. Un attimo dopo si abbandonò sul divano, come se le avessero ceduto le ginocchia. Aveva accusato il colpo, e capii di averla totalmente esclusa. Dentro di me provavo dolore mentre mi sedevo di fronte a lei. Avevo imparato a essere cauta nel confidarmi con mia madre, a fare del mio meglio per nasconderle tutte le informazioni che avrebbero potuto dare il via alle estenuanti discussioni che mi facevano andare fuori di testa. Non era sempre stato così. Il mio fratellastro Nathan mi aveva privata del rapporto caldo e affettuoso che
avevo con mia madre, così come si era preso la mia innocenza. Quando lei aveva saputo di quell’abuso era cambiata di colpo, diventando iperprotettiva al punto di trasformarsi in una soffocante persecuzione. Era sicura di sé in tutti gli aspetti della sua vita, tranne che con me. Con me era ansiosa e invadente, talvolta quasi isterica. Nel corso degli anni mi ero costretta a nascondere la verità troppe volte, ad avere segreti con tutte le persone che amavo solo per restare in pace. «Non so come essere la moglie giusta per Gideon» confessai.
Drizzò le spalle: la sua postura esprimeva una profonda indignazione. «Allora è lui che ha un’amante?» «No!» Senza volere mi scappò una risata. «Non ci sono amanti di mezzo. Non ci faremmo un torto del genere. Non potremmo. Smetti di preoccuparti per questo.» Non potevo fare a meno di chiedermi se la sua recente infedeltà con mio padre non fosse la vera causa delle sue preoccupazioni. Le pesava? Si faceva domande sul suo rapporto con Stanton? Non sapevo neanche io come prenderla. Amavo
tantissimo mio padre, ma ero anche convinta che il mio patrigno fosse l’uomo giusto per mia madre, il marito ideale per lei. «Senti, Eva...» «Gideon e io ci siamo sposati in segreto.» Dio, che soddisfazione poter finalmente sputare il rospo. Mia madre sbatté le palpebre un paio di volte. «Che cosa?» «Non l’ho ancora detto a papà» continuai. «Ma ho intenzione di chiamarlo oggi.» Le si riempirono gli occhi di lacrime. «Perché? Santo cielo, Eva, perché ci siamo allontanate così tanto?»
«Non piangere, mamma.» Mi alzai e andai a sedermi vicino a lei. Presi le sue mani tra le mie, ma lei invece mi strinse forte a sé. Inspirai il suo profumo così familiare e provai quella pace profonda che solo l’abbraccio di una madre è in grado di dare, almeno per qualche istante. «Non avevamo pianificato niente, mamma. Eravamo andati via per il weekend, Gideon mi ha fatto la proposta e poi ha organizzato tutto... È stata una cosa spontanea, sull’onda del momento.» Si scostò da me e vidi il suo viso solcato dalle lacrime e il suo
sguardo infuocato. «Ti ha sposata senza un accordo prematrimoniale?» Scoppiai a ridere, fu più forte di me. Era ovvio che mia madre sarebbe andata a parare sui dettagli economici. Il denaro era sempre stato la forza trainante della sua vita. «Un accordo c’è.» «Eva Lauren! L’hai fatto leggere a qualcuno? O anche lì è stato tutto improvvisato?» «Ho letto ogni singola parola.» «Ma tu non sei un avvocato! Eva, ti ho insegnato a essere un po’ più furba di così!» «Anche un bambino di sei anni
avrebbe capito quali fossero i termini» replicai in tono acido, irritata dal vero problema che minacciava il mio matrimonio: Gideon e io eravamo circondati da troppe persone che si immischiavano nella nostra relazione, distraendoci e facendoci sottrarre tempo prezioso alle cose che ne avevano più bisogno. «Non preoccuparti per l’accordo.» «Avresti dovuto farlo leggere a Richard, non capisco perché non l’hai fatto. È stata una scelta irresponsabile, davvero non...» «L’ho letto, Monica.» Sentendo la voce del mio
patrigno ci voltammo entrambe. Stanton entrò in sala elegantissimo, con un inappuntabile completo blu e una cravatta gialla. Immaginai che Gideon a quell’età sarebbe stato molto simile al mio patrigno: fisicamente in forma, elegante, un vero maschio alfa. «Davvero?» gli chiesi, sorpresa. «Cross me l’ha mandato qualche settimana fa.» Stanton attraversò la stanza e prese le mani di mia madre tra le sue. «Non avrei saputo ottenere condizioni migliori.» «Ci sono sempre condizioni migliori, Richard!» ribatté mia madre, asciutta.
«Sono previsti benefici legati al raggiungimento di determinati traguardi, per esempio anniversari o la nascita dei figli, e nessun tipo di penale per Eva, salvo l’intervento di un consulente matrimoniale. Una separazione comporterebbe una divisione dei beni più che equa. Ho avuto la tentazione di chiedere a Cross se l’avesse fatto leggere ai suoi legali: immagino che si sarebbero opposti a gran voce a un accordo del genere.» Mia madre si calmò per un istante, mentre digeriva la novità. Poi però si alzò in piedi di scatto come una furia. «Ma tu sapevi che
si sarebbero sposati? Lo sapevi e non hai detto niente?» «Non sapevo nulla, naturalmente.» La strinse tra le braccia, cullandola dolcemente come se fosse una bambina. «Ho pensato che si stesse portando avanti. Sai, di solito per queste cose ci vogliono mesi di trattative. Anche se, in questo caso, non avrei potuto chiedere niente di più.» Mi alzai in piedi. Dovevo sbrigarmi se volevo arrivare puntuale al lavoro. Quello era proprio il giorno in cui non avrei mai voluto fare tardi. «Dove stai andando?» Mia madre
si staccò da Stanton. «Non abbiamo ancora finito di parlare. Non puoi lasciar cadere una bomba del genere e poi andartene così!» Mi voltai verso di lei e indietreggiai verso la porta. «Devo assolutamente prepararmi. Perché non pranziamo insieme e continuiamo il discorso?» «Ma non puoi essere...» La zittii. «Corinne Giroux.» Mia madre spalancò gli occhi, poi li strinse. Quel nome. Non ebbi bisogno di aggiungere altro. L’ex di Gideon era un problema che non aveva bisogno di ulteriori spiegazioni.
È raro che chi viene a Manhattan non si senta subito a casa. La sua skyline è stata immortalata in così tanti film e serie televisive che se ne è perso il conto, e così la storia d’amore con New York ha coinvolto anche il resto del mondo, oltre ai suoi abitanti. Io non facevo eccezione. Adoravo l’eleganza Art Déco del Chrysler Building. Ero in grado di calcolare la mia posizione esatta semplicemente guardando dove si trovava rispetto a me l’Empire State Building. Mi metteva soggezione l’altezza impressionante della Freedom Tower, che adesso
dominava tutta Downtown. Il Crossfire Building, però, faceva storia a sé, e lo pensavo già prima di conoscere l’uomo alla cui lungimiranza si doveva la creazione dell’edificio. Mentre Raúl accostava al marciapiede io osservavo meravigliata le vetrate color zaffiro che avvolgevano la struttura a obelisco del Crossfire. Alzai la testa e percorsi con lo sguardo tutta l’altezza di quel palazzo scintillante, fino al punto più elevato, lo spazio immerso nella luce che ospitava gli uffici della Cross Industries. Intorno a me era pieno di gente che andava
di fretta, uomini e donne d’affari diretti verso il loro ufficio con la borsa o la ventiquattrore in una mano e una tazza di caffè fumante nell’altra. Sentii la presenza di Gideon ancora prima di vederlo, il mio corpo lo percepì con un fremito nel momento in cui scese dalla Bentley, parcheggiata subito dietro la nostra Mercedes. L’aria intorno a me era carica di elettricità, c’era quell’energia crepitante che di solito prelude all’arrivo di una tempesta. Ero una delle poche persone a sapere che era l’anima di Gideon, ossessionata da un implacabile
tormento, ad alimentare quella tempesta. Mi girai verso di lui con un sorriso. Non era una coincidenza se eravamo arrivati nello stesso istante. Lo sapevo prima ancora di leggere la conferma nel suo sguardo. Indossava un completo grigio antracite, con una camicia bianca e una cravatta argento regimental. I capelli scuri gli sfioravano la mascella e il colletto, in una cascata stravagante e sensuale. Mi guardava sempre con quell’aria ferocemente sexy che mi aveva stregata la prima volta, ma adesso
nei suoi luminosi occhi blu c’era anche una tenerezza nuova, un’apertura che per me significava più di qualunque altra cosa avrebbe mai potuto darmi. Gli andai incontro mentre si avvicinava. «Buongiorno, Mr Tenebroso e Fatale.» Incurvò le labbra mentre un’espressione divertita gli illuminava lo sguardo. «Buongiorno, moglie.» Allungai una mano per prendere la sua e mi sentii più rilassata quando lui me la porse e strinse la mia con forza. «Stamattina ho detto a mia madre... del nostro
matrimonio.» Inarcò un sopracciglio per la sorpresa, e poi il suo sorriso si trasformò in un ghigno di trionfo. «Bene.» Risi della sua spudorata possessività e gli diedi un buffetto sulla spalla. Si spostò fulmineamente, mi afferrò e mi strinse a sé dandomi un bacio sull’angolo della bocca. La sua gioia era contagiosa, la sentivo ardere dentro di me e illuminare tutte quelle zone così buie nei giorni precedenti. «Appena faccio una pausa voglio chiamare mio padre e raccontargli tutto.»
Si fece serio. «Perché adesso, e non prima?» Parlava a bassa voce per non farsi sentire. Il popolo degli uffici continuava a passarci accanto, senza fare particolare attenzione a noi, eppure esitavo a rispondere, mi sentivo esposta. E poi... la verità venne fuori più facilmente che mai. Avevo nascosto così tante cose alle persone che amavo – cose piccole, cose grandi – nel tentativo di salvaguardare lo status quo, mentre invece speravo in un cambiamento di cui avevo bisogno. «Avevo paura» gli risposi.
Fece un passo verso di me, fissandomi intensamente. «Ma adesso non più.» «No.» «Stasera mi dirai di cosa avevi paura.» Annuii. «Sì, te lo dirò.» Mi cinse la nuca con una mano, in una stretta tenera e possessiva. Aveva un’espressione impassibile, non lasciava trasparire nulla, ma i suoi occhi... quegli occhi così blu... traboccavano di emozione. «Ce la faremo, angelo.» Mi sentii invadere da un caldo fiotto d’amore, come l’euforia data da un buon vino. «Puoi ben dirlo.»
Era una sensazione strana camminare lungo i corridoi della Waters, Field & Leaman facendo mentalmente il conto dei giorni che potevo dire di aver trascorso in quella prestigiosa agenzia di pubblicità. Megumi Kaba mi fece un cenno di saluto con la mano da dietro il banco della reception, indicando la cuffia per farmi capire che era al telefono e non poteva parlare. Risposi al suo saluto e mi diressi verso la scrivania con passo deciso. Avevo moltissimo da fare, una nuova epoca stava per iniziare. Tanto per cominciare, le cose più importanti. Infilai la borsa
nell’ultimo cassetto, mi sistemai sulla sedia e aprii il sito del mio fioraio preferito. Sapevo che cosa stavo cercando. Due dozzine di rose bianche in un vaso alto di cristallo rosso. Il bianco significava purezza, amicizia e amore eterno. Era anche il simbolo della resa. Quella separazione forzata tra me e Gideon era stata un atto di guerra, e alla fine avevo vinto io. Ma non volevo combattere contro mio marito. Non tentai neppure di trovare una frase spiritosa con cui accompagnare i fiori, come avevo
fatto in passato. Mi scrivere con il cuore:
limitai
a
Sei eccezionale, Mr Cross. Ti adoro e ti amo da morire. Mrs Cross
Il sito mi invitava a completare l’ordine. Feci un clic sul pulsante di conferma e mi concessi un attimo per provare a immaginare che cosa avrebbe pensato Gideon del mio regalo. Un giorno o l’altro mi sarebbe piaciuto essere presente mentre riceveva dei fiori da me. Avrebbe sorriso mentre Scott, il suo segretario, glieli porgeva? Avrebbe
interrotto la riunione per leggere il biglietto? O forse avrebbe atteso una delle rare pause nella sua agenda per avere un po’ di privacy? Le mie labbra si piegarono in una smorfia mentre prendevo in considerazione le diverse possibilità. Mi piaceva fare regali a Gideon. E presto avrei avuto più tempo a disposizione per sceglierli. «Te ne vai?» Mark Garrity sollevò lo sguardo dalla lettera di dimissioni e incrociò il mio. Nel vedere l’espressione del mio capo sentii un nodo allo
stomaco. «Sì. Mi dispiace di non poter dare un preavviso più lungo.» «Domani è il tuo ultimo giorno?» Si appoggiò allo schienale della sedia. I suoi occhi, di una calda tonalità appena più chiara della pelle, esprimevano sorpresa e costernazione. «Ma perché, Eva?» Sospirando mi protesi verso di lui, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Ancora una volta, era il momento della verità. «Mi rendo conto che non è molto professionale metterla così, ma... ho dovuto rivedere le mie priorità in questo momento... Non sarei in grado di dedicare a questo lavoro tutta la
mia attenzione, Mark. Mi dispiace davvero.» «Io...» Sospirò e si passò una mano sui riccioli corti e scuri. «Al diavolo... che posso dire?» «Che mi perdonerai e non mi serberai rancore?» gli dissi con una risatina soffocata. «Ti chiedo molto, lo so.» Fece un sorriso ironico. «Detesto l’idea di perderti, Eva, questo lo sai. Non so neanche se sono mai riuscito a dirti quanto sia prezioso il tuo contributo. Tu mi fai lavorare meglio.» «Grazie, Mark, lo apprezzo molto.» Accidenti, era più difficile di
quanto pensassi, anche se sapevo che era la decisione migliore che potessi prendere, l’unica. Spostai lo sguardo da lui alla vista dietro le sue spalle. La sua carica di junior account manager gli garantiva un piccolo ufficio con la vista ostruita dal palazzo di fronte, ma era comunque la quintessenza di New York, esattamente come l’enorme ufficio di Gideon Cross sopra di noi, all’ultimo piano. Da molti punti di vista quella differenza di piani rifletteva il modo con cui avevo tentato di definire la mia relazione con Gideon. Sapevo chi era. Sapevo anche che cosa era:
un uomo di una categoria a sé stante. Era una delle cose che mi piacevano di lui, e non volevo che cambiasse, volevo arrivare al suo livello grazie ai miei meriti. Ma non avevo considerato che, rifiutandomi testardamente di accettare che il nostro matrimonio avesse cambiato prospettiva, stavo trascinando giù lui al mio, di livello. Non sarei mai stata quella che si era fatta strada da sola. Per alcuni il mio successo sarebbe dipeso solo dal matrimonio. E dovevo farmene una ragione. «Allora, dove andrai adesso?» mi chiese Mark.
«In tutta onestà... devo ancora decidere. So solo che non posso rimanere qui.» Il mio matrimonio poteva sopportare solo un certo grado di pressione prima di andare in pezzi e io gli avevo permesso di avvicinarsi all’orlo del baratro nel tentativo di creare un po’ di distanza tra me e mio marito, di mettere me stessa davanti a tutto il resto. Gideon era profondo e vasto come l’oceano e io avevo temuto di annegare dentro di lui dal primo momento in cui l’avevo visto. Ora quella paura non potevo più provarla, non dopo aver capito che
quello che temevo di più era perdere lui. Nel tentativo di restare neutrale ero stata sbattuta di qua e di là. E poiché la cosa mi aveva resa furiosa, non mi ero presa il tempo necessario per comprendere che, se volevo il controllo, non dovevo fare altro che prendermelo. «È per via della LanCorp?» mi chiese Mark. «In parte.» Mi lisciai la gonna gessata, allontanando mentalmente il risentimento che ancora avvertivo per l’assunzione di Mark da parte di Gideon. Il catalizzatore era stata l’esplicita richiesta che la LanCorp
aveva fatto alla Waters, Field & Leaman di avere come account Mark, e quindi anche me una manovra che Gideon aveva visto con sospetto. La truffa organizzata da Geoffrey Cross aveva decimato il patrimonio dei Landon e, anche se sia Ryan Landon sia Gideon erano riusciti a ricostruire ciò che i loro padri avevano perduto, Landon covava ancora sentimenti di vendetta. «Ma sono soprattutto motivi personali.» Si raddrizzò appoggiando i gomiti sulla scrivania e si protese verso di me. «Non sono affari miei e non voglio ficcare il naso, ma sappi che
Steven, Shawna e io per te ci siamo sempre, se hai bisogno di noi. Ci teniamo a te.» La sua lealtà mi fece venire le lacrime agli occhi. Il suo fidanzato, Steven Ellison, e la sorella di Steven, Shawna, mi erano stati vicini nei primi mesi che avevo trascorso a New York, facevano parte della rete di amicizie che mi ero costruita in quella nuova vita. In ogni caso, non volevo perderli. «Lo so.» Sorrisi, nonostante la tristezza. «Se avrò bisogno di voi mi farò viva, lo prometto. Ma andrà tutto per il meglio, per tutti noi.» Mark si rilassò e sorrise a sua
volta. «A Steven verrà un colpo. Forse dovresti dirglielo direttamente tu.» Il pensiero del gioviale e corpulento imprenditore fu sufficiente a scacciare ogni ombra di tristezza. Steven mi avrebbe di certo rimproverata per il bidone che stavo tirando al suo compagno, ma l’avrebbe fatto con il consueto buonumore. «Ma dài» dissi in tono scherzoso. «Non puoi chiedermi una cosa del genere. È già abbastanza dura così.» «Non ho nulla in contrario a renderla ancora più dura.»
Scoppiai a ridere. Sì, Mark e il mio lavoro mi sarebbero mancati. E tanto. Quando finalmente ebbi un attimo di pausa era ancora presto a Oceanside, in California, e così mandai un SMS a mio padre invece che telefonargli. “Fammi sapere quando sei sveglio, ok? Devo dirti una cosa.” E siccome sapevo che il fatto di essere un poliziotto oltre che un padre lo rendeva ancora più incline a preoccuparsi, aggiunsi: “Niente di brutto, ma ci sono novità”. Avevo appena appoggiato il
telefono sul bancone della sala ristoro quando si mise a suonare. Il bel viso di mio padre comparve sullo schermo del telefono: nella foto si vedevano bene gli occhi grigi che avevo ereditato da lui. Di colpo ebbi un crollo nervoso. Quando presi il telefono mi tremava la mano. Amavo tantissimo i miei genitori, ma avevo sempre pensato che mio padre avesse una sensibilità più profonda di mia madre. E se lei non perdeva occasione per sottolineare come avrei potuto rimediare ai miei difetti, lui sembrava non vederne nessuno. Dargli una delusione, o un
motivo per stare male... era crudele anche il solo pensarci. «Ciao, papà, come stai?» «Lo chiedo a te, tesoro. Io faccio sempre le solite cose, ma tu? Che cosa succede?» Mi spostai al tavolo più vicino e presi una sedia per cercare di calmarmi. «Ti ho detto che non si tratta di niente di brutto, non essere preoccupato. Ti ho svegliato?» «Preoccuparmi è il mio mestiere» disse, con un tono leggermente divertito. «E mi stavo preparando per fare una corsetta prima di andare in ufficio, dunque non mi hai
svegliato affatto. Raccontami di queste novità.» «Ehm...» Soffocata dalle lacrime, deglutii forte. «È più difficile di quel che pensavo. Ho detto a Gideon che ero più preoccupata per la mamma, che con te sarebbe andato tutto bene, ed ecco che sto cercando di...» «Eva.» Feci un respiro profondo. «Gideon e io ci siamo sposati in segreto.» Sulla linea calò il silenzio. «Papà?» «Quando?» La sua voce era incrinata, e mi sentii morire.
«Un paio di settimane fa.» «Prima di venire a trovarmi?» Mi schiarii la gola. «Sì.» Silenzio. Era davvero dura. Solo qualche settimana prima gli avevo raccontato degli abusi di Nathan e ne era rimasto sconvolto. E ora questo... «Papà... così mi fai paura. Eravamo su quell’isola, ed era tutto meraviglioso. Il resort dove alloggiavamo organizza matrimoni in continuazione, la rendono una cosa semplice... un po’ come a Las Vegas. Hanno una persona sempre disponibile a celebrarli e c’è anche
chi si occupa delle varie licenze. Era solo un momento perfetto, sai com’è. L’occasione ideale.» Anch’io avevo la voce incrinata. «Papà... per favore di’ qualcosa.» «Io... io non so cosa dire.» Una lacrima rovente mi scese lungo la guancia. La mamma aveva preferito il denaro all’amore, e Gideon era un esempio perfetto del tipo d’uomo che lei aveva scelto al posto di mio padre. Sapevo che questo aveva creato un pregiudizio che mio padre doveva ancora superare. E adesso c’era quest’altro ostacolo. «Il matrimonio lo organizziamo
comunque» gli dissi. «Vogliamo i nostri amici e le nostre famiglie vicino a noi quando pronunceremo i voti...» «Era quello che mi aspettavo, Eva» ruggì. «Maledizione, mi sento come se Cross mi avesse rubato qualcosa! So che avrei dovuto separarmi da te, ci stavo lavorando, e all’improvviso lui piomba e ti porta via? E tu non me l’hai neanche detto? Eri qui, nella mia casa, e non mi hai detto niente? Fa male, Eva, fa davvero male.» A quel punto non fu più possibile frenare le lacrime, un diluvio caldo che mi offuscò la vista e mi bloccò
la gola. Sobbalzai quando la porta si aprì e Will Granger entrò nella saletta. «Probabilmente è qui dentro» disse il mio collega. «Infatti eccola...» Quando vide la mia faccia le parole gli morirono sulle labbra e dietro gli occhiali squadrati anche i suoi occhi persero il sorriso. Un braccio rivestito di scuro comparve all’improvviso e lo spinse da parte. “Gideon.” Riempiva tutta la soglia, i suoi occhi erano puntati su di me, freddi come il ghiaccio. Sembrava un angelo vendicatore e il suo vestito elegante gli dava l’aria
di un uomo al tempo stesso abile e pericoloso, con il viso indurito in una maschera meravigliosa. Sbattei le palpebre, cercando di capire perché si trovasse lì e come fosse arrivato. In un lampo era davanti a me, con il mio telefono in mano. Diede un’occhiata allo schermo prima di portarselo all’orecchio. «Victor.» Pronunciò il nome di mio padre come se fosse un avvertimento. «A quanto pare ha sconvolto Eva, e dunque ora parli con me.» Will si ritirò in buon ordine e si chiuse la porta alle spalle.
Nonostante il tono di voce tagliente, le dita con cui mi accarezzava le guance erano di una tenerezza infinita. Teneva lo sguardo su di me e i suoi occhi blu erano pieni di una rabbia glaciale che mi metteva i brividi. Quant’era furioso! E anche mio papà. Sentivo le sue urla da dove mi trovavo. Afferrai il polso di Gideon scuotendo la testa: di colpo mi prese il panico al pensiero che i due uomini che amavo di più finissero per non andare d’accordo, forse addirittura per odiarsi. «È tutto a posto» sussurrai. «Sto
bene.» Mi guardò con gli occhi socchiusi e muovendo solo le labbra disse: “Niente affatto”. Quando Gideon riprese a parlare con mio padre, la sua voce era ferma e controllata, e dunque ancora più spaventosa. «Ha tutto il diritto di essere arrabbiato e di sentirsi ferito, glielo concedo. Ma non ho intenzione di farmi rovinare la vita per questo... No, ovviamente non avendo figli non posso immaginare.» Mi sforzavo per riuscire a sentire, sperando che l’abbassamento del tono di voce significasse che mio
padre si stava calmando, e non che era ancora più arrabbiato. All’improvviso Gideon si irrigidì e lasciò cadere la mano con cui mi stava accarezzando. «No, non sarei affatto felice se mia sorella si sposasse in segreto. Detto questo, non è certo lei quella con cui me la prenderei...» Sussultai. Mio marito e mio padre avevano questo in comune, erano entrambi estremamente protettivi nei confronti delle persone che amavano. «Sono a sua disposizione in qualunque momento, Victor. Posso anche venire io da lei, se preferisce.
Quando ho sposato sua figlia, mi sono preso la responsabilità di lei e della sua felicità. Se devo affrontare delle conseguenze, sono pronto a farlo senza nessun problema.» Socchiuse gli occhi mentre ascoltava. Poi prese la sedia di fronte a me, appoggiò il telefono sul tavolo e inserì il vivavoce. La voce di mio padre risuonò nella saletta. «Eva?» Feci un respiro profondo e strinsi forte la mano che Gideon mi porgeva. «Sì, sono qui, papà.» «Tesoro...» Anche lui fece un respiro profondo. «Non essere
turbata, d’accordo? Sto solo... Ho bisogno di un po’ di tempo per mandare giù la cosa. Non me l’aspettavo e... devo abituarmi all’idea. Ne possiamo parlare stasera, più tardi, quando finisco il mio turno?» «Sì, certo.» «Bene.» Fece una pausa. «Ti voglio bene, papà.» Nella mia voce si fece strada il suono delle lacrime e Gideon si avvicinò con la sedia, stringendomi le gambe tra le sue. Era sorprendente quanta forza riuscissi a trarre da lui, che sollievo fosse potermi appoggiare a lui. Era diverso dal sostegno che mi
dava Cary. Il mio migliore amico era una cassa di risonanza, mi sopportava e mi spingeva a reagire. Gideon invece era uno scudo. E io dovevo essere abbastanza forte da ammettere che ne avevo bisogno. «Anch’io ti voglio bene, piccola» disse mio padre, con una nota di dolore e sofferenza nella voce che fu come una coltellata. «Ti chiamo più tardi.» «Ok. Io...» Cos’altro potevo dire? Ero un mezzo disastro quando si trattava di sistemare le cose. «Ciao.» Gideon chiuse la chiamata e poi
prese le mie mani tremanti tra le sue. Mi guardava negli occhi, e la freddezza glaciale di poco prima si stava trasformando in tenerezza. «Non c’è nulla di cui vergognarsi, Eva. È chiaro?» Annuii. «Non mi vergogno.» Mi prese il viso tra le mani e con i pollici asciugò le lacrime. «Non sopporto di vederti piangere, angelo.» Ricacciai indietro quella tristezza che non voleva andarsene e la sospinsi in un angolino, l’avrei affrontata più tardi. «Perché sei qui? Come hai fatto a saperlo?» «Sono venuto a ringraziarti per i
fiori» mormorò. «Oh. Ti piacciono?» riuscii a sorridere. «Volevo farti pensare a me.» «Sempre, in ogni momento.» Mi strinse a sé. «Potevi mandarmi un biglietto.» «Ah.» Fece un accenno di sorriso, e il mio cuore perse un battito. «Ma non avrei potuto metterci dentro questo.» Mi prese in braccio e mi diede il più sensuale dei baci. “Stasera torniamo a casa? Confermato?” Ricevetti l’SMS di Cary a mezzogiorno, mentre aspettavo l’ascensore per scendere nell’atrio. Mia madre era già lì che mi
aspettava e io stavo tentando di chiarirmi le idee. Avevamo ancora un sacco di strada da fare. Speravo davvero che lei avrebbe potuto aiutarmi a gestire tutto. “L’idea è quella” risposi al mio adorato inquilino nonché emerito rompiscatole, finendo di digitare mentre entravo nell’ascensore. “Ho un app. dopo il lavoro però, e poi una cena con Gideon. Forse tardo.” “Cena? Devi raccontarmi tutto.” Feci un sorriso. “Certo.” “Ha chiamato Trey.” Espirai di colpo, come se avessi trattenuto il fiato. E in un certo senso era proprio così.
Non potevo rimproverare il fidanzato a singhiozzo di Cary per aver fatto un bel passo indietro quando aveva saputo che l’amichetta che Cary si era scopato era rimasta incinta. Trey si era già dovuto scontrare con la bisessualità del mio amico, e adesso la nascita di un bambino voleva dire che ci sarebbe sempre stata una terza persona nella loro relazione. Non c’era alcun dubbio che Cary avrebbe dovuto fare sul serio con Trey già da prima, invece di tenersi tutte le porte aperte, ma capivo anche la paura che stava dietro le sue scelte. Sapevo fin troppo bene
che genere di pensieri ti passa per la testa quando sei sopravvissuto a quello a cui eravamo sopravvissuti Cary e io e poi inaspettatamente ti trovi davanti una persona straordinaria che ti ama. Quando era troppo bello per essere vero, come poteva essere reale? Stavo anche dalla parte di Trey, però, e se aveva deciso di chiudere, rispettavo la sua decisione. Ma lui era la cosa più bella capitata a Cary da un sacco di tempo. Ci sarei rimasta davvero male se non ce l’avessero fatta. “Che cosa ha detto?”
“Ti racconto quando ci vediamo.” “Cary! Che crudeltà!” Non mi rispose finché non raggiunsi i tornelli dell’atrio. “Già, non dirlo a me.” Mi si spezzò il cuore, perché non c’era alcun modo per prenderla come una buona notizia. Mi feci da parte per lasciar passare le persone e gli risposi: “Ti voglio un sacco di bene, Cary Taylor”. “Ti voglio bene anch’io, piccola.” «Eva!» Mia madre camminava verso di me. Indossava un paio di sandali con un filo di tacco ed era impossibile non notarla, anche nel
mezzo della folla della pausa pranzo che entrava e usciva dal Crossfire. Minuta com’era, Monica Stanton avrebbe potuto perdersi in quel mare di completi scuri, ma richiamava troppo l’attenzione perché una cosa del genere potesse accadere. Carisma. Sensualità. Fragilità. Era quello il mix esplosivo che aveva fatto di Marilyn Monroe una star, e spiegava altrettanto bene anche mia madre. Indossava una jumpsuit senza maniche blu scuro e sembrava decisamente più giovane della sua età. Era anche molto più sicura di sé di come la conoscessi
io. Le pantere di Cartier al collo e al polso avvertivano che era una donna decisamente cara. Mi raggiunse e mi strinse in un abbraccio che mi colse di sorpresa. «Mamma.» «Stai bene?» Arretrò un po’ e studiò il mio viso con attenzione. «Che cosa? Ma certo, perché?» «Tuo padre ha chiamato.» «Oh.» La osservai con circospezione. «Non ha preso troppo bene la novità.» «No, per nulla.» Sottobraccio, ci avviammo verso l’uscita. «Ma ci farà i conti. Non era ancora pronto a lasciarti andare.»
«Perché gli ricordo te.» Per mio padre, mia madre era quella che se n’era andata. Lui l’amava ancora, anche dopo essere stati lontani per vent’anni. «È un’assurdità, Eva. La somiglianza c’è, ma tu sei molto più interessante.» Quel discorso mi strappò una risata. «Gideon dice che sono interessante.» Lei fece un sorriso smagliante, e l’uomo che le stava passando accanto inciampò. «Ma certo, lui è un intenditore di donne. Per quanto tu possa essere bella, ci vuole qualcosa di più dell’aspetto fisico
per spingerlo a sposarti.» Mi fermai accanto alla porta girevole e feci passare mia madre per prima. Un’ondata di afa mi investì quando la raggiunsi sul marciapiede, coprendomi la pelle di un velo di sudore. In alcuni momenti dubitavo fortemente che mi sarei mai abituata all’umidità, ma la consideravo un prezzo da pagare per vivere nella città che amavo così tanto. La primavera era stata meravigliosa, e sapevo che anche l’autunno non sarebbe stato da meno. Il momento ideale per rinnovare i voti con l’uomo che era padrone del mio cuore e della mia
anima. Mentre ringraziavo Dio per il dono dell’aria condizionata, scorsi l’autista e guardia del corpo di Stanton che aspettava vicino a un’auto nera accostata al marciapiede. Benjamin Clancy mi salutò con un cenno del capo rilassato e sicuro di sé. Si comportava come se niente fosse, ma io provavo un sentimento di gratitudine così forte nei suoi confronti che mi dovevo trattenere dal saltargli al collo per baciarlo. Gideon aveva ucciso Nathan per proteggermi, Clancy aveva fatto in modo che Gideon non dovesse mai
pagare per quel gesto. «Salve» gli dissi, e vidi il mio sorriso riflesso nei suoi occhiali a specchio. «Salve, Eva, che bello rivederla.» «Vale anche per me.» Non fece un sorriso aperto, non era nel suo stile, ma io lo percepii lo stesso. Mia madre salì in macchina per prima e io mi infilai dopo di lei sul sedile posteriore. Clancy non aveva ancora fatto il giro dell’auto per raggiungere il posto di guida che lei si era già girata verso di me e mi aveva preso la mano tra le sue. «Non preoccuparti per tuo padre.
Ha il classico temperamento focoso dei latinoamericani, ma gli passa subito. L’unica cosa che vuole è che tu sia felice.» Le strinsi delicatamente le dita. «Lo so. Ma io vorrei davvero che papà e Gideon andassero d’accordo.» «Sono testardi tutti e due, tesoro, è normale che ogni tanto finiscano per scontrarsi.» Non aveva torto. Fantasticavo di vederli andare in giro insieme, come fanno gli uomini, tutti presi a parlare di sport o di auto, a darsi pacche sulle spalle e così via, ma dovevo affrontare la realtà, per
spiacevole che fosse. «Hai ragione» ammisi. «Sono grandi tutti e due: in qualche modo le cose si sistemeranno.» Almeno, così speravo. Guardai fuori dal finestrino con un sospiro. «Credo di aver trovato una soluzione per Corinne Giroux.» Silenzio. «Eva, devi toglierti quella donna dalla testa. Se le dai spazio nei tuoi pensieri, le concedi un potere che non merita.» «Le abbiamo permesso di diventare un problema con tutta questa segretezza.» Mi girai verso mia madre. «Il mondo è avido di ogni cosa che riguarda Gideon. È
bellissimo, ricco, sexy e brillante. La gente vuole sapere tutto di lui, ma Gideon è così attento alla propria privacy che di fatto non si sa quasi niente. Ciò ha offerto a Corinne l’opportunità di scrivere un libro sul periodo in cui è stata con lui.» Mi lanciò un’occhiata diffidente. «Che cos’hai in mente?» Frugai nella borsa e tirai fuori un piccolo tablet. «Ci serve altra roba così.» Girai lo schermo e le mostrai la foto che ritraeva me e Gideon solo qualche ora prima, mentre eravamo di fronte al Crossfire Building. Il modo in cui mi teneva la mano sulla
nuca era al tempo stesso tenero e possessivo, e la mia espressione mentre alzavo il viso verso di lui rivelava l’amore e l’adorazione che provavo. Sentii una stretta allo stomaco nel vedere un momento così privato dato in pasto al resto del mondo, ma dovevo passarci sopra. Anzi, dovevo dargliene ancora di più. «Gideon e io dobbiamo smettere di nasconderci» spiegai. «Dobbiamo farci vedere. Passiamo troppo tempo appartati. Il pubblico vuole vedere il playboy miliardario che finalmente si trasforma nel Principe Azzurro. Vogliono le belle favole,
mamma, vogliono il lieto fine. Devo dare alla gente il tipo di storia che desidera: in questo modo farò sì che il libro di Corinne diventi insulso e patetico.» Mia madre raddrizzò le spalle. «È una pessima idea.» «No, non lo è affatto.» «È tremenda, Eva! In cambio della privacy che vi siete conquistati con tanta fatica non otterrete niente. Se cerchi di placare quel tipo di appetito, otterrai solo di farlo crescere. Per l’amor del cielo, non vorrai mica diventare una protagonista dei tabloid!» Serrai la mascella. «Non finirà
così.» «Ma perché rischiare?» La sua voce era diventata stridula. «A causa di Corinne Giroux? Il suo libro durerà un battito di ciglia, ma non ti libererai mai di quel tipo di attenzione, se la incoraggi.» «Non ti seguo. Non è possibile sposare Gideon e non avere quel tipo di attenzione! Preferisco tenerla sotto controllo e decidere io in che modo andare in scena.» «Un conto è essere famosa, un altro finire tutti i momenti sui siti di gossip!» «Ne stai facendo una tragedia» brontolai.
Lei scosse la testa. «Lascia che te lo dica: questo è il modo peggiore per gestire la faccenda. Ne hai parlato con Gideon? Non me lo vedo ad accettare una cosa del genere.» La fissai, sconcertata dalla sua reazione. Avrei detto che sarebbe stata dalla mia parte, considerando come la pensava sui matrimoni con le persone importanti e le loro conseguenze. Fu in quel momento che mi accorsi della paura che le faceva stringere le labbra e gettava un’ombra sul suo sguardo. «Mamma» dissi, addolcendo il
tono e prendendomi mentalmente a calci per non averci pensato prima «non dobbiamo più preoccuparci di Nathan.» Mi guardò. «No» disse, per nulla tranquillizzata. «Ma se tutto ciò che hai fatto, detto o deciso finisce vivisezionato per il divertimento della gente, può diventare un incubo.» «Non ho nessuna intenzione di permettere a qualcun altro di decidere in che modo io o il mio matrimonio dobbiamo essere percepiti!» Ero stanca di sentirmi una... vittima. Volevo passare all’offensiva.
«Eva, tu non...» «O mi proponi un’alternativa che non sia rimanermene con le mani in mano o lasciamo perdere e non ne parliamo più, mamma.» Girai la testa dall’altra parte. «A quanto pare non saremo mai d’accordo, e non ho intenzione di cambiare idea in mancanza di un piano alternativo.» Fece una smorfia che esprimeva tutta la sua frustrazione e poi piombò nel silenzio. Le mie dita fremevano dal desiderio di mandare un messaggio a Gideon e sfogarmi con lui. Una volta mi aveva detto che sarei stata
bravissima nel gestire le crisi. Mi aveva proposto di mettere il mio talento al servizio delle Cross Industries. Perché allora non cominciare con qualcosa di più intimo e importante?
2
«Ancora fiori?» disse Arash Madani in tono distratto mentre entrava nel mio ufficio. Il capo del mio settore legale si avvicinò alle rose bianche di Eva nella zona salotto principale. Le avevo sistemate sul tavolino in modo da poterle vedere quando alzavo lo sguardo. Messe lì, erano riuscite benissimo a distrarmi dai
dati di Borsa che scorrevano sui televisori a schermo piatto appesi alla parete retrostante. Il biglietto che accompagnava i fiori era posato sul vetro fumé della mia scrivania e io ci giocherellai, rileggendolo per la centesima volta. Arash prese una rosa e se la avvicinò al naso. «Qual è il segreto per farsi mandare un po’ di queste?» Mi appoggiai allo schienale della sedia, notando distrattamente che la sua cravatta verde smeraldo si intonava alle bottiglie di cristallo che decoravano il bar. Finché non era arrivato lui, quelle bottiglie dai
toni brillanti e il vaso rosso di Eva erano stati le uniche note di colore nello spazio monocromatico del mio ufficio. «La donna giusta.» Rimise la rosa nel vaso. «Dài, Cross, gira il coltello nella piaga.» «Preferisco gioire in silenzio. Hai qualcosa per me?» Si avvicinò alla scrivania con un sorriso che rivelava quanto amasse il suo lavoro, anche se non ne avevo mai dubitato. Il suo istinto predatorio era sviluppato quasi quanto il mio. «L’affare Morgan sta andando alla grande.» Si sistemò i pantaloni di sartoria, poi si accomodò su una
delle due sedie di fronte alla mia scrivania. Il suo stile era leggermente più vistoso del mio, ma comunque impeccabile. «Abbiamo appianato le questioni più grosse. Stiamo mettendo a punto alcune clausole, ma dovremmo essere pronti a procedere dalla settimana prossima.» «Bene.» «Sei un uomo di poche parole.» Poi chiese con noncuranza: «Ti va se ci vediamo questo weekend?». Scossi la testa. «Magari Eva vuole uscire. In quel caso, cercherò di dissuaderla.»
Arash scoppiò a ridere. «Devo dirtelo: mi aspettavo che ti sistemassi, alla fine lo facciamo tutti, ma credevo che ci sarebbero stati dei segnali.» «Lo pensavo anch’io.» Il che non era proprio vero. Non mi ero aspettato di condividere la vita con qualcuno. Non avevo mai negato che il mio passato continuasse a condizionarmi, ma prima di Eva non avevo sentito il bisogno di raccontare quella storia a nessuno. Non poteva essere cambiata, quindi che senso aveva tirarla di nuovo in ballo? Mi alzai e mi avvicinai a una
delle finestre a tutta altezza del mio ufficio e guardai lo splendido paesaggio urbano al di là del vetro. Prima di sapere dell’esistenza di Eva, avevo avuto paura persino di sognare che avrei trovato l’unica persona al mondo capace di accettare e amare ogni mia sfaccettatura. Com’era possibile che l’avessi trovata qui, a Manhattan, proprio nell’edificio che avevo costruito sfidando il buonsenso e rischiando grosso? Troppo costoso, avevano detto, e non necessario. Ma io avevo bisogno che il nome Cross diventasse degno di essere
ricordato e fosse pronunciato in tono diverso. Mio padre aveva infangato il nostro nome, io l’avevo ripulito facendolo risplendere nella città più importante del mondo. «Non hai dato alcun segno di avere simili intenzioni» disse Arash alle mie spalle. «Se ricordo bene, facevi sesso con due donne quando abbiamo festeggiato il Cinco de Mayo, e qualche settimana dopo mi chiedi di stendere la bozza di un folle accordo prematrimoniale.» Osservai il panorama, uno dei rari momenti in cui godevo della vista che l’altezza e la posizione del mio ufficio nel Crossfire offrivano.
«Quando mai mi hai visto rimandare la firma di un accordo?» «Una cosa è ampliare il tuo portafoglio, un’altra rivoluzionare la tua vita dalla sera alla mattina.» Fece una risatina. «Quali sono i tuoi programmi, allora? Hai intenzione di collaudare la nuova casa sulla spiaggia?» «Ottima idea.» Riportare mia moglie negli Outer Banks era quello a cui puntavo. Averla tutta per me era stato il paradiso. Ero al settimo cielo quando stavo da solo con lei. Mi ridava la carica, mi apriva alla speranza di vivere come mai prima di allora.
Avevo costruito un impero avendo in mente il passato. Adesso, grazie a lei, avrei continuato a costruirlo in vista del nostro futuro. Il telefono sulla scrivania si mise a lampeggiare. Era Scott, sulla linea uno. Premetti il tasto e dall’interfono provenne la sua voce. «Alla reception c’è Corinne Giroux. Dice che le serve solo qualche minuto per lasciarle una cosa. Dato che si tratta di una faccenda privata, vuole consegnarla di persona.» «Ovvio» si intromise Arash. «Magari sono altri fiori.» Gli lanciai un’occhiataccia. «La
donna sbagliata.» «Se solo le mie donne sbagliate assomigliassero a Corinne.» «Continua a rifletterci mentre vai alla reception a prendere quello che ha da darmi, di qualunque cosa si tratti.» Inarcò le sopracciglia. «Sul serio? Ahi.» «Vuole parlare? Può farlo con il mio avvocato.» Si alzò e si diresse alla porta. «Intesi, capo.» Guardai l’orologio. Un quarto alle cinque. «Sono sicuro che hai sentito, Scott, ma, per essere chiari, la gestirà Madani.»
«Sì, Mr Cross.» Attraverso la parete di vetro che separava il mio ufficio dal resto del piano osservai Arash girare l’angolo diretto alla reception, dopodiché mi dimenticai di quella faccenda. Eva sarebbe arrivata di lì a poco, l’unica cosa che stavo aspettando sin dalla mattina. Ma naturalmente non sarebbe stato così facile. Qualche istante dopo con la coda dell’occhio colsi un lampo cremisi e quando riportai lo sguardo sul corridoio vidi Corinne che si dirigeva verso il mio ufficio, con Arash alle calcagna. Sollevò il mento quando i
nostri occhi si incrociarono. Il sorriso tirato si allargò, trasformandola da bella a stupenda. La ammiravo come ammiravo qualunque cosa eccetto Eva, in modo obiettivo, spassionato. Adesso che ero felicemente sposato, capivo fino in fondo quale tremendo errore sarebbe stato sposare Corinne. Era una sfortuna che lei si rifiutasse di riconoscerlo. Mi alzai e girai intorno alla scrivania. Bloccai con un’occhiata Scott e Arash; se Corinne voleva parlarmi a tu per tu, le avrei concesso l’ultima occasione di fare la cosa giusta.
Entrò nel mio ufficio. Indossava scarpe rosse con il tacco a stiletto. Il suo abito senza spalline si intonava alle scarpe e metteva in evidenza sia le lunghe gambe sia l’incarnato pallido. I capelli sciolti le ricadevano in ciocche scure sulle spalle scoperte. Era l’esatto contrario di mia moglie e la sosia di tutte le altre donne che avevo avuto. «Gideon. Sono certa che puoi dedicare qualche minuto a una vecchia amica.» Mi appoggiai alla scrivania e incrociai le braccia. «Ed essere così gentile da non chiamare la
sicurezza. Sii breve, Corinne.» Sorrise, ma i suoi occhi color acquamarina erano tristi. Teneva sotto il braccio una piccola scatola rossa. Quando mi fu vicina, me la porse. «Che cos’è?» chiesi, senza prenderla. «Le foto che compariranno nel libro.» Inarcai le sopracciglia. Senza volerlo, allungai una mano e presi la scatola, spinto dalla curiosità. Non era passato molto tempo da quando stavamo insieme, ma non riuscivo a ricordare i dettagli. Quello che mi rimaneva erano impressioni,
bei momenti e rimpianti. Ero così giovane, con una pericolosa mancanza di consapevolezza. Corinne posò la borsetta sulla scrivania, sfiorando il mio braccio con il suo. Diffidente, premetti il pulsante per oscurare la parete di vetro. Se voleva fare una scenata, mi sarei assicurato che non avesse un pubblico. Tolsi il coperchio alla scatola e mi ritrovai a fissare una foto di me e Corinne abbracciati davanti a un falò. Aveva la testa appoggiata nell’incavo della mia spalla, il viso rivolto verso di me perché la
baciassi. Il ricordo mi assalì immediatamente. Avevamo fatto una gita alla casa di un amico negli Hamptons. Faceva freddo, stava arrivando l’inverno. Nella foto sembravamo felici e innamorati e, in un certo senso, suppongo che lo fossimo. Ma io avevo rifiutato l’invito a passare lì la notte, nonostante Corinne ci fosse rimasta male. Dati i miei incubi, non potevo dormire con lei. E non potevo scoparla, benché sapessi che era quello che voleva, perché la stanza d’albergo che tenevo prenotata a quello scopo era
lontana chilometri. Quanti ostacoli. Quante bugie, in quel continuo sottrarsi. Feci un respiro profondo e lasciai andare il passato. «Eva e io ci siamo sposati il mese scorso.» Corinne si irrigidì. Appoggiai la scatola sulla scrivania, presi lo smartphone e le feci vedere la foto che faceva da sfondo allo schermo: Eva e io che ci baciavamo per suggellare i nostri voti. Corinne distolse lo sguardo. Poi frugò tra le foto e ne tirò fuori una di noi due in spiaggia. Io ero in acqua fino alla vita. Lei
mi stava dietro, le gambe strette intorno ai miei fianchi, le braccia sulle spalle e le mani tra i miei capelli. Aveva la testa gettata indietro in una risata che irradiava gioia persino in foto. Io la tenevo con forza e avevo la testa girata per guardarla. C’erano gratitudine e meraviglia. Affetto. Desiderio. Un estraneo che avesse visto quello scatto avrebbe pensato che fosse amore. Ed era questo lo scopo di Corinne. Io avevo negato di aver mai amato qualcuno prima di Eva, ed era la pura verità. Corinne era decisa a dimostrare che mi
sbagliavo nel modo più clamoroso possibile. Si chinò per guardare la foto, poi si rivolse a me. La sua aspettativa era palpabile, come se dovessi essere colpito da chissà quale grandiosa rivelazione. Giocherellò con la collana e io mi accorsi che era un mio regalo, un cuoricino d’oro attaccato a una semplice catenina. Per l’amor del cielo. Non ricordavo neanche chi avesse scattato quella dannata fotografia o dove fossimo, e non aveva importanza. «Cosa dovrebbero dimostrare
queste foto, Corinne? Uscivamo insieme. Ci siamo lasciati. Ti sei sposata, e adesso mi sono sposato anch’io. Non c’è altro.» «E allora perché sei così turbato? Non sei indifferente, Gideon.» «No, sono irritato. Queste foto mi fanno solo apprezzare ancora di più quello che c’è tra Eva e me. E sapere che la feriranno moltissimo non mi rende sentimentale riguardo al passato. Questo è un addio, Corinne.» La guardai negli occhi, per assicurarmi che capisse la mia determinazione. «Se torni qui, la sicurezza non ti lascerà passare.» «Non tornerò. Dovrai...»
Scott mi chiamò sull’interfono e io sollevai il ricevitore. «Sì?» «È arrivata Miss Tramell per lei.» Mi protesi sulla scrivania per premere il pulsante che apriva la porta. Un attimo dopo, entrò Eva. Sarebbe mai venuto il giorno in cui vedendola non avrei sentito il terreno mancarmi sotto i piedi? Si fermò di botto, regalandomi il piacere che mi dava guardarla. Era una bionda naturale, con le ciocche chiare che incorniciavano un viso delicato e mettevano in risalto due tempestosi occhi grigi che avrei potuto guardare per ore. Era minuta ma pericolosamente formosa, con
un corpo morbido che a letto era una delizia. Avrei potuto definirla bella come un angelo, se non fosse stato per la potente sensualità che mi faceva sempre pensare al sesso sfrenato, e desiderarla follemente. Senza che lo volessi, la mia mente si riempì del ricordo del suo profumo e della sensazione di averla sotto di me. La risata di gola che mi faceva gioire e la rapidità con cui si infuriava lasciandomi senza fiato erano memorie impresse nelle viscere. Mi sentii rinascere, una scarica di energia e consapevolezza che avvertivo solo
quando ero con lei. Fu Corinne a parlare per prima. «Salve, Eva.» Mi irritai. L’impulso di proteggere la cosa più preziosa della mia vita spazzò via ogni altra considerazione. Mi raddrizzai, ributtai la foto nella scatola e mi avvicinai a mia moglie. In confronto a Corinne, era vestita sobriamente, con una gonna gessata e una camicetta di seta senza maniche che riluceva come una perla. L’ondata di calore che mi percorse era l’unica prova di cui avevo bisogno per sapere quale delle due donne fosse più sexy.
Eva. Adesso e per sempre. Un’attrazione cui era impossibile resistere mi fece attraversare la stanza a lunghe falcate. “Angelo.” Non lo dissi ad alta voce perché non volevo che Corinne sentisse. Ma vidi che Eva lo intuì. Le presi la mano e provai un fremito di compressione profonda che mi fece stringere la presa. Lei si spostò per guardare dietro di me e riconobbe la donna che non poteva essere sua rivale. «Corinne.» Non mi girai a guardare. «Devo scappare» disse Corinne
alle mie spalle. «Queste copie sono per te, Gideon.» Incapace di distogliere lo sguardo da Eva, dissi: «Portatele via. Non le voglio». «Dovresti finire di guardarle» ribatté, avvicinandosi. «Perché?» Innervosito, lanciai un’occhiata a Corinne quando si fermò accanto a noi. «Se mi viene voglia di vederle, posso sempre sfogliare il tuo libro.» Fece un sorriso sforzato. «Arrivederci, Eva. Gideon.» Quando se ne andò, mi avvicinai ancora di più a mia moglie, annullando qualunque distanza tra
noi. Le presi l’altra mano e mi piegai sopra di lei per annusarne il profumo. Fui pervaso da una sensazione di calma. «Sono felice che tu sia venuta.» Sussurrai quelle parole contro la sua fronte, anelando a starle il più vicino possibile. «Mi sei mancata così tanto.» Eva chiuse gli occhi e si abbandonò tra le mie braccia con un sospiro. Percependo in lei una lieve tensione, le strinsi le mani. «Tutto a posto?» «Sì, sto bene. Solo che non mi aspettavo di vederla.»
«Nemmeno io.» Odiavo scostarmi da mia moglie, e ancora di più odiavo il pensiero di quelle foto. Tornai verso la scrivania, misi il coperchio alla scatola e la gettai nel cestino. «Lascio il lavoro» disse lei. «Domani è l’ultimo giorno.» Era la decisione che volevo che prendesse. Ritenevo che fosse la cosa migliore e più sicura per lei. Ma sapevo quanto doveva essere stato difficile. Eva amava quello che faceva e le persone con cui lavorava. Sapendo che era capace di
leggermi come un libro aperto, usai un tono neutro. «Davvero?» «Sì.» La studiai. «Che cosa farai, allora?» «Ho un matrimonio da organizzare.» «Ah.» Un sorriso mi incurvò le labbra. Dopo giorni passati a temere che potesse ripensarci e tirarsi indietro, fu un sollievo sentire che non era così. «Buono a sapersi.» La chiamai verso di me con un cenno dell’indice. «Vienimi incontro» ribatté con una scintilla di sfida negli occhi.
Come avrei potuto resistere? Ci incontrammo nel mezzo della stanza. Ecco come avremmo superato tutto questo e ogni altro ostacolo che ci si fosse presentato: incontrandoci a metà strada. Non sarebbe mai stata la moglie docile che il mio amico Arnoldo Ricci avrebbe voluto per me. Eva era troppo indipendente. Troppo orgogliosa. Era follemente gelosa. Era esigente e testarda, e mi sfidava solo per il gusto di farmi impazzire. E questo contrasto funzionava come con nessun’altra donna prima
di lei, perché Eva era fatta per me. Credevo in questa cosa più che in ogni altra. «È quello che vuoi?» le chiesi a bassa voce, scrutandola in faccia per vedere la risposta. «Quello che voglio sei tu. Il resto è solo logistica.» Di colpo avevo la bocca asciutta e il mio cuore prese a battere troppo in fretta. Quando sollevò una mano per scostarmi indietro i capelli le afferrai il polso e mi premetti la sua mano sulla guancia, chiudendo gli occhi per assorbirne il tocco. La settimana precedente svanì. Il
tempo che avevamo passato separati, le ore di silenzio, la paura paralizzante... Era tutto il giorno che mi stava dimostrando di essere pronta ad andare avanti e che parlare con il dottor Petersen – parlare con lei – era stata la decisione giusta. Non solo non se n’era andata, ma mi voleva più di prima. E diceva a me che ero eccezionale? Eva sospirò. Sentii la sua tensione allentarsi e poi svanire. Rimanemmo lì in piedi, riconnettendoci l’uno all’altra, prendendo la forza di cui avevamo bisogno. Mi toccava profondamente
sapere che ero in grado di darle un po’ di tranquillità. E lei cosa mi dava? Tutto. Il modo in cui Angus s’illuminò in viso quando Eva uscì dal Crossfire Building mi commosse in una maniera che non ero in grado di esprimere. Angus McLeod era silenzioso per carattere e formazione. Mostrava di rado le proprie emozioni, ma per Eva faceva un’eccezione. O magari non riusciva a trattenersi. Dio sa che io non ci riuscivo.
«Angus.» Eva gli fece il suo sorriso luminoso. «È più elegante del solito, oggi.» Guardai l’uomo che amavo come un padre toccare l’orlo del berretto da chauffeur e restituirle il sorriso con un filo di imbarazzo piuttosto comico. Dopo il suicidio di mio padre, la mia vita era andata in pezzi. Negli anni convulsi che erano seguiti, l’unico punto fermo era stato Angus, un uomo assunto come guardia del corpo e autista che invece si era rivelato un’ancora di salvezza. In un periodo in cui mi sentivo isolato e tradito, quando persino mia madre
si era rifiutata di riconoscere che ero stato ripetutamente violentato dal terapeuta che avrebbe dovuto aiutarmi a rimettermi in sesto, era stato Angus la roccia a cui appoggiarmi. Non aveva mai dubitato di me. E quando me n’ero andato a vivere per conto mio, mi aveva seguito. Quando le gambe snelle e toniche di mia moglie scomparvero nella parte posteriore della Bentley, Angus disse: «Cerchiamo di non fare casino questa volta, ragazzo mio». Feci una smorfia amara. «Grazie per la fiducia.»
Raggiunsi Eva e mi sistemai mentre Angus faceva il giro dell’auto per andare al posto di guida. Le misi una mano sulla coscia e aspettai che mi guardasse. «Voglio portarti alla casa sulla spiaggia questo weekend.» Lei trattenne il fiato, poi espirò con forza. «Mia madre ci ha invitati a Westport. Stanton ha esteso l’invito a suo nipote Martin e alla sua ragazza, Lacey: è la coinquilina di Megumi, non so se ti ricordi... Ci sarà anche Cary, naturalmente. Comunque, ho detto che saremmo andati.» Lottando contro la delusione,
considerai le opzioni a mia disposizione. «Desidero che facciamo alcune cose in famiglia» continuò. «E poi mia madre vuole parlare di un’idea che mi è venuta.» L’ascoltai raccontare la conversazione avuta a pranzo con Monica. Quando finì, mi guardò attentamente. «Ha detto che non ti sarebbe piaciuta, ma hai già usato i paparazzi altre volte, quando mi hai bloccata sul marciapiede e mi hai baciata finché non sono più riuscita a connettere. Volevi che quella foto circolasse.»
«Sì, ma l’opportunità si era presentata da sola, non l’avevo cercata io. Tua madre ha ragione... C’è una differenza.» Si rattristò, spingendomi a rivedere la mia strategia. Volevo che fosse coinvolta e partecipasse attivamente, il che significava incoraggiamento e riconoscimento, non barricate. «Ma hai anche ragione, angelo. Se c’è un pubblico per il libro di Corinne, c’è un vuoto di mercato che deve essere riempito, e noi dovremmo approfittarne.» Il sorriso raggiante che mi rivolse era di per sé una ricompensa.
«Stavo pensando che potremmo chiedere a Cary di farci qualche foto questo weekend» disse. «Momenti più intimi e informali rispetto agli scatti in posa sul tappeto rosso. Possiamo vendere ai media quelle che riteniamo migliori e donare il ricavato alla Crossroads.» La fondazione benefica che avevo istituito era finanziata più che a sufficienza, ma capivo che raccogliere fondi era un beneficio collaterale del piano di Eva per attenuare l’impatto del libro verità di Corinne. Dato che mi dispiaceva per il dolore che quella situazione avrebbe provocato a mia moglie,
ero pronto a sostenerla in tutti i modi, ma questo non significava che non avrei combattuto per un fine settimana io e lei da soli. «Possiamo starci un giorno» suggerii, iniziando con la proposta più estrema in modo da avere spazio di manovra. «Possiamo passare venerdì sera e sabato mattina nella Carolina del Nord, e trascorrere la domenica a Westport.» «Dalla Carolina del Nord al Connecticut a Manhattan in un giorno? Sei fuori di testa?» «Allora da venerdì sera a sabato sera.»
«Non possiamo starcene da soli così, Gideon» disse dolcemente, mettendo una mano sulla mia. «Dobbiamo seguire i consigli del dottor Petersen. Penso che dovremmo passare un po’ di tempo uscendo insieme, stando in mezzo agli altri, riflettendo su come occuparci dei... problemi senza usare il sesso come una stampella.» La fissai. «Non stai dicendo che non possiamo fare sesso.» «Solo finché non ci sposiamo. Non sarà...» «Eva, siamo già sposati. Non puoi chiedermi di tenere le mani a posto.»
«Te lo sto chiedendo.» «No.» Fece una smorfia. «Non puoi dire di no.» «Sei tu che non puoi dire di no» ribattei con il cuore che iniziava a martellare. Cominciarono a sudarmi le mani e sentii arrivare un lieve panico. Era irrazionale, esasperante. «Mi vuoi quanto ti voglio io.» Mi toccò il viso. «A volte penso di volerti di più, e mi sta bene. Ma il dottor Petersen ha ragione. Siamo partiti in quarta e stiamo prendendo tutti i dossi a cento all’ora. Adesso c’è questa piccola finestra
temporale in cui possiamo rallentare. Solo per qualche settimana, fino al matrimonio.» «Qualche settimana? Accidenti, Eva.» Mi scostai, passandomi la mano tra i capelli. Mi girai a guardare fuori dal finestrino. La mente correva. Che cosa voleva dire? Perché me lo chiedeva? Come cazzo avrei fatto a convincerla parlando? La sentii scivolarmi vicino e rannicchiarsi contro di me. La sua voce si ridusse a un sussurro. «Non sei tu quello che ha tirato fuori il discorso dei vantaggi del piacere rinviato?»
Le lanciai un’occhiata. «E com’è finita?» Quell’episodio era stato uno degli errori più grossi che avevo commesso nella nostra relazione. La serata era iniziata alla grande, e poi l’inaspettata comparsa di Corinne aveva mandato tutto all’aria, scatenando una delle liti peggiori che Eva e io avessimo mai avuto... una discussione resa ancora più esplosiva dalla tensione sessuale che avevo deliberatamente represso. «Eravamo due persone diverse.» Eva si ritrasse, gli occhi grigi limpidi mentre sosteneva il mio sguardo.
«Non sei lo stesso uomo che mi ha ignorata a quella cena.» «Non ti ho ignorata.» «E io non sono la stessa donna» proseguì lei. «È vero, vedere Corinne oggi mi ha innervosita, ma io so che non costituisce una minaccia. So che sei impegnato... che siamo impegnati. È per questo che lo faccio.» Allargai le gambe e mi stirai. «Non voglio.» «Nemmeno io. Ma credo che sia una buona idea.» Un sorriso addolcì la sua espressione. «È così vecchio stile e romantico aspettare fino alla notte delle nozze. Pensa a come
sarà eccitante il sesso quando lo faremo.» «Eva, non abbiamo nessun bisogno che la nostra vita sessuale sia più eccitante di com’è.» «Abbiamo bisogno che sia una cosa che facciamo perché ci piace, non perché ci serve per rimanere insieme.» «È tutte e due le cose, e non c’è niente di sbagliato in questo.» Avrebbe potuto benissimo chiedermi di non mangiare, cosa che, potendo scegliere, sarei stato più propenso ad accettare. «Gideon... quello che c’è tra noi è una cosa straordinaria. Vale lo
sforzo di renderci forti in ogni senso.» Scossi la testa. Mi faceva incazzare il fatto che mi sentissi ansioso. Era una perdita di controllo e con Eva non me lo potevo permettere. Non era quello di cui aveva bisogno. Mi protesi verso di lei e le avvicinai la bocca all’orecchio. «Angelo, se non ti manca la sensazione del mio cazzo dentro di te, devo fare un passo avanti, non uno indietro.» Sorrisi tra me quando lei rabbrividì. Eppure sussurrò: «Prova, ti prego. Fallo per me».
«Merda!» Mi lasciai cadere contro lo schienale. Per quanto volessi dirle di no, non potevo. Neppure su questo argomento. «Dannazione.» «Non essere arrabbiato. Non te lo chiederei se non pensassi che sia importante provare. Ed è per pochissimo tempo.» «Eva, cinque minuti sarebbero pochissimo tempo. Stai parlando di settimane.» «Piccolo...» Rise piano. «Hai messo il broncio. Sei adorabile.» Si allungò verso di me e mi diede un bacio sulla guancia. «E sei un tesoro. Grazie.» Socchiusi gli occhi. «Non sto
dicendo che ti renderò le cose facili.» Mi passò le dita sulla cravatta. «Ovvio che no. Cercheremo di renderlo divertente. Una sfida. Vediamo chi cede per primo.» «Io» borbottai. «Non ho nessun incentivo a vincere questa fottuta gara.» «Che ne dici di me? Incartata con un fiocco, e nient’altro, come regalo di compleanno.» Mi accigliai. Non c’era niente in grado di rendermi la cosa più piacevole. Nemmeno il pensiero di Eva che saltava fuori nuda da una torta migliorava le cose. «Cosa
c’entra il mio compleanno?» Eva mi abbagliò con il suo sorriso, senza ottenere altro risultato che rendersi ancora più desiderabile. Era luce e calore sempre, ma quando ce l’avevo sotto di me a fremere di piacere e a implorare più forte... più a fondo... «È quando ci sposiamo.» Mi ci volle un attimo per capire, frastornato com’ero dal desiderio. «Non lo sapevo.» «Nemmeno io, fino a oggi. Sono andata online per vedere se ci fosse qualcosa in settembre o ottobre che avrei dovuto prendere in considerazione per stabilire una
data. Dato che ci sposeremo sulla spiaggia, non possiamo aspettare che faccia troppo freddo, perciò dobbiamo farlo questo mese o il prossimo.» «Grazie a Dio per l’inverno» brontolai. «Demonio. Comunque... Ho ricevuto un Google Alert su di te...» «Ancora con quella roba?» «... e c’era un post su noi due su un sito di fan. C’era...» «Sito di fan?» «Già. Ci sono interi siti e blog dedicati a te. Che cosa indossi, con chi esci, gli eventi a cui vai.» «Oddio.»
«Quello che ho visto aveva tutti i tuoi dati: altezza, peso, colore degli occhi, data di nascita... ogni cosa. A essere sincera, mi ha fatto un po’ incazzare che qualche completo estraneo sappia altre cose di te che io non so, il che è un’ulteriore ragione per cui penso che dovremmo uscire insieme e parlare di più...» «Posso snocciolare dati mentre scopiamo. Problema risolto.» Fece un sorriso deliziato. «Mi fai morire. Comunque, fissare il matrimonio il giorno del tuo compleanno è una buona idea, non credi? Non dimenticherai mai il
nostro anniversario.» «Il nostro anniversario di matrimonio è l’undici agosto» le ricordai seccamente. «Avremo due date da festeggiare.» Mi passò una mano tra i capelli, facendomi battere più forte il cuore. «O, meglio ancora, festeggeremo ininterrottamente dall’una all’altra.» Dall’11 agosto al 22 settembre... un mese e mezzo. Il pensiero fu quasi sufficiente a rendere sopportabili le settimane che mi aspettavano. «Eva. Gideon.» Il dottor Lyle
Petersen si alzò in piedi e sorrise quando entrammo nel suo studio. Era un uomo alto e dovette abbassare notevolmente lo sguardo per accorgersi che ci tenevamo per mano. «Vi trovo bene.» «Io mi sento bene» disse Eva, sicura di sé. Io non dissi niente, limitandomi a porgergli la mano. Quel bravo dottore sapeva di me cose che avevo sperato di non dover mai rivelare a nessuno. Per questo non ero del tutto a mio agio con lui, nonostante il rassicurante mix di colori neutri e mobili tranquillizzanti che caratterizzava il
suo studio. Anche il dottor Petersen era un uomo rassicurante, a proprio agio nella sua pelle. I capelli grigi dal taglio perfetto contribuivano a farlo sembrare innocuo, ma non riuscivano a mascherare la sua mente acuta e intuitiva. Era difficile fare affidamento su qualcuno che conosceva così a fondo le mie fragilità, ma gestivo la cosa meglio che potevo perché non avevo scelta: il dottor Petersen era una figura decisiva nel mio matrimonio. Eva e io ci sedemmo sul divano, mentre il dottore prese posto sulla solita poltroncina con lo schienale
rigido. Appoggiò il tablet e lo stilo sul bracciolo e ci studiò con i suoi penetranti occhi azzurro scuro. «Gideon,» esordì «mi dica che cosa è successo da quando ci siamo visti martedì.» Mi appoggiai allo schienale e andai dritto al punto. «Eva ha deciso di seguire il suo consiglio di astenerci dal sesso finché non ci sposeremo pubblicamente.» Eva proruppe in una risatina bassa e roca. Poi mi si avvicinò, stringendomi il braccio. «Ha notato la sfumatura accusatoria?» chiese al dottore. «È tutta colpa sua se andrà in bianco per un paio di settimane.»
«Sono più di un paio di settimane» ribattei. «Ma meno di tre» mi rimbeccò lei. Sorrise al dottor Petersen. «Avrei dovuto saperlo che l’avrebbe tirato fuori subito.» «Tu con che cosa avresti cominciato, Eva?» chiese il dottore. «Gideon mi ha raccontato i dettagli del suo incubo ieri sera.» Mi lanciò un’occhiata. «È una cosa importante. Un grosso punto di svolta per noi due.» Era impossibile fraintendere l’amore nei suoi occhi mentre parlava, né la gratitudine e la speranza. Sentii un nodo in gola.
Parlarle del casino schifoso che avevo in testa era stata la cosa più difficile che avessi mai fatto in vita mia – persino raccontare al dottor Petersen di Hugh era stato più facile –, ma ne era valsa la pena solo per vedere l’espressione del suo viso. Le cose più orribili che ci erano capitate ci avevano avvicinati. Era folle, ed era meraviglioso. Mi tirai la sua mano in grembo, stringendola tra le mie. Provavo lo stesso amore, la stessa gratitudine e la stessa speranza che provava lei. Il dottor Petersen prese il tablet. «Un bel po’ di rivelazioni per lei
questa settimana, Gideon. Che cosa le ha provocate?» «Lo sa.» «Eva ha smesso di vederla.» «E di parlarmi.» Lui guardò Eva. «Questo perché Gideon ha assunto il tuo capo portandolo via all’agenzia in cui lavori?» «Quello è stato il fattore scatenante» concordò lei «ma stavamo arrivando a un punto di rottura. Doveva succedere qualcosa. Non potevamo continuare a girare in tondo, facendo le stesse discussioni.» «Così ti sei ritratta. Potrebbe
essere considerato un ricatto emotivo. Era quella la tua intenzione?» Eva strinse le labbra mentre ci rifletteva. «Lo chiamerei disperazione.» «Perché?» «Perché Gideon stava... tracciando i confini per definire la nostra relazione. E io non riuscivo a immaginare di vivere entro quei limiti per tutta la vita.» Il dottor Petersen prese appunti. «Gideon, che cosa ne pensa di come Eva ha gestito questa situazione?» Mi ci volle un po’ per rispondere.
«Mi è sembrato un dannatissimo viaggio nel tempo, ma cento volte peggio.» Mi lanciò un’occhiata. «Ricordo quando è venuto la prima volta da me: lei ed Eva non parlavate da un paio di giorni.» «Mi aveva tagliata fuori» disse lei. «Se n’era andata» ribattei. Quella sera ci eravamo veramente aperti l’uno all’altra. Eva mi aveva raccontato delle aggressioni di Nathan, rivelandomi la fonte inconscia della nostra attrazione reciproca. Poi io avevo avuto un incubo sull’abuso che
avevo subito e lei mi aveva sollecitato a parlarne. Non ci ero riuscito e lei se n’era andata. Eva si inalberò. «Lui mi ha lasciata usando una comunicazione interna! Chi fa una cosa del genere?» «Non ti avevo lasciata» la corressi. «Ti sfidavo a tornare. Te ne vai quando le cose non...» «Questo sì che è ricatto emotivo.» Mi lasciò andare la mano e si spostò per guardarmi in faccia. «Mi tagli fuori con il chiaro scopo di indurmi ad accettare le tue condizioni. Non mi piace come
stanno le cose? Be’, allora tu mi chiudi fuori finché non ne posso più.» «E tu non hai fatto lo stesso con me?» Serrai la mascella. «E a quanto pare ci riesci benissimo. Se non cambio, non ti sposti di un millimetro.» E questo mi uccideva. Aveva dimostrato troppe volte che poteva andarsene senza guardarsi indietro, mentre a me senza di lei mancava l’aria. Era uno squilibrio fondamentale nel nostro rapporto, che le dava un vantaggio in ogni cosa. «Sembra risentito, Gideon»
intervenne il dottor Petersen. «E io no?» Eva incrociò le braccia. Scossi la testa. «Non è risentimento. È... frustrazione. Io non riesco ad andarmene, ma lei sì.» «Non è giusto! E non è vero. L’unica leva che ho è farti sentire la mia mancanza. Cerco di parlarti, ma alla fine fai quello che ti pare. Non mi dici le cose, non ti consulti con me.» «Ci sto lavorando.» «Adesso, ma sono stata costretta ad allontanarmi per fartelo fare. Sii sincero, Gideon, sono arrivata io e ti
sei reso conto che nella tua esistenza c’era un vuoto che avrei potuto riempire, così hai pensato di mettermi lì e poi vivere il resto della tua vita come prima.» «Quello che volevo era che tu ci lasciassi essere... noi stessi. Godere della reciproca presenza per un po’.» «È un mio diritto decidere, dire di sì o di no, è maledettamente importante per me! Non ti serve a niente tenermi nascoste le cose o incazzarti quando non mi piacciono!» «Dio santo.» Dovevo fare i conti con la realtà. Era come se mi
avessero dato un pugno nello stomaco. Dato quello che aveva passato, farla sentire – anche solo per un attimo – come se le stessi negando la possibilità di scegliere era una violenza terribile. «Eva...» Sapevo quello di cui aveva bisogno, l’avevo capito subito. Le avevo dato una safeword che avrei rispettato in qualunque situazione, in pubblico o in privato. Lei la pronunciava, e io mi fermavo. Gliela ricordavo spesso, per essere certo che sapesse sempre che la scelta spettava a lei, e a lei soltanto. Ma non avevo colto la connessione riguardo al suo lavoro.
Era imperdonabile. Mi voltai verso di lei. «Angelo, non era mia intenzione farti sentire impotente. Non avrei mai voluto. Mai. Non lo intendevo in quel senso. Mi... mi dispiace.» Le parole non bastavano, mai. Volevo essere il suo nuovo inizio. Come avrei potuto dopo essermi comportato da stronzo? Mi guardò con quegli occhi che vedevano tutto quello che avrei preferito tenere nascosto. Per una volta, fui grato che fosse in grado di farlo. La sua postura combattiva si rilassò. Il suo sguardo si addolcì,
pieno d’amore. «Forse non ho usato le parole giuste.» Rimasi seduto lì, incapace di esprimere quello che mi si agitava nella mente. Quando avevamo parlato di fare squadra e condividere il nostro fardello, non l’avevo collegato alla sua necessità di dire sì o no. Pensavo di poterla tenere al riparo dai problemi e di facilitarle le cose. Eva se lo meritava. Mi toccò una spalla. «Non ti ha fatto sentire meglio, anche solo un po’, parlarmi del tuo sogno ieri notte?» «Non lo so.» Espirai
bruscamente. «So soltanto che sei contenta di me perché l’ho fatto. Se è quello che serve... allora è quello che farò.» Lei si abbandonò contro i cuscini del divano, le labbra tremanti. Guardò il dottor Petersen. «E adesso mi sento in colpa.» Silenzio. Non sapevo cosa dire. Il dottor Petersen si limitò ad aspettare con quella sua pazienza esasperante. Eva fece un profondo respiro tremante. «Pensavo che se avessi fatto a modo mio, lui avrebbe capito quanto le cose potessero andare meglio tra noi. Ma se lo sto
mettendo in un angolo... se lo sto ricattando...» Una lacrima le scivolò su una guancia, facendomi lo stesso effetto di una pugnalata. «Forse abbiamo idee diverse su quello che dovrebbe essere il nostro matrimonio. E se questa cosa non dovesse cambiare?» «Eva.» Le misi un braccio intorno alle spalle e l’attirai a me, grato quando lei si abbandonò e mi posò la testa sulla spalla. Non una resa. Più che altro una tregua momentanea. Era abbastanza. «Questo è un punto importante» disse il dottor Petersen. «Approfondiamolo. Cosa
succederebbe se Gideon si rivelasse restio ad aprirsi con te come vorresti?» «Non so.» Si asciugò le lacrime. «Non so dove ci porterebbe.» Tutte le speranze che aveva quando eravamo entrati nello studio erano svanite. Le accarezzai i capelli, cercando di farmi venire in mente qualcosa da dire per riportare le cose al punto in cui erano all’inizio della seduta. Smarrito, le dissi: «Hai lasciato il lavoro per me, anche se non volevi farlo. Ti ho raccontato il mio sogno, anche se non volevo farlo. Non è così che funziona? Che entrambi
scendiamo a compromessi?». «Hai lasciato il lavoro, Eva?» chiese il dottor Petersen. «Perché?» Lei si rannicchiò contro di me. «Stava cominciando a causare più problemi che altro. E poi Gideon ha ragione: lui ha fatto una piccola concessione, per cui mi sembra giusto che anch’io faccia lo stesso.» «Non definirei “piccoli” questi compromessi. E tutti e due avete scelto di iniziare la seduta parlando d’altro, il che suggerisce che non siete completamente sereni rispetto al sacrificio che avete fatto.» Si appoggiò allo schienale della poltrona, mettendosi il tablet in
grembo. «Vi siete chiesti il perché di tanta fretta?» Lo guardammo. Sorrise. «Dalla vostra espressione perplessa, direi che la risposta è no. Come coppia, avete un sacco di punti di forza. Forse non condividete tutto, ma comunicate e lo fate in maniera produttiva. Ci sono un po’ di rabbia e frustrazione, ma le esprimete e riconoscete reciprocamente i vostri sentimenti.» Eva si raddrizzò. «Ma...» «State anche perseguendo i vostri obiettivi personali e vi manipolate a vicenda per ottenerli. La mia preoccupazione è che si
tratta di questioni e cambiamenti che nel corso del tempo si presenterebbero e verrebbero risolti naturalmente, ma nessuno di voi due vuole aspettare. State correndo troppo. Sono passati solo tre mesi da quando vi siete conosciuti. A questo punto, la maggior parte delle persone starebbe decidendo di fare coppia fissa, e invece voi due siete sposati da quasi un mese.» Raddrizzai le spalle. «A che serve rimandare l’inevitabile?» «Se è inevitabile» rispose il dottore con uno sguardo gentile «perché avere fretta? Ma non è questo che voglio sottolineare.
State mettendo a rischio il vostro matrimonio costringendovi a vicenda ad agire prima di essere pronti. Ciascuno di voi ha delle strategie per adattarsi alle avversità. Lei, Gideon, prende le distanze, come è successo con la sua famiglia. Tu, Eva, ti dai la colpa del fatto che il vostro rapporto non funziona e neghi i tuoi bisogni, come hai dimostrato con le relazioni autodistruttive che hai avuto in passato. Se continuate a mettervi a vicenda in situazioni in cui vi sentite minacciati, alla fine otterrete solo di scatenare uno di questi meccanismi di autodifesa.»
Il cuore prese a martellarmi, e sentii Eva irrigidirsi. Mi aveva detto la stessa cosa, ma sapevo che sentirlo da uno strizzacervelli avrebbe confermato le sue paure. L’attirai di nuovo a me, assorbendo la sua presenza per calmarmi. In quel momento provai un odio feroce per Hugh e Nathan. Erano entrambi morti e sepolti, ma ci stavano ancora incasinando l’esistenza. «Non lasceremo che vincano loro» sussurrò Eva. Le diedi un bacio sulla testa, profondamente grato. Pensava le stesse cose che pensavo io, il che non mancava mai di stupirmi.
Tirò indietro la testa e mi sfiorò la guancia con la punta delle dita, uno sguardo tenero negli occhi grigi. «Non riesco a resisterti, lo sai. Fa troppo male starti lontana. Il fatto che tu ceda per primo non significa che io sia meno coinvolta. Significa solo che sono più ostinata.» «Non voglio combattere contro di te.» «E allora non facciamolo» disse lei semplicemente. «Oggi abbiamo iniziato qualcosa di nuovo: tu parli, io mi licenzio. Atteniamoci a questo, e vediamo dove ci porta.» «Posso farlo.»
All’inizio avevo pensato di portare Eva a cena in un posto tranquillo e riservato, ma alla fine optai per il Crosby Street Hotel. Il ristorante era famoso e l’albergo era noto per essere spesso assediato dai fotografi. Non ero pronto a spingermi troppo in là ma, come avevamo detto dal dottor Petersen, ero disposto a incontrarla a metà strada. Avremmo trovato un terreno comune. «Che carino» commentò mentre seguivamo la direttrice di sala verso il nostro tavolo, osservando le pareti azzurre e i lampadari dalla luce soffusa.
Quando arrivammo al tavolo, scostai una sedia per lei e mi guardai intorno. Eva stava attirando l’attenzione, come al solito. Era uno schianto, ma per apprezzare il suo sex appeal bisognava vederla da vicino. Tutto stava nel modo in cui si muoveva, nel portamento, nella curva del sorriso. E lei era mia. L’occhiata che diedi agli altri commensali lo chiarì senza ombra di dubbio. Mi sedetti di fronte a lei, ammirando il modo in cui la luce della candela sul tavolo accendeva di riflessi dorati il suo incarnato e i capelli chiari. Il lucidalabbra
invitava a baci lunghi e appassionati, come pure i suoi occhi. Nessuno mi aveva mai guardato in quel modo, con un’accettazione e una comprensione totali che si fondevano con l’amore e il desiderio. Avrei potuto dirle qualunque cosa e lei mi avrebbe creduto. Un dono così semplice, eppure raro e prezioso. Soltanto il mio silenzio avrebbe potuto allontanarla da me, mai la verità. «Angelo.» Le presi la mano. «Te lo chiedo di nuovo, poi non ne parleremo più. Sei sicura di voler
lasciare il lavoro? Non me lo rinfaccerai tra vent’anni? Non c’è nulla che non possiamo sistemare, basta che lo dici.» «Tra vent’anni potresti lavorare per me, asso.» La sua risata roca aleggiò nell’aria, accendendomi di desiderio. «Non preoccuparti, okay? In realtà è un sollievo. Ho un mucchio di cose da sbrigare: imballare, traslocare, organizzare. Quando ci saremo lasciati tutto alle spalle, penserò a cosa fare dopo.» La conoscevo bene. Se avesse avuto dei dubbi, li avrei percepiti. Quello che avvertii era invece qualcosa di diverso, di nuovo.
Dentro di lei bruciava un fuoco. Non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso, neppure mentre ordinavo il vino. Quando il cameriere si allontanò, mi rilassai sulla sedia, godendomi il semplice piacere di guardare la mia splendida moglie. Eva si passò la lingua sulle labbra con un gesto malizioso e si protese verso di me. «Sei così follemente sexy.» Feci una smorfia. «Adesso?» Mi toccò la gamba con la sua. «Sei l’uomo di gran lunga più sexy della sala, il che è proprio divertente. Adoro mostrarti in giro.»
Feci un sospiro esagerato. «Vuoi solo il mio corpo.» «Proprio così. Chi se ne frega dei tuoi miliardi? Hai beni che valgono di più.» Le intrappolai la gamba tra le caviglie. «Per esempio, mia moglie. È la cosa più preziosa che possiedo.» Inarcò le sopracciglia divertita. «Possiedi, eh?» Sorrise al cameriere quando tornò con la bottiglia. Mentre lui versava il vino, il piede di Eva risalì a stuzzicarmi e lei mi lanciò uno sguardo pieno di desiderio da sotto le palpebre semiabbassate. Spinsi il
bicchiere verso di lei, la osservai far girare il vino rosso scuro, annusarne l’aroma e poi assaggiarlo. Il gemito di piacere che fece per approvare la mia scelta scatenò dentro di me un’ondata di eccitazione, cosa che era certamente sua intenzione. La lenta carezza sulla gamba era esasperante. Ce l’avevo sempre più duro, già più che pronto dopo giorni di astinenza. Prima di Eva, non sapevo che il sesso estinguere una sete più profonda. Bevvi un sorso di vino e aspettai che il cameriere si allontanasse. «Hai cambiato idea?»
«No. Mi limito a tener vivo l’interesse.» «Si può giocare in due» la avvertii. Lei fece un gran sorriso. «Ci conto.»
3
«Dove vai adesso?» chiesi a Gideon mentre mi accompagnava nell’atrio del mio palazzo. L’Upper West Side era la mia casa... per il momento. L’attico di Gideon era nell’Upper East. A dividerci c’era l’ampia zona verde di Central Park, uno dei pochi ostacoli tra noi due che era facile superare. Salutai con un gesto della mano
Chad, uno dei ragazzi del turno di notte. Lui mi sorrise e fece un cortese cenno del capo a Gideon. «Salgo con te» rispose Gideon. Mi teneva una mano appoggiata leggermente alla base della schiena. Ero acutamente consapevole di quel tocco. Trasmetteva senza sforzo possesso e controllo, e mi eccitava da morire. Il che mi rese ancora più difficile dire di no quando arrivammo all’ascensore. «Dobbiamo salutarci qui, asso.» «Eva...» «Non ce la faccio a resistere» confessai, percependo il richiamo
del suo desiderio. Riusciva sempre a farmi capitolare con la pura forza di volontà. Era una delle cose che amavo di lui, quello per cui sapevo che eravamo fatti l’uno per l’altra. Il legame tra noi era quello tra due anime gemelle. «Tu e io con un letto nelle vicinanze non è una buona idea.» Mi fissò con le labbra atteggiate a una smorfia ironica supersexy. «È quello su cui conto.» «Fai il conto alla rovescia, invece... fino al matrimonio. È quello che sto facendo io. Un minuto dopo l’altro.» Ed era una tortura. La connessione fisica con
Gideon era vitale quanto quella emotiva. Lo amavo. Adoravo toccarlo, rassicurarlo, dargli quello di cui aveva bisogno... Il mio diritto di fare queste cose significava tutto per me. Gli misi una mano sul braccio, stringendo piano i muscoli scolpiti sotto la stoffa. «Anche tu mi manchi.» «Non devo mancarti.» Abbassai la voce. «Tu dici quando, tu dici come» mormorai, ripetendo il principio basilare della nostra vita sessuale. «E una parte di me vuole davvero che tu dica quando esattamente in questo
momento. Ma c’è una cosa che voglio più di questa. Ti chiamo più tardi, dopo aver parlato con Cary, e ti dico che cos’è.» Il sorriso svanì e nei suoi occhi comparve un lampo di desiderio. «Puoi venire nell’appartamento accanto e dirmelo adesso.» Scossi la testa. Quando Nathan era una minaccia, Gideon si era sistemato nell’appartamento accanto al mio, vegliando su di me e accertandosi che fossi al sicuro, anche se io non lo sapevo. Poteva fare una cosa del genere perché il palazzo era suo, uno dei molti che possedeva in città.
«Devi tornare all’attico, Gideon. Rilassati e goditi quella casa meravigliosa che presto condivideremo.» «Non è la stessa cosa senza di te. Sembra vuoto.» Quello era un colpo basso. Prima che arrivassi io, Gideon aveva strutturato la propria vita in modo da poter essere solo sotto ogni aspetto: lavoro inframmezzato da incontri occasionali e nessun contatto con la famiglia. Io avevo cambiato le cose, e non volevo che fosse costretto a pentirsene. «È la tua occasione per liberarti di tutto quello che non vuoi farmi
scoprire quando traslocherò» lo presi in giro, cercando di mantenere un tono leggero. «Conosci tutti i miei segreti.» «Domani saremo insieme a Westport.» «Domani è troppo lontano.» Mi alzai sulla punta dei piedi e lo baciai sulla guancia. «Dormici sopra un po’, e per il resto lavora.» Poi sussurrai: «Potremmo mandarci SMS piccanti. Vedrai quanto posso essere creativa». «Preferisco l’originale alle riproduzioni.» Ridussi la voce a un mormorio impercettibile. «Video, allora. Con il
sonoro.» Girò la testa e mi baciò sulla bocca, un bacio lungo e sensuale. «Questo è amore» sussurrò. «Accettare questo.» «Lo so.» Sorrisi e mi scostai per premere il pulsante dell’ascensore. «Potresti mandarmi qualche foto osé anche tu, sai.» Socchiuse gli occhi. «Se vuoi le mie fotografie, angelo, dovrai scattarle tu stessa.» Entrando nell’ascensore, gli mostrai il dito. «Guastafeste.» Le porte iniziarono a chiudersi. Dovetti aggrapparmi al corrimano per non corrergli incontro. La felicità
può prendere tante forme. La mia era Gideon. «Senti la mia mancanza» mi ordinò. Gli mandai un bacio. «Sempre.» Quando aprii la porta del mio appartamento fui colpita da due cose contemporaneamente: il profumo di una cena cucinata da poco e la musica di Sam Smith. Mi sentivo a casa. Ma all’improvviso fui assalita dalla tristezza: non sarebbe rimasta casa mia ancora per molto. Non dubitavo del futuro che avevo accettato sposando Gideon, certo che no. Ero
così eccitata all’idea di vivere con lui, di essere sua moglie sia in privato sia in pubblico, di condividere i miei giorni – e le mie notti – con lui. E tuttavia cambiare è più difficile quando sei felice della versione precedente della tua vita. «Tesoro, sono a casa!» dissi a voce alta, lasciando cadere la borsa su uno degli sgabelli in tek del bancone della colazione. Mia madre aveva arredato l’appartamento in uno stile moderno tradizionale. Probabilmente non avrei fatto alcune delle sue scelte, ma nell’insieme mi piaceva. «Eccomi qui, bel culetto» disse
Cary con voce strascicata, facendomi girare verso il divano del salotto, dove stava spaparanzato con addosso solo un paio di calzoncini da surf. Era snello e abbronzato, con i pettorali splendidamente definiti come quelli di Gideon. Anche quando non lavorava, aveva sempre l’aria del modello supersexy che era. «Com’è andata la cena?» «Bene.» Mi diressi verso di lui, scalciando via le scarpe con il tacco mentre camminavo. Immaginavo che avrei dovuto farlo finché ne avevo la possibilità. Non mi ci vedevo a lasciare in giro le scarpe
nell’attico di Gideon. Ero convinta che la cosa lo avrebbe fatto un po’ incazzare. E dato che ero sicura che c’erano altre cose con cui l’avrei fatto impazzire, probabilmente era meglio scegliere con cura i miei vizi. «E la tua? Dall’odore sembra che tu abbia cucinato.» «Pizza. Semiartigianale. Tat ne aveva una voglia matta.» «E chi non va matto per la pizza?» dissi, lasciandomi cadere poco elegantemente sul divano. «È ancora qui?» «Naa.» Distolse il viso dallo schermo della TV per guardarmi, gli occhi verdi seri. «Se n’è andata
incazzata come una iena. Le ho detto che non se ne parla di vivere insieme.» «Ah.» A dire il vero, Tatiana Cherlin non mi piaceva. Era una modella di successo come Cary, anche se non aveva ancora raggiunto la sua celebrità. Cary l’aveva conosciuta al lavoro. La loro relazione esclusivamente sessuale era cambiata all’improvviso quando lei aveva scoperto di essere incinta. Sfortunatamente, la scoperta era avvenuta proprio quando Cary aveva incontrato un ragazzo speciale con cui voleva costruire un
rapporto stabile. «Decisione importante» commentai. «E non sono sicuro che sia quella giusta.» Si passò una mano sul viso stupendo. «Se nel quadro non ci fosse Trey, starei facendo la cosa giusta con Tat.» «E chi dice che non è così? Essere un buon genitore non significa vivere insieme. Guarda mia madre e mio padre.» «Cazzo.» Gemette. «Mi sento come se stessi scegliendo me stesso anziché mio figlio, Eva. Questo cosa fa di me, se non un bastardo egoista?»
«Non la stai mica tagliando fuori. So che sarai presente per lei e per il bambino, solo non in quel modo.» Allungai una mano e mi arrotolai intorno al dito una ciocca dei suoi capelli color cioccolato. Il mio migliore amico aveva sofferto così tanto. La maniera perversa in cui era stato introdotto al sesso e all’amore gli aveva lasciato un sacco di strascichi e di cattive abitudini. «Allora Trey ha intenzione di restare?» «Non ha deciso.» «Ti ha chiamato?» Cary scosse la testa. «No. Ho ceduto e l’ho chiamato io prima che
si dimenticasse completamente di me.» Gli diedi uno spintone scherzoso. «Come se potesse succedere. Tu, Cary Taylor, sei assolutamente indimenticabile.» «Ah-ah.» Si stiracchiò con un sospiro. «Non sembrava troppo felice di sentirmi. Ha detto che sta ancora cercando di chiarirsi le idee.» «Il che significa che sta pensando a te.» «Già, pensando che l’ha sfangata per un pelo» borbottò Cary. «Ha detto che non aveva intenzione di stare con me se io fossi andato a
vivere con Tat, ma quando gli ho detto che avrei sistemato la cosa, ha risposto che si sentiva uno stronzo per essersi messo in mezzo. È una situazione disperata ma sono stato sincero con Tat comunque, perché un tentativo devo farlo.» «Brutto affare.» Non riuscivo a immaginarmi al posto suo. «Cerca solo di prendere le decisioni migliori possibili. Hai il diritto di essere felice. È la cosa migliore per tutti quelli che ti stanno intorno, incluso il bambino.» «Se ci sarà un bambino.» Chiuse gli occhi. «Tat dice che non ha intenzione di fare questa cosa da
sola. Se non ci sarò, non vuole portare avanti la gravidanza.» «Non è un po’ tardi per dire una cosa del genere?» Non riuscii a evitare che trapelasse la rabbia. Tatiana era una manipolatrice. Era impossibile non pensare al futuro e rendersi conto che sarebbe stata una fonte di infelicità per un bambino innocente. «Non posso pensarci, Eva. Sono andato fuori di testa. È tutto un tale casino.» Sbottò in una risata amara. «E pensare che una volta ho detto che era facile da gestire. Non le fregava niente che fossi bisessuale e che scopassi in giro... Una parte
di me è contenta che adesso gliene importi abbastanza da pretendere l’esclusiva, ma non posso fare a meno di amare Trey.» Distolse lo sguardo, turbato. Mi faceva star male vederlo così giù. «Forse dovrei parlarle» proposi. Girò di scatto la testa per guardarmi. «E a cosa servirebbe? Voi due non vi sopportate.» «Non sono una sua fan» ammisi. «Ma posso aggirare l’ostacolo. Una chiacchierata tra donne – se ben gestita – potrebbe aiutare. Non credo che potrebbe peggiorare le cose, giusto?» Esitai prima di proseguire. Le mie intenzioni erano
buone, ma suonavano ingenue alle mie stesse orecchie. Sbuffò. «Al peggio non c’è mai fine.» «Guardiamo le cose dal lato positivo» lo rimproverai. «Trey sa che hai parlato con Tatiana e che non andrete a vivere insieme?» «Gli ho mandato un SMS. Nessuna risposta. Non che me l’aspettassi.» «Dagli ancora un po’ di tempo.» «Eva, alla fine della fiera lui vorrebbe che fossi totalmente gay. Nella sua mente essere bisessuale equivale a scopare in giro. Non capisce che l’attrazione per uomini e donne non significa incapacità di
essere fedele a una persona. O forse semplicemente non vuole capire.» Espirai sonoramente. «Penso di non essere stata di grande aiuto su questo punto. Una volta ha tirato fuori l’argomento e io non sono riuscita a spiegare bene come stanno le cose.» Era un po’ che questa faccenda mi tormentava. Dovevo mettermi in contatto con Trey e sistemarla. Cary era in ospedale in seguito a una violenta aggressione quando io e Trey avevamo parlato. In quel momento non ero lucidissima. «Non puoi sempre mettere le
cose a posto per me, piccola.» Si girò a pancia in giù e mi guardò. «Ma mi fa un piacere enorme che ci provi.» «Tu sei parte di me.» Lottai per trovare le parole giuste. «Ho bisogno che tu stia bene, Cary.» «Ci sto lavorando.» Si scostò i capelli dalla faccia. «Approfitterò di questo weekend a Westport per affrontare l’eventualità che Trey possa essere fuori dai giochi. Devo essere realistico al riguardo.» «Tu sii realistico, io sarò ottimista.» «Buon divertimento.» Si tirò su a sedere e appoggiò i gomiti sulle
ginocchia, ciondolando la testa. «Il che mi riporta a Tatiana. Credo di avere le idee chiare su questo: non possiamo stare insieme. Bambino o no, non funzionerebbe né per me né per lei.» «Rispetto questa scelta.» Era difficile non aggiungere altro. Avrei sempre dato al mio migliore amico il sostegno e la rassicurazione di cui aveva bisogno, ma in questo caso doveva imparare la lezione. Lui, Trey e Tatiana – più un bambino in arrivo – stavano tutti male a causa delle sue scelte. Allontanava le persone che gli volevano bene con le sue azioni,
sfidandole a restare. Era un test destinato a fallire. Affrontare le conseguenze avrebbe potuto indurlo a cambiare in meglio. Sorrideva ironico, con uno degli splendidi occhi verdi seminascosto dietro le ciocche di capelli che gli ricadevano sulla faccia. «Non posso scegliere in base a quello che voglio ottenere. Fa schifo, ma sai che c’è? Prima o poi mi tocca crescere.» «Non tocca a tutti?» Gli rivolsi un sorriso incoraggiante. «Oggi ho lasciato il lavoro.» Accettare quello che avevo fatto diventava più facile ogni volta che lo dicevo ad alta voce.
«Non dici stronzate?» Guardai il soffitto e risposi: «Non dico stronzate». Fischiò. «Dovrei tirar fuori bourbon e bicchieri da liquore?» Rabbrividii. «Bleah. Sai che non sopporto il bourbon. E comunque Cristal e calici da champagne sarebbero più appropriati alle mie dimissioni.» «Sul serio? Vuoi festeggiare?» «Non devo annegare dispiaceri, questo è certo.» Stirai le braccia sopra la testa e mi liberai degli ultimi residui di tensione. «Però ci ho pensato tutto il giorno.» «E?»
«Sto bene. Forse se Mark avesse preso la notizia in modo diverso avrei avuto dei ripensamenti, ma se ne va anche lui e ha lavorato lì molto più dei tre mesi che ci sono stata io. Non avrebbe senso essere più turbata di lui all’idea di cambiare.» «Le cose non devono avere senso per essere vere, piccola.» Prese il telecomando e abbassò il volume. «Hai ragione, ma ho incontrato Gideon nello stesso momento in cui ho iniziato a lavorare alla Waters, Field & Leaman. In pratica, non c’è paragone tra un lavoro che hai fatto
per tre mesi e un marito con cui passerai il resto della tua vita.» Mi lanciò un’occhiata. «Sei passata da ragionevole a pratica. Non farai che peggiorare.» «Oh, chiudi il becco.» Cary non mi permetteva mai di cavarmela facilmente. Dato che spesso ero bravissima a illudermi, la sua politica del niente stronzate era uno specchio di cui avevo bisogno. Smisi di sorridere. «Voglio di più.» «Più di cosa?» «Più di tutto.» Lo guardai. «Gideon ha una tale personalità, hai presente? Quando entra in una
stanza, tutti raddrizzano le spalle e prestano attenzione. Voglio quello.» «L’hai sposato. L’hai ottenuto de facto con il cognome e il conto in banca.» Mi raddrizzai. «Lo voglio perché me lo sono guadagnato, Cary. Geoffrey Cross si è lasciato dietro un sacco di persone che vogliono rivalersi sul figlio. E Gideon si è fatto i suoi nemici, come i Lucas.» «I chi?» Arricciai il naso. «La fuori di testa Anne Lucas e il marito altrettanto sbalestrato.» Poi capii. «Oddio, Cary! Non te l’ho detto. La tizia con i capelli rossi con cui hai
cazzeggiato a quella cena qualche settimana fa... Quella era Anne Lucas.» «Di che cazzo stai parlando?» «Ricordi quando ti ho chiesto di fare una ricerca sul dottor Terrence Lucas? Anne è sua moglie.» Cary era chiaramente confuso. Non potevo entrare nei dettagli di come Terry Lucas avesse visitato Gideon da piccolo e mentito sulla presenza di segni di abuso sessuale. L’aveva fatto per proteggere il cognato, Hugh, dall’essere incriminato. Non avrei mai capito come avesse potuto fare una cosa del genere,
indipendentemente dall’amore che provava per la moglie. Quanto a Anne, Gideon era andato a letto con lei per arrivare al marito, ma la somiglianza fisica con il fratello aveva portato a depravazioni sessuali che lo ossessionavano. Aveva punito Anne per le colpe del fratello, finendo per sconvolgere la mente di entrambi. Il tutto aveva prodotto due nemici molto pericolosi per Gideon e per me. Spiegai tutto quello che potei. «I Lucas hanno una storia complicata con Gideon di cui non posso raccontarti i dettagli, ma non è una
coincidenza che voi due siate finiti insieme quella sera. L’aveva organizzato lei.» «Perché?» «Perché è fuori di testa e sa che mi avrebbe incasinato il cervello.» «Perché cazzo dovrebbe fregartene chi mi scopo?» «Cary... a me importa sempre.» Sentii squillare il cellulare. La suoneria con la melodia di Hanging by a Moment mi disse che era mio marito. Mi alzai. «Ma in questo caso è il calcolo che c’era dietro. Non eri solo un’avventura casuale. Ha puntato a te perché sei il mio migliore amico.»
«Continuo a non capire cosa sperava di ottenere.» «È un modo di mostrare il medio a Gideon. Avere la sua attenzione è la cosa che le preme di più.» Cary inarcò un sopracciglio. «Sembra tutto molto tortuoso, ma vabbè. L’ho incontrata di nuovo non molto tempo fa.» «Cosa? Quando?» «La settimana scorsa, mi pare.» Si strinse nelle spalle. «Avevo appena finito un servizio e il taxi mi aspettava fuori dallo studio. Lei usciva da un caffè con un’amica proprio in quel momento. È stata una cosa completamente casuale.»
Scossi la testa. Il telefono smise di suonare. «Non credo proprio. Ti ha detto qualcosa?» «Certo. Si è messa a flirtare un po’, il che non stupisce se pensi all’ultima volta che ci eravamo visti. L’ho bloccata, dicendole che avevo una relazione. Non ha fatto una piega. Mi ha augurato buona fortuna, ringraziandomi di nuovo per la serata divertente. Si è incamminata lungo la strada. Fine della storia.» Il mio telefono ricominciò a suonare. «Se la rivedi, cambia strada e chiamami. Okay?» «O-okay, ma non mi hai detto
abbastanza perché possa capirci qualcosa.» «Fammi parlare con Gideon.» Corsi a prendere il telefono e risposi. «Ehi.» «Eri sotto la doccia?» mi chiese con voce sexy. «Sei nuda e bagnata, angelo?» «Oddio, aspetta un attimo.» Mi appoggiai il telefono alla spalla e tornai da Cary. «Indossava una parrucca quando l’hai vista?» Lui inarcò le sopracciglia. «E come cavolo faccio a saperlo?» «Aveva i capelli della stessa lunghezza della prima volta?» «Sì. Identici.»
Annuii cupamente. Anne portava i capelli corti e non avevo mai visto nessuna foto con un’acconciatura diversa. Indossava una parrucca quando aveva dato la caccia a Cary alla cena, il che mi aveva confusa e aveva impedito a Gideon di riconoscerla. Forse era un nuovo look. O forse era un’altra spia del fatto che aveva in mente qualcosa riguardo a Cary. Avvicinai di nuovo il telefono all’orecchio. «Ho bisogno che tu venga qui, Gideon. E portati dietro Angus.»
Qualcosa nel mio tono doveva aver tradito la preoccupazione, perché Gideon arrivò accompagnato sia da Angus sia da Raúl. Aprii la porta e vidi i tre uomini riempire il corridoio, mio marito al centro e le guardie del corpo appena dietro, una a destra e una a sinistra. Definire quella visione impressionante sarebbe riduttivo. Gideon si era allentato la cravatta, sbottonandosi la camicia e il gilet, ma per il resto era vestito come quando ci eravamo salutati. Un po’ in disordine era sexy come non mai, e io mi eccitai all’istante. Ebbi la tentazione di finire di
togliere quegli strati eleganti e costosi per rivelare il maschio primitivo e potente che si nascondeva sotto. Per quanto fosse arrapante con addosso i vestiti, nulla poteva stare alla pari del vederlo completamente nudo. Fissai Gideon negli occhi e il mio sguardo mi tradì. Inarcò un sopracciglio e all’angolo della bocca gli comparve un sorrisetto divertito. «Ciao anche a te» disse sfottendomi, in risposta alla mia occhiata rovente. I due uomini dietro di lui risaltavano per contrasto, con indosso impeccabili e austeri
completi neri su misura, camicia bianca e una semplice cravatta nera senza ornamenti. Fino a quel momento non mi ero mai accorta realmente di quanto Angus e Raúl apparissero superflui al fianco di Gideon, un uomo che poteva chiaramente gestire uno scontro a mani nude senza alcun bisogno di aiuto. Raúl era impassibile, come al solito. Anche Angus era imperturbabile, ma lo sguardo malizioso che mi rivolse diceva che mi aveva beccata a spogliare con gli occhi il suo capo. Arrossii.
Mi feci da parte per lasciarli entrare. Angus e Raúl si diressero nel salotto dove li aspettava Cary. Gideon rimase con me mentre chiudevo la porta. «Mi hai guardato in quel modo, angelo, ma hai voluto che portassi Angus. Spiegami.» Scoppiai a ridere, proprio quello che ci voleva per allentare la tensione. «Come posso farne a meno, visto che sembrava che ti stessi spogliando quando ti ho telefonato?» «Posso finire qui.» «Renditi conto che dopo il matrimonio potrei dover bruciare
tutti i tuoi vestiti. Dovresti girare sempre nudo.» «Sarebbe interessante per le riunioni di lavoro.» «Mmh... forse no, allora. Solo per i miei occhi e roba del genere.» Mi appoggiai allo stipite e feci un respiro profondo. «Anne ha contattato Cary dopo la cena.» Dagli occhi di Gideon scomparvero tutto il calore e la luce, lasciando il posto a un gelo che faceva presagire tempesta. Si avviò verso il salotto. Gli corsi dietro, intrecciando la mia mano alla sua per ricordargli che in quella cosa c’eravamo dentro insieme.
Sapevo che si trattava di un concetto a cui ci avrebbe messo un po’ ad abituarsi. Gideon era stato solo per così tanto tempo, combattendo le sue battaglie e quelle delle persone che amava. Spostò una sedia vicino al tavolino, mettendosi di fronte a Cary, e disse: «Raccontami quello che hai riferito a Eva». Gideon sembrava pronto a schiacciare Wall Street mentre Cary sembrava pronto a schiacciare un pisolino, ma la cosa non parve scomporre mio marito. Cary raccontò di nuovo tutta la storia, lanciando di tanto in tanto
un’occhiata ad Angus e Raúl, che stavano in piedi lì vicino. «Questo è quanto» concluse. «Senza offesa, ragazzi, ma mi sembra un dispiegamento di forze un tantino eccessivo per una rossa che pesa forse cinquantacinque chili vestita.» Io propendevo per sessanta, ma poco importava. «La prudenza non è mai troppa» dissi. Mi scoccò un’occhiata. «E cosa potrebbe mai fare? Sul serio. Cos’è che vi preoccupa tanto?» Gideon si agitò, irrequieto. «Abbiamo avuto una... storia. Non è la parola giusta. Non è stato divertente.»
«Te la sei scopata» disse Cary senza mezzi termini. «Me l’ero immaginato.» «Fottuta» precisai, avvicinandomi per mettere una mano sulla spalla di Gideon. Sostenevo mio marito, anche se non potevo perdonargli quello che aveva fatto. E a dire la verità, la parte di me ossessionata da Gideon provava pena per Anne. C’erano state volte in cui avevo creduto di aver perso Gideon per sempre, e anch’io ero andata un po’ fuori di testa. Comunque, lei era pericolosa come io non avrei mai potuto essere, e quella minaccia era
diretta verso le persone che amavo. «Non sta prendendo bene il fatto che lui stia con me.» «Cosa? Stiamo parlando di roba tipo Attrazione fatale?» «Be’, è una psichiatra, per cui un misto di Attrazione fatale e Basic Istinct rende meglio l’idea. Una maratona per Michael Douglas concentrata in un’unica donna.» «Non scherzare, Eva» disse Gideon seccamente. «E chi scherza?» lo rimbeccai. «Cary l’ha vista con la parrucca che portava alla cena. Penso che volesse essere riconosciuta per potergli parlare.»
Cary sbuffò. «Perciò è fuori come un balcone. Cosa volete che faccia? Informarvi se la incontro di nuovo?» «Voglio una scorta per te.» Gideon annuì. «Concordo.» «Wow.» Cary si sfregò l’ombra di barba sulla mascella. «Voi ragazzi non scherzate.» «Hai già abbastanza guai» gli ricordai. «Se lei ha in mente qualcosa, non hai bisogno di averci a che fare.» Cary storse le labbra in una smorfia ironica. «Non posso negarlo.» «Ce ne occupiamo noi» disse Angus, Raúl annuì e i due se ne
andarono. Gideon rimase. Cary guardò prima me, poi Gideon, e alla fine si alzò. «Non credo che voi due abbiate più bisogno di me, perciò me ne vado a letto. Ci vediamo domattina» mi disse, prima di avviarsi lungo il corridoio diretto alla sua stanza. «Sei preoccupato?» chiesi a Gideon quando rimanemmo soli. «Tu sì, e tanto basta.» Mi sedetti sul divano di fronte a lui. «Non è proprio preoccupazione, più che altro curiosità. Che cosa pensa di ottenere attraverso Cary?» Gideon sospirò. «Fa dei giochetti
mentali, Eva. Tutto qui.» «Non credo. Mi ha detto cose molto precise a quella cena, avvertendomi di starti lontana. Il sottinteso era che non ti conosco, e che non ti vorrei se sapessi come sei davvero.» Gideon serrò la mascella e io capii di aver toccato un nervo scoperto. Non mi aveva mai raccontato di preciso di cosa avevano parlato quando era andato nel suo studio. Era possibile che lei gli avesse detto qualcosa di analogo. «Ho intenzione di parlare con Anne» annunciai.
Gideon mi inchiodò con il suo sguardo di ghiaccio. «Col cavolo.» Risi piano. Povero marito mio. Era così abituato a dettar legge e aveva scelto di sposare una donna come me. «So che abbiamo fatto parecchia strada nel nostro rapporto, ma a un certo punto abbiamo parlato di fare squadra.» «E sono aperto all’opzione» disse con calma. «Ma Anne non è il punto di partenza giusto. Non puoi ragionare con una persona totalmente irrazionale.» «Non voglio ragionare con lei, asso. Ha preso di mira il mio amico, e pensa che io sia il tuo punto
debole. Deve rendersi conto che non sono indifesa e che sfidare te significa sfidare entrambi.» «Lei è un mio problema. Me ne occupo io.» «Se tu hai un problema, Gideon, è un problema anche mio. Stammi a sentire. L’operazione GidEva è iniziata a tutti gli effetti. Che io me ne stia con le mani in mano non fa che peggiorare questa situazione con Anne.» Mi protesi in avanti. «Nella sua mente, o io so cosa sta succedendo e sono troppo debole per reagire, oppure tu mi stai nascondendo le cose, il che suggerisce che sono troppo debole
per farvi fronte. Qualunque cosa le frulli in testa, tu mi stai rendendo un bersaglio e non è questo quello che vuoi.» «Non sai cosa le passa per la testa» ribatté secco. «Le cose sono un po’ contorte, questo è certo. Ma è una donna. Fidati, deve sapere che ho gli artigli e sono pronta a usarli.» Socchiuse gli occhi. «E che cosa le diresti?» Un brivido di trionfo mi costrinse a trattenere un sorriso. «Francamente, credo che basti che io compaia inaspettata da qualche parte. Un’imboscata, per così dire.
Rimarrà un po’ scossa a trovarmi lì in attesa. Starà sulla difensiva o attaccherà? Dalla sua reazione capiremo alcune cose, e ne abbiamo bisogno.» Gideon scosse la testa. «Non mi piace.» «Non pensavo che ti sarebbe piaciuto.» Allungai le gambe in mezzo alle sue. «Ma sai che ho ragione. Non è la mia strategia che ti rode, Gideon. Ha piuttosto a che fare con il tuo passato che non se ne andrà, e tu non vuoi che io debba affrontarlo.» «Se ne andrà, Eva. Lasciami fare a modo mio.»
«Devi essere più obiettivo. Sono un membro della tua squadra, come Angus e Raúl, ma ovviamente non sono sul tuo libro paga e di certo non sono una dipendente... sono la tua compagna. Non parliamo più di Gideon Cross da solo. E nemmeno di Gideon Cross e sua moglie. Qui stiamo parlando di Gideon ed Eva Cross, e tu devi consentirmi di essere all’altezza.» Si protese verso di me, guardandomi con intensità. «Non devi dimostrare niente a nessuno.» «Dici? Perché invece io voglio dimostrare qualcosa a te. Se non credi che sia abbastanza forte...»
«Eva.» Mi mise una mano dietro le ginocchia e mi tirò più vicina. «Sei la donna più forte che conosca.» Disse quelle parole, ma capivo che non ci credeva veramente, non nel senso che ci serviva. Mi vedeva come una sopravvissuta, non come una guerriera. «Allora smettila di preoccuparti» ribattei «e lasciami fare quello che devo.» «Non sono d’accordo che tu debba fare qualcosa.» «E allora devi accettare di non essere d’accordo.» Gli misi le braccia intorno alle spalle e gli diedi
un bacio sull’angolo della bocca. «Angelo...» «Per essere chiara, non ti sto chiedendo il permesso, Gideon. Ti sto dicendo quello che farò. Puoi partecipare oppure no... Sta a te decidere.» Emise un gemito di frustrazione. «E dove sarebbe il compromesso di cui parli sempre?» Mi tirai indietro e gli lanciai un’occhiata. «Il compromesso è permettermi di fare a modo mio questa volta. Se non funziona, la prossima volta faremo a modo tuo.» «Grazie.»
«Non fare così. Adesso pensiamo insieme a organizzare il quando e dove. Avremo bisogno che Raúl ci dia qualche informazione sulle sue abitudini. Un’imboscata è inaspettata per definizione, ma dovrebbe verificarsi in un posto in cui lei si sente al sicuro. Farle prendere un bello spavento.» Mi strinsi nelle spalle. «Lei ha stabilito le regole del gioco. Noi stiamo solo cogliendo l’imbeccata.» Gideon fece un respiro profondo. Potevo quasi vederlo pensare, la sua mente acuta che passava in rassegna i modi per ottenere ciò che voleva.
Così lo distrassi. «Ricordi questa mattina, quando ti ho detto che ti avrei spiegato perché ho deciso di dire ai miei genitori del nostro matrimonio?» Ebbi subito la sua attenzione. «Certo.» «So che ti ci è voluto molto coraggio per raccontare al dottor Petersen di Hugh. Soprattutto considerato quello che pensi degli psicologi.» E chi avrebbe potuto fargliene una colpa? Hugh era entrato nella vita di Gideon nel ruolo di sostegno psicologico e invece aveva abusato di lui. «Mi hai dato la forza di essere altrettanto
coraggiosa.» Il suo splendido viso si distese in un’espressione tenera. «Ho ascoltato quella canzone» mormorò, ricordandomi della volta in cui gli avevo cantato Brave di Sara Bareilles. Sorrisi. «Avevi bisogno che glielo dicessi» disse a bassa voce. Le parole erano state pronunciate come un’affermazione, ma in realtà erano una domanda. «Sì, è così.» Più ancora ne aveva bisogno Gideon. L’abuso sessuale era una cosa privata e personale, ma in qualche modo dovevamo
parlarne. Non era un segreto sporco e vergognoso che andava tenuto sotto chiave. Era un’orrenda verità, e le verità – per loro natura – devono essere rivelate. «E tu hai bisogno di affrontare Anne.» Inarcai le sopracciglia. «Veramente non volevo riportare la conversazione su questo argomento, però, sì... ne ho bisogno.» Questa volta Gideon annuì. «Va bene. Lo organizzeremo.» Esultai dentro di me. Un punto a favore di GidEva. «Hai anche detto che c’era una
cosa che desideravi di più che fare sesso con me» mi ricordò in tono ironico, sfidandomi a mostrare le carte. «Be’, non la metterei proprio così.» Gli passai le dita tra i capelli. «Scoparti è la mia attività preferita. Sempre.» Fece un sorrisetto. «Ma?» «Penserai che sono una sciocca.» «Continuerò a pensare che sei sexy.» Gli diedi un bacio. «Alle superiori, la maggior parte delle ragazze che conoscevo aveva un fidanzato. Sai come funziona, ormoni a mille e storie d’amore da urlo.»
«Così mi hanno detto.» Mi si strozzarono le parole in gola. Che stupida ad aver dimenticato come doveva essere stato per Gideon. Non aveva avuto nessuno fino a Corinne, all’università, troppo ferito dagli abusi di Hugh per poter provare le normali ansie amorose adolescenziali a cui stavo pensando. «Angelo?» Imprecai in silenzio. «Lascia perdere. Non ne vale la pena.» «Sai che non funzionerà.» «Solo per questa volta?» «No.»
«Ti prego...» Scosse la testa. «Sputa il rospo.» Arricciai il naso. «E va bene. Gli adolescenti parlano al telefono per ore perché vanno a scuola, vivono con i genitori e non possono stare insieme. Passano la notte a chiacchierare di... qualunque cosa. Io non ho mai...» Ricacciai indietro l’imbarazzo. «Non ho mai avuto un ragazzo così.» Non avevo bisogno di dare spiegazioni. Gideon sapeva com’ero. Come il sesso fosse stato il mio modo contorto per sentirmi amata. I tizi che mi scopavo non mi telefonavano. Né prima né dopo.
«Comunque» conclusi con voce roca «mi era venuta l’idea che potevamo fare così per il momento... mentre aspettiamo. Telefonate a notte fonda in cui chiacchieriamo solo per sentire la nostra voce.» Mi fissò. «Suonava meglio quando ci ho pensato» borbottai. Gideon rimase zitto a lungo. Poi mi baciò. Con forza. Mi stavo ancora godendo la sensazione quando lui si scostò e parlò con una voce più che lievemente roca. «Io sono quel ragazzo per te,
Eva.» Sentii un nodo in gola. «Tutte le tappe fondamentali. Tutti i riti di passaggio... Ogni cosa.» Mi asciugò la lacrima che mi era spuntata a un angolo dell’occhio. «E tu sei quella ragazza per me.» «Dio.» Risi tra le lacrime. «Ti amo così tanto.» Gideon sorrise. «Adesso vado a casa, perché è quello che vuoi. E tu mi telefoni e me lo dici ancora, perché è quello che voglio io.» «Affare fatto.» Il giorno dopo aprii gli occhi
prima che suonasse la sveglia. Rimasi a letto qualche minuto, aspettando che il mio cervello riprendesse a funzionare quel poco che ce la faceva senza caffè. Mi costrinsi a concentrarmi sul fatto che era il mio ultimo giorno di lavoro. Stranamente, mi sentivo benone a quell’idea... impaziente. Era venuto il momento di smuovere un po’ le cose. E adesso la grande domanda. Cosa mettermi? Rotolai giù dal letto e mi avvicinai all’armadio. Dopo aver passato in rassegna praticamente
tutto, optai per un abito aderente verde smeraldo con lo scollo e l’orlo asimmetrici. Normalmente l’avrei ritenuto troppo corto per andare a lavorare, ma perché finire come avevo cominciato? Perché non cogliere l’occasione per compiere la transizione dal passato al futuro? Era l’ultimo giorno di Eva Tramell. Lunedì avrebbe fatto il suo debutto Eva Cross. Riuscivo a immaginarmela. Minuta e bionda vicino al marito alto e bruno, ma pericolosa quanto lui e in modo molto simile. O forse no. Magari, giocare sulle differenze. Facce opposte della
stessa lama affilata... Mi diedi un’ultima occhiata nello specchio e andai in bagno per truccarmi. Poco dopo Cary mise dentro la testa. Lanciò un fischio. «Stai benissimo, piccola.» «Grazie.» Rimisi a posto il pennellino del rossetto. «Posso convincerti a darmi una mano con lo chignon?» Entrò con indosso soltanto un paio di boxer Grey Isles, non molto diverso dalla sua foto sulle pubblicità che in quei giorni tappezzavano i muri e gli autobus di tutta la città. «Tradotto: fammelo.
Ovviamente.» Il mio migliore amico si mise al lavoro, spazzolandomi e acconciandomi i capelli con gesti esperti fino a ottenere un’elegante crocchia. «È stato parecchio intenso ieri sera» disse, dopo essersi tolto di bocca l’ultima forcina. «Col salotto pieno di uomini in completo nero.» Incrociai il suo sguardo nello specchio. «Erano in tre.» «Due e Gideon» ribatté «che è capace di riempire una stanza da solo.» Non potevo negarlo. Mi scoccò il suo sorriso a
trentadue denti. «Se si viene a sapere che ho una scorta penseranno che sono roba che scotta, oppure che mi credo chissà chi. Vere tutte e due le cose.» Mi alzai sulla punta dei piedi e gli diedi un bacio sul mento. «Non ti accorgerai nemmeno che ci sono. Saranno in modalità superdiscreta.» «Scommetto che riesco a beccarli.» «Cinque dollari» dissi, girandogli intorno per prendere un paio di scarpe con i tacchi nella camera da letto. «Cosa? Che ne dici di cinquemila, Mrs Cross?»
«Ah!» Tirai su il telefono dal letto quando suonò per segnalare un messaggio in arrivo. «Gideon sta salendo.» «Perché non è rimasto qui stanotte?» Girai appena la testa mentre mi affrettavo lungo il corridoio e risposi: «Ci asteniamo fino al matrimonio». «Mi stai prendendo per il culo?» Le lunghe falcate di Cary mi raggiunsero con facilità. Mi prese le scarpe tenendole fuori portata e permettendomi di prendere la tazza di caffè da asporto dal bancone della colazione. «Pensavo che la
luna di miele durasse di più. I mariti di solito non scopano qualche anno prima di iniziare ad andare in bianco?» «Chiudi la bocca, Cary!» Presi la borsa e aprii la porta d’ingresso. Mi ritrovai davanti Gideon, con in mano le chiavi. «Angelo.» Cary mi raggiunse e spalancò la porta. «Mi dispiace per te, amico. Mettile un anello e, bam, le gambe si chiudono.» «Cary!» Lo guardai male. «Sto per tirarti un pugno.» «Chi ti preparerà i bagagli, se ci provi?» Mi conosceva troppo bene.
«Non preoccuparti, piccola, sarò pronto con i bagagli di tutti e due.» Guardò Gideon. «Non posso aiutarti, temo. Aspetta di vederla in quel bikini La Perla blu che sto mettendo in valigia. Ti verranno due palle così.» «Sto per tirarti un pugno anch’io» disse Gideon con noncuranza. «Ti verranno dei lividi così.» Cary mi spinse gentilmente fuori dalla porta e la chiuse sbattendola. Era quasi mezzogiorno quando Mark si affacciò nel mio cubicolo e mi fece omaggio del suo sorriso sghembo. «Pronta per il nostro
ultimo pranzo di lavoro?» Mi misi una mano sul cuore. «Mi stai uccidendo.» «Sarei felice di restituirti la lettera di dimissioni.» Scossi la testa, mi alzai e feci scorrere lo sguardo sulla scrivania. Non avevo ancora imballato le mie poche cose. Mi aspettavo che, quando fossero state quasi le cinque, avrei provato la sensazione di mettere la parola fine a qualcosa, ma per il momento non ero ancora pronta a rinunciare al possesso della mia scrivania e al sogno che un tempo aveva rappresentato. «Ci saranno altri pranzi.» Presi la
borsa dal cassetto e mi incamminai con lui verso gli ascensori. «Non ho intenzione di lasciare che te la cavi tanto facilmente.» Alla reception, mi apprestavo a fare un cenno di saluto a Megumi, ma lei era già uscita per la pausa, e la sua sostituta era al telefono. Mi sarebbe mancato vedere lei, Will e Mark ogni giorno. Erano il mio pezzetto di New York, una parte della mia vita che apparteneva solo a me. Un’altra cosa a cui temevo di dover rinunciare lasciando il lavoro: la mia cerchia sociale. Avrei fatto di tutto per tenermi le mie amicizie, ovviamente. Mi sarei
presa la briga di telefonare e organizzare cose da fare insieme, ma sapevo come andava a finire... Ormai erano mesi che non sentivo i miei amici di San Diego. E la mia vita sarebbe stata completamente diversa da quella dei miei amici. Obiettivi, sogni e sfide sarebbero stati a mondi di distanza. L’ascensore era semivuoto, ma si riempì in fretta ai piani successivi. Mi presi un appunto mentale di chiedere a Gideon una delle sue chiavi magiche che gli permettevano di andare su e giù senza fermarsi. In fin dei conti, sarei venuta ancora al Crossfire,
solo che sarei scesa a un piano diverso. «Che mi dici di te?» chiesi, mentre ci stringevamo per far posto ad altre persone. «Hai deciso se restare o andartene?» Annuì e si mise le mani in tasca. «Accetterò il tuo consiglio.» La linea decisa della mascella mi fece intuire che non avrebbe cambiato idea. «È splendido, Mark. Congratulazioni.» «Grazie.» Scendemmo al pianoterra e passammo attraverso i tornelli della sicurezza. «Steven e io ne abbiamo
parlato» continuò, mentre camminavamo sul marmo venato d’oro dell’atrio del Crossfire. «Assumerti è stato un grosso passo avanti per me. Un segno che la mia carriera si stava muovendo nella direzione giusta.» «Su questo non c’è dubbio.» Sorrise. «Perderti è un altro segno... È il momento di cambiare.» Mark fece un gesto per invitarmi a precederlo attraverso la porta girevole. Sentii il calore del sole prima ancora di essere fuori. Non vedevo l’ora che arrivasse il clima autunnale, che le stagioni si avvicendassero in fretta. Sembrava
naturale che si verificasse un cambiamento esterno corrispondente a quello che avveniva dentro di me. Guardai l’elegante limousine nera di Gideon ferma accanto al marciapiede, poi mi girai verso Mark quando mi raggiunse. «Dove andiamo?» Lui mi lanciò un’occhiata divertita prima di mettersi a cercare un taxi libero nella marea di automobili. «È una sorpresa.» Mi sfregai le mani. «Evvai.» «Miss Tramell.» Mi girai sentendomi chiamare e vidi Angus in piedi accanto alla
limousine. Con indosso il solito completo nero e il berretto da chauffeur, aveva un’aria elegante e raffinata, e passava inosservato al punto che solo un occhio allenato avrebbe potuto sospettare il suo passato nell’MI6. Pensare alla sua storia mi dava i brividi. Faceva tanto James Bond. Di sicuro l’avevo molto romanzata, ma il fatto di conoscerla mi dava anche sicurezza. Gideon non poteva essere in mani migliori. «Salve.» Salutai Angus con una nota affettuosa nella voce. Non potevo fare a meno di provare una gratitudine speciale nei
suoi confronti. Stava accanto a Gideon da anni e non avrei mai conosciuto tutto il loro passato insieme, ma sapevo che era stato l’unico sostegno di mio marito dopo la faccenda di Hugh. Ed era anche la sola persona della nostra cerchia a essere stata testimone della nostra fuga d’amore. L’espressione del suo viso quando aveva parlato con Gideon dopo... le lacrime negli occhi di entrambi... Il loro era un legame indistruttibile. Scorsi un lampo nei suoi occhi azzurri mentre apriva la portiera della limousine. «Dove desiderate andare?»
Mark inarcò le sopracciglia. «È per questo che mi hai lasciato? Accidenti. Non posso competere.» «Non è mai stato necessario.» Prima di prendere posto sul sedile posteriore guardai Angus. «Mark non vuole dirmi dove andiamo, perciò mi limiterò a salire in macchina e cercherò di non origliare.» Angus si toccò la visiera del berretto per segnalarmi che aveva capito. Pochi minuti dopo eravamo per strada. Mark era sul sedile di fronte al mio e ammirava l’interno dell’auto.
«Per la miseria. Ho noleggiato delle limousine in passato, ma non assomigliavano affatto a questa.» «Gideon ha un gusto davvero eccellente.» Non aveva importanza di che stile si trattasse – moderno e contemporaneo come il suo ufficio oppure classico e vecchio stile come l’attico –, mio marito sapeva come presentare la sua ricchezza con classe. Mark mi guardò con un gran sorriso. «Sei una signora fortunata, amica mia.» «È vero» concordai. «Tutto questo» feci un gesto con la mano «è straordinario, ovviamente. Ma lui
è un buon affare di per sé. È davvero un uomo stupendo.» «So cosa vuol dire avere un uomo così.» «Certo che lo sai. Come vanno i preparativi per il matrimonio?» Mark gemette. «Steven mi sta facendo morire. Preferisci azzurro o pervinca? Rose o gigli? Raso o seta? Mattina o sera? Ho cercato di dirgli che può fare quello che gli pare, io voglio lui e basta, ma mi sono preso una strigliata. Ha detto che farei meglio a occuparmene, considerato che non avrò un’altra occasione di sposarmi. Tutto quello che posso dire è: grazie a Dio.»
Scoppiai a ridere. «E tu?» chiese. «Comincio adesso. Siamo riusciti a trovarci in questo mondo folle abitato da miliardi di persone. Come direbbe Cary, bisogna festeggiare.» Parlammo di primi balli e sistemazione dei posti a sedere mentre Angus guidava in mezzo al traffico che sembrava intasare perennemente Midtown. Guardai fuori dal finestrino e vidi un taxi fermarsi al semaforo di fianco a noi. La donna seduta sul sedile posteriore teneva il telefono incastrato tra l’orecchio e la spalla e
parlava a raffica mentre sfogliava freneticamente un taccuino. Più in là, a un angolo della strada, un venditore ambulante di hot dog serviva con gesti rapidi una fila di cinque persone. Quando finalmente arrivammo e scendemmo dall’auto, seppi esattamente dov’eravamo. «Ehi!» Il ristorante messicano nascosto sotto il livello della strada era un locale dov’eravamo già stati. E una delle cameriere mi piaceva moltissimo. Mark scoppiò a ridere. «Ti sei licenziata così in fretta che Shawna non ha avuto il tempo di chiedere
una giornata di permesso.» «Accidenti, amico.» Sentii una stretta al cuore. Cominciava a sembrarmi un finale per cui non ero pronta. «Andiamo.» Mi prese per il gomito e mi guidò all’interno. Vidi subito il tavolo dove erano sedute diverse facce conosciute, circondate da palloncini con le scritte OTTIMO LAVORO, AUGURI e CONGRATULAZIONI. «Wow.» Sentii le lacrime bruciarmi gli occhi. Megumi e Will erano seduti con Steven a un tavolo apparecchiato per sei. Shawna era in piedi dietro la sedia del fratello, i capelli rossi
inconfondibili. «Eva!» gridarono in coro, attirando l’attenzione di tutta la sala. «Oh, mio Dio» ansimai, con una stretta al cuore. Davanti a quello a cui stavo rinunciando, anche se solo in un senso, di colpo mi sentii triste e piena di dubbi. «Se stavate pensando di potervi liberare di me, scordatevelo.» «Certo che no.» Shawna si avvicinò per stringermi forte a sé. «C’è da organizzare un addio al nubilato!» «Evvai!» Megumi mi avvolse in un abbraccio non appena Shawna
mi lasciò andare. «Forse quella tradizione potremmo saltarla» intervenne una voce calda e profonda alle mie spalle. Mi girai stupita e mi trovai di fronte Gideon. Era in piedi accanto a Mark con in mano un’unica, perfetta rosa rossa. Sorrisi tra le lacrime. Non avrei perso i miei amici, e avrei guadagnato così tanto. Gideon c’era sempre quando avevo bisogno di lui, persino prima che mi rendessi conto che era il pezzo fondamentale mancante. «Ti sfido a provare la loro salsa
diablo» gli dissi, allungando la mano per prendere la rosa. Le sue labbra si piegarono in un sorriso appena accennato, quello che mi faceva morire ogni volta... e anche tutte le altre donne presenti, non potei fare a meno di notare. Ma lo sguardo nei suoi occhi, la comprensione e il sostegno per ciò che provavo... quello era tutto per me. «È la tua festa, angelo mio.»
4
La casa a due piani adagiata sulla costa riluceva del calore dorato che filtrava da ogni finestra. Le luci incastonate nella curva del vialetto brillavano come un letto di stelle all’imbrunire, mentre i cespugli di ortensie grossi come un’utilitaria traboccavano di petali lungo i bordi dell’ampio prato. «Guarda che meraviglia» mi
disse Eva, mentre con le spalle rivolte verso di me guardava fuori dal finestrino inginocchiata sul sedile di pelle nera. «Un vero spettacolo» risposi, anche se in realtà mi riferivo a lei. Fremeva di eccitazione e di una gioia quasi fanciullesca. La osservai con attenzione, dovevo capire meglio e soprattutto scoprire la causa di quell’allegria. La sua felicità era vitale per me: era la fonte da cui traevo ogni mia gioia, il contrappeso che mi permetteva di rimanere in equilibrio e centrato. Girò la testa verso di me mentre Angus rallentava fino a fermare la
limousine di fronte alle scale sul davanti. «Mi stai sbirciando il culo?» Il mio sguardo si posò sul suo fondoschiena, incorniciato alla perfezione dagli shorts che aveva indossato dopo l’ufficio. «Be’, ora che mi ci fai pensare...» Ricadde sul sedile con una risata. «Sei senza speranza, lo sai, vero?» «Certo, ho capito che non esisteva una cura la prima volta che mi hai baciato.» «Sono quasi sicura che sei stato tu a baciare me.» Trattenni un sorriso. «Davvero è andata così?» Socchiuse gli occhi. «Spero che
tu stia scherzando. Quel momento dovresti averlo marchiato a fuoco nel cervello.» Allungai la mano e cominciai ad accarezzarle la coscia scoperta. «E nel tuo? È marchiato a fuoco?» mormorai, compiaciuto da quell’idea. «Ehi, voi due» ci interruppe Cary levandosi le cuffie. «Non dimenticatevi che ci sono anch’io seduto qua.» Il coinquilino di Eva aveva passato le due ore del viaggio in mezzo al traffico serale a guardare un film sul tablet, con grandissima discrezione, ma non mi sarei mai
potuto dimenticare che era lì con noi. Cary Taylor era un punto fermo nella vita di mia moglie e io lo accettavo, ma non mi andava molto a genio. Pur pensando che volesse davvero bene a Eva, credevo anche che avesse fatto scelte sbagliate, che ponevano lei in situazioni difficili, e talvolta anche rischiose. Angus aprì la portiera ed ecco che Eva era già scesa e saliva di corsa gli scalini, mentre io non avevo neanche messo via il tablet. Monica aprì la porta d’ingresso proprio mentre sua figlia raggiungeva il ballatoio superiore. Sorpreso dall’entusiasmo di mia
moglie, soprattutto considerando il fatto che di solito tollerava a malapena la madre, rimasi a guardarla incuriosito. Cary rideva mentre raccoglieva le sue cose e le infilava in una piccola borsa a tracolla. «Basta il profumo, non serve altro.» «Scusa?» «Monica di solito prepara dei biscotti assurdamente buoni con il burro d’arachidi e la vaniglia. Eva è andata a cercare di nasconderne qualcuno prima che arrivi io e li spazzoli via tutti.» Presi un appunto mentale di
farmi dare quella ricetta e intanto tornai a guardare le due donne nel portico e vidi che si scambiavano baci e poi si voltavano entrambe verso di me. In quel momento, con Monica che indossava pantaloni a pinocchietto e una maglietta casual, la loro somiglianza era impressionante. Cary saltò giù dalla macchina e salì i gradini due alla volta per poi precipitarsi dritto tra le braccia di Monica. La loro risata risuonava nell’aria mentre calava l’oscurità. Sentii la voce di Angus, fuori dall’auto. «Ragazzo mio, non può passare tutto il weekend in quella
limousine.» Lasciai il tablet sul sedile e uscii, divertito dalla battuta. Angus continuò, con un sorrisetto ironico: «Una famiglia è proprio quel che ci vuole per lei». Gli misi una mano sulla spalla e la strinsi. «Ne ho già una.» Per anni Angus era stato tutto ciò che avevo, e la sua presenza era stata più che sufficiente per me. «Dài, pigrone!» Eva era tornata da me e prendendomi per mano mi stava trascinando su per le scale dietro di lei. «Ciao, Gideon.» Il sorriso di Monica era ampio e affettuoso.
«Ciao, Monica.» Le porsi la mano ma rimasi sorpreso quando lei invece mi abbracciò forte. «Ti direi di chiamarmi mamma» disse, sciogliendosi dall’abbraccio. «Ma ho paura che mi sentirei troppo vecchia.» La sensazione di disagio si trasformò in un brivido lungo la schiena, e mi accorsi di avere sbagliato completamente i calcoli. Il matrimonio con Eva aveva reso lei mia, e io suo; in più aveva costruito un legame molto personale tra me e i suoi cari. Monica e io ci conoscevamo da un pezzo, e le nostre strade si
erano incrociate diverse volte, visto che entrambi davamo sostegno a diverse organizzazioni benefiche a favore dei bambini. Avevamo definito delle specifiche modalità per le nostre interazioni, proprio come ogni associazione seguiva dei protocolli prestabiliti. Di colpo, tutto ciò era andato in pezzi. Perplesso, mi trovai a cercare con lo sguardo Angus. Evidentemente il mio imbarazzo lo divertiva, poiché mi strizzò l’occhio e mi mollò proprio nel momento del bisogno. Girò intorno all’auto per salutare Benjamin Clancy, che
aspettava sul lato dell’autista. «Il garage è là» disse Monica indicando l’edificio a due piani al di là della strada, una replica della casa in miniatura. «Clancy sistemerà l’autista e farà portare dentro i vostri bagagli.» Eva mi strinse la mano e mi accompagnò dentro. Cary aveva indovinato: fui inondato dal profumo di vaniglia. Non erano candele, ma biscotti. Quell’aroma domestico e confortevole mi fece venire una gran voglia di girare sui tacchi e tornarmene fuori. Non ero preparato. Ero venuto pensando di essere un ospite,
l’accompagnatore di Eva: fare il genero, membro a pieno titolo della famiglia, era una possibilità che non avevo previsto. «Adoro questa casa» disse Eva mentre mi guidava attraverso il passaggio ad arco che immetteva nel soggiorno. Vidi ciò che mi aspettavo di vedere: una lussuosa casa sulla spiaggia, con le sedute foderate di tessuto bianco e diversi accessori a tema nautico. «Ti piace il parquet di mogano con questa tonalità color caffè? Avrei voluto farlo di quercia sbiancata ma è così prevedibile,
non trovi anche tu? E cosa ne pensi di quelle sfumature verdi, arancio e giallo sul solito blu? Mi fa venire voglia di perdere ogni controllo, quando torneremo negli Outer Banks.» Non aveva idea di quanto avrei voluto tornarci subito. Là avrei perlomeno avuto qualche momento tutto per me prima di dovermi gestire una casa piena di parenti nuovi di zecca. L’ampio soggiorno dava direttamente sulla cucina a vista, dove Stanton, Martin, Lacey e Cary stavano tutti intorno a una grande penisola con sei sedie. I due locali
condividevano la vista sul mare grazie a una fila di pannelli scorrevoli di vetro che si affacciavano su un’ampia veranda. «Ehi!» protestò Eva. «Vi conviene lasciarmi qualche biscotto da parte!» Stanton sorrise e ci venne incontro. Con i jeans e la polo sembrava la versione più giovane dell’uomo con cui avevo avuto a che fare a New York. L’aura da superfinanziere che lo circondava sembrava svanita senza il completo che indossava sul lavoro, e avevo la sensazione di essere di fronte a un estraneo.
«Ciao, Eva.» Stanton diede un bacio sulla guancia a Eva, poi si girò verso di me. «Gideon.» Ero abituato a essere chiamato con il cognome, l’abbraccio che seguì mi colse di sorpresa. «Congratulazioni» disse, dandomi una pacca sulla spalla prima di lasciarmi andare. Ero irritato: dunque era quella la naturale evoluzione delle cose? Una graduale trasformazione da collega di lavoro a conoscente e poi, da lì, amico e familiare? Mi venne in mente di colpo Victor, lui aveva capito che cosa significava il mio matrimonio meglio
di me. Mentre io me ne stavo lì irrigidito, Stanton sorrise a mia moglie: «Credo che tua madre abbia messo via qualche biscotto per te nello scaldavivande». «Oh, sì!» Eva corse via, lasciandomi solo con il suo patrigno, nonché mio suocero acquisito. La seguii con lo sguardo, e colsi il saluto che mi rivolse da lontano Martin Stanton, a cui risposi a mia volta con un cenno del capo. Se avesse provato anche lui ad abbracciarmi, si sarebbe preso un pugno in faccia. Una volta gli dissi che avrebbe
potuto contare sul fatto che ci saremmo ritrovati a qualche riunione di famiglia, e adesso che stava succedendo davvero sembrava una cosa surreale. Mi sentivo come se mi avessero fregato. La risata di Eva che proveniva dall’altra parte della stanza richiamò la mia attenzione. Stava porgendo la mano sinistra alla bionda di fianco a Martin, mostrandole l’anello che le avevo regalato quando era diventata mia moglie. Monica si unì a Stanton e me, sistemandosi di fianco al marito. La
bellezza giovanile di lei lo faceva sembrare ancora più vecchio, metteva in risalto il candore dei suoi capelli e le rughe che gli segnavano il volto. Era tuttavia evidente che Stanton non si preoccupava affatto della differenza di età che li separava: nel guardarla il suo viso si illuminò e i suoi occhi azzurri si velarono di tenerezza. Cercai qualcosa di appropriato da dire, e alla fine tutto quello che riuscii a tirare fuori fu: «Avete una casa davvero meravigliosa». «Non era così bella prima che ci mettesse le mani Monica.» Stanton le cinse la vita sottile con un
braccio. «E lo stesso si può dire per me.» «Richard, ti prego.» Monica scosse la testa. «Posso farti fare un giro, Gideon?» «Prima diamogli qualcosa da bere» suggerì Stanton guardando verso di me. «È stato in macchina fino a ora.» «Ti andrebbe del vino?» mi chiese lei. «Forse preferirebbe dello scotch» disse Stanton. «Lo scotch va benissimo» risposi, preoccupato che il mio disagio fosse tanto evidente. Ero fuori dal mio elemento
naturale, e avrei già dovuto farci l’abitudine da quando avevo incontrato Eva. Lei era una specie di àncora per me, anche quando mi lasciava un po’ di corda. Finché restavo aggrappato a lei, potevo resistere a qualunque tempesta. O almeno così credevo. Cercavo mia moglie, e fui sollevato nel vederla venire verso di me, con un passo veloce che faceva ondeggiare la sua coda di cavallo. «Assaggia questo» mi ordinò, mentre mi avvicinava un biscotto alle labbra. Aprii la bocca ma serrai i denti una frazione di secondo troppo
presto, mordendole deliberatamente le dita. «Ahia.» Si accigliò, ma quel lieve dolore riuscì nell’intento di far concentrare la sua attenzione su di me. La sua espressione si addolcì quando capì e un lampo di luce accese il suo sguardo. Mi aveva visto, si era accorta di quello che stava succedendo dentro di me. «Vuoi che usciamo?» sussurrò. «Tra un minuto.» Feci un cenno con il mento in direzione della zona bar nel soggiorno dove Stanton mi stava servendo da bere. Le afferrai il polso e l’attirai a me. Tenerla lontana dagli altri mi
bruciava un po’. Non volevo essere uno di quegli uomini che soffocano le donne che li amano, ma avevo davvero bisogno di un po’ di tempo per abituarmi a tutto. La distanza a cui di solito tenevo gli altri, compreso Cary, non sarebbe stata accettabile con Monica o Stanton, tanto meno dopo aver visto quanta gioia provava Eva nello stare con le persone che lei considerava la sua famiglia. La famiglia per lei era un luogo sicuro, non l’avevo mai vista così rilassata e serena. Per quanto mi riguardava, invece, i raduni di quel tipo mi facevano vedere rosso.
Mi imposi di calmarmi mentre Stanton tornava con i drink, ma non abbassai completamente la guardia. Si avvicinò anche Martin per presentarmi la fidanzata, ed entrambi si congratularono con noi. Tutto andava come previsto, il che contribuì a rilassarmi un po’, anche se mai quanto lo scotch doppio che mandai giù d’un fiato. «Voglio fargli vedere la spiaggia» disse Eva, appoggiando il mio bicchiere ormai vuoto su un tavolino mentre ci dirigevamo verso le vetrate scorrevoli. Fuori faceva più caldo che in
casa, quell’anno l’estate sembrava non finire mai. Una brezza salata ci accarezzava e mi scompigliava i capelli. Camminammo fino alla battigia e io la tenevo per mano. «Cosa c’è che non va?» mi chiese. Il tono ansioso nella sua voce mi fece innervosire. «Tu lo sapevi che si trattava di una specie di festa di famiglia per il nostro matrimonio?» Si capiva che ero seccato, e lei accusò il colpo. «Non ci avevo pensato in questi termini e la mamma non mi ha mai detto niente del genere, però in fondo ha
abbastanza senso.» «Non per me.» Le voltai le spalle e cominciai a camminare controvento, lasciando che l’aria mi scostasse i capelli dalla faccia infiammata di rabbia. «Gideon!» Eva mi corse dietro. «Ma perché ti sei arrabbiato?» Mi voltai verso di lei. «Non mi aspettavo una cosa del genere!» «Ma cosa?» «Entrare a far parte della famiglia e tutte le menate di questo tipo.» Lei si accigliò. «Be’, sì, ti ho detto che lo sapevano.» «Non dovrebbe fare alcuna
differenza.» «Ma... perché dirglielo, allora? Sei stato tu a volere che sapessero, Gideon.» Non aprii bocca, e lei continuò a fissarmi. «Cosa pensavi che sarebbe successo?» «Non mi sarei mai aspettato di sposarmi, Eva, quindi scusami se non ho pensato prima anche a tutto il resto.» «D’accordo.» Alzò entrambe le mani in un gesto di resa. «Adesso sono confusa.» E io non sapevo come fare per rendere le cose più chiare. «Non ce la faccio... Non sono pronto per una cosa del genere.»
«Per cosa non sei pronto, esattamente?» Agitai la mano in direzione della casa, in un gesto di impazienza. «Per tutto questo.» «Puoi essere più specifico?» mi chiese, con garbo. «Io... No.» «Mi sono persa qualcosa mentre eravamo dentro?» Nelle sue parole si coglieva una sfumatura di rabbia. «Che cosa ti hanno detto, Gideon?» Mi ci volle un attimo per capire che stava prendendo le mie difese, e questo non fece che esacerbarmi ulteriormente. «Sono venuto qui per stare con te, e invece tu sei qui per
passare del tempo con la tua famiglia...» «Ma adesso è anche la tua famiglia.» «Non l’ho certo chiesto io.» La osservai, il suo viso rivelava che aveva capito. Quando l’espressione mutò e si trasformò in compassione, strinsi i pugni. «Non guardarmi in quel modo, Eva.» «Non so cosa dire. Dimmi di cosa hai bisogno.» Sbuffai. «Di qualcosa di forte da bere.» La sua bocca si piegò in una smorfia. «Sono sicura che non sei il primo novello sposo che sente il
bisogno di mandare giù i suoi parenti acquisiti con qualche drink.» «Possiamo evitare di chiamarli in quel modo, per piacere?» Il tenue sorriso svanì dal suo volto. «Ma che cosa cambia? Se preferisci li puoi chiamare Mr e Mrs Stanton, ma...» «Non sono l’unico ad avere le idee confuse su quale sia il mio posto.» Curvò le labbra. «Su questo non sono tanto d’accordo.» «Solo due giorni fa mi avrebbero stretto la mano chiamandomi Cross, adesso è tutto un abbraccio e un “chiamami mamma” e sorrisini in
attesa di chissà che cosa!» «Veramente ti ha detto di non chiamarla mamma, ma ho capito cosa intendi. Attraverso il matrimonio sei diventato loro figlio, e questo ti spaventa a morte. Ma è una cosa tanto terribile che loro ne siano felici? Preferiresti che fossero come mio padre?» «Sì.» Rabbia e delusione le so gestire benissimo. Eva fece un passo indietro, i suoi grandi occhi brillavano sotto la luce della luna calante. «Cioè, no!» Mi passai una mano nei capelli mentre mi correggevo. Non sapevo come affrontare la sua
delusione. «Maledizione, non lo so.» «Gideon...» Si avvicinò di nuovo. «Sul serio, ho capito benissimo. Mia madre si è sposata tre volte, e ogni volta c’era una nuova figura paterna già bell’e pronta che io...» «Anch’io ho un patrigno» la interruppi bruscamente. «E non è la stessa cosa. Non gliene frega niente a nessuno se un genitore acquisito ti vuole bene o meno.» «Allora è di questo che si tratta?» Mi prese tra le braccia e mi abbracciò con forza. «Ma loro ti vogliono già bene.» La strinsi a me. «Non sanno neanche chi cazzo sono.»
«Lo sapranno, e impareranno ad amarti. Ogni genitore sogna un figlio come te.» «Piantala con le stronzate, Eva.» Si staccò da me, in preda alla collera. «La sai una cosa? Se non volevi parenti acquisiti, dovevi sposare un’orfana.» Si diresse a grandi passi verso la casa. «Torna qui!» le gridai, ma lei rispose mostrandomi il dito medio da sopra la spalla. In tre passi la raggiunsi, la presi per un braccio e la costrinsi a girarsi. «Non abbiamo ancora finito.»
«Invece io ho finito.» Eva si alzò sulla punta dei piedi nel tentativo di avvicinarsi al mio viso, ma per guardarmi negli occhi doveva ancora tenere la testa piegata all’indietro. «Sei stato tu a volere che ci sposassimo. Se adesso hai paura e vuoi tirarti indietro, è solo colpa tua.» «Non scaricare il problema su di me!» Mi ribolliva il sangue dalla rabbia, il che accresceva la mia frustrazione. «Mi dispiace che tu non ti sia reso conto che ti sei impegnato per qualcosa di più di un bel culo a portata di mano!»
«A portata di mano ma irraggiungibile» ribattei, mentre sentivo la mascella contrarsi lievemente. «Fottiti.» «Ottima idea.» Si ritrovò con la schiena sulla sabbia prima ancora di capire che cosa l’aveva colpita. La tenevo ferma premendo con forza la mia bocca sulla sua per farla stare zitta. Lei si inarcò nel tentativo di reagire e io le tirai la coda di cavallo per farla stare ferma. Mi morse il labbro inferiore e io mi sollevai imprecando. «Ma che cazzo di scherzo è?»
Intrecciò le gambe alle mie e mi ritrovai sotto di lei, a fissare il suo meraviglioso viso infuriato. «Questo è esattamente il motivo per cui non te la do, asso. Pensi sempre di risolvere tutto con il sesso.» «Spero solo che tutta quest’attesa valga la pena» le dissi in tono di sfida, stavo cercando di nuovo lo scontro. «S o n o io semmai a valere la pena, stronzo, non la mia vagina.» Si appoggiò con forza sulle mie spalle. «Mi dispiace che ti sia sentito in trappola, mi dispiace davvero tanto che essere accolto a braccia aperte ti faccia andare fuori
di testa. Ti ci dovrai abituare, però, perché fa parte del pacchetto completo che ti sei preso insieme a me.» Lo sapevo, e sapevo che avrei dovuto fare in modo che funzionasse, perché dovevo averla a tutti i costi. Il mio amore per lei mi aveva intrappolato, mi aveva spinto in un angolo da cui non potevo più uscire. Mi aveva imposto, di fatto, una famiglia, anche se io stavo benissimo senza. «Non è questo che voglio» dissi, a denti stretti. Eva si bloccò. Appoggiò le ginocchia a terra, serrandomi i
fianchi con le cosce. «Pensa bene a ciò che stai dicendo» mi mise in guardia. «Non è il mio ruolo, Eva.» «Oddio.» Fece un sospiro profondo e di colpo tutta la sua collera era svanita. «Sii te stesso e basta.» «Sono esattamente il contrario di quello che si augurerebbero per la loro figlia.» «Lo credi davvero?» Mi studiò per qualche istante. «Ti sbagli di grosso, Gideon...» Le afferrai le cosce con le mani, per tenerla ferma. Adesso non poteva lasciarmi; non le avrei
consentito di farlo, qualunque cosa fosse successa. «D’accordo.» Capii dai suoi occhi che stava facendo qualche calcolo, e cercai di stare in guardia. «Allora sii te stesso: se si accorgono di quanto sei malvagio e cominciano a detestarti per te è anche meglio, no?» «I giochetti mentali lasciali agli strizzacervelli, Eva.» «Non faccio altro che elaborare quello che mi dici tu, asso.» Un fischio ci fece voltare verso il punto in cui Martin, Lacey e Cary si preparavano a scendere in spiaggia da uno dei lati del patio coperto.
«Siete proprio due sposini» gridò Lacey, ma era così distante che sentimmo a malapena. Continuava a ridere mentre cercava di stare in equilibrio sulla sabbia, e riuscì a versare quasi metà del vino che aveva nel bicchiere. Eva si girò di nuovo verso di me. «Vuoi litigare davanti a loro?» Feci un respiro profondo. «No.» «Ti amo.» Chiusi gli occhi. Sarebbe stato un weekend infernale. Due giorni pieni, a meno che non fossimo partiti la domenica sul presto... Le sue labbra sfiorarono le mie.
«Ce la possiamo fare, proviamoci.» Non avevo altra scelta. «Se stai per crollare» continuò «puoi provare a immaginarti le cose tremende e perverse che mi potresti fare durante la nostra prima notte di nozze, tanto per farmela pagare.» Premetti le dita sulle sue cosce. Non mi vergognavo ad ammettere che il sesso con mia moglie – anche solo il pensiero del sesso con mia moglie – veniva prima di quasi ogni altra cosa. «Puoi anche mandarmi qualche SMS con i tuoi piani crudeli» mi suggerì. «E magari farmi soffrire un
po’.» «Tieni il telefono sempre con te.» «Sei malvagio.» Si chinò per darmi un rapido e dolcissimo bacio sulle labbra. «È facile amarti, Gideon, anche quando sei insopportabile. Un giorno te ne renderai conto.» Scacciai dalla mente quel pensiero, l’unica cosa che contava era vederla, averla al mio fianco anche dopo che avevo incasinato tutto. Il pasto fu molto semplice, un’insalata e un piatto di spaghetti.
Fu Monica a cucinare e a servire a tavola, e nel frattempo Eva era raggiante. Il vino scorreva in abbondanza, le bottiglie venivano aperte e vuotate una dopo l’altra. Eravamo tutti rilassati, ridevamo contenti, persino io. La presenza di Lacey fu un gradevole diversivo. Era l’ultima arrivata nel gruppo, e tutte le attenzioni erano per lei. Questo mi diede un po’ di respiro, e con il passare del tempo Eva cominciò a farsi rossa in viso e i suoi occhi diventarono sempre più brillanti grazie al vino. Un po’ alla volta, fece scivolare la sedia più vicina
alla mia finché non sentii il suo corpo caldo e morbido che premeva contro il mio fianco. Si dava da fare sotto il tavolo, e mi toccava spesso con le mani e i piedi. La sua voce si faceva man mano più roca, la risata sensuale. Una volta Eva mi aveva confessato che bere troppo la faceva arrapare, ma io avrei riconosciuto quei segnali in ogni caso. Erano quasi le due del mattino quando uno sbadiglio di Lacey spinse tutti ad andare a dormire. Monica si avviò verso le scale con noi. «Le vostre cose sono già in
camera» disse, rivolta sia a Eva sia a me. «Dormiamo fino a tardi e poi ci facciamo un bel brunch.» «Mmh...» mia moglie si accigliò. L’afferrai per il gomito. Ovviamente Eva non aveva considerato che avremmo diviso la camera e il letto, ma per quanto mi riguardava quel pensiero non mi aveva mai abbandonato, era inevitabile. «Grazie Monica, ci vediamo più tardi.» Lei rise e mi prese il viso tra le mani, dandomi un bacio sulla guancia. «Sono così felice, Gideon. Sei proprio l’uomo giusto per Eva.» Abbozzai un sorriso, consapevole
del fatto che i suoi sentimenti sarebbero stati ben diversi se avesse saputo quanto fosse pericoloso per sua figlia dividere il letto con me, un uomo i cui incubi violenti rappresentavano un serio rischio per la sua incolumità. Eva e io salimmo le scale. «Senti, Gideon...» La interruppi bruscamente. «Dov’è la camera?» «Su in cima» rispose senza guardarmi. La camera di Eva era in effetti quella più in alto, e occupava tutta la superficie di quella che un tempo era probabilmente un’ampia
mansarda. Il tetto a padiglione faceva sì che il soffitto fosse alto a sufficienza e durante il giorno offriva una vista mozzafiato sul Long Island Sound. Il letto king size era in mezzo alla stanza, proprio di fronte alla parete finestrata. La testiera in bronzo costituiva una specie di divisorio e il divano appoggiato dietro creava un piccolo salottino. Il bagno privato occupava il resto dello spazio. Eva si girò verso di me. «E adesso che cosa facciamo?» «Lascia che me ne occupi io.» Preoccuparmi all’idea di dividere il letto con mia moglie era diventata
un’abitudine quotidiana per me. La mia parasonnia atipica di genere sessuale – così l’aveva definita il dottor Petersen – era in cima alla lista delle cose che potevano minacciare la nostra relazione. Quando dormivo, non avevo difese contro la mia mente malata, e nelle notti più difficili costituivo un pericolo per l’incolumità fisica della persona che amavo di più al mondo. Eva incrociò le braccia. «Ho la sensazione che tu non abbia il mio stesso tipo di coinvolgimento nell’aspettare il matrimonio.» La guardai negli occhi e mi resi
conto che stavamo pensando due cose completamente diverse. «Prendo io il divano.» «Vuoi dire che prendi me sul divano...» «Ti scoperei qui sui due piedi, se ne avessi la possibilità» dissi a denti stretti «Ma non ho intenzione di dormire con te.» Eva aprì la bocca per replicare, ma la richiuse subito non appena capì cosa intendevo. «Oh.» L’atmosfera cambiò del tutto. L’aria di sfida nel suo sguardo si trasformò in un’espressione di cauta sottomissione. Vederla così mi faceva morire, non sopportavo
l’idea di poter essere la causa anche della più piccola infelicità per lei. Ero troppo egoista per andarmene, ma un giorno la sua famiglia mi avrebbe visto per ciò che ero e mi avrebbe detestato. Avvilito, cercai il borsone da viaggio e lo trovai sopra lo sgabello portabagagli accanto al bagno. Lo presi, sentendo il bisogno di fare qualcos’altro che non fosse stare a guardare la delusione e il rimpianto negli occhi di Eva. «Non voglio che tu dorma sul divano» disse. «Infatti non ho alcuna intenzione
di dormire.» Presi il set da barba e andai in bagno. La luce si accese non appena entrai, rivelando un lavandino a colonna e una vasca da bagno autoportante. Aprii il rubinetto della doccia e mi tolsi la camicia. Si aprì la porta ed entrò Eva. La guardai, con la mano bloccata all’altezza della cerniera dei pantaloni. Il suo sguardo sensuale esplorò ogni centimetro del mio corpo, senza trascurare nulla. Fece un respiro profondo. «Dobbiamo parlare.»
Ero eccitato dalla sua ammirazione e irritato a causa dei miei difetti, ma parlare era l’ultima cosa che volevo fare. «Vai a letto, Eva.» «Non prima di averti detto quello che ho da dirti.» «Sto per fare la doccia.» «Benissimo» disse, e si sfilò la canottiera dalla testa. Le energie più torbide che si agitavano dentro di me si unirono a formare un unico irresistibile desiderio. Mi drizzai, ogni singolo muscolo del mio corpo era in tensione. Lei si portò le mani dietro la schiena per slacciarsi il reggiseno.
Appena ebbi davanti agli occhi i suoi meravigliosi seni sodi mi diventò così duro da farmi male. Prima di conoscere Eva non ero mai stato un fissato delle tette, ma ora... “Mio Dio.” C’era da perdere la testa. «Se ti togli i vestiti non è parlare quello che faremo» la avvisai, con il pene che pulsava furiosamente. «Adesso mi stai ad ascoltare, asso; qui o nella doccia, come preferisci.» «Non è la sera giusta per mettermi alle strette.» Si tolse anche gli shorts.
I miei pantaloni erano afflosciati sul pavimento prima che lei avesse avuto il tempo di saltare fuori dal triangolo di seta delle sue mutandine. Nonostante l’umidità, i suoi capezzoli erano diventati duri e turgidi. Lei lasciò cadere lo sguardo sul mio cazzo e si passò la lingua sul labbro inferiore, come se immaginasse di sentire il mio sapore. Avevo così voglia di lei che dal petto mi uscì una specie di ruggito, un suono che la fece rabbrividire. Avevo voglia di toccarla... di posare le mani e la bocca su di lei,
ovunque... ma le lasciai tutto il tempo per saziarsi la vista. Il suo respiro divenne più rapido, e vedere l’effetto che avevo su di lei era di un erotismo incredibile, quasi doloroso. La sensazione che provai quando mi guardò negli occhi... be’, ero commosso. Rimase sulla soglia. Dalla doccia usciva una nuvola di vapore che appannava i bordi dello specchio e inumidiva la mia pelle. Abbassò lo sguardo. «Non sono stata del tutto onesta con te, Gideon.» Strinsi istintivamente i pugni. Non poteva dirmi una cosa del
genere senza richiamare tutta la mia attenzione. «Di cosa stai parlando?» «Poco fa, quando eravamo in camera da letto. Ho avuto la sensazione che ti allontanassi e mi ha preso una specie di panico...» Eva rimase zitta per un lungo istante. Attesi, ricacciando indietro il desiderio con un respiro profondo. «Trattenerci fino al matrimonio... Non è solo perché ce l’ha consigliato il dottor Petersen o perché tu possa affrontare meglio i tuoi attacchi.» Deglutì. «È anche per me. Lo sai che io prima... Te l’ho detto, con il sesso sono stata
incasinata per molto tempo.» Spostò il peso da un piede all’altro, per mascherare la vergogna. Vederla così mi faceva stare male. Mi resi conto che ero rimasto concentrato sulle mie reazioni agli eventi della settimana precedente, senza pensare a cosa stava passando mia moglie. «Anch’io» le ricordai, con un tono un po’ rude. «Ma tra noi non è mai stato così.» Mi guardò negli occhi. «No, mai.» Mi rilassai e aprii i pugni. «Questo non significa che non sia in grado di indugiare in qualche fantasia piuttosto tortuosa»
proseguì. «Appena sei entrato in bagno il mio primo pensiero è stato quello di scoparti, come se il sesso potesse sistemare tutto: tu non saresti più stato arrabbiato e io avrei riavuto il tuo amore.» «Ma tu ce l’hai già, ce l’avrai per sempre.» «Lo so.» Capii che lo pensava davvero dalla forma che aveva assunto la sua bocca. «Ma questo non impedisce alla vocina che ho in testa di continuare a ripetermi che sto rischiando troppo, che finirò per perdere tutto se non cedo, e che tu sei troppo sensuale per poterne fare a meno tanto a lungo.»
Per quante volte ancora, e in quanti modi, sarei riuscito a rovinare tutto? «Le cose che ti ho detto in spiaggia... Sono uno stronzo, Eva.» «A volte...» Mi sorrise. «Ma sei anche la cosa migliore che mi sia mai capitata. Quella vocina mi ha martellato per anni, ma adesso non ha più lo stesso potere di un tempo. Grazie a te: sei tu che mi hai resa più forte.» «Eva...» Mi mancavano le parole. «Voglio che tu pensi a questo. Non ai tuoi incubi, non ai miei parenti, a nient’altro. Tu sei esattamente la persona di cui ho
bisogno, proprio come sei, e ti amo da impazzire.» Mi avvicinai a lei. «Voglio ancora aspettare» disse a bassa voce, anche se il suo sguardo tradiva l’effetto che avevo su di lei. Quando allungai la mano verso di lei, mi afferrò il polso. «Lascia che sia solo io a toccarti.» Inspirai profondamente. «Non posso accettare.» Piegò le labbra in una smorfia. «Certo che puoi. Tu sei più forte di me, Gideon. Hai un controllo maggiore, più forza di volontà.» Sollevò l’altra mano e l’appoggiò
sul mio petto. Io la presi e la strinsi a me. «È questo che vuoi che ti dimostri? Che so controllarmi?» «Stai andando benone.» Stampò un bacio all’altezza del mio cuore in tumulto. «Sono io quella che deve ancora capire tante cose.» La sua voce era tenue, quasi un sussurro. Io avevo il fuoco dentro, ardevo d’amore e di desiderio e lei tentava di domarmi. Quasi scoppiai a ridere, era un compito impossibile. Poi fece aderire il suo corpo morbido al mio, e mi abbracciò così forte che non c’era più spazio tra
noi. Stretto a lei, chinai la testa sopra la sua. Fino a quel momento non mi ero reso conto di quanto fosse impellente il desiderio di toccarla in quel modo, tenera e accogliente, nuda sotto ogni punto di vista. Appoggiò una guancia sul mio petto. «Ti amo così tanto» sussurrò. «Tu lo senti?» Di colpo fui travolto dall’amore che provava per me e da quello che io provavo per lei. Ogni volta che le pronunciava, quelle parole mi tramortivano come pugni. «Una volta hai detto» mormorò «che quando facciamo l’amore c’è
un momento in cui io mi apro e tu ti apri e allora siamo davvero insieme. Vorrei donarti quel momento sempre, Gideon.» L’implicito suggerimento che mancasse qualcosa in ciò che avevamo mi fece irrigidire. «Ma è davvero importante come e quando lo sentiamo?» «Puoi dirmi di no se vuoi.» Sollevò di nuovo la testa. «E io non ti contraddirò. Ma se sei dall’altra parte del mondo e hai bisogno di essere rassicurato da me, devo sapere che te lo posso donare.» «Ma tu sarai con me» mormorai, in tono frustrato.
«Non sempre.» Mi accarezzò la guancia. «Ci saranno occasioni in cui dovrai essere in due posti nello stesso momento, e un giorno ti fiderai abbastanza di me da lasciarmi fare le tue veci.» La osservai con attenzione, cercando qualche crepa in quella sua risoluzione. Ciò che trovai, invece, fu una determinazione assoluta. Non mi era del tutto chiaro che cosa sperava di ottenere, ma non volevo mettermi di traverso. Se stava cambiando, se si stava evolvendo, dovevo essere parte di quel processo se mi aspettavo di tenerla con me.
«Dammi un bacio.» Quelle parole mi uscirono dalla bocca come un ordine impartito a bassa voce, ma lei dovette percepire lo struggimento che le animava. Mi offrì la bocca e io me ne impadronii con una forza esagerata, travolto da un desiderio violento e avido. La sollevai da terra perché mettesse le gambe intorno a me, perché si aprisse a me e lasciasse che mi spingessi dentro di lei. Lei non volle, rimase dove si trovava continuando ad accarezzarmi i capelli, il corpo scosso dai tremiti dello stesso inestinguibile desiderio che
consumava me. La sua lingua che guizzava contro la mia mi faceva impazzire, e il ricordo di quella stessa lingua che esplorava il resto del mio corpo mi tormentava. Lottai per trattenermi quando tutto dentro di me mi incitava a spingermi oltre. «Ho bisogno di stare dentro di te» dissi con voce roca, detestando di dover ammettere ciò che era ovvio. Perché voleva farsi pregare? «Lo sei già.» Sfregò la guancia contro la mia. «Anche io ti voglio, sono tutta bagnata per te. La sensazione di vuoto dentro di me è quasi dolorosa.»
«Eva...» Il sudore mi colava lungo la schiena. «Lascia che ti prenda.» Sfiorò le mie labbra con le sue, mi scompigliò i capelli con le dita. «Lasciati amare in un altro modo.» Come avrei fatto a resistere? Be’, avrei dovuto trovare il modo. Le avevo promesso che le avrei dato tutto ciò di cui aveva bisogno, che sarei stato per lei l’inizio e la fine di ogni cosa. La lasciai andare ed entrai nella doccia per chiudere il rubinetto. Poi andai vicino alla vasca, misi il tappo e cominciai a riempirla. «Sei arrabbiato?» mi chiese, così
piano che riuscii a sentire a malapena la sua voce sopra lo scrosciare dell’acqua. La guardai e notai che teneva le braccia incrociate sul petto, rivelando così la sua vulnerabilità. Le dissi la verità. «Ti amo.» Il suo labbro inferiore cominciò a tremare e poi si piegò a formare un sorriso meraviglioso che mi tolse il fiato. Un giorno le avevo detto che l’avrei presa in tutti i modi possibili. Adesso era ancora più vero di allora. «Vieni da me, angelo.» Lasciò cadere le braccia sui fianchi, e venne.
Mi risvegliò il movimento del letto. Sbattei le palpebre e vidi che la luce del giorno aveva invaso la camera. Misi a fuoco il volto di Eva, soffuso di luce e illuminato da un sorriso smagliante. «Buongiorno, dormiglione» disse. I ricordi di quella notte cominciarono a riaffiorare. Il lungo bagno, con le mani insaponate di mia moglie sulla pelle e tra i capelli. La sua voce che mi parlava del matrimonio. La risata sensuale mentre le facevo il solletico sul letto. I gemiti e i sospiri mentre continuavamo a baciarci fino a farci diventare le labbra gonfie e dolenti,
e amoreggiavamo come due ragazzini non ancora pronti ad andare fino in fondo. Il sesso, non lo nascondo, avrebbe portato tutto su un altro livello, ma quella notte era stata ugualmente memorabile. Si era piazzata nella classifica ideale delle altre notti brave che avevamo passato insieme. Poi mi ricordai dove mi trovavo, e che cosa significava essere lì. «Ho dormito nel letto.» Quando me ne resi conto fu come se mi avessero tirato addosso una secchiata di acqua gelida. «Eh, già.» Eva fece un piccolo
salto di gioia. «Proprio così.» Era stato un gesto completamente irresponsabile. Non avevo neanche preso la medicina che serviva a ridurre il rischio. «Dài, non fare quella faccia» mi disse a mo’ di rimprovero mentre si chinava per darmi un bacio in mezzo alle sopracciglia. «Hai dormito come un sasso. Quand’è stata l’ultima volta che hai dormito così bene?» Mi tirai su a sedere. «Non è questo il punto, lo sai benissimo.» «Senti, asso, abbiamo già abbastanza problemi: non c’è bisogno di fare una scenata anche
quando le cose vanno bene.» Si alzò in piedi. «Se vuoi un motivo per arrabbiarti, prenditela con Cary che mi ha infilato questo nel bagaglio.» Si scrollò di dosso la corta vestaglia bianca, rivelando un minuscolo bikini blu che metteva in risalto più di quel che copriva. «Oddio.» Tutto il sangue che avevo in corpo finì nel mio pene, che salutò felice da sotto le coperte dimostrando la sua approvazione. Eva si mise a ridere, con lo sguardo fisso sul punto in cui la mia erezione tendeva il lussuoso lenzuolo di cotone.
«Mi sa che ti piace.» Girò su se stessa con le braccia aperte, mostrando il taglio alla brasiliana del pezzo di sotto. Il sedere di mia moglie era altrettanto libidinoso delle sue tette. So che lei pensava di avere troppe curve, ma il mio disaccordo era totale. Non ero mai stato il tipo di uomo a cui piacevano le forme generose in una donna, ma Eva mi aveva fatto cambiare idea, proprio come aveva cambiato tante altre cose di me. Non avevo idea di che materiale fosse fatto quel bikini, ma era privo di cuciture e aderiva così bene alla pelle che sembrava dipinto. I lacci
sottili all’altezza del collo, dei fianchi e sulla schiena mi fecero venire la fantasia di legarla per poter fare di lei ciò che volevo. «Vieni qui» le ordinai, allungando le mani per toccarla. Lei si mise a ballare, fuori dalla mia portata. Scostai il lenzuolo e scesi dal letto. «Fai il bravo, su» mi disse, continuando a stuzzicarmi mentre si rifugiava dietro il divano. Mi presi il pene in mano e cominciai a menarlo dalla base alla punta, mentre la inseguivo nel salottino. «Così non vale.»
I suoi occhi ridevano pieni di allegria. «Eva...» Afferrò qualcosa da dietro la sedia e scattò verso la porta. «Ci vediamo sotto!» Le corsi dietro ma mi sfuggì, e mi trovai davanti la porta chiusa. «Maledizione.» Mi lavai i denti, mi infilai un paio di pantaloncini da bagno e una Tshirt e la seguii di sotto. Fui l’ultimo ad arrivare, e vidi che tutti gli altri erano già seduti a tavola e mangiavano con gusto. Un’occhiata rapida all’orologio mi rivelò che era quasi mezzogiorno.
Cercai Eva e vidi che era seduta nel patio con il telefono all’orecchio. Si era coperta con una specie di camicetta bianca senza spalline. Notai che anche Monica e Lacey erano vestite nello stesso modo, con i costumi da bagno parzialmente nascosti da una copertura più simbolica che altro. Cary, Martin e Stanton indossavano calzoncini da bagno e T-shirt, come me. «Chiama sempre suo padre, al sabato» mi disse Cary, notando il mio sguardo. Osservai mia moglie per un minuto buono, in cerca di qualche
segnale di disagio. Aveva smesso di sorridere, ma non sembrava preoccupata. «Tieni, Gideon.» Monica mi mise davanti un vassoio pieno di waffle e bacon. «Vuoi un po’ di caffè? O magari un mimosa?» Lanciai un altro sguardo a Eva prima di rispondere. «Un po’ di caffè nero sarebbe fantastico, grazie.» Monica si diresse verso la macchina per il caffè che si trovava sul bancone e io la raggiunsi. Mi sorrise. Portava un rossetto della stessa tonalità di rosa del suo top. «Hai dormito bene?» «Come un sasso.» Ed era vero,
anche se si era trattato di un colpo di fortuna. Io ed Eva avremmo potuto tirare giù dal letto tutta la casa mettendoci a lottare, con lei che tentava di tenermi a bada mentre nei miei sogni immaginavo che fosse qualcun altro. Incrociai lo sguardo di Cary e vidi la preoccupazione nei suoi occhi: lui aveva visto che cosa poteva succedere e non si fidava a lasciarmi con Eva più di quanto mi fidassi io stesso. Presi una tazza dalla credenza che Monica aveva aperto. «Faccio io» le dissi. «Non se ne parla.»
Evitai ogni discussione e lasciai che mi versasse il caffè, poi ne versai un’altra tazza per mia moglie, macchiato con il latte parzialmente scremato come piaceva a lei. Afferrai entrambe le tazze per il manico con una mano, presi il piatto che Monica mi aveva preparato con l’altra e mi diressi verso il patio. Eva alzò lo sguardo verso di me mentre sistemavo tutto sul tavolo vicino a lei e mi sedevo di fronte. Si era sciolta i capelli, e le ciocche bionde svolazzavano intorno al suo viso mentre la brezza le scompigliava. Mi piaceva così,
semplice e naturale. In quel preciso istante, era il mio angolo di paradiso sulla Terra. “Grazie” mimò con le labbra prima di addentare un pezzo di bacon. Lo masticò rapidamente mentre Victor diceva qualcosa che non riuscivo a sentire. «Alla fine penso che mi dedicherò alla Crossroads» disse lei, «la fondazione benefica di Gideon. Spero di potermi rendere utile lì. E sto anche pensando di tornare a scuola, magari.» Inarcai le sopracciglia. «Mi piacerebbe essere una buona ascoltatrice per Gideon» continuò,
guardandomi negli occhi. «Ovviamente se la cava benissimo senza di me e ha un’ottima squadra di consulenti, ma vorrei che qualche volta potesse parlare di affari anche con me, e che io fossi in grado di capire cosa dice.» Mi diedi un colpetto sul petto. “Ti insegno io.” Lei mi mandò un bacio. «Nel frattempo, impazzirò nel tentativo di organizzare un matrimonio in meno di tre settimane. Non ho neanche preparato la lista degli invitati! So che non sarà facile per qualcuno della famiglia ritagliarsi un giorno libero, ma ti va di cominciare
a mandare un’e-mail? Giusto per smuovere un po’ le acque.» Eva addentò un altro pezzo di bacon mentre suo padre parlava. «Non ne abbiamo ancora discusso» gli rispose, deglutendo velocemente «ma non ho intenzione di invitarli. Hanno perso il diritto di far parte della mia vita quando hanno ripudiato la mamma. E non è che poi abbiano tentato di mettersi in contatto con me, quindi non credo che alla fine gli importi più di tanto.» Guardai l’acqua che si stendeva oltre la striscia di sabbia. Nemmeno io ero molto interessato a
conoscere i nonni materni di Eva. Avevano rifiutato Monica perché era rimasta incinta di Eva fuori dal matrimonio, e chiunque giudicava l’esistenza di mia moglie un evento spiacevole era meglio che non incrociasse mai il mio cammino. Ascoltai quella conversazione ancora per qualche minuto, poi Eva salutò il padre. Nell’appoggiare il telefono sul tavolo fece un profondo sospiro, che sembrava di sollievo. «È tutto a posto?» le domandai, mentre la osservavo con attenzione. «Sì, oggi sta meglio.» Lanciò un’occhiata in direzione della casa.
«Non hai mangiato con il resto della famiglia?» «Sto facendo l’asociale?» Mi rispose con un sorrisetto. «Assolutamente sì. Ma non posso fartene una colpa.» Le rivolsi uno sguardo interrogativo. «Mi sono accorta di non avere incluso tua madre nei preparativi del matrimonio» mi spiegò allora. Sprofondai nella sedia, tentando di nascondere il fatto di essermi irrigidito di colpo. «Non sei certo obbligata a farlo» le dissi. Fece una smorfia, poi prese un altro pezzo di bacon ma lo diede a
me. Quello sì che era vero amore. «Eva» dissi, e aspettai finché non mi guardò. «È il tuo giorno. Non sentirti obbligata a fare nulla che non sia piacevole e divertente. E fai sesso con me, il che dovrebbe rientrare nella categoria.» Le tornò il sorriso. «Sarà meraviglioso in ogni caso.» Diedi voce a ciò che lei aveva lasciato in sospeso. «Ma?» «Non lo so.» Si mise una ciocca di capelli dietro all’orecchio e si strinse nelle spalle. «Il pensiero dei genitori di mia madre mi ha fatto venire in mente i nonni, e tua madre sarà la nonna dei nostri figli.
È una faccenda delicata.» Rabbrividii. L’idea che mia madre potesse avere a che fare in qualunque modo con un figlio generato insieme a Eva mi riempì di una ridda di emozioni che non ero in grado di affrontare in quel momento. «Affronteremo la cosa quando sarà il momento.» «E il nostro matrimonio non è il momento giusto per cominciare?» «Tu detesti mia madre» le risposi brusco. «Non fare finta di agire per il bene dei nostri figli, che ancora non esistono.» Eva ebbe un lieve sussulto, poi mi fece l’occhiolino e prese la sua
tazza di caffè. «Hai provato i waffle?» Mia moglie non aveva l’abitudine di sottrarsi alle discussioni scomode, quindi decisi di lasciar perdere. Se dovevamo tornare sull’argomento di mia madre, avremmo potuto farlo in seguito. Appoggiò la tazza sul tavolo e dopo aver staccato un pezzo di waffle con le dita me lo porse. Interpretai quel gesto per ciò che era: un’offerta di pace. A quel punto mi alzai, la presi per mano e la condussi con me a fare una passeggiata lungo la spiaggia, cercando di chiarirmi un
po’ le idee. «Oh, figurati, non c’è di che.» Mi voltai e vidi Cary che mi sorrideva sdraiato sulla sabbia pochi metri più in là. «So che hai apprezzato la mia idea del bikini» proseguì, a mo’ di spiegazione, mentre con il mento indicava Eva immersa nell’acqua fino alla vita. Aveva i capelli bagnati incollati al viso, e un paio di occhiali da sole giganteschi le riparavano gli occhi mentre giocava a frisbee con Martin e Lacey. «L’hai aiutata tu a sceglierlo?»
chiese Monica, sorridendo sotto un elegante cappello a tesa larga. L’avevo osservata mentre spalmava la crema solare addosso a Eva: l’avrei fatto volentieri io, ma avevo preferito sorvolare. A volte Monica si comportava come se Eva fosse ancora una bambina. E mi ero reso conto che mia moglie si godeva quel tipo di attenzioni, anche se, guardandomi, alzava gli occhi al cielo. Il loro rapporto era molto diverso da quello che avevo con mia madre. Non potevo dire che mia madre non mi amasse, perché di fatto mi amava. A modo suo, entro certi
limiti. L’amore di Monica, d’altra parte, non conosceva limiti, e talvolta Eva trovava quest’aspetto un po’ soffocante. Chi poteva dire cos’era meglio e cosa peggio? Essere amati troppo o troppo poco? Dio sapeva che amavo Eva in modo del tutto irragionevole. Un’improvvisa folata di brezza marina mi distolse da quei pensieri. Monica si teneva il cappello mentre Cary si girava verso di lei. «Sì, esatto» rispose Cary, mettendosi a pancia in giù. «Stava guardando i costumi interi e sono stato costretto a intervenire. Quel
bikini sembra fatto apposta per lei.» Sì. Oh, sì. Ero seduto con le braccia intorno alle ginocchia così potevo riempirmi gli occhi di lei. Era bagnata e praticamente nuda, e io morivo dalla voglia di lei. Come se si fosse accorta che stavamo parlando di lei, Eva mi fece segno con il dito di raggiungerla. Feci di sì con la testa ma aspettai qualche istante prima di alzarmi dalla mia postazione nella sabbia. L’acqua gelata mi fece inspirare a fondo, ma ne fui contento subito dopo, quando lei emerse di fianco a me e mi si appiccicò addosso. Le
gambe strette intorno alla mia vita, mi diede un bacio infuocato con la sua bocca sorridente. «Non ti stai annoiando, vero?» mi chiese. Poi si girò in un modo che ci fece finire entrambi in acqua. Sentii la sua mano accarezzarmi il membro e dargli una veloce strizzatina. Sgusciò via appena risalii per respirare e scoppiò a ridere mentre si toglieva gli occhiali da sole e tentava di fuggire sulla spiaggia. L’afferrai per la vita e la trascinai giù con me, attutendo con la schiena l’impatto con la sabbia. Il suo gridolino di sorpresa fu la mia
ricompensa, così come la sensazione del suo corpo fresco che si strusciava contro il mio. Mi girai e la bloccai a terra. I capelli che mi pendevano bagnati intorno al viso lasciarono cadere qualche goccia d’acqua sopra i suoi. Mi fece la linguaccia. «Non sai cosa ti farei se non avessimo tutti questi spettatori» le dissi. «Siamo due sposini, puoi anche baciarmi.» Alzai lo sguardo e vidi che tutti avevano gli occhi puntati su di noi. Vidi anche Ben Clancy e Angus diretti verso una casa due isolati più
giù. Anche da quella distanza il riflesso che proveniva dal patio rivelava la presenza di una macchina fotografica. Feci per tirarmi su a sedere, ma Eva intrecciò le gambe alle mie e mi costrinse a restare giù. «Baciami come mi ami, asso» mi disse, a mo’ di provocazione. «Ti sfido a farlo.» Mi ricordai di avere usato una frase analoga con lei, e che allora con i suoi baci mi aveva fatto rimanere letteralmente senza fiato. Abbassai la testa e incollai la mia bocca alla sua.
5
Quando la porta della mia camera da letto si aprì, più che dormire sonnecchiavo. Dopo aver trascorso un weekend in spiaggia, i sonori rumori di Manhattan che filtravano nell’appartamento avevano avuto un effetto rilassante ma anche eccitante. Non potevo certo definirmi newyorkese, per quello ci sarebbe voluto tempo, ma adesso
in città mi sentivo a casa. «Sorgi e splendi, piccola!» urlò Cary. Un istante dopo saltò sul mio letto e per poco non mi fece cadere. Mi tirai su a sedere e scostai i capelli dalla faccia. Poi scostai lui. «Dormo fino a tardi, se per caso non te ne fossi accorto.» «Sono le nove passate, pigrona» disse, girandosi sulla pancia e tirando su i piedi. «So che sei disoccupata, ma non hai un sacco di cose da fare?» Nel dormiveglia, avevo pensato alla mia lista di impegni. Era impossibilmente lunga. «Già.» «Che entusiasmo.»
«Ho bisogno del caffè per questo. E tu?» Lo guardai, notando che indossava pantaloni cargo verde oliva e una T-shirt nera con lo scollo a V. «Quali sono i tuoi programmi per oggi?» «Volevo prendermela comoda, perciò niente passerella fino a domani. Per adesso, sono tutto tuo.» Allungai le mani dietro di me per sistemare i cuscini, poi mi ci appoggiai con la schiena. «Devo chiamare la wedding planner, l’architetto e sistemare la faccenda degli inviti.» «Ti serve anche un vestito.»
«Lo so.» Arricciai il naso. «Però non è sulla mia lista di oggi.» «Stai scherzando? Anche se opti per un abito confezionato – e sappiamo entrambi che non puoi – se servono modifiche o roba del genere, Mrs Tette Grosse e Culetto Voluttuoso, lo stai rimandando troppo.» Cary aveva ragione. Mi ero resa conto che avrei dovuto trovare qualcosa di adatto dopo che le foto di me e Gideon che ci baciavamo sulla spiaggia si erano diffuse su Internet domenica. Il numero di post “ruba questo look” sul mio costume mi avevano lasciata di
stucco. Dato che il bikini che indossavo era fuori produzione, i prezzi di quelli in vendita sui siti dell’usato erano sconcertanti. «Non so cosa fare, Cary» ammisi. «Non è che io abbia sotto mano il numero di qualche stilista.» «Sei fortunata, è la settimana della moda.» Di colpo ero sveglissima, con i pensieri che si rincorrevano nella mia testa. «Sul serio? Com’è che non lo sapevo?» «Eri troppo occupata a piangerti addosso» mi ricordò asciutto. «Sai che tua madre andrà ad alcune sfilate, socializzerà e spenderà
migliaia di dollari. Vai con lei.» Mi sfregai gli occhi per cancellare il sonno. «Ho paura a parlarle di qualunque cosa dopo che ha sbroccato ieri.» Fece una smorfia. «Già, una crisi di nervi à la Monica in piena regola.» «Giuro che abbiamo solo parlato della possibilità che lei trasformasse il mio matrimonio in un’operazione pubblicitaria, e adesso si comporta come se qualunque copertura mediatica fosse un incubo.» «Be’, a dire la verità ha parlato nello specifico dei tabloid.» «E quale altra stampa esiste, al
giorno d’oggi?» Sospirai, sapendo che mi sarebbe toccata un’altra conversazione con mia madre. Non sarebbe stato divertente. «Non capisco che cosa la sconvolga tanto. Non avrei potuto chiedere una foto migliore di Gideon e me neanche se ci avessi provato. È perfetta per far sembrare disperata Corinne Giroux.» «Vero.» Il sorriso scomparve. «E sinceramente è bello vedere Gideon così preso da te. Ha passato la maggior parte del weekend come se avesse un bastone nel culo. Stavo cominciando a pensare che si stesse raffreddando.»
«Troppo tardi.» Lo dissi in tono leggero, ma mi aveva straziata vedere quanto Gideon fosse a disagio di fronte a qualunque manifestazione di affetto. L’amicizia sembrava il legame più intimo che fosse in grado di tollerare al di fuori del nostro matrimonio. «Non è niente di personale, Cary. Ti ricordi come si è comportato alla festa della Vidal Records a casa dei suoi genitori?» «Vagamente.» Scrollò le spalle. «Non è un mio problema, comunque. Vuoi che parli con qualche amico per vedere se possiamo mettere in giro la voce
mentre mostriamo la nostra merce questa settimana? Il tuo bikini ha fatto furore su Internet. Non me lo vedo uno stilista che si perde l’opportunità di disegnare il tuo abito da sposa.» Gemetti. Sarebbe stato straordinario mandare Gideon al tappeto con un abito da capogiro disegnato appositamente per me. «Non lo so. Sarebbe un’enorme seccatura se girasse la voce della fretta che abbiamo. Non voglio un circo mediatico. È già abbastanza brutto non poter nemmeno andare fuori città per un weekend senza qualche laido fotografo alle
calcagna.» «Devi fare qualcosa, Eva.» Sussultando, confessai: «Non ho detto a mia madre della data del ventidue settembre». «Datti una mossa. Adesso.» «Lo so.» «Piccola,» si soffiò via dalla faccia una ciocca di capelli, «puoi anche avere la migliore wedding planner del mondo, ma tua madre è l’unica donna capace di tirar fuori un matrimonio da urlo – degno di Eva – in una manciata di giorni.» «Non riusciamo a metterci d’accordo sullo stile!» Cary saltò giù dal letto. «Detesto
dovertelo dire, ma tua madre la sa più lunga. Ha arredato questo posto e ti compra i vestiti. Il suo stile è il tuo stile.» Lo guardai storto. «A lei piace fare shopping più che a me.» «Poco ma sicuro, bel culetto.» Mi mandò un bacio. «Ti preparo una tazza di caffè.» Buttai indietro le coperte e mi alzai dal letto. Il mio migliore amico non aveva tutti i torti. Più o meno. Ma abbinavo i capi a modo mio. Allungai una mano sul comodino per chiamare la mamma quando il viso di Gideon illuminò lo schermo. «Ehi» risposi.
«Com’è andata la tua mattinata finora?» Il suo tono secco ed efficiente mi divertì. Era immerso nel lavoro, ma pensava a me. «Mi sono appena alzata, quindi non posso dirlo. E la tua? Hai finito di comprare tutta Manhattan?» «Non ancora. Bisogna che lasci qualcosa per la concorrenza. Se no, dove sta il divertimento?» «Ami le sfide.» Mi diressi in bagno, guardai la vasca e poi la doccia. Mi eccitai al solo pensiero di mio marito nudo e bagnato. «Che cosa pensi che sarebbe successo se all’inizio non ti avessi resistito? Se
fossi finita a letto con te quando me l’hai chiesto?» «Mi avresti fatto impazzire, esattamente come hai fatto. Era inevitabile. Pranza con me.» Sorrisi. «Si dà il caso che io stia organizzando un matrimonio.» «Lo prendo come un sì. È un pranzo di lavoro, ma ti piacerà.» Lo specchio mi rimandò un’immagine di capelli arruffati e segni del cuscino sulle guance. «A che ora?» «Mezzogiorno. Raúl ti aspetterà giù poco prima.» «Dovrei essere responsabile e dire di no.»
«Ma non lo farai. Mi manchi.» Trattenni il fiato. L’aveva detto con noncuranza, come alcuni uomini dicono: “Ti chiamo”. Ma Gideon non era il tipo che diceva le cose tanto per dire. Eppure, desideravo percepire l’emozione dietro le parole. «Sei troppo impegnato per sentire la mia mancanza.» «Non è la stessa cosa» ribatté. Fece una pausa. «Non è una bella sensazione non averti qui al Crossfire.» Ero felice che non potesse vedere il mio sorriso. Nella sua voce c’era un’inconfondibile traccia di
perplessità. Non avrebbe dovuto fare differenza che io non fossi al lavoro qualche piano sotto il suo ufficio, dove non poteva vedermi. E invece la faceva. «Cosa indossi?» chiesi. «Vestiti.» «Ma non mi dire. Un abito a tre pezzi?» «Ne esistono di altri tipi?» Non per lui. «Di che colore?» «Nero. Perché?» «Mi eccita pensarci.» Il che era vero, ma non era il motivo per cui glielo stavo chiedendo. «Di che colore è la cravatta?» «Bianca.»
«Camicia?» «Bianca anche quella.» Chiusi gli occhi e lo immaginai. Ricordavo quell’abbinamento. «Gessato.» Con quella camicia e quella cravatta avrebbe messo un gessato per mantenere il look da uomo d’affari. «Sì. Eva...» Abbassò la voce. «Non ho idea del perché questa conversazione me lo stia facendo venire duro, ma così è.» «Perché sai che ti vedo nella mia testa. Tenebroso e fatale e sexy da morire. Sai quanto mi eccita guardarti, anche se solo con l’occhio
della mente.» «Vieni qui. Prima. Adesso.» Scoppiai a ridere. «Le cose belle arrivano per chi sa aspettare, Mr Cross. Arriverò giusto in tempo.» «Eva...» «Ti amo.» Riattaccai e mi guardai di nuovo nello specchio. Con l’immagine di Gideon fresca nella mente, il riflesso assonnato e spettinato che vidi era totalmente insufficiente. Avevo cambiato look quando pensavo che Gideon mi avesse lasciata per Corinne, ribattezzando il risultato “Nuova Eva”. Da allora, i capelli mi erano cresciuti oltre le spalle e i colpi di
sole pure. «Sei presentabile?» mi chiese Cary dalla camera da letto. «Sì.» Mi girai a guardarlo quando entrò in bagno portandomi il caffè. «Cambio di programmi.» «Oh?» Si appoggiò con la schiena al ripiano e incrociò le braccia. «Io mi faccio la doccia. E tu mi trovi un parrucchiere favoloso che possa ricevermi entro mezz’ora.» «Okay.» «Poi vado a pranzo e tu fai qualche chiamata per me. In cambio, ti porto fuori a cena. Scegli tu il posto.» «Conosco quell’espressione»
disse. «Sei in missione.» «Esattamente.» Mi feci una rapida doccia, senza lavarmi i capelli. Poi mi affrettai verso l’armadio, avendo già pensato a quello che volevo mettermi. Ci volle pochissimo per individuare l’abito giusto. Bianco, con il reggiseno incorporato e una gonna a tulipano aderente, si adattava perfettamente al busto e alle cosce. Il colore e il tessuto di cotone lo rendevano casual, mentre il taglio era elegante e sexy. Per trovare le scarpe giuste mi ci volle di più. Per un bel po’ pensai di
metterne un paio color nudo. Alla fine, optai per dei sandali a listini con il tacco alto blu acqua che si intonavano con gli occhi di Gideon. Avevo una pochette in tinta e un paio di orecchini in opale con la stessa luce blu brillante. Con indosso l’accappatoio, misi tutto sul letto per essere sicura che gli abbinamenti funzionassero, poi feci un passo indietro per osservare l’effetto. «Bello» disse Cary comparendo alle mie spalle. «Quelle scarpe le ho comprate io» gli ricordai. «E anche la pochette e i gioielli.»
Scoppiò a ridere e mi mise un braccio intorno alle spalle. «Sì, sì. Il tuo parrucchiere è qui. Ho detto alla reception di farlo salire.» «Davvero?» «Non posso immaginare che tu vada da un qualunque parrucchiere senza sollevare un polverone. Dovrai trovarti qualcuno di cui ti fidi perché ti faccia i capelli in appuntamenti privati. Nel frattempo, Mario può tirar fuori un ottimo taglio.» «E il colore?» «Colore?» Lasciò cadere le braccia e mi si mise di fronte. «A cosa stai pensando?»
Lo presi per mano e mi avviai fuori dalla camera. «Stammi attaccato, ragazzo.» Mario era un concentrato di energia con una cascata di boccoli alla moda dalle punte viola. Più basso di me e muscoloso, sistemò le sue cose nel mio bagno chiacchierando con Cary di persone che conoscevano e snocciolando nomi che ogni tanto mi suonavano familiari. «Una bionda naturale» esultò non appena mi mise le mani tra i capelli. «Tu, mia cara, sei merce rara.» «Fammi più bionda» gli dissi.
Fece un passo indietro, accarezzandosi il pizzetto con aria meditabonda. «Quanto più bionda?» «Qual è l’opposto del nero?» Cary lasciò andare un fischio. Mario mi passò le dita tra i capelli. «Hai già colpi di sole platino.» «Osiamo ancora un po’. Voglio tenere la lunghezza, ma facciamo qualcosa di audace. Più colori. Le punte un po’ sfilate, tipo punk. Magari qualche ciocca che mi scende sugli occhi.» Raddrizzai la schiena. «Sono abbastanza sfacciata, sexy e brillante per
potermelo permettere.» Mario lanciò un’occhiata a Cary. «Mi piace.» Il mio migliore amico incrociò le braccia e annuì. «Anche a me.» Mi allontanai dallo specchio per cogliere l’effetto complessivo. Adoravo quello che Mario aveva fatto ai miei capelli. Ricadevano in punte sfilate e asimmetriche sulle spalle e intorno al viso. Aveva schiarito tantissimo la parte alta della testa e quella ai lati del volto, creando un look complessivo più chiaro senza toccare le ciocche color oro scuro sottostanti. Poi
aveva cotonato leggermente le radici per conferire un po’ di volume. L’abbronzatura del weekend contribuiva a far sembrare i capelli ancora più chiari. Avevo un po’ esagerato decidendo per un look smokey eyes, con ombretti grigi e neri per mettere in risalto il colore degli occhi. Per equilibrare l’effetto, il resto del trucco era neutro, compreso il rossetto, color nudo. Quando giustapposi il mio riflesso con l’immagine di Gideon che avevo nella testa, vidi esattamente il risultato a cui miravo. Mio marito era la definizione di
alto, tenebroso e fatale: i capelli erano nerissimi, scuri come l’inchiostro e altrettanto lucenti; indossava spessissimo colori scuri, il che focalizzava l’attenzione sul viso finemente scolpito e sul colore straordinario degli occhi. Io ero riuscita a tirar fuori un opposto complementare: lo yang del suo yin. Ero uno schianto. «Ehi! Arrapante.» Cary mi squadrò con un’occhiata di apprezzamento mentre attraversavo di corsa il salotto. «Che genere di pranzo è quello a cui stai andando?»
Guardai il telefono e imprecai tra me vedendo che erano passati dieci minuti da quando Raúl mi aveva mandato un messaggio per dirmi che mi aspettava giù. «Non lo so. Una cosa di lavoro, ha detto Gideon.» «Be’, sei una figa spettacolare.» «Grazie.» Ma volevo essere più di quello, volevo essere un’arma dell’arsenale di Gideon; però dovevo guadagnarmelo, e assaporavo la sfida. Se oggi avessi potuto contribuire alla conversazione – in qualunque modo – ne sarei stata felice, ma se non fossi riuscita a spiccicare parola,
perlomeno lui sarebbe stato orgoglioso di farsi vedere con me. «Adesso che arriva il matrimonio, non riuscirà a camminare da quanto ha le palle gonfie» mi gridò dietro. «Basterà che glielo pompi un paio di volte e verrà subito.» «Che volgare, Cary.» Aprii la porta d’ingresso. «Ti mando un SMS con i numeri dell’architetto e della wedding planner. E sarò di ritorno tra un paio d’ore.» Ebbi fortuna e presi subito l’ascensore senza dover aspettare. Quando uscii dal palazzo e Raúl scese dal posto di guida della Mercedes, capii da come mi
squadrò che ero sulla strada giusta. Mantenne un contegno professionale, ma mi fu chiaro che quello che aveva visto gli era piaciuto. «Mi scusi, sono in ritardo» gli dissi mentre mi apriva la portiera posteriore. «Non ero ancora pronta quando mi ha mandato il messaggio.» Sul suo viso impassibile comparve quasi la traccia di un sorriso. «Non credo che gliene importerà.» Durante il tragitto mandai a Cary u n SMS con i numeri di Blaire Ash, l’architetto che lavorava alla
ristrutturazione dell’attico, e di Kristin Washington, la wedding planner, chiedendogli di organizzare degli appuntamenti con entrambi. Una volta finito, guardai fuori dal finestrino e mi resi conto che non stavamo andando al Crossfire. Quando arrivammo al Tableau One non fui del tutto sorpresa. Il celebre ristorante era un’impresa compartecipata di Gideon e del suo amico Arnoldo Ricci. Quando Gideon l’aveva scoperto in Italia, Arnoldo era un perfetto sconosciuto; adesso era uno chef famoso. Mentre Raúl accostava, mi sporsi in avanti sul sedile. «Potrebbe farmi
un favore mentre siamo a pranzo?» Si girò a guardarmi. «Riesce a sapere dove si trova Anne Lucas in questo momento? Oggi è un giorno buono come un altro per darle una scossa.» Ero vestita per far colpo, perché non sfruttare la cosa fino in fondo? «Si può fare» disse cauto. «Devo parlarne con Mr Cross.» Fui sul punto di lasciar perdere, poi mi venne in mente che tecnicamente Raúl lavorava anche per me. Se volevo affinare le mie abilità, la strategia migliore era iniziare dalle cose a portata di mano. «No, devo parlargli io, e lo
farò. Me la trovi e basta, del resto mi occupo io.» «Va bene.» Sembrava ancora riluttante. «È pronta? Le faranno una foto non appena si accorgono che è qui.» Fece un cenno con il mento e io seguii il gesto, vedendo una mezza dozzina di paparazzi fuori dal ristorante. «Cavoli!» Respirai a fondo. «Capito.» Raúl scese e fece il giro dell’auto per aprirmi la portiera. Nel momento stesso in cui mi raddrizzai, i flash delle macchine fotografiche resero accecante la giornata già luminosa. Mantenni
un’espressione imperturbabile e mi diressi a passo svelto nel locale. L’interno era gremito e risuonava delle conversazioni dei commensali, ma individuai immediatamente Gideon. Anche lui mi vide, e qualunque cosa stesse dicendo gli morì sulle labbra. La direttrice di sala mi parlò, ma non la sentii. Ero troppo concentrata su Gideon, il cui volto stupendo mi toglieva il fiato – come sempre – ma non mi rivelava nulla dei suoi pensieri. Lui spinse indietro la sedia e si alzò con un gesto aggraziato e potente al tempo stesso. I quattro
uomini seduti al suo tavolo guardarono nella mia direzione e si alzarono anche loro. C’erano due donne, che si voltarono per osservarmi. Mi ricordai di sorridere e mi avviai verso il grande tavolo rotondo che stava quasi al centro della sala, camminando con calma e cercando di ignorare gli sguardi mentre mi concentravo sull’espressione tenebrosa di Gideon. Lo toccai con la mano che tremava un po’. «Scusami per il ritardo.» Lui mi cinse con un braccio e mi
sfiorò la tempia con le labbra. Le sue dita mi strinsero la vita quasi dolorosamente e io mi scostai. Mi guardò con un desiderio e un amore così intensi, feroci, che il mio cuore mancò un battito mentre un’ondata di piacere mi travolgeva. Conoscevo quello sguardo, capivo di avergli dato una scossa che stava cercando di assorbire; era bello sapere che potevo ancora farlo. A quel punto volevo fare del mio meglio per trovare il vestito giusto con cui percorrere la navata. Guardai le persone al tavolo. «Salve.» Gideon distolse gli occhi da me.
«È un piacere presentarvi mia moglie, Eva.» Sconcertata, lo guardai con gli occhi spalancati: la gente sapeva solo che eravamo fidanzati, e non mi ero resa conto che stesse rendendo pubblico il fatto che ci eravamo sposati. L’ardore nel suo sguardo si addolcì, trasformandosi in un lieve divertimento. «Questi sono i membri del consiglio di amministrazione della Fondazione Crossroads.» Lo stupore si trasformò in amore e gratitudine così in fretta che mi sentii girare la testa; lui mi
sosteneva, come faceva sempre, in ogni senso. In un momento in cui mi sentivo un po’ spaesata, mi offriva qualcos’altro. Mi presentò a tutti, quindi scostò una sedia per me. Il pranzo trascorse in un turbinio di cibo eccellente e conversazione appassionata. Fui felice di sentire che la mia idea di aggiungere la Crossroads al profilo di Gideon sul suo sito web aveva fatto aumentare le visite a quello della fondazione, e che le modifiche che avevo suggerito – e che erano state implementate – avevano avuto come effetto un numero maggiore
di offerte di aiuto. E adoravo che Gideon mi stesse vicinissimo, tenendomi la mano sotto il tavolo. Quando mi chiesero un contributo, scossi la testa. «Non sono qualificata per offrire alcunché di valido in questo momento. State già facendo un lavoro straordinario.» Cindy Bello, l’amministratore delegato, mi rivolse un gran sorriso. «Grazie, Eva.» «Mi piacerebbe partecipare alle riunioni del consiglio di amministrazione in qualità di osservatore e mettermi al passo. Se
non posso contribuire con qualche idea, spero di trovare un altro modo per dare una mano.» «Adesso che lo dici» esordì Lynn Feng, la vicepresidente operativa, «molti dei nostri beneficiari vogliono ringraziare la Crossroads per il sostegno. Organizzano pranzi e cene, che servono anche a raccogliere fondi. Sarebbero entusiasti se Gideon accettasse di partecipare per conto della fondazione, ma la maggior parte delle volte i suoi impegni non glielo permettono.» Mi appoggiai brevemente alla spalla di Gideon. «Volete che lo
convinca a essere più presente.» «In realtà» disse lei sorridendo «Gideon ha suggerito che potresti essere tu a gestire questa cosa. Stiamo parlando di rappresentare la fondazione.» Sbattei le palpebre. «Stai scherzando.» «Assolutamente no.» Guardai Gideon, che piegò la testa in segno di assenso. Cercai di abituarmi all’idea. «Non sono granché come premio di consolazione.» «Eva» disse Gideon in tono di disapprovazione. «Non sto facendo la modesta» mi
difesi. «Perché mai qualcuno vorrebbe sentirmi parlare? Tu sei un uomo affermato, brillante, e sei un oratore straordinario. Potrei starti a sentire tutto il giorno. Il tuo nome fa vendere i biglietti; offrire me al tuo posto è solo... un obbligo. È inutile.» «Hai finito?» chiese in tono misurato. Lo guardai socchiudendo gli occhi. «Pensa alle persone della tua vita e a come le hai aiutate.» “Me, per esempio.” Non lo disse, ma non era necessario. «Se ti ci metti d’impegno, potresti trasmettere un
messaggio potente.» «Se posso aggiungere una cosa,» intervenne Lynn «quando Gideon non può, ci va uno di noi.» Fece un gesto in direzione degli altri membri del consiglio. «La presenza di un esponente della famiglia Cross sarebbe una cosa meravigliosa. Nessuno rimarrebbe deluso.» “La famiglia Cross.” Inspirai bruscamente. Non sapevo se Geoffrey Cross si fosse lasciato dietro qualche altro membro della famiglia; però era innegabile che Gideon fosse il memento più in vista del famigerato padre. Mio marito non ricordava l’uomo
noto per essere un truffatore e un codardo. Quello che ricordava era un padre che l’aveva amato e tenuto per mano. Gideon aveva lavorato duramente e aveva ottenuto grandi risultati spinto dal bisogno di cambiare la percezione che la gente aveva del cognome Cross. Adesso anch’io portavo quel nome, e in futuro avremmo avuto dei bambini con quel nome. Avevo la stessa responsabilità di Gideon nel far sì che i nostri figli potessero essere orgogliosi del cognome che avrebbero avuto. Guardai Gideon.
Lui sostenne il mio sguardo, risoluto e concentrato. «In due posti nello stesso momento» mormorò. Sentii una stretta al cuore: era più di quello che mi aspettavo, e prima di quanto me lo aspettassi. Gideon aveva puntato dritto a qualcosa di personale, a qualcosa di intimo ed essenziale, qualcosa che significava moltissimo per me e a cui avrei potuto apporre il mio timbro. Aveva condotto la guerra per riscattare il proprio nome in totale solitudine, così come aveva dovuto combattere tutte le sue battaglie da solo. Il fatto che mi consentisse di
unirmi a lui era una dichiarazione d’amore straordinaria tanto quanto l’anello che portavo al dito. Gli strinsi la mano più forte, e cercai di dimostrargli con lo sguardo quanto fossi commossa. Si portò alle labbra le nostre mani intrecciate, dicendomi con gli occhi la stessa cosa: “Ti amo”. Arrivò il cameriere a portare via i piatti. «Ne parleremo» disse. Poi guardò gli altri: «Mi dispiace dovermene andare, ma mi aspetta una riunione. Potrei essere generoso e lasciarvi Eva, ma non lo farò».
Ci furono risate e sorrisi. Mi guardò: «Pronta?». «Dammi un minuto» mormorai, non vedendo l’ora di poterlo baciarlo come sentivo il bisogno di fare. Il lampo nei suoi occhi mi fece sospettare che sapesse esattamente a cosa stavo pensando. Lynn e Cindy si alzarono e insieme ci avviammo alla toilette delle donne. Mentre attraversavamo il ristorante cercai Arnoldo, senza riuscire a vederlo. La cosa non mi sorprese, dati i suoi impegni con
Food Network e altre apparizioni pubbliche. Per quanto volessi tentare di rimettere insieme quel rapporto, sapevo che con il tempo le cose si sarebbero sistemate. Alla fine Arnoldo avrebbe capito quanto amavo mio marito, rendendosi conto che proteggerlo ed essere tutto per lui erano la mia priorità assoluta. Gideon e io ci mettevamo reciprocamente alla prova, spingendoci l’un l’altro a cambiare e a crescere. Talvolta per ottenere o dimostrare qualcosa ci facevamo del male, cosa che preoccupava il dottor Petersen ma che per noi in
fondo funzionava; avremmo potuto perdonarci a vicenda qualunque cosa eccetto il tradimento. Era inevitabile che gli altri, soprattutto le persone più vicine, ci guardassero dall’esterno e si chiedessero come e perché funzionava, e se avrebbe continuato a funzionare. Non potevano capire – e non gliene facevo una colpa, visto che io per prima stavo solo iniziando a capirlo – che chiedevamo a noi stessi molto più di quanto chiedessimo all’altro, perché volevamo essere la versione migliore possibile di noi stessi, sufficientemente forti da essere ciò
di cui l’altro aveva bisogno. Andai in bagno, poi mi lavai le mani e indugiai un attimo davanti allo specchio per sistemarmi i capelli. Non sapevo bene come ci fosse riuscito, ma il taglio che Mario mi aveva fatto prendeva più volume ogni volta che ci passavo le mani. Colsi il sorriso di Cindy nello specchio e sentii una punta di imbarazzo, che svanì quando lei tirò fuori il rossetto. «Eva, quasi non ti riconoscevo. I tuoi capelli mi piacciono moltissimo.» Guardai nello specchio la persona che mi stava parlando. Per una
frazione di secondo pensai che fosse Corinne e mi balzò il cuore in gola, ma poi misi a fuoco la faccia. «Salve.» Mi girai a guardare la moglie di Ryan Landon. Quando l’avevo conosciuta, Angela aveva uno chignon che non lasciava intuire la lunghezza dei capelli. Adesso li portava sciolti, e la chioma nera liscia le arrivava a metà schiena. Era alta e snella, con gli occhi di uno spento grigio-blu. Aveva il viso più allungato di quello di Corinne e i lineamenti un po’ meno perfetti, ma era comunque uno schianto. Mi squadrò da capo a piedi con
tale noncuranza che quasi non me ne accorsi. Bel trucchetto, io non ne ero capace. Mi resi conto che i media non sarebbero stati gli unici a starmi addosso quando avrei occupato il mio posto nella nuova élite cittadina. Non ero pronta: le istruzioni e le regole di mia madre non mi sarebbero state di nessuna utilità, poco ma sicuro. Angela sorrise e si avvicinò al lavandino accanto al mio. «Mi fa piacere vederti.» «Anche a me.» Ora che sapevo della vendetta di Landon contro Gideon ero all’erta, ma non stavo più cercando di acquisire suo marito
come cliente. Eravamo alla pari; be’, quasi: mio marito era più giovane, più ricco e più sexy... e lei lo sapeva. Cindy e Lynn avevano finito e si avviarono verso l’uscita. Le seguii. «Mi stavo chiedendo...» esordì Angela. Mi fermai e la guardai con espressione interrogativa. Le altre due se ne andarono per lasciarci sole. «... se verrai alla sfilata della Grey Isles questa settimana. Il tuo amico – quello che vive con te – è il testimonial della loro ultima campagna, vero?»
Mi sforzai di rimanere imperturbabile: perché me lo chiedeva? Dove voleva arrivare? Non riuscivo a capirlo, perché aveva un’espressione franca e innocente, senza segno di malizia. Forse cercavo un secondo fine dove non esisteva; oppure semplicemente non ero brava a giocare al suo gioco quanto lei. Perché era ovvio che mi teneva d’occhio: non solo la mia relazione con Gideon, tutte le mie relazioni. Seguiva i pettegolezzi. Perché? «Non ho in programma di partecipare a nessuna delle sfilate della settimana della moda» risposi
cauta. Il suo sorriso svanì, ma le si illuminarono gli occhi, mettendomi ancora di più sul chi va là. «Che peccato. Pensavo che saremmo potute andare insieme.» Non capivo le sue intenzioni e la cosa mi stava facendo incazzare. Quando ci eravamo conosciute era sembrata simpatica, ma era rimasta in silenzio, lasciando che a parlare fossero il marito e il resto dello staff della LanCorp. Avrebbe detto senza mezzi termini che lei e suo marito mi odiavano? Né lei né Landon mi avevano in alcun modo lasciato intendere che ci fosse dell’animosità
verso Gideon, anche se non era certo qualcosa che sarebbe venuto fuori durante una riunione di lavoro. O magari non ne sapeva niente... Magari Landon si era tenuto per sé il suo desiderio di vendetta. «Non questa volta» risposi. Tenni deliberatamente una porta aperta perché mi sarebbe potuta servire. Forse era ignara e innocua come sembrava, oppure più subdola; in ogni caso, non avrei fatto amicizia con una donna il cui marito desiderava danneggiare Gideon, ma il detto “Tieni i nemici ancora più vicini” aveva un suo perché. Si asciugò in fretta le mani e si
avviò insieme a me verso l’uscita. «Magari un’altra volta.» Dopo la relativa tranquillità del bagno, il ristorante si rivelò pieno di chiasso e confusione, con il rumore delle voci e il tintinnare delle stoviglie d’argento che sovrastava la musica di sottofondo. Eravamo appena rientrate nella sala principale quando Ryan Landon si alzò dal suo séparé e ci si parò davanti. Nel locale non c’erano sistemazioni davvero scomode, ma quella dei Landon non era granché. Gideon sapeva che avrebbe pranzato al Tableau One? Non mi sarei stupita; in fin dei conti una
volta mio marito era riuscito a rintracciarmi tramite una carta di credito che avevo usato in uno dei suoi nightclub. Landon era alto, anche se non quanto Gideon: forse un metro e ottantatré, capelli castani ondulati e occhi del colore dell’ambra. Era un maschio alfa attraente, che sorrideva facilmente e aveva la risata pronta; quando l’avevo conosciuto l’avevo trovato affascinante e attento nei confronti della moglie. «Eva» mi salutò, lasciando scivolare lo sguardo alle mie spalle in direzione della moglie. «Che
piacevole sorpresa.» «Salve, Ryan.» Avrei voluto vedere l’occhiata che si erano scambiati; se erano in combutta contro di me, dovevo saperlo. «Stavo giusto parlando di te, prima. Ho sentito che hai lasciato la Waters, Field & Leaman.» I segnali di allarme che erano scattati in bagno si intensificarono. Non ero preparata a questi pericolosi giochetti; Gideon era in grado di affrontare chiunque – figuriamoci, dominava il campo –, ma io no. Mi ci volle un grosso sforzo per non girarmi a controllare se ci stesse osservando.
Ritrovandomi su un terreno sconosciuto, improvvisai. «Mi manca già, ma Gideon e io siamo affezionati a Mark.» «Sì, ho sentito parlare molto bene di lui.» «Sa fare il suo mestiere. È stato quando Mark lavorava alla campagna della vodka Kingsman che ho conosciuto Gideon.» Landon inarcò le sopracciglia. «Non lo immaginavo.» Sorrisi. «Siete in buone mani. Mark è il migliore. Sarei più triste di essermene andata se non sapessi che lavorerò ancora con lui.» Si ricompose visibilmente. «Be’...
abbiamo deciso di affidare il lavoro al team interno alla LanCorp. Hanno la sensazione di poter fare un lavoro superlativo, e visto che li ho assunti proprio per questo ho pensato che fosse meglio lasciarlo a loro.» «Non vedo l’ora di scoprire che cosa escogiteranno.» Feci un passo indietro. «È stato un piacere incontrarvi. Buon pranzo.» Mi salutarono e io tornai verso il mio tavolo, notando che Gideon era immerso nella conversazione con i membri del consiglio di amministrazione. Credevo che non si fosse accorto di me, ma lui si alzò
nel momento stesso in cui arrivai al tavolo senza neppure sollevare lo sguardo. Salutammo gli altri e uscimmo dal ristorante, con Gideon che mi teneva una mano alla base della schiena. Adoravo quando mi toccava così, la pressione ferma con cui mi guidava, possessivo. Angus aspettava accanto al marciapiede con la Bentley. C’erano anche i paparazzi, che colsero l’opportunità di scattarci un mucchio di foto. Fu un sollievo sedersi in macchina e ritrovarci in mezzo al traffico. «Eva.»
Il timbro roco della voce di Gideon mi fece accapponare la pelle. Lo guardai e vidi il fuoco nei suoi occhi, poi la sua mano fu sulla mia guancia e le sue labbra sulle mie. Boccheggiai, sorpresa dalla sua voglia improvvisa. Mi esplorò la bocca con la lingua, scatenando il bisogno di lui che mi ribolliva sempre nelle vene. «Sei bellissima» disse, mettendomi le mani tra i capelli. «Cambi in continuazione. Non so mai chi avrò da un giorno all’altro.» Scoppiai a ridere, abbandonandomi a lui e restituendo il bacio con tutta me stessa.
Adoravo la sensazione della sua bocca, l’espressione che gli addolciva i lineamenti severi quando si arrendeva a me, rendendolo ancora più splendido. «Bisogna che ti tenga sempre sul chi va là, asso.» Gideon mi fece sedere sulle sue gambe, mettendomi le mani dappertutto. «Ti voglio.» «Lo spero proprio» sussurrai, passandogli un dito sul labbro inferiore. «Sei legato a me per sempre.» «Non abbastanza.» Inclinò la testa e mi baciò di nuovo, tenendomi ferma per la nuca
mentre mi metteva la lingua in bocca con colpi decisi e veloci. Come scopare. Sentivo il tocco della sua lingua ovunque. Mi divincolai, dolorosamente consapevole di Angus. «Asso.» «Andiamo all’attico» ansimò, tentatore come il diavolo. Sentivo la sua erezione contro il sedere che mi stuzzicava con una promessa di sesso, peccato e piacere quasi insopportabile. «Hai una riunione» dissi con voce strozzata. «’Fanculo la riunione.» Soffocai un’altra risata e lo abbracciai, premendogli il naso
contro il corpo per respirare il suo profumo: buonissimo, come sempre. Gideon non usava colonia, era solo l’odore terso e primitivo della sua pelle, e una lieve traccia del suo sapone preferito. «Adoro il tuo odore» gli dissi dolcemente, sfregando la faccia contro di lui. Era caldo, il suo corpo era eccitante e muscoloso, pulsante di vita, energia e potenza. «Ha qualcosa di speciale, mi entra dentro. È una delle cose che mi dicono che sei mio.» Fece un grugnito. «Ce l’ho durissimo» disse, con la bocca sul mio orecchio. Mi mordicchiò il lobo,
punendomi per la sua lussuria con una piccola fitta di dolore. «Sono bagnatissima» sussurrai in risposta. «Mi hai resa così felice oggi.» Il suo petto si alzò in un respiro tremante, mentre le sue mani mi accarezzavano la schiena. «Bene.» Mi scostai, osservandolo mentre si ricomponeva. Perdeva il controllo così raramente; era eccitante essere in grado di fargli una cosa del genere. Ancora più eccitante era sapere che si sentiva così da quando ero arrivata e non aveva mostrato alcun segno esteriore agli altri; il suo autocontrollo era un
afrodisiaco potentissimo. Gli passai la punta delle dita sul volto stupendo. «Grazie. Non è abbastanza per quello che mi hai dato oggi, ma grazie.» Chiuse gli occhi, appoggiando la fronte alla mia. «Prego.» «Sono contenta che ti piacciano i miei capelli.» «Mi piace quando ti senti sicura di te e sexy.» Sfregai il naso contro il suo mentre l’amore che provavo per lui mi riempiva senza lasciare spazio a nient’altro. «E se per sentirmi così dovessi avere i capelli viola?» Incurvò le labbra in un sorriso.
«Allora mi scoperei una moglie con i capelli viola.» Mi mise una mano sul cuore... e già che c’era mi strizzò un seno. «Finché quello che c’è dentro rimane lo stesso, il resto è solo carta da regalo.» Pensai di dirgli che si stava avvicinando pericolosamente al romanticismo, ma decisi di tenermelo per me. «Hai visto i Landon?» chiesi invece. Gideon si scostò. «Ti hanno parlato.» Socchiusi gli occhi. «Sapevi che erano lì, vero?» «Non è stata una sorpresa.»
«Sei bravissimo a stare in guardia» mi lamentai. «Tutti voi maschi lo siete. Non sono riuscita a capire se Angela Landon volesse farmi passare un brutto quarto d’ora quando mi ha chiesto se andavo con lei alla sfilata della Grey Isles, oppure se fosse seria.» «Magari entrambe le cose. Che cosa le hai detto?» «Che non ci andrò.» Lo baciai, poi mi divincolai per tornare al mio posto; Gideon fece resistenza, ma poi mi lasciò andare. «Corinne avrebbe saputo come trattarla.» Sospirai. «Probabilmente anche Magdalene. Mia madre di sicuro.»
«Ti sei comportata bene. Che mi dici di Landon?» Strinsi le labbra. «Quanto è blindato il tuo accordo con Mark?» Mi lanciò un’occhiata interrogativa. «Cosa hai fatto?» «Ho menzionato il fatto che abbiamo un legame saldo con Mark, dato che tu e io ci siamo incontrati mentre lavoravate insieme. Ho detto che non vedo l’ora di lavorare con lui in futuro.» «Vuoi capire se Landon offrirà a Mark un lavoro.» «Sono curiosa di vedere quanto Landon si spingerà in là, sì. Non sono preoccupata riguardo a Mark.
È una persona leale, e anche se non conosce i particolari sa che la LanCorp c’entra in parte con le mie dimissioni. Inoltre, ha un legame diretto con il grande capo della Cross Industries, mentre alla LanCorp sarebbe solo un numero. Non è stupido.» Gideon si appoggiò al sedile. Se non l’avessi conosciuto così bene, avrei potuto pensare che si stesse solo mettendo comodo. «E vuoi capire se ti ho detto la verità sulle motivazioni di Landon.» «No.» Gli misi una mano sulla coscia, percependo la tensione. I suoi genitori lo avevano
abbandonato; sapevo che una parte di Gideon si aspettava sempre che chiunque altro avrebbe fatto lo stesso. «Ti credo. Ti ho creduto quando me l’hai detto. Le tue parole sono l’unica prova di cui ho bisogno.» Mi guardò per un pezzo, poi mi strinse la mano, con forza. «Grazie.» «Ma forse tu sentivi il bisogno di dimostrarmelo?» gli chiesi con dolcezza. «Hai scoperto che Landon aveva prenotato un tavolo e volevi presentarmi i membri del consiglio di amministrazione della Crossroads. Pranzare al Tableau
One ottiene due risultati se incontro Landon mentre sono lì, anche se per il verificarsi di questa eventualità molto era lasciato al caso.» «Non se era seduto vicino ai bagni.» «Avrei potuto non andare in bagno.» Gideon mi diede un’occhiata. «Non era una conclusione scontata» gli contestai. «Sei una donna» ribatté, come se quello rispondesse a tutto. Socchiusi gli occhi. «Ci sono volte che vorrei solo prenderti a sberle.» «Non posso fare a meno di avere
ragione.» «Stai evitando l’argomento.» Contrasse fugacemente le labbra. «Mi hai lasciato a causa sua. Avevo bisogno che lo vedessi di nuovo dopo quell’episodio.» «Le cose non stanno esattamente così, ma okay. Capisco cosa cercavi.» Un po’ contrariata, mi scostai dal viso le ciocche della mia nuova acconciatura. «Le loro intenzioni mi sfuggono, però. Lui è un po’ più facile da leggere della moglie, ma tutti e due sono bravissimi a fingere di essere sinceri. E sono una squadra.» «Tu e io siamo una squadra.»
«Ci stiamo arrivando. Devo imparare meglio a fare la mia parte.» «Non posso lamentarmi.» Sorrisi. «Non ho combinato casini, il che non equivale a fare un buon lavoro.» Mi sfiorò la guancia con le dita. «Non me ne importerebbe se tu avessi combinato casini, anche se sono sicuro che la tua definizione di casini sarebbe molto diversa dalla mia. Non me ne importerebbe se tu avessi i capelli viola o verdi o di qualunque altro colore, anche se direi che mi piacciono biondi. Sei tu quello che voglio.»
Girai la testa e gli baciai il palmo della mano. «Angela assomiglia a Corinne.» Sbottò in una risata stupita. «No, non le assomiglia.» «Oh, mio Dio, sono uguali! Cioè, non come due gemelle o roba del genere. Però i capelli e la struttura fisica.» Gideon scosse la testa. «No.» «Pensi che Landon abbia scelto una persona che assomiglia alla tua donna ideale?» «Penso che la tua immaginazione stia correndo troppo.» Mi mise un dito sulle labbra quando avrei voluto aggiungere qualcosa. «E se
anche fosse ha capito male, perciò la questione è puramente accademica.» Lo guardai arricciando il naso. La borsetta che avevo vicino alla coscia si mise a vibrare e io allungai la mano, tirando fuori il telefono. C’era un SMS di Raúl. “È al lavoro.” Guardai Gideon e scoprii che mi fissava. «Ho chiesto a Raúl di rintracciare Anne, oggi» gli dissi. Borbottò qualcosa a mezza voce. «Sei dannatamente cocciuta» scattò. «Come hai sottolineato, mi sento
sicura di me e sexy.» Gli soffiai un bacio. «È il giorno giusto per fare un salutino.» Alzò gli occhi verso lo specchietto retrovisore. Angus incontrò il suo sguardo e tra loro passò qualcosa. Dopodiché mio marito riportò su di me gli occhi blu. «Farai tutto quello che dice Angus. Se lui pensa che non sia una buona idea quando arriva il momento, tu rinunci. Intesi?» Mi ci volle un attimo per rispondere, perché mi ero aspettata più resistenza. «Okay.» «E stasera vieni all’attico per cena.»
«Quand’è che è diventata una contrattazione?» Si limitò a guardarmi, implacabile e risoluto. «Ho detto a Cary che l’avrei portato fuori a cena, asso. Sta facendo delle telefonate per me, mentre io sono qui. Sei il benvenuto sei vuoi unirti a noi.» «No, grazie. Passo più tardi.» «Ti comporterai bene?» Nei suoi occhi si accese un lampo di malizia. «Solo se lo fai tu.» Immaginai che, se riusciva a scherzarci sopra, stavamo facendo dei progressi. «Affare fatto.» Ci fermammo davanti al Crossfire
e Gideon si raddrizzò, preparandosi a scendere. Mentre Angus faceva il giro della macchina per aprire la portiera, Gideon mi diede un bacio deciso e possessivo. A differenza del bacio strappamutandine che mi aveva dato quando avevamo lasciato il Tableau One, questo fu più dolce, e completo. Quando si scostò ero senza fiato. Mi studiò per un attimo, poi annuì soddisfatto. «Chiamami sul cellulare non appena hai finito.» «E se sei...?» «Chiamami.» «Va bene.» Gideon scivolò fuori dalla Bentley
ed entrò nel Crossfire. Lo guardai finché scomparve, ricordando il primo giorno che ci eravamo incontrati. Io ero nell’atrio e lui era tornato indietro per me. Lo tenevo a mente, sapendo che era insensato sentirmi abbandonata, ma non era mai facile vederlo allontanarsi. Era uno dei miei numerosi difetti, qualcosa che avrei dovuto superare. Gli mandai un SMS: “Mi manchi già”. Rispose subito: “Ne sono felice, angelo mio”. Stavo ridendo quando Angus si sedette al volante. Mi guardò nello
specchietto retrovisore. «Dove andiamo?» «Dove lavora Anne Lucas.» «Potrebbe averne ancora per ore.» «Lo immaginavo. Ho delle cose da fare mentre aspetto. Se le finisco prima, riproveremo un’altra volta.» «D’accordo.» Mise in moto e partì. Chiamai Cary. «Ehi» rispose. «Com’è andato il pranzo?» «Bene.» Lo misi al corrente. «Movimentato» commentò quando ebbi finito. «Non posso dire
di aver capito la faccenda di Landon, ma del resto non capisco granché di quello che riguarda il tuo uomo. Esiste qualcuno che non è incazzato con lui?» «Io.» «Giusto, ma tu non te lo scopi.» «Cary, giuro che ti uccido.» Sentii la sua risatina bassa vibrare sulla linea. «Ho contattato Blaire. Dice che, se vuoi, può venire all’attico domani. Devi solo mandargli un SMS con l’orario e lui vedrà di organizzarsi.» «Perfetto. E Kristin?» «Ci stavo arrivando, piccola. È in ufficio tutto il giorno, perciò puoi
chiamarla quando vuoi. Oppure mandarle un’e-mail, se preferisci. È impaziente di parlarti.» «La chiamo. Hai pensato a dove andare a cena?» «Mi andrebbe la cucina asiatica. Cinese, giapponese, thailandese... qualcosa del genere.» «Bene, allora. Cucina asiatica sia.» Appoggiai la testa al sedile. «Grazie, Cary.» «Sono felice di dare una mano. Quando torni a casa?» «Non lo so di preciso. Ho da fare ancora una cosa, poi rientro.» «Ci vediamo più tardi.» Conclusi la telefonata mentre
Angus accostava l’auto al marciapiede. «Il suo ufficio è dall’altra parte della strada» spiegò, indicandomi l’edificio con la facciata di mattoni dal mio lato. Aveva diversi piani e un piccolo atrio curato visibile attraverso le porte a vetri. Lo osservai brevemente, immaginando Anne con un paziente, qualcuno che le rivelava i suoi segreti più intimi senza avere il minimo sentore di chi fosse realmente. Era così che funzionava: i professionisti della salute mentale di cui ci fidavamo conoscevano tutto di noi, mentre noi di loro
sapevamo solo il poco che era possibile intuire dalle foto sulla scrivania e dai diplomi appesi alle pareti. Feci scorrere i contatti, trovai il numero di Kristin e la chiamai in ufficio. La sua assistente me la passò subito. «Ciao, Eva. Eri sul mio elenco delle persone da chiamare, ma il tuo amico mi ha battuta sul tempo. Sono un po’ di giorni che cerco di contattarti, a dire la verità.» «Lo so, mi dispiace.» «Nessun problema. Ho visto le foto di te e Gideon in spiaggia. Non ti biasimo per non aver richiamato.
Adesso però dobbiamo vederci per definire alcuni dettagli.» «La data è il ventidue settembre.» Ci fu un momento di silenzio. «Okay. Wow.» Sussultai, consapevole che stavo chiedendo moltissimo con un preavviso così breve, e che arrivare in tempo non sarebbe stato affatto economico. «Ho deciso che mia madre ha ragione sulla tavolozza bianca, crema e oro, perciò andiamo avanti su questa strada. Mi piacerebbe anche un tocco di rosso; per esempio, avrò un bouquet neutro, ma indosserò
gioielli con i rubini.» «Ooh, fammi pensare. Magari copritavoli in damasco rosso sotto le tovaglie bianche...? Oppure sottopiatti in vetro di Murano sotto le stoviglie di cristallo... Ti proporrò qualche opzione.» Buttò fuori il fiato. «Devo assolutamente vedere il posto.» «Posso organizzare un volo. Quando potresti?» «Il prima possibile» disse spiccia Kristin. «Domani pomeriggio sono impegnata, ma la mattina potrebbe andare.» «Me ne occupo io e ti faccio avere i dettagli.»
«Li aspetto. Eva... hai il vestito?» «Ehm... no.» Scoppiò a ridere. Quando riprese a parlare, la tensione che avevo percepito era svanita. «Capisco benissimo la fretta con un uomo come il tuo, ma un po’ più di tempo servirebbe a far sì che tutto vada liscio e che tu abbia un giorno perfetto.» «Sarà perfetto a prescindere da quello che potrebbe andare storto.» Toccai l’anello con il pollice, traendo un po’ di conforto dalla sua presenza. «È il compleanno di Gideon.» «Però! Okay, allora. Ce la
faremo.» Sorrisi. «Grazie. Ci sentiamo presto.» Conclusi la telefonata e guardai l’edificio dall’altra parte della strada. Accanto c’era un piccolo caffè. Sarei andata a prendermi un latte macchiato dopo aver chiamato l’architetto. Mandai un SMS a Gideon. “Con chi dovrei parlare per far portare in aereo la wedding planner alla casa negli Outer Banks domani mattina?” Era un po’ strano fare quella domanda: chi avrebbe mai pensato che avrei avuto a disposizione dei jet privati? Non ero nemmeno
sicura che sarei riuscita ad abituarmi a usarli. Aspettai la risposta un minuto. Quando non arrivò, chiamai Blaire Ash. «Salve, Blaire» dissi quando rispose. «Sono Eva Tramell, la fidanzata di Gideon Cross.» «Eva. Ovviamente so chi è lei.» Il tono di voce era caldo e amichevole. «Mi fa piacere sentirla.» «Mi piacerebbe vedere insieme a lei alcuni dettagli del progetto. Cary mi ha detto che sarebbe disponibile domani.» «Certo. A che ora le va bene?»
Pensando alla puntata negli Outer Banks con Kristin, risposi: «Nel pomeriggio potrebbe andare? Verso le sei?». Gideon sarebbe stato dal dottor Petersen almeno fino alle sette, poi doveva fare la strada per tornare a casa, il che mi concedeva tempo sufficiente per apportare alcuni cambiamenti al progetto. «Per me va bene» concordò Ash. «Ci vediamo all’attico?» «Sì, ci vediamo lì. Grazie. Arrivederci.» Nell’istante in cui conclusi la telefonata, sentii vibrare lo smartphone. Guardai lo schermo e
vidi la risposta di Gideon: “Se ne sta occupando Scott”. Mi morsicai il labbro inferiore, seccata per non aver pensato subito a quella soluzione. “Lo chiederò a lui la prossima volta. Grazie! :)” Feci un respiro profondo, pensando che avrei dovuto contattare la madre di Gideon, Elizabeth. Dal telefono di Angus arrivò il suono di un messaggio. Lo prese in mano, poi si girò a guardarmi. «Sta scendendo con l’ascensore.» «Oh!» Lo stupore si trasformò in perplessità: come faceva a saperlo? Lanciai un’altra occhiata al palazzo.
Era di Gideon anche quello? Come era suo l’edificio in cui lavorava il marito? «Ecco, ragazza mia.» Angus allungò una mano verso di me mostrandomi un dischetto nero delle dimensioni di un quarto di dollaro ma tre volte più spesso. «Un lato è adesivo. Lo nasconda sotto il vestito.» Misi il telefono nella borsa e presi il dischetto, fissandolo. «Che cos’è? Un microfono?» «O quello, oppure vengo con lei.» Mi fece un sorriso di scuse. «Non è lei a preoccuparmi, ma la Lucas.»
Dato che non avevo niente da nascondere, infilai il microfono nel reggiseno del vestito e saltai giù quando Angus aprì la portiera. Mi prese per un braccio e mi fece attraversare la strada in fretta. Mi strizzò l’occhio ed entrò nel caffè. Di colpo ero da sola sul marciapiede, in preda a una brutta crisi d’ansia... che passò un attimo dopo, quando Anne uscì dal palazzo. Indossava un aderente abito leopardato e Louboutin nere, una mise che unita ai capelli rossi corti in stile punk le dava un aspetto aggressivo ed energico.
Mi misi la pochette sottobraccio e mi incamminai verso di lei. «Che possibilità hai?» le chiesi avvicinandomi. Anne mi lanciò un’occhiata, con il braccio alzato per fermare un taxi. Per un attimo la sua faccia volpina rimase inespressiva, poi mi riconobbe. Lo shock valeva il prezzo del biglietto. Il braccio le ricadde lungo il fianco. La squadrai. «Dovresti lasciar perdere la parrucca che ti sei messa per Cary. I capelli corti ti si addicono di più.» Si riprese in fretta. «Eva. Sei carinissima. Gideon ti fa proprio
bene.» «Già, mi fa parecchio. Tutte le volte che può.» Adesso avevo la sua attenzione. «Non gli basta mai, a dire la verità. Non rimane niente per te, per cui suggerisco che ti trovi qualcun altro da molestare.» La sua espressione si indurì e mi resi conto di non avere mai visto prima il vero odio; persino nel caldo dell’estate newyorkese sentii un brivido gelato. «Sei così ingenua» si avvicinò «quando probabilmente si sta scopando qualcun’altra proprio in questo momento. Ecco chi è e cosa fa.»
«Tu non hai la più pallida idea di chi sia.» Odiai dover piegare indietro la testa per guardarla in faccia. «Non ho alcun timore nei suoi confronti. Tu invece dovresti aver paura di me, perché se ti avvicini di nuovo a Cary dovrai vedertela con la sottoscritta. E non sarà piacevole.» Mi voltai e mi allontanai. Avevo fatto quello per cui ero venuta. «È un mostro» mi gridò dietro. «Te l’ha detto che è in terapia fin da quando era bambino?» Mi bloccai, girandomi verso di lei. Sorrise. «È difettoso fin dalla nascita. È malato e perverso in
modi che non ti ha ancora rivelato. Pensa di poterlo tenere nascosto alla ragazza carina che sembra uscita da una favola. La bella e la bestia per il pubblico. Una maschera scaltra, ma non reggerà. Non può reprimere la sua vera natura a lungo.» Mio Dio... Sapeva di Hugh? Come poteva essere al corrente che Gideon era stato vittima delle perversioni del fratello e fare comunque sesso con lui? Quel pensiero mi diede la nausea e sentii la bile salirmi in gola. La sua risata mi colpì come una raffica di schegge di vetro. «Gideon
è malvagio e crudele fino al midollo. Ti spezzerà prima di aver finito con te. Se non ti uccide prima.» Raddrizzai la schiena, stringendo i pugni. Ero così arrabbiata che tremavo, lottando contro l’impulso di tirarle un pugno su quel ghigno pieno di disgustoso compiacimento. «Chi credi che sposino i mostri, stupida troia?» Tornai verso di lei. «Ragazzine fragili? O altri mostri?» Mi avvicinai alla sua faccia. «Hai ragione sulla favola. Solo che Gideon è la bella, la bestia sono io.»
6
“Pensi che Gideon faccia paura? Aspetta di vedere me.” Sedetti immobile come una pietra per un minuto buono, con la voce di Eva che mi riecheggiava nelle orecchie quando la registrazione terminò. Alzai gli occhi dalla scrivania e guardai Angus. «Mio Dio.» Avevamo cercato qualunque
documentazione Hugh potesse avere tenuto su di me. Non trovando nulla, avevamo supposto che non esistessero fascicoli: perché documentare i tuoi crimini? «Cercherò ancora» disse Angus a bassa voce. «A casa sua e nel suo studio. Nello studio del marito. Ovunque. Li troverò.» Annuii, allontanandomi dalla scrivania. Feci un respiro profondo e lottai contro un’ondata di nausea. Non c’era niente che potessi fare se non aspettare. Mi avvicinai alla finestra più vicina e guardai l’edificio che ospitava gli uffici della LanCorp.
«Eva l’ha gestita bene» disse Angus alle mie spalle. «Le ha messo una paura maledetta. Gliel’ho visto in faccia.» Avevo rifiutato di guardare il video della sicurezza, preferendo ascoltare l’audio del loro incontro, ma era sufficiente. Conoscevo mia moglie, la sua voce e le sue inflessioni. Conoscevo il suo caratterino. E sapevo anche che niente la faceva esplodere più rapidamente o più rabbiosamente come quando si lanciava in mia difesa. Nel breve periodo da quando stavamo insieme, Eva aveva
sostenuto scontri diretti con Corinne a casa sua, con mia madre in più di un’occasione, con Terrence Lucas nel suo studio e adesso con sua moglie. Sapevo che sentiva di doverlo fare, ragion per cui mi ero costretto a stare un passo indietro e a permetterle di agire a modo suo. Non avevo bisogno di essere difeso: ero perfettamente in grado di badare a me stesso, come avevo sempre fatto. Però era una bella sensazione sapere di non essere più solo; meglio ancora era sapere che Eva poteva sembrare minacciosa e spaventare. «È una tigre.» Mi girai a
guardarlo. «Mi sono conquistato anch’io un paio di medaglie contro i suoi artigli.» La postura rigida e tesa di Angus si rilassò leggermente. «Starà al tuo fianco.» «Se il mio passato diventa pubblico? Sì, lo farà.» Mentre dicevo quelle parole mi resi conto di quanto fossero vere. C’erano state volte nel nostro rapporto in cui non ero stato sicuro di riuscire a tener testa a Eva. Amavo mia moglie e non avevo dubbi che mi amasse altrettanto profondamente, ma per quanto fosse perfetta per me, aveva i suoi
difetti. Era troppo spesso insicura. Credeva, talvolta, di non essere abbastanza forte per affrontare certe situazioni. E quando aveva l’impressione che la sua indipendenza e la sua tranquillità fossero minacciate, scappava. Guardai la sua foto che tenevo sulla scrivania. Le cose erano cambiate, e solo di recente. Mi aveva portato al limite, sottraendomi l’unica cosa senza cui non potevo vivere: lei. Ero saltato nell’abisso con riluttanza, costretto a farlo per riaverla. Risultato: non considerava più il nostro matrimonio un lei e me, ma un noi.
Il mio risentimento iniziale era svanito; in ogni caso, l’avrei rifatto purché rimanesse con me, ma adesso l’avrei fatto senza bisogno di spinte. «Adora che io riesca a prendermi cura di lei, a tenerla al sicuro» dissi, rivolto soprattutto a me stesso. «Ma se io perdessi tutto, lei rimarrebbe. È me che vuole, per quanto io sia incasinato.» Il denaro... l’immagine pubblica... non erano importanti per Eva. «Lei non è incasinato, ragazzo mio. Troppo bello per il suo bene, questo sì.» Angus fece una smorfia beffarda. «E ha fatto alcune scelte
discutibili in materia di ragazze, ma chi non le ha fatte? Difficile dire di no quando sei arrapato e quelle alzano la gonna.» Divertito dai suoi commenti senza peli sulla lingua, scacciai il pensiero di Anne Lucas; preoccuparmi non mi avrebbe portato da nessuna parte. Angus avrebbe fatto quello che era bravissimo a fare. Io mi sarei concentrato su mia moglie e sulla nostra vita com’era ora. «Dov’è Eva adesso?» gli chiesi. «Raúl la sta portando alla palestra di Parker a Brooklyn.» Annuii, consapevole che Eva
doveva sfogare un po’ di tensione. «Grazie, Angus.» Se ne andò e io tornai alla scrivania per rimettermi in pari con il lavoro. Per riuscire a incastrare il pranzo con Eva e i membri della Crossroads avevo dovuto rimandare un po’ di cose e adesso mi toccava recuperare. Lo smartphone si mise a ronzare, vibrando sul vetro fumé della scrivania. Gli lanciai un’occhiata, sperando di vedere la faccia di Eva sullo schermo e ritrovandomi invece a guardare quella di Ireland, mia sorella. Subito prima di rispondere avvertii la consueta punta di
disagio, che talvolta si mescolava a un lieve panico. Non riuscivo a capire come far parte della vita di un’adolescente avrebbe potuto avere alcunché di positivo, ma per qualche ragione Eva lo riteneva importante, e quindi facevo lo sforzo per lei. «Ireland. A cosa devo il piacere?» «Gideon.» Singhiozzò violentemente, la voce soffocata dalle lacrime. Mi irrigidii all’istante, mentre un brivido di rabbia mi percorreva la spina dorsale. «Cosa c’è che non va?»
«Sono t-tornata da scuola e c’era il papà che mi aspettava. Stanno divorziando.» Sprofondai nella sedia. La rabbia si dissolse. Prima che potessi dire qualcosa, lei continuò di getto. «Non capisco!» Piangeva. «Un paio di settimane fa andava tutto bene. Poi hanno iniziato a litigare in continuazione e il papà si è trasferito in albergo. È successo qualcosa ma nessuno dei due vuole dirmi cosa! La mamma non fa che piangere. Il papà no, ma ha sempre gli occhi rossi.» Sentii un nodo allo stomaco e il
mio respiro si fece più rapido. Chris lo sapeva: di me e Hugh, delle bugie di Terrence Lucas per coprire il crimine del cognato, del fatto che mia madre si era rifiutata di credermi, di combattere per me, di salvarmi. «Ireland...» «Pensi che lui abbia una storia? È stato lui a provocare tutto questo. La mamma dice che è confuso, che tornerà, ma io non ci credo. Si comporta come se avesse già deciso. Potresti parlargli?» Strinsi convulsamente il telefono. «Per dirgli cosa?» “Ciao, Chris. Scusa se sono stato
violentato e tua moglie non è riuscita ad affrontarlo. Peccato per il divorzio. Non c’è nessuna possibilità che tu riesca perdonarla e possiate vivere per sempre felici e contenti?” Il solo pensiero che Chris andasse avanti con la sua vita, con sua moglie, come se niente fosse successo, mi riempiva di rabbia. Qualcuno sapeva. A qualcuno importava. Qualcuno non poteva sopportarlo più di quanto potessi sopportarlo io. Non avrei cambiato questo fatto neanche se avessi potuto. Un frammento piccolo e freddo dentro di me godette della resa dei
conti. Finalmente. «Dev’esserci qualcosa, Gideon! Le persone non passano da follemente innamorate al divorzio in meno di un mese!» Dio santo. Mi sfregai la nuca, in preda a un feroce mal di testa. «Forse la terapia.» Una risata aspra e amara mi bruciò in gola, muta. Un terapeuta aveva dato inizio a tutto questo. Che ironia del cazzo consigliare di vederne un altro per sistemare le cose. Ireland tirò su con il naso. «La mamma ha detto che il papà l’ha suggerito, ma lei non vuole
andarci.» Mi scappò una risatina triste. Che cosa avrebbe detto il dottor Petersen se avesse potuto guardare dentro la sua mente? Ne avrebbe avuto compassione? Avrebbe provato disgusto? Rabbia? Forse non avrebbe provato un bel niente. Non ero diverso da tutti gli altri bambini molestati, e lei non era diversa da qualunque altra donna debole ed egocentrica. «Mi dispiace, Ireland.» Più di quanto sarei mai riuscito a dirle. Cosa avrebbe pensato di me se avesse saputo che era tutta colpa mia? Magari anche lei mi avrebbe
odiato, come nostro fratello Christopher. A quel pensiero sentii una stretta al petto. Christopher non mi sopportava, ma voleva bene a Ireland ed era coinvolto nel rapporto tra i suoi genitori. Io ero un estraneo, lo ero sempre stato. «Hai parlato con Christopher?» «Sta male quanto la mamma. Cioè, io sto da schifo, ma loro due... Non li ho mai visti così sconvolti.» Mi alzai, troppo irrequieto per stare seduto. “Cosa devo fare, Eva? Cosa posso dire? Perché non sei qui quando ho bisogno di te?”
«Tuo padre non ha una storia» dissi, offrendole tutta la consolazione che potevo. «Non è il tipo.» «E allora perché ha chiesto il divorzio?» Espirai con forza. «Perché la gente mette fine a un matrimonio? Perché non funziona.» «Dopo tutti questi anni, decide che non è felice e basta? Se ne va?» «Ha proposto la terapia e lei ha detto di no.» «Perciò è colpa della mamma se all’improvviso lui ha un problema con lei?»
La voce era quella di Ireland, ma le parole erano di mia madre. «Se stai cercando qualcuno da incolpare, non contare su di me.» «Non te ne importa se stanno insieme. Probabilmente pensi che sia stupido essere così sconvolta alla mia età.» «Questo non è vero. Hai ogni diritto di essere turbata.» Lanciai un’occhiata verso la porta del mio ufficio, dove era comparso Scott, e gli feci un cenno di assenso con la testa quando lui batté le dita sull’orologio che portava al polso. Tornò alla sua scrivania. «Allora aiutali, Gideon!»
«Accidenti, non so proprio perché pensi che possa fare qualcosa.» Ricominciò a piangere. Imprecai tra me e me, odiando sentirla soffrire così, consapevole che ne ero in parte responsabile. «Tesoro...» «Puoi cercare almeno di farli ragionare?» Chiusi gli occhi. Ero io il dannato problema, il che rendeva impossibile che fossi io la soluzione. Ma non potevo dirlo. «Li chiamerò.» «Grazie.» Tirò sul con il naso. «Ti voglio bene.» Gemetti debolmente, vacillando sotto il colpo delle sue parole.
Riagganciò prima che potessi ritrovare la voce, lasciandomi con la sensazione di aver perso un’opportunità. Rimisi il telefono sulla scrivania, lottando contro l’impulso di scagliarlo dall’altra parte della stanza. Scott aprì la porta e mise dentro la testa. «La aspettano tutti in sala conferenze.» «Arrivo.» «E Mr Vidal vorrebbe essere richiamato, quando può.» Annuii seccamente, irritato all’udire il nome del mio patrigno. «Lo farò.»
Erano quasi le nove quando Raúl mi mandò un SMS dicendo che Eva stava tornando all’attico. Uscii dal mio studio di casa e le andai incontro nell’atrio, inarcando le sopracciglia stupito quando lei uscì dall’ascensore reggendo una grossa scatola con entrambe le mani. Raúl era dietro di lei con un borsone. Mi fece un gran sorriso quando le presi la scatola. «Ho portato un po’ di roba per invadere il tuo spazio.» «Invadimi sempre» le dissi, conquistato dalla luce maliziosa dei suoi occhi. Raúl depositò il borsone sul pavimento del salotto e sgusciò via
in silenzio, lasciandoci soli. Seguii Eva con lo sguardo, guardando i jeans scuri che sottolineavano le sue curve e la morbida camicetta di seta che portava infilata nei pantaloni. Indossava scarpe senza tacco, il che significava che era trenta centimetri più bassa di me scalzo. I capelli le ricadevano sulle spalle incorniciandole il viso senza trucco. Gettò la borsetta sulla poltrona più vicina all’ingresso. Mentre si toglieva le scarpe accanto al tavolino mi guardò, percorrendo con gli occhi il mio petto nudo e i pantaloni del pigiama di seta nera.
«Hai detto che ti saresti comportato bene, asso.» «Be’, considerando che non ti ho ancora baciata, penso che mi sto comportando più che bene.» Mi diressi verso il tavolo da pranzo e appoggiai la scatola, guardando dentro e scoprendo una serie di foto incorniciate avvolte nella plastica a bolle. «Com’era la cena?» «Ottima. Vorrei che Tatiana non fosse rimasta incinta, ma credo che questa cosa serva a Cary per riflettere e crescere un po’. È una buona cosa.» Sapevo benissimo che era meglio non fare commenti, per cui mi
limitai ad annuire. «Apro una bottiglia di vino?» Il suo sorriso illuminò la stanza. «Sarebbe magnifico.» Quando tornai in salotto qualche minuto dopo, vidi la mensola del caminetto decorata da una collezione di fotografie. C’era il collage che le avevo dato da tenere al lavoro, con immagini di noi due. C’erano anche ritratti di Cary, Monica, Stanton, Victor e Ireland. E una foto incorniciata di me e mio padre sulla spiaggia tanti anni prima, quella che le avevo dato quando avevamo firmato il contratto per la casa sulla spiaggia
negli Outer Banks. Sorseggiai il vino, osservando il cambiamento. Nel salone non c’erano altri oggetti personali, per cui quella modifica era... impressionante. Aveva scelto cornici di vetro a mosaico dai colori vivaci, che scintillavano e attiravano lo sguardo. «Il tuo istinto di conservazione da scapolo sta già mandando segnali d’allarme?» scherzò Eva, prendendo il bicchiere che le porgevo. Le lanciai un’occhiata divertita. «È troppo tardi per farmi fuggire in preda al terrore.»
«Sei sicuro? Ho appena cominciato.» «Era ora.» «Okay, allora.» Si strinse nelle spalle, poi bevve un sorso del pinot nero che avevo scelto. «Stavo pensando di calmarti con un pompino, se avessi iniziato a dare fuori di matto.» Sentii il cazzo diventare duro e grosso. «Adesso che me lo dici... comincio a sudare freddo...» Una palla di pelo schizzò fuori da sotto il tavolino, facendomi sobbalzare con tale violenza che per poco non versai il vino rosso sul tappeto Aubusson. «Che cavolo è
quello?» La palla si allungò trasformandosi in un cucciolo non più grande del mio piede. Si diresse verso di me barcollando incerto sulle zampe. Era perlopiù nero e marrone chiaro, con la pancia bianca ed enormi orecchie che ricadevano attorno a un musetto illuminato di gioia ed eccitazione. «È tuo» disse mia moglie con una risata nella voce. «Non è delizioso?» Senza parole, osservai il cagnolino avvicinarsi ai miei piedi e iniziare a leccarmi le dita. «Uuh, gli piaci.» Appoggiò il
bicchiere sul tavolino e si mise in ginocchio, allungando una mano per accarezzare la testa serica del cucciolo. Sbalordito, mi guardai attorno e notai una cosa che mi era sfuggita. Il borsone che aveva portato Raúl aveva una retina di ventilazione sulla sommità e sui lati. «Oh, mio Dio. Dovresti vedere la tua faccia!» Eva scoppiò a ridere e prese in braccio il cane, poi si mise in piedi. Mi tolse il bicchiere, passandomi il cucciolo. Non avendo scelta, presi la palla di pelo che si dimenava e tirai indietro la testa quando iniziò a
leccarmi furiosamente la faccia. «Non posso avere un cucciolo.» «Certo che puoi.» «Non voglio avere un cucciolo.» «Sì che lo vuoi.» «Eva... No.» Con in mano il mio bicchiere, si diresse al divano e si sedette, piegando le gambe sotto di sé. «Adesso l’attico non sembrerà così vuoto finché non mi trasferisco.» La fissai. «Non mi serve un cane. Ho bisogno di mia moglie.» «Adesso ce li hai tutti e due.» Bevve dal mio bicchiere e si passò la lingua sulle labbra. «Come vuoi chiamarlo?»
«Non posso tenere un cucciolo» ripetei. Eva mi guardò tranquilla. «È un regalo di anniversario da parte di tua moglie, devi accettarlo.» «Anniversario?» «Siamo sposati da un mese.» Si appoggiò allo schienale del divano e mi lanciò il suo sguardo da “scopami”. «Stavo pensando che potremmo andare alla casa sulla spiaggia e festeggiare.» Mi sistemai meglio tra le braccia il cucciolo, che continuava a dimenarsi. «Festeggiare cosa?» «Libero accesso.» Mi venne duro all’istante, una
cosa che lei non mancò di notare. Le si incupirono gli occhi mentre accarezzava la mia erezione che premeva contro i pantaloni. «Sto morendo, Gideon» ansimò, il viso arrossato. «Volevo aspettare, ma non ci riesco. Ho bisogno di te. Ed è il nostro anniversario. Se non possiamo fare l’amore in questa occasione e stare solo io, te e quello che abbiamo – senza stronzate –, allora non potremo farlo mai, e non credo che questo sia vero.» La fissai. Fece un sorrisetto ironico. «Qualunque cosa voglia dire.»
Il cucciolo mi leccava la faccia con entusiasmo e io non ci feci quasi caso, concentrato com’ero su mia moglie. Riusciva sempre a sorprendermi, nel senso migliore della parola. «Lucky.» Inclinò la testa. «Cosa?» «Il nome. Si chiama Lucky.» Eva scoppiò a ridere. «Sei un demonio, asso.» Quando Eva se ne andò a casa, avevo trasportini per cani nella mia camera da letto e nello studio, e ciotole decorate per l’acqua e il cibo in cucina. Nella dispensa c’era un contenitore di plastica ermetico con
del cibo per cuccioli e cucce imbottite erano disseminate per tutto l’attico. C’era persino un quadrato di erba finta su cui in teoria Lucky avrebbe dovuto fare pipì... quando non la faceva sui miei costosissimi tappeti, com’era successo poco prima. Tutta quella roba, compresi biscottini, giocattoli e smacchiatori per gli eventuali incidenti di percorso, era stata lasciata nell’atrio fuori dall’ascensore, un chiaro segno del fatto che mia moglie aveva coinvolto Raúl e Angus nel suo piano per appiopparmi un cucciolo.
Fissai il cane, che sedeva ai miei piedi guardandomi con i dolci occhi marroni pieni di qualcosa che assomigliava all’adorazione. «Cosa cavolo dovrei farci con un cane?» Lucky agitò la coda con un tale entusiasmo da dimenare tutto il didietro. Quando avevo fatto la stessa domanda a Eva, lei mi aveva esposto il suo piano: Lucky sarebbe venuto con me al lavoro e poi Angus l’avrebbe lasciato in un asilo per cani – ignoravo che esistesse un posto del genere – e l’avrebbe ripreso in tempo per tornare a casa insieme a me. La vera risposta era
scritta nel biglietto che mi aveva lasciato sul cuscino. Mio carissimo Tenebroso e Fatale, i cani sono eccellenti giudici del carattere. Sono sicura che il tuo delizioso beagle ti adorerà quasi quanto me, perché vedrà in te quello che vedo io: feroce senso di protezione, premura e fedeltà. Sei un maschio alfa nell’anima, perciò lui ti obbedirà quando io non lo faccio. (Sono certa che lo apprezzerai!) Con il tempo ti abituerai a essere amato incondizionatamente da lui e da me e da chiunque altro nella tua vita. Tua sempre e per sempre, Mrs X
Lucky si sedette e mi mise una zampa sulla gamba, guaendo piano. «Creaturina bisognosa, eh?» Lo presi in braccio e sopportai le inevitabili leccate sulla faccia. Odorava vagamente del profumo di Eva, così premetti il naso sulla sua pelliccia. Avere un animale domestico non era mai stato sulla mia lista dei desideri. D’altra parte, neanche avere una moglie, ed era la cosa migliore che mi fosse capitata. Allontanai Lucky dalla faccia e lo guardai con attenzione. Eva gli aveva messo un collare di cuoio
rosso con una medaglietta d’ottone incisa. “Buon anniversario.” Vicino c’era la data del nostro matrimonio, perciò non potevo darlo via. «Ci tocca rimanere insieme» gli dissi, al che lui si mise ad abbaiare e a dimenarsi ancora più freneticamente. «Potresti rimpiangerlo più di me.» Seduto da solo nella mia stanza, sento mia madre gridare. Il papà la supplica, poi si mette a urlare anche lui. Accendono il televisore prima di chiudere la porta della loro camera da letto, ma il volume non è abbastanza alto per coprire la lite.
Di recente non fanno che litigare. Prendo il telecomando della mia automobilina radiocomandata preferita e la mando a sbattere contro il muro, e poi ancora e ancora. Non aiuta. La mamma e il papà si amano. Si guardano a lungo negli occhi, sorridendo, come se non ci fosse nessun altro intorno a loro. Si toccano parecchio. Si tengono per mano, si baciano. Si baciano un sacco. È imbarazzante, ma meglio delle urla e dei pianti delle ultime due settimane. Persino il papà, sempre sorridente e con la risata pronta, è triste. Ha gli occhi rossi e
non si fa la barba da giorni. Sono terrorizzato che si separino, come hanno fatto i genitori del mio amico Kevin. Il sole tramonta lentamente, ma la lite non cessa. La voce della mamma si è fatta roca e gracchiante a furia di piangere. Vetri rotti. Qualcosa di pesante colpisce la parete, facendomi sobbalzare. L’ora di pranzo è passata da un po’ e mi brontola lo stomaco, ma non ho fame. Anzi, mi viene da vomitare. L’unica luce nella mia stanza proviene dal televisore, su cui passa un film noioso che non mi piace.
Sento la porta della camera dei miei aprirsi e poi chiudersi. Qualche minuto dopo, sento aprirsi e chiudersi anche la porta d’ingresso. Sul nostro appartamento scende un silenzio che mi fa sentire di nuovo male. Quando la porta della mia stanza finalmente si apre, la mamma si staglia come un’ombra con tutte le luci che le brillano intorno. Mi chiede perché sto seduto al buio, ma non le rispondo. Sono furioso con lei perché è così cattiva con il papà. Non è mai lui a cominciare le liti, è sempre lei. Su qualcosa che ha visto alla televisione o letto su
un giornale o sentito da amici. Parlano tutti male del papà, dicendo cose che io so non essere vere. Mio papà non è un bugiardo né un ladro. La mamma dovrebbe saperlo. Non dovrebbe stare a sentire altra gente che non gli vuole bene come gliene vogliamo noi. “Gideon.” La mamma accende la luce e io sussulto per la sorpresa. È più vecchia. Odora di latte rancido e talco. La mia stanza è diversa. I giocattoli non ci sono più. La moquette sotto i miei piedi adesso
è un tappeto steso su un pavimento di pietra. Ho le mani più grandi. Mi alzo in piedi e sono alto come lei. “Che c’è?” scatto, incrociando le braccia. “Devi smetterla.” Si asciuga le lacrime che le spuntano dagli occhi. “Non puoi continuare a comportarti in questo modo.” “Vattene.” Il malessere che provo si acuisce, facendomi sudare le mani finché non stringo i pugni. “Devi smetterla con le bugie! Adesso abbiamo una nuova vita, una vita felice. Chris è una brava persona.”
“Questo non ha niente a che fare con Chris” dico con rabbia, desiderando colpire qualcosa. Non avrei dovuto dire niente. Non so perché ho pensato che qualcuno mi avrebbe creduto. “Non puoi...” Mi sollevai di scatto, con il respiro affannoso, strattonando il lenzuolo. Ci volle un po’ prima che il martellare furioso del cuore rallentasse e riuscissi a focalizzarmi sull’abbaiare incessante che mi aveva svegliato. Mi passai le mani sulla faccia imprecando, poi sobbalzai quando
Lucky si arrampicò sul piumino e salì sul letto. Mi saltò addosso. «Cuccia, accidenti a te!» Uggiolò e mi si acciambellò in grembo, facendomi sentire uno stronzo. Lo presi e me lo strinsi contro il petto sudato. «Scusa» borbottai, accarezzandogli la testa. Chiusi gli occhi e mi appoggiai alla testiera del letto, cercando di far rallentare il battito. Mi ci vollero diversi minuti per riprendermi, e più o meno lo stesso tempo per rendermi conto che accarezzare Lucky mi calmava. Risi di me stesso, poi allungai la
mano verso il telefono sul comodino. L’ora – le due del mattino passate da poco – mi fece esitare, come pure il bisogno di essere forte, di gestire da solo i miei casini. Ma erano successe molte cose da quando avevo chiamato Eva la prima volta per parlarle di un incubo. Cose positive. «Ehi» rispose Eva, con la voce assonnata e sexy. «Stai bene?» «Meglio, adesso che sento la tua voce.» «Hai problemi con il cucciolo? O hai avuto un incubo? Magari sei arrapato?»
Sentii la calma scendere su di me. Ero pronto a mettermi sulla difensiva, mentre sembrava che lei volesse facilitarmi le cose. Un’altra ragione per sforzarmi di darle ciò che voleva, indipendentemente da quello che mi veniva istintivo; perché quando Eva era felice, lo ero anch’io. «Forse tutte e tre le cose insieme.» «Okay.» Sentii un fruscio di lenzuola. «Comincia dalla prima.» «Se chiudo lo sportello del trasportino con il chiavistello, Lucky fa un casino del diavolo e non mi lascia dormire.» Rise. «Hai il cuore tenero, e lui ti
ha preso le misure. L’hai messo nello studio?» «No. Abbaia e non riesco a dormire neanche così. Alla fine ho chiuso lo sportello del trasportino senza mettere il chiavistello e lui si è calmato.» «Non imparerà a fare i bisogni fuori se non lo abitui con la gabbia.» Abbassai lo sguardo sul beagle acciambellato sulle mie gambe. «Mi ha svegliato da un incubo. Penso che l’abbia fatto intenzionalmente.» Rimase zitta per un po’. «Raccontamelo.» Lo feci e lei ascoltò. «Aveva già
cercato di salire sul letto e non c’era riuscito» conclusi. «È troppo piccolo e il letto è troppo alto. Ma ce l’ha fatta ad arrampicarsi per svegliarmi.» La sentii espirare con forza. «Immagino che nemmeno lui riesca a dormire se tu fai rumore.» Mi ci volle un istante, poi scoppiai a ridere. L’angoscia lasciata dal sogno si sciolse come neve al sole. «Sento l’improvviso bisogno di averti sulle mie ginocchia per sculacciarti, angelo.» «Provaci, piccolo, e vedi cosa succede» ribatté divertita. Sapevo cosa sarebbe successo.
Era lei che non lo vedeva. Non ancora, almeno. «Tornando al tuo sogno...» mormorò «so di avertelo già detto, ma lo ripeto. Credo davvero che tu debba parlare di nuovo a tua madre di Hugh. So che sarà doloroso, ma penso che vada fatto.» «Non cambierà niente.» «Non puoi esserne certo.» «Sì, invece.» Mi mossi e Lucky fece un grugnito di protesta. «Non ho avuto occasione di dirtelo prima. Chris ha chiesto il divorzio.» «Cosa? Quando?» «Non lo so. Me l’ha detto oggi Ireland. Ho parlato con Chris dopo il
lavoro, ma si è limitato a ricapitolare gli accordi prematrimoniali e a farmi sapere che avrebbe fatto alcune concessioni in più. Non abbiamo discusso dei motivi per cui vuole mettere fine al matrimonio.» «Non pensi che sia perché ha scoperto di Hugh?» Sospirai, grato di poterne parlare con lei. «Penso che non possa essere del tutto una coincidenza.» «Wow.» Si schiarì la voce. «Mi sa che voglio davvero bene al tuo patrigno.» Non ero in grado di dire cosa provassi per Chris. Non lo sapevo.
«Quando penso a mia madre sconvolta per questo... riesco a immaginarmelo, Eva. Ci sono già passato.» «Lo so.» «Lo detesto. Odio vederla così. Mi fa male saperla in quello stato.» «Le vuoi bene. È giusto.» E amavo Eva, perché non giudicava, perché mi accettava incondizionatamente, il che mi diede il coraggio di dire: «Sono anche contento. Che razza di stronzo gode nel veder soffrire sua madre?». Ci fu un lungo silenzio. «Lei ti ha ferito. Ti ferisce ancora. È un istinto
naturale desiderare che anche lei soffra. Ma credo che tu sia contento di avere... un paladino, qualcuno che le dica che ti è successo davvero e che non va bene.» Chiusi gli occhi. Se avevo un paladino, si trattava di mia moglie. «Vuoi che venga lì?» Per poco non dissi di no. Dopo un incubo la mia routine prevedeva di fare una lunga doccia e immergermi nel lavoro; era quello che conoscevo, la strategia con cui lo affrontavo. Ma presto lei sarebbe venuta a vivere con me, condividendo la mia vita in un modo che mi era necessario ma per cui
non ero ancora del tutto preparato. Dovevo cominciare a farci l’abitudine. A parte la logistica, comunque, era quello che volevo in quel momento: vederla, respirare il suo odore, sentirla vicina. «Vengo a prenderti» le dissi. «Mi faccio una doccia veloce e ti mando un SMS prima di uscire.» «Okay, mi faccio trovare pronta. Ti amo, Gideon.» Feci un respiro profondo, assorbendo quelle parole. «Ti amo anch’io, angelo.» Mi svegliai di nuovo con il sole,
riposato nonostante le ore passate sveglio. Mentre mi stiravo sentii qualcosa di caldo e peloso muoversi accanto al braccio, poi una lingua amichevole leccarmi il bicipite. Aprii un occhio e guardai Lucky. «Riesci a tenerti quella cosa in bocca?» Eva rotolò sulla schiena e sorrise, ancora con gli occhi chiusi. «Non si può fargliene una colpa. Sei delizioso da leccare.» «Allora porta qui la tua, di lingua.» Girò la testa verso di me e aprì gli occhi. Aveva i capelli arruffati e le guance rosa.
Presi Lucky e lo strinsi a me mentre mi giravo su un fianco. Appoggiai la testa alla mano e mi godetti la visione di mia moglie insonnolita, felice per il solo fatto di iniziare la giornata nello stesso letto con lei. A dire la verità, non avrei dovuto correre il rischio. Eva non aveva visto lo stato delle mie lenzuola, perché le avevo cambiate prima di andare a prenderla, ma erano solo un piccolo esempio dei danni che potevo fare mentre dormivo. Né Lucky né mia moglie erano al sicuro vicino a me addormentato. Avevo sfidato la sorte solo perché non
avevo mai avuto più di un incubo per notte. E perché Eva mi mancava da morire. Non era l’unica a non poterne più. «Sono contenta che tu mi abbia telefonato» mormorò. Allungai una mano e le accarezzai la guancia con la punta delle dita. «Non è stato poi così male.» Si mosse leggermente e mi baciò la mano. Eva aveva visto il peggio che c’era in me e ogni volta mi amava di più. Avevo smesso di farmi domande: dovevo solo meritarmela,
e l’avrei fatto; avevo una vita davanti. «Non stai progettando altre imboscate ai nemici, oggi?» le chiesi. «No.» Si stirò, e l’occhio mi cadde sui seni pieni che premevano contro il cotone rigato della canottiera. «Ma sono preparata se qualcuno decide di fare un’imboscata a me.» Feci scendere Lucky dal letto e mi tirai Eva vicina, rotolando sopra di lei. Allargò istintivamente le gambe e io mi sistemai in mezzo, ruotando il bacino per sfregarle il pene sulla vagina.
Lei ansimò e mi prese per le spalle, spalancando gli occhi. «Non stavo parlando di te, asso.» «Non sono qualcuno?» Le nascosi la faccia nell’incavo del collo, strofinando il naso contro la sua pelle calda. Aveva un odore meraviglioso, delicato e dolce. Assolutamente sexy. Eccitato, mi sfregai di nuovo contro di lei, percependo il suo calore attraverso le mutandine e la seta del mio pigiama. Si abbandonò a me, arrendendosi nel modo che mi faceva morire. «No» sussurrò, gli occhi incupiti. Fece scivolare le mani in basso e
me le mise sul sedere, affondandomi le unghie nella carne, incitandomi. «Tu sei l’Uno. L’unico per me.» Per quanto fosse di forme generose e femminile, Eva era diventata più forte con il krav maga, e anche quello mi eccitava. Abbassai la testa, sfiorandole le labbra con le mie. Mi batteva forte il cuore mentre mi sforzavo di accettare ciò che lei significava per me. La sensazione che mi dava era fresca e nuova, ma non sarebbe mai appassita. Forse era per questo che avevo passato tutto quello che avevo
passato: per poterla apprezzare quando l’avessi trovata. Non l’avrei mai data per scontata. Una lingua che non era quella di mia moglie mi leccò un fianco, facendomi il solletico. Sobbalzai, imprecando, ed Eva scoppiò a ridere. Girai appena la testa e guardai male il piccolo delinquente, che saltellava tutto eccitato, la coda che si muoveva freneticamente. «Stammi a sentire, Lucky, non sei all’altezza del tuo nome.» Eva ridacchiò. «Ti sta aiutando a essere all’altezza della tua promessa di comportarti bene.»
Guardai male anche mia moglie, che mi teneva le unghie saldamente conficcate nel sedere. «Che aveva come condizione che anche tu ti comportassi bene.» Tolse le mani e le portò all’altezza della testa, agitando le dita. Ma lo sguardo era eccitato e le labbra erano schiuse per il respiro accelerato. Rabbrividì sotto di me, anche se la pelle era caldissima. Il suo desiderio alleviò il mio bisogno rabbioso, e il suo impegno ad aspettare, adesso che ne conoscevo la ragione, mi diede la forza di spostarmi. Separarmi da lei fu doloroso
fisicamente e il suo gemito soffocato riecheggiò dentro di me, riflettendo il mio. Mi lasciai cadere sulla schiena e fui immediatamente sottoposto a una pioggia di leccate, in puro stile Lucky. «Ti vuole proprio bene.» Eva si girò su un fianco e allungò una mano per grattare il cucciolo dietro le orecchie, e a quel punto per fortuna lui rivolse le sue attenzioni a lei. Le sue risate mentre Lucky procedeva a lavarle la faccia mi strapparono un sorriso nonostante il membro dolorante. Avrei potuto lamentarmi del maledetto cane, della mancanza di
sesso e sonno, e di molto altro. Ma davvero la mia vita era quasi perfetta quanto avrei voluto. Arrivato in ufficio, lavorai intensamente per tutta la mattina. Il lancio della nuova console GenTen era imminente e anche se le ipotesi si rincorrevano incontrollate, eravamo riusciti a mantenere segreta la componente di realtà virtuale. Benché fosse un aspetto sviluppato un po’ ovunque, la Cross Industries era avanti anni rispetto ai concorrenti. Sapevo ormai con certezza che il sistema PhazeOne della LanCorp era un
semplice aggiornamento, con l’ottica migliorata e più veloce; poteva competere con la generazione GenTen precedente, nient’altro. Poco prima di pranzo trovai il tempo di chiamare mia madre. «Gideon.» Fece un sospiro tremante. «Immagino che tu abbia saputo.» «Sì. Mi dispiace.» Capii che stava male. «Se hai bisogno di qualcosa, fammelo sapere.» «È Chris che all’improvviso si sente infelice nel nostro matrimonio» disse amaramente. «Ed è tutta colpa mia,
ovviamente.» Addolcii il tono, ma parlai con fermezza: «Non vorrei sembrarti insensibile, ma i dettagli non mi interessano. Come stai?». «Parlagli.» La preghiera era sentita. Le si spezzò la voce: «Digli che sta commettendo un errore». Mi chiesi come replicare. L’assistenza che avevo offerto era fiduciaria, non personale; non era rimasto nulla di personale nel rapporto con mia madre. Eppure mi ritrovai a dire: «So che non vuoi un consiglio, ma te lo do lo stesso: dovresti prendere in considerazione la terapia».
Ci fu un attimo di silenzio. «Non posso credere che proprio tu suggerisca una cosa del genere.» «Predico quello che pratico.» Lasciai correre lo sguardo sulla foto di mia moglie, come facevo spesso durante il giorno. «Eva ha suggerito una terapia di coppia poco dopo che abbiamo iniziato a uscire insieme. Voleva di più dalla nostra relazione e io volevo lei, così ho accettato. All’inizio lo facevo in maniera meccanica, ma adesso posso dire che è davvero utile.» «È stata lei a provocare tutto questo» sibilò mia madre. «Sei un uomo così intelligente, Gideon,
eppure non riesci a renderti conto di quello che sta facendo.» «E qui devo salutarti, mamma» ribattei, prima che mi facesse incazzare. «Chiama, se ti serve qualcosa.» Riagganciai, poi feci girare lentamente la sedia su cui ero seduto. La delusione e la rabbia che accompagnavano sempre le interazioni con mia madre erano lì, a ribollire sotto la superficie, ma ne ero più consapevole del solito. Forse perché l’avevo sognata da poco, rivivendo il momento in cui mi ero reso conto che non sarebbe tornata indietro, che stava
deliberatamente decidendo di non vedere per motivi che non avrei mai capito. L’avevo giustificata per anni. Per sentirmi un po’ meglio mi ero costruito decine di ragioni per il suo rifiuto di proteggermi, finché non mi ero reso conto che lei stava facendo la stessa cosa al contrario, inventandosi storie sul perché avevo mentito riguardo all’abuso, in modo da poter convivere con la sua decisione di fingere che non fosse mai successo. Così avevo smesso. Aveva fallito come madre, ma preferiva credere che a fallire fossi stato io come figlio.
Era andata così. Quando tornai di nuovo davanti alla scrivania, presi il telefono e chiamai mio fratello. «Che cosa vuoi?» rispose. Riuscivo a vedere la smorfia sulla sua faccia, una faccia molto diversa dalla mia. Dei tre figli di mia madre, solo Christopher somigliava più a suo padre che a nostra madre. La sua acredine ebbe il prevedibile effetto di farmi venire voglia di stuzzicarlo. «Il piacere di sentire la tua voce. Che altro?» «Dacci un taglio, Gideon. Hai chiamato per esultare? Il tuo desiderio più grande si è finalmente
avverato.» Mi appoggiai allo schienale della sedia e guardai il soffitto. «Ti direi che mi dispiace molto che i tuoi genitori stiano divorziando, ma non mi crederesti, perciò lascerò perdere. Invece ti dirò che ci sono, se hai bisogno di me.» «Va’ all’inferno.» Sbatté giù il telefono. Allontanai il ricevitore dall’orecchio e lo tenni sollevato un attimo. Contrariamente a quanto credeva, non l’avevo sempre detestato; c’era stato un tempo in cui gli avevo dato il benvenuto nella mia vita: per un breve periodo
avevo avuto un compagno, un fratello. L’animosità che provavo adesso se l’era meritata, ma comunque mi sarei occupato di lui facendo in modo che non inciampasse troppo malamente, che gli piacesse o no. Rimisi a posto la cornetta e mi rituffai nel lavoro. In fin dei conti, non avrei potuto far fronte a niente di urgente nel weekend: progettavo di essere del tutto irraggiungibile mentre ero con mia moglie. Studiai il dottor Petersen, che sedeva completamente a suo agio di fronte a me. Indossava un paio di
jeans scuri larghi e una camicia bianca, ed era rilassato come l’avevo sempre visto. Mi chiesi se fosse frutto di una decisione deliberata, nel tentativo di apparire il più innocuo possibile. Adesso conosceva il mio passato con i terapeuti, e capiva perché li trovassi sempre un po’ minacciosi. «Com’è andato il suo weekend a Westport?» «Eva l’ha chiamata?» In passato, quando voleva essere sicura che parlassi di qualcosa durante la terapia, lei informava il dottor Petersen in anticipo. Avevo brontolato e spesso non l’avevo
apprezzato, ma la sua motivazione era l’amore per me, e di quello non potevo lamentarmi. «No.» Il dottore sorrise in modo gentile, quasi affettuoso. «Ho visto le fotografie di lei ed Eva.» Rimasi stupito. «Non avrei detto che fosse il tipo che legge i tabloid.» «È mia moglie. Mi ha fatto vedere le foto perché pensava che fossero romantiche. Devo concordare con lei: sembravate molto felici.» «Lo siamo.» «Com’è andata con Eva e la sua famiglia?»
Mi appoggiai allo schienale del divano, mettendo la mano sul bracciolo. «Conosco Richard Stanton da molto tempo e Monica da qualche anno.» «Le conoscenze casuali e d’affari sono molto diverse dai suoceri.» Il suo intuito era irritante, ma decisi di essere sincero. «È stato... imbarazzante. Inutilmente imbarazzante, ma sono riuscito ad affrontare la cosa.» Il sorriso del dottor Petersen si allargò. «E come ha fatto?» «Mi sono concentrato su Eva.» «Quindi ha mantenuto le distanze dagli altri?»
«Non più del solito.» Prese degli appunti sul tablet. «È successo altro da quando ci siamo visti giovedì?» Feci una smorfia ironica. «Eva mi ha comprato un cane. Un cucciolo.» Alzò lo sguardo su di me. «Congratulazioni.» Mi strinsi nelle spalle. «Lei è entusiasta della faccenda.» «Il cane è suo, allora?» «No. Ha comprato tutta l’attrezzatura e me l’ha messo in braccio.» «È un bell’impegno.» «Starà benissimo. Gli animali sono autosufficienti.» Il dottor
Petersen aspettava con pazienza, per cui aggiunsi: «Il mio patrigno ha chiesto il divorzio». Lui piegò la testa, e mi osservò attentamente. «Siamo passati dai suoceri a un nuovo cane, alla dissoluzione del matrimonio dei suoi genitori nell’arco di pochi minuti. Sono cambiamenti enormi per una persona che lotta per trovare un equilibrio.» Stava affermando l’ovvio, perciò non feci commenti. «Sembra piuttosto tranquillo, Gideon. È perché le cose vanno bene con Eva?» «Eccezionalmente bene.» Sapevo
che il contrasto con la seduta della settimana precedente non poteva essere più stridente. Ero andato nel panico al pensiero di separarmi da Eva, terrorizzato dall’eventualità di poterla perdere. Riuscivo a ricordare le sensazioni con chiarezza angosciante, ma avevo difficoltà ad accettare la velocità con cui mi ero... tranquillizzato. Non riconoscevo quell’uomo disperato, non riuscivo a riconciliarlo con ciò che sapevo di me stesso. Annuì lentamente. «Le tre cose che ha menzionato, in che ordine di importanza le metterebbe?» «Dipende dalla sua definizione di
importanza.» «Abbastanza giusto. Quale ha avuto l’impatto maggiore, secondo lei?» «Il cane.» «Ha un nome?» Trattenni un sorriso. «Si chiama Lucky.» Lo annotò, chissà per quale motivo. «Prenderebbe un animale domestico per Eva?» La domanda mi colse di sorpresa e risposi senza pensarci troppo: «No». «Perché no?» Ci pensai su un minuto. «Come ha detto lei, è un impegno.»
«È risentito del fatto che le abbia imposto un impegno simile?» «No.» «Ha una foto di Lucky?» Aggrottai le sopracciglia. «No. Dove vuole arrivare?» «Non lo so ancora.» Mise da parte il tablet e mi guardò negli occhi. «Abbia pazienza un attimo.» «Okay.» «Prendere un animale domestico è una grossa responsabilità, simile a adottare un bambino. Dipende da noi per il cibo e il riparo, per la compagnia e l’affetto. Il cane più del gatto o di altri animali.» «Così mi hanno detto» dissi
asciutto. «Lei ha la famiglia d’origine e quella acquisita con il matrimonio, ma si tiene a distanza da entrambe. Le loro attività e i loro approcci non la influenzano in modo significativo perché lei non glielo permette. Portano scompiglio nell’ordine della sua vita, così li tiene a distanza di sicurezza.» «Non ci vedo niente di male. Non sono certo l’unico a dire che la famiglia è chi ti scegli.» «Lei chi ha scelto, a parte Eva?» «Non... è stata una scelta.» La immaginai com’era la prima volta che l’avevo vista. Vestita da
palestra, struccata, il corpo straordinario fasciato da una tuta aderente. Esattamente come migliaia di altre donne a Manhattan, ma lei mi aveva colpito come un fulmine senza nemmeno sapere che esistevo. «La mia preoccupazione è che sia diventata un meccanismo adattativo per lei» disse il dottor Petersen. «Ha trovato qualcuno che la ama e crede in lei, che la sostiene e le dà forza. Sotto molti aspetti, ha la sensazione che sia l’unica persona in grado di capirla.» «È in una posizione unica per farlo.»
«Non così unica» disse in tono gentile. «Ho letto le trascrizioni di alcuni dei suoi discorsi. Conosce le statistiche.» Sì, sapevo che una donna su quattro di quelle che avevo incontrato era stata esposta ad abusi sessuali. Questo non cambiava il fatto che nessuna di loro aveva suscitato i sentimenti di affinità che aveva suscitato Eva. «Se vuole dimostrarmi qualcosa, dottore, vorrei che arrivasse al punto.» «Voglio che lei sia conscio di una potenziale tendenza a isolarsi con Eva, escludendo chiunque altro. Le
ho chiesto se le avrebbe regalato un animale domestico perché non riesco a vederla a fare una cosa del genere. Sposterebbe il centro della sua attenzione lontano da lei, Gideon, anche se solo in minima parte, mentre la sua attenzione e il suo affetto sono concentrati interamente su Eva.» Tamburellai le dita sul bracciolo del divano. «Non è una cosa insolita per le persone sposate da poco.» «È insolita per lei.» Si protese in avanti. «Eva le ha detto perché le ha regalato Lucky?» Esitai, preferendo tenere per me una cosa tanto intima. «Vuole che
abbia più amore incondizionato.» Sorrise. «E sono sicuro che le farà molto piacere se lei ricambierà. Ha esercitato una grossa pressione per spingerla ad aprirsi con me e con lei. Più la cerchia intima di Eva si allarga, più lei è felice. Vuole che lei, Gideon, faccia parte di questa cerchia, non che ne escluda sua moglie.» Feci un respiro profondo, riempiendo i polmoni. Aveva ragione, per quanto odiassi ammetterlo. Il dottor Petersen si riappoggiò allo schienale della poltrona e riprese a scrivere sul tablet,
dandomi il tempo di assorbire quello che aveva detto. Gli chiesi una cosa che mi girava per la testa da un po’. «Quando le ho raccontato di Hugh...» Avevo tutta la sua attenzione. «Sì?» «Non è sembrato sorpreso.» «E vuole sapere perché.» Aveva uno sguardo gentile. «C’erano alcuni segnali. Potrei dire che l’ho dedotto, ma non sarebbe del tutto vero.» Sentii il mio telefono vibrare nella tasca ma lo ignorai, pur sapendo che solo un numero ristretto di persone potevano
bypassare la modalità di non disturbo che usavo durante gli incontri con il dottor Petersen. «Ho visto Eva poco dopo che si era trasferita a New York» proseguì. «Mi ha chiesto se era possibile che due persone con un passato di abusi avessero un rapporto significativo. Pochi giorni dopo lei, Gideon, mi ha contattata e mi ha chiesto se ero disponibile a vederla, oltre a incontrarvi come coppia.» Sentii il mio cuore accelerare i battiti. «Non glielo avevo ancora detto. L’ho fatto solo dopo un po’ che venivamo da lei.» Ma avevo gli incubi, quelli
veramente terrificanti che di recente si erano diradati. Il telefono vibrò di nuovo e lo tirai fuori. «Mi scusi.» Era Angus. “Sono fuori dalla porta dello studio” c’era scritto nel primo SMS. In questo: “È urgente”. Mi irrigidii. Angus non mi avrebbe disturbato senza una ragione più che buona. Mi alzai in piedi. «Devo andare via prima» dissi al dottor Petersen. Lui mise da parte il tablet e si alzò a sua volta. «Va tutto bene?» «Se non è così, sono sicuro che ne sentirà parlare giovedì.» Gli strinsi la mano in fretta e uscii dal
suo studio, passando per la reception vuota prima di imboccare il corridoio. Angus era lì, con un’espressione cupa. Non perse tempo: «La polizia è andata all’attico da Eva». Mi sentii gelare il sangue. Mi incamminai verso l’ascensore, con Angus alle calcagna. «Perché?» «Anne Lucas ha sporto una denuncia per molestie.»
7
Mentre versavo del caffè appena fatto in tre tazze mi tremavano le mani. Non sapevo se perché ero incazzata o perché avevo paura. Di sicuro provavo entrambi i sentimenti. Dato che ero la figlia di un poliziotto, capivo le regole non scritte seguite da chi lavorava al riparo del muro di silenzio delle forze dell’ordine. E dopo tutto
quello che io e Gideon avevamo passato con la morte di Nathan, adesso stavo doppiamente in guardia. Ma non erano i detective Graves e Michna del dipartimento di polizia di New York che volevano parlarmi. Non riuscivo a decidere se la cosa mi rendeva più ansiosa o meno. Loro erano il diavolo che conoscevo, per così dire. E anche se non mi sarei spinta tanto in là da definirla un’amica, la detective Shelley Graves aveva lasciato perdere il caso quando c’erano ancora domande senza risposta. Questa volta a presentarsi alla
porta erano stati gli agenti Peña e Williams. Ed era stata Anne Lucas a mettermeli alle costole. Quella fottuta stronza. Ero stata costretta ad abbreviare il mio appuntamento con Blaire Ash, sapendo che altrimenti avrebbe inevitabilmente incrociato gli agenti uscendo dall’ascensore privato. Non avevo avuto modo di preoccuparmi di cosa avrebbe pensato l’architetto, visto che avevo usato il poco tempo che mi rimaneva per chiamare Raúl e dirgli di rintracciare Arash Madani. Avrei voluto telefonare a Gideon, ma lui era dal
dottor Petersen e quello veniva prima di tutto. Potevo gestire la polizia. Conoscevo le regole fondamentali: avere un avvocato e parlare il minimo indispensabile, senza approfondire o fornire informazioni non richieste. Mentre appoggiavo le tazze su un vassoio, mi misi a cercare un contenitore per il latte. «Non deve disturbarsi, Miss Tramell» disse l’agente Peña mentre lui e la partner entravano in cucina tenendo il berretto sotto il braccio. Peña aveva un viso infantile che lo faceva sembrare più giovane di
quanto probabilmente era, ovvero – immaginavo – all’incirca mio coetaneo. Williams era una nera minuta e formosa, con uno sguardo penetrante da cui intuivo che avrebbe visto cose che io non avrei voluto vedesse. Avevo detto loro di aspettarmi in salotto e invece mi erano venuti dietro. La cosa mi fece sentire braccata, e sono sicura che l’intenzione fosse proprio quella. «Nessun disturbo.» Lasciai perdere la ricerca del contenitore e appoggiai il cartone del latte sul bancone. «E poi sto aspettando che arrivi il mio avvocato, perciò non ho
molto altro da fare nel frattempo.» L’agente Williams mi guardò freddamente, come chiedendosi perché sentissi il bisogno di un legale. Non dovevo giustificarmi, ma sapevo che non gli avrebbe fatto male sapere perché ero cauta. «Mio padre fa il poliziotto in California. Mi sbranerebbe se non seguissi i suoi consigli.» Presi la confezione dello zucchero che avevo tirato fuori dalla dispensa e la misi sul vassoio, che poi feci scivolare verso di loro. «In California dove?» chiese Peña, prendendo una tazza e
bevendo il caffè nero. «Oceanside.» «Nella zona di San Diego, giusto? Bel posto.» «Già.» Williams mise nel caffè un goccio di latte e un bel po’ di zucchero, versandolo direttamente dalla confezione. «Mr Cross è in casa?» «È in riunione.» Continuò a fissarmi mentre si portava la tazza alle labbra. «Chi era il tizio che usciva quando siamo arrivati?» Il tono di deliberata indifferenza mi disse che avevo fatto bene ad avvertire Arash. Non credetti
neanche per un attimo che la domanda fosse casuale. «Blaire Ash. È un architetto, si occupa di alcune ristrutturazioni che stiamo facendo.» «Lei abita qui?» chiese Peña. «Siamo passati da un appartamento nell’Upper West Side che ci avevano detto le apparteneva.» «Sto per traslocare.» Si protese sul bancone e si guardò intorno. «Bel posto.» «Lo penso anch’io.» Williams mi fissò negli occhi. «Esce con Gideon Cross da molto tempo?» «A dire la verità siamo sposati»
disse Gideon, comparendo sulla soglia. Peña si raddrizzò, deglutendo in fretta. Williams appoggiò la tazza di colpo, facendo schizzare fuori un po’ di caffè. Lo sguardo di Gideon si spostò su ciascuno di noi, poi si fermò su di me. Era perfetto, il vestito immacolato, la cravatta annodata in modo impeccabile, i capelli neri a incorniciargli il volto dalla bellezza selvaggia. Intorno alla bocca sensuale c’era un’ombra quasi impercettibile di barba. Quello e la lunghezza sexy dei capelli conferivano un che di pericoloso al
suo aspetto per il resto assolutamente civile. Neppure la presenza dei due poliziotti riuscì a frenare l’impeto di desiderio che mi percorse quando lo vidi. Lo guardai avvicinarsi, togliendosi la giacca come se la visita di due sbirri di New York venuti a interrogarmi fosse la cosa più naturale del mondo. Gettò la giacca sullo schienale di uno sgabello e mi venne accanto, prendendomi di mano la tazza di caffè e baciandomi su una tempia. «Gideon Cross» disse, porgendo la mano a entrambi i poliziotti. «E
questo è il nostro avvocato, Arash Madani.» Fu in quel momento che mi accorsi che Arash era entrato in cucina dietro mio marito. Neanche gli agenti sembravano averci fatto caso, concentrati com’erano su Gideon, al pari di me. Estremamente sicuro di sé, dotato di una bellezza scura e di un fascino tranquillo, Arash si fece avanti e prese in mano la situazione, presentandosi con un ampio sorriso. La differenza tra lui e Gideon era impressionante. Entrambi erano eleganti, belli e padroni di sé. Entrambi erano
educati. Ma Arash era un libro aperto, mentre Gideon era inaccessibile e remoto. Alzai lo sguardo verso mio marito, osservandolo bere dalla mia tazza. «Ti va del caffè nero?» Mi fece scivolare una mano lungo la schiena, fissando Arash e i due agenti. «Sarebbe perfetto.» «È un bene che lei sia qui, Mr Cross» disse Peña. «La dottoressa Lucas ha sporto denuncia anche contro di lei.» «Be’, è stato divertente» disse Arash un’ora più tardi, dopo aver accompagnato i due poliziotti
all’ascensore. Gideon gli lanciò un’occhiata mentre apriva con gesti calibrati una bottiglia di Malbec. «Se questa è la tua idea di divertimento, devi uscire di più.» «Avevo in mente di farlo stasera – con una bionda parecchio sexy, potrei aggiungere – finché non mi è arrivata la vostra telefonata.» Arash scostò dal bancone uno degli sgabelli e si sedette. Io raccolsi le tazze e le misi nel lavello. «Grazie, Arash.» «Non c’è di che.» «Scommetto che non metti piede troppo spesso in tribunale, ma la
prossima volta che ci vai voglio esserci. Sei fantastico.» Fece un gran sorriso. «Mi assicurerò di fartelo sapere.» «Non ringraziarlo perché fa il suo lavoro» borbottò Gideon. Versò il vino rosso scuro in tre bicchieri. «Lo sto ringraziando perché fa il suo lavoro bene» ribattei, ancora impressionata da come si era comportato Arash. L’avvocato era carismatico e disarmante, e umile quando gli faceva comodo. Metteva tutti a proprio agio, poi li lasciava parlare e pensava alla strategia di attacco migliore. Gideon mi lanciò un’occhiataccia.
«Perché cavolo pensi che lo paghi così tanto? Per fare casino?» «Vacci piano, asso» dissi con calma. «Non lasciarti coinvolgere da quella stronza. E non usare quel tono con me. Né con il tuo amico.» Arash mi strizzò l’occhio. «Credo che sia geloso del fatto che io ti piaccio tanto.» «Figuriamoci.» Poi mi accorsi che Gideon fulminava Arash con lo sguardo e inarcai le sopracciglia. «Ma dài.» «Torniamo a quello di cui stavamo parlando. Come hai intenzione di sistemare la cosa?» lo incalzò mio marito, lanciando
occhiate di fuoco all’amico da dietro il bicchiere. «Sistemare il casino che avete fatto?» chiese Arash, gli occhi castani illuminati da una risata silenziosa. «Siete stati voi due a provocare questa cosa andando dove Anne Lucas lavora in due occasioni diverse. Potete ritenervi fortunati che lei abbia abbellito la storia con un’accusa minore di aggressione nei confronti di Eva. Se si fosse attenuta alla verità, vi terrebbe per le palle.» Mi avvicinai al frigo e iniziai a tirar fuori qualcosa con cui preparare la cena. Mi sarei presa a
calci per essermi comportata da stupida. Non mi era mai passato per la testa di pensare che avrebbe potuto rivelare volontariamente la sua sordida relazione extraconiugale con Gideon. Si supponeva che fosse un’esponente di primo piano nell’ambiente della salute mentale, e il marito era un rinomato pediatra. L’avevo sottovalutata. E non avevo dato retta a Gideon quando mi aveva detto che era pericolosa. Il risultato era una denuncia legittima contro Gideon per aver fatto irruzione nel suo studio durante una seduta, e contro di me
per averle teso un’imboscata sul lavoro due settimane dopo. Arash accettò il bicchiere che Gideon fece scivolare verso di lui con un gesto stizzito. «Sta al procuratore distrettuale decidere se procedere contro di lei o meno per aver detto il falso, ma accusando Eva di averle messo le mani addosso quando i filmati della sicurezza dimostrano il contrario ha danneggiato la sua credibilità. Una bella fortuna che li abbiate, a proposito.» Quando ero venuta a sapere che Gideon era il proprietario dell’edificio dove Anne Lucas
lavorava non mi ero stupita. Mio marito aveva bisogno del controllo, e quel genere di influenza sulla professione dei coniugi Lucas era esattamente nel suo stile. «Non dovrebbe essere necessario dirlo» continuò Arash «ma quando si ha a che fare con i pazzi, la regola è non lasciarsi coinvolgere.» Gideon mi guardò inarcando un sopracciglio. Era irritante, ma aveva ragione. Me l’aveva detto. L’avvocato ci lanciò un’occhiata di ammonimento. «Farò in modo che la denuncia impropria di aggressione venga lasciata cadere e cercherò di capire se posso usarla
a nostro vantaggio per sporgere una controdenuncia per molestie. Proverò anche a ottenere ingiunzioni restrittive a suo carico nei confronti sia vostri sia di Cary Taylor, ma in ogni caso voi dovete stare alla larga da lei.» «Certo» gli assicurai, cogliendo l’opportunità di toccare il magnifico sedere muscoloso di mio marito mentre passavo dietro di lui. Gideon mi lanciò un’occhiata ironica da sopra la spalla e io gli soffiai un bacio. Mi solleticava l’idea che provasse anche solo una fitta di gelosia. La cosa che più colpiva di Arash era il
fatto che teneva testa a Gideon, ma di sicuro non poteva surclassarlo. E anche se sapevo che poteva essere tanto minaccioso quanto mio marito, questo non era il suo atteggiamento abituale. Gideon era sempre pericoloso. Non si poteva non pensarlo di lui, e io ero profondamente attratta da quest’aspetto, nella convinzione che non l’avrei mai addomesticato. E Dio, se era bello. Lui lo sapeva, sapeva quanto fossi affascinata da lui. Ma il mostro dagli occhi verdi poteva ancora sconfiggerlo. «Rimani a cena?» chiesi ad
Arash. «Non ho idea di cosa preparerò, ma abbiamo mandato a monte i tuoi progetti per la serata, e mi sento in colpa.» «È ancora presto.» Gideon bevve un lungo sorso di vino. «Può farne altri.» «Mi piacerebbe molto rimanere a cena» rispose Arash con un sorriso malizioso. Non riuscii a resistere, così mi allungai oltre mio marito per prendere il mio bicchiere e nel farlo gli accarezzai la coscia. Mentre ritraevo la mano gli sfiorai la schiena con il seno. Veloce come un fulmine Gideon
mi prese il polso e io sentii una scarica di eccitazione percorrermi dalla testa ai piedi. I suoi occhi blu si girarono verso di me. «Vuoi fare la cattiva?» chiese con voce vellutata. Lo desiderai all’istante, perché sembrava così freddo e civile, estremamente composto, quando in pratica mi stava chiedendo se volevo scopare. Non aveva idea di quanto lo volessi. Udii un debole ronzio. Continuando a tenermi per il polso, Gideon guardò Arash dall’altra parte del bancone. «Passami il telefono.»
Arash mi lanciò un’occhiata e scosse la testa, ma si mise comunque a frugare nella giacca di Gideon in cerca del cellulare. «Non capirò mai come fai a sopportarlo.» «A letto è magnifico» replicai con una battuta «e lì non è scontroso, perciò...» Gideon mi tirò accanto a sé e mi mordicchiò il lobo. Mi si indurirono i capezzoli. Grugnì in modo quasi impercettibile contro il mio collo, anche se dubitavo che si preoccupasse di non farsi sentire da Arash. Mi scostai, senza fiato, e cercai di concentrarmi sulla cena. Non avevo
mai cucinato a casa di Gideon e non avevo la minima idea di dove stessero le cose o di quali provviste avesse, a parte ciò che avevo visto preparando il caffè per i poliziotti. Trovai una cipolla, e individuai un coltello e un tagliere. Grata per quella distrazione, dovevo fare qualcos’altro oltre che farmi mandare su di giri. «Va bene» disse Gideon al telefono con un sospiro. «Arrivo.» Alzai lo sguardo. «Devi andare da qualche parte?» «No. Angus sta portando su Lucky.» Sorrisi.
«Chi è Lucky?» chiese Arash. «Il cane di Gideon.» L’avvocato fece un’espressione appropriatamente scioccata. «Hai un cane?» «Adesso ce l’ho» rispose Gideon in tono mesto uscendo dalla cucina. Quando tornò con Lucky che si dimenava gioioso e gli leccava la faccia, mi commossi. Eccolo lì, in gilet e maniche di camicia, il titano dell’industria, il magnate di fama internazionale, in balia del cucciolo più grazioso dell’universo. Presi in mano il suo smartphone e scattai una foto. Questa sarebbe finita in cornice,
poco ma sicuro. Ne approfittai per mandare un SMS a Cary. “Ciao, sono Eva. Ti va di venire a cena nell’attico?” Aspettai un attimo la risposta, poi misi giù il telefono di Gideon e tornai a dedicarmi alla cipolla. «Avrei dovuto darti retta a proposito di Anne» dissi a Gideon mentre tornavamo in salotto dopo aver salutato Arash. «Mi dispiace.» Mi fece scivolare intorno alla vita la mano che mi teneva sul fianco. «Non dispiacerti.» «Dev’essere frustrante per te fare i conti con la mia
testardaggine.» «A letto sei magnifica, e lì non sei testarda, perciò...» Scoppiai a ridere quando lo sentii ritorcermi contro la battuta. Ero felice. Trascorrere la serata con lui e Arash, constatare quanto fosse rilassato e a proprio agio con l’amico, potermi muovere per l’attico come se fosse casa mia... «Mi sento sposata» mormorai, rendendomi conto che non mi ero mai sentita così prima. C’erano gli anelli e i voti, ma quelli erano i segni esteriori del matrimonio, non la sostanza. «Dovresti proprio,» ribatté lui,
con una familiare nota di arroganza «visto che io e te lo rimarremo per il resto della vita.» Lo guardai mentre eravamo seduti sul divano. «E tu?» Spostò gli occhi sul box accanto al caminetto dove dormiva Lucky. «Mi stai chiedendo se mi sento addomesticato?» «Questo non succederà mai» ribattei sardonica. Gideon mi guardò, indagatore. «Vorresti che lo fossi?» Gli accarezzai una coscia, non riuscendo a trattenermi. «No.» «Stasera... ti è piaciuto avere qui Arash.»
Gli lanciai un’occhiata. «Non sei geloso del tuo avvocato, vero? Sarebbe ridicolo.» «È una cosa che non piace neanche a me» disse guardandomi storto. «Ma non era ciò che intendevo. Ti piace avere ospiti.» «Sì.» Aggrottai le sopracciglia. «A te no?» Distolse lo sguardo, stringendo le labbra. «Va bene.» Mi irrigidii. Per Gideon casa sua era un santuario. Prima di me, non aveva mai portato lì nessuna donna. Avevo pensato che avesse invitato i suoi amici maschi, ma forse no... Forse l’attico era il luogo
in cui si rifugiava lontano da tutti. Gli presi la mano. «Mi dispiace, Gideon. Avrei dovuto chiedertelo prima. Non ci ho pensato e invece avrei dovuto. È casa tua...» « C a s a nostra» mi corresse, riportando lo sguardo su di me. «Di cosa ti stai scusando? Hai tutto il diritto di fare quello che ti pare qui. Non devi chiedermi il permesso.» «E tu non dovresti sentirti invaso a casa tua.» « C a s a nostra» ribatté piccato. «Devi afferrare il concetto, Eva. In fretta.» Sobbalzai davanti a quell’improvviso scatto d’ira. «Sei
pazzo.» Si alzò in piedi e girò intorno al tavolino, il corpo fremente di tensione. «Sei passata dal sentirti sposata a comportarti come se fossi un’ospite a casa mia.» «Casa nostra» lo corressi. «Il che significa che la condividiamo e che tu hai il diritto di dire che preferisci non avere ospiti qui.» Gideon si passò una mano tra i capelli, segno inequivocabile della sua crescente agitazione. «Non me ne frega un cazzo.» «Ti comporti come se invece te ne fregasse eccome» dissi in tono piatto.
«Per l’amor del cielo.» Mi si piazzò di fronte, le mani sui fianchi. «Arash è mio amico. Perché dovrebbe darmi fastidio che tu gli prepari la cena?» Stavamo tornando alla gelosia? «Ho cucinato per te, e l’ho invitato a unirsi a noi.» «Bene. Come ti pare.» «Non sembra che vada bene per niente, perché sei incazzato.» «No.» «Be’, sono confusa e la cosa sta cominciando a fare incazzare me.» Contrasse la mascella. Si girò e andò verso il caminetto, guardando le foto di famiglia che avevo
sistemato sulla mensola. Di colpo mi pentii del mio comportamento. Sarei stata la prima ad ammettere di averlo spinto a cambiare più in fretta di quanto avrei dovuto, ma capivo la necessità di un rifugio, di un posto tranquillo dove poter abbassare la guardia. Volevo essere quello per lui, volevo che la nostra casa fosse quello per lui. Se l’avessi resa un luogo che lui desiderava evitare – se mai avesse trovato più facile evitare me –, allora avrei sul serio messo a repentaglio il vero matrimonio che per me valeva più di ogni altra cosa.
«Gideon, ti prego, parla con me.» Forse avevo reso difficile anche quello. «Se ho oltrepassato un limite, devi dirmelo.» Si girò a guardarmi, accigliato. «Di che diavolo stai parlando?» «Non lo so. Non capisco perché sei così arrabbiato con me. Aiutami a capire.» Gideon fece un sospiro di frustrazione, poi si concentrò su di me con quella precisione da laser che aveva messo a nudo ogni mio segreto. «Se non ci fosse nessun altro sulla Terra, solo tu e io, a me andrebbe bene. Ma a te non basterebbe.»
Tacqui, stupefatta. La sua mente era un labirinto di cui non avrei mai avuto la mappa. «Ti andrebbe bene stare solo con me e nessun altro... per sempre? Niente rivali da schiacciare? Nessuna dominazione globale da pianificare?» Sbuffai. «Impazziresti dalla noia.» «È questo che pensi?» «È quello che so.» «E che mi dici di te?» mi sfidò. «Come faresti senza amici da invitare e la vita degli altri in cui intrometterti?» Socchiusi gli occhi. «Io non mi intrometto.» Mi guardò con espressione
paziente. «Ti basterei, se non ci fosse nessun altro?» «Non c’è nessun altro.» «Eva, rispondi alla domanda.» Non avevo idea di dove volesse andare a parare, ma la cosa non faceva che rendermi più facile rispondere. «Mi intrighi da morire, lo sai questo? Non sei mai noioso. Una vita intera con te non basterebbe per conoscerti fino in fondo.» «Potresti essere felice?» «Avendoti tutto per me? Sarebbe il paradiso.» Piegai le labbra in un sorriso. «Ho una fantasia alla Tarzan. Tu Tarzan, io Jane.»
Rilassò visibilmente le spalle e sulle labbra gli comparve l’accenno di un sorriso. «Siamo sposati da un mese. Com’è che lo sento solo adesso?» «Immaginavo di lasciar passare qualche mese prima di tirare fuori la roba forte.» Gideon mi scoccò uno dei suoi rari sorrisi, mandandomi in tilt il cervello. «E com’è questa fantasia?» «Oh, lo sai.» Agitai distrattamente una mano. «Casa sull’albero, perizoma. Clima abbastanza caldo perché la tua pelle sia coperta da un velo di
sudore, ma non troppo afoso. Tu che muori dalla voglia di scopare ma non hai esperienza. Io dovrei insegnartelo.» Mi fissò. «Hai una fantasia sessuale in cui io sono vergine?» Dovetti sforzarmi per non scoppiare a ridere davanti alla sua incredulità. «In tutti i sensi» dissi, con la massima serietà. «Non hai mai visto dei seni o una fica. Devo mostrarti come toccarmi, cosa mi piace. Tu impari in fretta, ma a quel punto mi ritrovo per le mani un uomo scatenato. Non ne hai mai abbastanza.» «Questo è vero.» Si diresse verso
la cucina. «Ho una cosa per te.» «Un perizoma?» Girò appena la testa e disse: «Che ne dici di quello che ci sta dentro?». Sorrisi. Mi aspettavo quasi che tornasse con del vino. Mi raddrizzai quando vidi che aveva in mano qualcosa di piccolo e color rosso brillante, di sicuro un Cartier. «Un regalo?» Gideon mi si avvicinò con la sua andatura composta e sexy. Eccitata, mi misi in ginocchio. «Dammelo, avanti.» Lui scosse la testa, tenendo la mano sollevata mentre si sedeva.
«Non puoi avere quello che non ti ho ancora dato.» Mi accosciai, poggiando le mani sulle ginocchia. «Per rispondere alla tua domanda...» Mi sfiorò una guancia con la punta delle dita. «Sì, mi sento sposato.» Sentii il cuore battere forte. «Tornare a casa da te» mormorò, fissandomi le labbra, «guardarti preparare la cena nella nostra cucina. Persino avere ospite lo stramaledetto Arash. È quello che voglio. Te. La vita che stiamo costruendo insieme.» «Gideon...» Mi bruciava la gola.
Abbassò lo sguardo sulla custodia di velluto rosso che teneva in mano. Sganciò il bottone che la teneva chiusa e si lasciò cadere sul palmo due mezzelune di platino. «Wow.» Mi portai una mano alla gola. Mi prese il polso sinistro e se lo mise in grembo con delicatezza, facendogli scivolare sotto una metà del braccialetto. L’altra la tenne sollevata, così riuscii a vedere che aveva fatto incidere qualcosa all’interno. SEMPRE MIA. PER SEMPRE TUO. ~ GIDEON
«Ah, ragazzo» sospirai, osservando mio marito chiudere il braccialetto. «Con questo ti sei guadagnato una scopata coi fiocchi.» La sua risata tenera mi fece innamorare ancora di più. Il braccialetto aveva un motivo a viti tutt’intorno, con due viti vere alle estremità che lui strinse con un piccolo cacciavite. «Questo» disse mostrandomi il cacciavite «è mio.» Lo guardai metterselo in tasca, intuendo che non mi sarei potuta togliere il braccialetto senza di lui. Non che avessi intenzione di farlo.
Lo adoravo già... e adoravo quella dimostrazione della sua anima romantica. «E questo» mi misi a cavalcioni su di lui, abbracciandogli le spalle «è mio.» Mi afferrò per la vita e gettò indietro la testa, offrendo il collo alle mie labbra. Non era una resa. Era indulgenza, e a me stava benissimo. «Portami a letto» sussurrai, leccandogli il lobo dell’orecchio. Sentii i suoi muscoli tendersi e poi flettersi senza sforzo mentre si alzava in piedi reggendomi come se fossi priva di peso. Mi lasciai
sfuggire un verso di apprezzamento e lui mi mise le mani sul sedere, sollevandomi più in alto, prima di portarmi fuori dal salotto. Ansimavo, con il cuore che batteva forte. Lo toccai dappertutto, passandogli le mani tra i capelli e sulle spalle, slacciandogli il nodo della cravatta. Volevo arrivare alla pelle, sentire il suo corpo nudo contro il mio. Gli passai la lingua sul viso, baciandolo ovunque. Camminava deciso ma senza fretta, il respiro regolare. Aprì la porta con una spinta agile e fluida. Oddio, mi mandava fuori di testa
quando era così controllato. Cercò di mettermi sul letto, ma io mi aggrappai più forte. «Non posso toglierti i vestiti se non mi lasci andare.» Solo la voce roca tradiva il suo desiderio. Allentai la presa, tirandogli i bottoni del gilet. «Togliti i tuoi, di vestiti.» Mi scostò le dita e io rimasi a fissarlo, trattenendo il fiato, mentre iniziava a spogliarsi. La vista delle sue mani abbronzate – su cui scintillavano gli anelli che gli avevo dato – impegnate a slacciare abilmente il nodo della cravatta... Come poteva
essere così erotico? Il fruscio della seta mentre si sfilava la cravatta. Il gesto noncurante con cui la lasciò cadere sul pavimento. L’ardore nei suoi occhi mentre mi guardava guardarlo. Era la tortura peggiore, e mi costrinsi a sopportarla: volerlo toccare e trattenermi dal farlo, aspettarlo quando lo desideravo con tutta me stessa. Avevo torturato entrambi facendoci attendere, perciò era il minimo che mi meritassi. Mi era mancato. Mi era mancato averlo così.
Il colletto della camicia si aprì mentre lui la sbottonava, rivelando il collo e un accenno del petto. Si fermò al bottone sotto i pettorali, per stuzzicarmi, e passò ai gemelli. Li tolse lentamente, uno alla volta, e li posò con cura sul comodino. Mi sfuggì un gemito. Il desiderio mi scorreva selvaggiamente nelle vene, l’afrodisiaco più potente. Gideon si sfilò il gilet e la camicia, contraendo e poi rilassando i muscoli delle spalle. Era perfetto. Ogni centimetro. Ogni fascio di muscoli scolpiti sotto la pelle setosa. Non c’era nulla di
volgare in lui, nulla di eccessivo. Tranne il suo cazzo. Accidenti. Strinsi le cosce mentre lui si toglieva le scarpe e faceva scivolare i pantaloni e i boxer giù per le lunghe gambe forti. Avevo il sesso dolorante e gonfio, il sangue che affluiva in mezzo alle gambe, la vagina bagnata di desiderio. Mentre si raddrizzava, gli addominali si contrassero e i muscoli del bacino formarono una V che puntava verso il grosso pene eretto tra le sue cosce. «Mio Dio. Gideon.» La punta del pene era bagnata di liquido pre-eiaculatorio. I testicoli
erano grossi e pesanti ed equilibravano il peso del membro imponente percorso dalle vene. Era magnifico, bello nel senso più primordiale del termine, selvaggiamente mascolino. Quella vista risvegliò ogni goccia di femminilità nascosta dentro di me. Mi passai la lingua sulle labbra, con la bocca piena di saliva. Volevo assaporarlo, udire il suo piacere prima di perdermi nel mio, sentirlo fremere e tremare quando lo portavo al culmine. Gideon si strinse il pene con una mano e la mosse su e giù con gesti decisi, facendo uscire una grossa
goccia di liquido dalla fessura sulla punta. «Questo è per te, angelo» disse con voce aspra. «Prendilo.» Scesi in fretta dal letto e feci per inginocchiarmi. Lui mi afferrò per un gomito, a labbra strette. «Nuda.» Faticai a rimettermi in piedi, avevo le gambe molli per il desiderio. Ancora più difficile fu resistere all’impulso di strapparmi i vestiti di dosso. Slacciai il top incrociato senza maniche con mani tremanti, cercando di scostarne i lembi in un tentativo di striptease. Gideon inspirò bruscamente
quando scoprii il reggiseno di pizzo, tradendo il suo fragile autocontrollo. Avevo i seni pesanti e i capezzoli duri. Gideon si avvicinò e fece scivolare le mani sotto le spalline del reggiseno, prendendomi in mano i seni. Chiusi gli occhi e gemetti piano mentre lui me li strizzava con delicatezza, accarezzandomi i capezzoli con il pollice. «Avrei dovuto dirti di restare vestita» disse con voce strozzata. Ma le sue carezze dicevano un’altra cosa. Che ero bella. Sexy. Che era tutto quello che voleva vedere.
I suoi occhi avevano assunto una sfumatura così cupa da sembrare neri. «Offrimeli.» Mi mossi, con il sesso che pulsava. Mi sfilai il top con una scrollata di spalle, quindi portai le mani dietro la schiena per slacciarmi il reggiseno, che scivolò lungò le braccia. Mi presi in mano i seni e li sollevai verso di lui. Gideon piegò la testa con studiata pazienza, passandomi la punta della lingua su un capezzolo con un movimento lento, pacato. Avrei voluto urlare... colpirlo... qualunque cosa pur di mandare in pezzi quel controllo esasperante.
«Ti prego» lo implorai senza ritegno. «Ti prego, Gideon...» Succhiò forte, con movimenti rapidi e profondi, la lingua che frustava impietosa la punta sensibile del capezzolo. Riuscivo a percepire la lussuria animalesca che emanava da lui, feromoni e testosterone, l’odore di un maschio selvaggiamente eccitato. Mi chiamava a sé, esigente e possessivo. Sentii l’attrazione magnetica esercitata dal suo desiderio. Cedetti, schiava nelle sue mani. Barcollai e lui mi prese tra le braccia, passando all’altro seno. Le
sue guance si incavavano mentre succhiava, e il centro del mio corpo si contraeva al ritmo delle sue carezze. Avevo la schiena dolorante per la posizione in cui ero costretta perché lui potesse prendersi il suo piacere, una cosa che mi eccitò follemente. Avevo lottato per lui. Lui aveva ucciso per me. Tra noi c’era un legame, primitivo e antico, che sfuggiva a ogni definizione. Poteva prendermi, usarmi. Ero sua. L’avevo fatto aspettare e lui me l’aveva permesso per ragioni che non ero sicura di conoscere. Ma adesso mi stava ricordando che se a volte
potevo allontanarmi e tenermi a distanza, era sua la mano che reggeva le catene da cui eravamo avvinti. E avrebbe potuto attirarmi a sé quando avesse voluto, perché gli appartenevo. “Sempre mio.” «Non aspettare.» Gli misi le mani nei capelli. «Scopami. Ho bisogno del tuo cazzo dentro di me...» Mi fece girare e mi piegò sul letto, tenendomi giù con una mano tra le scapole e cercando la cerniera dei miei pantaloni a pinocchietto. Strattonò la linguetta e fece scorrere la zip strappando la stoffa. «Sei con me?» grugnì,
infilandomi la mano tra le gambe e mettendomela su una natica. «Sì! Maledizione, sì...» Lui lo sapeva, ma lo chiedeva lo stesso. Senza mai mancare di ricordarmi che ero io ad avere il controllo, che ero io a dargli il permesso. Mi abbassò i pantaloni fino alle ginocchia con una mano sola, mentre con l’altra mi strattonava i capelli. Era ruvido, impaziente. Afferrò l’elastico del perizoma e tirò, facendomi penetrare la stoffa nella pelle prima di lacerarla con uno schiocco. Mi spinse la mano tra le gambe, imprigionate dai pantaloni, e me la
mise sul sesso. Mi inarcai, scossa dai brividi. «Cazzo, sei fradicia.» Mi infilò dentro un dito. Lo tirò fuori. Ne mise dentro due. «Ce l’ho durissimo.» L’interno morbido della vagina si contrasse intorno alle sue dita. Lui le ritrasse, accarezzandomi il clitoride e sfregandolo. Mi spinsi contro di lui, cercando la pressione di cui avevo bisogno, mentre dalla gola mi sfuggivano gemiti imploranti. «Non venire finché non sono dentro di te» grugnì. Mi prese per i fianchi tirandomi verso di sé e
accostando la punta del pene alla vagina. Si fermò un attimo, ansimando forte. Poi mi penetrò. Urlai contro il materasso, mentre mi contorcevo per prenderlo tutto. Mi sollevò dal pavimento. Ruotò il bacino e reclamò l’ultimo piccolo spazio dentro di me, mettendomelo dentro tutto. Mi contrassi intorno a lui, con la fica che pulsava percorsa da fremiti di piacere. «Okay?» disse con voce rotta, conficcandomi le dita nella carne. Mi spinsi indietro con le braccia, dolorosamente vicina all’orgasmo. «Ancora.»
Con il sangue che mi rombava nelle orecchie lo udii gemere il mio nome. Il suo pene diventò ancora più grosso e duro, contraendosi mentre lui veniva con getti potenti. Sembrava non dovesse finire mai e forse era così, perché continuò a scoparmi mentre veniva, riempiendomi di sperma caldo. Sentirlo venire scatenò il mio orgasmo, che mi travolse con spasmi potenti, mentre violenti brividi mi percorrevano da capo a piedi. Conficcai le unghie nel cuscino, cercando un appiglio mentre Gideon continuava ad affondarmi dentro,
perso in una lussuria selvaggia. Sentii il suo seme bagnarmi le grandi labbra e poi colarmi lungo le cosce. Lui gemette e mi penetrò ancora, ruotando il bacino, impalandomi. Rabbrividì, e venne di nuovo solo pochi secondi dopo il primo orgasmo. Si piegò sopra di me e mi diede un bacio sulla spalla, il suo respiro caldo e accelerato sulla mia schiena lucida di sudore. Sentivo il suo petto alzarsi e abbassarsi contro di me, mentre allentava la presa convulsa sui fianchi. Mi accarezzò piano. Trovò il clitoride e cominciò a toccarlo, finché non venni di nuovo.
Sentivo le sue labbra muoversi contro la mia pelle. «Angelo...» Continuò a ripetere quella parola. Convulsamente. Disperatamente. Affannosamente. “Per sempre tua.” Affondato dentro di me, era ancora duro e pronto. Ero sdraiata sul letto, accoccolata accanto a Gideon. Ero senza pantaloni e lui era nudo, il corpo magnifico ancora ricoperto di sudore. Mio marito era supino, un braccio muscoloso piegato sopra la testa, l’altro avvolto intorno a me, con le
dita che si muovevano assenti sulla mia pelle. Eravamo sopra le lenzuola, lui aveva le gambe larghe e il pene semieretto curvato verso l’ombelico. Luccicava alla luce delle abat-jour, bagnato dei miei umori e dei suoi. Il suo respiro stava appena iniziando a tornare normale, il battito del cuore rallentava sotto il mio orecchio. Aveva un odore delizioso: peccato, sesso e Gideon. «Non mi ricordo come siamo finiti a letto» mormorai, la voce bassa e roca. Il suo petto si sollevò in una risata. Gideon girò la testa e mi
diede un bacio sulla fronte. Mi avvicinai ancora di più a lui, cingendolo con un braccio e stringendolo forte. «Stai bene?» mi chiese piano. Tirai indietro la testa e lo guardai. Era arrossato e sudato, i capelli appiccicati alle tempie e al collo. Il suo corpo era una macchina ben oliata, abituato ai duri allenamenti di arti marziali a cui lui lo sottoponeva. Era spossato non per aver scopato – sarebbe potuto andare avanti tutta la notte, instancabile –, ma per lo sforzo di trattenersi il più a lungo possibile, di resistere finché io non mi fossi
eccitata selvaggiamente quanto lui. «Mi hai scopata fino a sfinirmi» sorrisi, sentendomi intontita. «Mi formicolano tutte le dita.» «Ci sono andato pesante.» Mi toccò il fianco. «Ti ho lasciato i lividi.» «Mmh.» Mi si chiudevano gli occhi. «Lo so.» Lo sentii muoversi, alzarsi, chiudere le tende. «Ti piace» mormorò. Lo guardai piegato su di me. Gli toccai la faccia, passando un dito sulle sopracciglia e lungo la linea della mascella. «Adoro il tuo controllo. Mi eccita.»
Mi prese le dita fra i denti, poi le lasciò andare. «Lo so.» «Ma quando lo perdi...» Sospirai al ricordo. «Mi fa impazzire sapere che posso farti questo, che mi vuoi così tanto.» Abbassò la testa, appoggiando la fronte alla mia. Mi tirò più vicina, facendomi sentire quanto ce l’aveva duro di nuovo. «Più di ogni altra cosa.» «E ti fidi di me.» Tra le mie braccia, abbassava completamente la guardia. La ferocia del suo bisogno non nascondeva la sua vulnerabilità: la rivelava. «Più di chiunque altro.» Scivolò
sopra di me, ricoprendo il mio corpo con il suo e reggendosi con le braccia per non schiacciarmi sotto il suo peso. La sensualità di quel contatto me lo fece desiderare di nuovo. Inclinò la testa e mi sfiorò le labbra con le sue. «Crossfire» mormorò. “Crossfire” era la mia parola di sicurezza, quella che dicevo quando mi sentivo sopraffatta e avevo bisogno che smettesse di fare qualunque cosa stesse facendo. Quando era Gideon a usarla, significava che anche lui era sopraffatto, ma non voleva che mi
fermassi. Per lui “Crossfire” comunicava una connessione più profonda dell’amore. Incurvai le labbra. «Ti amo anch’io.» Abbracciata al cuscino, guardai verso la cabina armadio e ascoltai Gideon cantare. Feci un sorriso amaro. Si era fatto la doccia e vestito, e ovviamente si sentiva pieno di energia nonostante avesse iniziato la giornata scopandomi fino a farmi avere un orgasmo che mi aveva mandata in orbita. Mi ci volle un attimo per riconoscere la canzone. Quando
capii, sentii le farfalle nello stomaco. At Last. Non importava quale fosse la versione che sentiva nella sua mente, se quella di Etta James o quella di Beyoncé. Quella che udivo io era la sua voce, ricca e piena di sfumature, che cantava di cieli azzurri e sorrisi che lanciavano un incantesimo su di lui. Uscì dalla cabina armadio annodandosi una cravatta nera, con il gilet sbottonato e la giacca ripiegata su un braccio. Lucky gli si precipitò alle calcagna, mai troppo distante. Dopo essere stato liberato dal box quella mattina, il cane era diventato la sua ombra.
Gideon mi guardò, scoccandomi un sorriso da rubacuori. «Ed eccoci qui» canticchiò. «Perlomeno io. Abbattuta da ore di sesso. Non credo di riuscire a reggermi in piedi e tu...» lo indicai con un gesto «sei tu. Non è giusto. Faccio qualcosa di sbagliato.» Gideon si sedette sul bordo del letto disfatto, l’aspetto impeccabile. Si chinò e mi diede un bacio. «Ricordamelo... Quante volte sono venuto stanotte?» Gli lanciai un’occhiata. «Non abbastanza, a quanto pare, dato che eri pronto a ricominciare non appena è spuntato il sole.»
«Il che dimostra che stai facendo qualcosa di giustissimo.» Mi scostò i capelli dal viso. «Sono tentato di rimanere a casa, ma devo sistemare le cose in modo che possiamo sparire dalla circolazione per un mese. Come puoi vedere, sono estremamente motivato.» «Parlavi sul serio, allora?» «Pensavi di no?» Scostò il lenzuolo e mi mise una mano sul seno. Gli afferrai il polso prima che mi facesse eccitare di nuovo. «Una luna di miele lunga un mese. Ti sfinirò almeno una volta. Sono determinata.»
«Davvero?» Vidi una risata illuminargli gli occhi. «Solo una?» «Te la stai cercando, asso. Quando avrò finito, mi implorerai di lasciarti in pace.» «Questo non succederà mai, angelo. Nemmeno in un milione di anni.» La sua sicurezza costituiva una sfida. Mi ricoprii col lenzuolo. «Staremo a vedere.»
8
Quando Angus entrò nel mio ufficio, alzai lo sguardo dall’e-mail che stavo leggendo. Teneva il berretto in mano e si fermò davanti alla mia scrivania. «Questa notte ho perquisito lo studio di Terrence Lucas» disse. «Non ho trovato niente.» Non mi aspettavo che avrebbe trovato qualcosa, per cui non ero
stupito. «È possibile che abbia detto ad Anne quello che sa e che non esistano documenti.» Lui annuì cupamente. «Mentre ero lì ho cancellato tutte le tracce dell’appuntamento di Eva su entrambi i dischi rigidi e sui backup. Ho eliminato anche i filmati in cui comparivate lei ed Eva. Non ha chiesto una copia alla sicurezza – ho controllato –, quindi lei dovrebbe essere tranquillo nel caso in cui lui accettasse il suggerimento della moglie e sporgesse denuncia a sua volta.» Era proprio nello stile di Angus prendere sempre in considerazione
tutte le possibilità. «La polizia non lo troverebbe interessante?» Mi appoggiai allo schienale. «I Lucas hanno da perdere tanto quanto me.» «Loro sono colpevoli, ragazzo mio. Lei no.» «Non è mai così semplice.» «Lei ha tutto quello che ha voluto e che si merita. Non possono portarle via niente.» Tranne il rispetto per me stesso e quello dei miei amici e colleghi. Avevo lavorato duramente per riconquistarmi entrambi dopo la disgraziata faccenda di mio padre. Quelli che erano in cerca dei miei
punti deboli avrebbero potuto ritenersi soddisfatti. La cosa non mi preoccupava come in passato. Angus aveva ragione. Avevo costruito la mia fortuna e avevo Eva. Se garantirle la pace mentale significava sottrarsi allo sguardo del pubblico, potevo farlo. Era una cosa che avevo preso in considerazione quando Nathan Barker costituiva ancora una minaccia. Eva voleva tenere nascosta al mondo la nostra relazione per risparmiarmi ogni possibile scandalo derivante dal suo passato. Era un sacrificio che non io non ero disposto a fare.
Nascondersi. Rubare momenti insieme. Fingere con gli altri che non ci stavamo innamorando profondamente e irrevocabilmente. Adesso era diverso. Lei mi era diventata necessaria come l’aria. Proteggere la sua felicità era più cruciale che mai. Sapevo come ci si sentiva a essere giudicati per gli errori di qualcun altro e non avrei mai permesso che mia moglie si trovasse in una situazione del genere. Contrariamente a quello che credeva, potevo vivere senza occuparmi di tutto ciò in cui la Cross Industries era coinvolta. Non avrei passato la vita a
giocare a Tarzan con indosso uno stupido perizoma, ma esisteva una via di mezzo tra i due estremi. «Mi avevi avvertito riguardo a Anne.» Scossi la testa. «Avrei dovuto darti retta.» Lui liquidò l’argomento con un’alzata di spalle. «Quel che è fatto è fatto. Anne Lucas è una donna adulta. È abbastanza grande da assumersi la responsabilità delle proprie decisioni.» “Che cosa sta facendo, ragazzo mio?” mi aveva chiesto quando Anne si era infilata sul sedile posteriore della Bentley quella prima sera. Nelle settimane
successive aveva espresso la sua disapprovazione in modo sempre più esplicito, finché un giorno aveva alzato la voce con me. Disgustato da me stesso perché punivo una donna che non mi aveva fatto niente di male, me l’ero presa con lui, intimandogli di stare al suo posto. L’espressione addolorata che aveva subito dissimulato mi avrebbe perseguitato fino alla tomba. «Mi dispiace» dissi, sostenendo il suo sguardo. «Per come ho gestito la cosa.» Un sorriso appena accennato gli
increspò il viso. «Le scuse non sono necessarie, ma le accetto.» «Grazie.» Dall’interfono arrivò la voce di Scott. «Sono arrivati quelli di Pos IT . E ho in linea Arnoldo Ricci. Dice che è una cosa breve.» Guardai Angus per capire se doveva dirmi altro. Lui si portò una mano alla fronte in uno scherzoso saluto militare e se ne andò. Dissi a Scott: «Passamelo». Aspettai che la luce rossa si mettesse a lampeggiare, quindi presi la linea. «Dove sei?» «Ciao anche a te, amico mio» mi salutò Arnoldo con il suo melodioso
accento italiano. «Ho saputo di essermi perso te ed Eva al ristorante questa settimana.» «Abbiamo fatto un pranzo eccellente.» «Ah, è l’unico che c’è sul menu. Anche la cena non è male.» Mi appoggiai allo schienale della sedia. «Sei a New York?» «Sì, e sto organizzando il tuo addio al celibato, che è il motivo per cui ti ho chiamato. Se hai programmi per il fine settimana, cancellali.» «Eva e io saremo fuori città.» «Lei sarà fuori città. Fuori dal Paese, in realtà, da quel che mi ha
detto Shawna. E anche tu sarai fuori città. Gli altri sono d’accordo con me. Abbiamo intenzione di costringerti a muoverti da New York, per una volta.» La prima parte del discorso di Arnoldo mi aveva colto così di sorpresa che udii a malapena il resto. «Eva non sta andando all’estero.» «Di questo devi discutere con lei e i suoi amici» disse lui senza fare una piega. «Quanto a noi, andiamo a Rio.» Mi ritrovai in piedi. Maledizione. Eva non era al Crossfire. Non potevo limitarmi a prendere un
ascensore per andare da lei. «Chiederò a Scott di prenotare il volo» continuò. «Partiamo venerdì sera e rientriamo lunedì in tempo perché tu vada a lavorare, se ne hai il coraggio.» «Dove va Eva?» «Non ne ho idea. Shawna ha tenuto la bocca chiusa, perché tu non devi saperlo. Mi ha detto solo che sarebbero andati via per il weekend e che io avrei dovuto tenerti occupato, perché Cary non vuole che tu interferisca.» «Non spetta a lui decidere» scattai. Lui fece una pausa. «Arrabbiarti
con me non ti servirà a niente, Gideon. E se non ti fidi di lei, amico mio, non dovresti sposarla.» Strinsi la cornetta. «Arnoldo, sei il mio amico più stretto. Ma le cose sono destinate a cambiare se non la smetti di comportarti come un idiota quando si tratta di Eva.» «Hai interpretato male» si corresse in fretta. «Se la metti in gabbia per stare tranquillo, la perderai. Quello che è considerato romantico in un fidanzato può rivelarsi opprimente in un marito.» Rendendomi conto che mi stava dando un consiglio, iniziai a contare fino a dieci. Arrivai a sette. «Non ci
posso credere.» «Non fraintendermi. Arash mi assicura che è la cosa migliore che ti sia mai capitata. Dice di non averti mai visto così felice e che lei ti adora.» «Io sostengo la stessa cosa.» Arnoldo fece un sospiro. «Gli uomini innamorati non sono i testimoni più affidabili.» L’irritazione lasciò il posto al divertimento. «Com’è che tu e Arash parlate della mia vita privata?» «È quello che fanno gli amici.» «Le amiche, vorrai dire. Siete adulti. Dovreste avere di meglio da
fare per occupare il tempo.» Tamburellai le nocche sulla scrivania. «E volete che passi un weekend in Brasile con un branco di maschi pettegoli?» «Sta’ a sentire.» Il suo tono era fastidiosamente calmo. «Manhattan è fuori discussione. Anche io la adoro, ma penso che abbiamo esaurito le sue possibilità. Soprattutto per un’occasione come questa.» Imbarazzato, guardai dalla finestra la città che amavo. Solo Eva sapeva della stanza d’albergo che un tempo tenevo sempre prenotata... il mio “scannatoio”,
così la chiamava. Prima di lei era l’unico posto dove portavo le donne a fare sesso. Era sicura. Impersonale. Non rivelava nulla di me, tranne com’ero senza vestiti e come mi piaceva scopare. Lasciare New York significava che non avrei scopato, perciò avevo sempre insistito con i ragazzi per andare a caccia nei paraggi. «Va bene. Non discuterò.» Avevo intenzione di parlarne con Eva – e con Cary –, ma la cosa non riguardava Arnoldo. «Perfetto. Ti lascio tornare al lavoro. Ci aggiorniamo questo weekend.»
Concludemmo la telefonata. Guardai Scott attraverso la vetrata e alzai un dito, per segnalargli che mi serviva un altro minuto. Presi lo smartphone e chiamai Eva. «Ehi, asso» rispose, provocante e appagata. Assorbii la fitta di piacere caldo che mi suscitò. La sua voce, sempre roca, era più bassa di quanto fosse stata ultimamente. Mi fece venire in mente la nostra lunga notte, i suoni che emetteva quando era eccitata, il modo in cui urlava il mio nome venendo. Era il mio nuovo obiettivo fare in modo che avesse sempre quel tono,
come pure la pelle arrossata, le labbra gonfie, la camminata lenta e sensuale perché mi sentiva ancora dentro di sé. Ovunque andasse, doveva essere chiaro che la scopavo spesso e bene. Era chiaro su di me. Ero sciolto e rilassato, le gambe un po’ molli... anche se non l’avrei mai ammesso. «I nostri programmi per il weekend sono cambiati?» le chiesi. «Dovrei prendere più vitamine» scherzò lei «ma per il resto no. Non vedo l’ora che arrivi.» La nota carezzevole della sua voce mi eccitò. «Mi è stato detto che i nostri amici hanno in mente di
tenerci separati per festeggiare il nostro addio alla vita da single.» «Oh.» Ci fu una pausa di silenzio. «Speravo che se ne fossero dimenticati.» Feci un sorriso che avrei voluto lei vedesse. «Potremmo scappare dove non possono trovarci.» «Lo vorrei tanto.» Sospirò. «Mi sa che queste cose sono più per loro che per noi. È l’ultima possibilità che hanno di averci tutti per sé come prima.» «Quei giorni sono finiti quando ti ho conosciuta.» Ma sapevo che non era così per Eva. Lei aveva mantenuto la sua indipendenza,
continuando a coltivare le amicizie come aveva sempre fatto. «È una specie di strano rituale, vero?» rifletté. «Due persone si impegnano reciprocamente per la vita e i loro amici li portano fuori, li fanno ubriacare e li incoraggiano a comportarsi male un’ultima volta.» Tutta la sensualità giocosa che aveva mostrato all’inizio della telefonata era svanita. Mia moglie era una donna profondamente gelosa. Lo sapevo e lo accettavo, proprio come lei accettava la mia possessività. «Ne parliamo meglio stasera.» «Evviva» rispose, sembrando
tutto tranne che felice. Era consolante, in qualche modo. Preferivo immaginarmela triste durante un fine settimana senza di me piuttosto che nell’atto di divertirsi alla grande. «Ti amo, Eva.» Lei trattenne il fiato. «Ti amo anch’io.» Conclusa la telefonata, mi girai per prendere la giacca dall’attaccapanni, ma poi cambiai idea. Tornai verso la scrivania e chiamai Cary. «Come butta?» rispose. «Dove hai in mente di portare mia moglie questo weekend?»
Rispose così in fretta che capii che doveva essersi preparato ad affrontarmi. «Non è necessario che tu lo sappia.» «Col cavolo.» «Non ho intenzione di permettere che tu la controlli» disse seccamente Cary «con guardie istruite a tenere lontano chiunque le si avvicini, come hai fatto a Las Vegas. È una ragazza straordinaria. Sa badare a se stessa e merita di divertirsi.» Ecco di cosa si trattava. «All’epoca c’erano circostanze attenuanti, Cary.» «Davvero?» ribatté con voce
piena di sarcasmo. «Del tipo?» «Nathan Barker era ancora vivo e tu avevi appena fatto una maledetta orgia nel tuo salotto. Non potevo affidarti la sicurezza di Eva.» Silenzio. Quando Cary riprese a parlare, lo fece con toni notevolmente meno accesi. «Della sicurezza si occuperà Clancy. Andrà tutto bene.» Feci un respiro profondo. Io e Clancy diffidavamo l’uno dell’altro, poiché sapeva che cosa avevo fatto per neutralizzare la minaccia costituita da Nathan. Però volevamo la stessa cosa: che Eva
fosse felice e al sicuro. Mi fidavo di lui, sapevo che era molto bravo nel suo lavoro al servizio di Stanton e Monica. Avrei parlato con lui, mettendolo in contatto con Angus. Bisognava definire i dettagli e coordinare le comunicazioni. Se Eva avesse avuto bisogno di me, dovevo essere in grado di raggiungerla il più in fretta possibile. Quel pensiero mi diede una fitta allo stomaco. «Eva ha bisogno dei suoi amici e io voglio che si diverta.» «Grandioso» commentò Cary disinvolto. «Siamo d’accordo.»
«Non interferirò, ma ricordati che nessuno ha a cuore la sua sicurezza quanto me. Lei è solo una parte della tua vita, ma è tutta la mia vita. Non fare il testone e contattami se hai bisogno. È chiaro?» «Sì, ho afferrato.» «Se ti fa sentire meglio, sappi che io sarò in Brasile.» Scese il silenzio. «Non ho ancora deciso dove andremo, ma propendo per Ibiza.» Imprecai tra me. Ci sarebbe voluto un bel po’ per raggiungerla da Rio. Avrei voluto discutere – avrei
sicuramente potuto suggerire località alternative in Sud America – ma mi trattenni, fin troppo consapevole dei commenti del dottor Petersen riguardo al bisogno di Eva di avere un’ampia cerchia sociale. Dissi invece: «Fammi sapere cosa decidi». «Okay.» Conclusi la telefonata, presi la giacca e me la infilai. Ero sicuro che Eva e il dottor Petersen non sarebbero stati d’accordo, ma gli amici e la famiglia potevano essere più una rottura di palle che altro. Il resto del pomeriggio trascorse
come programmato. Erano quasi le cinque quando Arash entrò nel mio ufficio e si accomodò su uno dei divani, allargando le braccia sullo schienale. Terminai la telefonata con uno dei nostri centri di distribuzione a Montreal e mi alzai, stirando le gambe. Avevo una sessione con il mio personal trainer, ma mi avrebbe fatto nero. Ero sicuro che Eva sarebbe stata felice di sapere che mi aveva prosciugato ogni energia. Non che questo mi avrebbe impedito di prenderla di nuovo alla fine della giornata.
«Sarà meglio che ci sia un buon motivo perché ti comporti come se fossi a casa tua» dissi seccamente ad Arash girando intorno alla scrivania. Mi fece un sorrisetto presuntuoso. «Deanna Johnson.» Rallentai, colto di sorpresa. «Che mi dici di lei?» Arash fischiò. «La conosci.» «È una giornalista free-lance.» Mi diressi al mobile bar e tirai fuori dal frigo due bottiglie di acqua. Deanna era anche una che mi ero scopato, il che si era rivelato un errore madornale in più di un senso. «Okay. Sai la bionda parecchio
sexy che ho bidonato ieri sera?» Gli lanciai un’occhiata impaziente. «Arriva al punto.» «Lavora nell’ufficio legale dell’editore che ha comprato i diritti del libro di Corinne. Mi ha detto che la ghostwriter è Deanna Johnson.» Espirai sonoramente e strinsi così forte le bottiglie di plastica che cominciarono a perdere. «Maledizione.» Mia moglie mi aveva avvertito riguardo a Deanna e io non le avevo dato retta. «Lasciami indovinare» disse Arash strascicando le parole. «Conosci Miss Johnson in senso
biblico.» Mi girai a guardarlo, avvicinandomi a lui. Gli lanciai una delle bottiglie, spruzzando acqua dappertutto. Aprii la mia e bevvi un lungo sorso. Eva aveva ragione: dovevamo essere una squadra migliore, più organizzata. Io e lei dovevamo imparare a fidarci l’uno dell’altra e a seguire i consigli reciproci che ci davamo. Il mio amico puntellò i gomiti sulle ginocchia, tenendo la bottiglia d’acqua con entrambe le mani. «Adesso capisco perché avevi tutta quella fretta di mettere un anello al
dito di Eva. Suggella il patto prima che lei scappi urlando.» Arash stava scherzando, ma io vidi la preoccupazione sul suo volto. Identica alla mia. Sul serio, quanto poteva ancora tollerare mia moglie? Scostai la bottiglia dalle labbra. «Be’, proprio una bella notizia per concludere la giornata» borbottai. «Quale?» Io e Arash voltammo la testa e scorgemmo Eva fare capolino dalla porta aperta del mio ufficio con in mano solo lo smartphone. Aveva lo stesso abbigliamento da palestra che indossava il primo giorno in cui l’avevo vista. La coda di cavallo era
più chiara e più corta, il corpo più snello e meglio definito, ma sarebbe sempre stata la ragazza che mi toglieva il fiato. «Eva.» Arash si alzò in fretta. «Ehi.» Gli sorrise mentre mi si avvicinava, alzandosi sulla punta dei piedi per baciarmi sulla bocca. «Ciao, asso.» Mentre si scostava, aggrottò le sopracciglia. «Che cosa c’è che non va? È il momento sbagliato?» Le feci scivolare un braccio intorno alla vita, tirandomela vicina. Adoravo la sensazione del suo corpo contro il mio; placava l’ansia che provavo quando non eravamo
insieme. «Mai, angelo. Vieni da me tutte le volte che vuoi.» Le si illuminarono gli occhi. «Io e Megumi dobbiamo andare in palestra, ma sono in anticipo, così ho pensato di fare un salto. Di motivarmi dando un’occhiata a quanto sei fico.» La baciai sulla fronte. «Non stancarti troppo» mormorai. «A quello ci penso io.» Quando mi raddrizzai le vidi una ruga di preoccupazione in mezzo agli occhi. «Sul serio. Qual è il problema?» Arash si schiarì la voce e indicò la porta. «Torno nel mio ufficio.»
Risposi alla domanda prima che se ne andasse. «Deanna è la ghostwriter del libro di Corinne.» Eva si irrigidì. «Davvero?» «Lei sa di Deanna?» Arash ci guardò a occhi sgranati. Mia moglie lo inchiodò con lo sguardo. «Conosci Deanna?» Lui alzò le mani. «Mai incontrata. E non avevo mai sentito parlare di lei fino a oggi.» Eva si liberò dalla mia stretta e mi lanciò un’occhiata. «Te l’avevo detto.» «Lo so.» «Detto cosa?» chiese Arash, ficcandosi le mani in tasca.
Lei mi prese la bottiglia d’acqua e si lasciò cadere su una poltrona di pelle. «Che non potevamo fidarci. È risentita perché lui l’ha fatta spogliare e poi l’ha scaricata. Non che gliene faccia una colpa. Mi sarei sentita un vero schifo se avessi mostrato la merce senza concludere la transazione.» Arash si sedette di nuovo sul divano. «Hai problemi di performance, Cross?» «Hai intenzione di rimanere disoccupato, Madani?» Mi sedetti sull’altra poltrona. «Gideon aveva già inzuppato il biscotto» proseguì Eva. «E a lei era
piaciuto parecchio. Anche in questo caso, non posso fargliene una colpa. Ti ho detto che scopa da dio.» Arash mi guardò, divertito. «Me l’hai detto, sì.» «Ti manda fuori di testa, ti fa impazzire e...» «Per l’amor del cielo, Eva» borbottai. Mi guardò con aria innocente. «Sto solo cercando di fornire un po’ di contesto, piccolo. E di dare a Cesare quel che è di Cesare. Comunque, la povera Deanna è combattuta tra odiarlo con tutto il cuore e scoparselo a sangue. Dal
momento che non può fare la seconda cosa, si attiene alla prima.» La guardai. «Hai finito?» Mia moglie mi soffiò un bacio, poi tracannò una gran sorsata d’acqua. Arash si appoggiò allo schienale del divano. «Complimenti per averle sbattuto in faccia tutte le tue prodezze» mi disse. «Sei una santa, Eva, a sopportare lui e la scia di donne incazzate che si è lasciato dietro.» «Cosa posso dire?» Strinse le labbra. «Come l’hai scoperto?» «Ho un contatto interno alla casa editrice.»
«Ah. Pensavo che Deanna avesse detto qualcosa.» «Non lo farà. Non vogliono che si sappia che non è Corinne a scrivere il libro, così hanno inserito una clausola di riservatezza. Stanno negoziando il contratto adesso.» Eva si sporse in avanti, tormentando l’etichetta della bottiglia. Il telefono che aveva appoggiato accanto a sé vibrò e lei lo prese per leggere il messaggio. «Vado. Megumi è pronta.» Si alzò. Io e Arash la imitammo. Un attimo dopo era tra le mie braccia, con il viso sollevato per un bacio. Glielo diedi e strofinai il naso
contro il suo, poi lei si ritrasse. «Sei proprio fortunato che sia arrivata io.» Mi restituì la bottiglia. «Pensa in quanti altri guai ti saresti cacciato se fossi rimasto single un minuto di più.» «Tu sei un guaio sufficiente per una vita intera.» Eva salutò Arash e uscì dall’ufficio. La guardai andarsene, detestando la sua lontananza. Fece un cenno a Scott mentre passava, quindi scomparve. «Ha delle sorelle?» chiese Arash, mentre tornavamo a sederci. «No, hanno buttato lo stampo.» «Ehi, aspettate» disse Eva
tornando di corsa. Io e Arash saltammo in piedi. Si unì di nuovo a noi. «Se stanno negoziando, non è stato ancora firmato niente, giusto?» «Giusto» rispose Arash. Mi guardò. «Puoi fare in modo che non firmi.» Inarcai le sopracciglia. «E come pensi che potrei fare una cosa del genere?» «Offrile un lavoro.» La fissai, poi dissi: «No». «Non dire di no.» «No» ripetei. Mia moglie si rivolse ad Arash. «I vostri contratti di assunzione
includono cose come riservatezza, non denigrazione, non concorrenza, giusto?» Arash ci pensò su. «Capisco dove vuoi arrivare, e sì, è vero. Ma ci sono dei limiti riguardo a ciò che è coperto dalle clausole e a come possono essere fatte rispettare.» «Però è meglio di niente, no? Tieni i nemici ancora più vicini e roba del genere.» Si girò verso di me con aria speranzosa. «Non guardarmi così, Eva.» «Okay. Era solo un’idea. Devo andare.» Agitò una mano e schizzò via. Niente baci né saluti... Mi
girarono le scatole. Vederla andarsene di nuovo... peggio della prima volta. Mi aveva fatto aspettare per fare sesso con lei. Aveva suggerito con noncuranza che seducessi un’altra donna. La Eva che conoscevo e amavo non avrebbe mai fatto nessuna di queste due cose. «Non vuoi che quel libro venga pubblicato» le gridai dietro. Eva si bloccò sulla porta e si voltò. Mi guardò, inclinando appena la testa. «No, infatti.» Quello sguardo indagatore mi fece rizzare il pelo. Mi vedeva
attraverso, vedeva il torbido dentro di me. «Sai che lei si aspetterebbe più di un lavoro.» «Dovresti convincerla» concordò, tornando sui suoi passi. «Sei una carota succulenta, Cross. E sai come penzolare appena fuori portata senza neppure aver bisogno di provarci. Deve solo firmare sulla linea tratteggiata. Dopodiché, puoi trasferirla in Siberia, basta che le dai il lavoro corrispondente alla descrizione di posizione.» Qualcosa nel suo tono di voce mi innervosì... il modo di guardarmi come un domatore di leoni che gira intorno alla fiera, cauto e
circospetto ma completamente padrone della situazione. Provocato, reagii. «Mi fai prostituire per ottenere quello che vuoi.» «Accidenti, Cross» borbottò Arash. «Non fare il coglione.» Eva socchiuse gli occhi, che da grigi chiari assunsero una sfumatura temporalesca. «Stronzate. Devi illuderla, non scopartela. Desidero che quel libro venga pubblicato tanto quanto tu vuoi sentire in continuazione Ragazza d’oro, ma tu devi sopportare la dannata canzone e io posso sopportare il dannato libro.»
«E allora perché hai tirato fuori questa storia di assumerla?» ribattei, facendo un passo verso di lei. «Non voglio quella fottuta stronza tra i piedi, figuriamoci farla lavorare per me.» «Benissimo. Era solo un’idea. Potrei dirti che eri turbato quando sono arrivata qui e non mi piace che tu sia turbato...» «Per l’amor del cielo, non sono turbato!» «Giusto» disse strascicando le parole. «Certo che no. Preferisci di cattivo umore? Scontroso? Cupo? Sono più virili per te, asso?» «Dovrei darti una sculacciata.»
«Provaci e ti prendi un pugno su quel bel faccino» ribatté, furibonda. «Credi che mi piaccia l’idea che tu faccia arrapare quella stronza? Solo immaginarti flirtare con lei, facendole credere che ti piacerebbe scopartela, mi fa venir voglia di spaccare qualcosa... compresa la sua faccia.» «Bene.» Avevo ottenuto quello che volevo. Eva non riusciva a mascherare la gelosia quando era arrabbiata. Fremeva di collera. Io invece avevo ritrovato la calma. «E magari non servirebbe a niente» continuò, sempre incazzatissima. «L’editore potrebbe
trovare qualcun altro per scrivere quel maledetto libro. Magari una persona senza pregiudizi, ma sai che c’è? Hai uno stuolo di ex amanti che continuano a saltar fuori inaspettate, perciò potrebbe avere un altro colpo di fortuna.» «Adesso basta, Eva.» «Non ti farei prostituire solo per evitare la pubblicazione di quel libro. Sei la scopata del secolo. Potrei tirar su qualche centone all’ora, almeno.» «Dannazione!» Mi slanciai in avanti ma lei mi evitò. «Basta!» intervenne Arash, mettendosi in mezzo. «In qualità di
tuo avvocato, devo sottolineare che far incazzare tua moglie potrebbe costarti milioni.» «Lui adora far incazzare le donne» ribatté Eva, spostandosi a destra e a sinistra dietro Arash per non farsi prendere. «Lo eccita.» «Levati dai piedi, Madani!» «È tutto tuo, Arash» disse Eva, e scappò via. Mi lanciai all’inseguimento. La presi mentre passava dalle porte, afferrandola per la vita e sollevandola da terra. Si divincolò con un grugnito. Le affondai i denti nella spalla e lei strillò, attirando gli sguardi di
almeno dieci persone. Inclusa Megumi, che svoltò l’angolo proprio in quel momento. «Salutami con un bacio» dissi. «Non se ne parla!» La lanciai in aria facendola girare e la ripresi al volo rivolta verso di me, poi la baciai con violenza. Un bacio superficiale, rozzo. I nostri nasi si scontrarono. Ma la sensazione della sua bocca sulla mia e la sua pelle calda sotto le mie mani erano proprio quello di cui avevo bisogno. Mi mordicchiò il labbro inferiore. Avrebbe potuto farmi male, lacerarmi la pelle. E invece il suo
morso era solo un rimprovero scherzoso, come la tirata di capelli che le diedi. «Sei pazzo» si lamentò. «Che cavolo di problema hai?» «Non andartene senza avermi salutato con un bacio.» «Stai scherzando.» Mi guardò male. «Ti ho baciato.» «La prima volta. Non la seconda o la terza.» «Be’, che mi venga un colpo» ansimò. Strinse la presa sul collo, si tirò su e mi mise le gambe intorno alla vita. «Perché non me l’hai chiesto e basta?» «Non ho intenzione di
supplicare.» «Non lo fai mai.» Mi toccò il viso. «Dai ordini. Non smettere adesso.» «È incredibile quello che puoi permetterti quando sei il capo» disse Megumi a Scott, che sedeva alla sua scrivania con lo sguardo incollato allo schermo del computer. Scott saggiamente non replicò. Arash non fu altrettanto cauto. «Follia temporanea causata da nervosismo prematrimoniale, giusto, Scott?» Mi venne accanto. «Seminfermità mentale. Un rincoglionimento di proporzioni epiche.» Gli lanciai un’occhiata di
avvertimento. «Chiudi il becco.» «Sii carino.» Eva mi diede un bacio leggero. «Ne parliamo più tardi.» «Casa tua o casa nostra?» Lei sorrise, la rabbia ormai passata. «Nostra.» Allentò la presa delle gambe e io la misi a terra. Adesso potevo lasciarla andare. La cosa continuava a non piacermi, ma il nodo allo stomaco si era sciolto. Eva non dava segno di essersi arrabbiata. Si rabbuiava come un temporale improvviso e si rasserenava altrettanto in fretta, un cielo senza nuvole.
«Salve, Megumi.» Le porsi la mano. Lei la prese, rivelando unghie smaltate con un velo di brillantini. Era una giovane donna attraente, con capelli neri a caschetto e occhi a mandorla. L’amica ed ex collega di Eva sembrava più forte dell’ultima volta in cui l’avevo vista, il che mi fece piacere perché sapevo quanto mia moglie si preoccupasse per lei. La conoscevo solo di vista prima dell’aggressione sessuale che aveva recentemente subito e che le aveva cambiato la vita. Mi dispiaceva. La donna in piedi di fronte a me aveva
un’espressione ferita negli occhi scuri e un’aria spavalda che tradiva la sua vulnerabilità. L’esperienza mi insegnava che aveva una lunga strada davanti a sé. E che non sarebbe mai più stata la persona che era prima. Lanciai un’occhiata a Eva. Mia moglie aveva fatto un lungo cammino, rispetto sia alla ragazza che era stata tanto tempo fa sia alla giovane donna che avevo incontrato la prima volta. Anche lei era più forte, adesso. Ero felice di questo e non l’avrei cambiato per niente al mondo. Potevo solo pregare che quella
forza alla fine non allontanata da me.
l’avrebbe
Uscii dalla palestra di James Cho esattamente come mi ero aspettato: a pezzi. Ero comunque riuscito a mandare al tappeto l’ex campione nell’ultimo scontro. Angus mi aspettava fuori, in piedi accanto alla Bentley. Aprì la portiera e prese la mia sacca, ma non sorrise. Sul sedile posteriore Lucky latrava nel trasportino, il musetto eccitato che faceva capolino tra le sbarre. Mi fermai prima di salire e sostenni lo sguardo di Angus.
«Ho delle informazioni» disse cupo. Mi ero preparato alle cattive notizie, dato che stava cercando i documenti di Hugh. «Ne parliamo quando arriviamo all’attico.» «Sarebbe meglio nel suo ufficio.» «Va bene.» Mi infilai in macchina, le sopracciglia aggrottate. Avremmo avuto privacy in entrambi i posti. Avevo suggerito casa mia in modo che ci fosse Eva al mio fianco a sostenermi quando lui mi avrebbe riferito le informazioni. La preferenza di Angus per l’ufficio poteva significare solo che non voleva Eva nei paraggi.
Che cosa aveva da dirmi che era meglio nascondere a mia moglie? Lucky mise le zampe sullo sportello del trasportino, guaendo piano. Aprii la gabbia distrattamente e lui si precipitò fuori, mi si arrampicò in braccio e si mise a leccarmi la faccia. «Okay, okay.» Lo trattenni in modo che non diventasse frenetico e tirai indietro la testa per non farmi leccare la bocca. «Anch’io sono contento di vederti.» Gli accarezzai il corpicino morbido e caldo guardando fuori dal finestrino mentre attraversavamo la città. Di notte New York era
completamente diversa, un misto di vicoli bui e grattacieli scintillanti, di vetrine illuminate e cenette intime nei dehors. Con quasi due milioni di persone stipate su un’isola di meno di sessanta chilometri quadrati, la privacy era al tempo stesso rara e agognata. Le finestre delle case si affacciavano l’una sull’altra, vicinissime. Spesso erano prive di tende, rivelando vite private a chiunque volesse guardare. I telescopi erano un articolo diffuso. Era tipico dei newyorkesi vivere in una bolla, badando ai fatti propri e aspettandosi che gli altri
avrebbero fatto lo stesso. L’altra opzione era troppo claustrofobica, l’antitesi dello spirito di libertà che era alla base dell’Empire State Building. Arrivammo al Crossfire e io scesi dalla Bentley con Lucky. Angus mi seguì attraverso la porta girevole e percorremmo l’atrio in silenzio. Gli uomini della sicurezza si alzarono in piedi mentre mi avvicinavo, salutandomi brevemente e lanciando occhiate al cucciolo che avevo in braccio. Sorrisi tra me e me vedendo il mio riflesso. Indossavo i pantaloni della tuta e una T-shirt, e avevo i capelli umidi
per la doccia: dubitavo che qualunque estraneo avrebbero creduto che quell’edificio era mio. L’ascensore salì rapidamente, portandoci al quartier generale della Cross Industries in una manciata di secondi. La maggior parte degli uffici e dei cubicoli era vuota, ma alcuni dipendenti ambiziosi stavano ancora ultimando dei lavori... oppure non avevano una ragione per tornare a casa. Lo sapevo fin troppo bene. Non era passato molto tempo da quando trascorrevo più tempo al lavoro che nell’attico. Entrai nel mio ufficio, accesi le
luci e oscurai la parete di vetro. Poi mi diressi verso il divano, mi sedetti e misi Lucky sul cuscino accanto a me. Fu in quel momento che notai la logora cartella di cuoio in mano ad Angus. Avvicinò una poltrona al tavolino e si sedette. Mi guardò negli occhi. Sentii un nodo in gola mentre mi veniva in mente un’altra possibilità. Angus sembrava troppo cupo, l’incontro troppo formale. «Non vai in pensione» lo prevenni, parlando a fatica. «Non te lo permetterò.» Mi guardò un attimo, poi la sua espressione si addolcì. «Ah, ragazzo
mio. Mi avrà intorno ancora per un po’.» Ero così sollevato che mi accasciai sul divano, con il cuore che batteva forte. Lucky, sempre pronto al gioco, mi saltò addosso. «Giù» gli ordinai, il che non fece che eccitarlo ancora di più. Lo tenni fermo con una mano e rivolsi un secco cenno della testa ad Angus per dirgli che poteva cominciare. «Ricorderà il dossier che abbiamo messo insieme quando ha conosciuto Eva» esordì. Sentendo il nome di mia moglie, mi raddrizzai. «Naturalmente.» Mi tornò alla mente il giorno in
cui l’avevo conosciuta. Io ero seduto sulla limousine accanto al marciapiede, pochi istanti prima di allontanarmi dal Crossfire. Lei stava entrando nell’edificio. L’avevo osservata, percependo l’attrazione. Incapace di resistere, avevo detto ad Angus di aspettare ed ero rientrato per cercarla, a dare la caccia a una donna... una cosa che non avevo mai fatto. Quando mi aveva visto, aveva lasciato cadere il badge identificativo e io gliel’avevo raccolto, registrando il suo nome e la società per cui lavorava. Entro sera sulla scrivania dello studio di
casa c’era una cartellina sottile contenente un rapido controllo dei suoi trascorsi... Di nuovo, una cosa che non avevo mai fatto per puro interesse sessuale. In qualche modo, a un livello di cui non ero ancora consapevole, sapevo che era mia. Sapevo che, per quanto mi raccontassi storie, sarebbe stata importante per me. Nei giorni seguenti il dossier era cresciuto, includendo i genitori di Eva e Cary, poi i nonni paterni e materni. «Abbiamo incaricato un avvocato a Austin» continuò Angus «perché ci inviasse qualunque resoconto di
attività insolite con Harrison e Leah Tramell.» I genitori di Monica. Il loro allontanamento dalla figlia e dalla nipote mi andava benissimo. Meno familiari con cui avere a che fare. Ma mi rendevo anche conto che, benché non avessero mostrato alcun interesse per la nipote illegittima, avrebbero potuto cambiare idea quando Eva fosse diventata pubblicamente mia moglie. «Che cos’hanno fatto?» «Sono morti» disse senza giri di parole, aprendo la cartella. «Quasi un mese fa.» La cosa mi fece riflettere. «Eva
non lo sa. Lo scorso weekend stavamo giusto parlando degli inviti per il matrimonio e sono venuti fuori i loro nomi. Presumo che Monica non abbia contatti con loro.» «Ha scritto il necrologio comparso sul giornale locale.» Angus prese una fotocopia e la mise sul tavolino. La presi e la scorsi in fretta. I Tramell erano morti insieme in un incidente in barca durante una vacanza estiva. La foto era vecchia di decenni, e li ritraeva con abiti e pettinature che risalivano agli anni Settanta. Erano entrambi attraenti,
ben vestiti e con accessori costosi. Quello che non quadrava erano i capelli: anche in una stampa in bianco e nero si capiva che erano scuri. Lessi la frase finale. “Harrison e Leah lasciano la figlia, Monica, e due nipoti.” Guardai Angus e ripetei a voce alta: «Due nipoti? Eva ha un fratello o una sorella?». Lucky si liberò dalla mia stretta poco convinta e saltò sul pavimento. Angus fece un gran sospiro. «Quella frase e la foto mi hanno spinto ad andare più a fondo.» Tirò fuori una foto e la posò sul
tavolino. La guardai. «Chi è quella?» «Monica Tramell... adesso Monica Dieck.» Mi si gelò il sangue. La donna nella foto era bruna, come i genitori. E non assomigliava per niente alla Monica che conoscevo, né a mia moglie. «Non capisco.» «Non ho ancora stabilito quale sia il vero nome della madre di Eva, ma la vera Monica Tramell aveva un fratello di nome Jackson che è stato brevemente sposato con Lauren Kittrie.» «Lauren.» Il secondo nome di Eva. «Che cosa sappiamo di lei?»
«Per ora niente, ma mi dia tempo. Stiamo indagando.» Mi passai una mano tra i capelli. «È possibile che abbiamo confuso i Tramell e fatto ricerche sulla famiglia sbagliata?» «No, ragazzo mio.» Mi alzai e mi diressi verso il bar. Presi un paio di bicchieri dalla mensola e versai in ciascuno due dita di Ardbeg Uigeadail single malt. «Stanton dovrebbe aver fatto dei controlli accurati su Monica – la madre di Eva – prima di sposarla.» «Finché Eva non gliel’ha raccontato, lei non sapeva del suo passato» mi fece notare.
Aveva ragione. La documentazione relativa alla violenza sessuale, l’aborto, le trascrizioni del tribunale, il patteggiamento... tutto era stato meticolosamente insabbiato. Quando avevo incaricato Arash di metter giù la bozza dell’accordo prematrimoniale, avevamo verificato la situazione finanziaria e i debiti, ma quello era tutto. Io la amavo. La volevo. Non avevo mai preso in considerazione l’idea di screditarla. Anche Stanton amava sua moglie. Il patrimonio personale di lei, accumulato dopo due divorzi
economicamente vantaggiosi, sarebbe stato oggetto della preoccupazione maggiore. Quanto al resto, sospettavo che io e lui ci fossimo comportati in modo simile. Perché cercare il marcio quando niente indica che debba essercene? L’amore era caparbiamente cieco e si prendeva gioco degli uomini. Girai intorno al bar e per poco non inciampai in Lucky quando mi saltellò tra i piedi. «Benjamin Clancy è dannatamente bravo. Non gli sarebbe sfuggita una cosa del genere.» «A noi è sfuggita.» Angus prese il bicchiere che gli porgevo. «Se i
Tramell non fossero morti, continueremmo a non saperlo. Il controllo dei suoi trascorsi era pulito.» «Come diavolo faceva a essere pulito, per l’amor del cielo?» Buttai giù il whisky in un sorso. «La madre di Eva ha usato il nome, la data di nascita e la storia familiare di Monica, ma non ha mai aperto una linea di credito, che è il modo in cui vengono scoperti la maggior parte dei furti d’identità. Il conto bancario che usa è stato aperto venticinque anni fa ed è un conto societario con un soggetto fiscale diverso.»
Avrebbe dovuto fornire un numero di previdenza sociale quando l’aveva aperto, ma prima di Internet il mondo era un posto completamente diverso. Facevo fatica a cogliere l’enormità di quell’imbroglio. Se Angus aveva ragione, la madre di Eva aveva vissuto per la maggior parte della sua vita sotto una falsa identità. «Non ci sono tracce, ragazzo mio» ribadì, posando il bicchiere intatto. «Nessun sentiero di briciole da seguire.» «Cosa mi dici della vera Monica Tramell?»
«Suo marito gestisce tutto. In quel senso, praticamente non esiste.» Guardai il cucciolo che mi toccava le gambe con le zampe. «Eva non ne sa niente» dissi cupo. «Me l’avrebbe detto.» Nel momento stesso in cui pronunciavo quelle parole, dovetti chiedermi come avrebbe fatto a dirmelo. Cosa avrei fatto io, se fossi stato al suo posto? Poteva forse custodire un segreto così pazzesco perché aveva vissuto nella menzogna tanto a lungo da arrivare a credere che fosse la verità? «Sì, Gideon» disse Angus in tono
basso e conciliante. Anche lui se l’era chiesto. Era il suo lavoro. «La ama. Più profondamente e sinceramente di quanto mi sia mai capitato di vedere.» Mi rimisi a sedere, avvertendo il peso di Lucky mentre si arrampicava di fianco a me. «Devo saperne di più. Tutto. Non posso andare da Eva con informazioni del genere a pezzi e bocconi.» «Le avrà» promise Angus.
9
«È...» Feci una smorfia guardando lo schizzo dettagliato che Cary mi aveva messo davanti e scossi la testa. «È carino, ma... non va bene. Non è quello che fa per me.» Cary espirò sonoramente. Era seduto sul pavimento ai miei piedi e reclinò la testa sul divano per guardarmi al contrario. «Stai scherzando. Ti do un abito da sposa
unico disegnato apposta per te, e tu lo snobbi?» «Non voglio un abito senza spalline. E questo ha un orlo asimmetrico...» «Quello è uno strascico» disse ironico. «Allora perché si vedono le scarpe? Non si dovrebbero vedere.» «È uno schizzo fatto in cinque minuti. Puoi dirgli di fare il davanti più lungo.» Mi allungai per prendere la bottiglia di vino che avevo aperto, versandomene un po’ nel bicchiere. Dalle casse dell’impianto stereo provenivano i grandi successi dei
Journey, a basso volume. Il resto dell’attico era silenzioso e buio, mentre in salotto erano accese due lampade da tavolo. «È troppo... contemporaneo» protestai. «Troppo moderno.» «Oh, sì.» Alzò la testa per guardare di nuovo il disegno. «È per questo che è fico.» «È trendy, Cary. Quando avrò dei figli, lo guarderanno e si chiederanno che cosa mi sia passato per la testa.» Bevvi un sorso di vino e gli passai le dita tra i capelli folti. «Voglio qualcosa che sia senza tempo. Come Grace Kelly o Jackie Kennedy.»
«Figli, eh?» Si abbandonò alle mie carezze, come un gatto. «Se ti sbrighi, potremo andare insieme al parco e organizzare pomeriggi di gioco.» «Ah-ah! Forse tra dieci anni.» Mi sembrava giusto. Dieci anni di Gideon solo per me. Tempo per maturare un po’, sistemare le cose e trovare un’intesa quotidiana. Le cose miglioravano di giorno in giorno, ma continuavamo a essere una coppia instabile con un rapporto tempestoso. Ancora non capivo perché avevamo litigato prima, nel suo ufficio. Ma Gideon era così. Elegante, selvaggio e
pericoloso come un lupo, che mangiava dalla mia mano solo per morderla un attimo dopo. E di solito il tutto era coronato da una scopata bestiale, quindi... A me andava bene. «Già» disse Cary cupo. «Ti ci vorranno dieci anni – e un miracolo – per restare incinta se non ricominci a scopartelo.» «Ehi.» Gli tirai i capelli. «Non che siano affari tuoi, ma ieri notte gli ho dato una ripassata con i fiocchi.» «Davvero?» Mi sbirciò da sopra la spalla. «Questa è la mia piccola.» Feci un sorrisetto. «E ho intenzione di rifarlo quando torna a
casa.» «Sono invidioso. Io niente. Zero. Nada. Mi verrà un callo permanente sulla mano a causa del mio uccello solitario.» Scoppiai a ridere e mi appoggiai allo schienale del divano. «Fa bene prendersi una pausa. Mette le cose in prospettiva.» «Ma se è passata a stento una settimana» mi prese in giro. «Dieci giorni, in realtà. Dieci orribili, infernali giorni.» Bevvi un altro sorso di vino. «Vero? Uno schifo. Pessimo.» «Non vorrei passarci un’altra volta, ma sono contenta che siamo
riusciti a tener fuori il sesso dall’equazione almeno per un po’. Ci ha permesso di parlare e di goderci la reciproca compagnia. Quando finalmente ci abbiamo dato dentro, è stato...» Mi passai la lingua sulle labbra. «Esplosivo.» «Me lo stai facendo venire duro.» Sbuffai. «E cosa non lo fa?» Mi lanciò un’occhiata di traverso. «Non mi vergognerò del mio salutare desiderio sessuale.» «Devi essere orgoglioso di esserti preso del tempo per capire dove stai andando. Sono orgogliosa di te.» «Sì, grazie, mamma.» Mi
appoggiò la testa sul ginocchio. «Sai... potrei mentirti.» «No. Se stessi scopando in giro, vorresti che lo sapessi, perché ti prenderei a calci in culo, il che è parte del divertimento.» No. Ma era un modo di usarmi per punire se stesso. «Quello che sarà divertente è Ibiza.» «Ibiza?» Ci misi un po’ a fare due più due. «Per il mio addio al nubilato?» «Proprio così.» La Spagna. A mezzo mondo di distanza. Non me l’aspettavo. «E quanto dovrebbe durare questa
festa?» Cary mi scoccò il suo sorriso da un milione di dollari. «Il weekend.» «Non che abbia voce in capitolo, ma a Gideon non piacerà.» «Gli ho parlato io. È in paranoia per la sicurezza, ma avrà altro a cui pensare, in Brasile.» Mi raddrizzai di colpo. «Brasile?» «Sembri un pappagallo, stasera, non fai che ripetere tutto.» Amavo il Brasile. Mi piacevano la musica, il clima, la passione della gente. La sensualità della cultura brasiliana non aveva uguali nel mondo. E pensare a Gideon lì, con il
gruppo di uomini ricchi e bellissimi che chiamava amici, a festeggiare gli ultimi giorni di un’esistenza da scapolo cui aveva già rinunciato... Il mio migliore amico si girò a guardarmi. «Conosco quell’espressione. Ti stai innervosendo al solo pensiero di lui circondato da bikini brasiliani e dalle donne dal sangue caldo che li portano.» «Chiudi il becco, Cary.» «E ha anche la compagnia giusta per fare colpo. Soprattutto quel Manuel, è un pezzo da novanta.» Ricordai di aver visto Manuel Alcoa fare una conquista quando
eravamo andati tutti insieme in un locale con il karaoke. Come Arnoldo, Gideon e Arash, Manuel non doveva neppure sforzarsi; gli bastava scegliere dall’ampia selezione di donne che gli si gettavano ai piedi. Cosa avrebbe fatto mio marito quando i suoi amici si fossero trovati delle squinzie fantastiche? Sarebbe rimasto seduto da solo con in mano una caipirinha? Ne dubitavo. Gideon non sarebbe stato infedele, non avrebbe neppure flirtato; non era nel suo stile. Non aveva flirtato neanche con me
all’inizio, e io ero l’amore della sua vita. No, avrebbe dominato la sala, tenebroso, fatale e intoccabile, mentre una fiumana di donne bellissime gli sbavava intorno. Com’era possibile che rimanesse indifferente? Cary scoppiò a ridere. «Hai la faccia di una pronta a uccidere qualcuno.» «Tu sei quello più vicino» lo ammonii. «Non puoi uccidermi. Chi altro potrebbe trovarti il vestito giusto per rendere Gideon geloso quanto te?» «Sembra proprio che sia tornato
a casa al momento giusto.» Io e Cary ci girammo verso la porta d’ingresso e vedemmo Gideon entrare con una sacca sulla spalla e un trasportino in mano. Il mio malumore svanì, sostituito dalla gioia che mi pervase nel vederlo. Non saprei dire come facesse, ma Gideon era capace di rendere follemente arrapanti anche un paio di pantaloni della tuta e una T-shirt. Appoggiò le cose sul pavimento. «Che cosa c’è qui?» Cary si alzò in piedi e si avvicinò al trasportino. Mi alzai anch’io e andai da mio marito, eccitata dalla semplice gioia
di dargli il benvenuto a casa. Mi venne incontro, stringendomi tra le braccia. Gli misi le mani sulla schiena, accarezzando la pelle muscolosa e calda. Quando si chinò per baciarmi, gettai indietro la testa. La sua bocca sfiorò la mia, poi si aprì per un saluto tenero e senza parole. Si raddrizzò passandosi la lingua sulle labbra. «Sai di vino.» «Ne vuoi un po’?» «Certo.» Andai in cucina per prendere un altro bicchiere, mentre alle mie spalle udivo i ragazzi salutarsi e Gideon presentare Lucky a Cary. I
latrati giocosi del cane e la risata profonda di Cary riempirono l’aria. Non mi ero ancora trasferita, ma mi sentivo a casa. Cary se n’era andato ormai da un’ora quando trovai il coraggio di fare a Gideon la domanda che mi bruciava sulla punta della lingua. Eravamo seduti sul divano. Lui era stravaccato a gambe larghe, un braccio intorno alle mie spalle e una mano posata con noncuranza sulla coscia. Io ero rannicchiata accanto a lui, con le gambe raccolte, la testa sulla sua spalla, le dita che giocherellavano con l’orlo della sua
T-shirt. Lucky dormiva nel box vicino al caminetto spento, uggiolando di tanto in tanto mentre sognava quello che sognano i cani, qualunque cosa sia. Nell’ultima mezz’ora Gideon era stato silenzioso, quasi contemplativo, mentre io discutevo i pregi dello schizzo dell’abito da sposa che lui aveva preso dal tavolino. «Comunque» dissi, per concludere «ho la sensazione che lo saprò quando lo vedrò, ma il tempo sta per scadere. Sto cercando di non farmi prendere dal panico. Non voglio accontentarmi.»
Sollevò la mano che mi teneva sulla spalla e mi cinse la nuca, baciandomi sulla fronte. «Potresti indossare i jeans, angelo, e saresti la sposa più bella di sempre.» Toccata, mi feci più vicina a lui. Feci un respiro profondo, poi chiesi: «Dove andate in Brasile?». Gideon mi passò le dita tra i capelli. «Rio.» «Oh.» Me lo immaginavo sdraiato sulla sabbia bianca di Copacabana, il magnifico corpo abbronzato in mostra, la luminosità degli occhi blu nascosta dietro un paio di occhiali da sole. Le belle donne sulla spiaggia non
sarebbero state in grado di dire se le guardava o no, il che le avrebbe eccitate, rese audaci. La sera, lui e i ragazzi si sarebbero goduti la vita notturna a Ipanema o magari, se erano in vena di esagerare, sarebbero andati a Lapa. Indipendentemente dal posto, avrebbero avuto un codazzo di donne stupende, appassionate e poco vestite. Era inevitabile. «Ho sentito Cary dire che sei gelosa» mormorò, accarezzandomi la testa. Nella sua voce c’era una nota di compiaciuta soddisfazione. «È per questo che hai scelto il Brasile? Per farmi soffrire?»
«Angelo.» Mi prese delicatamente per i capelli, costringendomi a guardarlo in faccia. «Non c’entro niente con la scelta della destinazione.» Incurvò le labbra in un sorriso sexy. «Ma sono felice di sapere che soffrirai.» «Sadico.» Mi scostai da lui. Gideon non mi lasciò andare, stringendomi di nuovo a sé. «Dopo il tuo suggerimento riguardo a Deanna, stavo cominciando a pensare che ti stessi stancando di me.» «Questa sì che è divertente.» «Non per me» disse in tono misurato. Mi scrutò in faccia.
Rendendomi conto che era serio, almeno in parte, smisi di scherzare. «Non mi piaceva l’idea che tu la assumessi.» «Non subito. Mi hai consigliato di sedurla come mi diresti di prendere una bottiglia di vino tornando a casa. Almeno quando ho menzionato Rio, ti sei irrigidita e hai messo il broncio.» «C’è una differenza...» «Tra sedurre intenzionalmente una donna che mi sono scopato e dire di sì a una festa di addio al celibato che non ho organizzato io? Certo che sì. E non ha alcun senso che debba andarti bene la prima
opzione e non la seconda.» Lo guardai male. «Perché la prima è una transazione d’affari in un ambiente controllato. L’altra un ultimo giro di scopate seriali in una delle città più sexy del mondo!» «Tu sai come stanno le cose» disse a voce bassa e in tono tranquillo, il che equivaleva a pericoloso. «Non sei tu quello che mi preoccupa» sottolineai. «Sono le donne che ti vorranno. E i tuoi amici, sbronzi e arrapati, faranno di tutto perché sia anche tu della partita.» Aveva l’espressione impassibile,
lo sguardo freddo. «E credi che io non sia abbastanza forte da gestire la pressione?» «Non ho detto questo. Non mettermi le parole in bocca.» «Sto solo cercando di chiarire il tuo modo contorto di pensare.» «Guarda, torniamo alla faccenda di Deanna.» Mi divincolai e mi alzai. Mi misi davanti al tavolino e mossi le mani, gesticolando. «Ecco come me l’ero immaginata, prima di suggerirtela. Tu nel tuo ufficio, in piedi e appoggiato alla scrivania in quel tuo modo sexy da morire. Giacca sull’attaccapanni, magari uno scotch con ghiaccio a portata di
mano per dare un tocco informale alla scena.» Guardai verso il divano. «Deanna è seduta sulla sedia più lontana da te, così può vedere bene tutto quanto. La squadri lentamente, butti lì un paio di doppi sensi sul fare le cose insieme. Lei si fa delle idee e accetta il contratto con una firma sulla linea tratteggiata. Ecco tutto. Non ti avvicini mai a lei e non ti siedi. La parete di vetro rimane chiara, così lei non azzarderà nessuna mossa.» «Hai immaginato tutto questo in una frazione di secondo?» «Be’» mi toccai una tempia «ho
qualche ricordo che gira qui dentro e l’ho usato per dare un po’ di pepe.» «I ricordi che ho io di seduzione in ufficio non riguardano nessun’altra» disse seccamente. «Stammi a sentire, asso.» Mi sedetti sul tavolino. «È stata un’idea spontanea che mi è venuta perché ero preoccupata per te.» L’espressione di Gideon si addolcì. «Gli angeli si precipitano. Capito.» «Davvero?» Mi sporsi in avanti e gli misi le mani sulle ginocchia. «Sarò sempre possessiva, Gideon. Tu sei mio. Vorrei poterti mettere al
collo un cartello che lo dice.» Alzò la mano sinistra, mostrandomi la fede. Liquidai l’argomento con un verso di derisione. «Sai quante donne vi presteranno attenzione quando tu e la tua cricca andrete a caccia a Rio?» «Presteranno attenzione se io glielo faccio notare.» «A quel punto uno dei tuoi amici si lascerà sfuggire che è una festa di addio al celibato e quelle ti staranno ancora più addosso.» «Starmi addosso non le porterà da nessuna parte.» Lo percorsi con lo sguardo.
«Sarai irresistibile con dei pantaloni grigio grafite e una T-shirt nera con lo scollo a V...» «Stai ricordando quella sera al club.» Lui di sicuro. Il cazzo gli diventò duro e grosso, premendo oscenamente contro i pantaloni della tuta. Per poco non gemetti quando la sua eccitazione confermò quello che sospettavo: non portava niente sotto il cotone morbido. «Non riuscivo a smettere di pensare a te dopo che te n’eri andata dal mio ufficio» mormorò. «Non riuscivo a scacciare dalla
mente la tua immagine. Poi ti ho chiamata al lavoro e tu mi hai stuzzicato, dicendo che stavi per andartene a casa a giocare con il vibratore, quando io avevo il cazzo duro e pronto per te.» Mi agitai irrequieta, ricordando ogni dettaglio. Quella sera a New York lui indossava un maglione con lo scollo a V, ma ciò che avevo immaginato a Rio faceva qualche concessione al clima tropicale e alla pressione erotica dei corpi in un nightclub. «Con gli occhi della mente ti vedevo nel tuo letto» continuò, mettendosi la mano in mezzo alle
gambe per accarezzarsi l’erezione. «Le cosce allargate, la schiena inarcata, il corpo nudo e lucido di sudore mentre ti spingevi un grosso cazzo di plastica nella fica fradicia. L’idea mi faceva impazzire, non ero mai stato così eccitato. Ero come in calore, il bisogno di scopare era una febbre che mi consumava.» «Dio santo, Gideon.» Mi pulsava il sesso, avevo il seno gonfio e sensibile, i capezzoli eretti e doloranti. Mi guardò con gli occhi semichiusi. «Prima di organizzare di vederti sono uscito. Volevo qualcuna che non avrebbe detto di
no come avevi fatto tu. L’avrei portata all’albergo, le avrei allargato le cosce e l’avrei scopata fino a sfogare quella febbre. Non importava chi fosse, non avrebbe avuto né un volto né un nome; non l’avrei nemmeno guardata mentre me la facevo. Era solo una sostituta di te.» Mi lasciai sfuggire un gemito di dolore, il pensiero di Gideon con un’altra in quel modo era insopportabile. «Ci sono andato vicino un paio di volte.» La sua voce si era fatta più roca. «Ho bevuto un drink mentre aspettavo che qualcuna finisse di
flirtare e mi mandasse il segnale che era pronta a venire con me. La prima volta ho pensato di essermi tirato indietro perché non era il mio tipo. La seconda, sapevo che nessuna sarebbe andata bene. Nessuna tranne te. Ero furioso: con te perché ti negavi, con loro perché erano inferiori, con me stesso perché ero troppo debole per dimenticarti.» «So come ci si sente» confessai. «Ogni ragazzo che incontravo era quello sbagliato. Non erano te.» «Sarà sempre così per me, Eva. Soltanto tu. Sempre.» «Non ho paura che tu mi
tradisca» ripetei, alzandomi in piedi. Mi tolsi la canottiera, poi gli shorts. Il reggiseno di pizzo Carine Gilson e le mutandine fecero la stessa fine. Mi spogliai in fretta, con metodo. Niente gesti provocanti di nessun genere. Gideon rimase dov’era, guardandomi senza muoversi; come il dio del sesso che era, aspettava che gli fosse dato piacere. Poi lo vidi con gli occhi di un’estranea, mio marito seduto così in un affollato club brasiliano, che irradiava una muta richiesta di sesso in ondate di calore e bisogno. Era così, una creatura intensamente
e insaziabilmente sessuale. Esisteva una donna in grado di resistergli? Non ne avevo ancora incontrata una. Mi avvicinai e mi misi a cavalcioni sopra di lui. Feci scivolare le mani sulle spalle larghe, percependo il suo calore sotto il cotone della T-shirt. Mi mise le mani sui fianchi, brucianti. «Le donne che ti vedono vorranno farti questo» mormorai. «Toccarti così. Immagineranno di farlo.» Gideon mi guardò passandosi lentamente la lingua sul labbro inferiore. «E io immaginerò te. Esattamente così.»
«Il che non farà che peggiorare le cose, perché capiranno quanta voglia ne hai.» «Quanta voglia ho di te» mi corresse, mettendomi le mani sul culo e attirandomi contro la sua erezione. Le grandi labbra, aperte per via della posizione, e il clitoride vi sfregarono contro attraverso la stoffa e io mossi i fianchi ansimando di piacere. «Posso vederle mettersi nella posizione migliore» gli dissi senza fiato «a fissarti con lo sguardo da “scopami”, facendo scorrere le dita nel solco dei seni perché tu possa apprezzare la loro dotazione. Si
agitano irrequiete, accavallando le gambe di continuo perché vogliono questo.» Gli presi in mano il cazzo grosso e duro e lo accarezzai. Si fletté sul mio palmo, vivo e impaziente. Gideon schiuse le labbra, l’unica crepa nel suo controllo. «Stai pensando a me, quindi ce l’hai duro. E se te ne stai seduto così, a gambe larghe, loro possono vedere quanto ce l’hai grosso, pronto a usarlo.» Gli afferrai il polso e spostai il suo braccio sinistro sopra lo schienale del divano. «Ecco come sei. Non muoverti.» Gli spostai
l’altro braccio in grembo. «Avrai un bicchiere in questa mano, con dentro due dita di cachaça scura. La sorseggi di quando in quando, leccandoti le labbra.» Mi protesi verso di lui e passai la lingua sulla curva sensuale della bocca. Aveva labbra piene ma sode. Spesso erano atteggiate severamente e non rivelavano nulla dei suoi pensieri. Sorrideva di rado, ma quando lo faceva poteva essere un sorriso giocoso da ragazzino oppure una sfida compiaciuta. I suoi sorrisi lenti erano pungoli erotici, mentre i mezzi sorrisi beffardi si prendevano gioco di se stesso e
degli altri. «Sembrerai distante e remoto» continuai. «Perso nei tuoi pensieri. Annoiato dall’energia frenetica e dalla musica martellante. I ragazzi vanno e vengono intorno a te. Manuel ha già in grembo una tipa arrapante, una diversa ogni volta che gli lanci un’occhiata. Per quanto lo riguarda, ce n’è più che a sufficienza per tutti.» Gideon sorrise. «E ha una passione per le donne latine. Approva totalmente il mio gusto in fatto di mogli.» «Moglie» lo corressi. «La tua prima e ultima.»
«La mia unica» concordò. «Testa calda. Sangue caldo. La mia unica e sola una botta e via permanente. So esattamente come sarà tra noi, e poi tu mi cogli di sorpresa. Mi mangi vivo, ogni volta, e ne vuoi ancora.» Gli misi una mano sulla guancia e lo baciai, continuando a muovere l’altra mano su e giù lungo la sua erezione con carezze lunghe e lente. «Arash ti porta un altro drink tutte le volte che passa. Ti racconta storie su quello che ha visto andando in giro per il locale e tu sembri divertito, il che fa impazzire le donne che ti stanno osservando.
Quel lampo di intimità e calore le spinge a volerne di più.» «E Arnoldo?» mormorò, guardandomi con gli occhi incupiti dalla lussuria. «È distaccato, come te. È ferito e diffidente perché gli hanno spezzato il cuore, ma è disponibile. Flirta e sorride, ma dà sempre quella sensazione di essere inaccessibile. Le donne troppo intimidite da te sceglieranno Arnoldo. Lui farà sì che loro si dimentichino di te, anche se lui in realtà si sarà già dimenticato di tutte loro.» Gideon fece un sorriso quasi impercettibile. «Mentre me ne sto
seduto lì a cuocere a fuoco lento con un’erezione perenne, sentendo tremendamente la tua mancanza, non posso divertirmi neanche un po’?» «È come te lo sto dipingendo, asso.» Mi sedetti sulle sue cosce dure come rocce. «E le donne si immagineranno di avvicinarsi e mettersi a cavalcioni di te come me adesso. Vorranno infilarti le mani sotto la maglietta, così.» Feci scivolare i palmi sotto l’orlo della T-shirt e li premetti contro gli addominali scolpiti. Percorsi con le dita il rigonfiamento dei muscoli, seguendo la cesellatura del suo
addome. «Fantasticheranno sul tuo corpo sodo sotto i vestiti, immaginando la sensazione di passare le mani sui tuoi pettorali.» Parlando, gli facevo quello che stavo descrivendo e il mio cuore iniziò ad accelerare i battiti per la sensazione di sentirlo sotto le mani. Gideon era scolpito e forte, una potente macchina del sesso, e c’era una femmina primitiva che reagiva d’istinto, attirata dal maschio alfa, pronta ad accoppiarsi con lui: vigoroso, possente, assolutamente pericoloso e indomabile. Si mosse e io mi bloccai. «No, stai fermo» lo ammonii. «Non le
toccheresti.» «Non sarebbero neanche vicine a me.» Ma riprese la posa in cui l’avevo messo. Un sultano dei tempi passati adorato da un harem di ragazze insaziabili. Mi sollevai sulle ginocchia e gli alzai la maglietta sopra la testa, bloccandogli le spalle nell’abbraccio della stoffa. Lui girò il capo e mi prese in bocca il capezzolo succhiandolo dolcemente. Gemetti e cercai di sottrarmi, troppo eccitata per tollerarlo. Chiuse i denti intorno al capezzolo eretto, intrappolandomi. Crollai la testa, gli occhi
inchiodati al movimento delle sue guance mentre mi succhiava, persa nel calore della sua bocca, della lingua che mi stuzzicava il capezzolo, della gola che si contraeva quando deglutiva. Il ritmo della sua lingua riecheggiò dentro di me, facendomi contrarre e rabbrividire. Misi le mani tra noi due e gli slacciai la tuta, abbassandogli i pantaloni a sufficienza per liberarlo. Gli presi in mano il pene con entrambe le mani, sfiorando con le dita le grosse vene pulsanti che correvano per tutta la lunghezza. La punta era bagnata e io feci
scivolare le mani sul liquido preeiaculatorio. Smise di succhiarmi quando posizionai il suo cazzo vicino al mio sesso. «Prendilo lentamente, angelo» mi ordinò burbero. «Fallo entrare bene. Starò dentro di te tutta la notte, e non voglio farti male.» Mi venne la pelle d’oca. «Loro non immaginerebbero di andarci piano» ribattei. Gideon sollevò le mani e mi scostò i capelli dalla faccia. «Non stai pensando ad altre donne adesso, angelo. Stai parlando di te.»
Sussultai, rendendomi conto che aveva ragione. La donna che lo stava montando non era una delle brunette dalle gambe lunghe che avevo immaginato nell’atto di guardarlo, ansiose di scoparselo. Ero io quella che gli accarezzava il membro con fare adorante. Ero io che lo avevo messo in posa e mi ero abbassata su di lui, facendo una pausa per strofinare le grandi labbra sulla grossa punta. Mio marito gemette sentendomi, sollevò il bacino e spinse contro l’apertura del mio corpo. Mi prese per i fianchi e mi fece abbassare, aprendomi il sesso con il pene.
«Oh, Gideon.» Sentii le palpebre pesanti mentre mi avvicinavo lentamente, prendendone qualche centimetro. Lui mi scostò, lasciando dentro solo la punta, poi mi fece abbassare di nuovo, dandomene di più. I tendini del collo erano come corde tese. «Non vuoi che indossi un cartello. Vuoi che indossi te, la tua fichetta stretta che mi stringe il cazzo. Immagini te stessa sopra mentre io mi limito a starmene seduto e a lasciare che tu lo prenda.» Allargò le braccia sullo schienale del divano, mettendo in mostra il
magnifico petto. «O vuoi che partecipi?» Passai la lingua sulle labbra aride e scossi la testa. «No.» Mi sollevai, poi scivolai di nuovo verso di lui. Lo rifeci ancora e ancora, prendendolo sempre più a fondo, finché le mie natiche toccarono le sue cosce. Era grosso e lungo. Gemetti piano sentendolo pulsare dentro di me. E non l’avevo ancora preso tutto. Inclinai la testa per baciarlo, assaporando le lente carezze della sua lingua intrecciata alla mia. «Ti stanno guardando, vero?» sussurrò.
«Stanno guardando te. Quando mi sollevo, colgono di sfuggita la visione del tuo cazzo e vedono quanto è grosso. Lo vogliono, più di ogni altra cosa, ma è mio. Sei tu che guardi me. Non riesci a togliermi gli occhi di dosso. Per te non c’è nessun altro nella sala.» «Ma ancora non ti tocco, giusto?» Fece un sorriso malizioso quando io scossi la testa. «Sorseggio con noncuranza la cachaça, come se non avessi la donna più sexy del mondo che mi prende il cazzo davanti a tutti. Non sono più annoiato, ma alla fine non lo sono mai stato. Stavo aspettando. Te.
Sapendo che eri tu la ragione del fremito del mio sangue.» Gli appoggiai le mani sulle spalle e lo scopai ritmicamente. Era meraviglioso: la sensazione del suo cazzo che si muoveva dentro di me; il gemito gutturale che tradiva la sua eccitazione; il velo di sudore sul petto; il modo in cui gli addominali si contraevano quando mi abbassavo e lui affondava dentro di me. Non ne avevo mai abbastanza. E il modo in cui si unì al mio gioco... come mi conosceva... quanto mi amava... Gideon si perdeva facendo sesso con me, ma era sempre attento,
concentrato su di me prima del suo orgasmo. Aveva riconosciuto prima di me la mia fantasia esibizionista, e l’aveva soddisfatta; sempre tenendomi al sicuro, senza rischiare una vera esibizione ma stuzzicandomi con la sua possibilità. Non l’avrei mai condiviso a quel modo, ero troppo possessiva; e lui non avrebbe mai condiviso neppure una minima parte di me, perché era troppo protettivo. Ma ci stuzzicavamo e giocavamo. Per due persone la cui iniziazione al sesso era stata dolorosa e fonte di vergogna, era meraviglioso poter trovare tanta gioia e amore
nell’atto sessuale. «Sono così duro dentro di te» grugnì, flettendosi al centro del mio corpo come aveva fatto tra le mie mani. «La musica è alta, perciò nessuno può udire i rumori che faccio, ma tu li senti. Sai che mi stai facendo impazzire. Il fatto che io non lo mostri ti eccita quanto essere guardata.» «Il tuo controllo» ansimai, accelerando il ritmo. «Perché domino dal basso» disse cupo. «Fingi di essere al comando, ma non è quello che vuoi. Conosco i tuoi segreti, Eva. Li conoscerò tutti. Non c’è niente che puoi
nascondermi.» Si portò il pollice alle labbra e lo percorse con la lingua in una carezza lenta e sensuale, senza mai staccare gli occhi dalla mia faccia. Poi mise una mano tra i nostri corpi e mi massaggiò il clitoride con carezze rudi e veloci, facendomi venire con un grido, mentre il mio sesso si contraeva intorno a lui. Entrò in azione, stringendomi a sé per alzarsi in piedi e poi mettermi supina sul divano, spingendosi con i piedi sul pavimento per infilarmi dentro gli ultimi centimetri. Iniziò a scoparmi con furia violenta e primitiva,
affondando nel mio sesso ancora in preda agli spasmi dell’orgasmo in cerca del suo piacere. Gettò indietro la testa, ansimò il mio nome e mi esplose dentro in getti caldi, gemendo e continuando a muoversi come se non riuscisse a fermarsi. Sbattei le palpebre e mi svegliai lentamente, guardando la luce della luna sul soffitto. Sotto la testa avevo un cuscino e il corpo nudo era coperto da un piumino. Girai la testa per guardare Gideon, ma lo spazio accanto a me era vuoto, le lenzuola stropicciate
eppure rimboccate con cura. Mi tirai su a sedere e guardai l’orologio. Erano quasi le tre del mattino. Lanciai un’occhiata verso il bagno, poi in direzione del corridoio. La luce filtrava dalla fessura della porta socchiusa. Scesi dal letto e mi incamminai, prendendo la vestaglia di seta blu pavone e infilandomela mentre uscivo dalla camera da letto. Annodai la cintura e puntai verso lo studio di Gideon. Era la luce proveniente da quella stanza a illuminare il corridoio e socchiusi gli occhi quando entrai, per abituarli al chiarore. Un rapido
sguardo mi rivelò un cane addormentato nella cuccia e un uomo pensieroso seduto alla scrivania. Osservava il collage di mie foto appeso al muro, con i gomiti appoggiati ai braccioli della poltroncina e un bicchiere di liquido ambrato fra le mani. Mi guardò. «Cosa c’è che non va?» chiesi, attraversando la stanza a piedi nudi. «Non stai evitando il letto, vero?» «No. Dovrei» precisò «ma no. Non riuscivo a dormire.» «Vuoi che ti sfinisca?» mi offrii con un sorriso, che probabilmente
sembrò stupido visto che avevo gli occhi chiusi per via della luce. Mio marito appoggiò il bicchiere e si batté la mano sulle cosce. «Vieni qui.» Mi avvicinai e mi rannicchiai in grembo a lui, mettendogli le braccia intorno al collo. Gli premetti le labbra sulla guancia. «Qualcosa ti preoccupa.» E lo aveva tormentato tutta la notte, qualunque cosa fosse. Mi sfregò il naso sulla curva dell’orecchio e sussurrò: «C’è qualcosa che non mi hai detto?». Aggrottai la fronte e mi scostai, scrutandolo in faccia. «Tipo cosa?»
«Tipo qualcosa.» Il petto gli si sollevò quando respirò a fondo. «Hai ancora dei segreti?» Lasciai che le sue parole facessero effetto, provando una strana fitta allo stomaco. «Il tuo regalo di compleanno. Ma non ho intenzione di dirti che cos’è.» Un debole sorriso gli addolcì la piega dura della bocca. «E te» mormorai, incantata da quel sorriso. «Tutti i pezzi di te che solo io conosco. Sei un segreto che manterrò fino al mio ultimo respiro.» Chinò la testa, e i capelli gli ricaddero in avanti nascondendogli
la faccia. «Angelo.» «È successo qualcosa, Gideon?» Ci mise un po’ a rispondere. Mi guardò: «Me lo diresti se qualcuno che conosci, una persona molto vicina, stesse facendo qualcosa di illegale?». La fitta allo stomaco si trasformò in un nodo. «Che cosa hai sentito? Qualche blog di pettegolezzi sta mettendo in giro bugie?» Si fece teso. «Rispondi alla domanda, Eva.» «Nessuno sta facendo niente di illegale!» «Non è quello che ti ho chiesto» disse paziente ma con fermezza.
Ripensai alla domanda. «Sì, te lo direi. Naturalmente. Ti dico tutto.» Si rilassò. Sollevò una mano e mi toccò la faccia. «Puoi dirmi qualunque cosa, angelo. Non importa cosa.» «Lo faccio.» Lo presi per il polso. «Non capisco perché mi stai facendo questo discorso.» «Non voglio segreti fra noi.» Gli lanciai un’occhiataccia. «Sei tu quello più colpevole, qui. Non ti abituerai mai a dirmi tutto.» «Ci sto lavorando.» «Lo so. Ecco perché le cose tra noi stanno andando alla grande.» Un altro sorriso tenero. «È così,
vero?» «Assolutamente.» Baciai il suo sorriso. «Niente più fughe, niente più segreti.» Gideon aggiustò la presa su di me e si alzò in piedi. «Cosa facciamo?» indagai, accoccolandomi contro il suo corpo caldo. Tornò in camera da letto. «Adesso mi sfinisci.» «Evviva.» La mattina dopo andò come quella prima, con Gideon in piedi alla solita ora mentre io oziavo nuda nel letto come un bradipo.
Mentre si faceva il nodo alla cravatta nella cabina armadio, distolse gli occhi dallo specchio per guardarmi. «Quali sono i tuoi programmi per oggi?» Sbadigliai e abbracciai il cuscino. «Quando esci mi rimetto a dormire un’oretta. Blaire Ash arriva alle dieci.» «Ah, sì?» Tornò a guardare nello specchio. «Perché?» «Voglio fare dei cambiamenti. Trasformeremo la stanza degli ospiti in studio con un letto a scomparsa. Così avremo comunque una stanza degli ospiti e io avrò un posto in cui lavorare.»
Gideon si lisciò la cravatta, poi iniziò ad abbottonarsi il gilet, uscendo dalla cabina armadio. «Di questo non avevamo parlato.» «Vero.» Mossi con intenzione una gamba in modo da far scivolare giù il lenzuolo. «Non volevo che ti opponessi.» In origine avevamo concordato di trasformare la stanza degli ospiti nella mia camera e di collegarla al bagno padronale per ottenere una suite con camere da letto separate. Quel layout era imposto dalla parasonnia di Gideon, ma significava dover dormire lontani. «Non dovremmo condividere il
letto» disse a bassa voce. «Non sono d’accordo.» Prima che potesse intervenire, continuai: «Ho cercato di fare del mio meglio, Gideon, ma l’idea di stare separati in quel modo non mi rende felice». Rimase in piedi in silenzio, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni. «Non è giusto costringermi a scegliere tra la tua felicità e la tua sicurezza.» «Lo so. Ma non ti sto costringendo a scegliere, l’ho già stabilito. Sono consapevole che anche questo non è giusto, ma la decisione andava presa, e io l’ho fatto.» Mi sollevai e mi misi il
cuscino dietro la schiena, tirandomi su per appoggiarmi alla testiera. «La decisione l’avevamo presa insieme. Poi a quanto pare tu hai cambiato idea senza parlarmene. E farmi vedere le tette – per quanto siano splendide – non ti servirà a niente.» Lo guardai socchiudendo gli occhi. «Se avessi voluto distrarti, non avrei nemmeno sollevato la questione.» «Cancella l’appuntamento, Eva» disse brusco. «Prima dobbiamo parlarne.» «L’appuntamento c’è già stato. Abbiamo dovuto interromperlo
perché è arrivata la polizia, ma Blaire sta lavorando ai nuovi progetti. Oggi mi porta alcune proposte.» Gideon tirò fuori le mani dalle tasche e incrociò le braccia. «Così la tua felicità viene prima, e al diavolo la mia?» «Non sei felice di dividere il letto con me?» Vidi un muscolo guizzargli sulla mascella. «Non prendermi per il culo. Non stai considerando come mi sentirei se ti facessi del male.» All’improvviso la frustrazione si trasformò in vergogna. «Gideon...» «E non stai pensando a cosa
farebbe a noi» scattò. «Ti lascerò fare esperimenti con un sacco di cose, Eva, ma con niente che danneggi il nostro rapporto. Se vuoi addormentarti accanto a me, io sarò lì. Se vuoi svegliarti con me accanto, posso fare anche questo. Ma le ore in cui siamo entrambi addormentati sono troppo pericolose per soddisfare un maledetto capriccio.» Deglutii a fatica. Avrei voluto spiegarmi meglio, dirgli che ero preoccupata della distanza che due camere da letto separate avrebbero potuto creare. Non solo fisicamente, ma emotivamente.
Mi feriva che lui facesse l’amore con me e poi se ne andasse. Prendeva una cosa bellissima e magica e la trasformava in qualcos’altro. E se fosse rimasto finché mi addormentavo per tornare prima che mi svegliassi, sarebbe stato in debito di sonno. Per quanto sembrasse instancabile, rimaneva pur sempre un essere umano. Lavorava sodo, si allenava duramente e doveva gestire tonnellate di stress un giorno dopo l’altro. Dormire poco non poteva diventare un’abitudine. Ma i timori per la mia sicurezza non potevano essere liquidati in
un’unica conversazione. Avremmo dovuto procedere un po’ alla volta. «Okay» concessi. «Facciamo così: Blaire propone le sue idee e noi le guardiamo insieme più tardi. Nel frattempo, non abbattiamo nessuna parete nella stanza degli ospiti. Credo che sia eccessivo, Gideon.» «Non la pensavi così in precedenza.» «È una soluzione provvisoria che può diventare permanente e noi non vogliamo questo. Cioè, tu non lo vuoi, giusto? Vuoi lavorare sulla cosa di dormire insieme, no?» Abbassò le braccia e fece il giro
del letto, sedendosi sul bordo. Mi prese la mano e se la portò alle labbra. «Sì, lo voglio. Mi uccide non poterti dare una cosa così essenziale al nostro matrimonio. E sapere che sei infelice... Mi dispiace, angelo. Non riesco a dirti quanto.» Mi sporsi verso di lui e gli misi una mano sulla guancia. «Ci lavoreremo. Avrei dovuto parlartene prima. Immagino di essermi comportata in puro stile Gideon: prima agisci, poi spiega.» Fece una smorfia triste. «Touché.» Mi diede un bacio veloce e appassionato. «Occhio a Blaire. Ti
vuole.» Mi appoggiai al cuscino. «Mi trova attraente» lo corressi. «Ed è un seduttore nato.» Negli occhi di Gideon si accese un bagliore pericoloso. «Ci ha provato con te?» «Niente di non professionale. Se passasse il limite, lo liquiderei io stessa, ma mi sa che probabilmente fa il galante con tutte le sue clienti. Scommetto che serve agli affari.» Sorrisi. «Gli si sono raffreddati i bollenti spiriti quando gli ho detto che stavo iniziando ad abituarmi alla tua insaziabilità e non pensavo ci fosse più bisogno di letti separati
per dormire.» Inarcò le sopracciglia. «Non è vero.» «Assolutamente sì. Dormirò quando sarò morta, gli ho detto. Nel frattempo, se mio marito vuole scoparmi una mezza di dozzina di volte a notte ed è un fuoriclasse in questo, chi sono io per lamentarmi?» La prima volta che avevamo visto Blaire, non avevo considerato quello che avrebbe pensato di Gideon che sposava una donna con cui non intendeva dormire. Quando Blaire aveva iniziato a flirtare con discrezione, mi ero resa conto che
avrebbe potuto credere che fossi disponibile... e avevo capito quanto la situazione fosse imbarazzante per mio marito. Eppure Gideon non si era mai lamentato di come sarebbe apparsa la cosa agli occhi di un estraneo. Era preoccupato per me, non per la sua reputazione di battitore di prima classe. Mi ero divertita a rimettere Blaire al suo posto. Mi sistemai i capelli arruffati. «Sono una bionda con le tette grosse. Una risatina al momento giusto e di solito posso dire qualunque cosa e passarla liscia.» «Cristo.» Gideon simulò un
sospiro sofferente, ma era chiaramente divertito. «È una tua ossessione spifferare a tutti i dettagli della nostra vita sessuale?» «No.» Gli strizzai l’occhio. «Ma di sicuro è spassoso.» Dopo che Gideon fu uscito per andare in ufficio non tornai a dormire. Presi il telefono e chiamai il mio personal trainer, Parker Smith; dato che era presto, non stava ancora lavorando e rispose. «Ehi, Parker. Sono Eva Tramell. Come stai?» «Sto bene. Vieni oggi? Stai battendo la fiacca ultimamente.»
Arricciai il naso. «Lo so. Sì, vengo. È il motivo per cui ti ho chiamato: vorrei lavorare su una cosa con te.» «Sì? Cos’hai in mente?» «Abbiamo lavorato sulla consapevolezza situazionale e su cosa fare se veniamo messi nell’angolo, come uscirne. E se invece fossi colta completamente di sorpresa, tipo quando dormo?» Assorbì le mie parole. «Una ginocchiata nelle palle manderebbe al tappeto qualunque uomo. Ti darebbe lo sbocco di cui hai bisogno.» L’avevo già fatto con Gideon, per
svegliarlo da un violento incubo. L’avrei rifatto, se si fosse arrivati a questo, ma avrei preferito riuscire a sottrarmi senza fargli male; soffriva già tanto durante i suoi sogni, non volevo che si svegliasse dolorante. «Ma se... Come faccio a dare una ginocchiata a qualcuno che mi sta sopra?» «Possiamo lavorarci su, inscenare situazioni diverse.» Si interruppe. «Va tutto bene?» «Benissimo» gli assicurai, poi mentii: «Ieri sera stavo guardando un programma televisivo e mi sono resa conto che, a prescindere da quanto si è preparati, non è
possibile avere consapevolezza situazionale se si sta dormendo». «Nessun problema. Sarò in palestra tra un paio d’ore e rimarrò fino alla chiusura.» «Okay, grazie.» Chiusi la telefonata e mi diressi alla doccia. Quando uscii, c’erano due chiamate perse di Cary. Lo richiamai. «Ehi, che succede?» «Stavo pensando. Hai accennato a un abito classico, giusto?» Sospirai. Provavo una fitta di disappunto ogni volta che ci pensavo: per quanto volessi credere che il vestito perfetto sarebbe
piovuto dal cielo prima del grande giorno, era più realistico accettare che avrei dovuto accontentarmi. Eppure dovevo essere grata a Cary perché mi dava retta; mi conosceva come mi conoscevo io. «Che ne dici di uno degli abiti da sposa di Monica?» suggerì. «Una cosa antica e tutto il resto. Avete la stessa struttura fisica, non sarebbero necessarie molte modifiche.» «Ugh. Sul serio? No, Cary. Se fosse quello con cui ha sposato mio padre, forse. Ma non posso mettermi qualcosa che ha indossato per sposare un patrigno. Sarebbe
troppo strano.» Scoppiò a ridere. «Già, hai ragione. Però ha molto buon gusto.» Mi passai una mano tra i capelli umidi. «Comunque, non credo che abbia tenuto gli abiti da sposa. Non è un gran souvenir da portare nella casa del tuo nuovo marito.» «Okay, è un’idea stupida. Potremmo cercare qualcosa di vintage. Un mio amico conosce tutte le sartorie e i negozi dell’usato di alta moda di Manhattan.» Il consiglio non era da buttare. «Perfetto. È una buona idea.» «A volte sono geniale. Oggi sono
impegnato con Grey Isles, ma stasera potrebbe andar bene.» «Stasera ho la terapia di coppia.» «Ah, giusto. Divertiti. Domani? Magari potremmo prendere anche un paio di cose per Ibiza.» L’accenno ai programmi per il weekend mi fece sentire pressata dal tempo. Non potevo fare a meno di essere ansiosa, anche sapendo quanto sarebbe stato divertente passare del tempo con i miei amici. «Domani va bene. Vengo all’appartamento.» «Ottimo, così facciamo anche i bagagli.»
Terminammo la conversazione e io rimasi per un po’ con il telefono in mano, in preda alla tristezza. Per la prima volta da quando ci eravamo trasferiti a New York, Cary e io vivevamo separati. Stavo mettendo su casa con Gideon, mentre la casa di Cary rimaneva l’appartamento che avevamo condiviso. L’app Calendario del cellulare trillò, ricordandomi che Blaire sarebbe arrivato di lì a mezz’ora. Imprecando in silenzio, lasciai cadere il telefono sul letto e mi affrettai a prepararmi.
«Come va?» chiese il dottor Petersen, mentre prendevamo posto. Gideon e io ci sedemmo sul divano, come al solito, mentre il dottor Petersen si sistemò sulla poltrona e prese il tablet. «Mai stati meglio» risposi. Mio marito non disse niente, ma mi prese una mano e se la mise sulla coscia. «Ho ricevuto l’invito al vostro ricevimento.» Il dottor Petersen sorrise. «Mia moglie e io non vediamo l’ora.» Non ero riuscita a convincere mia madre a mettere neppure il minimo
accenno di rosso sugli inviti, ma pensavo che fossero belli lo stesso. Avevamo optato per biglietti in pergamena inseriti in una custodia trasparente e chiusi in una busta bianca per la spedizione e la privacy. Sapere che erano stati inviati mi faceva sentire le farfalle nello stomaco: un altro passo avanti per lasciarci alle spalle la finzione del fidanzamento. «Anch’io.» Appoggiai la spalla a quella di Gideon e lui mi cinse con un braccio. «L’ultima volta che ci siamo visti» disse il dottor Petersen «avevi appena lasciato il lavoro, Eva.
Come è andata?» «Meglio di quanto pensassi. Sono stata impegnata, però, e questo aiuta.» «Aiuta in che senso?» Riflettei prima di rispondere. «Nel senso che non mi sento inutile. E sto lavorando su cose che fanno una grossa differenza nella mia vita.» «Tipo?» «Il matrimonio, naturalmente. E il trasferimento nell’attico, che sto facendo a piccolissimi passi. E poi abbiamo in mente alcune ristrutturazioni di cui vorrei parlarle.»
«Ma certo.» Mi studiò. «Prima parliamo di questi piccolissimi passi. Hanno un significato?» «Be’, solo che non ho intenzione di fare tutto in una volta. È una cosa in fieri.» «La vedi come un modo di familiarizzare con l’impegno che ti sei presa? In precedenza, hai agito con molta decisione: fuga, separazione, licenziamento.» Quel commento mi fece riflettere. «È un cambiamento che ha un impatto su Gideon e su Cary tanto quanto su di me.» «Per quel che mi riguarda,» interloquì Gideon «prima si
trasferisce, meglio è.» «Sto solo cercando di fare le cose per bene.» Mi strinsi nelle spalle. Il dottor Petersen scribacchiò sul tablet, prendendo appunti. «Cary ha delle difficoltà a adattarsi?» «Non lo so» ammisi. «Non lo dà a vedere, ma io mi preoccupo. Senza sostegno ricade nelle brutte abitudini.» «Come la pensa in proposito, Gideon?» Lui rispose in tono neutro: «Sapevo a cosa andavo incontro quando l’ho sposata». «È sempre una buona cosa.» Il dottor Petersen sorrise. «Ma non mi
dice molto.» Gideon spostò la mano dalla mia spalla e me la mise tra i capelli, giocherellandoci. «Anche lei è un uomo sposato, dottor Petersen, perciò sa che ci sono delle concessioni che un marito fa per amor di pace. Cary è una delle mie.» Mi ferì sentire quelle parole, ma capivo che Cary aveva ricominciato da zero con Gideon. Dopodiché, aveva commesso diversi errori – come l’orgia nel salotto di casa – che non avevano giocato a suo favore. Il dottor Petersen spostò lo
sguardo su di me. «Quindi stai tentando di mediare tra i bisogni di tuo marito e quelli del tuo migliore amico. È stressante?» «Non è divertente» svicolai «ma non può definirsi neanche mediare. Il mio matrimonio – e Gideon – vengono per primi.» Intuii che Gideon aveva apprezzato quando mi diede una tiratina ai capelli con gesto possessivo. «Ma» proseguii «non voglio sopraffare Gideon e non voglio che Cary si senta abbandonato. Trasferire ogni giorno un po’ di cose rende il cambiamento graduale.»
Una volta che ebbi pronunciato quelle parole, dovetti ammettere che suonavano molto materne. Eppure non potevo fare a meno di volere proteggere le persone della mia vita che ne avevano bisogno, soprattutto dalla sofferenza che le mie azioni avrebbero potuto causare. «Hai parlato di tutti tranne che di te» sottolineò il dottore. «Come ti senti?» «Inizio a sentire l’attico come casa mia. L’unica cosa che mi turba è la sistemazione per la notte. Condividiamo un letto, ma Gideon vuole che dormiamo separati, e io
no.» «Per via degli incubi?» chiese il dottor Petersen guardando Gideon. «Sì» rispose lui. «Ne ha avuto qualcuno di recente?» Mio marito annuì. «Non di quelli peggiori.» «Che cosa rende un incubo veramente brutto? Il fatto che lei reagisca fisicamente?» Il petto di Gideon si sollevò mentre lui respirava a fondo. «Sì.» Il dottore riportò lo sguardo su di me. «Comprendi il rischio, Eva, eppure vuoi dormire con Gideon.» «Sì, certo.» Sentii il cuore
accelerare i battiti al ricordo. Gideon mi aveva tenuta ferma con ferocia, minacciandomi con orribili parole di sofferenza e rabbia. Nella morsa dell’incubo Gideon non vedeva me ma Hugh... un uomo che voleva fare a pezzi a mani nude. «Molte coppie felicemente sposate dormono in camere separate» fece notare il dottor Petersen. «Le ragioni sono varie – il marito russa, la moglie ruba le coperte eccetera –, ma pensano che dormire da soli contribuisca all’armonia di coppia meglio che condividere il letto.»
Mi staccai da Gideon, spinta dal bisogno che entrambi mi capissero. «A me piace dormire accanto a lui. A volte mi sveglio nel cuore della notte e lo guardo dormire. A volte mi sveglio e non apro neanche gli occhi, mi limito a restarmene lì a sentirlo respirare. Sento il suo odore, il suo calore. Dormo meglio quando lui è accanto a me. E so che anche per lui è così.» «Angelo.» Gideon mi accarezzò la schiena. Girai appena la testa e incontrai il suo sguardo. L’espressione era impassibile, il viso meraviglioso, ma i suoi occhi erano pozze scure di
dolore. Gli presi la mano. «Lo so che ti fa star male. Mi dispiace. Ho solo bisogno che lavoriamo in questa direzione. Non voglio che nessuno di noi due rinunci.» «Quello di cui parli, Eva» disse il dottor Petersen «è l’intimità. Ed è una delle gioie più profonde del matrimonio. È comprensibile che tu la desideri tanto. Tutti vi anelano in certa misura, ma probabilmente a te e a Gideon sembra particolarmente importante.» «Per me lo è» concordai. «Stai forse dicendo che per me non è così?» disse Gideon asciutto. «No.» Mi girai verso di lui. «Non
metterti sulla difensiva, ti prego. Non è colpa tua. Non ti sto rimproverando.» «Non lo sai quanto mi fa stare di merda?» mi accusò. «Vorrei che non la prendessi sul personale, Gideon. È...» «Mia moglie vuole guardarmi dormire e io non posso darle neanche questo» scattò. «E non sarebbe una cosa personale, cazzo?» «Okay, parliamone» intervenne prontamente il dottor Petersen, richiamando la nostra attenzione. «Il nocciolo di questa conversazione è un desiderio di intimità. Gli esseri
umani, per natura, cercano l’intimità, ma i sopravvissuti ad abusi sessuali nell’infanzia possono provare questo bisogno in modo particolarmente intenso.» Gideon era ancora teso, ma ascoltava con attenzione. «In molti casi» proseguì il dottore «chi abusa fa in modo di isolare la vittima, per tenere nascosto il suo crimine, e di renderla dipendente. Molto spesso sono le vittime stesse ad allontanarsi dalla famiglia e dagli amici. In situazioni come queste, la vita degli altri sembra così normale e i problemi altrui così insignificanti
in confronto al terribile segreto che sono costrette a nascondere.» Scivolai vicina a Gideon, tirando su le ginocchia per aderire a lui con tutto il corpo. Mi circondò con un braccio e mi prese la mano. L’espressione del dottor Petersen si addolcì mentre ci osservava. «Questa profonda solitudine si è alleviata quando vi siete aperti l’uno all’altra, ma essere rimasti privi della vera intimità così a lungo lascia il segno. Ti spingo a prendere in considerazione modi alternativi per ottenere la vicinanza che desideri tanto, Eva. Create segnali e rituali che siano propri solo del
vostro rapporto, che non minaccino nessuno dei due e vi facciano sentire in contatto.» Annuii con un sospiro. «Ci lavoreremo» disse. «Ed è probabile che mentre lo facciamo i suoi incubi, Gideon, continuino a diminuire di frequenza e gravità. Ma siamo solo all’inizio; abbiamo fatto i primi passi di un lungo percorso.» Alzai la testa e guardai Gideon. «Un percorso lungo tutta la vita» promisi. Gideon mi toccò gentilmente il viso. Non pronunciò le parole, ma io le vidi nei suoi occhi, le sentii nella sua carezza.
Avevamo l’amore. sarebbe venuto.
Il
resto
10
«Ho parlato con Benjamin Clancy» disse Raúl, mentre si chinava appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Lei e Mrs Cross arriverete all’aeroporto nello stesso momento, così potrete viaggiare insieme, se volete.» «Sì, grazie.» Avevo bisogno di trascorrere quel tempo con Eva prima che le nostre strade si
dividessero. Già le ore che passavo al lavoro erano troppo lunghe senza di lei, e un intero fine settimana sarebbe stato una tortura. «La chiamo per avvisarla che andremo a prenderla. Ci servirà la limousine.» Professionista fino al midollo, Raúl rimase impassibile. Avrebbe avuto più senso usare la limousine per gli amici di Eva, anziché per noi, ma né la Bentley né la Mercedes mi avrebbero concesso la privacy di cui avevo bisogno. Seduto in poltrona nel mio ufficio, avevo di fronte sia Angus sia Raúl, che occupavano le due poltrone imbottite. Avevamo deciso che Angus non sarebbe
partito, mentre Raúl avrebbe guidato la squadra di sicurezza che mi avrebbe accompagnato in Brasile. Angus poi sarebbe andato a Austin, per indagare sul passato di Lauren Kittrie. Raúl fece un cenno per dire che aveva capito. «Organizzeremo separatamente il viaggio degli amici della signora e dei suoi.» «Eva come ci va, a Ibiza?» «Con un jet privato» rispose «pilotato da Richard Stanton. Ho suggerito loro di soggiornare al Vientos Cruzados, e Clancy si è detto d’accordo. Abbiamo dovuto
penare un po’, perché il resort è tutto prenotato per la stagione estiva, ma il direttore ha risolto il problema. Hanno rafforzato la sicurezza in previsione dell’arrivo di Mrs Cross.» «Bene». Sapere che Eva avrebbe alloggiato in un resort della Cross Industries mi faceva stare più tranquillo. A Ibiza avevamo anche due nightclub famosi, uno in città e uno a Sant Antoni. Sapevo, anche senza bisogno di chiederlo, che entrambi erano già stati segnalati a Clancy. Mi aspettavo che avrebbe usato quell’informazione: era un uomo intelligente e avrebbe
apprezzato l’aiuto che la sicurezza e lo staff dei due locali gli avrebbero potuto dare. «Come abbiamo già discusso» continuò «la nostra squadra si farà trovare in aeroporto, e poi seguirà Mrs Cross per tutto il weekend. Hanno ricevuto istruzioni di stare in borghese e di confondersi con la folla, di fare da supporto alla squadra di Clancy e intervenire solo se strettamente necessario.» Annuii. Clancy era bravo, ma aveva sia Monica sia Eva da sorvegliare; inoltre loro consideravano Cary uno di famiglia, quindi Clancy avrebbe dovuto
tenere d’occhio anche lui. La sua attenzione si sarebbe dovuta dividere in tre, e Monica avrebbe dovuto avere la precedenza, in qualità di moglie del suo datore di lavoro. Eva non era la priorità per nessuno, se non per me. Volevo che non la perdessero di vista ogni volta che usciva dall’hotel. Grazie a Dio, un weekend del genere non si sarebbe più ripetuto. Raúl si alzò. «Faccio un salto da Clancy per discutere il protocollo per il tragitto fino all’aeroporto.» «Grazie, Raúl.» Lui se ne andò con un cenno di saluto.
Anche Angus si alzò in piedi. «Vado a portare Lucky da sua sorella. Mi sta mandando un messaggio all’ora per chiedermi se sono già partito.» Quelle parole mi strapparono quasi un sorriso. Ireland era stata felicissima quando le avevo chiesto di tenermi il cane. Pensavo che Lucky avrebbe preferito stare con lei che prendere l’aereo, e Ireland avrebbe potuto usarlo per distrarsi dalla depressione di nostra madre per il divorzio. Angus si fermò prima di arrivare alla porta. «Si diverta, ragazzo mio. Le farà bene.»
Sbuffai. «Chiamami, se trovi qualcosa.» «Non mancherò.» Anche lui se ne andò, lasciandomi da solo a finire il lavoro della settimana. Prima di chiamare mia moglie, presi nota dell’orario. «Ciao, asso» rispose con voce squillante. «Non riesci a non pensare a me, vero?» «Dimmi che stavi pensando a me.» «Ti penso sempre.» Avevo in testa l’immagine di lei la notte precedente, sdraiata sul letto a pancia in giù e con le gambe sollevate. Mi aveva guardato fare le
valigie con il mento appoggiato sulle mani, commentando di tanto in tanto ciò che sceglievo di mettere. Aveva notato che non avrei portato con me né i pantaloni grigio grafite su cui aveva fantasticato né una T-shirt nera con lo scollo a V. Quelle deliberate omissioni erano state le uniche cose che le avevano strappato un sorriso; per il resto era stata per quasi tutto il tempo in silenzio, pensosa. «Tu e io andremo in aeroporto in macchina insieme» le dissi. «Noi due da soli.» «Oh.» Ci mise un attimo a
realizzare. «Che idea carina.» «Altro che carino. Sarà indimenticabile.» «Oh.» La sua voce si abbassò e diventò più roca: sapevo che stava pensando al sesso. «È venuta anche a te la fissazione dei mezzi di trasporto?» Quella battuta mi divertì di cuore, e mi aiutò a scaricare lo stress dovuto alla preoccupazione per i giorni successivi. Eva si lasciava prendere ovunque ci trovassimo, ma capitava spesso che mi seducesse mentre eravamo in viaggio per andare da qualche parte. Poiché un tempo potevo fare
sesso solo negli hotel, aveva sconvolto il mio mondo incitandomi a fare l’amore con lei in macchina o in aereo, oppure a casa mia o anche nei luoghi di lavoro. Non avrei mai potuto dirle di no: non ne ero capace. Quando lei mi voleva, ero sempre pronto e pieno di desiderio. «Eva è la mia fissazione» mormorai. «Bene.» Fece un respiro. «Il weekend è già finito?» Sentii Cary dire qualcosa che non riuscii ad afferrare del tutto. «Fra un po’, angelo. Poi ti lascio andare tranquilla.»
«Non lasciarmi andare mai, Gideon.» Lo disse con un ardore che mi commosse, e che tradiva la sua inquietudine per il weekend che si stava avvicinando. Dopo il periodo di separazione a cui lei stessa mi aveva costretto, era bello sapere che non aveva intenzione di viverne un altro, sia pure in circostanze decisamente più felici. «Ti lascerò ritornare a quello che stavi facendo» mi corressi. «Così potrai essere pronta quando Raúl verrà a prenderti.» «Non mi interessa lui. Voglio essere pronta a venire con te» rispose civettuola, lasciandomi con
un’erezione quasi dolorosa quando la chiamata finì. Arash fece irruzione nel mio ufficio poco dopo le quattro, con le mani in tasca e fischiettando. Sorrideva, e si buttò su una delle sedie di fronte alla mia scrivania. «Sei pronto per il weekend?» «Per quanto mi è possibile.» Mi appoggiai allo schienale e iniziai a tamburellare le dita sui braccioli della poltrona. «Sarai felice di sapere che la denuncia di aggressione di Anne Lucas è stata ritirata.» Me lo aspettavo, ma ero
comunque contento di averne conferma. «Non poteva essere altrimenti.» «Non so se è poi anche stata accusata di falsa testimonianza, ma nel frattempo, se tenta di contattare te, Eva o Cary in qualsiasi modo, io devo saperlo subito.» Annuii distrattamente. «Certo.» Mi studiò. «A che cosa stai pensando?» Feci un sorriso sarcastico. «Ho appena finito una telefonata con uno dei membri del consiglio di amministrazione della Vidal Records. Christopher sta ancora
cercando il capitale necessario per acquisire la maggioranza delle quote.» Arash inarcò le sopracciglia. «Se riesce a mettere insieme i soldi, tu ne uscirai?» «Se mi dovessi preoccupare solo di lui, lo farei.» L’ingresso di Ireland negli affari di famiglia doveva ancora essere deciso, ma lei era comunque interessata al successo dell’azienda, e Christopher aveva preso decisioni sbagliate. Ogni volta che mi ero offerto di dargli qualche consiglio aveva rifiutato, e spesso non aveva voluto dare ascolto anche a Chris, forse perché aveva
pensato che la saggezza di suo padre fosse in parte da attribuire a me. «Che cosa ne pensa il consiglio di amministrazione?» «È considerato un feudo di famiglia, e vogliono che io prenda una decisione rapida e indolore.» «È possibile? Non sei mai andato d’accordo con tuo fratello.» Scossi la testa. «È un buono a nulla.» Sapevo che Arash non avrebbe capito. Aveva un fratello e una sorella, e la sua famiglia era molto unita. Sospirò. «Mi dispiace, amico.
Dev’essere dura.» In un mondo ideale, Christopher avrebbe partecipato al mio weekend di addio al celibato. Saremmo stati vicini. Sarebbe stato il mio testimone di nozze... ... un ruolo che, tra l’altro, non avevo ancora chiesto a nessuno di interpretare. Arnoldo aveva preso in mano l’organizzazione del weekend, ma non sapevo se l’aveva fatto perché pensava che ci sarebbe stato lui al mio fianco al matrimonio. Forse era semplicemente perché aveva più iniziativa degli altri. Solo poche settimane prima non
sarebbe stato in discussione avere Arnoldo al mio fianco come testimone. Una parte di me sperava che avrebbe ancora potuto essere così. Anche Arash era una buona opzione. Diversamente da Arnoldo, lo vedevo quasi tutti i giorni. Era il mio avvocato, quindi sapeva delle cose su di me, e su Eva, che nessun altro sapeva. Mi fidavo ciecamente di lui, anche al di là del segreto professionale. Ma nessuno era così schietto e diretto con me come Arnoldo, a parte mia moglie. Da molto tempo pensavo che i pareri caustici e
diretti del mio amico mi avessero impedito di diventare troppo cinico e distratto. Questo weekend avrebbe sancito la scelta definitiva tra i due. Mi sembrava... sbagliato rimanere fuori dalla porta dell’appartamento di Eva ad aspettarla. Mentre me ne stavo appoggiato alla parete di fronte all’ingresso, pensai a quanto le cose fossero radicalmente cambiate e al fatto che avrei fatto di tutto perché non tornassero come prima. Non avrei mai pensato che tra noi sarebbe stato così: entrambi sinceri, senza nulla da nascondere,
pazzamente innamorati. Anche prima c’era stata qualche avvisaglia, certo: per esempio, durante alcune delle notti che avevamo trascorso insieme nell’appartamento di fianco, oppure nei weekend in cui ce n’eravamo andati di soppiatto per starcene da soli. Si era trattato di momenti isolati, però, circondati dal vuoto pneumatico, mentre ora li potevamo vivere alla luce del sole. Sarebbe stato ancora meglio quando tutti avessero saputo che eravamo sposati e lei fosse venuta a vivere nell’attico con me. La porta si aprì ed Eva uscì, sexy
ed elegante nel suo vestito rosso attillato e senza maniche e i sandali con i tacchi. Teneva gli occhiali da sole sulla fronte e si tirava dietro una valigia. La volta successiva l’avrebbe preparata per la nostra luna di miele. Saremmo partiti insieme, proprio come adesso, ma poi saremmo stati insieme per sempre. «Lascia a me» le dissi, raddrizzandomi per prendere la valigia. Appena mi avvicinai lei mi abbracciò, stringendo il suo corpo caldo e morbido contro il mio. Mi prese la testa tra le mani e mi
diede un rapido bacio. «Saresti dovuto entrare.» «Tu e io con un letto nelle vicinanze?» Le misi un braccio intorno alla vita e la guidai verso l’ascensore. «Ne avrei approfittato volentieri, se non fossi stato sicuro che Cary si sarebbe messo a bussare alla porta, preoccupato che perdessi il volo.» Mentre scendevamo verso l’atrio Eva si staccò da me e si appoggiò al corrimano dietro di lei, mostrando le sue gambe sensuali. Stava flirtando apertamente con il corpo, e anche gli occhi facevano la loro parte. Mi lanciò un’occhiata di fuoco
mentre si passava la lingua sul labbro inferiore. «Hai un’aria supersexy.» Diede una rapida occhiata alla T-shirt bianca con lo scollo a V e ai pantaloni cachi che mi ero messo prima di uscire dall’ufficio. «Di solito ti piace vestirti con colori scuri» sottolineò. «Dove andremo c’è da sciogliersi dal caldo.» «Tu mi fai sciogliere.» Alzò un piede e sfregò lentamente le cosce tra loro. Cominciavo a divertirmi e sentivo salire il calore lieve dell’eccitazione, così mi appoggiai alla parete per
godermi lo spettacolo. Arrivati nell’atrio la feci uscire prima di me, poi la raggiunsi subito e le posai la mano alla base della schiena. Si girò e mi sorrise. «Ci sarà traffico.» «Ma che peccato.» Il traffico – e il tempo che ci avremmo messo per arrivare – erano esattamente le cose su cui contavo. «Mi sembri taaaanto dispiaciuto» mi disse scherzando, prima di sorridere all’usciere che le aprì la porta. Raúl era fuori ad aspettarci, di fianco alla limousine. In un attimo
eravamo in viaggio, immersi nel mare di auto che lottavano per farsi strada attraverso le vie di Manhattan. Eva si piazzò sul divanetto che occupava l’intera lunghezza del veicolo, mentre io mi sistemai sul sedile in fondo. «Vuoi qualcosa da bere?» mi domandò, guardando il bar di fronte a lei. «E tu?» «Non saprei.» Increspò le labbra. «Avevo sete prima.» Aspettai che prendesse una decisione, mentre la osservavo. Era la mia gioia, la luce dei miei occhi. Avrei fatto qualunque cosa perché
fosse felice e contenta per il resto della sua vita. Il pensiero di essere forse costretto a farle del male mi pesava, ne aveva già viste troppe. Se avessimo scoperto che Monica non era affatto chi Eva pensava che fosse, come avrei fatto a darle la notizia? Mia moglie era già rimasta male quando aveva scoperto che sua madre la spiava servendosi del suo cellulare, dell’orologio e dello specchietto che teneva nella borsa: una falsa identità sarebbe stata un tradimento ancora peggiore. E che cosa nascondeva quella falsa identità? «Non riesco a trovare un vestito
adatto» disse all’improvviso, con la sua bocca sensuale imbronciata. Ci volle un attimo perché mi riscuotessi dai miei pensieri e registrassi ciò che mi diceva. «Per il matrimonio?» Lei annuì, con uno sguardo così scoraggiato da farmi venire voglia di riempire di baci il suo bellissimo viso. «Vuoi che ti aiuti, angelo?» «Non puoi. Lo sposo non deve vedere l’abito della sposa prima del grande giorno.» Spalancò gli occhi in un’espressione di sorpresa e terrore. «Ma tu avevi già visto il vestito che ho indossato quando ci
siamo sposati la prima volta!» Era vero, l’avevo scelto io. «Ma quando l’ho visto io era un normale vestito» dissi nel tentativo di calmarla. «È diventato un abito da sposa solo nel momento in cui l’hai indossato tu.» «Ah.» Tornò a sorridere. Si sfilò i sandali e mi venne vicino, posandomi la testa in grembo, con i capelli che formavano un ventaglio dorato sulle mie cosce. «Tu che cosa ti metterai?» mi chiese, chiudendo gli occhi. «Ti immagini qualcosa in particolare?» Curvò la bocca. La sua risposta fu
lenta e sognante. «Uno smoking. Sei sempre splendido, ma con lo smoking è un’altra cosa.» Le sfiorai le labbra con la punta delle dita. C’erano state volte in cui avevo detestato il mio volto, il fatto che il mio aspetto finisse sempre con l’attirare un forte interesse sessuale quando la sola idea di essere desiderato mi faceva accapponare la pelle. Alla fine ci avevo fatto l’abitudine, ma era stato solo quanto avevo conosciuto Eva che avevo cominciato ad attribuire il giusto valore a ciò che ero. A lei piaceva da morire
guardarmi. Vestito, svestito, nella doccia, con un asciugamano addosso. Su di lei, sotto di lei. Di fatto l’unico momento in cui mi staccava gli occhi di dosso era quando dormiva, e quella era anche l’occasione in cui io mi beavo nel guardare lei, nuda, con addosso solo i gioielli che le avevo regalato io. «Vada per lo smoking, allora.» Aprì gli occhi, rivelando la tenue tonalità di grigio che tanto adoravo. «Ma è un matrimonio sulla spiaggia.» «Farò in modo che vada bene.» «Sì, scommetto che ci riuscirai.»
Girando la testa, mi sfiorò il cazzo con il naso. Il calore del suo respiro filtrò attraverso la tela dei pantaloni, e quando raggiunse la mia pelle ultrasensibile me lo fece venire duro. Giocherellai con i suoi capelli. «Di cosa hai voglia, angelo?» «Di questo.» Fece scorrere le dita lungo l’intera lunghezza della mia erezione. «E dove lo vuoi?» Si inumidì le labbra con la lingua. «In bocca» sospirò, e già mi stava sbottonando i pantaloni. Chiusi gli occhi per un attimo facendo un profondo respiro. Il
rumore della cerniera che si apriva, la pressione che si allentava nel momento in cui lei mi liberò il pene... Cercai di prepararmi alla calda umidità della sua bocca, ma fu inutile. Sussultai quando lo prese in bocca con un leggero risucchio, mentre un brivido di ardente desiderio mi correva lungo la schiena. La conoscevo bene, e sapevo come il suo carattere si declinava nel sesso. Si prese tutto il tempo necessario per godersi il mio corpo e per farmi impazzire di piacere. «Oh, Eva» riuscii a malapena a
grugnire mentre mi accarezzava, accompagnando con le dita delicate il dolce lavorìo della bocca. Mi leccava la punta del pene assaporandola lentamente con la lingua. Aprii gli occhi e abbassai lo sguardo su di lei. Osservare il suo aspetto impeccabile mentre era tutta concentrata a gustarmi era nello stesso tempo incredibilmente erotico e dolorosamente tenero. «Oh, sì, così mi piace» dissi con voce rauca mentre le tenevo una mano sulla nuca. «Più in fondo, oh, sì, così...» Piegai la testa all’indietro mentre
le cosce si tendevano per il desiderio di affondare i colpi dentro di lei. Cercai di resistere, per lasciare che si prendesse quello che voleva. «Non ho intenzione di venire così» la avvisai, sapendo che quello era esattamente il suo scopo. Lei fece un gemito di protesta e mi strinse il pene tra le dita, strofinandolo in una presa salda e allo stesso tempo morbida, come per sfidarmi a resistere. «Adesso ti apro quella fica perfetta, Eva, così rimarrò dentro di te per tutto il weekend che passerai lontana da me.» Chiusi gli occhi e la
immaginai a Ibiza, una città famosa per la sfrenata vita notturna, mentre ballava con le sue amiche circondata da una marea di corpi. Gli uomini se la sarebbero mangiata con gli occhi, sognando di scoparla. Lei, intanto, sarebbe stata segnata da me nel più primitivo dei modi, sarebbe stata in mio totale possesso, anche se io non sarei stato fisicamente con lei. Sentii i suoi gemiti che vibravano lungo il mio cazzo. Alzò la testa, le sue labbra erano gonfie e arrossate. «Così non vale» protestò increspando le labbra. Le afferrai il polso portandole la
mano sul mio petto e la premetti proprio sopra il mio cuore che batteva forte. «Tu sarai qui, angelo, per sempre.» «Non puoi lavorare anche adesso» mi rimproverò Manuel mentre si lasciava cadere sul lettino di fianco al mio. «Ti perdi il panorama.» Sollevai lo sguardo dal telefono mentre la brezza marina mi scompigliava i capelli. Quel giorno eravamo rimasti a Barra, proprio dall’altro lato di Avenida Lúcio Costa rispetto all’hotel dove alloggiavamo. Recreio Beach era un
posto più tranquillo di Copacabana, meno affollato e con meno turisti. Tutta la spiaggia era piena di donne in bikini che giocavano in acqua, con i seni che sobbalzavano mentre saltavano tra le onde e i sederi seminudi lucidi di crema solare. Sulla sabbia candida di fronte a loro, Arash e Arnoldo si lanciavano un frisbee. Li avevo appena salutati con un inchino, quando sentii il mio telefono vibrare nella tasca dei calzoncini. Osservai Manuel, era tutto rosso e sudato. Era sparito più o meno un’ora prima, e il motivo era ovvio anche per chi non lo conosceva
bene come me. «Il mio panorama è ancora migliore» gli risposi mostrandogli il telefono con il selfie che Eva mi aveva appena mandato. Era anche lei in spiaggia, sdraiata su un lettino non molto diverso da quello su cui ero io. Indossava un bikini bianco e la sua pelle aveva già preso un po’ di colore. Una catenina sottile le circondava il collo, si annidava tra i seni prorompenti e poi si avvolgeva intorno alla sua vita sottile. Gli occhiali da sole le nascondevano gli occhi e un rossetto rosso vivo le segnava le labbra protese a mandarmi un
bacio. “Vorrei che fossi qui...” recitava il messaggio. Lo volevo anche io. Stavo contando le ore che mancavano al momento in cui sarei salito sull’aereo che mi avrebbe riportato a casa. Il sabato mi ero divertito, in mezzo all’alcol e alla musica, ma la domenica era già un giorno di troppo. Manuel emise un fischio sonoro. «Che schianto.» Sorrisi, come se, così facendo, riuscissi a riassumere ciò che pensavo della foto di mia moglie. «Non sei preoccupato che le cose
cambieranno dopo che avrai detto il fatidico sì?» chiese lui, mentre si stendeva con le mani incrociate dietro la testa. «Le donne sposate non sono così belle. Non ti mandano selfie come quello». Ritornai alla schermata Home e gli mostrai di nuovo il telefono. Manuel spalancò gli occhi quando vide la foto del matrimonio sullo sfondo. «Non ci posso credere. Quand’è stato?» «Il mese scorso.» Scosse la testa. «Non capisco. Il matrimonio, intendo, non la storia tra te ed Eva. Ma non c’è il rischio che prima o poi vi stanchiate?»
«Chi è felice non si stanca mai.» «Ma non dicono che la varietà è il sale della vita, o qualcosa del genere?» domandò lui, atteggiandosi a filosofo qualunquista. «Parte del divertimento, quando si scopa una donna, è riuscire a capire che cosa le piace ed essere sorpresi quando ti fa vedere qualcosa di nuovo. Se continui a far sempre le solite cose, non diventa tutto scontato? La tocchi lì, la lecchi là, tieni il ritmo che preferisce per farla venire... Poi ti dai una sciacquata, e ripeti tutto dall’inizio.» «Quando arriverà il tuo
momento, anche tu capirai.» Si strinse nelle spalle. «Tu vuoi dei bambini. È per questo che ti sposi, giusto?» «Prima o poi sì, ma comunque non subito.» Non riuscivo a immaginarmi la cosa, nemmeno lontanamente. Eva sarebbe stata un’ottima madre, perché era amorevole e le piaceva prendersi cura degli altri, ma come saremmo stati noi due come genitori? Prima o poi sarei stato pronto a diventare padre. Più poi che prima, a dire il vero, quando sarei stato preparato all’idea di dividere le sue attenzioni con qualcun altro. «Adesso come
adesso, voglio lei e basta.» «Mr Cross.» Alzai lo sguardo e vidi Raúl dietro di me, con la mascella serrata. Mi irrigidii immediatamente, poi mi tirai su a sedere, piantando i piedi nella sabbia, ai lati del lettino. «Che cosa succede?» La paura per Eva mi paralizzava. Mi aveva scritto solo pochi secondi prima ma... «Devo farle vedere una cosa» disse, accigliato, richiamando la mia attenzione sul tablet che aveva in mano. Mi alzai, misi il telefono in tasca e mi avvicinai. Allungai la mano. Il riflesso del sole rendeva lo
schermo poco visibile, quindi mi voltai per farmi ombra con il corpo. La foto che apparve mi fece gelare il sangue. Il titolo mi fece serrare i denti. Piccante addio al celibato per Gideon Cross in Brasile. «E questa da dove diavolo spunta fuori?» sbottai. Manuel mi diede un buffetto sulla spalla mentre si avvicinava. «Mica ma le, cabrón. Questo sì che vuol dire divertirsi, e tra l’altro le due tipe non sono niente male.» Guardai Raúl. «Me l’ha mandata Clancy» spiegò. «Ho fatto una ricerca, e
ormai la foto ha fatto il giro del mondo.» Clancy. Maledizione. Eva... Buttai il tablet a Raúl, e tirai fuori il telefono. «Voglio sapere chi l’ha scattata.» Chi sapeva che ero in Brasile? Chi mi aveva seguito una sera in un club e in una sala VIP privata e aveva scattato foto? «Sto già indagando.» Lanciando maledizioni silenziose, chiamai mia moglie. L’impazienza e la rabbia si impadronirono di me, mentre aspettavo che rispondesse. Scattò la segreteria telefonica e riattaccai, poi chiamai di nuovo, sempre più preoccupato.
Le peggiori paure che infestavano le sue fantasie si erano materializzate in quella foto. Le dovevo una spiegazione, anche se non avrei saputo cosa dire. Il sudore mi imperlava la fronte e i palmi delle mani, ma dentro ero raggelato. Scattò la segreteria telefonica una seconda volta. «Maledizione.» Riattaccai, e riprovai a chiamare.
11
«Sembra proprio che tu abbia bisogno di un altro giro» disse Shawna, posando i due rebujitos sul tavolino tra i due lettini. «Oddio» dissi ridendo, già leggermente brilla. La miscela di sherry secco e bibita dolce del drink dava alla testa in modo subdolo, e non sarebbe stato affatto saggio cercare di smaltire una sbronza con
altro alcol. «Dopo questo weekend mi toccherà disintossicarmi.» Shawna sorrise e si stiracchiò sul lettino, con la pelle lentigginosa leggermente rosata dopo i due giorni trascorsi al sole. Aveva i capelli rossi raccolti sopra la testa, sexy e spettinati, e la voce arrochita dopo aver riso tanto la sera precedente. Indossava un bikini verde acqua che le attirava molti sguardi d’apprezzamento. Era una macchia di colore brillante, sempre pronta a sorridere e con un umorismo scollacciato. In questo era davvero simile a suo fratello, che conoscevo e a cui
volevo bene, il fidanzato del mio ex capo Mark. Megumi mi si avvicinò dall’altro lato, con altri due drink. Guardò il lettino vuoto, prima occupato da mia madre. «Dov’è Monica?» «È andata a rinfrescarsi in acqua.» La cercai con lo sguardo, senza trovarla. Non passava inosservata con il suo bikini color lavanda, quindi pensai che se ne fosse andata da qualche parte. «Tornerà tra poco.» Era stata con noi per tutto il tempo a festeggiare. Non era solita bere tanto e stare in piedi fino a tardi, ma sembrava che si stesse
divertendo. Di certo stava provocando un bel trambusto: uomini di tutte le età le sciamavano intorno. Mia madre aveva un atteggiamento da gattina che risultava irresistibile: avrei voluto averlo anch’io. «Guardalo in azione» disse Shawna, richiamando la mia attenzione su Cary che giocava tra la schiuma delle onde. «Ci sa davvero fare con le donne.» «Cavolo, sì.» La spiaggia era così piena di gente che quasi non si riusciva a vedere la sabbia. Decine di spalle e di teste spuntavano tra le onde
dell’oceano, ma tra tutte spiccava la piccola folla raccolta intorno a Cary. Il suo sorriso abbagliante assorbiva l’attenzione come un gatto disteso al sole. Con i capelli tirati indietro, la bellezza del suo viso era evidente, nonostante gli occhiali a goccia che indossava per schermare la luce intensa del sole. Vide che lo osservavo e mi salutò. Gli mandai un bacio, solo per agitare un po’ gli animi. «Tu e Cary non siete mai stati insieme?» chiese Shawna. «Non ti è mai venuta voglia?» Scossi la testa. Cary in quel momento era di una bellezza
superba, il ritratto della salute, snello e muscoloso, un perfetto esemplare del maschio ideale. Però, quando l’avevo incontrato per la prima volta, era magrolino e con gli occhi infossati, eternamente sepolto dentro una felpa anche nella calura delle estati di San Diego. Teneva le braccia coperte per nascondere i segni dei tagli, e il cappuccio sempre calato sulla testa quasi completamente rasata. Negli incontri della terapia di gruppo, se ne stava seduto fuori dal cerchio, appoggiato al muro, con la sedia in equilibrio sulle gambe posteriori. I suoi rari interventi
erano venati di umorismo nero intriso di sarcasmo, quando parlava di sé c’era quasi sempre un fondo di cinismo. Una volta l’avevo avvicinato, perché non riuscivo più a ignorare il profondo dolore interiore che irradiava da lui. “Non perdo troppo tempo con le chiacchiere” aveva detto, senza fare una piega, con i begli occhi verdi privi di qualsiasi luce. “Se vuoi farti un giro sul mio cazzo, basta dirlo. Non dico mai di no a una scopata.” Sapevo che era vero. Il dottor Travis aveva molti pazienti incasinati, diversi dei quali usavano
il sesso come palliativo o come forma di autopunizione. Cary era disponibile a essere usato da tutti loro, e parecchi approfittavano frequentemente del suo invito spudorato. “No, grazie” avevo risposto, disgustata dalla sua aggressività. “Sei troppo magro per me. Mangiati un fottuto cheeseburger, cretino.” Dopo quell’episodio avevo rimpianto di non aver provato a essere gentile con lui. Mi perseguitava senza darmi tregua, facendomi perdere la pazienza con provocazioni sessuali di dubbio gusto. All’inizio mi mostravo
infastidita. Quando quella tattica non funzionava, lo gelavo con la cortesia. Alla fine aveva capito che non sarei mai andata a letto con lui. Nel frattempo aveva iniziato a mettere su peso e a farsi crescere i capelli. Aveva smesso di buttarsi via con chiunque, ma di fatto era diventato semplicemente più selettivo. Mi rendevo conto di quanto fosse affascinante, ma in quel momento non c’era attrazione. Era troppo simile a me, e il mio istinto di autoconservazione era entrato in allerta. «All’inizio eravamo semplici amici» le dissi. «Poi è diventato
come un fratello per me.» «Lo adoro» disse Megumi, mentre si spalmava la crema abbronzante sulle gambe. «Mi ha detto che le cose tra lui e Trey non stanno andando benissimo, e mi dispiace: sono davvero una bella coppia.» Annuii, e ritornai a guardare il mio più caro amico. Cary stava prendendo in braccio una donna, e la stringeva forte in vita per poi buttarla tra le onde. Lei riemerse sputacchiando e ridendo, chiaramente affascinata da lui. «Sai come si dice, no? Andrà tutto bene, se è destino. Può sembrare una
banalità, ma io la penso così.» Dovevo ancora chiamare Trey ed Elizabeth, la madre di Gideon. Volevo anche sentire brevemente Ireland e Chris. Forse sarei stata esaurita dal jetlag e dal troppo alcol, quindi mi presi l’appunto mentale di fare quelle chiamate dall’attico, quando mi fossi ripresa. Inoltre dovevo parlare con mio padre, perché avevo dovuto rimandare la nostra solita telefonata del sabato per via della differenza di fuso orario. «Non voglio andare a casa» disse Megumi stiracchiandosi con un sospiro, con in mano il drink.
«Questi due giorni sono passati troppo in fretta. Non riesco a credere che partiremo tra poche ore.» Avrei potuto stare tranquillamente un’altra settimana, se Gideon non mi fosse mancato così tanto. «Eva, tesoro.» Nel sentire la voce di mia madre girai la testa. Era alle mie spalle, in piedi dietro il lettino, avvolta nel prendisole. «È già ora di andare?» Scosse la testa, poi notai che si torceva le mani, cosa che non lasciava presagire nulla di buono. «Puoi tornare in hotel con me?»
chiese. «Devo parlarti un attimo.» Vidi Clancy dietro di lei, con la mascella serrata e l’espressione tesa. Il cuore iniziò a battermi forte. Mi alzai, presi il pareo che avevo indossato in spiaggia e me lo legai intorno alla vita. «Veniamo anche noi?» chiese Shawna, mentre si alzava. «State qui con Cary» rispose mia madre, con un sorriso rassicurante. Mi stupì il suo modo di sorridere, e di agire fredda e imperturbabile quando sapevo che in realtà era ansiosa. Ero troppo trasparente per riuscire a nascondere le mie reazioni, ma mia madre esprimeva
le emozioni solo con gli occhi e le mani: diceva sempre che non le venivano le rughe neanche quando rideva. Indossava gli occhiali da sole, quindi era perfettamente mimetizzata. Senza dire una parola, ritornai con lei e Clancy in hotel. Quando entrammo nella hall, sembrava che tutti i dipendenti si sentissero in dovere di accoglierci con un sorriso o con un cenno di saluto. Tutti mi conoscevano: dopotutto eravamo in uno dei resort di Gideon, il cui nome, Vientos Cruzados, era la traduzione spagnola di Crosswinds. Gideon mi aveva sposata in uno
dei resort Crosswinds, e io non mi ero resa conto che si trattasse di una catena diffusa in tutto il mondo. Entrammo nell’ascensore, e Clancy strisciò la chiave a tessera nel lettore, una misura di sicurezza che limitava l’accesso al nostro piano. C’erano altre persone con noi nella cabina, quindi dovevo aspettare per avere le risposte che volevo. Mi venne mal di stomaco, e i miei pensieri iniziarono a correre veloci. Era successo qualcosa a Gideon, o a mio padre? Mi resi conto di aver lasciato il telefono sul
tavolino vicino al bicchiere, e mi maledissi. Se solo avessi potuto mandare un messaggino a Gideon, avrei avuto l’impressione di fare qualcosa di diverso dallo star lì a impazzire. Dopo tre piani, nella cabina dell’ascensore rimanemmo solo noi e continuammo a salire verso il nostro piano. «Qualcuno mi spiega che cosa sta succedendo?» domandai, girandomi a guardare mia madre e Clancy. Lei si tolse gli occhiali, con le dita tremanti. «Sta montando uno scandalo» iniziò lei. «In gran parte
online.» Questo significava che ormai era fuori controllo, o quasi. «Mamma, spiegami bene.» Fece un respiro profondo. «Ecco, ci sono in giro delle fotografie...» disse, guardando Clancy in cerca di aiuto. «Cosa?» Credevo di essere sul punto di vomitare. Stavano girando le fotografie che mi aveva fatto il mio fratellastro Nathan? O erano immagini tratte dal video porno che avevo girato con Brett? «Stamattina alcune foto di Gideon Cross in Brasile hanno fatto il giro del mondo» disse Clancy.
Parlava con un tono inespressivo, ma c’era qualcosa di stranamente rigido nel suo atteggiamento: era insolito vederlo così teso. Mi sentii come se mi avessero dato un pugno nello stomaco, e mi limitai a tacere. Non c’era nulla da dire, finché non avessi visto le foto con i miei occhi. Usciti dall’ascensore, ci ritrovammo direttamente nella nostra suite, un enorme spazio con diverse camere da letto e un ampio soggiorno centrale. Le cameriere avevano aperto le porte affacciate sul terrazzo che girava tutt’intorno e le tende sottili iniziarono a
sventolare scompostamente. Illuminata dai colori e dal calore della Spagna, quella suite era stata una gioia per i miei occhi da quando eravamo arrivati. In quel momento, me ne accorsi appena. Con le gambe che tremavano, mi diressi verso il divano e attesi che Clancy inserisse la password sul tablet e me lo passasse. Mia madre si sedette vicino a me, offrendomi un aiuto silenzioso. Guardai lo schermo e feci un sospiro rapido e sonoro. Sentivo il petto come stretto in una morsa. Ciò che vidi mi spaventò: era come
se qualcuno mi fosse entrato di soppiatto in testa e avesse catturato una delle immagini nella mia mente. Fissai lo sguardo su Gideon, così tenebroso e affascinante, vestito tutto di nero. I capelli gli coprivano in parte il viso, ma era chiaramente lui, mio marito. Speravo che non lo fosse, e cercavo di trovare qualcosa che avrebbe rivelato che l’uomo della fotografia era un impostore; ma conoscevo il suo corpo alla perfezione, sapevo come si muoveva, come si rilassava, quali erano le sue mosse per sedurre. Distolsi lo sguardo dalla figura
che amavo, al centro di quel quadro osceno: non ce la facevo a reggere quella vista. Un divano a forma di U, visto di scorcio; tende di velluto nero; cinque o sei bottiglie di alcolici di lusso su un tavolino: era una sala VIP privata. Una brunetta magra era sdraiata su un mucchio di cuscini. L’abissale scollatura del top con i lustrini era scostata. Gideon, quasi tutto sopra di lei, le succhiava un capezzolo. Una seconda brunetta tutta gambe gli stava attaccata alla schiena, con una coscia sopra la sua. Teneva le gambe aperte e la bocca spalancata dal piacere.
Gideon aveva allungato una mano dietro di sé, sotto la sua minigonna. Dalla foto non si vedeva, ma le aveva messo le dita dentro, si capiva benissimo: fu una pugnalata al cuore, inferta con una lama ben affilata e seghettata. L’immagine diventò sempre più sfocata, mentre strizzavo gli occhi per le lacrime che mi scorrevano brucianti sulle guance. Feci sparire la fotografia dallo schermo per non vederla più. Poi vidi il mio nome e lessi le oscene speculazioni dell’autore del post su come avrei potuto reagire alle avventure sessuali del mio fidanzato per il suo
addio al celibato. Posai il tablet sul tavolino, respirando affannosamente. Mia madre si avvicinò in fretta e mi circondò con un braccio, attirandomi a sé. Il telefono della stanza squillò rumorosamente: mi fece sobbalzare e per poco non mi venne una crisi di nervi. «Ssh» sussurrò, mentre mi accarezzava i capelli. «Non sei sola, tesoro. Ci sono io con te.» Clancy andò a rispondere con un brusco «Pronto?». Poi il suo tono divenne gelido. «Vedo che si sta divertendo.» “Gideon.”
Guardai Clancy e notai che era rosso di rabbia. Lui sostenne il mio sguardo. «Sì, è qui.» Mi sottrassi all’abbraccio di mia madre e mi alzai a fatica. Lottando contro la nausea, mi avvicinai a Clancy e allungai la mano per prendere il cordless. Me lo porse e indietreggiò. Repressi un singhiozzo. «Pronto.» Ci fu una pausa. Sentii il respiro di Gideon che accelerava. Avevo detto una parola sola, ma lui sapeva già che sapevo. «Angelo...» Improvvisamente mi sentii male. Corsi in bagno e lasciai cadere il
telefono: riuscii a malapena ad alzare l’asse del water, prima di vomitare con violenti conati che mi lasciarono spossata. Mia madre si affrettò a raggiungermi e io le feci un cenno con la testa. «Vai via» ansimai, mentre mi abbandonavo sul pavimento con la schiena appoggiata al muro. «Eva...» «Un attimo, mamma. Solo un attimo.» Mi guardò e annuì, chiudendosi la porta alle spalle. Sentivo Gideon che gridava, dal telefono sul pavimento. Presi in
mano la cornetta e la portai all’orecchio. «Eva, rispondi, per l’amor del cielo! Rispondi!» «Smettila di urlare» gli dissi, con il cuore che batteva forte. «Cristo!» Il suo respiro era affannoso. «Tu stai male, non posso perdonarmelo. Sono troppo lontano...» Alzò la voce. «Raúl! Dove ti sei cacciato? Preparami l’aereo, adesso! Attaccati al telefono...» «No. No, ti prego.» «È successo prima di incontrare te.» Parlava troppo in fretta, il suo respiro era troppo veloce. «Non so
esattamente quando o... Che cosa?» Qualcuno parlò in sottofondo. «Cinco de Mayo? E perché viene fuori adesso?» «Gideon...» «Eva, ti giuro che quella dannata fotografia non è stata scattata questo weekend. Non potrei mai farti una cosa del genere, lo sai. Sai quanto sei importante per me.» «Gideon, calmati.» Il mio cuore cominciò a battere più lentamente. Mio marito era agitato, nel panico, e mi faceva star male sentirlo così, perché era sempre stato forte, capace di gestire tutto, sopravvivere a tutto e superare
tutto. Ero il suo punto debole, quando invece tutto quello che volevo era essere la sua forza. «Devi credermi, Eva. Non potrei fare una cosa del genere a noi due. Non potrei mai...» «Ti credo.» «... scopare in giro... Come hai detto?» Chiusi gli occhi, e lasciai ricadere la testa appoggiandola contro il muro. Cominciavo a stare un po’ meglio. «Ti credo.» Udii distintamente il suo sospiro fremente nella cornetta. «Meno male.»
Silenzio Sapevo quanto fosse importante per lui la mia completa e incondizionata fiducia. Gideon non poteva fare a meno di trovarla quasi impossibile da accettare, anche se credevo che la desiderasse ancor più del mio amore. Per lui la mia fiducia in lui significava che lo amavo. La sua spiegazione fu semplice, qualcuno potrebbe dire troppo semplice, ma, per come lo conoscevo io, era la più sensata di tutte. «Ti amo.» La sua voce era bassa, sembrava sfinito. «Ti amo tanto,
Eva. Quando non hai risposto al telefono...» «Anch’io ti amo.» «Mi dispiace.» Sospirò, in preda al dolore e al rincrescimento. «Mi dispiace che tu abbia visto quelle foto. È un casino, è tutto un casino.» «Tu hai visto di peggio.» Gideon mi aveva visto baciare Brett Kline, in sua presenza. Aveva visto almeno una parte del video porno che avevo girato con Brett. Rispetto a ciò, una foto era niente. «Detesto il fatto che siamo lontani.» «Anch’io.» Avrei voluto essere
consolata dai suoi abbracci e, più ancora, avrei voluto confortarlo, dimostrargli che non sarei andata da nessuna parte senza di lui e che non aveva motivo di temere. «Non succederà più.» «No, visto che ti sposi solo due volte, ed entrambe con me: hai finito con gli addii al celibato.» Il sospiro si trasformò in una risata. «Non era questo che volevo dire.» «Lo so.» «Di’ a Clancy di portarti a casa. Stiamo facendo i bagagli, e andiamo in aeroporto.» Scossi la testa, anche se non
poteva vedermi. «Prenditi la giornata libera, domani.» «Domani...? Sì. Non ti senti bene...» «No, io sto benissimo. Vengo da te a Rio.» «Che cosa? No, non voglio stare qui. Devo tornare a casa per sistemare questa faccenda.» «Non c’è nulla che tu possa fare, Gideon. Ormai è di dominio pubblico.» Mi alzai dal pavimento. «Puoi dargli, o darle, la caccia anche dopo. Non permetterò che questa storia ci rovini questo weekend indimenticabile.» «No...»
«Se vogliono le tue foto in Brasile, asso, ci devo essere anch’io.» Capì cosa intendevo. «Va bene, ti aspetto.» «Forse l’hanno photoshoppata» disse Megumi. «Oppure il tipo è un sosia» suggerì Shawna, mentre si chinava accanto a Megumi per guardare il suo tablet. «Non si vede molto di lui, Eva.» «No.» Scossi la testa, perché ne ero certa. «È sicuramente Gideon.» Cary, seduto al mio fianco sulla limousine, mi prese la mano e mi
strinse le dita. Mia madre era seduta sul divanetto dietro all’autista, e guardava alcuni campioni di tessuto. Teneva le gambe sottili incrociate, e tamburellava i piedi in preda all’inquietudine. Sia Megumi sia Shawna mi lanciavano occhiate compassionevoli. La loro solidarietà faceva a pugni con il mio orgoglio. Avevo fatto l’errore di guardare che cosa si diceva di noi sui social, ed ero rimasta atterrita dalla crudeltà della gente. Secondo alcuni, ero una donna tradita. Oppure ero talmente
stupida che non mi rendevo conto che stavo per sposare un uomo che a me avrebbe concesso di portare il suo cognome, mentre a tutte le altre concedeva il suo corpo e le sue attenzioni. Oppure ero una cacciatrice di dote che sarebbe venuta a patti con l’umiliazione pur di ottenere il denaro. Oppure sarei potuta diventare un esempio per molte altre donne... se solo avessi detto addio a Gideon e mi fossi trovata qualcun altro. «È una foto vecchia» ripetei. In realtà era stata scattata a maggio, quindi non era poi così vecchia, ma a nessuno doveva
interessare la data precisa, se non per il fatto che non era stata scattata mentre stavamo già insieme. Era cambiato davvero tanto da allora: per me, per lui. E anch’io ero molto diversa dalla donna che Gideon aveva incontrato in quel fatidico giorno di giugno. «È vecchissima» disse Shawna per chiudere il discorso. «Di sicuro è vecchissima.» Megumi annuì, ma sembrava ancora indecisa. «Perché dovrebbe mentirmi?» chiesi in tono piatto. «Non ci vorrà un grande sforzo per scoprire il club
sullo sfondo. Dev’essere uno di quelli di Gideon, e scommetto che è a Manhattan. Non poteva trovarsi a New York e farsi timbrare il passaporto in Brasile nello stesso giorno.» Mi ci erano volute un paio d’ore per farmi venire in mente quel particolare, ed ero orgogliosa di esserci arrivata. Non avevo bisogno di prove per sapere che mio marito mi stava dicendo la verità, ma se in qualche modo fossimo riusciti a provare che la foto era stata scattata in un posto preciso e identificabile, non sarebbe stato male mettere le cose in chiaro
pubblicamente. «Hai ragione» disse Megumi con un ampio sorriso. «Ed è pazzo di te, Eva. Non combinerebbe casini in giro.» Annuii, e lasciai cadere il discorso. Presto saremmo arrivati all’aeroporto e non volevo che ci lasciassimo con il ricordo di stupidi pettegolezzi anziché del meraviglioso viaggio che avevamo appena fatto. «Grazie per essere venute. Mi sono divertita davvero tanto.» Mi sarebbe piaciuto portare anche le mie due amiche a Rio, ma non avevano il visto per il Brasile, e
inoltre avrebbero dovuto entrambe lavorare il lunedì. Così ci separammo: loro tornarono a casa con la squadra di sicurezza di Clancy, mentre Cary, mia madre e Clancy stesso partirono con me per il Brasile, su un aereo che Gideon ci aveva fatto preparare. Doveva essere un viaggio veloce, con arrivo il lunedì mattina e partenza il lunedì sera, per cui avremmo potuto dormire solo sull’aereo: alla fine però Gideon avrebbe lasciato il Brasile con un sorriso. Non volevo che ripensasse a quel weekend con dispiacere, perché aveva già tanti brutti ricordi.
Volevo che ci lasciassimo tutto alle spalle, che lui avesse solo ricordi positivi. «Grazie a te, davvero» disse Shawna con un sorriso. «Non me lo sarei perso per nulla al mondo.» «Neanch’io» disse Megumi. «Non dimenticherò questo viaggio tanto presto.» Shawna chiuse gli occhi, e appoggiò la testa alla poltrona. «Salutami Arnoldo.» Sapevo che Shawna e Arnoldo erano diventati amici dopo che li avevo presentati la sera del concerto dei Six-Ninths, e ritenevo che si sentissero al sicuro l’uno con
l’altra. Shawna stava aspettando che il suo fidanzato, Doug, tornasse dalla Sicilia, dove stava frequentando un corso esclusivo per chef. Arnoldo in quel momento aveva il cuore spezzato, ma amava le donne e probabilmente era felice di poter godere della compagnia di una che non voleva nulla di più. Cary si trovava in una situazione simile. Gli mancava Trey e non era interessato a scopare in giro, cosa davvero insolita per lui. Di solito, quando era triste, scopava per dimenticare, invece per tutto il weekend era stato attaccato a Megumi che, quando gli uomini la
avvicinavano, si paralizzava. Cary le aveva fatto da scudo, e aveva mantenuto il clima leggero e divertente per entrambi. Gideon non era l’unico a essere parecchio cambiato. Quanto a me, non vedevo l’ora di essere con mio marito. Lo stress gli causava incubi, quindi presi il telefono e gli mandai un messaggio. “Sogna me.” La sua risposta, in perfetto stile Gideon, mi strappò un sorriso. “Vola più in fretta.” E da quello capii che era ritornato quello di sempre.
«Wow» dissi guardando fuori dal finestrino dell’aereo che decelerava e si fermava in un aeroporto privato alla periferia di Rio. «Questo sì che è un bel panorama!» Sulla pista c’erano Gideon, Arnoldo, Manuel e Arash, tutti vestiti in modo sportivo, con pantaloncini lunghi e maglietta. Tutti alti e con i capelli scuri, muscolosi e abbronzati. Si erano messi in fila come una serie di macchine sportive esotiche, e tremendamente costose: potenti, sexy e pericolosamente veloci. Non avevo dubbi sulla fedeltà di mio marito ma, se mai li avessi
avuti, guardandolo in faccia li avrei dissipati. I suoi amici erano sciolti e rilassati, come una macchina il cui motore si è finalmente raffreddato dopo una lunga corsa. Era più che evidente che Rio e le sue donne gli erano piaciuti parecchio. Gideon, invece, era teso, in allerta. Il suo motore andava a mille, rombava dalla voglia di passare da zero a cento in un battito di ciglia. Nessuna si era fatta un giro di pista con lui. Ero arrivata lì con l’intenzione di confortarlo, di non lasciarmi travolgere, di riprendermi un po’ del mio orgoglio ferito, e invece ora
ardevo dal desiderio di mandare su di giri quel bel motore. “Oh, sì, ti prego.” Sentii un tonfo leggero quando avvicinarono la scaletta all’aereo. Clancy uscì per primo, seguito da mia madre e da me. Mi fermai un attimo per scattare una foto con il cellulare: l’immagine di Gideon e dei suoi amici avrebbe dato qualcos’altro di cui parlare su Internet. Scesi il primo gradino, e Gideon si mosse, aprendo le braccia mentre si avvicinava. Non riuscivo a vedergli gli occhi, perché nelle sue lenti vedevo solo il mio riflesso, ma
sentivo l’intensità con cui mi guardava. Mi tremarono le ginocchia e dovetti reggermi al corrimano per tenermi in equilibrio. Gideon strinse la mano a Clancy. Sopportò, e cercò persino di ricambiare, il rapido abbraccio di mia madre, ma non mi tolse mai gli occhi di dosso né rallentò per più di qualche secondo. Mi ero messa le scarpe rosse con il tacco da “scopami” che gli piacevano tanto. Gli shorts bianchi aderenti, con la vita bassissima, mi coprivano appena il sedere. Il top di pizzo rosso con le spalline sottili era chiuso da un nastro di raso rosso
sulla schiena, a mo’ di corsetto. I miei capelli erano raccolti in un’acconciatura spettinata. Gideon me li spettinò ancora di più, quando mi accolse sull’ultimo gradino, e vi infilò dentro le mani. Premette le sue labbra sulle mie, senza far caso al rossetto rosso che mi ero messa. Rimasi sospesa a mezz’aria nel suo abbraccio, con i piedi staccati dal suolo e le sue braccia strette intorno alla vita. Avvinghiandomi a lui, ancorai le caviglie alla base della sua schiena e mi tirai su in modo da costringerlo a piegare la testa all’indietro: così potei abbracciarlo meglio e infilargli
la lingua in bocca fino in fondo. La mano con cui prima mi aveva accarezzato i capelli era scesa a sorreggermi, e mi stringeva forte il sedere, nel modo esigente e possessivo che tanto mi piaceva. «Ehi, che sballo» disse Cary dietro di me. Manuel fischiò sonoramente. Non m’importava di dare spettacolo. Il corpo muscoloso di Gideon era delizioso e il suo sapore inebriante. Iniziai a fantasticare: volevo cavalcarlo, strusciarmi contro di lui; lo volevo nudo e sudato, coperto dei miei umori, sul viso, sulle mani, sul cazzo.
Mio marito, però, non era l’unico a voler marcare il territorio. «Eva Lauren» mi rimproverò mia madre. «Controllati.» La sua voce raffreddò subito i nostri bollenti spiriti. Mi sciolsi dall’abbraccio e consentii a Gideon di mettermi giù. Mi staccai da lui controvoglia, allungando un attimo le mani per alzargli gli occhiali da sole e guardarlo negli occhi. Veemenza... Lussuria. Con le dita gli ripulii la bocca dalle tracce di rossetto. Aveva le labbra gonfie per la foga con cui ci eravamo baciati, e le curve sensuali della sua bocca si erano
ammorbidite. Mi prese il viso tra le mani, e mi accarezzò le labbra con i pollici. Spingendomi leggermente indietro la testa, mi baciò sulla punta del naso. Adesso era tenero. La gioia spasmodica di vedermi si era placata dopo che mi aveva toccata. «Eva» disse Arnoldo, mentre si avvicinava, con un sorriso appena accennato sul suo bel volto. «Che piacere vederti.» Mi girai per salutarlo, ma mi sentivo nervosa. Volevo che noi due fossimo amici, e che mi perdonasse per aver ferito Gideon. Volevo... Lui mi baciò sulla bocca.
Sbalordita, non reagii. «Giù!» disse Gideon in tono brusco. «Ehi, non sono mica un cane» ribatté Arnoldo, guardandomi divertito. «Si sta consumando per te. Adesso puoi liberarlo da questo tormento...» L’ansia svanì. Era più affettuoso con me rispetto alle ultime volte che ci eravamo visti, quasi come all’epoca del nostro primo incontro. «È un vero piacere anche per me, Arnoldo.» Poi fu la volta di Arash. Quando alzò entrambe le mani per toccarmi il viso, Gideon si interpose con un
braccio tra noi. «Non pensarci neanche» lo avvertì. «Così non vale.» Gli mandai un bacio da lontano. Manuel fu più astuto. Mi raggiunse da dietro e mi sollevò di peso, premendomi le labbra contro la guancia. «Buongiorno, bellezza.» «Ciao, Manuel» dissi ridendo. «Ti stai divertendo?» «Puoi dirlo.» Mentre mi rimetteva per terra, mi fece l’occhiolino. Gideon sembrava un po’ più calmo adesso. Strinse la mano a Cary e chiese un breve ragguaglio su Ibiza.
I suoi amici fecero la conoscenza di mia madre, che immediatamente sfoderò tutto il suo fascino e ottenne i risultati sperati: sembravano rapiti. Gideon mi prese per mano. «Hai il passaporto?» «Certo.» «Bene. Andiamo» disse, e si avviò senza indugio. Accelerando il passo per stargli dietro, mi girai per vedere il gruppo che avevamo lasciato alle nostre spalle: stavano andando in un’altra direzione. «Hanno già trascorso tutto il weekend con noi» disse Gideon, in
risposta alla mia domanda inespressa. «Oggi è un giorno solo per noi.» Mi accompagnò alla dogana, dove i controlli furono piuttosto sommari, poi di nuovo sulla pista, dove un elicottero ci stava aspettando. Le pale iniziarono a girare mentre ci avvicinavamo. Raúl si materializzò dal nulla e aprì il portellone posteriore. Gideon mi aiutò a salire e mi seguì. Feci per prendere la cintura di sicurezza, ma lui mi spinse via le mani e me la agganciò con un gesto rapido prima di sistemarsi al suo posto. Mi diede
le cuffie, poi si mise le sue. «Partiamo» disse al pilota. Prima che Gideon si fosse agganciato la cintura, eravamo già decollati. Quando arrivammo all’albergo ero totalmente affascinata, senza fiato per il panorama di Rio che si stendeva sotto di noi, con le spiagge costeggiate dai grattacieli e le colline coperte dai colori delle favelas. Le auto riempivano le strade sotto di noi, e c’era un traffico incredibile, persino se paragonato a quello di Manhattan all’ora di punta, a cui ero abituata.
La famosa statua del Cristo Redentore brillava con il Corcovado sullo sfondo, in lontananza sulla mia destra, mentre costeggiavamo il Pan di Zucchero e la costa fino al quartiere di Barra da Tijuca. In macchina ci sarebbero volute ore per arrivare dall’aeroporto all’hotel, invece in elicottero ci vollero pochi minuti. Entrammo nella suite di Gideon ancora prima che il mio cervello in preda al jetlag si rendesse pienamente conto che ero stata in tre Paesi diversi in tre giorni. Il Vientos Cruzados era un resort come tutti quelli della stessa catena
che avevo visto, ma con un tocco locale che lo rendeva unico. La suite di Gideon era grande come quella in cui avevo alloggiato a Ibiza, e con un panorama altrettanto notevole. Mi fermai ad ammirare la spiaggia dal terrazzo, notando le interminabili file di banchetti di venditori di cocco e di corpi dorati stesi al sole. Il ritmo del samba nell’aria, così semplice e sexy, metteva subito di buonumore. Scattai una fotografia, e poi la caricai, insieme a quella di Gideon e dei suoi amici sulla pista dell’aeroporto, sul mio profilo
Instagram. “Il panorama da qui... #RioDeJaneiro.” Taggai tutti e scoprii che Arnoldo aveva scattato una foto a me e Gideon durante il nostro bacio appassionato all’aeroporto. Era un ottimo scatto, sexy e intimo al tempo stesso. Arnoldo aveva alcune centinaia di migliaia di follower e la foto aveva già decine di commenti e di “mi piace”. “Due cari amici che si godono #RioDeJaneiro e la reciproca compagnia.” Lo smartphone di Gideon squillò, e lui si allontanò. Lo sentii parlare nella stanza vicina e lo seguii. Non
avevamo praticamente parlato da quando avevamo lasciato l’aeroporto, come se stessimo risparmiando le parole per una conversazione intima. O forse non avevamo bisogno di dirci niente. Che fosse il resto del mondo a chiacchierare e a diffondere bugie. Noi sapevamo quello che c’era tra noi, senza la necessità di dargli un nome, di giustificarlo o di esprimerlo a parole. Lo trovai nello studio, in piedi di fronte a una scrivania a U coperta di fotografie e di carte, alcune delle quali erano cadute a terra. La stanza era un casino, niente a che
vedere con l’ordine maniacale di cui mio marito si circondava di solito. Mi ci volle un attimo per capire che le foto ritraevano l’interno di un locale e corrispondevano perfettamente allo sfondo che avevo visto nella foto di Gideon del Cinco de Mayo. Era inquietante, e al tempo stesso fantastico, che avessimo avuto la stessa idea. Feci per andarmene. «Eva, aspetta.» Lo guardai. «Domani mattina è meglio» disse alla persona all’altro capo del filo. «Mandami un messaggio di
conferma.» Gideon riattaccò e mise il telefono in modalità silenziosa, posandolo vicino agli occhiali da sole. «Volevo farti vedere queste.» Scossi la testa e gli dissi: «Non devi provarmi niente». Mi fissò. Ora che si era tolto gli occhiali, vidi che aveva occhiaie profonde. «Stanotte non hai dormito.» Non era una domanda. Avrei dovuto sapere che sarebbe rimasto insonne. «Aggiusterò questa faccenda.» «Non c’è nulla di rotto.» «Ti ho sentita al telefono» disse
con voce ferma. Mi appoggiai allo stipite della porta. Sapevo come si era sentito quando avevo baciato Brett: in preda a un istinto omicida. Avevano lottato come animali. Uno scontro fisico violento non era un’opzione praticabile per me. Il mio corpo si era liberato della gelosia nell’unico modo che conosceva. «Fai quel che devi fare» mormorai. «Ma io non ho bisogno di niente: sono a posto. Tu e io, noi due, siamo a posto.» Gideon fece un respiro profondo e si rilassò. Poi afferrò la maglia da dietro le spalle e se la tolse. Diede
un calcio ai sandali e si slacciò i pantaloncini, lasciandoli cadere sul pavimento: sotto era nudo. Lo guardai mentre si avvicinava furtivo e notai i segni dell’abbronzatura e il suo cazzo duro, talmente duro che le palle si erano già contratte. Ogni singolo muscolo si fletteva, mentre lui si muoveva. Le cosce solide, gli addominali scolpiti, i bicipiti possenti. Rimasi immobile, senza quasi respirare e sbattere le palpebre. Mi meravigliava il fatto di riuscire a prenderlo: era quasi trenta centimetri più alto di me, pesava
quaranta chili di più, ed era forte, molto forte. Quando facevamo l’amore, mi eccitava stare sotto di lui e sentire tutta quella forza incredibile dedicata solamente a soddisfare il mio corpo e a trarne piacere. Gideon mi raggiunse e mi strinse tra le braccia. Abbassò la testa per catturare la mia bocca in un bacio profondo e lascivo, lento e pieno di godimento, con leccatine e labbra che si sfioravano appena. Non mi resi conto che mi aveva slacciato il top finché non mi scivolò dalle braccia. Passò le dita sotto la cintura degli shorts, accarezzando
la pelle sensibile, poi interruppe per un attimo il bacio e si accovacciò per aiutarmi a togliere i vestiti. Mugolai, in preda al desiderio. «Le scarpe con il tacco puoi tenerle» mormorò, rialzandosi e sovrastandomi. Aveva gli occhi di un blu così brillante che mi ricordava l’acqua in cui avevamo fatto il bagno nudi quando ci eravamo sposati. Gli cinsi le spalle con le braccia e lui mi sollevò, portandomi in braccio in camera da letto. «E anche qualcuno di quei piccoli panini tondi al formaggio» dissi a
Gideon, che trasmise l’ordine al servizio in camera in portoghese. Distesa a pancia in giù sul letto davanti alle porte scorrevoli che davano sul terrazzo, alzai le gambe dietro di me: indossavo ancora le scarpe da “scopami”, ma per il resto ero nuda. Avevo il mento appoggiato sulle braccia incrociate. La brezza calda dell’oceano mi accarezzava la pelle, asciugando il sudore di cui ero imperlata. Il ventilatore, con le pale di mogano a forma di foglie di palma, roteava pigro sopra di me. Feci un respiro profondo, e inalai il profumo di sesso e di Gideon.
Lui riagganciò il telefono e il materasso affondò leggermente quando lui si spostò verso di me, sfiorandomi con le labbra il sedere, la schiena, le spalle. Si distese vicino a me, reggendosi la testa con una mano, mentre l’altra vagava su e giù per la mia schiena. Mi girai a guardarlo. «Ma quante lingue conosci?» «Mi faccio capire in molte, ma ne conosco pochissime.» «Mmh» mi inarcai sotto le sue carezze. Mi baciò di nuovo la spalla. «Sono felice che tu sia qui con me» mormorò. «Sono felice di essere
rimasto qui.» «Ogni tanto ho delle buone idee.» «Anche io.» La scintilla lasciva nel suo sguardo mi trasmise con esattezza ciò a cui stava pensando. Non aveva dormito, e poi mi aveva scopata con estrema lentezza per quasi due ore. Era venuto tre volte, la prima così intensamente che aveva quasi gridato di piacere. Sapevo che quel suono doveva essere arrivato ben oltre le finestre aperte: a me era bastato sentirlo per venire; e poi lui aveva ricominciato, perché era sempre pronto per ricominciare.
Com’ero fortunata! Mi girai su un fianco, e mi ritrovai di fronte a lui. «Ma ci vogliono due donne per soddisfarti?» Gideon diventò improvvisamente serissimo. «Non ne voglio parlare, adesso.» Gli accarezzai il viso. «Ehi, era una battuta, piccolo. Piuttosto brutta.» Rotolò sulla schiena e afferrò un cuscino, mettendolo tra noi a mo’ di barriera. Poi girò la testa verso di me, con l’aria accigliata. «Una volta c’era questa specie di... di vacuità, dentro di me» disse a bassa voce. «Tu l’hai chiamato vuoto, dicendo
che l’avevi colmato. È così.» Rimasi in ascolto, in attesa: mi stava parlando, stava condividendo i suoi pensieri e le sue emozioni. Per lui era difficile, e gli costava un certo sforzo, ma, se lo faceva, era perché mi amava. «Aspettavo te» disse scostandomi i capelli dalla guancia. «Dieci donne non sarebbero riuscite a fare quello che hai fatto tu, ma...» e si passò le mani tra i capelli. «Cristo santo. Le distrazioni mi aiutavano a non pensarci.» «Posso fare in modo che succeda» dissi dolcemente, cercando di farlo ritornare felice e
giocoso. «Posso fare in modo che tu non pensi a niente.» «Quel senso di vuoto non c’è più. Ci sei tu.» Mi protesi verso di lui, e lo baciai. «E sono qui, vicino a te.» Si girò, si mise in ginocchio e mi tirò su, sistemandomi sul cuscino in modo che avessi il sedere in aria. «È così che ti voglio.» Gli lanciai un’occhiata da sopra la spalla. «Ti ricordi che sta arrivando il servizio in camera, vero?» «Hanno detto che arriveranno fra quaranta-sessanta minuti.» «Ma tu qui sei il padrone, non ci metteranno così tanto.»
Si mosse, e si mise tra le mie gambe. «Gli ho detto di prendersi almeno un’ora.» Risi. Avevo pensato che il pranzo fosse una pausa per riprendere fiato, ma evidentemente l’unica pausa era stata la telefonata. Mi prese le natiche nelle mani e le strinse, come per impastarle. «Che gran bel culo hai. È come un cuscino, perfetto per scoparti, così...» Tenendomi per i fianchi, scivolò dentro di me, con un movimento fluido e lento. Grugnì di godimento virile e io rabbrividii di piacere. «Oddio» dissi mentre appoggiavo
la fronte sul materasso e mugolavo. «Com’è duro.» Mi diede un bacio sulla spalla. Continuò a penetrarmi con un agile movimento dei fianchi e si spinse tanto a fondo da risultare vagamente doloroso. «Mi ecciti da morire» disse in tono rude. «Non riesco a smettere. E non voglio.» «Allora non smettere.» Inarcai la schiena per offrirmi al suo ritmo rilassato e ben calibrato. Quel giorno gli andava di farlo così, con tenerezza e calma. Gli andava di fare l’amore. «Continua.» Mi imprigionò tra le braccia, appoggiando i palmi delle mani sul
letto. Mi accarezzò la schiena con il viso. «Facciamo un patto, angelo: mi stancherò quando ti stancherai tu.» «Puah.» Mi guardai allo specchio, girandomi da tutti i lati. «Non è mai una buona idea mettersi in bikini dopo aver mangiato come un maiale.» Mi sistemai il reggiseno a fascia color verde smeraldo che Gideon mi aveva comprato nel negozio dell’hotel, e poi cercai di sistemare anche gli slip. Gideon apparve dietro di me, così sexy e delizioso nei suoi
calzoncini da bagno neri. Mi abbracciò da dietro, sollevandomi il seno con le mani. «Sei bellissima. Ti mangerei tutta.» «Allora fallo.» Perché andare in spiaggia? C’eravamo già stati per tutto il weekend. «Vuoi ancora che scattiamo delle foto qui?» disse, mentre i nostri sguardi si incontravano nello specchio. «Se non vuoi, io sono più che contento di buttarti di nuovo sul letto, e ricominciare da dove abbiamo interrotto.» Mi morsi il labbro inferiore, in preda all’indecisione. Mi attirò a sé. Quando non
portavo i tacchi, riusciva ad appoggiarmi il mento sulla testa. «Sei indecisa? Ok, andiamo in spiaggia, così poi non potrai lamentarti di non esserci andata. Mezz’ora, un’ora, poi risaliamo e non usciamo finché non arriva il momento di partire.» Mi sciolsi. Gideon pensava sempre a me, si preoccupava delle mie necessità e di ciò che preferivo fare. «Ti amo tanto.» La sua espressione in quel momento mi lasciò ammutolita. «Abbi fiducia in me» sussurrò. «Sempre.» Mi girai e posai la guancia sul
suo petto. «Sempre.» «È una bella foto» sussurrò mia madre, parlando a bassa voce per non svegliare i ragazzi. Le luci della cabina dell’aereo erano state abbassate, e tutti erano sdraiati ai loro posti. «Però sarebbe stato meglio se il tuo sedere si fosse visto un po’ meno.» Sorrisi, guardando il tablet che aveva in mano. Il resort Vientos Cruzados disponeva di fotografi per coprire gli eventi, le conferenze e i matrimoni che si svolgevano al suo interno. Gideon si era accordato con uno di loro perché ci fotografasse
mentre eravamo in spiaggia, da una distanza tale che io non me ne ero nemmeno accorta. Le foto di noi due a Westport, le ultime che erano state rese pubbliche, ritraevano Gideon che mi teneva ferma sotto di lui mentre le onde ci lambivano le gambe. La nuova foto ci immortalava sotto il sole: lui spaparanzato sulla schiena e io sopra di lui, con le braccia incrociate sul suo petto e il mento appoggiato sulle mani. Parlavamo e ci guardavamo negli occhi, mentre lui mi accarezzava i capelli. Sì, il costume era alla brasiliana, e quindi il mio sedere era in bella mostra,
ma dalla foto risaltava soprattutto l’intensità dello sguardo di Gideon e l’intimità rilassata, la familiarità che c’era tra noi. Mia madre mi guardò. Nei suoi occhi c’era una tristezza che non sapevo spiegarmi. «Speravo che avreste avuto una vita normale e tranquilla, ma il resto del mondo non ha proprio intenzione di concedervela.» La foto aveva fatto il giro del mondo subito dopo essere stata pubblicata su un sito famoso. Le ipotesi si sprecavano: come facevo a essere con Gideon a Rio e a farmi andare bene la sua scopata con
altre due donne? La nostra vita sessuale era così pervertita? O forse non era Gideon Cross quello della foto nel club? Prima di addormentarmi, Gideon mi aveva riferito che i suoi addetti alle pubbliche relazioni lavoravano giorno e notte per rispondere alle chiamate dei giornalisti e gestire i social media. Al momento, la risposta ufficiale prevedeva solo di confermare che ero stata a Rio con Gideon. Del resto se ne sarebbe occupato lui personalmente una volta tornato a casa, mi aveva assicurato, ma era stato evasivo su cosa avrebbe fatto di preciso.
“Sei reticente” gli avevo detto, senza livore. “Per ora sì” mi aveva confermato, con un debole sorriso. Appoggiai la mano su quella di mia madre. «Andrà tutto bene. La gente a un certo punto smetterà di occuparsi di noi, e poi, dopo che ci saremo sposati, staremo in luna di miele per un mese, praticamente una vita senza notizie su di noi. Vedrai che inizieranno a parlare d’altro.» «Lo spero proprio» sospirò lei. «Vi sposate sabato, quasi non riesco a crederci. Ci sono ancora così tante cose da fare.»
Sabato, cioè di lì a pochi giorni. Non credevo possibile che Gideon e io potessimo sentirci ancora più sposati di quel che già eravamo, ma sarebbe stato bello pronunciare il nostro sì davanti alle famiglie. «Perché non vieni all’attico domani?» suggerii. «Mi piacerebbe fartelo vedere, e tra l’altro potremmo anche decidere tutto ciò che non è ancora stato definito. Possiamo pranzare insieme, e parlare un po’.» Il suo sguardo si illuminò: «Non potevi avere un’idea migliore! Non vedo l’ora, Eva». Mi protesi oltre il bracciolo e le
diedi un «Anch’io.»
bacio
sulla
guancia.
«Ma non riesci a dormire nemmeno un po’?» dissi meravigliata, mentre guardavo Gideon che sceglieva cosa mettersi. Indossava solo i boxer, e si era asciugato i capelli con l’asciugamano dopo aver fatto la doccia appena tornati a casa. Ero sul letto: mi sentivo stanchissima anche se avevo dormito sull’aereo. «Oggi non sarà una giornata lunga» disse, prendendo un completo grigio scuro. «Tornerò a casa presto.»
«Ti ammalerai se non dormi a sufficienza. Non voglio che tu stia male il giorno del matrimonio, e nemmeno per il viaggio di nozze.» Prese dal portacravatte la cravatta blu che mi piaceva tanto. «Tranquilla, non mi ammalerò.» Guardai la sveglia sul suo comodino. «Ma non sono nemmeno le sette! Di solito non vai a lavorare così presto.» «Ho delle cose da fare» disse abbottonandosi la camicia in fretta. «Smettila di tormentarmi.» «Non ti sto tormentando!» Mi guardò con aria divertita. «Non ne hai avuto abbastanza di
me, ieri?» «Oh, mio Dio. Sbaglio o ti stai dando delle arie?» Si sedette e si infilò i calzini. «Non preoccuparti, angelo. Quando torno a casa, ne avrai di nuovo.» «In questo momento vorrei lanciarti qualcosa addosso.» Nonostante si fosse vestito alla velocità della luce, Gideon era elegante e perfetto, il che mi irritava ancora di più. «Non tenermi il muso, dài» mi rimproverò, chinandosi per darmi un bacio sulla testa. «A me ci vuole un’eternità per farmi bella, mentre a te riesce tutto
naturale» brontolai. «E ti sei messo la mia cravatta preferita.» Gli faceva risaltare il colore degli occhi: chi lo guardava avrebbe visto solo lui e ne sarebbe rimasto affascinato. Sorrise. «L’ho fatto apposta. Quando torno, vuoi che ti scopi con la cravatta addosso?» Mi immaginai la scena e il broncio sparì. Come sarebbe stato se si fosse aperto la patta e mi avesse scopata indossando uno dei suoi abiti da uomo potente? Da urlo, in tutti i sensi. «Sudiamo un po’ troppo.» Feci una smorfia al pensiero.
«Finiremmo per rovinarla.» «Ne ho una decina.» Si alzò. «Oggi tu stai a casa, vero?» «Aspetta, hai una decina di cravatte uguali a questa?» «Be’, è la tua preferita» rispose senza scomporsi, come se quello spiegasse tutto, e per me in un certo senso era così. «Stai a casa, quindi?» mi chiese di nuovo. «Sì, mia madre arriverà tra poche ore, e devo fare qualche telefonata.» Si diresse verso la porta. «Fatti un sonnellino, angelo musone, e sognami.» «Sì, sì» mormorai, abbracciando
il cuscino e chiudendo gli occhi. Lo sognai, ovviamente. «Gli invitati hanno già confermato quasi tutti» disse mia madre, passando le dita sul trackpad del suo portatile per mostrarmi un elenco lunghissimo. «Non mi aspettavo che così tanti confermassero con così poco preavviso.» «È una buona cosa, no?» A dire il vero, non ne avevo idea, non conoscevo nemmeno personalmente tutti gli invitati al ricevimento. Sapevo solo che sarebbe stato domenica sera, in
uno degli hotel di Gideon in città. In un altro posto non avremmo mai avuto lo spazio di cui avevamo bisogno. Scott non l’aveva detto, ma io pensavo che qualche altro evento fosse stato annullato all’ultimo momento. E poi avevamo prenotato un sacco di camere per i parenti dalla parte di mio padre. Quando avevo scelto come data il compleanno di Gideon non avevo considerato nessuno di questi aspetti. «Sì, è perfetto» disse mia madre, con un sorriso tirato. Era stressatissima e io mi sentivo in colpa.
«Sarà stupendo, mamma. Meraviglioso. E tutti saremo così felici che, se c’è qualcosa che non va, non ce ne accorgeremo.» Lei trasalì, e io mi affrettai ad aggiungere: «Ma non ci sarà nulla che non va. Tutti quelli dello staff si stanno assicurando che ogni cosa funzioni. È il gran giorno del loro capo». «Sì.» Annuì, sollevata. «Hai ragione. Tutti vogliono che ogni cosa sia perfetta.» «E lo sarà.» Perché non avrebbe dovuto? Gideon e io eravamo già sposati, ma non avevamo mai festeggiato insieme il suo
compleanno, cosa che non vedevo l’ora di fare. Il mio smartphone segnalò che era arrivato un messaggio. Lo lessi, corrucciata, poi presi il telecomando del televisore. «Che cosa succede?» domandò mia madre. «Non lo so. Gideon dice che devo accendere la tivù.» Avvertii una fitta allo stomaco e mi preoccupai, avendo un presentimento. E adesso che cosa avremmo dovuto sopportare? Selezionai il canale che Gideon mi aveva indicato e riconobbi il set di un talk show molto seguito. Con
mio sommo stupore, mio marito era seduto a un tavolo, circondato da cinque conduttrici, con un sottofondo di applausi e di fischi di ammirazione. A prescindere da ciò che pensavano della sua fedeltà, le donne non riuscivano a resistergli. Il suo carisma e la sua sensualità erano mille volte più potenti di persona. «Mio Dio» sospirò mia madre. «Che cosa sta facendo?» Alzai il volume. Com’era prevedibile, dopo essersi congratulate con lui per il fidanzamento, le cinque conduttrici si buttarono a capofitto sulla storia
di Rio e sulla famigerata foto del ménage à trois nel club. Naturalmente si preoccuparono di sottolineare che la foto non poteva essere mostrata in tivù perché troppo spinta, ma invitarono il pubblico a visitare il sito della trasmissione, facendone scorrere in continuazione l’indirizzo sullo schermo a caratteri ben leggibili. «Be’, non capisco» sbottò mia madre. «Perché sta attirando ancor più l’attenzione sulla cosa?» La zittii. «Ha in mente qualcosa.» Almeno, lo speravo. Tenendo tra le mani una tazza di caffè con il logo della trasmissione,
Gideon sembrava pensieroso mentre le conduttrici continuavano a dire la loro prima di lasciarlo parlare. «Al giorno d’oggi dovremmo ancora celebrare gli addii al celibato o al nubilato?» chiese una di loro. «Be’, questa è una delle cose che posso spiegare» intervenne Gideon, prima che iniziassero a dibattere l’argomento. «Poiché Eva e io ci siamo sposati un mese fa e io non sono più celibe, non poteva essere un addio al celibato.» Dietro di loro, su un maxischermo, il logo della trasmissione lasciò il posto a una
foto di Gideon che mi baciava dopo che avevamo pronunciato i voti. Rimasi senza fiato, mentre il pubblico ammutoliva. «Wow» mormorai. «È uscito allo scoperto.» Riuscii a stento ad afferrare la conversazione concitata che fece seguito a quella rivelazione, troppo sbalordita da ciò che Gideon stava facendo per riuscire a connettere. Lui era così riservato! Non rilasciava mai interviste personali, a parte quelle sulla Cross Industries. La foto di noi due lasciò il posto a una serie di scatti realizzati nello stesso locale dove le brunette tutte gambe si erano strusciate contro di
lui. Quando Gideon guardò il pubblico e disse che qualcuno dei presenti probabilmente riconosceva il posto, si udirono alcune risposte affermative. «Certo» continuò, rivolgendosi alle conduttrici. «Non potevo essere contemporaneamente a New York e in Brasile. La foto che è stata messa in circolazione è stata modificata per cancellare il logo del club, che invece qui potete vedere ricamato sulle tende della sala vip. Sono bastati il software giusto e un paio di clic per farlo sparire.» «Ma le ragazze sono vere» ribatté una delle conduttrici «e ciò
che vediamo è successo realmente.» «Sì. Avevo una vita prima che mia moglie comparisse all’orizzonte» disse in tono piatto e per nulla dispiaciuto. «Sfortunatamente, è una cosa che non posso cambiare.» «Anche Eva aveva una vita prima di conoscerla. È lei la Eva citata in quella canzone dei Six-Ninths...» La conduttrice strizzò appena gli occhi. «Ragazza d’oro.» Stava evidentemente leggendo l’informazione sul gobbo. «Sì, è lei» confermò Gideon. Parlava in tono neutro e
sembrava imperturbabile. Anche se sapevo che il programma non era affatto spontaneo come sembrava, era ugualmente surreale vedere le nostre vite usate per far salire l’audience del mattino. Comparve una foto di Brett e di me al lancio del video di Ragazza d’oro a Times Square e furono mandate in onda alcune strofe della canzone. «E lei che cosa ne pensa?» Gideon fece uno dei suoi rari sorrisi. «Se fossi un cantautore, Eva sarebbe la musa ispiratrice anche delle mie canzoni.» Apparve la foto di noi due in
Brasile, subito seguita da quella di Westport, e dalla serie di scatti realizzati sulle passerelle di diversi eventi di beneficenza: in tutte, gli occhi di Gideon erano puntati su di me. «In questo è bravissimo» dissi, parlando soprattutto a me stessa, perché mia madre era occupata a spegnere il portatile. «È sincero, ma anche tanto sostenuto e sicuro di sé da alimentare il mito di Gideon Cross. E ha dato loro un sacco di foto su cui lavorare.» Un’altra scelta azzeccata era stata quella di partecipare a un talk show pensato per le donne, con
varie conduttrici di sesso femminile: non gli avrebbero lasciato scampo sulla questione della presunta infedeltà né avrebbero girato intorno all’argomento. Quel programma avrebbe chiarito le cose come un’intervista condotta da un uomo non sarebbe mai riuscita a fare. Una delle conduttrici si protese verso di lui. «Sta per uscire un libro che parla di lei, vero? Scritto dalla sua ex.» Comparve una foto di Gideon e Corinne al party pubblicitario della vodka Kingsman. Il pubblico iniziò a mormorare. Io serrai i denti: lei era
incredibilmente bella, come sempre, e controbilanciava perfettamente il fascino tenebroso di Gideon. Scelsi di credere che quella foto fosse stata scovata dalla redazione. «In realtà è stato scritto da un ghostwriter» rispose. «Da una penna ben affilata, tra l’altro. Temo che Mrs Giroux sia stata usata, e non se ne renda conto.» «Non lo sapevo. Chi sarebbe il ghostwriter?» La conduttrice guardò il pubblico e spiegò brevemente che cos’era un ghostwriter. «Non sono autorizzato a rivelare chi è il vero autore del libro.»
La conduttrice lo incalzò. «Ma lo conosce? La conosce? Forse non è in buoni rapporti con questa persona, o sbaglio?» «Ha ragione, su entrambe le cose.» «È una sua ex? Un suo ex socio in affari?» La conduttrice che fino a quel momento aveva parlato di meno cambiò marcia. «Ci dica di Corinne... Perché non ci racconta tutta la verità su di lei, Gideon?» Mio marito posò la tazza da cui aveva appena bevuto un sorso di caffè. «Mrs Giroux e io siamo usciti insieme ai tempi del college. Siamo
stati fidanzati per un po’, ma la nostra relazione era destinata a non funzionare. Eravamo immaturi e, diciamo la verità, troppo ignoranti per capire che cosa volevamo.» «Tutto qui?« «La storia di due giovani confusi non è molto interessante né morbosamente attraente, vero? Siamo rimasti amici dopo che lei si è sposata. Mi dispiace che senta il bisogno di realizzare un’operazione commerciale basata su quel particolare momento della nostra vita, ora che anch’io sono sposato. Credo che questa cosa metta a disagio Jean-François tanto quanto
me.» «È il marito di Corinne, vero? Jean-François Giroux. Lo conosce di persona?» Sullo schermo apparvero Corinne e il marito in abiti da sera, ospiti di un qualche evento. Erano una coppia affascinante, anche se il contrasto tra Jean-François e Gideon andava a tutto svantaggio del francese: nessuno poteva competere con Gideon. Gideon annuì. «Siamo in affari insieme.» «Ha parlato di questa cosa con lui?» «No, di solito non parlo di queste
cose.» Ecco di nuovo il tenue sorriso sulle sue labbra. «Sono sposato da pochissimo, ho ben altro a cui pensare.» Battei le mani. «Sì! Questa è un’idea mia. Gli ho detto di ricordare alla gente che è sposato e che conosce il marito della sua ex.» E Gideon aveva anche tirato una frecciata a Deanna. Ben fatto su tutta la linea! «Tu sapevi che avrebbe fatto una cosa del genere?» chiese mia madre, inorridita. La guardai e mi colpì vederla così pallida. Considerando tutto il sole che aveva preso negli ultimi due
fine settimana, c’era davvero da preoccuparsi. «No, non lo sapevo. Abbiamo parlato dei Giroux qualche tempo fa. Tu, piuttosto, stai bene?» Si premette le dita sulle tempie. «Ho mal di testa.» «Resisti finché non finisce l’intervista, e ti cerco qualcosa.» Ripresi a guardare la tivù, ma c’era la pubblicità. Allora corsi all’armadietto dei medicinali in bagno e, quando tornai scuotendo un flaconcino di compresse, fui sorpresa di vedere mia madre che radunava le sue cose per andarsene. «Vai via? Non pranzi con me?»
«Sono stanca, Eva. È meglio che vada a casa a stendermi un po’.» «Puoi riposarti qui, nella camera degli ospiti.» Pensavo che avrebbe accettato la proposta. Dopotutto, Gideon aveva riprodotto alla perfezione la disposizione e l’arredamento della mia camera da single pensati da mia madre. Era stato un tentativo, malaccorto ma premuroso, di allestirmi un porto sicuro in casa sua in un momento in cui ero indecisa se lasciarlo definitivamente o continuare a combattere per la nostra relazione. Lei scosse la testa e si sistemò la tracolla della borsa del computer
sulla spalla. «Starò meglio a casa. Le cose più importanti ce le siamo dette. Mi faccio sentire più tardi.» Mi diede un bacio senza nemmeno toccarmi le guance e se ne andò. Mi sedetti di nuovo sul divano, misi le medicine sul tavolino e guardai il resto dell’intervista di Gideon.
12
«Mr Cross.» Scott si alzò in piedi dietro la sua scrivania. «Allora rientra oggi, dopotutto?» Scossi la testa e aprii la porta del mio ufficio, facendo cenno ad Angus di precedermi. «Devo solo occuparmi di una cosa. Sarò operativo domani.» Avevo liberato l’agenda, ridistribuendo le riunioni e gli
appuntamenti nel resto della settimana. Non avevo programmato di venire al Crossfire, ma le informazioni che avevo chiesto ad Angus di trovarmi erano troppo sensibili per rischiare di parlarne altrove. Mi presi qualche istante per chiudere la porta e oscurare la parete di vetro, poi seguii Angus nella zona salotto e mi lasciai cadere su una poltrona. «Ha avuto giorni molto impegnati, ragazzo mio» disse, facendo una smorfia ironica. «Mai un momento di noia.» Espirai con forza, lottando contro la
stanchezza. «Mi hai detto di avere qualcosa.» Angus si chinò in avanti. «Alcune informazioni in più rispetto all’inizio: una licenza di matrimonio con un luogo di nascita falso e il certificato di morte di Jackson Tramell, in cui Lauren Kittrie è indicata come la moglie. È morto meno di un anno dopo che si erano sposati.» Mi concentrai sull’informazione più importante. «Lauren ha mentito sul luogo di nascita?» Annuì. «Una cosa abbastanza facile.» «Ma perché?» Osservandolo, notai che aveva la mascella
contratta. «C’è dell’altro.» «La causa della morte è indicata come indeterminata» disse a bassa voce. «Jackson si è preso una pallottola nella tempia destra.» Mi irrigidii. «Non sono riusciti a stabilire se sia stato suicidio o omicidio?» «Già. Non sono stati in grado di stabilirlo in modo conclusivo.» Altre domande senza risposta, con la questione più grossa ancora in sospeso: Lauren aveva qualche rilevanza? Forse stavamo girando a vuoto. «Cazzo.» Mi sfregai la faccia con una mano. «Voglio solo una foto,
per l’amor del cielo.» «È passato molto tempo, Gideon. Un quarto di secolo. Forse qualcuno della sua città d’origine la ricorderebbe, ma non sappiamo quale sia.» Lasciai ricadere la mano e lo guardai. Conoscevo le sfumature della sua voce e ciò che significavano. «Pensi che qualcuno ci abbia messo le mani e abbia sistemato le cose?» «È possibile. È anche possibile che il rapporto della polizia sulla morte di Jackson sia andato veramente smarrito nel corso degli anni.»
«Però tu non ci credi.» Confermò la mia affermazione con un cenno della testa. «Mi sono portato dietro un ragazzo perché fingesse di essere un agente del fisco che stava cercando Lauren Kittrie Tramell. Ha interrogato Monica Dieck, la quale ha detto che non vedeva l’ex cognata da anni e che, per quanto ne sapeva, era deceduta.» Scossi la testa, cercando di tirar fuori una logica da quelle informazioni, senza riuscirci. «Monica era terrorizzata, ragazzo mio. Quando ha sentito il nome di Lauren è diventata pallida come un
fantasma.» Mi alzai in piedi e mi misi a camminare avanti e indietro. «E che cazzo significa? Niente di tutto questo mi porta più vicino alla verità di un millimetro.» «C’è qualcun altro che potrebbe avere le risposte.» Mi fermai di botto. «La madre di Eva.» Annuì. «Potrebbe chiedere a lei.» «Accidenti.» Lo fissai. «Voglio solo essere certo che mia moglie sia al sicuro, che niente di tutto questo rappresenti un pericolo per lei.» L’espressione di Angus si addolcì.
«Da quel che sappiamo della madre di Eva, proteggere la figlia è sempre stata la sua priorità. Non riesco a immaginare che possa metterla in pericolo.» «Quello che mi preoccupa è proprio la sua iperprotettività. Segue i movimenti di Eva da non so quanto tempo. Supponevo che fosse per via di Nathan Barker, ma forse era solo una parte del motivo; magari c’è dell’altro.» «Raúl e io stiamo già lavorando su protocolli modificati.» Mi passai una mano tra i capelli. Oltre ai normali compiti di sicurezza, stavano gestendo il
problema di Anne e cercando qualunque documento il fratello avesse tenuto, tentando altresì di identificare il tizio che mi aveva fotografato e di risolvere il mistero della madre di Eva. Anche con gli uomini d’appoggio, sapevo che erano al limite. La mia squadra di sicurezza era abituata a occuparsi solo dei miei affari, ma adesso che nella mia vita c’era Eva i suoi doveri erano raddoppiati. Angus e Raúl non avevano problemi a fare i turni, ma ultimamente entrambi lavoravano quasi ventiquattr’ore su ventiquattro. Avevano l’ordine di
procurarsi qualunque aiuto necessario, ma quello che ci serviva era un altro capo della sicurezza... forse due. Professionisti il cui solo incarico fosse Eva, e di cui avrei potuto fidarmi ciecamente come facevo con l’attuale squadra. Dovevo trovare il tempo per occuparmene. Doveva essere tutto pronto per quando Eva e io fossimo tornati dalla luna di miele. «Grazie, Angus.» Espirai sonoramente. «Andiamo all’attico, voglio parlare con Eva adesso. Penserò alle prossime mosse dopo aver dormito un po’.»
«Perché non me l’hai detto?» Guardai Eva mentre mi spogliavo. «Pensavo che avresti gradito la sorpresa.» «Be’, sì. Ma questo... è troppo.» Potevo dire che era contenta dell’intervista. Il modo in cui mi aveva accolto quando ero tornato a casa ne era stato un buon segnale. Inoltre, parlava in fretta e saltellava qua e là. Il che, veniva da pensare, non era molto diverso dal comportamento di Lucky, che correva sotto il letto e schizzava fuori, uggiolando felice. Uscii dalla cabina armadio con indosso i boxer e mi spaparanzai sul
letto. Dio, se ero stanco. Troppo stanco persino per dare una ripassata alla mia splendida moglie, che era uno schianto nel suo babydoll senza spalline. Ciò detto, avrei certamente potuto essere all’altezza del ruolo, nel caso in cui me l’avesse proposto. Eva si sedette sul suo lato del letto, poi si protese per aiutare Lucky, che cercava invano di arrampicarsi. Un istante dopo ce l’avevo sul petto che guaiva di protesta mentre io gli impedivo di sbavarmi sulla guancia. «Ehi, ho capito. Mi piaci anche tu, però io non ti lecco la faccia.»
A quelle parole abbaiò. Eva scoppiò a ridere e si appoggiò al cuscino. Fu allora che capii: ero a casa, in un modo che non mi era mai capitato prima. Da quando era morto mio padre, nessun posto mi era più sembrato una casa. Ma adesso ce l’avevo di nuovo, persino migliore. Tenendomi Lucky premuto contro il petto, mi girai verso mia moglie. «Com’è andata con tua madre?» «Bene, credo. Siamo pronte per domenica.» «Credi?» Si strinse nelle spalle. «Durante
l’intervista le è venuto mal di testa. Mi è sembrato che fosse un po’ alterata.» Studiai Eva. «Per cosa?» «Per il fatto che tu stessi parlando delle tue faccende personali in televisione. Non lo so. A volte non la capisco.» Mi ricordai di quando Eva mi aveva raccontato di aver parlato con Monica del libro di Corinne e della possibilità di usare i media a nostro vantaggio. Monica l’aveva messa in guardia, dicendole di salvaguardare la nostra privacy. In quell’occasione ero stato d’accordo con la madre di Eva e – a parte
l’intervista di oggi – avrei continuato a esserlo. Ma alla luce del poco che sapevo sull’identità di Monica, pareva probabile che la madre di Eva fosse preoccupata anche per la propria privacy. Era una cosa che sarebbe apparsa in un trafiletto sui giornali locali, ben diverso dall’ottenere l’attenzione mondiale. Eva aveva il viso di sua madre e alcuni dei suoi vezzi. Aveva anche il cognome Tramell, che era un curioso errore; sarebbe stato meglio darle il cognome di Victor. Qualcuno avrebbe potuto cercare Monica e, se era al corrente anche
del poco che sapevo io, la faccia di Eva sulla televisione nazionale avrebbe consentito di localizzarla. Il cuore prese a martellarmi. Mia moglie era in pericolo? Non avevo idea da che cosa si stesse nascondendo Monica. «Oh!» saltò su Eva. «Non te l’ho detto: ho un vestito!» «Accidenti, per poco non mi fai venire un infarto!» Lucky approfittò del mio sconcerto e si slanciò a leccarmi la faccia. «Scusa.» Eva prese il cucciolo e mi salvò, mettendoselo in grembo mentre si metteva seduta a gambe incrociate accanto a me. «Oggi ho
telefonato a mio padre. Mia nonna gli ha chiesto se voglio indossare il suo abito da sposa. Mi ha mandato una foto, ma è stato riposto per così tanto tempo che non riuscivo a capire com’era. Così ha fatto la scansione di una foto del suo matrimonio, ed è perfetto! È esattamente ciò che non sapevo di volere!» Mi sfregai il petto e sorrisi ironico. Come potevo non essere affascinato dal fatto che lei fosse così eccitata all’idea di sposarmi di nuovo? «Sono felice, angelo.» Le brillavano gli occhi per l’entusiasmo. «Gliel’aveva fatto la
mia bisnonna con l’aiuto delle sorelle. È un cimelio di famiglia. Non è fichissimo?» «Assolutamente.» «Vero? Io e lei siamo alte più o meno uguali. Il sedere e le tette le ho prese da quel ramo della famiglia. Potrebbe non essere necessaria alcuna modifica.» «Adoro il tuo sedere e le tue tette.» «Demonio.» Scosse la testa. «Penso che a quel ramo della famiglia farà piacere vedermelo addosso. Avevo paura che si sentissero fuori posto, ma adesso indosserò quell’abito, così avranno
la sensazione di essere parte della cosa. Non credi?» «Sono d’accordo.» Le feci cenno di avvicinarsi con un movimento del dito. «Vieni qui.» Mi lanciò un’occhiata. «Hai una faccia...» «Davvero?» «Stai ancora pensando al mio sedere e alle mie tette?» «Sempre. Ma per ora voglio solo darti un bacio.» «Mmh.» Si allungò verso di me, offrendomi la bocca. Le cinsi la nuca con una mano e mi presi quello di cui avevo bisogno.
“È impressionante, figliolo.” Sto guardando il Crossfire dalla strada, ma il suono della voce di mio padre mi fa voltare la testa. “Papà.” È vestito come me, con un abito a tre pezzi scuro. La cravatta è bordeaux, in tinta con il fazzoletto infilato nel taschino della giacca. Siamo alti uguali e per un momento la cosa mi stupisce. Perché? La risposta mi gira nella mente, ma non riesco ad afferrarla. Mi mette un braccio intorno alle spalle. “Hai costruito un impero. Sono orgoglioso di te.” Faccio un respiro profondo. Non
mi ero reso conto di quanto avessi bisogno di sentirglielo dire. “Grazie.” Si sposta, girandosi verso di me. “E ti sei sposato. Congratulazioni.” “Dovresti venire all’attico con me per conoscere mia moglie.” Sono ansioso, non voglio che mi dica di no. Ci sono così tante cose che voglio dirgli e non abbiamo mai tempo. Solo qualche minuto ogni tanto, brandelli di conversazione che scalfiscono a malapena la superficie. E, con Eva accanto, avrei il coraggio di dire quello che ho bisogno di dire. “Ti piacerà. È straordinaria.”
Mio padre fa un gran sorriso. “Bellissima, anche. Mi piacerebbe un nipote. E una nipotina.” “Frena!” Rido. “Non troppo in fretta.” “La vita passa in fretta, figliolo. Prima che tu te ne accorga, è finita. Non sprecarla.” Deglutisco dolorosamente. “Avresti potuto avere più tempo.” Non è quello che voglio dire. Voglio chiedergli perché ha rinunciato, perché ha deciso di farla finita. Ma ho paura di domandarlo. “Tutto il tempo del mondo non mi sarebbe bastato a realizzare una cosa del genere.” Torna a guardare
il Crossfire. Dal basso, sembra non finire mai, un’illusione ottica creata dalla piramide sulla sommità. “Dev’essere una faticaccia tenere in piedi una cosa del genere. Lo stesso dicasi di un matrimonio. Alla fine, dovrai scegliere quale viene per primo.” Ci rifletto. È vero? Scuoto la testa. “Li terremo in piedi insieme.” Mi batte una mano sulla spalla e il terreno riverbera sotto i miei piedi. Inizia in modo impercettibile, poi aumenta finché intorno a noi comincia a piovere vetro. Inorridito, guardo la guglia sulla punta esplodere e accartocciarsi su se
stessa, mentre le finestre scoppiano per la pressione. Mi svegliai con un rantolo, respirando affannosamente, e spinsi via il peso sul petto accorgendomi che era una pelliccia calda. Trovai Lucky che mi si arrampicava addosso, guaendo debolmente. «Gesù.» Mi misi seduto, scostandomi i capelli dalla faccia. Eva dormiva accanto a me, rannicchiata in posizione fetale, con i pugni sotto il mento. Dalle finestre dietro di lei vidi il sole che tramontava. Lanciai un’occhiata all’orologio e mi accorsi che erano
passate da poco le cinque del pomeriggio. Avevo puntato la sveglia alle sei meno un quarto, così presi lo smartphone per disinserirla. Lucky ficcò la testa sotto il mio avambraccio. Lo tirai su e lo guardai negli occhi. «L’hai fatto di nuovo.» Mi aveva svegliato da un incubo. Come cazzo faceva a capire se ero addormentato o sveglio? In ogni caso, gliene ero grato. Gli feci una carezza e scesi dal letto. «Ti alzi?» chiese Eva. «Devo andare dal dottor Petersen.»
«Ah, sì. L’avevo dimenticato.» Mi chiesi se saltare la seduta, ma Eva e io saremmo partiti per la luna di miele di lì a poco, e non avrei visto il dottore per un mese. Immaginai che fino ad allora avrei dovuto farmi coraggio. Misi Lucky sul pavimento e mi avviai verso il bagno. «Ehi!» mi gridò dietro. «Ho invitato Chris a cena stasera.» Esitai, poi mi fermai e mi girai a guardarla. «Non fissarmi in quel modo.» Si tirò su a sedere, sfregandosi i pugni sugli occhi. «È solo, Gideon, senza la sua famiglia. È un momento
difficile per lui. Pensavo di cucinare qualcosa di semplice e poi di guardare un film. Distrarlo per un po’ dal divorzio, magari.» Sospirai. Ecco com’era mia moglie: sempre a fare quadrato intorno alle persone smarrite e ferite. Come potevo incolparla di essere la donna di cui mi ero innamorato? «Va bene.» Lei sorrise. Valeva la pena acconsentire a qualunque cosa solo per vederla sorridere. «Ho appena finito di guardare la sua intervista» disse il dottor Petersen, prendendo posto sulla
poltrona. «Mia moglie mi aveva avvisato e sono riuscito a vederla su Internet. Molto ben fatta. Mi è piaciuta.» Mi lasciai cadere sul divano. «Un male necessario, ma concordo, è andata bene.» «Come sta Eva?» «Mi sta chiedendo come ha reagito vedendo quella foto?» Il dottor Petersen sorrise. «Posso immaginare la reazione. Come sta adesso?» «Sta bene.» Ero ancora scosso dal ricordo di come si era sentita male. «Stiamo bene.» Il che non cambiava il fatto che
ribollivo d’ira tutte le volte che ci pensavo. Quella foto esisteva da mesi. Perché tenerla nascosta e poi renderla pubblica adesso? Avrebbe fatto notizia a maggio. L’unica risposta che ero riuscito a trovare era che volevano ferire Eva, forse allontanarci l’uno dall’altra. L’intenzione era di umiliare lei e me. Qualcuno l’avrebbe pagata per questo e, quando avessi finito, avrebbe saputo che cos’è l’inferno. Avrebbe sofferto come avevamo sofferto Eva e io. «Dite tutti e due che le cose vanno bene. Che significa?»
Ruotai le spalle per alleviare la tensione. «Siamo... solidi. C’è una stabilità che prima non c’era.» Appoggiò il tablet sul bracciolo e incontrò il mio sguardo. «Mi faccia un esempio.» «La foto è un buon esempio. Ci sono stati periodi nel nostro rapporto in cui una foto come quella avrebbe mandato tutto a puttane.» «Questa volta è stato diverso.» «Molto. Eva e io abbiamo discusso della mia festa di addio al celibato a Rio prima che partissi. È molto gelosa, e a me non importa. Anzi, mi piace. Ma non mi piace che si torturi su questa cosa.»
«La gelosia ha radici nell’insicurezza.» «Usiamo un’altra parola, allora. È territoriale. Non toccherò un’altra donna per il resto della mia vita, e lei lo sa. Ma ha una fervida immaginazione, e quella foto era l’incarnazione di tutto ciò di cui aveva paura.» Il dottor Petersen mi stava lasciando parlare, ma per un momento non ci riuscii. Dovetti scacciare dalla mente l’immagine – e la rabbia che mi suscitava – prima di poter continuare. «Eva era a migliaia di chilometri di distanza quando la dannata
faccenda è esplosa su Internet, e io non avevo niente per dimostrarle che non era vero; avevo solo la mia parola e lei mi ha creduto. Non ha fatto domande. Non ha avuto dubbi. Gliel’ho spiegato meglio che ho potuto e lei l’ha accettato come verità.» «La cosa l’ha stupita.» «Sì...» Mi interruppi. «Sa, adesso che ne parlo, non mi ha stupito davvero.» «No?» «Abbiamo avuto momenti difficili, ma non abbiamo sbagliato. Era come se sapessimo quello che era giusto fare, ed eravamo sicuri che
l’avremmo fatto. Non c’era alcun dubbio nemmeno su questo.» Fece un sorriso gentile. «È molto sincero. Sia nell’intervista sia adesso.» Mi strinsi nelle spalle. «Straordinario quel che può fare un uomo davanti alla possibilità di perdere la donna senza la quale non può vivere.» «In precedenza lei ha provato rabbia per i suoi ultimatum, risentimento. Li prova ancora?» «No.» Risposi senza esitazione, anche se non avrei mai dimenticato come mi ero sentito quando aveva imposto che ci separassimo. «Se
vuole che io parli, parlerò. Non importa quello che le rovescio addosso, di che umore sono quando le parlo, quanto si senta male quando ascolta certe cose... Può affrontare tutto. E mi ama di più.» Scoppiai a ridere, sorpreso da un’improvvisa sensazione di gioia. Il dottor Petersen inarcò le sopracciglia, con un sorriso impercettibile. «Non l’avevo mai sentita ridere così.» Scossi la testa, stupefatto. «Non ci faccia l’abitudine.» «Oh, questo non lo so. Parlare di più, ridere di più; le due cose sono legate, sa.»
«Dipende da chi parla.» Mi guardò con gli occhi pieni di calore e compassione. «Lei ha smesso di parlare quando sua madre ha smesso di ascoltare.» Il mio sorriso scomparve. «Si dice che le azioni valgono più delle parole» continuò «ma noi abbiamo bisogno delle parole. Abbiamo bisogno di parlare e abbiamo bisogno di essere ascoltati.» Lo fissai, il battito del cuore inspiegabilmente affrettato. «Sua moglie la ascolta, Gideon. Le crede.» Si protese verso di me. «Io la ascolto e le credo. Quindi lei
parla di nuovo e ottiene una reazione diversa da quella che era abituato ad aspettarsi. Apre delle possibilità, non è così?» «Apre me, intende dire.» Annuì. «È così. All’amore e all’accettazione, all’amicizia, alla fiducia. Un mondo completamente nuovo, davvero.» Mi sfregai la nuca con la mano. «Che cosa dovrei farmene di questo?» «Ridere di più è un buon inizio.» Il dottor Petersen si appoggiò alla poltrona e riprese in mano il tablet. «Penseremo al resto.» Quando misi piede nell’atrio
dell’attico sentii la musica di Nina Simone e Lucky. Il cucciolo abbaiava dall’altra parte della porta d’ingresso, grattando freneticamente con le zampe. Sorrisi mio malgrado e girai la maniglia, accucciandomi per intercettare il corpicino fremente che si lanciava nel varco. «Mi hai sentito arrivare, vero?» Mi rimisi in piedi, con il cucciolo stretto al petto, e gli permisi di leccarmi la faccia mentre gli accarezzavo la schiena. Entrai in salotto in tempo per vedere il mio patrigno che si alzava da terram dov’era seduto. Mi salutò
con un sorriso caloroso e uno sguardo d’affetto, prima di riprendersi e assumere un’espressione più... controllata. «Ciao» mi disse, avvicinandosi. Indossava i jeans e una polo, ma si era tolto le scarpe, rivelando calzini bianchi con righe rosse sulle dita. I capelli ondulati biondo rame erano più lunghi di quanto glieli avessi mai visti, e una barba di qualche giorno gli ombreggiava la mascella. Non mi mossi, i pensieri in subbuglio. Per un istante, Chris mi aveva guardato come faceva il dottor Petersen. Come faceva Angus.
Come faceva mio padre, in sogno. Incapace di sostenere il suo sguardo, mi presi una pausa per mettere giù Lucky e fare un respiro profondo. Quando mi raddrizzai, Chris mi stava tendendo la mano. Provando un noto fremito di consapevolezza, guardai oltre Chris e vidi Eva in piedi sulla soglia della cucina. Ci scambiammo un’occhiata, e nei suoi occhi trovai tenerezza e amore. Nel mio patrigno c’era qualcosa di radicalmente diverso. Il suo saluto rilassato mi riportò alla mente com’erano le cose tra noi
anni prima. C’era stato un periodo in cui Chris non era così formale con me, in cui mi guardava con affetto. Aveva smesso perché glielo avevo chiesto io: non era mio padre, non lo sarebbe mai stato. Sapevo di essere solo il bagaglio in più che doveva sobbarcarsi perché amava mia madre; non avevo bisogno che fingesse che gli importasse qualcosa di me. Invece, a quanto pareva, aveva finto che non gliene importasse. Presi la sua mano e gliela strinsi brevemente, dandogli una pacca sulle spalle prima di lasciarla andare. Lui mi trattenne e io mi
irrigidii, spostando lo sguardo su Eva. Fece il gesto di versarmi un drink immaginario, poi scomparve per prepararmene uno vero. Chris mi lasciò andare, arretrò di un passo e si schiarì la gola. Dietro le lenti con la montatura d’ottone aveva gli occhi luccicanti e umidi. «Tenuta informale?» chiese burbero, guardando i jeans e la Tshirt che indossavo. «Lavori troppo. Soprattutto avendo un cane così grazioso e una moglie bellissima che ti aspettano a casa.» “Sua moglie la ascolta, Gideon. Le crede. Io la ascolto e le credo.”
Anche il mio patrigno mi credeva, e stava pagando un prezzo. La separazione da Eva mi era sembrata una morte in vita, e il nostro rapporto era iniziato da poco; Chris era sposato con mia madre da oltre vent’anni. «Avevo un appuntamento con il mio terapeuta» gli dissi. Quelle parole ordinarie suonarono estranee alle mie orecchie, come qualcosa che avrebbe detto una persona mentalmente instabile che parlava troppo. Lui deglutì a fatica. «Vedi qualcuno. È una buona cosa, Gideon. Sono felice di sentirlo.»
Comparve Eva con in mano un bicchiere di vino. Me lo porse, inclinando la testa per offrirmi le labbra. La baciai, indugiando sulla sua bocca per un lungo, dolce momento. «Fame?» mi chiese quando mi scostai. «Da lupi.» «Andiamo, allora.» La osservai mentre ci precedeva in cucina, ammirando il modo in cui i pantaloni a pinocchietto le fasciavano il sedere generoso. Era a piedi nudi e i capelli biondi le oscillavano morbidi intorno alle spalle. A parte un filo di
lucidalabbra, era senza trucco e mozzafiato. Aveva apparecchiato sul bancone, mettendo me e Chris dalla parte degli sgabelli, mentre lei ci stava di fronte e mangiava in piedi. Era informale e rilassata, proprio come l’atmosfera che aveva creato. Tre candele diffondevano nell’aria un aroma di agrumi e spezie. La cena consisteva in un’insalata di filetto scottato, con gorgonzola, cipolle rosse, peperoni gialli e rossi e una vinaigrette dal sapore deciso. Fette di pane croccante spalmato di burro all’aglio erano tenute in caldo in un cestino
con un tovagliolo di lino, e un decanter con del vino rosso aspettava di riempire dei bicchieri senza stelo. La guardai oscillare al ritmo della musica mentre mangiava e chiacchierava con Chris della casa sulla spiaggia negli Outer Banks. Per un attimo ricordai com’era l’attico prima che lei iniziasse a trasferirsi. Era il posto dove vivevo, ma non potevo dire che fosse casa mia. In qualche modo, quando l’avevo comprato, dovevo aver saputo che lei sarebbe arrivata; come me, la casa la stava aspettando, con il bisogno che
portasse la vita. «Alla cena di domani viene anche tua sorella, Gideon» disse Chris. «È entusiasta.» Eva aggrottò la fronte. «Quale cena?» Chris inarcò un sopracciglio. «Tuo marito viene ringraziato per la sua generosità.» «Davvero?» Spalancò gli occhi e fece un saltello. «Tieni un discorso?» Divertito, risposi: «Di solito è quello che ci si aspetta, sì». «Evvai!» Saltò e batté le mani come una ragazza pompon. «Adoro sentirti parlare.»
Per una volta, pensai che mi sarebbe anche potuto piacere, visto che il solo pensiero le aveva fatto assumere quello sguardo da “scopami”. «E non vedo l’ora di incontrare Ireland» disse. «È richiesto lo smoking?» «Sì.» «Doppio evviva! Tu con lo smoking che tieni un discorso.» Si sfregò le mani. Chris scoppiò a ridere. «Chiaramente tua moglie è la tua fan più entusiasta.» Lei gli fece l’occhiolino. «Ci puoi scommettere.»
Assaporai il vino facendomelo girare in bocca prima di mandarlo giù. «Il nostro calendario sociale dovrebbe essere sincronizzato con il tuo telefono, angelo.» Il sorriso di Eva lasciò il posto a un’espressione contrariata. «Non credo che lo sia.» «Darò un’occhiata.» Chris si raddrizzò sullo sgabello, portandosi il bicchiere di vino vicino al petto con un sospiro. «Era buonissimo, Eva. Grazie.» Lei lo liquidò con un gesto. «Era solo un’insalata, ma sono contenta che ti sia piaciuta.» Spostai gli occhi da lei al mio
patrigno, indeciso se dire qualcosa. Le cose erano perfette così com’erano; cercare di cambiarle incasinava le situazioni anche più rilassate. «Dovremmo farlo più spesso.» Le parole mi uscirono di bocca prima che me ne rendessi conto. Chris mi fissò, poi abbassò lo sguardo sul bicchiere. Si schiarì la voce: «Mi piacerebbe, Gideon». Mi diede un’occhiata: «Accetterò l’offerta ogni volta che vorrai». Annuii. Scivolai giù dallo sgabello, presi il suo piatto e il mio e li portai nel lavello. Eva mi raggiunse, passandomi il
suo piatto. Ci guardammo negli occhi e lei sorrise, poi si girò verso Chris: «Apriamo un’altra bottiglia di vino». «Siamo in anticipo sui tempi di due settimane. Salvo imprevisti, dovremmo finire prima.» «Eccellente.» Mi alzai e strinsi la mano del project manager. «Sta facendo un buon lavoro, Leo.» Inaugurare in anticipo il nuovissimo resort Crosswinds offriva una miriade di vantaggi, non ultimo il fatto che avrei potuto unire le necessarie ispezioni finali a un po’ di tempo libero da dedicare a
mia moglie. «Grazie, Mr Cross.» Raccolse i suoi documenti e si raddrizzò. Leo Aigner era un uomo robusto, con capelli biondi che si stavano diradando e un sorriso generoso. Gran lavoratore, si atteneva rigorosamente alle tempistiche e accelerava ogni volta che poteva. «Congratulazioni, comunque. Ho sentito che si è sposato da poco.» «È vero, sì. Grazie.» Lo accompagnai alla porta dell’ufficio e quando se ne fu andato lanciai un’occhiata all’orologio. Eva stava venendo al Crossfire per pranzare con Mark e il suo fidanzato
Steven. Volevo parlarle: avevo bisogno del suo parere prima di procedere con una possibilità che mi girava in testa da quella mattina. «Mr Cross.» Scott era sulla soglia e mi aveva intercettato mentre tornavo alla scrivania. Gli lanciai un’occhiata interrogativa. «Deanna Johnson sta aspettando alla reception da mezz’ora. Cosa devo dire a Cheryl?» Pensai a Eva. «Dille di far passare Miss Johnson.» Mentre aspettavo, mandai un SMS a mia moglie. “Dedicami un po’ di
tempo prima di andartene dal Crossfire. Ho bisogno di chiederti una cosa.” “Un incontro tête-à-tête?” rispose. “Stai di nuovo pensando al mio sedere e alle mie tette?” “Sempre” scrissi. Deanna mi trovò così, a sorridere rivolto al telefono. Alzai lo sguardo quando entrò nell’ufficio, sentendo svanire tutto il buonumore. Indossava un tailleur pantalone bianco, con un pesante girocollo d’oro; era chiaro che si era preoccupata del suo aspetto. I capelli scuri le incorniciavano il viso e ricadevano sulle spalle, e si era
truccata per fare colpo. Si avvicinò alla scrivania. «Miss Johnson.» Appoggiai il telefono e mi sedetti. «Non ho molto tempo.» Strinse le labbra. Gettò la borsa sulla sedia più vicina e rimase in piedi. «Mi avevi promesso l’esclusiva sulle foto del tuo matrimonio!» «È vero, l’ho fatto.» E dato che ricordavo che cosa le avevo strappato in cambio, premetti il comando che chiudeva la porta dell’ufficio. Appoggiò le mani alla scrivania e si sporse in avanti. «Ti ho dato
tutte le informazioni sul video porno di Eva e Brett Kline. Ho rispettato la mia parte dell’accordo.» «Mentre tu hai convinto Corinne a darti quello che ti serviva per scrivere un libro su di me.» Nei suoi occhi passò qualcosa. «Pensavi che stessi bluffando durante l’intervista?» le chiesi in tono misurato, appoggiandomi allo schienale della sedia e unendo i polpastrelli. «Che non sapessi che il ghostwriter sei tu?» «Questo non ha niente a che fare con il nostro accordo!» «Ah, no?» Deanna si allontanò dalla
scrivania con uno scatto furibondo. «Dio, che figlio di puttana compiaciuto! Non te ne frega un cazzo di nessuno se non di te stesso.» «L’hai detto. Il che solleva la domanda: perché dovresti aspettarti che rispetti gli accordi?» «Perché sono un’idiota. Credevo che fossi sincero quando ti sei scusato.» «Ero sincero. Mi dispiace molto di averti scopato.» Arrossì per la rabbia e l’imbarazzo. «Ti odio» sibilò. «Ne sono consapevole. Sei libera di farlo, ma ti suggerisco di pensarci
due volte prima di architettare una vendetta contro di me o mia moglie.» Mi alzai. «Adesso te ne vai e io mi dimenticherò della tua esistenza... di nuovo. Non vuoi che io pensi a te, Deanna. Non ti piacerebbe la direzione che prenderebbero i miei pensieri.» «Avrei potuto guadagnare una fortuna con quel video!» mi accusò. «E mi avrebbero pagata bene per scrivere il libro. Le foto del tuo matrimonio mi avrebbero resa ricca. Adesso, che cosa mi rimane? Mi hai portato via tutto. Me lo devi, cazzo.» Inarcai un sopracciglio. «Non
vogliono più che scrivi il libro? Interessante.» Raddrizzò le spalle, facendo uno sforzo visibile per ricomporsi. «Corinne non lo sapeva. Di noi.» «Chiariamo una cosa: non c’è stato nessun “noi”.» Il telefono emise un suono: era un SMS con cui Raúl mi diceva che stava arrivando al Crossfire con Eva. Mi avvicinai all’attaccapanni. «Volevi scopare e ti ho scopata. Se era me che volevi, be’... non sono responsabile delle tue aspettative esagerate.» «Non ti prendi mai la responsabilità di niente! Usi le persone e basta.»
«Anche tu mi hai usato. Per farti una scopata. Per cercare di rimpinguare il tuo conto in banca.» Mi infilai la giacca. «Quanto a quello che ti devo per le tue perdite economiche, mia moglie ha suggerito che ti offra un lavoro.» Spalancò gli occhi scuri. «Stai scherzando.» «Be’, è stata anche la mia risposta.» Recuperai lo smartphone e me lo infilai in tasca. «Ma era seria, così ho fatto l’offerta. Se sei interessata, Scott può affiancarti a qualcuno nelle risorse umane.» Mi diressi alla porta. «Conosci la strada.»
Scendere nell’atrio non era affatto necessario. Eva aveva un impegno per pranzo e le poche parole che avrei scambiato con lei non erano molto importanti. Ma volevo vederla, toccarla per un attimo, ricordare a me stesso che l’uomo che ero quando mi scopavo donne come Deanna non esisteva più. L’odore del sesso non mi avrebbe più rivoltato lo stomaco, costringendomi a scorticarmi la pelle sotto la doccia. Stavo passando attraverso i tornelli della sicurezza quando Raúl accompagnò Eva nella porta girevole per poi tornare al suo
posto all’esterno. Mia moglie indossava una jumpsuit color vino con tacchi a spillo così sottili da essere quasi invisibili. Le spalline sottili lasciavano scoperte le spalle abbronzate e cerchi d’oro le ornavano le orecchie. Gli occhiali da sole le nascondevano in parte il viso, attirando l’attenzione sulle labbra carnose che avevano preso in bocca il mio cazzo solo poche ore prima. Stringeva in mano una pochette color carne e camminava sul marmo venato d’oro ancheggiando in modo naturalmente seducente. Le teste si girarono al suo
passaggio e alcuni degli sguardi indugiarono ad ammirarle il culo. Che cosa avrebbero pensato sapendo che dentro di lei c’era ancora il mio seme? Che i capezzoli erano sensibili dopo essere stati nella mia bocca e che le grandi labbra della sua fichetta meravigliosa erano gonfie per aver preso il mio cazzo? Io sapevo cosa pensavo. “Mia. Tutta mia.” Come se avesse percepito il calore di quella domanda muta, girò la testa all’improvviso e mi vide andarle incontro. Schiuse le labbra. Notai che il suo petto si alzava e si
abbassava al ritmo del respiro accelerato. “Lo stesso per me, angelo. Un pugno nello stomaco tutte le volte.” «Asso.» Le misi le mani intorno alla vita sottile e l’attirai a me, dandole un bacio sulla fronte e inspirando il suo profumo. «Angelo.» Si scostò, il viso illuminato dal piacere. «Ti sei preso proprio una bella cotta per me.» «È molto contagiosa. Me la sono beccata da te.» «Oh, davvero?» La sua risata mi travolse come una ventata calda piena d’amore.
«C’è il grand’uomo in persona» disse Steven Ellison, arrivando al nostro fianco. «Congratulazioni, voi due.» «Steven.» Eva si girò e abbracciò il marcantonio con i capelli rossi. Lui la strinse tra le braccia, sollevandola da terra. «Il matrimonio ti fa bene.» Steven lasciò andare Eva e mi porse la mano. «Anche a te.» «È una bella sensazione» dissi. Steven fece un gran sorriso. «Non vedo l’ora. Mark mi ha fatto aspettare anni.» «Non puoi continuare a menarmela con questa storia» disse
Mark, comparendo accanto a noi. Mi strinse la mano. «Mr Cross. Congratulazioni.» «Grazie.» «Ti unisci a noi per pranzo?» chiese Steven. «Non era nei miei programmi, no.» «Sei il benvenuto. Più siamo, più ci divertiamo. Stiamo andando al Bryant Park Grill.» Lanciai un’occhiata a Eva. Aveva sollevato gli occhiali da sole sopra la testa e mi guardava speranzosa. Mi fece un piccolo cenno di incoraggiamento. «Ho parecchie cose da fare per
rimettermi in pari» dissi, il che non era una bugia: ero rimasto indietro di due giorni. Dato che dovevo portarmi avanti in previsione della luna di miele, avevo deciso di mangiare in ufficio mentre lavoravo. «Sei il capo» disse Eva. «Puoi bigiare, se ne hai voglia.» «Hai una cattiva influenza, Mrs Cross.» Mi prese a braccetto e mi tirò verso la porta. «A te piace.» Mi impuntai, guardando Mark. «So che sei impegnato» disse. «Ma sarebbe bello se potessi unirti a noi. Vorrei parlarvi di una cosa.» Accettai con un cenno della
testa. Uscimmo in strada, subito investiti dall’afa e dai rumori della città. Raúl era in attesa vicino al marciapiede con la limousine e mi lanciò un’occhiata prima di aprire la portiera per Eva. Un lampo mi fece girare la testa, attirando la mia attenzione sul teleobiettivo di una macchina fotografica puntata verso di noi da un’auto parcheggiata dall’altra parte della strada. Baciai Eva sulla tempia prima che salisse in macchina. Lei mi guardò, piacevolmente sorpresa. Non dissi niente; aveva chiesto più foto di noi due per contrastare l’imminente pubblicazione del libro
di Corinne. Non era un problema mostrare il mio amore per lei, indipendentemente dal fatto che il dannato libro verità vedesse o meno la luce. Il tragitto verso il Bryant Park era breve. Qualche minuto dopo, stavamo salendo i gradini che portavano al locale e io stavo facendo un viaggio a ritroso nel tempo, ricordando il litigio tra Eva e me proprio in quel posto. Lei aveva visto una foto di me con Magdalene, una donna che consideravo un’amica di famiglia di vecchia data ma che si diceva fosse la mia amante. Io avevo visto una
foto di Eva e Cary, un uomo che amava come un fratello ma che si diceva fosse il suo convivente. Entrambi eravamo impazziti per la gelosia: la nostra relazione era appena cominciata ed era viziata dai troppi segreti che ci tenevamo nascosti a vicenda. Io ero già ossessionato da lei e stavo rivoluzionando il mio mondo per farle posto. Persino arrabbiata com’era, mi aveva guardato con amore e mi aveva accusato di non saper riconoscere quel sentimento quando lo vedevo. Ma io invece lo sapevo, l’avevo capito: mi terrorizzava come nulla aveva mai
fatto, e mi dava anche speranza, per la prima volta nella mia vita. Mentre ci avvicinavamo all’entrata del ristorante ombreggiata dall’edera Eva mi lanciò un’occhiata, e seppi che pure lei stava pensando a quell’episodio. Eravamo stati lì anche più di recente, quando Brett Kline aveva tentato di riprendersela. Allora era già mia, portava i miei anelli e ci eravamo scambiati i voti. Eravamo più forti di prima, ma adesso... Adesso nulla avrebbe potuto farci vacillare, il nostro rapporto poggiava su fondamenta solide. «Ti amo» disse mentre
seguivamo Mark e Steven oltre la soglia. Fummo investiti dal rumore di un locale affollato: il tintinnio delle posate sulla porcellana, il brusio delle conversazioni, la musica di sottofondo a malapena udibile e il trambusto di una cucina affaccendata. Incurvai le labbra in un sorriso: «Lo so». Fummo fatti accomodare subito e arrivò un cameriere per chiederci cosa volevamo da bere. «Dovremmo ordinare dello champagne?» chiese Steven. Mark scosse la testa. «Andiamo, sai che devo tornare al lavoro.»
Presi la mano di mia moglie sotto il tavolo. «Chiedilo di nuovo quando lavorerà per me. Festeggeremo in quell’occasione.» Steven fece un ampio sorriso. «Giusto.» Ordinammo da bere – acqua liscia e gasata e una bibita – e il cameriere si allontanò. «Allora, ecco di cosa volevo parlarvi» esordì Mark, raddrizzandosi sulla sedia. «Eva ha dato le dimissioni anche per via della proposta della LanCorp...» Lei lo anticipò, con un sorriso da gatto che ha mangiato il canarino: «Ryan Landon ti ha offerto un
lavoro». Mark sgranò gli occhi: «Come fai a saperlo?». Eva guardò me, poi lui. «Non hai intenzione di accettare, vero?» «No.» Mark si appoggiò allo schienale della sedia, studiandoci. «Sarebbe un semplice cambiamento di azienda, niente a che vedere con il salto di qualità che farò alla Cross Industries. Più che altro, però, mi sono ricordato che mi avevi detto che correva cattivo sangue tra Landon e Cross. Ci ho riflettuto dopo che te ne sei andata. Conoscendo i retroscena, la faccenda non mi tornava: prima
rinuncia a lavorare con noi, subito dopo cerca di portarmi via.» «Potrebbe essere che voglia solo te, senza l’agenzia» disse Eva. Steven annuì. «È quello che gli ho detto.» Come avrei fatto io, pensai, perché credeva nel suo partner. Ma a quanto pareva Mark la sapeva più lunga. Eva mi lanciò un’occhiata e io vidi chiaramente il “te l’avevo detto” nel suo sguardo. Le strinsi la mano. «Tu non credi che le cose stiano così» ribatté Mark, dimostrandoci che avevamo ragione. «No» concordò lei. «Non ci credo.
Sarò sincera, gli ho teso un tranello. Gli ho detto che Gideon e io siamo entusiasti di te e non vediamo l’ora di lavorare di nuovo insieme. Volevo capire se avrebbe abboccato. Ho pensato che, se fosse stata una buona offerta, ti stavo facendo un favore. E se non lo era, nessuno ci avrebbe rimesso.» Mark si accigliò. «Ma perché l’avreste fatto? Non mi volete alla Cross Industries?» «Ma certo che ti vogliamo, Mark» intervenni. «Eva è stata sincera con loro.» «Stavo sondando il terreno»
disse lei. «Mi sono chiesta se dirti qualcosa, ma non volevo che ti sentissi in imbarazzo nel caso in cui ti avesse offerto un ottimo posto che avresti potuto prendere seriamente in considerazione.» «E allora adesso cosa fate?» chiese Steven. «Adesso?» Eva si strinse nelle spalle. «Gideon e io stiamo organizzando una cerimonia per rinnovare i voti e poi partiremo per una lunga luna di miele. Ryan Landon non è un problema che si risolverà tanto in fretta. Starà sul pezzo, facendo i suoi interessi. Non voglio sottovalutarlo. E Mark sta per
iniziare un nuovo lavoro super alla Cross Industries.» Eva mi guardò e io lo seppi: come tutte le mie altre battaglie, Landon non era più un problema soltanto mio. Mia moglie sarebbe stata lì, facendo quello che poteva per me, combattendo dalla parte giusta. Mark fece lampeggiare un sorriso: «Per me va benissimo». «Vuoi giocare di nuovo alla segretaria porca?» sussurrò Eva. Mi teneva la mano e con l’altra mi accarezzava i bicipiti mentre entravamo nel mio ufficio. La
guardai, godendomi le avances, e vidi la risata calda nei suoi occhi. «Ho del lavoro da fare oggi» dissi seccamente. Lei sbatté le palpebre e si scostò da me, lasciandosi cadere obbediente su una delle sedie davanti alla mia scrivania. «Come posso esserle d’aiuto, Mr Cross?» Sorrisi mentre appendevo la giacca all’attaccapanni. «Che cosa ne pensi se chiedo a Chris di farmi da testimone al nostro matrimonio?» Mi voltai giusto in tempo per vedere il suo stupore. Mi guardò, sorpresa. «Sul serio?»
«Che ne dici?» Si appoggiò allo schienale, accavallando le gambe. «Prima vorrei sentire quello che ne pensi tu.» Mi sedetti accanto a lei invece di prendere posto dall’altra parte della scrivania. Eva era la mia partner, la mia migliore amica. Avremmo affrontato questa cosa, e ogni altra, fianco a fianco. «Dopo Rio, avevo intenzione di chiederlo ad Arnoldo, una volta che ne avessi parlato con te.» «Non avrei obiezioni» disse, e capii che era sincera. «È una decisione che dovresti prendere
pensando a te stesso e non a me.» «Capisce cosa c’è tra noi, e questo è un bene sia per me sia per te.» Lei sorrise. «Ne sono felice.» «Anch’io.» Mi sfregai la mascella. «Ma dopo ieri sera...» «Quale parte di ieri sera?» «La cena con Chris. Mi ha fatto riflettere. Le cose sono cambiate. E c’era una cosa che ha detto il dottor Petersen. Io...» Si allungò e mi prese la mano. Cercai le parole giuste. «Accanto a me voglio qualcuno che sappia tutto, quando percorrerai la navata. Non voglio finzioni, non per una
cosa tanto importante. Quando ci guarderemo e pronunceremo di nuovo i nostri voti, ho bisogno che sia... reale.» «Oh, Gideon.» Scivolò giù dalla sedia, accucciandosi accanto al mio ginocchio. Aveva gli occhi umidi e luminosi, come un cielo temporalesco dopo una pioggia purificatrice. «Uomo meraviglioso» disse in un soffio. «Non sai nemmeno quanto sei romantico.» Le misi una mano sulla guancia, asciugando le lacrime con il pollice. «Non piangere. Non riesco a sopportarlo.» Mi prese per i polsi e si alzò,
premendo la sua bocca sulla mia. «Non riesco a credere di essere così felice» mormorò, articolando le parole contro la mia pelle. «A volte non sembra reale. Come se stessi sognando e dovessi svegliarmi e rendermi conto di essere ancora nell’atrio, a guardarti per la prima volta e a immaginarmi tutto questo perché ti voglio così tanto.» L’attirai a me e la presi in braccio, cullandola, seppellendole la faccia nel collo. Riusciva sempre a dire le parole che io non ero capace di pronunciare. Mi passò le mani tra i capelli e poi sulla schiena. «Chris sarà
felicissimo.» Chiusi gli occhi e la strinsi forte. «È merito tuo.» Rendeva possibile qualunque cosa. Rendeva possibile me. «Davvero?» Rise dolcemente, scostandosi per sfiorarmi il viso con le dita. «È tutto tuo, asso. Io sono soltanto la ragazza fortunata che ha avuto un posto in prima fila.» All’improvviso il matrimonio non sembrava sufficiente per salvaguardare ciò che lei significava per me. Perché non c’era qualcosa di più vincolante di un mero pezzo di carta che mi dava il diritto di chiamarla mia moglie? I voti erano
una promessa, ma quello di cui avevo bisogno era una garanzia che ogni giorno della mia vita lei sarebbe stata con me. Volevo che il mio cuore battesse all’unisono con il suo e si fermasse quando si fermava il suo. Inestricabilmente avvinto a Eva, non sarei vissuto nemmeno un secondo senza di lei. Mi baciò di nuovo, dolcemente, con tenerezza, le sue labbra un tocco delicato. «Ti amo.» Non mi sarei mai stancato di sentirlo. Non avrei mai smesso di aver bisogno di sentirlo. Le parole, come aveva detto il dottor Petersen, che dovevano essere
dette e ascoltate. «Ti amo.» Altre lacrime. «Dio, sono un disastro.» Mi baciò di nuovo. «E tu devi lavorare. Ma non puoi fare tardi. Ho intenzione di divertirmi un po’ aiutandoti a indossare lo smoking... e a togliertelo.» La lasciai andare quando scivolò via e si mise in piedi, ma non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Attraversò la stanza e scomparve in bagno. Rimasi seduto, non sapendo se avrei avuto la forza di rimettermi in piedi. Avevo le gambe molli, il cuore che batteva troppo forte e troppo in fretta.
«Gideon.» Mia madre entrò nel mio ufficio, tallonata da Scott. «Ho bisogno di parlarti.» Mi alzai e rivolsi un cenno della testa a Scott. Lui si ritirò, chiudendo la porta. Il calore di Eva scomparve, lasciandomi con una sensazione di vuoto e di freddo mentre affrontavo mia madre. Indossava jeans scuri attillati come una seconda pelle e una camicetta morbida infilata nella cintura. I lunghi capelli neri erano raccolti in una coda di cavallo ed era senza trucco. La maggior parte della gente avrebbe visto semplicemente una donna
splendida che dimostrava meno della sua età. Io sapevo che era logorata e sfinita quanto Chris. Niente trucco, niente gioielli. Non era da lei. «Che sorpresa» dissi, dirigendomi verso la mia postazione dietro la scrivania. «Che cosa ti porta in città?» «Sono appena stata da Corinne.» Marciò dritta verso la mia scrivania e rimase in piedi, proprio come aveva fatto Deanna solo poche ora prima. «È a pezzi per l’intervista che hai rilasciato ieri. Completamente distrutta. Devi andare da lei. Parlarle.»
La fissai, incapace di capire come funzionasse il suo cervello. «Perché dovrei farlo?» «Per l’amor di Dio» scattò, guardandomi come se avessi perso la ragione. «Devi scusarti. Hai detto cose che l’hanno molto ferita...» «Ho detto la verità, che probabilmente è più di quello che si può dire del libro che sta per pubblicare.» «Non sapeva che tu avessi avuto una storia con quella donna... quella ghostwriter. Ha detto all’editore che non poteva lavorare con quella persona non appena l’ha scoperto.»
«Non mi interessa chi scrive il libro. Un autore diverso non cambierà il fatto che Corinne sta violando la mia privacy e rendendo pubblico qualcosa che potrebbe ferire mia moglie.» Alzò il mento. «Non riesco nemmeno a parlare di tua moglie, Gideon. Sono sconvolta... No. Sono furiosa che tu ti sia sposato senza la tua famiglia, i tuoi amici. Non ti dice niente, questo? Il fatto che tu abbia dovuto compiere un passo tanto importante senza la benedizione delle persone che ti vogliono bene?» «Stai dicendo che nessuno
avrebbe approvato?» Incrociai le braccia. «Questo non è affatto vero, ma se anche lo fosse, scegliere la persona con cui passare tutta la vita non è una decisione che si prende a maggioranza. Eva e io ci siamo sposati in privato perché era una cosa intima e personale e non aveva bisogno di essere condivisa.» «Però hai condiviso la notizia con il mondo, prima di condividerla con la tua famiglia! Non posso credere che tu abbia potuto essere così sconsiderato e insensibile. Devi mettere a posto le cose» disse con veemenza. «Devi assumerti la responsabilità del dolore che infliggi
agli altri. Non ti ho cresciuto così. Non riesco a dirti quanto sono delusa.» Colsi un movimento alle sue spalle e vidi Eva sulla soglia del bagno, l’espressione irrigidita per la rabbia, le mani strette a pugno lungo i fianchi. Le rivolsi un secco cenno della testa, socchiudendo gli occhi a mo’ di avvertimento. Aveva combattuto questa battaglia per me a sufficienza. Adesso toccava a me, ed ero finalmente pronto. Premetti il comando che oscurava la parete di vetro. «Non darmi lezioni sull’infliggere dolore o sentirsi delusi, mamma.»
Mia madre tirò indietro la testa di scatto come se l’avessi schiaffeggiata. «Non usare quel tono con me.» «Sapevi cosa mi era stato fatto, e non hai mosso un dito.» «Diamoci un taglio con questa faccenda.» Fendette l’aria con la mano. «E quando mai ne abbiamo parlato?» ribattei secco. «Io te l’ho detto, ma tu non sei mai stata disposta a discuterne.» «Non darmi la colpa!» «Sono stato violentato.» Le parole suonarono come una sferzata e aleggiarono nella stanza,
crude e taglienti come una lama. Mia madre sussultò, facendo un passo indietro. Eva cercò a tentoni lo stipite e ci si aggrappò. Feci un respiro profondo per recuperare un minimo di controllo, traendo forza dalla presenza di mia moglie. «Sono stato violentato» ripetei, con voce più calma, più ferma. «Per quasi un anno, tutte le settimane. Un uomo che avevi invitato a casa mi palpeggiava, mi sodomizzava. Di continuo.» «No.» Respirava affannosamente, il petto che si alzava e si abbassava. «Non dire
queste cose orrende, terribili.» «È successo. Ripetutamente. Mentre tu eri in un’altra stanza. Quando lui arrivava, quasi ansimava per l’eccitazione. Mi guardava con quella luce malata negli occhi. E tu non ti sei accorta di niente. Ti sei rifiutata di vedere.» «È una bugia!» Bruciavo di rabbia, troppo agitato per rimanere fermo. Ma rimasi sulle mie posizioni, spostando lo sguardo su Eva. Questa volta, fu lei ad annuire. «Qual è la bugia, mamma? Che sono stato violentato? O che tu hai scelto di ignorarlo?»
«Smettila!» scattò, raddrizzando le spalle. «Ti ho fatto visitare. Ho cercato di trovare la prova...» «Perché la mia parola non era sufficiente?» «Eri un bambino disturbato! Mentivi su tutto, su qualunque cosa, anche quelle più ovvie.» «Così avevo un minimo di controllo! Non avevo potere su nessun aspetto della mia vita... a parte le parole che mi uscivano di bocca.» «E io avrei dovuto divinare qual era la verità e quali erano le menzogne?» Si protese verso di me, attaccando. «Sei stato visitato da
due medici. Non ne avresti lasciato avvicinare un altro...» «Per ritrovarmi a essere palpato da un altro uomo? Riesci lontanamente a capire quanto ero terrorizzato a quel pensiero?» «Hai lasciato che il dottor Lucas...» «Ah, sì. Il dottor Lucas.» Sorrisi freddamente. «Da chi hai avuto quel nome, mamma? Dall’uomo che mi molestava? O dal tuo medico, che supervisionava la sua dissertazione? Comunque sia, ti ha indirizzata dal cognato, sapendo che il rispettato dottor Lucas avrebbe detto qualunque cosa pur
di proteggere la reputazione della sua famiglia.» Mia madre arretrò, inciampando e finendo contro la sedia che aveva alle spalle. «Mi ha sedato» continuai, il ricordo ancora vivo. La puntura dell’ago. Il tavolo gelido. La vergogna mentre tastava una parte del mio corpo che mi faceva fremere di repulsione. «Mi ha visitato. Poi ha mentito.» «Come avrei potuto saperlo?» sussurrò lei, gli occhi ancora più blu nel volto pallido. «Lo sapevi» dissi in tono piatto. «Ricordo la tua espressione dopo,
quando mi hai detto che Hugh non sarebbe tornato e di non parlarne mai più. Non riuscivi quasi a guardarmi, ma quando l’hai fatto, te l’ho visto negli occhi.» Mi girai verso Eva. Stava piangendo, con le braccia strette intorno al corpo. Sentii bruciarmi gli occhi, ma era lei che piangeva per me. «Pensavi che Chris ti avrebbe lasciata?» chiesi a voce alta. «Pensavi che fosse troppo da sopportare per la tua nuova famiglia? Per anni ho creduto che glielo avessi detto – ti avevo sentita parlargli del dottor Lucas –, ma
Chris non lo sapeva. Dimmi per quale ragione una moglie dovrebbe nascondere al marito una cosa del genere.» Mia madre rimase in silenzio, continuando a scuotere la testa, come se quel diniego muto fosse la risposta a tutto. Diedi un pugno alla scrivania, facendo tremare quello che ci stava sopra. «Di’ qualcosa!» «Ti sbagli. Completamente. È tutto contorto per te. Tu non...» Scosse di nuovo la testa. «Non è andata così. Sei confuso...» Eva fissava mia madre, visibilmente furibonda, la bocca e la
mascella contratte per il disgusto. Mi venne in mente che avrei potuto far portare a lei quel peso. Dovevo lasciarlo andare, non mi serviva più; non lo volevo. Avevo fatto lo stesso per lei, anche se in un modo diverso, con Nathan. L’azione che avevo intrapreso aveva scacciato le ombre dai suoi occhi. Adesso vivevano in me, com’era giusto; l’avevano tormentata a sufficienza. Inspirai a fondo, lentamente. Quando buttai fuori l’aria, espulsi anche tutta la rabbia e il disgusto. Rimasi immobile per un lungo momento, assorbendo una
sensazione di leggerezza che mi dava le vertigini. Provai pena, un’angoscia lancinante. E rassegnazione. Un’accettazione chiarificatrice, orribile. Ma era molto meno opprimente della disperata speranza che avevo nutrito: che un giorno mia madre mi avrebbe amato abbastanza da accettare la verità. Quella speranza era morta. Mi schiarii la voce. «Finiamola. Non andrò da Corinne. E non mi scuserò per aver detto la verità. Ne ho abbastanza.» Mia madre rimase immobile per un lungo momento.
Poi mi voltò le spalle senza una parola e si avviò alla porta. Un istante dopo se n’era andata, perduta dall’altra parte del vetro oscurato. Guardai Eva. Si mosse e io feci altrettanto, girando intorno alla scrivania per incontrarla a metà strada. Mi strinse così forte che facevo fatica a respirare. Ma non avevo bisogno dell’aria. Avevo lei.
13
Mentre sistemavo il papillon di Gideon gli domandai: «Sei sicuro di stare bene?». Mi prese i polsi e li strinse in una presa sicura e forte. Quella stretta così autorevole e familiare scatenò un riflesso condizionato: mi atterrì, e aumentò la mia consapevolezza di lui, di me, di noi due. Il mio respiro accelerò.
«Smettila di chiedermelo» mi disse con un tono tenero. «Sto bene.» «Quando una donna dice che sta bene, intende esattamente il contrario.» «Non sono una donna.» «Ma no?» Un sorriso appena accennato gli increspò le labbra. «E quando un uomo dice che sta bene, intende esattamente quello.» Mi diede un bacio veloce a fior di labbra sulla fronte e mi lasciò andare. Poi si avvicinò al cassetto che conteneva i gemelli, e studiò attentamente quali indossare.
Gideon era alto e snello nei suoi pantaloni su misura e nella camicia bianca formale. Aveva già indossato i calzini neri, ma le scarpe e la giacca stavano ancora aspettando il loro turno di adornare il suo bel corpo. C’era qualcosa, nel vederlo ancora semisvestito, che mi eccitava tremendamente. Era un tipo di intimità riservato a me sola, e a me piaceva da morire. Mi ricordai ciò che aveva detto il dottor Petersen. Forse avrei dovuto trascorrere qualche notte lontana da mio marito; non per sempre, ma per un certo periodo. Eppure potevo
vivere questi altri pezzi preziosi della sua vita, che mi sostenevano. «Parli degli uomini in generale. Ma il mio uomo?» ribattei, sforzandomi di non farmi distrarre dal suo aspetto davvero sexy. Il problema era che lo sentivo lontano. Non c’era traccia dell’intensa concentrazione su di me a cui ero abituata. Parte della sua mente era altrove e temevo che fosse un luogo oscuro, dove sarebbe stato meglio che non fosse da solo. «Tu sei l’unico uomo di cui m’importa.» «Angelo, da mesi mi dicevi che dovevo chiarire le cose con mia
madre, e l’ho fatto. Ora è tutto finito, ci siamo lasciati ogni cosa alle spalle.» «Come ti senti, però? Ci stai sicuramente male, Gideon. Ti prego, non nascondermelo, se è così.» Tamburellò le dita sulla cassettiera con lo sguardo ancora fisso su quegli stupidi gemelli. «Ci sto male, okay? Ma potevo prevederlo, ecco perché ho aspettato così tanto. Però alla fine è meglio così. Mi sento... Al diavolo, ora è tutto sistemato.» Tacqui. Volevo che mi guardasse quando diceva quel tipo di cose,
quindi slacciai la vestaglia e mi lasciai scivolare la seta giù dalle spalle. Andai ad appenderla alla porta della cabina armadio, rischiando di inciampare in Lucky, che dormiva in mezzo alla stanza. Mi allungai per raggiungere il gancio, offrendo a Gideon uno splendido panorama del fondoschiena che tanto gli piaceva. Mio marito, proprio come mi aspettavo da lui, mi aveva regalato un vestito nuovo per l’occasione, un meraviglioso abito da sera color grigio tortora con un corpetto ornato di perline e una gonna a balze leggere e trasparenti che
seguiva ogni mio movimento. Per via della scollatura abissale che, lo sapevo per esperienza, avrebbe riportato a galla i suoi istinti più primitivi, avevo scelto un reggiseno che mi valorizzasse al massimo il seno. Con il resto dell’intimo coordinato, il trucco elegante e il rossetto, sembravo una escort d’alto bordo. Quando mi girai di nuovo verso di lui, mio marito era esattamente come lo volevo: impietrito e con gli occhi fissi su di me. «Devi promettermi una cosa, asso.» Mi squadrò dall’alto in basso con
uno sguardo rovente. «Adesso come adesso, posso prometterti qualunque cosa.» «Solo adesso?» gli dissi facendo il broncio. Mormorò qualcosa e si avvicinò, prendendomi il viso tra le mani: finalmente era vicino a me, completamente. «No, anche dopo, e dopo ancora» disse accarezzandomi con lo sguardo. «Dimmi che cosa vuoi, angelo mio.» Gli cinsi i fianchi, continuando a guardarlo negli occhi. «Voglio te. Voglio solo te: felice, e tutto per me, e pazzamente innamorato.» L’arco elegante delle sue
sopracciglia si alzò appena, come se il fatto di essere felice gli sembrasse improbabile. «Sei sempre tanto triste. Mi fa male vederti così.» Fece un lieve sospiro e vidi che la sua tensione si allentava. «Non so perché, ma non ero preparato: non è in grado di accettare ciò che è successo, e se non riesce ad accettarlo per salvare il suo matrimonio, di sicuro non lo farà per far contento me.» «È a lei che manca qualcosa, Gideon, e qualcosa di essenziale: non azzardarti a pensare che abbia a che vedere con te.»
Fece un sorriso sarcastico. «Tra lei e mio padre... non è proprio il massimo come patrimonio genetico, vero?» Gli infilai le dita nella cintura dei pantaloni, attirandolo a me. «Senti, asso, i tuoi genitori non sono in grado di resistere alla pressione e reagiscono chiudendosi nell’egoismo: non riescono ad affrontare la realtà. Però, sai che c’è? Tu non hai ereditato i loro difetti, nemmeno uno.» «Eva...» «Tu, Gideon Geoffrey Cross, sei la quintessenza dei loro lati migliori. Individualmente non saranno un
granché, ma messi insieme... Sai, hanno fatto proprio un bel lavoro con te.» Scosse la testa e disse: «Dài, non prendermi in giro, Eva». «Guarda che non sto scherzando. Tu non hai nessun problema con la realtà: la affronti a testa alta e la metti al tappeto.» Trattenne una risata. «Hai tutto il diritto di sentirti arrabbiato e offeso, Gideon. Anch’io sono arrabbiata, perché non ti meritano. Ciò che provi non ti deve far sentire sminuito, ma ti rende più degno. Non ti avrei sposato se tu non fossi stato un uomo come si
deve, se non provassi rispetto e ammirazione. Tu mi sei d’ispirazione, non te ne rendi conto?» Mi accarezzò i capelli fino alla nuca. «Angelo mio.» Le nostre fronti si toccarono. Gli feci scorrere una mano sulla schiena, sentendo i muscoli caldi e tonici sotto la camicia. «Puoi starci male, se proprio devi, ma non chiuderti in te stesso con i tuoi sensi di colpa: non te lo permetto.» «Lo so» disse. Mi spinse indietro la testa e mi baciò la punta del naso. «Grazie.» «Non mi devi ringraziare di
nulla.» «Avevi ragione: dovevo sistemare le cose e affrontarla. Se non fosse stato per te non l’avrei mai fatto.» «Non puoi saperlo.» Gideon mi guardò con gli occhi talmente colmi d’amore che mi mancò il fiato. «E invece lo so.» Il suo smartphone segnalò l’arrivo di un messaggio. Gideon mi diede un bacio sulla fronte, poi prese il telefono e lesse l’SMS. «Raúl e Cary stanno arrivando.» «Sarà meglio che mi vesta, allora. Ho bisogno di te per allacciare il vestito.»
«È sempre un piacere.» Tolsi l’abito dalla stampella, me lo misi e feci scivolare le braccia nelle maniche riccamente decorate. Mio marito ebbe facilmente ragione dei gancetti in fondo alla schiena. Mi guardai nello specchio a figura intera, mordendomi il labbro inferiore mentre il corpetto si stringeva e si adattava al corpo: la scollatura, profondissima, arrivava a metà tra il seno e l’ombelico. Era un capo sfacciatamente sexy, uno di quelli che non lasciano nulla all’immaginazione e che le donne con un seno più piccolo potevano permettersi senza problemi. Su di
me era azzardato, anche se, per il resto, era casto e copriva tutto tranne la schiena e le braccia. Avevo deciso di non indossare gioielli, proprio per attenuare il più possibile l’effetto. Era comunque uno splendido abito e noi eravamo una coppia giovane, per cui potevamo permettercelo. Gli occhi di Gideon incrociarono i miei nello specchio. Gli lanciai il mio sguardo più innocente e aspettai che mi dicesse quanto mi era concesso mettere in mostra. La tempesta iniziò a profilarsi all’orizzonte con una linea sottile tra le sopracciglia, che si trasformò
rapidamente in un broncio in piena regola. Gideon diede uno strattone ai lacci sulla schiena. «C’è qualche problema?» chiesi con tono dolce. Aggrottò ancora di più le sopracciglia. Mi infilò le dita di entrambe le mani nella scollatura, e cerco di scostarmi i seni per nascondere le curve sotto il tessuto spesso. Mormorando, mi appoggiai a lui. Prendendomi per le spalle, mi raddrizzò, per vedere come mi stava l’abito. «Non assomiglia affatto a quello nella foto.» Fingendo di non capire, gli dissi:
«Non ho ancora messo le scarpe: con i tacchi non toccherà terra». «Non sono preoccupato per il fondo» ribatté in tono secco. «Dobbiamo fare qualcosa per la parte in mezzo.» «Perché, scusa?» «Sai benissimo perché.» Si diresse verso la cassettiera e aprì con malagrazia un cassetto. Un attimo dopo, ritornò da me e mi mise in mano un fazzoletto bianco. «Copriti con questo.» Risi. «Stai scherzando, spero.» Invece era serissimo. Si piazzò dietro di me, e mi sistemò il fazzoletto piegato nel corpetto, in
modo che coprisse bene la pelle nuda. «No» gli dissi seccata. «Così è ridicolo.» Quando ritirò le mani, gli concessi un attimo per rendersi conto di quant’era ridicola quella mossa. «Scordatelo, mi metterò qualcos’altro.» «Sì» annuì, infilandosi le mani in tasca. Tolsi il fazzoletto. «Potresti metterci questo» mormorò lui. Le sue mani, ora sopra la mia testa, rilucevano, mentre mi metteva un collier di diamanti. Era
largo almeno sei centimetri, accarezzava la base del collo e scintillava come se brillasse di luce propria. «Gideon» dissi toccando il gioiello con le dita che tremavano, mentre lui lo allacciava. «È... una meraviglia.» Mi abbracciò e mi sfiorò una tempia con le labbra. «Tu sei una meraviglia. La collana è bella e basta.» Mi girai, ancora abbracciata a lui, e lo guardai: «Grazie». Lo scintillio del suo sguardo mi diede un brivido di piacere. Sorridendogli a mia volta, dissi:
«Pensavo che fossi serio quando parlavi della scollatura». «Angelo, prendo le tue tette molto sul serio. Questa sera, quando qualcuno inevitabilmente le adocchierà, capirà che costi troppo e non può permettersi di averti.» Gli diedi un buffetto sulla spalla. «Smettila.» Mi prese per la mano e mi attirò verso la cassettiera. Tirò fuori dal cassetto aperto un bracciale di diamanti. Lo guardai, stupefatta, mettermelo al polso. Poi aprì una scatola foderata di velluto e mi mostrò gli orecchini a goccia, sempre di diamanti, al suo interno.
«Questi mettiteli da sola.» Li guardai a bocca aperta, poi guardai lui. Gideon si limitò a sorridere. «Tu hai un valore inestimabile. Il collier da solo non bastava a far passare questo messaggio.» Ero ammutolita dallo stupore. Il mio silenzio trasformò il suo sorriso in un’espressione maliziosa. «Quando torniamo a casa, voglio scoparti. Tu nuda, con solo i diamanti addosso.» Quella scena così erotica, che per ora vedevo solo nella mia immaginazione, mi diede un fremito.
Prendendomi per le spalle, mi girò per darmi una pacca sul sedere. «Sei splendida, sotto ogni punto di vista. Ora smettila di distrarmi e lascia che mi prepari.» Presi le mie scarpe eleganti dalla scarpiera e uscii dalla cabina armadio, abbagliata più da mio marito che dai gioielli che mi aveva regalato. «Hai un aspetto da un milione di dollari!» Cary si sciolse dal mio abbraccio e fece un passo indietro per guardarmi meglio. «O, meglio, il milione di dollari ce l’hai addosso. Ero così accecato da tutto questo
splendore che quasi non notavo tutto quel ben di Dio in bella mostra.» «Non dirlo a Gideon» dissi ironicamente, facendo una giravolta per mostrare la gonna del vestito che ondeggiava leggera sulle mie gambe. «Tu, piuttosto, guarda quanto sei fico.» Mi fece il suo famoso sorriso da cattivo ragazzo. «Lo so.» Mi strappò una risata. Trovavo che la maggior parte degli uomini stessero bene in smoking, ma Cary era strepitoso. Era davvero in tiro, bello come Rock Hudson o Cary Grant. La combinazione di fascino
malizioso e lineamenti perfetti lo rendeva irresistibile. Aveva messo su qualche chilo, non tanti da guadagnare una taglia, ma abbastanza da addolcire il volto. Era il ritratto sia della bellezza sia della salute, due cose che, insieme, erano abbastanza rare. Gideon, invece, assomigliava più a James Bond. Era sexy in modo letale, con una raffinata sfumatura di pericolo. Entrò in salotto e io non potei fare a meno di guardarlo impotente, affascinata dall’eleganza aggraziata del suo corpo perfetto, da quell’aria di uomo sicuro di sé che suggeriva quant’era bravo a
letto. “Mio. Tutto mio.” «Metto Lucky a cuccia» disse, avvicinandosi. «Siamo pronti?» Cary annuì con decisione. «Andiamo.» Scendemmo con l’ascensore in garage, dove Angus ci aspettava con la limousine. Salii per prima, e scelsi il divanetto lungo: Cary si sarebbe seduto vicino a me, mentre Gideon si sarebbe sistemato al solito posto dietro. Negli ultimi tempi avevo passato pochissimo tempo con Cary. La settimana della moda l’aveva tenuto occupatissimo e, visto che
passavo tutte le notti nell’attico, non avevamo nemmeno la possibilità di fare due chiacchiere veloci alla sera o al mattino, prendendo il caffè. Cary guardò Gideon e indicò il frigobar. «Posso?» «Serviti pure.» «Qualcuno di voi vuole qualcosa?» Rimasi per un attimo a pensare: «Kingsman e mirtillo, per favore». Gideon mi lanciò uno sguardo d’intesa. «Anche per me.» Cary versò e servì i drink, poi si rimise a sedere con una birra in mano e ne bevve un lungo sorso
direttamente dalla bottiglia. «Allora» iniziò. «La settimana prossima andrò a Londra per un servizio.» «Davvero?» dissi protendendomi in avanti. «Ma è meraviglioso, Cary. È il tuo primo lavoro internazionale.» «Sì» disse sorridendo e poi mi guardò. «Sono gasatissimo.» «Wow, ti è successo tutto nel giro di così poco tempo.» Pochi mesi prima, infatti, vivevamo ancora a San Diego. «Farai il botto.» Sorrisi. Ero veramente e sinceramente felice per il mio
migliore amico, ma al tempo stesso immaginai che, in un futuro non troppo lontano, entrambi saremmo stati così presi da mille occupazioni e impegnati a viaggiare che ci saremmo visti pochissimo. A questo pensiero, sentii le lacrime bruciarmi negli occhi. Stavamo chiudendo un capitolo delle nostre vite, e la cosa mi intristiva un po’, anche se sapevo bene che per entrambi il meglio doveva ancora venire. Cary alzò la bottiglia, in un brindisi silenzioso. «Ci conto.» «Come sta Tatiana?» Fece un sorriso tirato, e il suo sguardo si incupì. «Dice che esce
con uno. Quando vede qualcosa che le piace, non fa tante storie e se lo prende, ha sempre fatto così.» «Ma a te sta bene?» «No» rispose lui, iniziando a staccare l’etichetta dalla bottiglia. «Qualcun altro sparge il suo seme dove sta mio figlio» aggiunse, guardando Gideon. «Riesci a immaginartelo?» «Sarà meglio che nessuno mi faccia immaginare una scena del genere» rispose lui, con quel tono inespressivo a metà tra il minaccioso e l’impaurito. «Non ha senso, vero? Ma non posso impedirglielo, e nemmeno
posso rimettermi con lei, quindi... sarà come sarà.» «Mi dispiace.» Gli presi la mano e gliela strinsi. «So che è difficile, mi dispiace sul serio.» «Cerchiamo di comportarci in modo civile» disse, stringendosi nelle spalle. «Quando fa sesso regolarmente, riesce a essere un po’ meno stronza.» «Quindi vi parlate molto.» «La chiamo ogni giorno, per controllare che abbia tutto ciò di cui ha bisogno. Le ho detto che ci sarei stato sempre, tranne che per scoparla, ovviamente.» Fece un sospiro. «Ma è triste: da quando
non facciamo sesso, non abbiamo proprio nulla da dirci, allora ci mettiamo a parlare di lavoro. Se non altro, abbiamo quello in comune.» «Le hai detto di Londra?» «Ma figuriamoci!» esclamò Cary stringendomi la mano. «Prima dovevo dirlo alla mia migliore amica. Glielo dirò domani.» Non sapevo se chiederglielo, ma alla fine non potei resistere. «E Trey? Novità?» «No, non direi. Gli mando messaggi e foto, ogni tanto. Cose stupide, come quelle che mando a te.»
«Niente foto del cazzo?» gli dissi. «Oh, no. Sto cercando un rapporto autentico con lui. Pensa che io sia troppo fissato con il sesso, cosa che invece, quando è a letto con me, non gli passa nemmeno per la testa, ma vabbè. Gli mando messaggi ogni tanto, e lui risponde, ma nulla più.» Feci una smorfia di disappunto. Guardai Gideon, e vidi che stava scrivendo qualcosa sullo smartphone. Cary prese un’altra birra e mandò giù una lunga sorsata. «Non posso dire che sia una relazione, e nemmeno un’amicizia, ora come
ora. Per quanto ne so, potrebbe anche uscire con qualcuno, e io sarei un intruso e basta.» «Be’, se ti può consolare, non sembra che il celibato ti abbia fatto male.» Sbuffò. «Perché ho messo su qualche chilo? È normale, no? Mangi perché ti viene voglia delle endorfine che non riesci a ottenere con gli orgasmi, e fai meno attività fisica, perché non fai ginnastica da materasso.» «Dài, Cary!» gli dissi ridendo. «Guardati, tesoro. Sei scattante e tonica, grazie al nostro amico Cross il Maratoneta.»
Gideon alzò lo sguardo dal telefono: «Come hai detto, scusa?». «Hai sentito bene, amico» bofonchiò Cary, facendomi l’occhiolino. «Ho proprio detto così.» Dopo avere atteso che una fila di limousine facesse scendere i passeggeri, scendemmo anche noi sul tappeto rosso steso davanti a un palazzo antico con la facciata di mattoni, sede di un club esclusivo. C’erano paparazzi ovunque, fitti come gli alberi in un bosco, lungo i cordoni di velluto che li tenevano lontani dal passaggio centrale.
Mi protesi per vedere meglio attraverso le porte a vetri dell’atrio e vidi altri fotografi sul lato destro dell’ingresso, mentre la parete sinistra era coperta di tabelloni pubblicitari contro i quali sarebbero state scattate le fotografie e i servizi sponsorizzati. Angus aprì la portiera e io riuscii a cogliere l’attimo di attesa dei paparazzi che aspettavano di vedere chi sarebbe uscito dalla macchina. Quando mio marito uscì, si scatenò una tempesta di flash, con scatti in rapida e inarrestabile successione. «Mr Cross! Gideon! Guardi da
questa parte!» Lui mi porse la mano, con i rubini della fede che scintillavano. Tenendo sollevata la gonna del vestito con una mano, scesi e misi l’altra mano in quella di Gideon. Appena uscita dalla limousine, rimasi accecata, ma riuscii a tenere gli occhi aperti nonostante i flash che mi ballavano davanti agli occhi, con un sorriso di circostanza stampato sul viso. Mi raddrizzai, sostenuta dalla mano di Gideon appoggiata alla base della mia schiena, e si scatenò il caos, che, se possibile, peggiorò quando apparve Cary. Le urla
diventarono assordanti. Vidi Raúl che sorvegliava la folla con occhio attento, vicino all’ingresso. Alzò il braccio e disse qualcosa al microfono da polso, per coordinarsi con qualcuno dei suoi. Quando mi guardò, il mio sorriso diventò autentico, e lui lo contraccambiò con un rapido cenno del capo. All’interno fummo accolti da due organizzatori dell’evento, che ci fecero sbrigare rapidamente la formalità delle foto di rito e poi ci accompagnarono verso l’ascensore diretto al piano della sala da ballo. Uscimmo in un enorme ambiente in cui si era raccolta tutta la New
York che contava, una folla patinata di uomini potenti e di donne dall’aspetto irreprensibile, resa ancor più splendida dalla luce soffusa dei lampadari e dalla profusione di candele. Le enormi composizioni floreali al centro dei tavoli profumavano in modo quasi eccessivo e il compito di rallegrare l’atmosfera spettava a un’elegante orchestra che suonava musica lounge in sottofondo al brusio delle conversazioni. Gideon mi accompagnò attraverso i gruppetti radunati intorno ai tavoli, e fummo fermati da diverse persone che ci
salutavano e ci facevano gli auguri. Mio marito era entrato, in modo del tutto naturale, nei panni del personaggio pubblico che era: splendido e affascinante, perfettamente a proprio agio, autorevole senza bisogno di dover parlare troppo, freddamente distaccato. Io, invece, ero piuttosto rigida e a disagio, ma speravo che il sorriso di circostanza nascondesse il mio nervosismo. Gideon e io avevamo brutti precedenti a eventi del genere: finivamo sempre per litigare e andarcene ognuno per la propria strada. Adesso le cose
erano diverse, eppure... Mi fece scivolare una mano su per la schiena nuda e mi massaggiò la nuca, sciogliendo con delicatezza la tensione. Continuava a parlare di fluttuazioni del mercato con i due uomini che ci avevano fermato, ma io percepivo che era concentrato su di me. Rimasi alla sua destra, mentre lui si spostava appena dietro di me, in modo da sfiorarmi con una parte del corpo. Cary mi diede un colpetto sulla spalla e mi passò un calice di champagne ghiacciato. «Ci sono Monica e Stanton. Vado a salutarli.» Lo seguii con lo sguardo mentre
raggiungeva mia madre, che stava in piedi accanto a suo marito ed esibiva un sorriso smagliante. Erano impegnati a parlare con un’altra coppia. Stanton indossava uno smoking che gli donava molto, mentre mia madre brillava di un bagliore opalescente in un vestito di seta color bianco avorio. «Eva!» Mi girai sentendo la voce di Ireland, e sgranai gli occhi quando la vidi al tavolo più vicino. Per un attimo il mio cervello fu impegnato a registrare la sua presenza. Era alta e slanciata, con i lunghi capelli neri sapientemente acconciati in
una pettinatura elegante. Lo spacco laterale della raffinata gonna di velluto nero metteva in mostra le sue lunghissime gambe, mentre il corpetto monospalla conteneva seni della misura perfetta per il suo corpo magro. Ireland Vidal era giovanissima e meravigliosamente bella, e gli occhi dalle ciglia folte erano dello stesso incredibile azzurro di quelli di sua madre e di Gideon. Aveva solo diciassette anni, e sarebbe diventata una donna mozzafiato. Cary non era l’unico che avrebbe fatto il botto. Venne verso di me e mi
abbracciò forte. «Siamo sorelle, adesso!» Sorrisi e contraccambiai l’abbraccio, facendo attenzione a non versarle addosso lo champagne. Lanciai un’occhiata a Chris, che era in piedi dietro di lei, e lui mi sorrise, poi tornò a posare lo sguardo sulla figlia, con un misto di tenerezza e orgoglio: pensai a quanto sarebbe stata dura per i ragazzi che avessero osato mettere gli occhi su Ireland. Con Chris, Christopher e Gideon a tenerla d’occhio, avrebbero dovuto vedersela con un terzetto davvero formidabile.
Ireland si sciolse dall’abbraccio per guardarmi meglio. «Wow, che bel collier! E che tette. Non sai quanto ti invidio.» Risi. «Sei perfetta così come sei, la più bella della sala.» «Non credo, Comunque, grazie per il complimento.» Il suo viso si illuminò, quando Gideon si sfilò da una conversazione per voltarsi verso di lei. «Ciao, fratellone.» Fu immediatamente nelle sue braccia, e lo strinse forte come aveva fatto con me. Lui rimase impietrito per un attimo, poi contraccambiò l’abbraccio, e i suoi lineamenti si addolcirono in un
modo che mi fece quasi mancare il fiato. Avevo parlato con Ireland brevemente, e solo al telefono, dopo l’intervista di Gideon. Le avevo chiesto scusa per avere tenuto segreto il nostro matrimonio e le avevo spiegato perché avevamo agito così. Volevo creare un legame più saldo con lei, ma ero un po’ trattenuta, perché temevo di aprirmi troppo. Sarebbe stato molto semplice fare da ponte tra lei e Gideon, ma non volevo che il loro legame fosse impostato così. Doveva essere creato da loro e indipendente da qualsiasi
mediazione. Di lì a poco mia cognata avrebbe iniziato a frequentare la Columbia University, la stessa università del fratello, e così sarebbe stata più vicina a noi e saremmo riuscite a vederci più spesso. Fino ad allora, avrei continuato a incoraggiare Gideon a coltivare il loro rapporto. «Chris.» Mi avvicinai e lo abbracciai, felice dell’entusiasmo con cui mi ricambiò. Si era fatto bello per l’occasione: aveva i capelli tagliati di fresco e le guance perfettamente rasate. Christopher Vidal senior era un uomo dal fascino discreto e dallo
sguardo dolce: la sua voce e il modo in cui guardava la gente irradiavano una gentilezza innata. Mi aveva fatto quell’impressione la prima volta in cui l’avevo visto e continuava a confermarla. «Gideon. Eva» disse Magdalene Perez unendosi al nostro gruppetto. Era bella e affascinante nel suo vestito verde smeraldo, e teneva a braccetto il fidanzato. Fui lieta di notare che aveva dimenticato l’interesse non corrisposto per Gideon, che aveva causato non pochi problemi sia a Gideon sia a me quando la nostra relazione era appena iniziata. In
quell’occasione si era comportata davvero male, con un rancore alimentato dalle manipolazioni del fratello di Gideon. Adesso che era felice con il fidanzato artista era serena e amabile e stava diventando lentamente una delle nostre frequentazioni più assidue. Li salutai entrambi calorosamente, strinsi la mano a Gage Flynn e Gideon baciò Magdalene su una guancia. Non conoscevo ancora bene Gage, ma si vedeva che era molto innamorato di Magdalene. Sapevo che mio marito avrebbe fatto dei controlli su di lui, per assicurarsi che fosse un buon
fidanzato per la donna che era un’amica di lunga data della sua famiglia. Ci stavano facendo le congratulazioni, quando mia madre e Stanton si unirono al gruppo, seguiti da Martin e Lacey, che non avevamo più visto dal weekend a Westport. Notai con un sorriso che Cary e Ireland stavano ridendo per qualcosa che si erano detti. «Che bella ragazza» disse mia madre, guardando la sorella di Gideon e sorseggiando lo champagne. «Vero?» «E anche Cary sta benissimo.»
«Gliel’ho detto anch’io.» Mi guardò con un sorriso. «Gli abbiamo detto che può tenere l’appartamento, se vuole, oppure lo possiamo aiutare a trovare qualcosa di più piccolo.» «Oh.» Guardai il mio amico, e lo vidi annuire a qualcosa che Chris gli aveva detto. «E lui che cos’ha risposto?» «Che tu gli hai offerto un appartamento indipendente attiguo all’attico di Gideon.» Mi venne accanto. «Prenderete da soli la decisione migliore per tutti voi, ma ho comunque voluto dargli la possibilità di rimanere dov’è stato
finora. È sempre un bene disporre di diverse possibilità.» Sospirai, e annuii. Mi prese la mano. «Ora tu e Gideon gestite la vostra immagine pubblica come meglio credete, ma dovete tenere in considerazione quel che dicono quei terribili blog di gossip. Tutti scrivono che tu e Cary andate a letto insieme.» All’improvviso la frenesia che si era scatenata all’ingresso acquistò un senso: eravamo arrivati tutti e tre insieme. «Gideon nega di averti mai tradita» continuò lei a bassa voce «ma si sa che ha un appetito
sessuale piuttosto, come dire, insolito. Ti immagini che razza di voci comincerebbero a girare se voi tre viveste insieme?» «Oddio.» Effettivamente, potevo immaginarmelo. Il mondo aveva visto con dovizia di particolari che a mio marito non dispiacevano i ménage à trois. Non con un altro uomo in mezzo, ma comunque... Lui si era lasciato alle spalle quel periodo, ma loro non lo sapevano, e non gli avrebbero creduto comunque, perché i dettagli piccanti erano troppo ghiotti per lasciarseli sfuggire. «Prima di dire che non te ne
importa nulla, tesoro, pensa che a molte persone invece importa. Se qualcuno che vuole mettersi in affari con Gideon rifiutasse di farlo perché pensa che è un depravato, gli costerebbe una fortuna.» Ma davvero... Mi morsi la lingua per evitare una battuta sarcastica sulla preoccupazione di mia madre per i soldi, che stava alla base di tutto il discorso. In un modo o nell’altro, andava sempre a parare lì. «Capisco» mormorai. Man mano che si avvicinava il momento della cena, tutti iniziarono a cercare il tavolo a cui erano stati assegnati. Ovviamente Gideon e io
eravamo nel tavolo di fronte a tutti, perché lui avrebbe dovuto parlare. Ireland e Chris erano con noi, e anche Cary. Mia madre, Stanton, Martin e Lacey erano al tavolo alla nostra destra, mentre Magdalene e Gage erano più lontani. Gideon scostò la mia sedia e io feci per sedermi, ma mi fermai, sorpresa dalla coppia che vidi seduta qualche tavolo più in là. Mi raddrizzai e guardai Gideon. «Hai visto? Ci sono i Lucas.» Lui alzò la testa, e iniziò a cercarli con lo sguardo. Capii che li aveva individuati perché contrasse la mascella. «Eh, già. Siediti,
angelo.» Mi sedetti e lui spinse la mia sedia vicino al tavolo, per poi sistemarsi accanto a me. Tirò fuori lo smartphone e scrisse un messaggio di poche parole. Mi chinai verso di lui e gli sussurrai: «Non li avevo mai visti insieme». Proprio mentre lui alzava lo sguardo verso di me, un ronzio segnalò l’arrivo della risposta al messaggio. «Non si fanno vedere spesso in giro insieme.» «Stai scrivendo ad Arash?» «No, ad Angus.» «Per via dei Lucas?»
«Che si fottano.» Rimise il telefono nella giacca e si protese verso di me, posando un braccio sullo schienale della mia sedia e l’altro sul tavolo, come per imprigionarmi. Mi accostò le labbra all’orecchio: «La prossima volta che verremo a uno di questi eventi, ti farò mettere una gonna corta, e sotto sarai nuda». Fui contenta che tutti guardassero altrove e non riuscissero a sentirci, e che l’orchestra stesse suonando a un volume leggermente più alto per accompagnare gli ospiti ai loro posti. «Sei un demonio.»
La sua voce si trasformò in un mormorio seducente. «Ti metterò le mani tra le cosce e infilerò le dita nella tua fichetta morbida.» «Gideon!» Scandalizzata, lo guardai negli occhi e vidi il suo sorriso da predatore e lo sguardo lascivo. «Per tutta la cena, angelo» mormorò, strusciandosi contro la mia tempia. «Scoperò con le dita, piano piano, quella tua fichetta stretta e meravigliosa finché non verrai per me una volta, e un’altra, e un’altra ancora...» «Oh, mio Dio.» La sua voce bassa e roca era un concentrato di
sesso e di lussuria. Rabbrividii solo a sentirla, ma la sua fantasia espressa ad alta voce mi aveva fatta cedere. «Sei un invasato!» Mi diede un rapido bacio sulla guancia e si ricompose. «Prima eri tesa come una corda di violino, mentre adesso non lo sei più.» Se fossimo stati da soli, si sarebbe meritato uno schiaffo. Glielo dissi. «Questo è amore» ribatté lui, guardandosi intorno nella sala, dove i camerieri avevano iniziato a girare tra i tavoli con gli antipasti. «Dici?» Concentrò di nuovo l’attenzione
su di me. «Sì, sei pazza di me.» C’era poco da dire. Aveva ragione. Ci avevano appena servito il dessert, una cupola al cioccolato dall’aspetto delizioso, quando una donna con un anonimo vestito blu si avvicinò al nostro tavolo e si chinò tra Gideon e me. «Si inizia tra quindici minuti circa» disse. «Glen parlerà per qualche minuto, poi sarà il suo turno.» Gideon annuì. «Nessun problema. Quando è il momento, sarò pronto.»
La donna sorrise e vidi che era un po’ intimidita dalla vicinanza con mio marito. Doveva avere almeno l’età di sua madre, ma il fascino di certi uomini era apprezzato dalle donne di tutte le età. «Eva» disse Ireland rivolgendosi a me. «Vuoi fare una pausa prima che Gideon parli?» Capii che cosa intendeva. «Certo.» Gideon e Chris si alzarono e tirarono indietro le nostre sedie. Visto che, dopo aver mangiato e bevuto, non avevo più traccia di rossetto, diedi un bacio sulla guancia a mio marito.
«Non vedo l’ora di sentirti parlare» gli dissi, con un sorriso che rivelava la mia impazienza. Scosse la testa. «Dillo pure che è una cosa che ti eccita.» «E tu di’ che mi ami.» «Sì, da impazzire.» Seguii Ireland, zigzagando tra i tavoli. Passammo vicinissime ai Lucas, che ci guardarono. Sembravano a loro agio, e il dottor Terrence teneva un braccio intorno alle spalle di Anne. Lei incrociò il mio sguardo e mi scoccò un sorriso tagliente che mi fece rabbrividire. Allora mi portai una mano alle sopracciglia e le accarezzai con il
dito medio, in un sottile ma inequivocabile “vaffanculo”. Proseguimmo lo slalom in mezzo alla sala, finché Ireland non si fermò all’improvviso davanti a me. Le andai addosso. «Scusami.» Poiché non si muoveva, mi guardai intorno per capire perché ci eravamo fermate. «Che cosa succede?» Si girò verso di me e vidi che aveva le lacrime agli occhi. «C’è Rick» disse con voce tremante. «Chi?» Dovetti fare uno sforzo per ricordare. Lei sembrava così triste e smarrita. All’improvviso, mi venne in mente. «Il tuo fidanzato?»
Ireland guardò di nuovo davanti a sé e io cercai di seguire la direzione del suo sguardo e di individuare... qualcuno tra i tavoli. «Dov’è? Com’è vestito?» «È laggiù.» Fece un cenno di disappunto con il mento, le lacrime che le rigavano le guance. «È quello insieme alla bionda con il vestito rosso.» Dov’era? Individuai qualche possibile candidato, finché non restrinsi il campo alla coppia più giovane. Mi bastò dargli un’occhiata per capire il tipo. Anch’io un tempo perdevo la testa per esemplari del genere: sicuri di sé, esperti a letto,
con la battuta pronta. Mi sentii un po’ a disagio all’idea di aver permesso a tanti tipi così di usarmi. Allora mi incazzai. Rick stava facendo alla ragazza supertruccata al suo fianco un sorriso sexy e impertinente. Di sicuro non erano solo amici, praticamente stavano scopando con lo sguardo. Presi Ireland per il gomito e la costrinsi a proseguire. «Forza, andiamo avanti.» Entrammo nella toilette. Nell’improvviso silenzio, sentii Ireland singhiozzare. La presi da parte, contenta che fossimo sole, e le passai alcuni fazzoletti presi dal
dispenser sul ripiano del lavabo. «Mi ha detto che stasera doveva lavorare» disse lei. «Per questo ho accettato quando papà mi ha chiesto se volevo venire.» «È lui che non vuole parlare di te ai suoi genitori per via del padre di Gideon?» Annuì. «Stasera ci sono anche loro, sono seduti al suo tavolo.» Mi ritornò in mente la conversazione che avevamo avuto durante il lancio del video musicale dei Six-Ninths. I nonni di Rick avevano perso una parte considerevole del loro patrimonio a causa della truffa organizzata da
Geoffrey Cross e secondo i suoi genitori era “ovvio” che Gideon fosse diventato uno degli uomini più ricchi del mondo, anche se era evidente a chiunque che lui aveva costruito il suo impero basandosi solo sul suo duro lavoro e sul suo capitale. D’altro canto forse Rick stava soltanto trovando una scusa per giocare su due fronti. Dopotutto i suoi genitori erano lì e Gideon era la star della serata, il che mi induceva a chiedermi se tutto il risentimento di cui aveva parlato a Ireland fosse una pura invenzione. «Mi aveva detto che si erano
lasciati mesi fa!» disse Ireland piangendo. «Parli della bionda?» Annuì tra i singhiozzi. «Ci siamo visti ieri sera e non mi ha detto che sarebbe uscito né che sarebbe venuto qui.» «E tu gli hai detto che saresti venuta?» «No, non parlo di Gideon. Non con lui, in ogni caso.» Rick era soltanto uno stupido ragazzino che ci provava con tutte le ragazze carine che ci stavano? Oppure si stava lavorando la sorella di Gideon per una sorta di sadica vendetta? In ogni caso, era un
pezzo di merda. «Non piangere per quello stronzo, Ireland» le dissi, e le passai altri fazzoletti. «Guai a te se gli dai questa soddisfazione.» «Voglio andare a casa.» Scossi la testa. «Andartene non ti farà stare meglio. A dire la verità, nulla ti farà stare meglio: starai male per un po’. Ma puoi vendicarti, se vuoi, e questo potrebbe risollevarti l’umore.» Mi guardò, ancora in lacrime. «Che cosa intendi dire?» «Vicino a te è seduto uno dei modelli più sexy di New York. Basta una parola e Cary diventerà il tuo
accompagnatore per stasera: un accompagnatore molto attento e innamoratissimo.» Più ci pensavo, più la cosa mi piaceva. «Potete imbattervi per caso in Rick e salutarlo con un “Ciao, che piacere vederti”. Lui non potrà dire nulla, perché sta con la bionda, e tu pareggerai il conto.» Ireland iniziò a tremare. «Forse dovrei parlargli e basta...» Magdalene entrò e si fermò, cercando di capire la situazione. «Ireland, che cosa ti succede?» Non risposi, perché doveva essere Ireland a parlare, se voleva. Ireland scosse la testa: «Non è
niente, sto bene». «Okay, allora» disse Magdalene. «Non voglio immischiarmi, ma dovreste sapere che non direi mai niente ai tuoi fratelli, se tu non volessi.» Ireland si prese un momento, e poi iniziò a parlare, tra le lacrime. «Sai il tipo con cui esco da qualche mese...? È al tavolo con un’altra, la sua ex.» Avevo il sospetto che Rick, tanto per cominciare, non avesse mai lasciato la bionda e che avesse preso in giro Ireland per tenersela buona. Ma su queste cose ero cinica.
«Oh!» esclamò Magdalene, con un’espressione solidale. «Gli uomini a volte sono proprio stronzi. Guarda, se vuoi andartene senza farti vedere, ti chiamo un taxi.» Aprì la borsetta e prese il telefono. «Lo pago io, che ne dici?» «Riattacca, per favore» intervenni, e le spiegai il mio piano. Magdalene inarcò le sopracciglia. «Meravigliosamente subdolo. Perché una dovrebbe stare lì a rodersi quando può vendicarsi?» «Non lo so...» disse Ireland, guardandosi allo specchio e imprecando. Prese altri fazzoletti e cominciò a sistemarsi il trucco. «Ho
un aspetto davvero orrendo.» «Sei mille volte più bella di quella pezzente là fuori» le dissi. Rise tra le lacrime. «Odio anche la bionda. Che troia!» «Scommetto che ha visto qualcuna delle pubblicità di Cary per la Grey Isles» disse Magdalene. «Io le ho viste eccome.» Quella frase sortì l’effetto sperato. Ireland non era ancora pronta a dimenticare Rick, ma sicuramente si era convinta a farlo ingelosire. Il resto sarebbe venuto con il tempo, o almeno lo speravo. C’erano lezioni che noi donne
dovevamo imparare a nostre spese. Ritornammo al nostro tavolo proprio mentre un uomo che immaginai fosse Glen saliva le scale del palco, e lo attraversava diretto al leggio. Mi inginocchiai vicino a Cary, posandogli una mano sul braccio. Gli spiegai il favore che volevo da lui, e il motivo per cui glielo chiedevo. Lui fece un sorriso sfolgorante. «Ci sto, piccola.» «Sei il migliore, Cary.» «Me lo dicono tutti.» Alzai gli occhi al cielo, mi rialzai e
tornai al mio posto. Gideon mi scostò la sedia per farmi accomodare. Il dessert era ancora nel mio piatto e lo guardai con un certo appetito. «Hanno cercato di portartelo via» mormorò Gideon. «Ma l’ho difeso per te.» «Oh, grazie, piccolo. Tu sì che sai come farmi felice.» Lui mise la mano sulla mia coscia sotto il tavolo e diede una leggera strizzatina. Mentre mangiavo, lo guardai, ammirando la sua aria tranquilla e rilassata mentre entrambi ascoltavamo Glen parlare
dell’importanza del lavoro della sua organizzazione per la città. Ogni volta che pensavo all’idea di parlare in pubblico per conto della Crossroads, mi assaliva il panico, ma alla fine sarei riuscita a sconfiggerlo, e a trovare il modo. Avrei imparato tutto ciò che c’era da imparare per diventare una risorsa sia per mio marito sia per la Cross Industries. Avevamo molto tempo davanti a noi, e Gideon mi amava: tutto il resto si sarebbe sistemato. «È un piacere avere con noi una persona che davvero non ha bisogno di presentazioni...»
Posai la forchetta, raddrizzai la schiena e ascoltai Glen che celebrava i traguardi raggiunti da mio marito e il suo generoso impegno per la causa delle vittime di abusi sessuali. Non mi sfuggì che Chris adesso guardava Gideon sotto una luce nuova: c’erano apprezzamento e orgoglio nel suo sguardo. Lo sguardo che riservava a mio marito non era diverso da quello che prima gli avevo visto riservare a Ireland. Si scatenò un fragoroso applauso, mentre Gideon si alzava con grazia. Mi alzai a mia volta, imitata da Chris, Cary e Ireland, e il
resto degli invitati. Mio marito fu accolto sul palco da una standing ovation. Prima di andare mi lanciò una rapida occhiata e mi accarezzò i capelli. Guardarlo attraversare il palco era una gioia per gli occhi. Camminava con passo tranquillo, senza alcuna fretta, in un modo aggraziato e potente che attirava l’attenzione. Posò sul leggio la targa che gli avevano consegnato: le mani abbronzate facevano un delizioso contrasto con il bianco dei polsini. Poi iniziò a parlare, con la voce baritonale impostata e suadente,
che sembrava accarezzare la platea. La sala era ammutolita, e tutti erano affascinati dal suo aspetto tenebroso e dalla sua consumata abilità di oratore. Tutto finì troppo in fretta. Mi alzai di nuovo in piedi quando Gideon riprese la targa, e applaudii talmente forte che le mani mi facevano male. Lo accompagnarono su un lato del palco, dove ad attenderlo c’erano Glen e un fotografo. Gideon scambiò qualche parola con loro, poi mi guardò e mi invitò a raggiungerlo con un vistoso gesto del braccio. Mi venne incontro e mi prese a
braccetto per aiutarmi a salire sul palco con il vestito lungo e i tacchi alti. «Tu non sai quanto ti desidero» gli sussurrai. Lui rise. «Demonio.» Alla fine della cena, ballammo per un’ora. Perché non ballavo con mio marito più spesso? Sulla pista era esperto e sensuale come a letto: il suo corpo forte si muoveva in modo fluido, e la sua guida era sicura e decisa. Conosceva alla perfezione il modo in cui i nostri movimenti si
armonizzavano e ne approfittava, non perdendo occasione per strusciarsi contro di me. Ero eccitatissima e lui se n’era reso conto, e mi guardava con un’aria sexy e consapevole. Quando riuscii a distogliere l’attenzione da lui, intravidi Cary che ballava con Ireland. La prima volta che lo avevo invitato a venire a lezioni di danza con me era scoppiato a ridere, ma poi si era presentato e, nel giro di pochissimo tempo, era diventato il cocco dell’insegnante. Aveva un talento innato per la danza, e riusciva a guidare Ireland senza problemi,
nonostante lei fosse un po’ inesperta. Il mio amico era un ballerino piuttosto appariscente e si impadronì della pista: lui e la sorella di Gideon furono immediatamente al centro dell’attenzione. Cary, però, aveva occhi solo per la sua partner, e recitava alla perfezione il ruolo di accompagnatore completamente ammaliato. Ireland, anche se stava soffrendo, non poteva fare a meno di essere colpita da quella concentrazione così intensa su di lei. La vidi ridere varie volte, e notai che aveva le guance imporporate
da tutto quel movimento. Mi ero persa il momento dell’incontro imbarazzante con Rick che tanto avevo sperato di vedere, ma ora potevo godermi il seguito. Rick ballava con la bionda, pateticamente incapace di reggere il confronto con Cary, sia per la bravura sia per l’aspetto. Ora i due non si sorridevano più né scopavano con gli occhi, ma continuavano a lanciare occhiate a Cary e Ireland, che palesemente si stavano divertendo molto più di loro. Anche Terrence e Anne Lucas stavano ballando, ma si tennero
prudentemente dalla parte opposta della pista. «Andiamo a casa» mormorò Gideon, mentre la canzone finiva e ci fermavamo dolcemente «e bagniamo di sudore i tuoi diamanti.» Sorrisi. «Sì, andiamo.» Tornammo al tavolo per prendere la sua targa e la mia borsetta. «Veniamo anche noi» disse Stanton, con mia madre al suo fianco. «E Cary?» domandai. «Lo accompagnerà a casa Martin» rispose la mamma. «Si
stanno divertendo, non vedo perché interromperli.» Per uscire impiegammo lo stesso tempo che ci avevamo messo per entrare. Molte persone che non erano riuscite a farlo prima si fermarono a salutare Gideon e Stanton. Rispondevo alle congratulazioni con un semplice “grazie”, mentre mia madre di tanto in tanto interveniva con competenza, aggiungendo commenti brevi ma incisivi agli argomenti trattati da Stanton. La sua profonda conoscenza del mondo era per me fonte di invidia e di ispirazione. Quando sarebbe
giunto il momento, ne avrei parlato con lei. Quel commiato così prolungato ebbe il vantaggio di consentire alle macchine di muoversi per venire a prenderci. Quando finalmente arrivammo nell’atrio, Raúl ci informò che la limousine si trovava ad appena un isolato da noi. Clancy mi lanciò un rapido sorriso prima di dire a mia madre e Stanton che la loro macchina stava arrivando. I paparazzi ci stavano aspettando. Erano meno numerosi rispetto a quando eravamo arrivati, ma erano comunque più di una decina.
«Ci vediamo domani» disse mia madre, abbracciandomi. «Non vedo l’ora» dissi, mentre mi scioglievo dal suo abbraccio. «Potrei concedermi una giornata al centro benessere.» «Ottima idea» rispose lei con un sorriso radioso. «Penso a tutto io.» Salutai Stanton con un abbraccio e Gideon gli strinse la mano. Uscimmo, accolti dall’impazzare dei flash. La città ci attendeva con il rumore del traffico e con il tepore della notte. L’umidità stava lentamente diminuendo, perché l’estate era agli sgoccioli. Non vedevo l’ora di trascorrere più
tempo all’aria aperta. L’autunno a New York era di una bellezza particolare, che in precedenza avevo ammirato solo in occasione di brevi soggiorni. «Stai giù!» Riuscii a malapena a registrare quel grido, prima che Gideon mi trascinasse a terra. Un forte rumore, come di uno scoppio, echeggiò alle mie spalle, fischiandomi nelle orecchie e riverberandosi sulla facciata dell’edificio. Era talmente vicino che mi aveva assordata... proprio dietro di noi. Atterrammo violentemente sul
tappeto rosso. Gideon rotolò e mi fece scudo con il suo corpo. Qualcuno, poi, fece scudo con il proprio corpo a Gideon. Un altro rumore forte. Poi un altro, e un altro... “Mi schiacciano. Troppo peso. Non riesco a respirare.” La mia testa pulsava. “Aria. Oddio.” Mi divincolai. Affondai le unghie nel tappeto. Gideon mi strinse ancora più forte: sentivo soltanto la sua voce rauca, e non riuscivo a capire le parole, coperte dal ronzio incessante nella mia testa. “Aria. Non riesco a respirare...” Tutto diventò nero.
14
«Mio Dio, Eva.» Toccai freneticamente il suo corpo inerte, cercando la ferita mentre l’autista pigiava a fondo sull’acceleratore e la limousine balzava in avanti, sbattendomi contro lo schienale del sedile. Mia moglie, priva di conoscenza, era sdraiata sulle mie gambe e non reagiva al mio esame disperato.
Niente sangue sul vestito né sulla pelle. Il battito era forte e accelerato. Il suo petto si alzava e si abbassava al ritmo del respiro. Il sollievo fu tale che mi sentii girare la testa. La strinsi più forte, cullandola. «Grazie a Dio.» Raúl abbaiava ordini al microfono da polso. Quando tacque, gli chiesi: «Che cazzo è successo?». Lui lasciò ricadere il braccio. «Uno dei fotografi aveva un fucile e ha aperto il fuoco. Clancy l’ha preso.» «Qualcuno è rimasto ferito?» «Monica Stanton è stata colpita.» «Cosa?» Il cuore prese a
martellarmi nel petto. Abbassai lo sguardo su mia moglie mentre rinveniva lentamente, sbattendo le palpebre. «Maledizione! Quanto è grave?» Raúl espirò pesantemente. «Aspetto notizie. La situazione non sembrava buona. Lei ha gettato a terra Mrs Cross e Mrs Stanton è finita sulla linea di tiro.» “Eva.” Strinsi più forte mia moglie, passandole una mano tra i capelli mentre sfrecciavamo per le strade della città. «Che cosa è successo?» La flebile domanda di Eva,
mentre svoltavamo in direzione del garage, mi diede una fitta allo stomaco. Raúl mi lanciò un’occhiata, l’espressione cupa. Pochi secondi prima aveva risposto a una chiamata e mi aveva guardato, confermando le mie peggiori paure con un brusco cenno della testa e mimando un “Mi dispiace” con le labbra. La madre di mia moglie era morta. Cosa avrei dovuto dire a Eva? E quando l’avessi fatto, come potevo tenerla al sicuro finché non capivamo cosa accidenti stesse succedendo?
Il telefono che avevo nella tasca della giacca continuava a vibrare. Chiamate. Messaggi. Dovevo rispondere a tutti, ma mia moglie veniva per prima. Entrammo nel garage, oltrepassando il guardiano nel cubicolo di vetro. Battevo il piede sul pavimento dell’auto, irrequieto: non vedevo l’ora di scendere e portare al sicuro mia moglie. «Gideon?» Mi afferrò per la giacca. «Che cosa è successo? Ho sentito degli spari...» «Falso allarme» dissi in tono secco, stringendola troppo. «Un’auto ha avuto un ritorno di
fiamma.» «Cosa? Davvero?» Sbatté le palpebre, sussultando mentre l’attiravo a me. «Ahia.» «Scusa.» L’avevo buttata a terra con violenza, senza riuscire ad attutirle la caduta per timore di esporla al pericolo. Era stato un gesto istintivo, un impulso cieco in risposta all’urgenza nella voce di Raúl. «Ho reagito in modo esagerato.» «Sul serio?» Cercò di tirarsi su a sedere. «Credevo di avere sentito una serie di spari.» «Forse sono esplose delle macchine fotografiche. La gente si è
spaventata e ha lasciato cadere l’attrezzatura.» L’auto si fermò e Raúl saltò giù, porgendo la mano a Eva per aiutarla. Lei scese lentamente e io la seguii da vicino, prendendola in braccio non appena mi fui raddrizzato. Mi avviai rapidamente verso l’ascensore e aspettai mentre Raúl digitava il codice. Un uomo della sua squadra aveva preso posizione alle nostre spalle, rivolto nell’altra direzione, la mano sulla pistola mentre percorreva il garage con lo sguardo. Sarebbe stato sufficiente nel
caso in cui ci fosse stato un altro cecchino in attesa? «Ehi, ce la faccio a camminare» disse Eva ancora frastornata, con le braccia intorno alle mie spalle. «E devi rispondere al telefono. Quell’affare è impazzito.» «Dammi un minuto.» Salii sull’ascensore. «Sei svenuta, mi hai fatto prendere uno spavento del diavolo.» «Non riuscivo a respirare.» La baciai sulla fronte e mi scusai di nuovo. Non mi sarei sentito tranquillo finché non avessimo messo piede nel nostro appartamento. Lanciai un’occhiata a
Raúl. «Non ci metterò molto.» Portai mia moglie dritta in camera da letto e la deposi sul copriletto. Lucky abbaiava nel trasportino, grattando lo sportello con le zampe. «È stato così strano.» Eva scosse la testa. «Dov’è la mia borsetta? Voglio chiamare la mamma. Anche Clancy ha perso la testa?» Mi si chiuse lo stomaco. Avevo promesso di non mentirle mai e sapevo che questa bugia l’avrebbe ferita moltissimo. Avrebbe ferito entrambi. Ma... accidenti, come cazzo facevo a dirglielo? E se glielo avessi detto, come avrei potuto
tenerla in casa quando avrebbe voluto andare di persona a vedere cos’era successo? L’uggiolio lamentoso di Lucky non fece che peggiorare il mio nervosismo. «Credo che sia rimasta in macchina.» Le scostai i capelli dalla fronte, lottando contro il tremito che minacciava di scuotermi dalla testa ai piedi. «Mando qualcuno a prenderla.» «Okay. Posso usare il tuo telefono?» «Prima ti diamo un’occhiata. Ti fa male da qualche parte? Lividi?» Lanciai un’occhiataccia a Lucky, ma
per tutta risposta il cucciolo si mise a grattare lo sportello ancora più freneticamente. Eva si toccò un fianco e sussultò. «Forse.» «Bene. Ce ne occuperemo.» Andai in bagno e tirai fuori il telefono per spegnerlo. Sullo schermo c’era un elenco infinito di chiamate perse e messaggi. Lo guardai diventare nero, me lo ficcai nella tasca dei pantaloni e aprii il rubinetto della vasca. Tutti quelli che volevo sentire potevano raggiungermi tramite Raúl o Angus. Gettai una manciata di sali di Epsom nell’acqua calda; sapevo che
il bagno era un rischio, visto che quasi sempre mi univo a Eva quando lo faceva. Ma il tepore dell’acqua la rilassava e la calmava. Sospettavo che schiacciasse qualche pisolino durante il giorno per recuperare le ore sottratte al sonno notturno dalla nostra vita sessuale, ma durante il weekend non aveva praticamente dormito. Se fossi riuscito a farla rilassare e a metterla a letto, magari si sarebbe addormentata. Questo mi avrebbe dato un po’ di tempo per capire che cosa era successo, se sussistevano ancora dei rischi, e per parlare con il dottor Petersen...
“Cazzo.” E Victor. Dovevo chiamare il padre di Eva. Metterlo su un aereo per New York il prima possibile. Cary. Avrebbe dovuto essere qui anche lui. Quando avessi avuto più fatti e una rete di sostegno per mia moglie, gliel’avrei detto. Solo qualche ora. Era tutto quello che mi serviva. Lottai contro la nauseante paura che Eva non mi avrebbe perdonato quel ritardo. Quando tornai in camera da letto, lei stava facendo uscire Lucky dal trasportino. Scoppiò a ridere di fronte all’entusiasmo del cucciolo. Quel suono gioioso, che amavo così
tanto, mi trapassò come una coltellata. Baciò Lucky sulla testa e mi guardò con gli occhi luminosi. «Dovresti metterlo sul suo tappetino. È stato chiuso un bel po’.» «Sì, lo farò.» Strofinò la testa di Lucky prima di passarmelo. «Ho sentito il rumore dell’acqua.» «Un bagno potrebbe farti bene.» «Riscaldarmi un po’?» mi prese in giro. Quella luce negli occhi... Mi uccideva. Per poco non glielo dissi, ma avevo un nodo in gola e non riuscii a tirar fuori le parole.
Mi girai e imboccai il corridoio diretto al bagno di servizio oltre il salotto, dove avevamo sistemato il tappetino di erba finta di Lucky. Lo misi giù e mi passai le mani tra i capelli. “Pensa, maledizione.” Un drink era quello che mi serviva. Sì. Un drink. Un superalcolico. Andai in cucina e cercai di farmi venire in mente qualcosa di forte che Eva avrebbe potuto bere. Un digestivo, magari? Il telefono fisso. Merda. Andai a spegnere la suoneria e notai che ci aveva già pensato qualcun altro. Girandomi, vidi la macchina del caffè.
Qualcosa di caldo. Di rilassante. Senza caffeina. Una tisana. Frugai nella dispensa, spostando le cose qua e là sugli scaffali in cerca della scatola che Angus teneva nell’attico. Un infuso di erbe che lui sosteneva fosse rilassante. Lo trovai, riempii una tazza di acqua calda, ci buttai dentro due bustine, una generosa dose di rum e una cucchiaiata di miele. Mescolai il tutto, facendone schizzare qualche goccia sul bancone. Un altro po’ di rum. Tolsi le bustine e le gettai nel lavello, quindi tornai da mia moglie.
Per un attimo, non trovandola in camera, fui preso dal panico. Poi la sentii nella cabina armadio ed espirai con forza. Appoggiai la tazza sul bordo della vasca, chiusi il rubinetto e andai da lei. Era seduta sulla panca e si stava togliendo le scarpe. «Mi sa che il vestito è rovinato» disse, alzandosi in piedi per mostrarmi lo strappo sul fianco sinistro. «Te ne comprerò un altro.» Mi scoccò un ampio sorriso. «Mi vizi.» Era una dannata tortura. Ogni secondo. Ogni bugia che le dicevo.
Ogni verità che non dicevo. L’amore nei suoi occhi, la sua assoluta fiducia erano come sferzate. Sentii il sudore colarmi lungo la schiena. Mi tolsi la giacca e la gettai da parte, poi armeggiai con il farfallino e il colletto della camicia finché non riuscii ad allentarli per respirare. «Aiutami a toglierlo.» Si girò di spalle. Le slacciai il vestito e glielo abbassai sulle spalle, lasciandolo cadere in un mucchietto sul pavimento. Poi le sganciai il reggiseno, sentendola sospirare di piacere quando fu liberata da quella
costrizione. La percorsi con lo sguardo imprecando tra me davanti al livido che si stava già formando sul fianco e alle abrasioni sul braccio dovute all’impatto con il tappeto rosso. Sbadigliò. «Wow. Sono stanca.» Grazie a Dio. «Dovresti dormire, allora.» Mi lanciò un’occhiata di fuoco da sopra la spalla. «Non sono così stanca.» Maledizione. Una coltellata non avrebbe fatto più male. Non potevo toccarla, fare l’amore con lei... non con l’inganno tra noi. Deglutii con forza. «Okay. Prima
devo occuparmi di alcune cose. E recuperare la tua borsetta. Ti ho preparato una bevanda calda, è sul bordo della vasca. Rilassati, ti raggiungo appena posso.» «Va tutto bene?» Incapace di mentire più di quanto avessi già fatto, le dissi una verità irrilevante. «Sono rimasto parecchio indietro con il lavoro, questa settimana. Ho alcune cose urgenti da sistemare.» «Scusa. So che è colpa mia.» Mi baciò sulla guancia. «Ti amo, asso.» Prese una vestaglia dal gancio, se la infilò e andò in bagno. Io rimasi lì in piedi, avvolto dal suo
odore, le mani che ancora formicolavano per averla toccata, il cuore che martellava per la paura e il disgusto verso me stesso. Lucky arrivò a razzo finendo contro la porta per poi fiondarsi ai miei piedi. Lo presi in braccio e gli accarezzai la testa. Questo era un incubo da cui quel cucciolo non poteva svegliarmi. Raúl aspettava nel mio studio, parlando seccamente al telefono. Lo raggiunsi e mi chiusi la porta alle spalle. Terminò la chiamata e si alzò. «Sulla scena c’è la polizia. Il tizio
che ha sparato è agli arresti.» «Monica?» «Stanno aspettando il medico legale.» Non riuscivo a pensarci. Mi diressi alla scrivania e mi sedetti pesantemente sulla poltroncina. Il mio sguardo si posò sulle foto di Eva appese al muro. «Ai detective è stato detto che lei e Mrs Cross sarete qui quando verrà il momento di raccogliere la vostra testimonianza.» Annuii e pregai che aspettassero fino al mattino dopo per chiamare a casa. «Ho staccato il telefono in cucina
quando siamo arrivati» disse piano. «L’ho notato. Grazie.» Bussarono alla porta. Mi irrigidii, aspettandomi che fosse Eva, e sospirai di sollievo quando vidi che invece era Angus. «Torno là» disse Raúl. «La terrò aggiornata.» «Mi serve la borsetta di Eva dall’auto. E Cary. Portalo qui.» Raúl annuì e se ne andò. Angus prese posto sulla sedia che Raúl aveva appena lasciato libera. «Mi dispiace, ragazzo mio.» «Anche a me.» «Avrei dovuto essere lì.» «Così ci sarebbe stata un’altra
persona cui voglio bene sulla linea di fuoco.» Mi alzai, troppo inquieto per rimanere seduto. «È una benedizione che tu fossi dai Lucas.» Mi fissò per un attimo, poi si guardò le mani. Mi ci volle un secondo per rendermi conto delle mie parole. Un altro per capire che non gli avevo mai detto che gli volevo bene fino a quel momento. Speravo che lo sapesse lo stesso. Angus inspirò a fondo, poi alzò la testa e mi guardò di nuovo. «Come sta Eva?» «Devo andare a controllare. Sta facendo il bagno.»
«Povera ragazza.» «Non lo sa.» Mi sfregai la nuca. «Non gliel’ho detto.» «Gideon.» Aveva negli occhi lo stesso sconcerto che provavo io. «Non può...» «A che cosa servirebbe?» scattai. «Non abbiamo risposte. Sua madre se n’è andata. Non posso lasciarla tornare sulla scena a vedere... quello. Perché torturarla o metterla a rischio? Cristo, avrebbe potuto essere lei la vittima! Potrebbe ancora essere lei, se non la teniamo al sicuro.» Mi guardò camminare avanti e indietro, con occhi che avevano
visto – e ancora vedevano – troppo. «Faccio qualche telefonata.» Tirai fuori il cellulare. «Devo capire qualcosa della situazione prima di dirglielo. Cercare di attutire il colpo il più possibile. Ne ha passate così tante...» Mi si spezzò la voce. Mi bruciavano gli occhi. «Cosa posso fare per aiutarla?» chiese Angus a bassa voce. Mi ricomposi. «Mi serve un jet disponibile per il padre di Eva. Lo chiamo adesso.» «Me ne occupo io.» Si alzò. «Dammi qualche minuto per informarlo, poi mandagli un SMS con i dettagli del volo quando li hai.»
«Lo consideri fatto.» «Grazie.» «Gideon... dovrebbe sapere che la mia perquisizione nella casa dei Lucas ha dato dei risultati.» Si mise la mano in tasca e tirò fuori una chiavetta USB grande quanto una monetina. «Lei la teneva in una cassaforte in camera da letto, sotto i gioielli contenuti in una scatola. Aveva fatto scansioni di tutti gli appunti di lui.» Lo guardai con espressione assente. In quel momento Anne e Hugh erano l’ultimo dei miei pensieri. «Sono tutte bugie» continuò.
«Lui non ha menzionato niente di quello che è successo davvero. La cosa che potrebbe interessarle, quando verrà il momento, è ciò che aveva da dire riguardo a Christopher.» Angus mise la chiavetta sulla scrivania e uscì dallo studio. La fissai. Poi mi avvicinai alla scrivania, aprii un cassetto e la buttai dentro con un gesto brusco. Riaccesi il telefono e vidi che c’erano SMS e messaggi vocali di Cary, Magdalene, Clancy, Ireland, Chris... Sopraffatto, andai alla schermata Home.
Cercai il numero dello studio del dottor Petersen tra i contatti e feci partire la chiamata. Seguii le istruzioni del risponditore automatico, selezionai il centralino delle emergenze notturne e dissi all’operatore che mi rispose che si trattava di una cosa della massima urgenza: c’era stata una morte e il dottore doveva richiamarmi il prima possibile. La conversazione fu fredda e clinica, soprattutto per qualcosa di così disperatamente personale, e suonava come un terribile insulto alla moglie e madre bellissima e piena di vita che non era più tra
noi. Eppure mi ritrovai a desiderare che la telefonata successiva che dovevo fare fosse altrettanto priva di emotività. Mentre il telefono suonava, mi lasciai cadere sulla poltroncina. L’ultima volta che avevo parlato con Victor era stato nel corso della chiamata che avevo fatto da Rio de Janeiro per spiegargli che la foto di me insieme a due donne era stata scattata prima che conoscessi sua figlia. Aveva ascoltato l’informazione con freddo riserbo, lasciandomi capire che non ero all’altezza di Eva. Non potevo non essere d’accordo. Adesso dovevo
dirgli che l’altra donna che amava gli era stata portata via di nuovo... questa volta per sempre. Eva era convinta che suo padre continuasse a essere innamorato di Monica. Se era così, la notizia l’avrebbe distrutto. Sentivo ancora il sapore della bile e la sensazione di gelido panico che mi aveva ottenebrato la mente negli istanti immediatamente successivi agli spari. Senza Eva non mi sarebbe rimasto niente. «Reyes» rispose Victor, la voce fredda e vigile. In sottofondo si sentiva un rumore, forse il traffico. Una musica in lontananza. Diedi
un’occhiata all’orologio e mi resi conto che doveva essere in servizio. «Sono Cross. Devo dirle una cosa. È solo?» «Posso esserlo. Cosa c’è che non va?» chiese, cogliendo il tono grave nella mia voce. «È successo qualcosa a Eva?» «No, non si tratta di Eva.» “Dillo e basta. Senza giri di parole e in fretta.” Era così che avrei voluto che mi dicessero che la mia vita era finita. «Mi dispiace. Questa sera Monica è stata uccisa.» Ci fu una pausa terribile. «Cos’hai detto?» Abbandonai la testa contro lo
schienale della poltroncina. Aveva capito quello che avevo detto, lo intuivo dalla voce, ma non riusciva a crederci. «Mi dispiace tanto, Victor. Non sappiamo molto altro, in questo momento.» Udii una portiera che si apriva e poi veniva sbattuta. Ci furono un breve vociare proveniente da una trasmittente della polizia, poi un silenzio inquietante che si prolungò per un tempo che mi parve infinito. Ma sapevo che lui era ancora in linea. «È successo meno di un’ora fa» spiegai con calma, cercando di spezzare quel silenzio. «Ce ne
stavamo andando da un evento. Un uomo in mezzo alla folla ha aperto il fuoco.» «Perché?» «Non lo so. Ma è stato preso. Presto dovremmo avere più dettagli.» Fece uno sforzo per parlare con voce ferma. «Dov’è mia figlia?» «È a casa con me. Non uscirà di qui finché non avrò la certezza che sia al sicuro. Le sto organizzando un volo, Victor. Eva avrà bisogno di lei.» «Passamela.» «Sta riposando. Riceverà un SMS con le informazioni del volo non
appena è confermato. Le mando uno dei miei jet. Potrà parlarle domani mattina quando arriva.» Victor sospirò pesantemente. «Va bene. Mi faccio trovare pronto.» «Ci vediamo tra qualche ora.» Terminai la chiamata e pensai all’altro uomo che era una figura paterna per Eva. Non potevo nemmeno immaginare cosa stesse passando Stanton, il solo pensiero mi distruggeva. Ma mi dispiaceva per lui e rimpiangevo di non potergli offrire nulla di adeguato alle circostanze. Gli mandai comunque un breve
messaggio. “Se posso essere d’aiuto in qualunque modo, fammelo sapere.” Uscii dallo studio e mi diressi verso il bagno padronale. Mi fermai sulla soglia, sentendo una fitta di dolore alla vista di Eva allungata nell’acqua calda, gli occhi chiusi. Si era raccolta i capelli in uno chignon disordinato e sexy. I diamanti mandavano bagliori sul ripiano. Lucky si arrampicò con le zampe sulle mie gambe. «Ciao» mormorò lei, tenendo gli occhi chiusi. «Hai fatto tutto?» «Non ancora. Adesso devo occuparmi di te.» Mi avvicinai e vidi
che aveva bevuto metà del beverone. «Dovresti finire la tua tisana.» Eva aprì gli occhi lentamente, lo sguardo sognante. «È forte. Mi ha dato alla testa.» «Bene. Adesso bevi il resto.» Fece come le avevo detto, non per obbedienza, ma nel modo in cui una donna che aveva qualcosa in mente fingeva di eseguire un ordine: perché le andava bene. «Entri nella vasca con me?» mi chiese, passandosi la lingua sulle labbra. Scossi la testa, e lei mise il broncio.
«Allora ho finito.» Emerse dalla vasca, con rivoletti d’acqua che le percorrevano le curve generose. Mi regalò un sorriso seducente, consapevole di quello che mi stava facendo. «Sicuro che non vuoi cambiare idea?» Deglutii a fatica. «Non posso.» Mi si avvicinò, appoggiandosi contro di me. «È tutto a posto? Stai ancora pensando a tua madre?» «Cosa? No.» Gemetti, la testa china. «Quando sei svenuta... cazzo. Non mi sono mai spaventato tanto.» «Gideon.» Mi abbracciò. «Sto bene.»
Sospirai, ricambiai brevemente la stretta e poi la lasciai andare. Era troppo doloroso averla tra le braccia, sapendo quello che le stavo nascondendo. «Fammi controllare, per essere sicuro.» Lucky si mise seduto con la testa piegata di lato e mi guardò con curiosità mentre esaminavo il braccio di Eva. Pulii l’abrasione con una salvietta imbevuta di antibiotico e poi le spalmai un unguento sulla pelle rossa e scorticata. La coprii con una garza. Per il livido sul fianco usai una generosa dose di arnica, passando le dita sulla pelle che si stava
scurendo finché la pomata non fu completamente assorbita. Il mio tocco e la mia attenzione la eccitarono, nonostante mi fossi sforzato di non farlo. Chiusi gli occhi e mi raddrizzai. «A nanna, Mrs Cross.» «Mmh... sì, andiamo a letto.» Mi mise le mani sulle spalle, giocherellando con il farfallino slacciato. «Mi piace il colletto aperto. Molto sexy.» «Angelo... mi stai distruggendo.» Le presi le mani. «Devo occuparmi ancora di un paio di cose.» La portai in camera tenendola per mano. Protestò quando tirai
fuori una T-shirt della Cross Industries e gliela infilai. «E i diamanti?» mi chiese. Non li avrebbe mai più portati dopo questa notte. Dove cazzo era il dottor Petersen? Avevo bisogno del suo aiuto per dire le cose giuste nel modo giusto quando fosse venuto il momento. Le sfiorai la guancia con le dita, l’unico contatto che mi sarei permesso. «Per il momento così starai più comoda.» La misi a letto, scostandole i capelli dalle guance. Si sarebbe addormentata convinta di avere ancora sua madre e sicura che il
marito non le avrebbe mai mentito. «Ti amo.» La baciai sulla fronte, volendo che quelle parole riecheggiassero nei suoi sogni. Era fin troppo possibile che non ci avrebbe creduto, una volta sveglia. Lasciando che Eva si riposasse, chiusi la porta della camera e andai in cucina a prepararmi un drink, qualcosa di forte capace di allentare il nodo freddo che mi serrava lo stomaco. Trovai Cary in salotto, seduto sul divano con la testa fra le mani. Angus era su una sedia all’estremità
più lontana del tavolo da pranzo e parlava al telefono a voce bassa. «Ti andrebbe qualcosa da bere?» chiesi a Cary mentre gli passavo davanti. Alzò la testa e vidi le lacrime. La devastazione. «Dov’è Eva?» «Sta cercando di dormire. È la cosa migliore che possa fare.» In cucina presi due bicchieri e una bottiglia di scotch, e versai due dosi generose. Feci scivolare uno dei bicchieri verso di lui quando mi raggiunse al bancone. Buttai giù il mio whisky d’un fiato, chiudendo gli occhi quando lo sentii bruciare in gola. «Starai nella
camera degli ospiti.» Avevo la voce roca per l’effetto dell’alcol. «Eva avrà bisogno di te domattina.» «Avremo bisogno l’uno dell’altra.» Mi versai un altro bicchiere di liquore. «Victor sta arrivando.» «Cazzo.» Cary si asciugò gli occhi umidi. «Stanton, amico... È invecchiato davanti ai miei occhi, come se gli fossero piombati addosso trent’anni.» Portò il bicchiere alle labbra con la mano che gli tremava violentemente. Sentii vibrare il telefono in tasca e lo tirai fuori, rispondendo anche se non riconobbi il numero.
«Cross.» «Gideon. Sono il dottor Petersen, ho ricevuto il messaggio.» «Solo un attimo.» Mi appoggiai il telefono al petto e guardai Cary. «Devo rispondere.» Fece un gesto noncurante, gli occhi fissi sul liquido ambrato nel suo bicchiere. Andai verso la camera da letto e socchiusi la porta, sollevato nel vedere Eva addormentata con il cane acciambellato accanto a lei. Mi ritirai e mi chiusi nello studio. «Mi scusi. Dovevo spostarmi per parlare in privato.» «Si figuri. Che cos’è successo,
Gideon?» Mi lasciai cadere sulla poltroncina dietro la scrivania e mi presi la testa fra le mani. «Si tratta della madre di Eva. Stasera c’è stato un incidente. È rimasta uccisa.» «Monica...» Fece un respiro profondo. «Mi racconti cos’è successo.» In quel momento ricordai che anche Monica era – era stata – una paziente del dottor Petersen. Gli diedi le stesse informazioni che avevo dato a Victor. «Ho bisogno che lei venga qui. Mi serve il suo aiuto. Non so come dirlo a Eva.» «Come...? Scusi, Gideon, è tardi
e sono confuso. Pensavo che foste insieme quando è successo.» «Era proprio accanto a me, ma l’ho buttata a terra per proteggerla. L’ho schiacciata involontariamente con il mio peso e lei è svenuta. Quando ha ripreso i sensi, le ho detto che si era trattato di un falso allarme.» «Oh, Gideon.» Sospirò pesantemente. «Non è stata una buona idea.» «È stata la decisione giusta. Non c’è nulla che lei possa fare riguardo a quanto è accaduto.» «Non può proteggerla da tutto, e mentire non è mai una soluzione.»
«Posso evitare che lei sia un bersaglio!» Mi alzai in piedi di scatto, furioso per il fatto che la sua reazione e quella di Angus riflettessero le mie paure sul modo in cui Eva avrebbe preso la menzogna che le avevo raccontato. «Finché non so quale sia la minaccia, non voglio che mia moglie se ne vada in giro, il che è esattamente quello che lei farebbe!» «Spetta a Eva decidere.» «Prenderebbe la decisione sbagliata.» «In ogni caso, è una decisione che ha il diritto di prendere da
sola.» Scossi la testa, anche se non poteva vedermi. «La sua sicurezza non è negoziabile. Si preoccupa per tutti. È compito mio preoccuparmi per lei.» «Potrebbe esprimerle i suoi timori» disse il dottor Petersen, la voce bassa e rassicurante. «Spiegarglieli.» «Non penserebbe alla propria incolumità. Vorrebbe essere al fianco di Stanton.» «Stare con altri che condividono il suo dolore può...» «Lui è vicino al cadavere di sua madre su un marciapiede della
città!» Le parole e l’immagine che evocavano erano davvero ripugnanti. Mi si rivoltò lo stomaco, protestando contro il liquore che avevo bevuto. Ma avevo bisogno che qualcuno capisse fino in fondo l’orrore e i motivi per cui avevo preso quella decisione. Per avere una qualche speranza che Eva capisse. «Non mi dica quello che sarebbe meglio per lei» dissi freddamente. «Non la lascerò andare là. Quella... cosa la ossessionerebbe per tutta vita.» Rimase in silenzio, poi disse:
«Più aspetta, più sarà difficile per tutti e due». «Glielo dirò non appena si sveglia. E lei deve venire qui e aiutarmi a farlo.» «Gideon...» «Ho parlato con suo padre in California. Arriverà presto. E c’è anche Cary.» Camminavo avanti e indietro per la stanza. «Hanno un po’ di tempo per metabolizzare la cosa, così quando Eva li vedrà, saranno in grado di offrirle il sostegno di cui ha bisogno. Anche lei potrà aiutarla.» «Non capisce che per Eva la fonte più importante di forza e di
consolazione è lei, Gideon. Non dicendole una cosa di questa portata e mentendole all’inizio, ha messo a repentaglio uno dei pilastri su cui Eva fa affidamento.» «Crede che non lo sappia?!» Mi bloccai davanti al collage di foto di mia moglie. «Io... Accidenti. Ho il terrore che non mi perdonerà mai.» Il silenzio del dottor Petersen fece sì che queste parole rimanessero sospese nell’aria, beffandosi della mia impotenza. Distolsi lo sguardo dalle immagini di mia moglie. «Ma lo rifarei. Questa situazione, quello che c’è in gioco...»
«Va bene. Deve parlarle di tutto questo non appena si sveglia. Sia sincero su ciò che prova e si concentri su questo piuttosto che sulla logica o sulle sue motivazioni. Eva potrebbe non essere d’accordo con lei o non capire le sue ragioni, ma comprendere l’impulso emotivo che ci sta dietro aiuterà.» «Lei capisce?» lo sfidai. «Io capisco, sì. Il che non significa che non le avrei consigliato di comportarsi in modo diverso, però capisco. Le do un altro numero dove può raggiungermi direttamente.» Presi una penna e lo annotai.
«Parli con Eva. Poi, se vuole ancora che venga lì, ci sarò. Non posso promettere di farlo immediatamente» proseguì «ma verrò il prima possibile.» «Grazie.» Terminai la chiamata e mi sedetti di nuovo alla scrivania. Non potevo fare altro che aspettare. Aspettare che Eva si svegliasse. Aspettare la polizia. Aspettare i visitatori che sarebbero venuti e avrebbero chiamato, amici e familiari che sarebbero stati inutili come lo ero io. Riattivai il computer e mandai un’e-mail a Scott, dicendogli di annullare tutti gli appuntamenti
della settimana e di mettersi in contatto con la wedding planner. Informare lei e altri era molto probabilmente ridondante, dato che al momento della sparatoria il posto pullulava di paparazzi. Non c’era modo di avere anche un solo giorno di lutto privato. Il pensiero di quello che doveva già essere stato postato online mi riempiva di una rabbia impotente. Foto raccapriccianti della scena del crimine. Teorie del complotto e ipotesi incontrollate. Il mondo ci avrebbe spiati per mesi. Scacciai quei pensieri. Mi costrinsi a pensare alle cose
che avrebbero alleviato il dolore di Eva. Avevo già in mente di parlare con Victor e poi ne avremmo discusso con la sua famiglia, che doveva arrivare venerdì. Avevo il telefono in mano prima di rendermene conto. Controllai le chiamate perse e feci scorrere i messaggi. Non c’era niente da parte di mia madre, anche se dovevo pensare che Chris o Ireland a quel punto le avessero detto qualcosa. Il suo silenzio non mi stupì quanto l’SMS ricevuto da Christopher. “Ti prego, fai le mie condoglianze a Eva.” Fissai il messaggio per un pezzo,
toccando lo schermo per farlo rimanere illuminato. Erano le parole “ti prego” a colpirmi. Una cortesia normalissima, ma Christopher non la usava mai con me. Pensai alle persone che avevo chiamato per conto di Eva. Cary, che era quasi un fratello per lei. Victor, suo padre. Chi avrebbe chiamato Eva se fosse stata al mio posto? Chris? Di sicuro non mio fratello. “Perché?” Per tutti questi anni mi ero arrovellato su quella domanda. Christopher avrebbe potuto significare molto di più per me, un legame con la nuova famiglia che
mia madre si era creata. Aprii il cassetto e fissai la minuscola chiavetta USB che Angus aveva recuperato a casa dei Lucas. Conteneva la risposta? In caso affermativo, avrebbe fatto qualche differenza? Il momento che temevo arrivò troppo in fretta. Ero sdraiato a letto con gli occhi chiusi, sentendo il materasso muoversi mentre Eva si girava e udendo i suoi lievi sospiri mentre si sistemava in un’altra posizione. Se glielo avessi lasciato fare, si sarebbe riaddormentata, e io avrei potuto concederle qualche altra ora di pace.
Ma Victor era atterrato a New York e la polizia poteva presentarsi all’attico da un momento all’altro. La realtà avrebbe fatto irruzione indipendentemente dalla mia volontà di tenerla a bada, il che significava che il tempo a mia disposizione per dare la notizia a mia moglie si stava esaurendo. Mi tirai su a sedere e mi passai una mano sulla faccia, sentendo la barba sfatta che rendeva ruvide le guance. Poi toccai Eva su una spalla, svegliandola nel modo più dolce possibile. «Ehi.» Si girò verso di me, gli occhi pieni di sonno. «Sei ancora
vestito. Hai lavorato tutta la notte?» Mi alzai e accesi la luce sul comodino, incapace di discutere la situazione se non stando in piedi. «Eva, dobbiamo parlare.» Lei sbatté le palpebre e si sollevò sui gomiti. «Cosa c’è che non va?» «Lavati la faccia mentre ti preparo un po’ di caffè, okay? E aspettami qui finché non te lo porto.» Aggrottò le sopracciglia. «Sembri serio.» «Lo sono. E tu devi essere sveglia.» «Okay.» Gettò indietro il piumino
e si alzò dal letto. Presi Lucky con me e mi chiusi la porta alle spalle, lasciando il cane nel bagno di servizio prima di preparare il caffè per me e per Eva. Nuovo giorno, stessa routine. Qualche altro minuto a fingere che non fosse cambiato niente equivaleva a un genere diverso di menzogna. Quando tornai in camera, vidi Eva che si infilava un paio di pantaloni del pigiama. Si era raccolta i capelli in una corta coda di cavallo e sulla T-shirt aveva una macchia di dentifricio. Normale. Per il momento, era ancora la moglie
che amavo follemente. Prese la tazza che le porgevo e inalò l’aroma del caffè, chiudendo gli occhi per il piacere. Era così tipico di lei, così da Eva, che sentii una fitta dolorosa al petto. Appoggiai la mia tazza senza toccare il caffè, lo stomaco improvvisamente chiuso per pensare di berne anche solo un goccio. «Siediti lì, angelo.» «Stai iniziando a spaventarmi.» «Lo so, mi dispiace.» Le toccai una guancia. «Non intendo farla troppo lunga. Se ti siedi, ti spiego.» Eva si accomodò sulla poltroncina da lettura sotto le
finestre ad arco. Da nero, il cielo stava schiarendo in un grigio bluastro. Accesi la luce accanto a lei, poi afferrai l’altra poltroncina e la trascinai davanti alla sua. Mi allungai per prenderle la mano e mi sedetti, stringendole delicatamente le dita. Feci un respiro profondo. «Ti ho mentito. Difenderò questa decisione quando avrò finito, ma per ora...» Socchiuse gli occhi. «Sputa il rospo, asso.» «Avevi ragione riguardo agli spari che hai sentito. Ieri sera uno dei fotografi ha aperto il fuoco contro di noi. Tua madre è stata colpita.» Mi
interruppi, lottando per pronunciare le parole: «Non ce l’ha fatta». Eva mi fissò, gli occhi grandi e cupi nel viso improvvisamente pallido. La mano le tremava forte quando appoggiò la tazza sul tavolino. «Che cosa stai dicendo?» «Le hanno sparato, Eva.» Rafforzai la stretta sulle mani gelide, percependo il suo panico. «È stato fatale. Mi dispiace.» Trattenne il fiato. «In questo momento non ho risposte da darti. La persona che ha sparato è stata arrestata e Raúl mi ha detto che i detective Graves e Michna sono stati assegnati al
caso.» «Sono poliziotti della omicidi» disse lei in tono piatto. «Sì.» Erano gli stessi che avevano fatto le indagini sulla morte di Nathan Barker. Li conoscevo meglio di quanto desiderassi. «Perché qualcuno avrebbe voluto uccidere mia madre?» «Non lo so, Eva. Potrebbe essere stato un caso. Potrebbe essersi trattato di un errore di bersaglio. Potremmo chiamare Graves o Michna... Hai ancora il loro biglietto da visita, vero? Magari non ci dicono niente, ma sto aspettando
che vengano a prendere la nostra deposizione.» «Perché? Io non so niente.» La paura contro cui avevo lottato per tutta la notte mi invase. Mi ero aspettato rabbia e lacrime. Una violenta esplosione di emozioni. E invece Eva sembrava disorientata, quasi apatica. «Angelo.» Le lasciai andare una mano e le accarezzai una guancia. «Cary è qui, nella stanza degli ospiti. Tuo padre sta arrivando dall’aeroporto. Sarà qui tra poco.» «Papà.» Una lacrima solitaria le scivolò su una guancia. «Lo sa?» «Sì. Gliel’ho detto io. Anche Cary
lo sa. Era là.» «Devo parlargli. Era come una madre per Cary.» «Eva.» Mi spostai sul bordo della poltroncina e le misi le mani sulle spalle. «Non devi preoccuparti per nessun altro in questo momento.» «Perché non me l’hai detto?» Mi guardò senza capire. «Perché mentirmi?» Iniziai a spiegare, poi mi interruppi. Alla fine dissi: «Per proteggerti». Eva distolse lo sguardo. «Penso di avere saputo che era successo qualcosa di brutto. Penso che sia per questo che non sono stupita.
Ma quando ce ne siamo andati... lei era...?» «Se n’era già andata, Eva. Non ti mentirò di nuovo... Non sapevo se qualcuno fosse stato colpito quando ti ho portata via da lì. La cosa più urgente era metterti al sicuro. Poi...» «Non importa.» Feci un respiro tremante. «Non c’era niente che tu potessi fare.» «E comunque adesso non ha importanza.» «Sei sotto shock, Eva. Guardami.» Quando non lo fece, la presi in braccio e me la misi in grembo. Era fredda. La strinsi,
cercando di riscaldarla, e lei rabbrividì. Mi alzai, la portai verso il letto e scostai il piumone, poi mi sedetti sul bordo del materasso e coprii entrambi. Cominciai a cullarla, tenendole le labbra sulla fronte. «Mi dispiace così tanto, angelo. Non so cosa fare. Dimmi cosa devo fare.» Lei non mi rispose e non pianse. «Hai dormito?» mi chiese Chris a bassa voce. «Forse dovresti riposarti un paio d’ore.» Alzai lo sguardo, sorpreso di trovare il mio patrigno davanti alla mia scrivania. Non l’avevo sentito
entrare, la mente altrove mentre guardavo fuori dalla finestra senza vedere niente. Victor e Cary erano in salotto con Eva, a malapena capaci di parlare, impietriti dal dolore. Angus era da qualche parte nel palazzo, insieme allo staff dell’atrio, per tentare di arginare le orde di fotografi e giornalisti accampati fuori dall’ingresso. «Hai parlato con Eva?» Mi sfregai gli occhi che bruciavano. «Suo padre e Cary sono distrutti, e lei...» Cristo. Lei cosa? Non ci capivo niente. Sembrava... distaccata. Come se non fosse toccata
dall’angoscia e dalla rabbia impotente di due persone che amava profondamente. «È stordita.» Si sedette. «Alla fine accuserà il colpo, ma per il momento lo sta affrontando nell’unico modo che conosce.» «“Alla fine” non è quantificabile! Voglio sapere quando... come... cosa fare.» «Ecco perché devi prenderti cura di te stesso, Gideon.» Mi scrutò in faccia. «Per poter essere forte quando ne avrà bisogno.» «Non mi permetterà di consolarla. È troppo impegnata a preoccuparsi per tutti gli altri.»
«È un modo per distrarsi, ne sono sicuro» disse piano. «Qualcosa su cui focalizzarsi oltre alla propria perdita. E se vuoi un consiglio, in questo momento tu devi concentrarti su te stesso. È ovvio che sei stato in piedi tutta la notte.» Feci una risata senza allegria. «Cosa mi ha tradito? Lo smoking?» «Gli occhi iniettati di sangue, la barba lunga. Non hai l’aspetto del marito su cui Eva fa affidamento perché mantenga i nervi saldi e faccia qualunque cosa in suo potere.» «Dannazione.» Mi alzai. «È solo
che sembra... sbagliato comportarsi come se non fosse successo niente.» «Non è questo che intendevo. Ma la vita deve andare avanti. E per Eva... significherà con te. Perciò sii te stesso. In questo momento sembri un relitto esattamente come tutti gli altri di là.» Lo ero. Il fatto che Eva non si rivolgesse a me per essere consolata... era tutto quello che avevo temuto. Ma sapevo che Chris aveva ragione. Se non avevo l’aspetto della persona in grado di sostenerla, come avrei potuto
aspettarmi che si affidasse a me? Lui si alzò. «Faccio una tazza di caffè mentre ti fai una doccia. Ho portato qualcosa da mangiare, a proposito. Un po’ di paste e panini presi in una panetteria consigliata da tuo fratello. Tra poco è ora di pranzo.» Non riuscivo a immaginare di poter mandar giù niente, ma era gentile da parte sua. «Grazie.» Ci avviammo insieme alla porta. «Sto in città adesso, lo sai. Christopher si occuperà dell’ufficio nei prossimi giorni così posso dare una mano qui. Se hai bisogno di qualcosa – qualunque cosa –
chiamami.» Mi fermai. Avvertivo un senso di oppressione al petto e faticavo a respirare. «Gideon.» Mi mise una mano sulla spalla. «Supererete tutto questo. Avete una famiglia e degli amici che...» «Quale famiglia?» Il braccio gli ricadde lungo il fianco. «No» dissi, detestando che si fosse allontanato. Odiando l’espressione ferita che gli si era dipinta in faccia per colpa mia. «Senti, sono contento che tu sia qui. Non me l’aspettavo, ma sono
contento...» Mi strinse in un abbraccio saldo. «Allora impara ad aspettartelo» disse burbero. «Perché questa volta non mi tirerò indietro, Gideon. Noi siamo una famiglia. Forse possiamo cominciare a pensare a cosa significa per tutti noi. Per te e per me. Per tua madre, Christopher e Ireland.» Con la testa reclinata sulla sua spalla, lottai per riguadagnare un minimo di compostezza. Ero stanco. Sfinito. Il mio cervello non funzionava a dovere. Doveva essere perché sentivo... Cazzo. Non lo sapevo, cosa sentivo.
Il padre di Eva e Cary erano distrutti. Stanton... non potevo neanche immaginare come dovesse sentirsi. Qualunque cosa provassi io contava poco, in confronto. Stressato, con la mente annebbiata, dissi senza riflettere: «A Christopher servirebbe un trapianto di personalità per poter essere una famiglia per me». Chris si irrigidì e si scostò. «So che tu e Christopher non andate d’accordo, ma...» «Non ho nessuna colpa. Questo dev’essere chiaro.» Cercai di non fare quella domanda, mi sforzai di ricacciare indietro le parole. «Ti ha
mai detto perché mi odia?» Per l’amor di Dio. “Perché?” Perché avevo dovuto chiederlo? Non avrebbe dovuto importarmi, non dopo tutti quei dannati anni. Chris scosse la testa. «Non ti odia, Gideon.» Mi raddrizzai, desiderando non tremare... per la stanchezza o l’emozione, non avrei saputo dirlo. Il passato era alle mie spalle. L’avrei lasciato lì, sepolto nel dimenticatoio a cui apparteneva. Adesso avevo Eva... Maledizione. Speravo di averla ancora. Eva non mi aveva mai spinto ad
affrontare Christopher come aveva fatto con il resto della mia famiglia. Ai suoi occhi mio fratello era andato troppo oltre, aveva usato Magdalene in modo troppo spietato, cosa che Cary aveva catturato in un video. Forse a Eva non sarebbe importato che io risolvessi il mio rapporto con Christopher... Ma forse sarebbe stata orgogliosa se ci avessi provato. E se lo fosse stata, se questo le avesse dimostrato che ero diverso, che ero cambiato nel modo in cui lei aveva bisogno che io cambiassi... “Figlio di puttana.” Non dicendole della morte di Monica nel momento
in cui l’avevo saputo avevo cancellato tutti i progressi che avevamo fatto. Se sistemare le cose con la mia famiglia l’avesse aiutata a perdonarmi la menzogna che le avevo raccontato, allora valeva la pena fare lo sforzo, per quanto mi costasse. Mi costrinsi a rilassare le mani. Quando parlai, lo feci a voce bassa e piatta. «Devo farti vedere una cosa.» Con un cenno invitai Chris a sedersi. Quando lui avvicinò la sedia alla scrivania, mossi il mouse per riattivare il computer. Sullo schermo comparvero gli appunti
manoscritti di Hugh. Chris spostava gli occhi da sinistra a destra, leggendo in fretta. Mi accorsi quando capì cosa stava guardando. Si irrigidì. «Non so quanto di tutto questo sia vero» lo avvertii. «Gli appunti delle sedute con me sono tutte bugie. Sembra che volesse costruire un profilo di me da usare in sua difesa, nel caso in cui avessimo sporto denuncia contro di lui.» «Avremmo dovuto farlo» disse a denti stretti. «Come ti sei procurato questa roba?» «Non ha importanza. Quello che importa è che ci sono appunti di
quattro sedute con Christopher. Pare che una fosse una terapia di gruppo con me. O è una montatura, oppure l’ho dimenticato.» «Tu cosa pensi?» «Non sono in grado di dirlo. Ci sono... interi pezzi della mia infanzia che non riesco a richiamare alla memoria.» Ricordavo più nei sogni di quando ero sveglio. Chris si girò per guardarmi in faccia. «Credi che abbia molestato tuo fratello?» Mi ci volle un attimo per scacciare i ricordi e rispondere. «Non lo so... Dovresti chiederlo a Christopher... ma ne dubito.»
«Perché?» «La data e l’ora degli appunti di Hugh dicono che le sedute con Christopher si sono tenute subito dopo quelle con me. Se i timbri con la data sono corretti – cosa saggia, se stava cercando di coprire le proprie tracce – allora non lo avrebbe fatto con lui.» Incrociai le braccia. Il tentativo di dare una spiegazione mi riportò indietro tutta l’amarezza, e il disgusto... nei confronti sia di Hugh sia di me stesso. «Era un pezzo di merda malato, ma... senti, non c’è un modo gentile per dirlo. Quando aveva finito con me, non ce n’era
per nessun altro.» «Mio Dio... Gideon.» Distolsi lo sguardo dallo shock e dalla furia che gli ribollivano negli occhi. «Hugh ha detto a Christopher che mi vedeva perché tu e la mamma avevate paura che lo uccidessi.» Pensare alle altre persone presenti nell’attico fu l’unica cosa che mi trattenne dal tirare pugni contro il muro. Dio sapeva se non avevo dato sfogo alla mia rabbia in quel modo più di una volta da ragazzino. Anche se ricordavo poco di quel periodo, riuscivo a capire come il
lavaggio del cervello di Hugh potesse aver messo radici nella mente di un bambino il cui fratello maggiore aveva spesso attacchi di rabbia distruttiva. «Christopher non ci avrebbe creduto» affermò. Mi strinsi nelle spalle in un gesto di stanchezza. «Recentemente Christopher mi ha detto che lo volevo morto fin dal giorno in cui è nato. Non avevo idea di cosa stesse parlando, ma adesso...» «Fammi leggere» disse Chris cupo, tornando a guardare il monitor. «Va’ a farti quella doccia. Berremo un caffè quando avrai
finito. O qualcosa di più forte.» Feci per lasciare lo studio, ma mi fermai prima di aprire la porta. Guardai Chris e lo vidi concentrato sulle parole che aveva davanti. «Tu non conoscevi Hugh come lo conoscevo io» gli dissi. «Come riusciva a distorcere i fatti... a farti credere delle cose...» Chris alzò gli occhi e mi guardò. «Non devi convincermi, Gideon. Mi basta la tua parola.» Distolsi in fretta lo sguardo. Aveva una vaga idea di cosa significasse per me quello che aveva appena detto? Il nodo che mi chiudeva la gola mi impedì di
rivelarglielo. Gli feci un cenno del capo e me ne andai. Mi ci volle più del solito a vestirmi. Scelsi i capi pensando a Eva: i pantaloni grigi che le piacevano tanto, una T-shirt nera con lo scollo a V... Ecco fatto. Qualcuno bussò alla porta. «Avanti.» Nel vano comparve Angus. «I detective stanno salendo.» «Va bene.» Percorsi insieme a lui il corridoio che portava in salotto. Mia moglie era sul divano, con indosso un paio di pantaloni della
tuta e una felpa sformata, ai piedi solo dei calzini. Aveva la testa appoggiata alla spalla di Victor, che le posava la guancia sul capo, e con le dita accarezzava i capelli di Cary, seduto su un cuscino ai suoi piedi. Non avrebbero potuto essere più legati. Il televisore era acceso e trasmetteva un film che nessuno guardava. «Eva.» Mi percorse lentamente con lo sguardo. Le tesi la mano. «È arrivata la polizia.» Victor si raddrizzò, costringendo mia moglie a tirarsi su. Un colpetto
secco alla porta dell’atrio fece girare tutti. Mi avvicinai al divano, con il braccio teso. Eva si raddrizzò lentamente e si mise in piedi, il viso ancora troppo pallido. Mi prese la mano e io esalai un sospiro di sollievo. L’attirai a me, mettendole un braccio intorno alle spalle e baciandole la fronte. «Ti amo» le dissi dolcemente, guidandola verso la porta. Mi circondò la vita con le braccia e si appoggiò a me. «Lo so.» Abbassai la maniglia. «Detective. Avanti, prego.» La detective Graves entrò per
prima e i penetranti occhi blu si volsero subito in direzione di Eva. Michna la seguì e la sua statura, che sovrastava quella della collega, gli permise di guardarmi negli occhi. Mi indirizzò un brusco cenno della testa. «Mr Cross.» Eva si scostò da me mentre io chiudevo la porta. «Ci dispiace molto per la sua perdita, Mrs Cross» disse Graves, in quel modo da poliziotti da cui si intuisce che hanno detto quelle parole troppo spesso. «Forse ricordate il padre di Eva, Victor Reyes» dissi. «E lo scozzese alto laggiù è Angus McLeod.»
I detective annuirono, ma Graves prese il comando, come al solito. «Sono la detective Shelley Graves e questo è il mio partner, il detective Richard Michna.» Guardò Cary, con cui aveva parlato solo poche ore prima. «Mr Taylor.» Feci un gesto in direzione del tavolo da pranzo. «Accomodatevi.» Mia moglie si tirò indietro i capelli con le mani tremanti. «Posso offrirvi un caffè? Oppure dell’acqua?» «Un caffè sarebbe perfetto» rispose Michna, scostando una sedia. «Lo preparo io» intervenne Chris,
arrivando dal corridoio. «Salve, sono il patrigno di Gideon, Chris Vidal.» I detective lo salutarono e lui andò in cucina. Shelley Graves prese posto accanto al collega, appoggiando accanto a sé sul tavolo una cartella di pelle logora. Sebbene fosse sottile come un giunco, era forte. Aveva capelli castani e ricci, raccolti in una coda di cavallo severa come il viso volpino. I capelli di Michna erano grigi e si stavano diradando, il che metteva in risalto gli occhi scuri e i lineamenti marcati. La detective mi lanciò
un’occhiata mentre scostavo una sedia per mia moglie. Incontrai il suo sguardo e lo sostenni, vedendo che sapeva del mio crimine. In cambio, le mostrai la mia determinazione. Sì, avevo compiuto azioni immorali allo scopo di proteggere mia moglie. Ero padrone di quelle decisioni, anche di quelle che mi sarei portato nella tomba. Sedetti accanto a Eva, avvicinando la sedia alla sua e prendendole la mano. Victor si mise dall’altra parte, con Cary vicino. Angus rimase in piedi alle mie spalle. «Potete ripercorrere la serata, a
partire da quando siete arrivati all’evento?» chiese Michna. Iniziai io, dolorosamente consapevole dell’attenzione che Eva prestava a ogni mia parola. Si era persa solo gli ultimi momenti, ma sapevo che per lei quei minuti erano vitali. «Non ha visto chi ha sparato?» mi incalzò Michna. «No. Ho sentito Raúl urlare e ho gettato Eva a terra. Fa parte del protocollo della squadra di sicurezza evacuare al primo segnale di pericolo. Ci hanno scortati nella direzione opposta e io non mi sono guardato indietro. Ero concentrato
su mia moglie, che in quel momento era priva di conoscenza.» «Ha visto cadere Monica Stanton?» Eva mi strinse la mano. Scossi la testa. «No. Ho saputo che qualcuno era rimasto ferito solo parecchi minuti dopo che ce n’eravamo andati.» Michna guardò Eva. «A che punto ha perso conoscenza, Mrs Cross?» Lei si passò la lingua sulle labbra screpolate. «Sono caduta a terra con violenza. Gideon mi si è messo sopra, tenendomi giù. Non riuscivo a respirare, e poi qualcuno ha coperto Gideon. Erano così
pesanti... Penso di aver sentito due, forse tre spari. Quando sono rinvenuta, eravamo nella limousine.» «Okay.» Michna annuì. «Grazie.» La detective Graves aprì la cerniera della cartella e tirò fuori un fascicolo. Lo aprì, spostò la tazza e lo mise sul tavolo girato verso di noi. «Riconoscete quest’uomo?» Mi chinai. Biondo, occhi verdi, barba corta. Aspetto nella media. «Sì» disse Angus, e io girai la testa per guardarlo. «È il tizio che abbiamo visto a Westport, quello che faceva fotografie.» «Avremo bisogno di una sua
deposizione, Mr McLeod» lo informò Michna. «Naturalmente.» Si raddrizzò, incrociando le braccia. «È quello che ha sparato a Mrs Stanton?» «Sì. Si chiama Roland Tyler Hall. Ha mai avuto contatti con quest’uomo, Mr Cross? Ricorda di avergli mai parlato?» «No» risposi, frugando inutilmente nella memoria. Eva si protese in avanti. «Era uno stalker? Ossessionato da lei?» Pose le domande a bassa voce, la sofferenza muta resa affilata da una rabbia gelida. Era la prima scintilla che vedevo in lei da quando
le avevo dato la notizia. E in quello stesso momento mi venne in mente l’altra cosa che le stavo tenendo nascosta: il torbido passato di sua madre. Una storia intricata che forse era il motivo della sua morte. Shelley Graves tirò fuori altre foto, iniziando da quelle di Westport. «Non era da sua madre che Hall era ossessionato.» “Cosa?” Il terrore che provai si confuse con la paura che mi aveva attanagliato tutta la notte. C’erano una marea di immagini, era difficile concentrarsi su una sola. Diverse foto di noi due scattate fuori dal Crossfire. Alcune
prese a degli eventi, che assomigliavano a quelle standard dei paparazzi. Altre ancora di quando eravamo fuori città. Eva allungò la mano e ne sfilò una prendendola per un angolo, sussultando alla vista dello scatto di me che le davo un bacio appassionato su un marciapiede pieno di gente fuori da una palestra CrossTrainer. Era la prima foto di noi due diventata virale. Io avevo risposto alle domande della stampa confermando che lei era “la donna importante” nella mia vita e lei si era aperta con me parlandomi di
Nathan e del suo passato. C’era un’altra immagine di noi due che era circolata ampiamente, quella che ci ritraeva mentre discutevamo al Bryant Park. Un’altra foto nello stesso parco scattata in un giorno diverso ci mostrava abbracciati. Non l’avevo mai vista prima. «Non le ha vendute tutte, queste» dissi. Graves scosse la stessa. «La maggior parte delle foto Hall le ha scattate per sé. Quando aveva bisogno di soldi, ne vendeva qualcuna. Non lavorava da mesi e viveva in macchina.»
Sparpagliai le foto per guardarle meglio e mi resi conto che molte delle volte in cui Eva e io avevamo visto un fotografo si trattava di Hall. Mi appoggiai allo schienale della sedia, lasciando andare la mano di mia moglie per metterle un braccio intorno alle spalle e tirarmela più vicina. «Fatemele vedere» disse Victor. Le spinsi lungo il tavolo, facendo scivolare verso di lui quelle che stavano in cima al mucchio. Ciò che vidi sotto mi fece raddrizzare sulla sedia. Presi la fotografia ampiamente pubblicizzata di Magdalena e me che aveva
scatenato la famosa lite al Bryant Park. E un’altra di me e Corinne al party della vodka Kingsman. Mi si accelerò il respiro. Lasciai andare Eva e mi portai sul bordo della sedia per sfogliare le immagini con entrambe le mani. Cary si chinò per guardare da sopra la spalla di Victor. «Questo tizio è solo un pessimo tiratore, oppure ha confuso Monica con Eva?» «Lo stalking non era diretto a Eva» dissi seccamente, mentre l’orribile consapevolezza si faceva strada in me. Presi la foto che mi ritraeva insieme a due donne
scattata al nightclub. Risaliva a maggio, prima che Eva arrivasse a New York. La detective Graves incontrò il mio sguardo interrogativo e annuì: «Hall è ossessionato da lei, Mr Cross». Il che significava che non solo avevo tenuto nascosto quello che sapevo della vita di Monica, ma ero anche indirettamente responsabile della sua morte.
15
Avvicinandomi di più al tavolo, posai la mano sulla schiena di Gideon e avvertii tutta la sua tensione. La sua pelle era calda sotto il cotone leggero della T-shirt, e i muscoli erano tesi. Chris arrivò dalla cucina con un vassoio con quattro tazze di caffè fumante, un piccolo contenitore di latte e la zuccheriera. Si sedette di
fianco a Michna, perché il resto del tavolo da pranzo era ricoperto di fotografie. I detective lo ringraziarono e presero una tazza ciascuno: Graves lo preferì senza latte, mentre Michna ne aggiunse un po’, insieme a una spruzzata di zucchero. In precedenza avevo visto Michna solo durante l’indagine sulla morte di Nathan. Conoscevo meglio la detective Graves, perché era stata la mia compagna durante i corsi di krav maga di Parker. Credevo di piacerle, o di starle almeno simpatica, ed ero certa che era stato l’amore di Gideon nei miei
confronti che l’aveva indotta a chiudere il caso di Nathan anche se c’erano ancora domande a cui non era riuscita a dare risposta. Sapere che erano loro a occuparsi del nostro caso mi tranquillizzava. «Voglio essere sicura di aver capito» dissi, esternando la tristezza che mi aveva offuscato la mente per tutto il giorno. «Quest’uomo era uno stalker di Gideon?» Mio padre tolse le fotografie dal tavolo. «Hall aveva preso di mira mia figlia o Cross?» «Hall ritiene che Cross l’abbia
tradito sposandosi con Eva» rispose la detective Graves. La fissai. Non indossava alcun gioiello e non era truccata, ma aveva un certo fascino grintoso. Faceva ogni giorno a pugni con la dura realtà del suo lavoro, eppure aveva mantenuto una passione per la giustizia, anche quando a garantirla non era la legge. «Se lui non poteva avere Gideon, allora Gideon non avrebbe dovuto essere di nessun altro?» «Più o meno.» Guardò mio marito. «Hall crede che il proprio destino sia “profondamente legato” al suo per via di una specie di
congiuntura divina o astrale, e che il suo matrimonio rompa questo patto tra voi. Ucciderla, secondo lui, è l’unico modo per impedire alla propria vita di andare in una direzione che lui non vuole.» «Ma che senso ha tutto questo?» domandò Cary, appoggiando i gomiti al tavolo e prendendosi la testa tra le mani. «L’ossessione di Hall non è di natura sessuale» spiegò il detective Michna. Era scarmigliato e stanco perché aveva lavorato tutta la notte, eppure era incredibilmente attento e perspicace. La sua collega puntava il bersaglio, lui le guardava
le spalle. «E nemmeno di natura sentimentale. Hall dichiara di essere eterosessuale.» Graves tirò fuori un’altra foto dalla cartella e la mise in cima alle altre. «Conoscete entrambi questa donna, esatto?» “Anne.” Improvvisamente iniziarono a sudarmi le mani, e vidi che Gideon era teso come una corda di violino. «Che mi venga un colpo» mormorò Cary, sbattendo i pugni sul tavolo con un rumore talmente forte che mi fece sussultare. «L’ho vista ieri sera» disse Chris, sedendosi vicino a Gideon. «Era alla
cena, impossibile non notarla con quei capelli rosso fuoco.» «Chi è?» domandò mio padre, con voce calma e inespressiva. «La dottoressa Anne Leslie Lucas» rispose Shelley Graves. «È la psichiatra che aveva in cura Hall, anche se lo riceveva in uno studio diverso dal suo principale e si faceva chiamare Aris Matevosian.» Gideon sbuffò a denti stretti. «Questo nome l’ho già sentito.» La detective Graves lo incalzò, con lo sguardo fisso su di lui. «Come e quando?» «Un attimo solo e ve lo mostrerò.» Si allontanò dal tavolo e
sparì nel corridoio. Lo guardai uscire, e vidi che Lucky zampettava dietro di lui: mi era rimasto attaccato per gran parte della mattinata, come se pensasse che io avessi più bisogno di lui di quanto ne avesse Gideon, ma ora qualcosa era cambiato e, poiché il barometro emotivo di Lucky adesso era più preciso del mio, dovevo tenerne conto. «Qualcuno mi spiega chi è la dottoressa Lucas» domandò mio padre «e che cosa c’entra con Hall e Monica?» «Lasciamo che sia Cross a spiegarci tutto» disse Michna.
«Hanno avuto una storia, tempo fa» intervenni, con l’intenzione di alleviare Gideon dal peso di dover raccontare quella storia. Si vergognava di ciò che aveva fatto, ne ero sicura. Tirai su le gambe e mi strinsi le ginocchia al petto per cercare di scaldarmi. Sapevo che dovevo stare attenta a come parlavo: dire tutta la verità sarebbe stato difficile, soprattutto perché mio padre ne avrebbe ricavato un’immagine di mio marito non proprio lusinghiera. «Si è fatta coinvolgere troppo» continuai «e voleva lasciare il marito, allora Gideon l’ha mollata.
Lei non è stata in grado né di affrontare né tanto meno di superare la cosa. Una volta si è presentata davanti a casa mia e un paio di volte ha cercato di avvicinare Cary, indossando una parrucca e fingendo di essere un’altra persona.» La detective Graves mi rivolse uno sguardo penetrante e scaltro. «Abbiamo ricevuto la denuncia della dottoressa Lucas. Lei e Cross l’avete incontrata, separatamente, in due diverse occasioni.» «Eva!» Mio padre mi guardò infuriato, con gli occhi rossi e iniettati di sangue. «Quando
metterai un po’ di giudizio?» «Giudizio?» ribattei. «Continuo a non capire il senso di tutta questa faccenda. Lei perseguitava il mio migliore amico e mio marito, e le ho detto di stare alla larga.» Gideon ritornò e mostrò il suo smartphone, sul cui schermo c’era una foto. Michna la esaminò. «Una ricetta per Corinne Giroux scritta dalla dottoressa Aris Matevosian. Perché l’ha fotografata?» «C’è stato un periodo, qualche mese fa» rispose Gideon con tono inespressivo, tornando a sedersi vicino a me «in cui Corinne ha
iniziato a comportarsi in modo strano. Ho scoperto che era andata da un terapeuta che le aveva prescritto degli antidepressivi, che le causavano sbalzi d’umore. Ho fatto una foto dell’intestazione della ricetta, così avrei saputo chi contattare se lei avesse continuato ad avere problemi.» Gideon mi circondò con un braccio, inducendomi ad appoggiarmi a lui. Quando fui a contatto con il suo corpo, sentii che si rilassava, come se tenermi stretta a sé gli desse un grandissimo sollievo. Gli misi un braccio intorno alla vita e le sue
labbra mi baciarono sulla fronte. Mentre parlava, la voce rimbombava nel petto su cui tenevo posato l’orecchio. «Quindi Anne aveva in cura Hall» disse, con la voce roca e affaticata. «Perché il nome falso?» «Pensava di essere intelligente» disse la detective Graves senza troppi giri di parole. «Ma noi siamo più intelligenti di lei e abbiamo Hall, che ha sì una mente disturbata ma è molto collaborativo. Ha confessato nel momento stesso in cui ci siamo seduti per interrogarlo. È stato anche tanto accorto – o paranoico – da registrare di
nascosto tutte le sedute con la dottoressa Lucas: abbiamo recuperato le registrazioni quando gli abbiamo perquisito la macchina.» «È stata lei a montarlo?» domandai, per essere sicura di aver capito bene. «Non credo che Hall avesse tutte le rotelle a posto» disse Michna «ma aveva un lavoro, una casa e nessun interesse particolare per Cross. Anne Lucas l’ha raggirato come si deve.» Graves iniziò a raccogliere le foto con l’aiuto del collega. «Lui ha raccontato alla dottoressa che
aveva dovuto abbandonare la scuola quando la truffa di Geoffrey Cross aveva mandato in rovina i suoi nonni. Non era una cosa per cui serbava troppo rancore, ma lei gli ha messo in testa che la sua vita e quella di Cross erano in qualche modo collegate.» «E per questo può essere mandata in carcere?» chiesi, stringendomi più forte a Gideon. «Quel che ha fatto è uno dei motivi per cui mia madre è... morta. Non può farla franca, vero?» «L’abbiamo fermata e portata in centrale più o meno un’ora fa.» La detective Graves mi fissò e io vidi
quant’era determinata. «Quando arriverà il suo avvocato, la metteremo sotto torchio.» «Sarà il procuratore distrettuale a formulare con precisione i capi d’accusa» spiegò Michna «ma le registrazioni di Hall e i filmati delle telecamere di sorveglianza della Lucas e di Hall che entrano ed escono dal suo secondo studio sono tutti indizi contro di lei.» «Ci terrete aggiornati, spero» disse mio padre. «Certo.» Shelley Graves rimise tutto nella borsa e poi guardò Gideon. «Ha visto la dottoressa Lucas alla cena?»
«Sì» rispose lui, accarezzandomi il braccio. «Me l’ha fatta notare Eva.» «Qualcuno di voi due ha parlato con lei?» domandò Michna. «No.» Gideon abbassò lo sguardo su di me, con aria interrogativa. «Io le ho mostrato il medio, ma da lontano» confessai, sentendo il ricordo farsi strada nella mia mente offuscata. «Aveva un sorrisetto! Forse era lì proprio per vedere che cosa sarebbe successo.» «Angelo.» Gideon mi circondò con le braccia, avvolgendomi nel calore e nel profumo della sua pelle.
«Va bene. Abbiamo ottenuto quello che ci serve, per ora» tagliò corto la detective Graves. «Raccoglieremo la deposizione di Mr McLeod a proposito dei fatti di Westport e ce ne andremo. Grazie per la collaborazione.» L’incontro era finito, e tutti ci alzammo. «Eva.» Shelley Graves aspettò che i nostri sguardi si incontrassero. Per un attimo smise di essere un poliziotto. «Mi dispiace molto per sua madre.» «Grazie.» A disagio, distolsi lo sguardo. Si era chiesta il perché dei miei
occhi asciutti? Dio sapeva che io me l’ero chiesto. Mia madre certe volte mi faceva impazzire, ma le volevo bene. O no? Che razza di figlia non provava nulla quando sua madre moriva? Angus prese il posto lasciato da Gideon e iniziò a riferire cos’era successo a Westport. Gideon mi prese per mano e mi tirò in disparte. «Ho bisogno di parlare con te.» Aggrottai le sopracciglia e annuii. «Sì, certo.» Si avviò con me verso la nostra camera da letto. «Cross.»
Al suono della voce di mio padre, ci voltammo entrambi. «Sì?» Lui era in piedi nel salotto, con l’espressione dura e lo sguardo arrabbiato. «Dobbiamo parlare.» «Va bene» disse Gideon. «Mi lasci cinque minuti con mia moglie.» Proseguì verso la camera, senza dare a mio padre la possibilità di ribattere, e io lo seguii, mentre Lucky ci precedeva di corsa. Osservai Gideon mentre chiudeva la porta, una volta che fummo entrati tutti e tre. Poi si mise di fronte a me, frugandomi con lo sguardo. «Dovresti riposarti un po’» gli
dissi. «Mi sembri stanco.» E la cosa mi preoccupava. Non riuscivo a ricordare di averlo mai visto così provato. «Mi vedi?» chiese, con la voce rauca. «Quando mi guardi, mi vedi?» Aggrottai di nuovo le sopracciglia, squadrandolo dalla testa ai piedi. “Oh, si è messo i vestiti che mi piacciono, pensando a me.” «Sì.» Allungò una mano e mi toccò il viso, guardandomi con aria tormentata. «Ho la sensazione di essere invisibile per te.» «Io ti vedo.»
«Io...» Respirava affannosamente, come se avesse corso per chilometri. «Mi dispiace, Eva. Mi dispiace per la storia di Anne... e per ieri sera.» «Lo so.» Ed era vero, ovviamente. Era così sconvolto, molto più di me. Perché? Il mio autocontrollo non era mai buono quanto il suo, eccetto stavolta. Dal momento in cui avevo saputo la verità, avevo sentito una determinazione glaciale formarsi da qualche parte, nel profondo di me stessa. Non l’avevo capita, ma l’avevo usata per interagire con la polizia e anche con
mio padre e con Cary, che avevano bisogno che io fossi forte per loro. «Maledizione.» Venne vicino e mi prese il viso tra le mani. «Urla, colpiscimi, ma fai qualcosa per l’amor del cielo...» «Perché?» «Perché?» Mi fissava come se fossi pazza. «Perché è tutta colpa mia! Anne era un mio problema e non sono riuscito a gestirla. Non ho...» «Tu non sei responsabile delle sue azioni, Gideon» dissi bruscamente, dispiaciuta che la pensasse in quel modo. «Come fai a pensare una cosa del genere? Non
ha alcun senso.» Mi mise le mani sulle spalle e mi scosse leggermente. «Sei tu che non hai senso! Perché non sei furiosa per il fatto che non ti ho detto di tua madre? Quando ho assunto Mark senza dirtelo, sei andata su tutte le furie. Mi hai lasciato...» Gli si spezzò la voce. «Non lasciarmi per questo, Eva. Ci lavoreremo, troveremo il modo di superarlo.» «Non ti lascerò.» Gli accarezzai il viso. «Hai bisogno di dormire, Gideon.» «Oddio.» Mi venne vicino e mi prese la bocca, posando le labbra
sulle mie. Lo abbracciai, massaggiandogli la schiena nel tentativo di calmarlo. «Dove sei?» mormorò. «Torna da me.» Con le dita tremanti, esercitò una leggera pressione sulla mia mascella e mi fece aprire la bocca, vi infilò dentro la lingua e iniziò a muoverla forsennatamente, mentre mi stringeva forte a sé con un gemito. Mi sentii avvampare. Il calore della sua pelle bollente passava attraverso i vestiti e si diffondeva dentro di me. In preda a un bisogno disperato di qualcosa che mi
togliesse il gelo di dosso, risposi al suo bacio, accarezzandogli la lingua con la mia. «Eva.» Gideon mi lasciò andare, facendo scorrere le mani su di me e accarezzandomi la schiena e le braccia. Mi alzai sulla punta dei piedi e premetti con maggior forza la sua bocca. Infilai le mani sotto la sua camicia e lui emise un sibilo, inarcandosi contro di me nel tentativo di evitare il freddo intenso delle mie dita. Continuai a toccarlo, ad accarezzargli la pelle in cerca del suo calore. «Sì» ansimò contro la mia bocca.
«Oddio, Eva, ti amo.» Gli leccai le labbra e gli succhiai la lingua. Gideon emise un verso a metà tra il dolore e il sollievo, mentre mi posava le mani sulle natiche e mi stringeva a sé. Aderii al suo corpo, persa in lui. Era lui ciò di cui avevo bisogno. Non riuscivo a pensare a nient’altro, quando mi teneva avvinta a sé. «Dimmi che mi ami,» sospirò «che mi perdonerai. Tra una settimana, o tra un anno...» «Ti amo.» Staccò la bocca dalla mia, abbracciandomi così forte da togliermi il fiato. Ero sospesa da
terra, premuta contro di lui. «Mi farò perdonare» promise. «Troverò un modo.» «Ssh...» Annidato da qualche parte nella mia testa c’era lo sconcerto. Il dolore. Ma non sapevo se la causa fosse Gideon o mia madre. Chiusi gli occhi e mi concentrai sull’adorato, familiare aroma che emanava da lui. «Baciami.» Gideon girò la testa, le sue labbra trovarono le mie. Desideravo ardentemente un bacio ancora più forte e profondo, ma lui me lo negò. Quanto era stato appassionato il primo, tanto fu tenero e dolce
questo. Frignai in segno di protesta e gli infilai le mani tra i capelli per attirarlo più vicino a me. «Angelo,» mi disse, strofinando il naso su di me «tuo padre sta aspettando.» Oddio. Adoravo mio padre, ma il suo tormento, la sua rabbia impotente lo stavano consumando, e facevano soffrire anche me. Non sapevo come confortarlo o placarlo. C’era un vuoto dentro di me, come se non avessi più niente da dare a nessuno. Ma tutti avevano bisogno di me. Gideon mi rimise giù e mi frugò di nuovo con lo sguardo. «Lascia
che ti stia vicino. Non chiudermi fuori.» «Non sto cercando di farlo.» Mi girai, guardando verso il bagno. “C’è un asciugamano per terra. Perché è lì?” «C’è qualcosa che non va.» «Sì, tutto» disse lui, a denti stretti. «È tutto un casino e io non so più cosa fare.» «No, c’è qualcosa che non va dentro di me.» «Eva, come puoi dire una cosa del genere? Non c’è nulla che non va in te.» Mi prese il viso tra le mani e lo voltò verso di sé. «Ti sei tagliato.» Toccai la
piccola goccia di sangue secco sulla sua guancia. «Non ti capita mai.» «Non capisco cosa ti passa per la testa.» Si strinse a me. «Non so cosa fare» disse. «Non so davvero cosa fare.» Mentre tornavamo verso il salotto, Gideon mi teneva per mano. Mio padre, che era seduto sul divano, sollevò lo sguardo e poi si alzò. Jeans logori. Una T-shirt stinta dell’Università della California. Un’ombra di barba sul mento squadrato e volitivo. Gideon si era rasato. Come
avevo fatto a non capirlo vedendo il taglietto del rasoio? Come avevo fatto a non accorgermi che si era cambiato, che non indossava più lo smoking? Alcune cose le percepivo con insolita chiarezza, altre erano perse nella nebbia della mente. I detective se n’erano andati. Cary era rannicchiato contro un bracciolo del divano e dormiva, con la bocca semiaperta. Potevo sentire il suo leggero russare. «Possiamo andare nel mio studio» disse Gideon lasciandomi la mano e indicando il corridoio. Mio padre annuì con un brusco
cenno del capo e girò intorno al tavolino. «Dopo di te.» Gideon si incamminò e io gli andai dietro. «Eva.» La voce di mio padre mi fermò. Mi girai verso di lui. «Devo parlare con Cross a tu per tu.» «Perché?» «Devo dirgli cose che non hai bisogno di sentire.» Scossi lentamente la testa. «No.» Emise un verso di frustrazione. «Non intendo discuterne.» «Papà, non sono una bambina. Qualunque cosa tu debba dire a mio marito mi riguarda in qualche
modo, e penso che dovrei essere coinvolta anch’io.» «Per me va bene» disse Gideon, di nuovo al mio fianco. Mio padre serrò la mascella, passando lo sguardo da me a Gideon e viceversa. «D’accordo.» Entrammo nello studio di Gideon. Chris era seduto alla scrivania e stava parlando al telefono. Vedendoci entrare, si alzò. «Quando hai finito ci vediamo e ti spiego tutto» disse al suo interlocutore. «D’accordo, figlio mio, ne parliamo.» «Ho bisogno del mio studio per un minuto» lo informò Gideon,
quando Chris ebbe riattaccato. «Certo.» Ci guardò con aria preoccupata. «Organizzo qualcosa per il pranzo, abbiamo tutti bisogno di mangiare.» Chris uscì dalla stanza e gli occhi mi caddero su mio padre, che stava osservando attentamente il collage di foto appeso alla parete. Al centro ce n’era una di me che dormivo. Era un’immagine intima, il tipo di foto che un uomo scatta per ricordarsi di ciò che ha fatto con la persona che ama prima che lei si addormenti. Guardai le altre foto e notai quella di me e Gideon durante un evento mondano: adesso sapevo
che era stata scattata da Hall. Distolsi lo sguardo mentre un brivido mi correva lungo la schiena. Paura? Hall mi aveva portato via mia madre, ma quello a cui mirava davvero era Gideon. Adesso avrei potuto piangere mio marito. Al solo pensiero avvertii una stretta allo stomaco che mi fece piegare in due. «Angelo.» Mi raggiunse all’istante e mi costrinse a sedermi su una delle due sedie di fronte alla scrivania. «Che cosa succede?» Anche mio padre mi venne vicino e si chinò su di me, gli occhi sbarrati. Non comprendevo più i miei sentimenti,
ma riconoscevo i suoi: era spaventato per me, più in ansia del dovuto. «Sto bene» rassicurai entrambi, ma afferrai la mano di Gideon e la strinsi forte. «Hai bisogno di mangiare qualcosa» disse mio marito. «Anche tu» ribattei. «Prima sbrigate la faccenda tra voi, prima possiamo andare a pranzo.» Al solo pensiero del cibo mi venne la nausea, ma non dissi nulla. Erano entrambi già fin troppo preoccupati per me. Mio padre si raddrizzò. «Ho parlato con i miei familiari» disse a
Gideon. «Vogliono comunque venire ed essere presenti, per Eva e per me.» Gideon era appoggiato al bordo della scrivania e si passava una mano tra i capelli. «Ok. Li porteremo qui con l’aereo. Dovremo modificare il piano di volo.» «Te ne sarei grato» disse mio padre, a denti stretti. «Nessun problema. Non si preoccupi.» «E allora perché tu continui a essere pensieroso?» dissi a Gideon, notando la sua espressione accigliata. «È solo che... in strada adesso
c’è un tale casino. Possiamo fare entrare i tuoi familiari dal garage, ma se si sparge la voce che sono in città rischiano di trovarsi giornalisti e fotografi alle calcagna ovunque vadano.» «Non vengono per fare i turisti» fece notare seccamente mio padre. «Non era quello che intendevo dire, Victor.» Gideon sospirò stancamente. «Stavo solo pensando ad alta voce. Troverò una soluzione. Lo consideri cosa fatta.» Mi immaginai come doveva essere dabbasso, fuori dall’atrio, mia nonna e i miei cugini che cercavano di farsi largo in mezzo a
quella folla. Scossi la testa ed ebbi un’intuizione. «Se vogliono venire, dovremmo andare negli Outer Banks, come avevamo pianificato. Lì hanno già le stanze prenotate, è un posto tranquillo e riservato.» All’improvviso mi venne voglia di essere in spiaggia, di sentire il vento tra i capelli e la risacca che mi lambiva i piedi. Lì mi ero sentita viva, e volevo sentirmi viva di nuovo. «Abbiamo già organizzato il catering, c’è da bere e da mangiare per tutti.» Gideon mi guardò. «Ho chiesto a Scott di parlare con Kristine, abbiamo già disdetto tutto.»
«Ma sono passate solo poche ore. Probabilmente l’hotel non ha ancora avuto il tempo di assegnare le stanze ad altri. E il servizio di catering probabilmente aveva già tutto pronto, ormai.» «Davvero vuoi andare alla casa sulla spiaggia?» mi chiese piano. Annuii. Lì non c’erano ricordi legati a mia madre come in città. E se mi fosse venuta voglia di uscire per fare due passi, nessuno sarebbe venuto a seccarmi. «D’accordo, allora, ci penso io.» Guardai mio padre, sperando che andasse bene anche per lui. Era in piedi accanto a me, con le
braccia conserte e lo sguardo rivolto a terra. «Quello che è successo cambia ogni cosa, per tutti noi» disse alla fine. «Voglio trasferirmi a New York.» Colta di sorpresa, lanciai un’occhiata a Gideon e poi a mio padre. «Davvero?» «Mi ci vorrà un po’ per organizzarmi con il lavoro e vendere la casa, ma intendo mettermi subito all’opera.» Mi guardò. «Ho bisogno di stare più vicino a te, invece che dall’altra parte di questo maledetto Paese. Sei tutto quello che mi è rimasto.»
«Oh, papà, tu ami il tuo lavoro.» «Amo di più te.» «Che cosa pensa di fare per il lavoro?» gli chiese Gideon. Qualcosa nel suo tono richiamò la mia attenzione su di lui. Si era girato quel tanto che bastava per guardarci meglio in volto. Fissava mio padre con intensità. Nella sua espressione non c’era traccia della sorpresa che provavo io. «Era di questo che volevo parlarti» disse mio padre, il bel viso deformato da una smorfia. «Eva ha bisogno di un responsabile della sicurezza dedicato a lei» lo anticipò Gideon.
«Angus e Raúl sono al limite delle loro possibilità, e mia moglie necessita di una squadra tutta per lei.» Quando mi resi conto di quello che Gideon aveva detto, rimasi a bocca aperta. «Che cosa? No!» Mio marito aggrottò la fronte. «Perché no? Sarebbe la soluzione ideale. Nessuno mi dà la stessa fiducia di tuo padre quando si tratta di proteggerti.» «Perché è... strano, okay? Mio padre è un uomo indipendente. Sarebbe imbarazzante se fosse a libro paga di mio marito. Non è... giusto, e basta.»
«Angus è come un padre per me» ribatté Gideon. «E fa esattamente quel lavoro.» Alzò lo sguardo su mio padre. «Non per questo ho meno stima di lui. Si potrebbe dire che anche Chris, che dirige un’azienda che io controllo, lavora per me.» «È una cosa diversa» ribattei testardamente. «Eva.» Mio padre mi appoggiò una mano sulla spalla. «Se non mi faccio problemi io, non dovresti farteli neanche tu.» Lo guardai sbalordita. «Dici sul serio? Ci avevi già pensato prima che lui te lo proponesse?»
Annuì, sempre cupo in volto. «Ci penso da quando mi ha chiamato per... tua madre. Cross ha ragione, nemmeno io mi fido di qualcuno più che di me stesso per tenerti al sicuro.» «Al sicuro da cosa? Quello che è successo l’altra notte... non è qualcosa che capita tutti i giorni.» Non potevo pensarla diversamente. Vivere con la paura che Gideon potesse essere in pericolo in qualunque momento mi avrebbe fatta impazzire. Di certo non potevo convivere con l’idea di mettere a rischio la vita di mio padre. «Eva, in quest’ultimo anno ti ho
vista più in televisione, su Internet e sulle riviste che di persona, e per la maggior parte del tempo hai vissuto a San Diego.» La sua espressione si indurì. «A Dio piacendo, non sarai mai in pericolo, ma è un rischio che non posso correre. E poi Cross ha comunque deciso di assumere qualcuno: tanto vale che sia io.» «Davvero?» domandai, rivolta verso Gideon. Lui annuì. «Sì, ci stavo pensando sul serio.» «Non mi va.» «Mi dispiace, angelo.» Il tono con cui lo disse mi fece capire che
dovevo farmelo piacere. Mio padre incrociò le braccia. «Non accetterò nessun extra né un salario più alto di quello che prendono gli altri uomini.» Gideon si mosse e tirò fuori da un cassetto della scrivania alcuni fogli tenuti insieme da una graffetta. «Angus e Raúl hanno accettato di farle sapere quanto guadagnano. Ho anche messo per iscritto quello che potrebbe prendere lei, all’inizio.» «Non posso crederci» brontolai. «Eri già a questo punto e non mi hai detto nulla?» «Ci ho lavorato stamattina
presto. Il discorso non era venuto fuori prima d’ora e non ne avrei fatto parola se tuo padre non avesse manifestato l’intenzione di trasferirsi qui.» Questo era Gideon Cross: non perdeva mai un colpo. Mio padre prese i fogli, scorse il primo e poi guardò Gideon, incredulo. «Sul serio?» «Consideri che ho trascorso più anni della mia vita con Angus che senza di lui. E poi ha un ottimo addestramento militare e sotto copertura. In breve, quei soldi se li è guadagnati.» Gideon osservò mio padre voltare la pagina. «Raúl è con
me da meno tempo, dunque non è al livello di Angus, non ancora almeno. Anche lui però ha avuto un ottimo addestramento e ha molte competenze.» Mio padre fece un profondo respiro quando arrivò alla pagina successiva. «Ok, dunque questo sarebbe...?» «Più di quanto probabilmente si aspettava, ma quel prospetto le dà le informazioni che le servono per confrontare il salario che le offro con quello degli altri responsabili della sicurezza che lavorano per me. Come vede, è un compenso equo. Ovviamente ci si aspetta che
lei accetti di sottoporsi a un addestramento ulteriore e che ottenga tutti i permessi, le licenze e gli altri documenti necessari.» Vidi le spalle di mio padre rilassarsi e il suo viso distendersi. Anche la linea dura della bocca si era ammorbidita. Comunque l’avesse presa, era chiaro che per lui si trattava di una sfida. «D’accordo.» «Vedrà che è compresa anche una quota per l’alloggio» continuò Gideon, con il suo atteggiamento da magnate di fama internazionale a dispetto del tono distaccato. «Se vuole, c’è un appartamento libero e
arredato proprio accanto a quello in cui abitava Eva.» Mi morsi il labbro inferiore, sapendo che si riferiva all’appartamento che usava lui quando Nathan rappresentava una minaccia. Era il posto in cui ci eravamo incontrati di nascosto per settimane, quando facevamo finta di non stare più insieme. «Ci penserò» disse mio padre. «Un’altra cosa da tenere a mente» proseguì Gideon «è che sua figlia è mia moglie. Di certo terremo nella dovuta considerazione il suo ruolo nella vita di Eva, e lo rispetteremo. Ma
rispettare il suo ruolo di padre significa che non saremo mai sfacciati, non che rinunceremo alla nostra intimità.» Oddio. Mi afflosciai per l’imbarazzo. Lanciai un’occhiataccia a Gideon, e altrettanto fece mio padre. Mio padre impiegò un interminabile minuto per riprendersi e rispondere: «Lo terrò presente mentre rifletterò sul resto». Gideon fece un cenno di assenso. «Bene allora, c’è altro di cui dobbiamo parlare?» Mio padre scosse la testa. «Non adesso, almeno.»
Incrociai le braccia, ben sapendo che al momento giusto avrei avuto molte altre cose da dire. «Quando sei pronta per farmi a pezzi, sai dove trovarmi, angelo» disse mio marito offrendomi la mano. «Nel frattempo, vediamo di farti mangiare qualcosa.» Il dottor Petersen arrivò verso le tre, e sembrava un po’ nervoso. Farsi strada tra la folla sul marciapiede per entrare nel palazzo non era stato facile, evidentemente. Gideon lo presentò a tutti e io osservai la scena, cercando di valutare la sua reazione
nell’incontrare persone di cui aveva saputo cose molto intime. Mi disse poche parole, per farmi le condoglianze. Mia madre gli era simpatica e spesso, con mia grande frustrazione, si era dimostrato comprensivo verso il suo comportamento nevrotico. Sembrava che fosse commosso dalla sua morte, il che mi indusse a chiedermi che impressione gli facevo. Evidentemente non lo sapeva neanche lui. Faticai a rispondergli, quando mi chiese come stavo. Con Gideon si intrattenne più a lungo, ritirandosi con lui nella sala
da pranzo, dove iniziarono a confabulare a bassa voce. Dopo un po’ mio marito si girò verso di me e io capii che la loro conversazione era finita. Accompagnai il dottor Petersen all’ingresso e lo congedai, non prima di aver notato la mia borsetta sul tavolino. Quando recuperai il cellulare, trovai decine di chiamate perse e SMS di Megumi, Will, Shawna, del dottor Travis e persino di Brett. Avevo appena cominciato a leggere i messaggi e a rispondere, quando il telefono iniziò a vibrare. Una telefonata in arrivo. Vedendo il
nome di chi mi chiamava, lanciai un’occhiata a Cary e lo trovai intento a parlare con mio padre, così mi diressi verso la camera da letto. Guardando fuori dalla finestra, notai che era pomeriggio inoltrato. Di lì a poche ore sarebbe sceso il buio, a suggellare il primo giorno senza mia madre. «Ciao, Trey.» «Eva, io... Forse non dovrei disturbarti in un momento simile, ma ho visto il telegiornale e, prima che mi venisse il dubbio che forse non era una buona idea, ti stavo già chiamando. Volevo solo dirti che mi
dispiace tanto.» Mi sedetti su una delle poltroncine, rifiutando di pensare a che cosa urlavano i titoli dei giornali in quel momento. «Grazie per aver pensato a me.» «Non riesco a credere che sia successa una cosa del genere. Se posso fare qualcosa per te, dimmelo.» Appoggiai la testa pesante alla poltrona e chiusi gli occhi. Ripensai al bel viso di Trey, ai suoi dolci occhi nocciola e alla piccola sporgenza sul naso che rivelava che in passato doveva essersi rotto. «Senti, Trey, non voglio farti venire
i sensi di colpa, ma devi sapere che mia madre significava molto per Cary. Era come una madre putativa per lui, e adesso sta davvero male.» Sospirò. «Mi dispiace davvero.» «Avevo già intenzione di chiamarti, prima... di tutto questo» dissi, tirando su le gambe e incrociandole. «Per sapere come stai, ma non solo. Volevo dirti che so che devi fare ciò è meglio per te. Detto questo, se per caso pensi di voler stare con Cary, dovresti decidere in fretta. La porta si sta chiudendo.» «Fammi indovinare: si vede con
qualcuno» disse lui in tono piatto. «No, al contrario. Si sta prendendo del tempo per sé, per riconsiderare ciò che vuole. Sai che ha lasciato Tatiana, vero?» «Questo è ciò che dice lui.» «Se non gli credi, allora avete fatto bene a lasciarvi.» «Scusa.» Emise un sospiro di frustrazione. «Non volevo dire questo.» «Cary si sta riprendendo, e presto sarà pronto a voltare pagina. È qualcosa su cui devi riflettere.» «Non ho fatto altro che rifletterci. E non ho ancora una risposta.» Mi grattai la radice del naso.
«Forse ti stai facendo la domanda sbagliata. Sei più felice con lui o senza di lui? Se chiarisci questo, credo che il resto si chiarirà.» «Ti ringrazio, Eva.» «Per quanto può valere, tu e io abbiamo preso la stessa strada. Gideon e io dicevamo sempre che avremmo fatto funzionare le cose, però... Non so come dire...» Cercai le parole nella mia mente annebbiata. «Spavalderia. Testardaggine. Il nostro problema era in parte questo, sapevamo che era un castello di carte, ma non facevamo nulla per renderci più solidi. Mi capisci?»
«Sì.» «Entrambi, però, abbiamo fatto grandi cambiamenti, proprio come Cary per te. E grandi concessioni.» Sentii mio marito entrare in camera e aprii gli occhi. «Ne è valsa la pena, Trey» dissi a bassa voce. «Sono finiti i tempi in cui ci illudevamo e basta. Incontreremo ancora molti ostacoli da superare, e qualche volta la gente ci darà contro, ma quando diciamo che riusciremo a superare tutto, è la verità.» «Mi stai dicendo di dare una seconda possibilità a Trey.» Allungai una mano verso Gideon,
e mi sentii scaldare il cuore quando lui venne verso di me. «Dico che, secondo me, ti piacerà il modo in cui è cambiato. E, se gli andrai un po’ incontro, magari scoprirai che ne è valsa la pena.» Chris uscì poco dopo le sei per andare a cena con Christopher. Per qualche ragione, lui e Gideon si scambiarono una lunga occhiata quando mio marito lo accompagnò all’uscita. Feci finta di niente e non chiesi spiegazioni. Il loro rapporto era cambiato. La diffidenza che c’era tra loro in passato era sparita. Non avrei certo messo in
discussione quel cambiamento né spinto Gideon a pensarci più di tanto. Per lui era giunto il momento di prendere alcune decisioni con il cuore. Mio padre e Cary se ne andarono verso le nove, diretti al mio vecchio appartamento, perché nell’attico non c’era spazio per entrambi. Mio padre avrebbe dormito nella camera dove aveva fatto per l’ultima volta l’amore con mia madre? Come avrebbe potuto sopportarlo, se mai ci fosse riuscito? Quando Gideon e io ci eravamo allontanati, ero dovuta andare a stare a casa di Stanton. Nella mia
camera c’erano troppe cose che mi ricordavano Gideon e non avevo certo bisogno di essere tormentata dai ricordi di ciò che desideravo più di tutto al mondo, e che tuttavia temevo di non riuscire a ottenere. Gideon fece il giro dell’attico, spegnendo le luci, e Lucky lo seguì fedele. Notai che mio marito si muoveva con un’andatura più pesante del solito: era stanchissimo. Non sapevo come avesse fatto a stare in piedi fino a quell’ora, visto quant’era stato preso dopo quella mattinata infernale: coordinarsi con Kristine, rispondere alle chiamate di Scott,
aggiornare Arash sull’incontro con la polizia. «Angelo» mi disse tendendomi la mano. Rimasi a guardarla per un attimo. Per tutto il giorno non aveva fatto altro che offrirmi la sua mano. Un gesto semplice, che però aveva un significato profondo. “Sono qui con te” diceva. “Non sei sola. Insieme possiamo farcela.” Mi alzai dal divano, intrecciai le dita alle sue e mi lasciai accompagnare in bagno, dove compii gli abituali gesti di lavarmi i denti e rinfrescarmi il viso. Lui, in più, prese una delle compresse che
gli aveva prescritto il dottor Petersen. Poi lo seguii in camera e lasciai che mi spogliasse e mi infilasse una T-shirt. Mi abbracciò e mi diede un bacio lento e tenero. «Dove vai?» gli chiesi, quando vidi che si allontanava. «Da nessuna parte.» Si spogliò con brusca efficienza, tenendosi addosso i boxer. Poi mi raggiunse a letto, fece salire Lucky e spense la luce. Si girò verso di me, mi prese per la vita e mi attirò a sé, abbracciandomi. Gemetti piano nel sentire il calore del suo corpo e rabbrividii per il contrasto con il
freddo che sentivo nelle ossa. Chiusi gli occhi, e mi concentrai sul rumore del suo respiro e sulla sensazione che mi dava. Dopo pochi istanti il ritmo era diventato regolare. Si era addormentato. Il vento mi spettina i capelli mentre cammino sulla spiaggia. I piedi affondano nella sabbia, e i flutti cancellano le mie impronte. Davanti a me vedo le scandole segnate dal tempo della casa sulla spiaggia che Gideon ha comprato per noi: è una palafitta che si erge sulle onde, con tante finestre affacciate sull’acqua che si stende a
perdita d’occhio. I gabbiani volano in cerchio e stridono sopra di me, scendono in picchiata e si fermano a mezz’aria come se danzassero nell’aria che profuma di sale. “Non posso credere che mi perderò la festa.” Mi giro e vedo che mia madre sta camminando dietro di me. Indossa lo stesso vestito elegante dell’ultima volta che l’ho vista. È di una bellezza mozzafiato: la guardo e mi vengono le lacrime agli occhi. “Mi sa che ce la perderemo tutti” le rispondo. “Lo so. E pensare che mi sono fatta in quattro per organizzarla.”
Mi guarda, con le punte dei capelli che le accarezzano le guance. “Sono persino riuscita a metterci dei tocchi di rosso.” “Davvero?” le dico, sorridendo nonostante il dolore che provo. Lei mi vuole bene nel modo migliore che conosce. Solo perché certe volte non è il modo che vorrei io non significa che non sia prezioso. “È un colore sgargiante per un matrimonio, comunque. Non è stato facile abbinarlo.” “Un po’ è colpa tua, sai. Sei stata tu a comprare il vestito rosso che ho indossato al primo appuntamento con Gideon.”
“È stato quello a ispirarti?” Scuote la testa. “La prossima volta dovresti scegliere un colore più sobrio.” “Non ci sarà una prossima volta. Gideon è l’uomo giusto.” Prendo una conchiglia e la ributto nell’acqua da cui è venuta. “C’è stato un tempo in cui non ero sicura che ce l’avremmo fatta, ma ora è tutto passato. Eravamo noi i nostri peggiori nemici, ma il peso che ci portavamo appresso ora ce lo siamo lasciati alle spalle.” “I primi mesi di solito sono i più facili.” Mia madre danza davanti a me, facendo una piroetta
aggraziata. “Il corteggiamento, i viaggi da sogno, i gioielli scintillanti.” Io sbuffo. “Per noi non è stato facile: l’inizio è stata la parte più dura, ma adesso va migliorando di giorno in giorno.” “Dovresti aiutare tuo padre a trovare una donna” dice lei, senza più quel tono da ragazzina. “È solo da troppo tempo, ormai.” “È difficile trovare una che prenda il tuo posto. Lui ti ama ancora.” Mi fa un sorriso triste, e poi i suoi occhi si perdono a guardare l’acqua. “Io avevo Richard... È un
brav’uomo, mi auguro che riesca a essere di nuovo felice.” Penso al mio patrigno, e mi preoccupo. Mia madre era tutto per lui. Dove troverà un po’ di gioia, adesso che lei se ne è andata? “Non sarò mai nonna” dice, pensierosa. “Sono morta giovane, nel pieno del mio splendore. Non è così terribile, vero?” “Come puoi chiedermi una cosa del genere?” Lasciai scorrere le lacrime. Per tutto il giorno mi ero fatta domande sul perché non riuscivo a piangere. Adesso che le lacrime era finalmente spuntate le accolsi con gioia. Era come se fosse
crollata una diga. “Non piangere, tesoro.” Si ferma e mi abbraccia, l’aria che respiro si riempie del suo profumo. “Vedrai che...” Mi svegliai di soprassalto, scossa da un sussulto di sorpresa. Lucky iniziò a uggiolare e a toccarmi con le zampe, salendomi sulla pancia. Gli accarezzai la testa morbida con una mano e con l’altra mi asciugai gli occhi, in cui però non c’era traccia di lacrime. Il dolore provato nel sogno si stava già trasformando in un lontano ricordo. «Vieni qui» mormorò Gideon, la
sua voce calda e roca un faro nella stanza illuminata dalla luna. Mi abbracciò, attirandomi a sé. Mi girai, cercai la sua bocca e quando la trovai mi fusi con lui in un bacio profondo e lascivo. Sorpreso, rimase immobile per un attimo, poi mi cinse la nuca con una mano e ricambiò il mio bacio. Intrecciai le mie gambe alle sue, sentendone i peli ruvidi, la pelle deliziosamente calda e i muscoli forti. I movimenti ritmici e delicati della sua lingua mi calmavano e mi eccitavano al tempo stesso. Nessuno sapeva baciare come lui. La seducente esigenza della sua
bocca era incredibilmente sensuale, e nel contempo tenera, devota. Le sue labbra erano forti e dolci e sapeva come usarle per stuzzicarmi, sfiorandomi leggermente la bocca. Misi le mani tra noi, e gli presi il pene in mano, accarezzandolo forte, con un desiderio che rispecchiava il suo. Mentre lo toccavo, diventava sempre più duro, finché non spuntò ben visibile sotto l’elastico dei boxer. Gemette, spingendo in avanti il bacino al ritmo delle mani che lo accarezzavano. «Eva.» Percepii la domanda nel modo in
cui pronunciava il mio nome. «Fammi godere» sussurrai. Mi infilò una mano sotto la maglietta, sfiorandomi delicatamente la pancia per arrivare al seno. Lo strinse forte, fino a farmi male, prima di prendermi il capezzolo tra le dita sapienti. Conosceva il mio corpo con una precisione perversa, per cui mentre mi titillava la punta dura ed eretta del seno faceva fremere tutto il mio corpo di desiderio. Gemetti, eccitata e travolta dal desiderio. Strinsi le gambe intorno alle sue, per poter strusciare il mio sesso bagnato contro la sua coscia.
«Ti fa male la fichetta, angelo?» Dopo aver detto quelle parole già di per sé seducenti, mi mordicchiò le labbra. «Che cosa vuole? La mia lingua? Le mie dita? Il mio cazzo?» «Oh Gideon» gemetti spudoratamente quando si staccò da me, tendendo le braccia verso di lui mentre si alzava su di me. Con un piccolo verso rassicurante, posò delicatamente Lucky a terra. Poi mi mise le mani sui fianchi, e mi abbassò gli slip fino alle ginocchia. «Non mi hai risposto, Eva. Che cosa vuoi che ti metta in quella fichetta vogliosa? Tutto quello che ho detto sopra?»
«Sì» ansimai. «Tutto.» Un istante dopo avevo le gambe sollevate e lui stava abbassando la testa scura sulle mie parti sensibili in mezzo alle cosce. Trattenni il respiro, in attesa. Piegata com’ero, non riuscivo a vedere... La sua lingua di velluto, umida e calda, si insinuò nei miei recessi più intimi. «Oddio.» Mi tesi e mi inarcai. Gideon mormorava di piacere, io lottavo nel tentativo di alzare i fianchi e raggiungere l’estasi di quella bocca maliziosa. Mi teneva ferma stringendomi le cosce e mi gustava piano, seguendo il suo
ritmo, mi leccava tutt’intorno alla fessura umida... giocava con il mio desiderio di sentire la sua lingua dentro di me. Mi accarezzava con le labbra intorno al clitoride che pulsava, succhiandolo e sfiorando piano con la lingua quel punto così sensibile al piacere. «Oh, ti prego...» Non mi importava che mi costringesse a implorarlo: più mi davo a lui, più avrei ricevuto in cambio. Ma lui mi faceva aspettare mentre mi assaporava, sfiorandomi con i capelli la pelle morbida dietro le cosce e massaggiandomi con la lingua il clitoride in modo lento e
delizioso. Mi portai le mani sul viso. «È così bello... ti prego, non smettere...» Spalancai la bocca appena lui scese a leccarmi più in basso, immergendo la punta della lingua nella fessura tremante del mio corpo... e poi ancora più giù, fino a infilarla nella stretta rosetta che fremeva sotto quella carezza di seta. «Oh!» ansimai, quasi impazzita sotto quel bombardamento di sensazioni, dopo ore di torpore. I suoi grugniti mi fecero rabbrividire e inarcai il corpo quando finalmente mi diede ciò che
volevo e cominciò ad affondare la lingua tesa nella fessura umida con un ritmo deliziosamente lento. «Oh, sì» ansimai. «Fottimi.» La sua bocca era dolcissima, fonte di estasi e tormento; la sua lingua viziosa e sensuale sferrava un assalto dopo l’altro, affondando sempre di più nella stretta del più delicato dei miei muscoli. Gideon era teso e concentrato a leccarmi, così avido e goloso da farmi contorcere per l’incredibile estasi che mi scuoteva il corpo. Prima sentii una leggera pressione e poi il suo pollice si insinuò nel mio posteriore e cominciò a scoparmi il
buco morbido. Mi sentivo riempita, ed era un piacevole contrasto con i colpi regolari della sua lingua. Mi irrigidii, e rimasi per un attimo sospesa sull’orlo dell’orgasmo... Gridai il suo nome, il mio corpo bruciava, la pelle era calda e umida. Il piacere mi rendeva viva, ardente di desiderio. L’orgasmo mi travolse completamente, mi lacerò, ma Gideon non si placava e con la lingua continuava a sferzare il mio clitoride: ormai passavo da un orgasmo all’altro. Singhiozzai mentre continuavo a venire senza sosta. Mi premetti i pugni sugli occhi. «Basta» lo
implorai con la voce roca. Ero tutta un tremito, il mio corpo era scosso dagli spasmi dell’ennesima ondata di piacere. «Non ce la faccio più.» Sentii il materasso piegarsi quando lui si mosse, tenendomi le caviglie con una mano. Udii lo schiocco dell’elastico dei boxer mentre se li abbassava. «Come lo vuoi?» mi chiese cupamente. «Lento e dolce? Veloce e rude?» “Oddio...” Riuscii ad articolare una risposta, nonostante le labbra secche: «Profondo. Forte». Si sistemò sopra di me,
spingendomi le gambe all’indietro finché non mi ritrovai piegata in due. «Ti amo» mi assicurò in modo appassionato e ruvido. La punta turgida del suo grosso pene si immerse dentro di me, facendosi largo là dove la mia carne era già gonfia e morbida. Piegata com’ero, con le gambe legate dagli slip all’altezza delle ginocchia, lo sentivo fino in fondo, enorme. Era così grosso che mi aprì con la forza, e l’impeto con cui mi prese mi causò dolore nel punto in cui ero più sensibile. E non era ancora finita.
Chiamando il mio nome con un ruggito, Gideon mosse i fianchi, entrando e uscendo da me, penetrandomi con sempre maggiore foga. «Lo senti, angelo?» mi chiese, la voce impastata dal desiderio. «Ti sento tutto» gemetti, cercando di muovermi e di accoglierlo ancora più in profondità. Lui però continuava a tenermi ferma mentre mi scopava con implacabile sapienza. Oh, sentirlo dentro di me... così duro... i colpi incessanti eppure calmi... Mi aggrappai con le dita alle lenzuola, il mio sesso si avvolgeva
freneticamente intorno a lui, risucchiava avido e famelico la grossa punta del suo pene. Ogni volta che si ritraeva mi lasciava svuotata, ogni volta che scivolava dentro di me, grosso e caldo, il piacere mi scorreva nelle vene come una droga. «Eva. Accidenti!» Gideon incombeva su di me nel chiarore della luna, un angelo caduto tenebroso e sensuale. Il suo volto stupendo era una smorfia di lussuria mentre mi accarezzava con gli occhi. Le sue braccia erano irrigidite dal desiderio inappagato, il suo addome era scolpito dalla
tensione dei muscoli. «Continua a risucchiarmi il cazzo con quella fichetta stretta e mi farai venire. È quello che vuoi, angelo? Vuoi che ti riempia tutta o vuoi prenderne ancora un po’?» «No!» sospirai, cercando di rilassare l’avida stretta della mia parte più intima. Gideon mosse i fianchi e affondò dentro di me, sibilando mentre lo prendevo sempre più in fondo. «Oddio, Eva, la tua fica adora il mio cazzo.» Si aggrappò alla testiera del letto e si allungò sopra di me, tenendo le mie gambe intrappolate in mezzo a
noi. Ero completamente aperta ed esposta per il suo piacere, e non potevo fare altro che osservarlo mentre contraeva i fianchi per affondare gli ultimi centimetri del suo pene dentro di me. Esalai un aspro gemito, travolta da un piacere così intenso da risultare doloroso. In lontananza, udii Gideon imprecare e sentii il suo corpo formidabile rabbrividire. «Stai bene?» mi chiese, a denti stretti. Io cercavo di riprendere fiato, con i polmoni che si espandevano il più possibile. «Eva.» Pronunciò il mio nome
con un ruggito. «Ti. Senti. Bene?» Incapace di parlare, allungai una mano e afferrai i suoi boxer. Per un attimo pensai a quanto fosse erotico il fatto che nessuno dei due era completamente svestito... Poi Gideon iniziò a scoparmi, i fianchi che si muovevano a un ritmo inarrestabile, il cazzo lungo e duro che entrava e usciva da me, dalla punta alla radice, sempre più velocemente. Si reggeva sulle mani e sulle dita dei piedi e mi penetrava con forza, inchiodandomi al materasso. Venni con una tale intensità che la vista mi si offuscò. Il mio corpo
era scosso da un piacere così intenso che mi attanagliava, tenendomi sospesa tra le potenti onde di quella sensazione erotica. Fui travolta dall’impeto spasmodico del piacere. La pelle mi formicolava. Gideon si fermò, tutto dentro di me, dando al mio corpo la possibilità di accogliere fino in fondo il suo membro duro come il marmo. Il mio sesso si aprì e si chiuse con spasmi estatici intorno a quella deliziosa durezza, e lo strinse, pieno di desiderio. «Cazzo!» proruppe Gideon «Così mi fai venire.» Boccheggiai, alla spasmodica
ricerca di aria. Quando mi abbandonai sul materasso, sazia, Gideon uscì dal mio corpo tremante e scese dal letto. Mi sentivo persa, e gli tesi una mano. «Dove vai adesso?» «Aspettami» mi disse, togliendosi i boxer. Il suo pene eretto e fiero era ancora bagnato del mio orgasmo, ma io non ero ancora stata riempita dal suo. «Non sei venuto.» Ero troppo esausta per aiutarlo mentre mi sfilava le mutandine. Mettendomi una mano sotto la schiena, mi sollevò e mi tolse la maglietta
Mi sfiorò la fronte con un bacio. «Tu lo volevi veloce e rude. Io lo voglio lento e dolce.» Mi sovrastò di nuovo, questa volta appoggiandosi alla base formata dalle mie braccia e dalle gambe aperte. Nel momento in cui avvertii il suo peso, il suo calore e il suo desiderio, capii quanto anch’io lo volessi lento e dolce. E alla fine arrivarono le lacrime, liberate dal calore della sua passione e del suo amore. «Tu sei tutto per me» gli dissi, le parole soffocate dal pianto. «Eva.» Muovendo i fianchi, Gideon
posizionò la punta del pene sul mio sesso e spinse leggermente, penetrandomi piano e con dolcezza. Appoggiò le labbra alle mie, e il tocco della sua lingua era persino più sensuale del suo membro che scivolava dentro di me. «Stringimi» sussurrò, con le mani curve sotto le mie spalle e le mani che mi sorreggevano la base del collo. Serrai la presa su di lui. Le sue natiche si contrassero contro i miei polpacci, mentre mi penetrava; il suo sudore mi bagnava le mani mentre gli accarezzavo la schiena. «Ti amo» mormorò,
asciugandomi le lacrime con la punta delle dita. «Riesci a sentirlo?» «Sì.» Vidi il suo viso illuminarsi di piacere, mentre continuava a muoversi dentro di me. Lo abbracciai mentre gemeva, il corpo scosso dai fremiti dell’orgasmo. Gli asciugai le lacrime con i baci, quando pianse silenziosamente insieme a me. E, nel rifugio delle sue braccia, lasciai andare la pena che provavo nella consapevolezza che, nella gioia e nel dolore, Gideon era, per sempre, insieme a me.
«Non riesco a capacitarmi di questo posto.» Con le mani appoggiate alla ringhiera della piattaforma di legno che circondava la casa, Cary teneva lo sguardo rivolto verso il mare. Gli occhi erano riparati dagli occhiali da sole e il vento gli scompigliava i capelli. «Questa casa è straordinaria, sembra di essere lontani da tutto e da tutti. E la vista è... fottutamente incredibile.» «Vero?» Ero rivolta verso la casa, con il sedere appoggiato alla ringhiera. Attraverso la vetrata potevo vedere i Reyes che sciamavano come api per la cucina
e il salone, mentre Gideon era tenuto prigioniero da mia nonna e dalle mie due zie. Per me l’atmosfera festosa era guastata dal pensiero che mia madre non aveva mai davvero fatto parte di questo gruppo allargato, e adesso non ne aveva più la possibilità. Ma la vita andava avanti. Due dei miei cugini più giovani inseguivano Lucky intorno ai divani mentre i tre più grandi giocavano ai videogame con Chris. Mio padre chiacchierava con mio zio Tony nella zona lettura e intanto faceva saltellare il nipotino più piccolo sulle
ginocchia. Gideon era il tipo che temeva la famiglia più di ogni altra cosa e la sua espressione preoccupata esprimeva divertimento misto a costernazione ogni volta che notava il caos che lo circondava. Lo conoscevo così bene che riuscivo a scorgere anche una leggera traccia di panico nei suoi occhi, ma non potevo salvarlo: mia nonna non gli permetteva di allontanarsi. Cary si girò per vedere che cosa aveva attirato la mia attenzione. «Mi aspetto che il tuo uomo da un momento all’altro se la svigni e si metta a correre come un dannato.»
Scoppiai a ridere. «Per questo ho chiesto anche a Chris di venire, così può dargli un po’ di sostegno.» Il nostro gruppo – io, Gideon, Cary, mio padre e Chris – era arrivato alla spiaggia intorno alle dieci del mattino. Poco dopo mezzogiorno furono portati lì dal loro albergo anche i familiari di mio padre, con un carico di provviste per consentire a mia nonna di preparare il suo famoso pozole. Lei diceva che era in grado di alleviare il dolore anche alle anime più tormentate. Vero o no, potevo testimoniare che la sua interpretazione della classica zuppa
di maiale messicana era davvero deliziosa. «Chris sta per abbandonarlo al suo destino» biascicò Cary, «proprio come hai fatto tu.» «Ma cosa posso fare? Oh, mio Dio» dissi sorridendo. «La nonna gli ha appena messo un grembiule da cucina.» All’arrivo dei miei parenti ero un po’ nervosa. Da piccola non avevo passato molto tempo con la famiglia di mio padre e dopo aver cominciato l’università avevo fatto solo un paio di scappate in Texas con lui. Ogni volta che ero andata a trovarli, i Reyes erano sempre stati
molto riservati con me, tant’è che mi ero chiesta se non assomigliavo troppo alla donna che, come tutti sapevano, aveva spezzato il cuore di papà. Una volta avevano anche conosciuto mia madre e non l’avevano affatto approvata: secondo loro, mio padre puntava troppo in alto e quella storia non sarebbe finita bene. E così, quando la nonna era arrivata e, puntando direttamente su Gideon, gli aveva preso il viso tra le mani, avevo trattenuto il respiro, e lo stesso aveva fatto lui. La nonna gli aveva scostato i capelli dal volto e dopo avergli
girato la testa da una parte e dall’altra aveva dichiarato che in lui vedeva molte cose di mio padre. Gideon capiva lo spagnolo e in quella lingua le aveva risposto che le sue parole per lui erano un grandissimo complimento. Mia nonna era rimasta estasiata e da quel momento aveva cominciato a parlargli in uno spagnolo serratissimo. «Ieri mi ha chiamato Trey» buttò lì Cary. Lo guardai. «Davvero? E come è andata?» «Gli hai detto qualcosa per convincerlo a farsi vivo, piccola?»
Cercando di assumere un’aria innocente, gli risposi: «Ma come ti viene in mente una cosa del genere?». Mi lanciò uno sguardo d’intesa e fece una smorfia. «Allora è andata così.» «Gli ho solo detto che non saresti rimasto ad aspettarlo in eterno.» «Eh, già.» Anche lui cercò di assumere un’aria innocente. Mi augurai che la mia fosse risultata più convincente. «Lo sai che non mi faccio troppi scrupoli quando si tratta di una scopata consolatoria, vero? Dunque grazie per avermi procurato un gancio.»
Gli diedi un colpetto sulla spalla. «Dici un sacco di stronzate.» Nelle ultime settimane qualcosa era cambiato in Cary. Non aveva reagito ripiombando nei suoi soliti meccanismi autodistruttivi e, poiché reggeva bene anche così, speravo che non ci sarebbe più ricaduto. «Hai ragione.» Mi lanciò uno dei suoi sorrisi smaglianti, e stavolta era autentico, non la sbruffoneria di facciata che conoscevo fin troppo bene. «Anche se in realtà il pensiero di scoparmi Trey è certamente una tentazione. Immagino che sia una tentazione anche per lui, per cui dovrei usare
la cosa a mio vantaggio.» «Avete deciso di incontrarvi?» Annuì. «Verrà con me alla veglia funebre a casa di Stanton, lunedì prossimo.» «Oh.» Una fitta di dolore mi fece sospirare. Quella mattina presto Clancy aveva chiamato Gideon per informarlo proprio di questo. Avrei dovuto cercare di occuparmi io della veglia, risparmiandola al povero Stanton? Non lo sapevo. Stavo ancora cercando di accettare il fatto che mia madre era morta davvero. Dopo che la notte prima avevo pianto per ore, i sensi di colpa si
erano attenuati. C’erano tante cose che avevo detto a mia madre e di cui adesso ero pentita, ma non potevo più rimediare; e tante volte avevo pensato a lei con frustrazione e mancanza di rispetto. A posteriori, era un’ironia della sorte che la sua colpa più grande fosse stata di amarmi troppo. Proprio come il mio patrigno aveva amato lei: esageratamente. «Ho provato a chiamare Stanton» dissi. «Ma c’è sempre la segreteria telefonica.» «Anch’io.» Cary si massaggiò il mento non rasato. «Mi auguro che stia bene, ma probabilmente
soffrirà come un cane.» «Ci vorrà del tempo prima che tutti ci riprendiamo.» Restammo in silenzio per un po’, poi Cary disse: «Stamattina, prima di andare in aeroporto, ho parlato con tuo padre. Mi ha detto del suo progetto di trasferirsi a New York». Arricciai il naso. «Mi piacerebbe averlo più vicino, ma non riesco a fare a meno di pensare quanto sarebbe bizzarro se lavorasse per Gideon.» Cary annuì lentamente. «Be’, in effetti...» «Tu cosa ne pensi?» Si voltò verso di me. «Nel mio
caso è bastata la gravidanza a cambiarmi la vita, giusto? Nel tuo caso, moltiplica la cosa per ventiquattro anni, e direi che un genitore amorevole farebbe di tutto per migliorare la vita del proprio figlio.» Eh, sì, qualcosa era davvero cambiato in Cary. A volte ci vuole un bello scossone per darti una spinta nella direzione giusta. Per Cary era stato il pensiero di diventare padre; per me l’incontro con Gideon; e per Gideon la possibilità di perdermi. «Comunque» continuò Cary. «Mi diceva che Gideon gli paga
l’alloggio, e lui pensava che gli piacerebbe vivere nell’appartamento con me.» «Wow, d’accordo.» C’erano alcune cose da elaborare, qui. La prima: mio padre evidentemente stava prendendo sul serio l’idea di lavorare per Gideon a New York. La seconda: il mio migliore amico stava pensando di vivere separatamente da me, e io non ero sicura di come la cosa mi facesse sentire. «Temevo che per papà sarebbe stata dura dormire in quella stanza dopo che lui e la mamma... Hai capito, no?» Credevo che non sarei riuscita a
rimanere nell’attico se non avessi più avuto Gideon: lì erano successe troppe cose tra noi, e non sapevo se ce l’avrei fatta a sopportare il ricordo di ciò che non avevo più. «Sì, ci ho pensato anch’io.» Cary mi accarezzò una spalla, un gesto semplice, consolatorio. «Ma, sai, in fondo i ricordi sono da sempre tutto ciò che Victor ha davvero avuto di Monica.» Annuii. In tutti quegli anni mio padre doveva essersi chiesto più volte se l’amore fosse sempre stato solo da parte sua, e forse dopo quel pomeriggio con mia madre aveva capito che non era così. Era un bel
ricordo a cui aggrapparsi. «Dunque stai pensando di restare lì» dissi. «La mamma mi aveva detto di averti offerto questa possibilità.» Mi fece un sorriso venato di malinconia. «Sì, ci sto pensando. In un certo senso è più semplice, se ci sarà anche tuo padre. L’ho avvisato che probabilmente ogni tanto ci sarà anche un bimbo piccolo, ma ho avuto l’impressione che l’idea non gli dispiacesse.» Guardai di nuovo dentro la casa e vidi mio padre che faceva facce buffe per divertire il mio cuginetto. Era l’unico dei suoi fratelli ad aver
avuto solo un figlio, e io ero ormai adulta. Mi accigliai nel vedere Gideon dirigersi verso l’ingresso. Dove andava con un grembiule da cucina addosso? Aprì la porta e rimase immobile per un lungo minuto. Capii che qualcuno doveva aver bussato, ma non potevo vedere chi era perché mio marito mi bloccava la visuale. Poi, finalmente, si spostò. Cary stava cercando di capire che cosa avesse attirato la mia attenzione e fece una smorfia. «E lui che cosa ci fa qui?» Me lo chiesi anch’io, vedendo
entrare il fratello di Gideon. Alle sue spalle comparve anche Ireland, con un pacco dono in mano. «Cosa c’entra il pacco?» chiese Cary. «Sarà il classico regalo di nozze che finisce dritto nella spazzatura?» «No.» Avevo notato il disegno sulla carta, troppo colorato e allegro per un regalo di nozze. «È un regalo di compleanno.» «Oh, merda» mormorò Cary. «Me n’ero completamente dimenticato.» Quando Gideon chiuse la porta senza che fosse comparsa anche sua madre, capii che Elizabeth non si sarebbe fatta vedere al
compleanno del suo primogenito. Venni travolta da un misto di dolore e compassione, e strinsi istintivamente i pugni. Cosa diavolo c’era che non andava in quella donna? Gideon non aveva più avuto sue notizie dopo la discussione nel suo ufficio. Tenendo conto della ricorrenza, non riuscivo a credere che potesse essere così insensibile. Mi resi conto che non ero l’unica ad aver perso da poco la madre. Chris si alzò per andare incontro ai suoi figli e abbracciò Christopher, mentre Ireland abbracciava Gideon, gli sorrideva e infine gli porgeva il
regalo. Lui lo prese e poi si girò, indicando il punto in cui mi trovavo. Ireland ci raggiunse, vestita con un grazioso prendisole dai colori delicati. «Wow, Eva, questo posto è uno sballo.» La abbracciai. «Ti piace?» «Non può non piacere!» Ireland abbracciò Cary e poi il suo viso dolce si incupì. «Mi dispiace tanto per tua mamma, Eva.» Le lacrime, che non erano più lontane, mi punsero gli occhi. «Grazie.» «Non riesco neanche a immaginare il tuo dolore» disse. «E in questo momento non ho neanche
troppa simpatia verso mia madre.» Le toccai un braccio. Anche se detestavo Elizabeth, non auguravo a nessuno il lutto che stavo vivendo, tanto meno a Ireland. «Spero che la situazione tra voi si sistemi. Se potessi tornare indietro e riavere mia madre, sono tante le cose che non farei e non direi più.» Dar voce a quel pensiero mi fece venire voglia di piangere, e così mi congedai, corsi giù dalle scale verso la spiaggia ed entrai in acqua. Mi fermai quando le onde arrivarono alle caviglie e lasciai che la brezza marina mi asciugasse le lacrime. Chiusi gli occhi e ricacciai il
dolore nella scatola in cui, per quel giorno, l’avrei tenuto chiuso: era il compleanno di Gideon, una ricorrenza a cui tenevo particolarmente perché era il giorno in cui era venuto al mondo per poi entrare nella mia vita. Sussultai quando due braccia calde e muscolose mi cinsero i fianchi e mi strinsero contro un corpo muscoloso e decisamente familiare. Gideon mi appoggiò il mento sulla testa e sentii il suo petto espandersi e contrarsi in un respiro profondo quando misi le mie braccia sulle sue.
Dopo che mi fui ripresa e riuscii di nuovo a parlare, gli dissi: «Sono sorpresa che la mia nonnina ti abbia lasciato scappare». Fece una risatina. «Dice che le ricordo tuo padre. Be’, lei mi ricorda te.» Forse, pensai, la scelta di chiamarmi come lei era stata azzeccata, dopotutto. «Perché non intendo lasciarti sfuggire dalle mie grinfie?» «Perché, anche se lei mi spaventa, sembra che io non riesca ad andarmene.» Commossa, girai la testa e posai la guancia sul suo petto, all’altezza
del cuore, ascoltando il battito forte e regolare. «Non sapevo che sarebbero venuti anche tuo fratello e tua sorella.» «Non lo sapevo neanch’io.» «Ti dà fastidio che ci sia Christopher?» Si strinse nelle spalle. «Finché non fa lo stronzo, non mi interessa.» «Giusto.» Se l’inattesa comparsa di suo fratello non disturbava Gideon, non avrebbe disturbato neanche me. «Devo raccontarti un po’ di cose su Christopher» disse poi «ma adesso non è il momento.»
Feci per obiettare, ma mi trattenni. Gideon aveva ragione, era il giorno in cui avremmo rinnovato i nostri voti, circondati dagli amici e dai familiari. Avremmo festeggiato il suo compleanno e la nostra felicità non avrebbe lasciato spazio a nessun tipo di tristezza o dispiacere. In realtà c’era un’ombra di tristezza, che dovevamo nascondere. Non c’era motivo, tuttavia, di aggiungere altre spiacevolezze. «Ho una cosa per te» gli dissi. «Mmh... sono molto tentato, angelo, ma qui c’è troppa gente.» Mi ci volle un attimo prima di
capire che mi stava prendendo in giro. «Oddio, sei un demonio.» Infilai la mano in tasca e strinsi le dita intorno al suo regalo, che era ben protetto da un sacchetto di velluto nero con i lacci. Avrebbe avuto anche una bella scatola, ma io avevo deciso di mettermelo in tasca sperando di essere abbastanza spontanea e di riuscire a darglielo al momento giusto: non volevo che lo ricevesse insieme a tutti gli altri doni. Lo guardai, tirai fuori il regalo e glielo porsi tenendolo appoggiato sui palmi delle mani. «Buon compleanno, asso.»
Lui sollevò lo sguardo dalle mie mani al viso. Nei suoi occhi c’era una luce che compariva solo quando gli regalavo qualcosa, e mi faceva venire voglia di dargli di più, di dargli tutto. Mio marito meritava davvero di essere felice, e la mia missione era fare in modo che lo fosse. Gideon prese il sacchetto e sciolse i lacci. «Voglio solo che tu sappia» cominciai, cercando di nascondere il nervosismo «quanto è difficile trovare il regalo giusto per una persona che ha già tutto, compresa una buona fetta dell’isola di
Manhattan.» «Non mi aspettavo niente, ma adoro i tuoi regali.» Espirai forte. «Be’, magari non ti va di usarlo, e va bene lo stesso, cioè, non devi sentirti obbligato a...» Era un orologio da tasca Vacheron Constantin di platino, e quando scivolò sul suo palmo brillò alla luce del sole. Mi morsicai il labbro inferiore, aspettando che lo aprisse e guardasse dentro. Gideon lesse l’incisione ad alta voce: «“Tua per sempre, Eva”». «Sopra la scritta c’è il posto per una piccola foto. Pensavo di
metterne una della cerimonia, ma...» Dovetti schiarirmi la gola, quando mi guardava con quell’espressione così piena di amore mi sentivo le farfalle nello stomaco. «È un po’ rétro, è vero, ma ho pensato che, siccome indossi il gilet, magari ti potrebbe servire. Anche se so che porti l’orologio al polso, quindi forse in realtà non te ne fai nulla. Ma...» Mi zittì con un bacio. «Mi piace tantissimo, grazie.» «Oh.» Mi passai la lingua sulle labbra, per sentire ancora il suo sapore. «Mi fa piacere. Nella scatola c’è anche la catenella.»
Rimise con cura l’orologio nel sacchetto e se lo infilò in tasca. «Anch’io ho qualcosa per te.» «Fai il bravo» lo presi in giro a mia volta. «Abbiamo un pubblico che ci osserva.» Gideon voltò la testa e vide che molti dei nostri familiari erano usciti. Il servizio di catering aveva rifornito la cucina all’aperto di bevande e stuzzichini e tutti avevano cominciato a servirsi mentre il maiale per il pozole cuoceva nel forno. Tirò fuori dalla tasca la mano chiusa a pugno e l’aprì, mostrandomi una meravigliosa fede
nuziale. Diamanti tondi incastonati a binario correvano lungo tutta la fascia dell’anello e brillavano di mille colori. Mi portai la mano alla bocca mentre gli occhi mi si riempivano di nuovo di lacrime. La brezza salmastra ci avvolgeva, portandoci il grido lamentoso dei gabbiani che si libravano sopra le onde. Le onde che si frangevano sulla battigia mi lambivano i piedi e mi tenevano ancorata alla realtà. Feci per prendere l’anello con le dita tremanti. Gideon chiuse la mano con un sogghigno. «Non ancora.»
«Cosa?» Gli diedi una piccola spinta. «Dài, non prendermi in giro!» «Oh, ma io vado sempre a segno» mormorò. Gli lanciai un’occhiataccia e il suo sorrisetto ironico svanì. Mi accarezzò le guance. «Sono così orgoglioso di essere tuo marito» mi disse, con solennità. «Essere degno di un tale onore è il risultato più grande della mia vita.» «Oh, Gideon.» Mi mandava in confusione, ero sopraffatta e commossa dal suo amore per me. «Sono io a essere fortunata.» «Mi hai cambiato la vita, Eva, e
hai realizzato l’impossibile: mi hai trasformato. Mi piace come sono ora, e non avrei mai pensato che potesse accadere.» «Sei sempre stato meraviglioso» gli dissi piena di passione. «Ti ho amato appena ti ho visto, e ti amo ancora di più adesso.» «Non ci sono parole per esprimere quello che tu significhi per me.» Aprì di nuovo la mano. «Spero però che quando vedrai questo anello al tuo dito ti ricorderai che nella mia vita sei come la luce di mille diamanti, e infinitamente più preziosa.» Mi alzai sulla punta dei piedi,
tentando di non affondare nella sabbia bagnata, trovai la sua bocca e per poco non piansi di gioia quando mi baciò. «Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata.» Sorridendo, mi prese la mano e m’infilò l’anello, sistemandolo vicino allo strepitoso solitario con taglio Asscher che mi aveva regalato per il matrimonio. Salutati da una serie di applausi e di grida di gioia, ci voltammo verso la casa e vedemmo i nostri cari che ci guardavano allineati lungo la ringhiera. I bambini stavano già correndo giù dalle scale all’inseguimento di Lucky, che
moriva dalla voglia di raggiungere Gideon. Capivo fin troppo bene l’impazienza di quel cucciolo: per tutto il resto della mia vita, anch’io sarei sempre corsa da lui. Feci un respiro profondo e lasciai che la gioia e la speranza spingessero via il senso di colpa e la tristezza, almeno per un po’. «È tutto perfetto» mormorai e le mie parole si persero nel vento. Nessun abito, niente fiori, nessuna formalità, nessun rito: solo Gideon e io, uniti per sempre e vicini alle persone che ci volevano bene. Lui mi prese in braccio e mi fece
volare, strappandomi una risata di puro piacere. «Ti amo!» gridai forte, perché tutto il mondo mi potesse sentire. Mio marito mi rimise a terra e mi diede un bacio mozzafiato, poi avvicinò le labbra al mio orecchio e mormorò una sola parola: «Crossfire».
16
Era straziante guardare Eva che cercava di consolare Richard Stanton, l’ombra della persona con cui avevamo passato il weekend a Westport. Allora era un uomo pieno di vita, che sembrava più giovane della sua età; adesso appariva fragile e spezzato, le spalle incurvate dal peso del dolore. Una profusione di composizioni di
fiori bianchi copriva ogni superficie disponibile nell’enorme salotto dell’attico di Stanton, saturando l’aria con il loro profumo. Sparse intorno ai mazzi di fiori c’erano numerose fotografie di Monica, che mostravano la madre di Eva nei momenti più belli della sua vita con Stanton. Victor era seduto con Cary e Trey in una zona più piccola e appartata del piano nobile. Quando eravamo arrivati, c’era stato un momento in cui il padre di Eva e Stanton erano rimasti in piedi, immobili, a fissarsi. Sospettavo che ognuno di loro provasse risentimento per ciò che
l’altro aveva posseduto di Monica: Victor il suo amore, Stanton la donna in carne e ossa. Suonò il campanello. Seguii con lo sguardo Eva e Martin che andavano insieme a rispondere. Stanton non si mosse dalla poltrona, chiaramente assorto nei suoi pensieri. Avevo intuito il suo dolore nel momento in cui ci aveva aperto la porta, quando era visibilmente sobbalzato alla vista di Eva. Era un bene che io e mia moglie fossimo diretti all’aeroporto subito dopo. Per un mese saremmo stati lontani dalla città e dai riflettori.
Speravo che al nostro ritorno Stanton sarebbe riuscito a tollerare la vista della figlia che somigliava tanto a sua madre, la donna che aveva amato. «Cross.» Mi girai e vidi Benjamin Clancy. Come nel caso della detective Graves, anche negli occhi di Clancy c’era la consapevolezza di quello che avevo fatto per eliminare la minaccia che Nathan Barker aveva rappresentato per mia moglie. Ma, a differenza di Graves, Clancy mi aveva aiutato a nascondere le tracce del mio coinvolgimento, facendo in modo di collegare la
scena del crimine a un altro delitto che non aveva niente a che fare con quello, in modo da gettare la colpa su un tizio che aveva già pagato con la vita per i suoi crimini, e non avrebbe dovuto pagare per il mio. Inarcai le sopracciglia con espressione interrogativa. «Mi serve un minuto.» Fece un gesto in direzione del corridoio senza aspettare la mia risposta. «Faccia strada.» Lo seguii in una biblioteca, osservando le file di scaffali pieni di libri che occupavano le pareti. La stanza odorava di pelle e cuoio, e la tavolozza dei colori era una mix
virile di cognac e tinte classiche. Quattro zone salotto distinte e un bar fornitissimo invitavano gli ospiti a mettersi comodi e indugiare. Clancy chiuse la porta alle nostre spalle e prese posto su una delle due poltrone di pelle sistemate davanti al caminetto spento. Io mi accomodai sull’altra. Andò dritto al punto. «Mrs Stanton ha lasciato oltre venticinque anni di diari manoscritti e un disco di backup con annotazioni elettroniche. Mi aveva chiesto di darli a Eva nel caso in cui fosse morta.» Tenni per me la curiosità e dissi:
«Mi accerterò che li abbia». Si protese in avanti, mettendo i gomiti sulle ginocchia. Ben Clancy era un uomo grande e grosso, con braccia e cosce muscolose. Portava i capelli biondo scuro tagliati a spazzola e i suoi occhi avevano lo scintillio freddo e letale di un grosso squalo bianco... ma si illuminavano quando guardava Eva, lo sguardo affettuoso di un fratello maggiore molto protettivo. «Dovrà giudicare qual è il momento migliore per darglieli» disse. «E potrebbe anche decidere di non farglieli mai vedere.» «Capisco.» Quindi avrei dovuto
leggerli, e il pensiero mi fece sentire a disagio. «In ogni caso» proseguì «adesso ha una nuova responsabilità economica che dovrà assumersi per conto di Lauren. Non è trascurabile, ma non avrà alcun problema a gestirla.» Mi ero irrigidito nell’udire il nome che aveva usato. Drizzai le antenne, quando proseguì. Clancy annuì. «Lei aveva cominciato a indagare sul suo passato dopo la morte dei Tramell» disse. «Ma lei ha fatto sparire la maggior parte delle tracce.» Finora
era l’unica cosa che aveva senso di tutta quella conversazione. «Quello che ho potuto. Avevo scavato nel suo passato quando la relazione con Mr Stanton era diventata seria. Le parlai e lei mi disse ciò che sto per raccontarle... e di cui Mr Stanton è all’oscuro. Ho preferito lasciare le cose come stavano. Lui era felice. Quello che lei era stata non aveva conseguenze per lui, per cui non aveva bisogno di saperlo.» Qualunque cosa fosse, Clancy ne era rimasto scosso. Quanto a me, restava ancora da vedersi. Tacque per un momento. «Capirà
di più dai diari. Io non li ho letti, ma la storia di Lauren è sicuramente più coinvolgente dei fatti nudi e crudi che le racconterò.» «Capisco. Vada avanti.» «Lauren Kittrie è cresciuta in una cittadina alla periferia di Austin, in Texas. La sua famiglia era povera. La madre abbandonò lei e la sorella gemella con il padre, che lavorava come bracciante in un ranch della zona. Era un uomo occupato, non molto incline a – o non in grado di – allevare due ragazze bellissime e determinate.» Mi appoggiai allo schienale della poltrona e pensai all’aspetto di Eva,
cercando di visualizzare due Monica adolescenti. Il quadro era più che impressionante. «Come può immaginare» continuò «le notarono. Verso la fine della scuola superiore, attirarono l’attenzione di un gruppo di studenti universitari ricchi di Austin: punk, con un pericoloso senso di avere diritto a qualunque cosa. Il leader era Jackson Tramell.» Annuii. «L’ha sposato.» «Quello è successo dopo» disse lui in tono piatto. «Lauren ci sapeva fare con gli uomini fin da allora. Voleva una vita diversa da quella dei suoi genitori, ma sapeva
riconoscere un problema quando lo vedeva. Lo respinse, molte volte. Sua sorella, Katherine, non fu altrettanto intelligente. Pensava che Tramell potesse essere il suo biglietto per andarsene.» Mi agitai, a disagio. «Quanta di questa storia ho bisogno di conoscere?» «Senza dar retta alla sorella, Katherine uscì con lui. Quando non tornò a casa né quella sera né il giorno dopo, Lauren chiamò la polizia. Katherine fu trovata da un agricoltore locale nel suo campo, a malapena conscia per via di una combinazione tossica di alcol e
droga. Aveva subito una violenta aggressione. Anche se non venne dimostrato, si sospettava che fossero coinvolte più persone.» «Dio santo.» «Katherine era ridotta male» proseguì Clancy. «Gli allucinogeni combinati al trauma fisico dello stupro di gruppo avevano causato danni cerebrali permanenti. Aveva bisogno di assistenza ventiquattr’ore su ventiquattro per un periodo indefinito di tempo, una cosa che il padre non poteva permettersi.» Incapace di stare seduto, mi diressi verso il bar, solo per
rendermi conto che bere era l’ultima cosa che volevo. «Lauren andò dai Tramell e li affrontò, rivelando quello di cui il figlio era sospettato. Lui negò e nessuno fu in grado di dimostrare un collegamento, a causa della mancanza, all’epoca, di prove fisiche. Ma intuì l’opportunità e la colse. Era Lauren quella che voleva, così convinse i suoi genitori a pagare le spese dell’assistenza di base per Katherine in cambio di Lauren e del suo silenzio riguardo all’aggressione.» Mi girai a guardarlo. Il denaro poteva nascondere molti peccati,
come dimostrava il fatto che Stanton aveva tenuto nascosto il passato di Eva con fascicoli secretati e accordi di non divulgazione. Ma il padre di Nathan Barker aveva fatto sì che il figlio pagasse per i suoi crimini. I Tramell avevano fatto di tutto per coprire il reato del loro figlio. Clancy si raddrizzò. «Jackson voleva sesso. Lauren negoziò con i suoi genitori per assicurarsi il matrimonio, che riteneva avrebbe costituito una sorta di garanzia per l’assistenza a Katherine.» Cambiai idea riguardo al drink e riempii a metà un bicchiere di
scotch. «Per un po’ di mesi la situazione fra Lauren e Jackson rimase stabile. Vivevano...» «Stabile?» Mi lasciai sfuggire una risata aspra. «Si era soltanto venduta all’uomo che aveva organizzato lo stupro di gruppo della gemella. Mio Dio...» Buttai giù il liquore. Monica – o Lauren – era stata più forte di quanto chiunque di noi l’avesse ritenuta capace. Ma aveva senso dirlo a Eva, considerando l’orrore di tutta quella vicenda? «La situazione rimase stabile» ripeté Clancy «finché lei non
conobbe Victor.» Lo guardai negli occhi. Proprio quando uno pensava che le cose andassero male, in serbo c’era sempre il peggio. Clancy serrò la mascella. «Restò incinta di Eva. Quando Jackson scoprì che il figlio non era suo, cercò di risolvere la situazione... a botte. Anche se abitavano con i genitori di lui, i Tramell non intervennero mai durante le liti tra il figlio e sua moglie. Lauren temeva per la vita del suo bambino.» «Gli ha sparato.» Mi passai le mani tra i capelli, desiderando di
poter cancellare quell’immagine dalla mente con altrettanta facilità. «La causa non stabilita della morte... l’ha ucciso.» Clancy rimase seduto in silenzio, lasciandomi il tempo di assorbire la rivelazione. Non ero l’unico ad avere ucciso per proteggere Eva. Mi misi a camminare avanti e indietro. «I Tramell hanno aiutato Lauren a farla franca. Hanno dovuto farlo. Perché?» «Nel periodo in cui Lauren era rimasta con Jackson, aveva documentato tutto quello che avrebbe potuto usare contro di lui in seguito. I Tramell ci tenevano
alla loro reputazione – e a quella della figlia debuttante, Monica – e volevano solo che Lauren sparisse, e con lei tutti i problemi che aveva causato. Lauren se ne andò con nient’altro se non i vestiti che indossava e la consapevolezza che, in quel modo, Katherine sarebbe stata interamente sulle sue spalle.» «Così era stato tutto inutile» borbottai. «Era tornata esattamente al punto di partenza.» E poi le tessere del puzzle andarono tutte al loro posto. «Katherine è ancora viva.» Il che spiegava i matrimoni di Monica con uomini ricchi e la sua
preoccupazione per il denaro. Per tutti quegli anni aveva saputo quanto sua figlia la ritenesse superficiale, ma l’aveva sopportato, invece di dirle la verità. Naturalmente speravo che Eva non venisse mai a sapere quello che avevo fatto a Nathan. Temevo che mi avrebbe creduto un mostro. Clancy si alzò con un movimento agile nonostante la mole. «Adesso la cura di Katherine, dal punto di vista economico, è affidata a lei. Sta a lei decidere se rivelare qualcosa di tutto questo a Eva.» Lo studiai. «Perché si fida di me tanto da dirmi tutte queste cose?»
Si sistemò la giacca. «L’ho vista gettarsi su Eva quando Hall ha aperto il fuoco. Questo, insieme al modo in cui ha affrontato Barker, mi dice che farebbe qualunque cosa per proteggerla. Se ritiene che sia meglio per lei conoscere questa storia, gliela racconterà al momento giusto.» Mi fece un brusco cenno del capo e uscì dalla stanza. Io indugiai, cercando di mettere ordine nei miei pensieri. «Ehi.» Mi girai al suono della voce di Eva e la vidi venire verso di me.
«Che cosa ci fai qui?» mi chiese, bellissima in un semplice abito nero. «Ti ho cercato dappertutto. È stato Clancy a dirmi dov’eri.» «Ho bevuto un drink» le dissi, una mezza verità. «Quanti drink?» Lo scintillio nel suo sguardo mi disse che non era turbata dalla cosa. «Sei rimasto qui un pezzo, asso. Dobbiamo portare papà all’aeroporto.» Stupito, diedi un’occhiata all’orologio e mi resi conto che ero rimasto perso nei miei pensieri per un bel po’. Dovetti sforzarmi di tornare al presente e smetterla di rimuginare sulla storia tragica di
Lauren. Non potevo cambiare il passato. Ma quello che dovevo fare era chiarissimo. Avrei provveduto a sua sorella, e mi sarei preso cura dell’amatissima figlia. In quel modo, avrei onorato la donna che Monica era stata. E un giorno, se fosse sembrata la cosa giusta da fare, l’avrei presentata a Eva. «Ti amo» dissi a mia moglie, prendendole una mano. «Stai bene?» mi chiese, sempre così intuitiva nei miei confronti. «Sì.» Le accarezzai la guancia e le sorrisi con tenerezza. «Andiamo.»
Epilogo
“Che strana scelta per una luna di miele, questo albergo.” Giro la testa e vedo mia madre allungata su un lettino accanto a me sulla terrazza. Indossa un bikini viola, le pelle leggermente abbronzata e soda, le unghie dipinte di un elegante smalto neutro. Mi sento inondare di felicità.
Sono così contenta di rivederla. “È un gioco tra noi” le spiego, guardando l’oceano Pacifico brillare oltre il nastro color smeraldo della foresta di fronte a noi. “Ho detto a Gideon che avevo una fantasia alla Tarzan, così ha scovato per noi una lussuosa casa sull’albero.” Ero rimasta deliziata quando avevo visto la suite sospesa in alto nell’abbraccio di un antico baniano. La vista panoramica dalla terrazza è di una bellezza indescrivibile, una cosa che Gideon e io apprezziamo ogni volta che usciamo sotto il pergolato verdeggiante. “Perciò tu sei Jane...” Mia madre
scuote la testa. “Non voglio nemmeno commentare.” Faccio un gran sorriso, felice di poterla ancora lasciare senza parole ogni tanto. Con un sospiro, riappoggia la testa e chiude gli occhi, concedendosi al sole. “Sono così contenta che tuo padre abbia deciso di trasferirsi a New York. Mi rasserena sapere che Victor sarà lì quando ne avrai bisogno.” “Sì, be’... mi sto abituando all’idea.” Più difficile è accettare che mia madre fosse una persona completamente diversa da quella
che credevo. Mi chiedo se sollevare l’argomento. Non voglio offuscare la gioia di passare di nuovo del tempo con lei. Ma il suo diario era scritto sotto forma di lettere indirizzate a me, e non posso fare a meno di sentire il bisogno di rispondere. “Sto leggendo i tuoi diari” le dico. “Lo so.” Risponde in tono disinvolto. Provo rabbia e frustrazione, ma le ricaccio indietro. “Perché non mi hai mai detto niente del tuo passato?” “Volevo farlo.” Gira la testa verso di me. “Quando eri piccola, avevo in mente di farlo, un giorno. Poi c’è stato... Nathan, e tu stavi cercando
di superarlo. E hai conosciuto Gideon. Ho sempre pensato che ci sarebbe stato il tempo di farlo.” So che non è del tutto vero. La vita continua. Ci sarebbe sempre stata una scusa per rimandare ancora un po’. Mia madre non aveva aspettato che io fossi pronta ad accettare quello che aveva fatto per sua sorella; aveva aspettato finché aveva potuto. Ci vuole una donna forte per fare le scelte e prendere le decisioni che ha preso lei. Era stato bello scoprirlo, ma la cosa più bella era stata capire la fonte della sua fragilità. Mia madre era stata una
donna tormentata dalla direzione che aveva preso la sua vita. Uccidere Jackson l’aveva ossessionata, perché lo odiava e aveva gioito quando era morto, anche se provava orrore per l’omicidio. Lasciare mio padre aveva distrutto una parte essenziale di lei, così come vivere fingendo che la sorella, Katherine, non esistesse. Mia madre aveva rinunciato a due pezzi del suo cuore, eppure in qualche modo era riuscita ad andare avanti. Adesso la sua iperprotettività acquistava senso: non riusciva a immaginare di
sopravvivere se avesse perduto anche me. “Gideon dice che andremo a trovare Katherine quando torniamo” la informo. “Stiamo pensando di trasferirla più vicino, in modo che possa far parte della nostra vita.” Mi sto preparando a questo momento, sapendo che mia zia è la sua gemella. Mia madre mi guarda con un sorriso triste. “Sarà felice di vederti. Sono anni che sente parlare di te.” “Davvero?” So dai diari che mia madre vedeva raramente Katherine, dato che i suoi mariti preferivano tenersi vicina la moglie
adorata. Aveva dovuto accontentarsi di lettere e cartoline, visto che le e-mail e le chiamate lasciavano una traccia. “Naturalmente. Non ho potuto fare a meno di vantarmi. Sono così orgogliosa di te.” Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Lei offre il viso al sole. “Per tanto tempo, ho provato rabbia per i danni che sono stati inflitti a Katherine... Non è più tornata la sorella che conoscevo. Ma poi mi sono resa conto che la sua mente l’aveva protetta da quella notte d’inferno. Non la ricordava. E per
quanto adesso i suoi pensieri siano semplici, trova una gioia infantile in ogni cosa.” “Ci prenderemo cura di lei” le prometto. Mia madre tende una mano e io la prendo. “Nelle case sugli alberi c’è lo champagne?” chiede. Io scoppio a ridere e le stringo le dita. “Certo.” Mi svegliai lentamente, riemergendo pigramente dagli abissi del sonno finché non fui pienamente cosciente. La luce screziata del sole filtrava attraverso la zanzariera che avvolgeva il letto.
Mi stirai, allungando un braccio per cercare mio marito, ma non era sdraiato accanto a me. Trovai Gideon in piedi vicino alla finestra nella rustica nicchia che usava come studio, intento a parlare al telefono. Per un attimo, mi limitai a inebriarmi della sua vista. Con i capelli arruffati e la barba lunga, era così assolutamente sexy da essere quasi intollerabile. Il fatto che Lucky fosse spaparanzato ai suoi piedi non faceva che renderlo ancora più appetibile. Gideon indossava solo un paio di shorts, con la cerniera chiusa e il
bottone slacciato, quindi mi accorsi che sotto non portava niente. Era più o meno tutto quello che si metteva addosso durante la nostra luna di miele. C’erano giorni in cui l’unica cosa che lo copriva era il sudore, che era così arrapante da vedere e da annusare che mi assicuravo di spremergliene ancora di più. Quanto a me, ero rimasta stupita di scoprire nella mia valigia un sacco di tubini senza spalline e praticamente niente biancheria intima. In qualunque momento potevo ritrovarmi chinata in avanti, la gonna sollevata e qualche parte
di mio marito che mi penetrava. Eravamo in luna di miele da due settimane e in quel periodo Gideon aveva abituato il mio corpo ad anticipare la sua lussuria. Riusciva a eccitarmi in pochi secondi e a soddisfare entrambi quasi altrettanto velocemente. Era deliziosamente, insaziabilmente edonistico. Tra una sessione e l’altra di sesso sfrenato, avevamo passato il tempo a parlare e a fare progetti per quando fossimo tornati nel mondo civilizzato. Avevamo guardato film e giocato a carte, con Gideon che mi insegnava tutti i
trucchi. Di tanto in tanto doveva lavorare e allora io leggevo i diari che mia madre aveva lasciato per me. Gli ci erano voluti un paio di giorni per mettermene al corrente, ma l’aveva fatto nel momento giusto. Parlavamo un sacco anche di quelli. «La richiesta è irragionevole» disse Gideon al telefono, lanciando un’occhiata alla mia corta vestaglietta di seta. «C’è spazio di manovra altrove. Devono essere riorientati verso quei punti fluidi.» Gli mandai un bacio, arretrai e mi diressi in cucina.
Mentre aspettavo che il caffè fosse pronto guardai fuori: la terrazza, gli alberi e l’oceano oltre la foresta. Magari oggi saremmo andati in spiaggia. Avevamo un posticino che era solo nostro. Per il momento, l’unica cosa che volevamo era stare insieme. Sentii un formicolio percorrermi la spina dorsale quando udii le zampe di Lucky ticchettare sul pavimento di legno. Arrivava al seguito di Gideon, che adorava. E anche mio marito era più che affezionato alla bestiola. Gli incubi erano sempre meno frequenti, ma quando arrivavano avere Lucky a
portata di mano era utile. «Buongiorno» mormorò Gideon, abbracciandomi. Mi appoggiai a lui. «Mi sa che tecnicamente è pomeriggio.» «Potremmo tornare a letto fino a stasera» mi disse con voce suadente, sfregandomi il naso sul collo. «Non posso credere di non averti ancora annoiato.» «Se sei annoiata, angelo, ci metterò più impegno.» Rabbrividii all’immagine che mi si affacciò alla mente sentendo quelle parole. Gideon era un amante vigoroso nei giorni normali. Dato
che eravamo in luna di miele, lo era stato ancora di più. Avrei giurato che fosse più snello e muscoloso di prima soltanto per l’esercizio fisico derivante dal fare l’amore con me. Di sicuro io ero felice del mio corpo come non mi capitava da anni. «Chi era al telefono?» chiesi. Lui fece un respiro profondo. «Mio fratello.» «Sul serio? Non è la terza volta nelle ultime due settimane?» «Non essere gelosa. Sei molto più sexy di lui.» Gli diedi una gomitata. Gideon mi aveva raccontato degli appunti di Hugh e mi aveva detto
che Chris aveva parlato con Christopher. Non sapevamo cosa si fossero detti in quella conversazione, era una cosa privata fra padre e figlio. Ma, in ogni caso, Christopher aveva mandato due email – tre, adesso – chiedendogli un consiglio. «È sempre di affari che vuole parlare?» «Sì, ma le cose che mi chiede... Conosce già le risposte.» «Niente di personale?» Chris aveva assicurato a Gideon di non aver detto nulla degli abusi a suo fratello, e mio marito non era incline a cambiare le cose.
Christopher aveva causato parecchi danni nel corso degli anni, e senza delle scuse Gideon non aveva intenzione di firmargli un assegno di clemenza in bianco. Si strinse nelle spalle. «Se ci divertiamo... Com’è il tempo... Cose così.» «Immagino stia tendendo una mano, a suo modo.» Mi strinsi nelle spalle anch’io. «Andiamo in spiaggia?» «Potremmo...» Mi girai tra le sue braccia per guardarlo. «Hai in mente qualcos’altro?» «Vorrei farti vedere un paio di
cose prima di mettere da parte il lavoro.» «Okay, lasciami assumere la mia dose di caffeina.» Mentre preparava il caffè, sorrisi. Andammo nel suo studio e lui riattivò il portatile. L’immagine sullo schermo si spiegava da sola. Scostai la sedia e mi accomodai. «Altra creatività per GenTen?» Finora avevo visto una decina di idee diverse. Alcune trovate erano intelligenti, altre troppo intelligenti e altre ancora semplicemente mediocri. «Migliorie dell’ultima ora» mi
spiegò, mettendo una mano sullo schienale della sedia e l’altra sul tavolo, e avvolgendomi con il calore della sua pelle e il suo delizioso odore virile. «E qualche novità.» Scorrendole, annuii alla maggior parte, ma una mi fece scuotere la testa. «Questo è un no.» «Non piace neanche a me» concordò Gideon. «Ma perché non funziona, secondo te?» «Penso che mandi il messaggio sbagliato. Hai presente? La moglie/madre/donna in carriera sopraffatta che può trovare un po’ di pace solo distraendo la famiglia con GenTen.» Lo guardai. «Le
donne sono in grado di indossare cappelli diversi con facilità. Mostriamola mentre gioca con il GenTen insieme alla famiglia o per conto suo.» Annuì. «Ho detto che non l’avrei più chiesto, ma dato che stiamo parlando di donne che fanno tutte queste cose... Ti sta ancora bene aver lasciato il lavoro?» «Sì.» Non ebbi nessuna esitazione prima di rispondere. «Voglio lavorare» precisai «e aiutarti con cose per cui non hai alcun bisogno di aiuto non mi basterà per molto. Ma troveremo un posto adatto per me.»
Fece una smorfia ironica. «Apprezzo il tuo punto di vista, altrimenti non te lo chiederei.» «Sai cosa intendo.» «Sì.» Mosse il dito sul trackpad e aprì una presentazione. «Questi sono alcuni dei progetti che stanno diventando prioritari. Quando hai tempo, dagli un’occhiata e dimmi quale ti interessa di più.» «A te interessano tutti, giusto?» «Naturalmente.» «Okay.» Feci alcuni elenchi, li ordinai per interesse, base di conoscenza e insieme di competenze. Poi riferimento incrociato. Cosa più importante,
avrei discusso tutto con Gideon. Era l’aspetto che mi piaceva di più del lavorare con lui: esplorare la sua incredibile mente affilata come un rasoio. «Non voglio chiuderti in gabbia» disse piano, mettendomi una mano sulla spalla e poi scendendo lungo il braccio. «Voglio che tu prenda il volo.» «Lo so, piccolo.» Presi la mano con cui mi accarezzava e la baciai sul dorso. Con un marito che ti amava in quel modo, l’unico limite era il cielo. Il
sole
scomparve
sotto
l’orizzonte, incendiando l’oceano. Gideon riempì di nuovo di champagne le nostre flûte. Un po’ del liquido dorato scivolò fuori dal bordo del bicchiere mentre lo yacht rollava dolcemente sulle onde. «È bello» disse, rivolgendomi un sorriso tranquillo. «Sono contenta che ti piaccia.» Mi meravigliava vederlo così felice e rilassato. Avevo sempre pensato a Gideon Cross come a una tempesta. Tuoni e fulmini, un’energia di feroce bellezza che poteva essere tanto pericolosa quanto affascinante. A malapena contenuta, come il vortice di un
tornado. Ora l’avrei descritto come la quiete dopo la tempesta, il che significava che era una forza della natura ancora più impressionante. Adesso eravamo... centrati. Ci sentivamo sicuri e impegnati: il reciproco possesso rendeva raggiungibile qualunque cosa. Il che mi aveva portata a pensare a una cena in barca. «Vieni qui, angelo.» Mi tese la mano. Portammo lo champagne dal tavolo illuminato da una candela alla lussuosa chaise longue per due. Ci sedemmo, abbracciati.
La sua mano mi accarezzava la schiena. «Sto pensando a cieli sereni e vento in poppa.» Sorrisi. Spesso il corso dei nostri pensieri andava in direzioni simili. Gli posai una mano sulla nuca, passando le dita tra i capelli setosi. «Stiamo imparando.» Gideon chinò la testa per baciarmi con tenerezza, la bocca che reclamava la mia senza fretta, riaffermando il legame tra noi che diventava ogni giorno più saldo. I fantasmi del nostro passato sembravano pallide ombre e avevano iniziato a svanire persino prima che rinnovassimo i voti.
Un giorno si sarebbero dissolti del tutto. Fino ad allora, ciascuno di noi apparteneva all’altro. Ed era tutto quello di cui avevamo bisogno.
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www.librimondadori.it Insieme a te di Sylvia Day Copyright © 2016 by Sylvia Day, LLC All rights reserved © 2016 Mondadori Libri S.p.A., Milano Titolo dell’opera originale: One with You Ebook ISBN 9788852070495 COPERTINA || GRAPHIC DESIGNER: NADIA MORELLI | IMMAGINE DI OLGA GRLIC DA FOTO © JAMES GUILLIAM/GETTY IMAGES E © FOTOVIKA/SHUTTERSTOCK. | ELABORAZIONE GRAFICA DI NADIA MORELLI «L’AUTORE» || FOTO © PAUL GILMORE
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Il libro L’autore Frontespizio Insieme a te 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
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